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Argomento 3 : Il Medioevo

- Canto gregoriano, Ave Maria (Offertorio per la IV domenica d’Avvento)


- Conductus polifonico, Hac in die salutari
- Mottetto politestuale, Ave Regina/Mater/Ite missa est

Argomento 4: Il Rinascimento
- Josquin Desprez, Sanctus, dalla messa L’Homme armé sexti toni
- Anonimo, canzone, Baco, Baco
- Claudio Monteverdi, madrigale Eccomi pronta ai baci

Argomento 5: L’epoca Barocca


- Claudio Monteverdi, recitativo di Ottavia (Disprezzata Regina), dall’opera
L’incoronazione di Poppea
- Georg Friedrich Handel, aria, Or la tromba dall’opera Rinaldo
- Johann Sebastian Bach, Aria per soprano e contralto con coro So ist mein
Jesus nun gefangen, dalla Passione secondo S.Matteo

Argomento 6: Il secondo Settecento


- Franz Joseph Haydn, Sinfonia, Hob I/60, III movimento, Minuetto
- Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n.35 K385 (Haffner), IV movimento,
Allegro
- W.A. Mozart, Don Giovanni, Duettino Là ci darem la mano

Argomento 7: Il Romanticismo
- Ludwing van Beethoven, Quinta sinfonia op.67, III movimento, Allegro
- Franz Schubert, Trio op.100, per violino violoncello e pianoforte, II
movimento, Andante con moto (inizio)
- Fryderyk Chopin, Studio n.6, dai Dodici studi op.25

Argomento 8: L’Ottocento popolare


- Gioacchino Rossini, duetto Pace e gioia dal secondo atto de Il barbiere di
Siviglia
- Verdi, Il Quartetto nel Rigoletto
- Johann Strauss, Kaiserwalzer, (Valzer dell’Imperatore), op.437, estratto

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Argomento 9: Il secondo Ottocento
- Gustav Mahler, Sinfonia n.5, I movimento, Trauermarsch (Marcia
funebre), frammento iniziale
- Claude Debussy, Jeu de vagues (Giochi d’onde) da La mer. Trois esquisses
symphoniques (Il mare. Tre schizzi sinfonici), frammento iniziale
- Liszt, Die Ideale

Argomento 10: Le avanguardie del Novecento


- Igor Stravinskij, da Le sacre du Printemps (Il rito della Primavera), Danze
delle adolescenti.
- Arnold Schonberg, da Cinque pezzi per orchestra op.16:I, Vorgefuhle
(Presentimenti)
- Pietro Grossi, Sketch n.1, n.2, n.3 (musica elettronica)

Argomento 11: La musica afro-americana


- Bessie Smith e Louis Armstrong, st. Louis blues (autore: W. Ch. Handy)
- Duke Ellington, Caravan
- Charlie Parker, These Foolish Things

Argomento 12: Musica europea di tradizione orale e Repertorio extra-


europeo
- Canzuna a la carrittera (Sicilia), Er un ghiornu Registrazione effettuata il
24 ottobre 1995, cantore: Ignazio Dominici (Villabate).
- Repubblica centro-africana, Canto di caccia della popolazione Mandja
- Repubblica centro-africana, rituale di guarigione della popolazione
Ngbaka-Mandja (frammenti)

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Argomento 3 : Il Medioevo
- Canto gregoriano, “Ave Maria” (Offertorio per la IV domenica d’Avvento)
- Conductus polifonico: “Hac in die salutari”
- Mottetto politestuale: “Ave Regina/Mater/Ite missa est”

EDIOEVO: il Medioevo (periodo che giunge fino al 1300), almeno fino all’anno
Mille, è stato per l’Europa un periodo di turbolenze sociali e militari, causate dalle invasioni
barbariche. I barbari cercavano ambienti più favorevoli alla loro sopravvivenza imponendo con
le armi il loro dominio e i loro costumi. In queste vicende la Chiesa non ebbe solo la capacità di
difendere la propria tradizione religiosa e persino di cristianizzare i nuovi venuti, ma fece molto
di più: ebbe anche il ruolo di perpetuare e conservare il sapere custodendone i documenti scritti.
La cultura del Medioevo fu monopolio della Chiesa e si fondò sui principi della religione: i più
grandi monasteri avevano biblioteche e “scriptoria” in cui si copiavano a mano i documenti
antichi. La letteratura e la arti, musica compresa, furono coltivate solo all’interno delle grandi
istituzioni monastiche e delle più grandi cattedrali. Ciò spiega come la cultura medievale fu
monopolio della Chiesa, per questo non suscita stupore il fatto che il “canto gregoriano”
rappresenti l’unica musica, inerente a quel periodo, sopravvissuta fino ad oggi: si cantava e si
suonava anche altrove, ma solo la Chiesa aveva la facoltà di conservare quei generi musicali
che riteneva degni di memoria.
In quei secoli la separazione fra poteri civili e militari e poteri spirituali fu sempre più netta.
Carlo Magno, quando sulla base delle sue conquiste, ricreò l’unità politica dell’Europa, la
chiamò Impero Romano premettendo il termine Sacro e facendosi incoronare dal Papa nel 800,
tuttavia la divisione tra il potere politico e quello spirituale rimase netta. Stessa cosa avvenne
alla morte di Carlo Magno: la graduale disgregazione dell’impero fu caratterizzata da continue
lotte tra feudatari, da una grande instabilità politica e da insicurezza sociale, aspetti questi che
non consentivano ai signori di dedicarsi ad attività diverse dalla protezione dei propri
possedimenti. L’economia era del tutto locale e si basava su scambi in natura, avveniva tutto
attorno al castello.
Solo intorno al Mille ricominciarono a nascere i mercati. La cultura necessaria al contesto
mercantile si basava sulla capacità di tenere i registri, di contare i guadagni, di regolare contratti
e stipulare accordi. Si trattava di una cultura mercantile che, anche se non aveva una base
religiosa, poteva essere maneggiata solo dai chierici, gli unici a possedere un grado di istruzione
utile; per questo si avvertì sempre più l’esigenza di imparare quanto meno a leggere e scrivere.
Con la cultura mercantile si diffuse sempre di più una certa identità signorile che determinò il
passaggio da una cultura dell’etica della spada ad una più tollerante, cortese: questo sistema di
vita cominciava a distinguere il livello di civiltà dei signori di maggior peso e prestigio da
quello dei feudatari minori, dei soldati, dei servi, cioè delle classi sociali inferiori.

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DALLA TRADIZIONE ORALE ALLA TRADIZIONE SCRITTA: La tradizione orale
pervase, quasi, completamente i millenni precedenti il IX secolo e continuò a coesistere con la
tradizione scritta fino ai giorni nostri. Ma quali mutamenti possono aver fatto avvertire
l’esigenza del ricorso alla scrittura? Ogni epoca, in realtà, ha avvertito bisogni differenti. E’
bene soffermarsi su quanto successo in tre particolari situazioni: nella Grecia classica, nella
musica liturgica del IX secolo e nella musica profana del XIII-XIV secolo.
a. Nell’antica Grecia la scrittura musicale sembrerebbe essere stata utilizzata sia per scopi
teorici sia per le necessità mnemoniche degli attori tragici. Tuttavia la civiltà greca, pur
scrivendo la sua produzione musicale, non intese tramandarla ai posteri, poiché la
considerava alla stregua di un bene di consumo effimero.
b. La nascita della scrittura neumatica è legata all’esigenza, avvertita nell’epoca carolingia,
di trasmettere il repertorio gregoriano in modo che rimanesse immutato nello scorrere
dei secoli.
c. Le liriche di argomento profano invece rimasero legate all’improvvisazione. Quasi tutte
le pergamene vennero compilate in un’epoca successiva.

MONODIA MEDIEVALE NON LITURGICA


Il mondo medievale era interamente costellato di musica: i suoni musicali partecipavano ad
ogni attività sociale, politica, lavorativa o ricreativa. Ogni momento della giornata era scandito
attraverso suoni (corni, campane o altre percussioni segnalavano lo scoccare delle ore, l’inizio e
la fine del lavoro, l’apertura e la chiusura delle porte, avvisavano la popolazione in caso di
incendio, alluvioni o altre simili calamità). Ma tutto ciò rimase per lunghi secoli nel dominio
della tradizione orale. Altra funzione importante della musica, a quel tempo, era quella di
fungere da simbolo sonoro di un gruppo sociale. La musica diventava lo stendardo fonico del
monarca e ne accompagnava le apparizioni pubbliche. Questa funzione simbolica di alcuni
strumenti musicali si mantenne inalterata per secoli ed era possibile anche ritrovarla nel mondo
teatrale: nei drammi di Shakespeare, ad esempio, ogni apparizione di un personaggio regale, era
accompagnata da squilli di trombe. La musica distingueva anche categorie sociali meno
prestigiose, urla e richiami, ad esempio, rappresentavano i mercanti e i venditori ambulanti. La
musica era importante sì nelle giornate di festa ma soprattutto nelle ore di riposo. Anche la
poesia, per molto tempo, non poté prescindere dalla musica. La poesia lirica veniva composta
soprattutto per essere cantata e tale simbiosi tra musica e poesia verrà sciolta solo a partire dal
dolce stil novo. Queste poesie cantate altro non erano che le liriche dei trovatori, che
operavano nella Francia meridionale, nella zona di diffusione della lingua d’oc (occitanica) e
che non vanno confusi con giullari e menestrelli.
I giullari, eredi degli antichi ioculatores, altro non erano che artisti girovaghi, non
esclusivamente musicisti o cantastorie, ma anche giocolieri e saltimbanchi. Essi non solo
intrattenevano ma tramandavano oralmente le gesta degli eroi (questi racconti cantati erano
detti chansons de geste).

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I menestrelli erano invece giullari al servizio stabile di un signore, talvolta anche uomini di
fiducia del signore.
I trovatori invece si collocano su un piano ben diverso. Sebbene il primo trovatore di cui ci sia
rimasto il nome era Guglielmo d’Aquitania, conte di Poitiers e duca d’Aquitania, la maggior
parte dei trovatori apparteneva alla piccola nobiltà feudale, chierici, mercanti e anche giullari.
Inizialmente, non vi era una differenza sostanziale tra trovatori, giullari e menestrelli: tutti
costoro cantavano le poesie su una musica improvvisata. La più grande differenza era
sociologica: i trovatori erano dei dilettanti, mentre giullari e menestrelli erano veri e propri
professionisti. Tuttavia, dopo che Guglielmo d’Aquitania e i trovatori della sua generazione
raccolsero e svilupparono tecniche e spunti musicali di menestrelli e giullari, questi ultimi
retrocessero a semplici esecutori delle musiche dei trovatori. Per quanto concerne il contenuto
delle liriche, questo è assai vario: i diversi argomenti politici, satirici o religiosi celebrano in
prevalenza un particolare tipo di amore, definito amor cortese (si tratta di un amore
immaginario anche se in realtà rappresenta un omaggio alla bellezza e al fascino femminile
della signora del palazzo). Questo amore viene vissuto come dipendenza assoluta dell’amante
verso l’amata, una perfetta immagine del rapporto di subordinazione tra vassallo e signore.
Questo amore era anche misterioso perché quasi sempre adultero, infatti, il nome dell’amata è
celato sotto uno pseudonimo, il cosiddetto senhal; nella maggior parte dei casi tale sentimento
era infelice, almeno nella finzione poetica, perché l’amante veniva respinto o l’amata era
lontana. Emblematiche sono le vicende leggendarie di Jaufre Rudel, principe di Blaia
innamoratosi della principessa di Tripoli senza mai averla vista ma solo in virtù di quanto aveva
udito sul suo conto. Scrisse su di lei non poche canzoni e volendo incontrarla si mise in mare
ma fu colto da una malattia molto grave. Riuscì ad arrivare, seppur morente, a Tripoli e, avendo
saputo ciò, la contessa decise di recarsi da lui e alla sua vista lui recuperò per un momento tutti i
sensi. Morì poi tra le braccia della donna amata ed ella lo fece seppellire nella sede dei
Templari, decidendo di farsi monaca per il dolore che ebbe di lui e della sua morte.

Ascolto 1.
Canto gregoriano “Ave Maria” (Offertorio per la IV domenica d’Avvento)

CANTO GREGORIANO
Il canto gregoriano venne trasmesso per tutto il primo millennio in forma orale solo un po’
prima del Mille cominciarono le prime forme di scrittura. Il termine “gregoriano” deriva dal
nome di papa Gregorio I, vissuto nel VI secolo, al quale nel Medioevo, secondo una tradizione
del tutto mitologica, si attribuiva la sua creazione; secondo la tradizione papa Gregorio ha
ricevuto il canto gregoriano direttamente da Dio. Questo canto è una linea melodica cantata in
latino da voci maschili senza accompagnamento e senza una metrica regolare dove il ritmo era
dato dall’accentuazione delle parole. La chiesa medievale sviluppò un gran numero di
espressioni artistiche. I luoghi dedicati a Dio dovevano tendere verso la sua altezza: parole,

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immagini, suoni, edifici, oggetti materiali dovevano manifestarne ed esaltarne la presenza. Così
le parole della preghiera e il loro modo di cantarle non dovevano attirare l’attenzione su di sé: la
loro forma e la loro bellezza erano solo strumenti di avvicinamento alla presenza divina. Più le
arti si distaccavano dalla bassezza del quotidiano, più impregnavano l’ambiente del senso di
una divina alterità.
Il canto gregoriano fa parte dei riti d’obbligo della Chiesa, delle sue celebrazioni liturgiche.
Esistono modi, per così dire liberi, di ricordare o celebrare le vicende della vita di Cristo, ma i
riti della liturgia non sono liberi, le sue preghiere sono quelle della tradizione e non si possono
alterare. Cambiano ciclicamente settimana per settimana durante l’anno e possono essere
cantate.
Esistono due modi di cantare la preghiera:
- Sillabico: quando ad ogni sillaba corrisponde una nota
- Melismatico: quando su una sola sillaba si cantano più note. Il modo melismatico è la
manifestazione più alta del pregare cantando: in questo caso non solo si orna, ma si
esprime con le note ciò che il giubilo del cuore non riuscirebbe ad esprimere a parole (S.
Agostino).
Nelle feste meno solenni il canto potrà essere più dimesso e la pronuncia sillabica del testo avrà
la prevalenza, ma nelle grandi solennità sarà necessario celebrare il rito con canti più ornati. Il
modo melismatico è, dunque, la manifestazione più alta del pregare cantando, quindi il
gregoriano non veniva cantato dai fedeli, era un canto che richiedeva “arte” e per questo doveva
essere intonato da cantori specialisti.
In età carolingia l’Impero Romano era preso da una centralizzazione del rito su Roma, l’intento
era politico, però in questa opera di accentramento ricade anche la musica. Il testo era sempre lo
stesso, perché liturgico, cioè era la musica che nella trazione orale aveva subito una certa
variabilità. Allora si pensò di dare una versione scritta alla musica.
Secondo il benedettino Bonifacio Barocchio, il canto gregoriano si sarebbe originato nel
periodo in cui i cristiani erano perseguitati e dovevano riunirsi nelle catacombe dove il canto
dava più energia alla parola e si poteva così “sentire” la preghiera.
Il canto gregoriano venne trasmesso per tutto il primo millennio in forma orale, ebbe origine
dalla tradizione ebraica ma si adattò e modificò a contatto con altre culture, greca e romana
prima di tutto. Si tratta di un canto semplice con fluidità elevate e una linea melodica unica, una
monodia cantata da un uomo. Ci sono parti più sillabiche dove ad ogni sillaba corrisponde un
suono o quelle melismatiche dove ad una sillaba corrispondono più suoni.
Il canto in questione appartiene al genere del canto gregoriano; si tratta di un offertorio
cantato per la quarta domenica di Pasqua.

Ave/ Maria/ gratia piena/ Dominus/ tecum/ benedica tu/


Ti saluto o Maria, piena di grazie, il signore è con te, tu sei benedetta

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In mulieribus/ et beneditus/ fructus ventris tui.
fra le donne e benedetto è il frutto del tuo ventre.

[le lettere sottolineate indicano i melismi, i quali cadono proprio sulle parole chiavi di questo
saluto angelico. Il lungo melisma sulla sillaba Do- viene ripetuto due volte, quasi a sottolineare
la solennità della parola a cui appartiene]
Alcune sillabe del testo vengono allungate da melismi o da prolungamenti ( vedi ad es. la
sillaba –RI- di Maria), che danno varietà alla pronuncia. Nel canto gregoriano la fine delle frasi
era sempre sottolineata da un breve prolungamento ( nel testo indicato con la barra : / ). In
questa Ave Maria le sillabe finali di ogni frase si appoggiano sulla stessa nota (la nota Sol),
tranne per la sillaba –bus di mulieribus. Il Sol è finalis, oggi detta nota tonica, cioè nota finale
del canto e anche della scala su cui il canto è basato.
Il canto veniva intonato con sottili oscillazioni dinamiche, pronuncia legata delle sillabe e
timbro morbido e dolce. Il gioco degli elementi espressivi (accenti, note d’arrivo, sospensione)
che si intreccia in forme complesse e senza ripetizioni regolari, conferisce al tranquillo
andamento del canto, una fluidità interna sfuggente e inafferrabile, simbolo della quieta gioia
del contatto con Dio.

Ascolto 2.
Conductus polifonico: Hac in die salutari

La polifonia (sovrapposizione di più melodie eseguite contemporaneamente, es. il canone è un


brano polifonico) è uno dei modi di rendere più degno, più ornato il canto gregoriano, che di
per sé era rigorosamente monodico. Inizialmente si ha notizia di canti gregoriani elaborati a tre
voci che procedevano ad intervalli sempre uguali di quinta e di ottava (intervalli che per
l’orecchio medievale erano gli unici a possedere quella qualità di armoniosità e di dolcezza
chiamata consonanza). Più tardi, ma già poco prima del Mille, le varie voci cominciarono a
procedere con movimenti più vari, ossia con linee melodiche che generavano incontri ora
consonanti ora dissonanti (cioè con intervalli che non erano solo quinta o ottava). L’esempio in
oggetto è di questo tipo.
Nella Cattedrale di Notre Dame, meraviglia gotica, costruita nel XII sec., si era sviluppata una
vera e propria scuola di polifonia, e gli studenti dell’Università di Parigi furono tra i più precoci
sperimentatori di testi polifonici. Si trattava di musiche dedicate non solo alla liturgia, ma anche
a feste religiose e laiche.
Fra i generi polifonici più importanti c’erano il conductus e il mottetto (il mottetto deriva dagli
organa di Leonino e Perotino). Nel mottetto la voce principale, alla quale si sovrapponevano
una seconda voce (duplum), ed eventualmente una terza (triplum) o quarta voce (quadruplum),
era tratta da un canto preesistente: quasi sempre si trattava di un frammento di canto gregoriano
a cui si sovrapponevano le altre voci per “decorarlo”, o renderlo più solenne. Nel conductus

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invece, tutte le voci erano direttamente create dal compositore. Il conductus nella sua versione
monodica, era il canto che accompagnava gli spostamenti dei sacerdoti, un canto processionale,
non sempre strettamente legato alla liturgia. Questa libertà di impiego fece si che diventasse un
componimento d’occasione per celebrazioni o anche per feste.
La festa “asinaria” celebrava la figura simbolica dell’asino che aveva riscaldato Gesù bambino
e aveva condotto la Sacra Famiglia in Egitto. A partire dal 1100 l’asino entrò spesso nelle sacre
rappresentazioni. Veniva portato in corteo durante la festa “degl’innocenti” o “festa dei matti”,
accompagnato da canti religiosi, da grida e da imitazioni del suo verso.
Questo canto è basato su pulsazioni regolari in metro ternario, se si ascolta attentamente la
prima frase musicale ci si accorgerà che le sue sedici sillabe sono cantate sempre una lunga e
una breve (tranne le ultime due):
hac in / die / salu/ tari/ monet/ plausu/ reno/ va/-ri
LB LB LB LB LB LB LB

La ragione è semplice: quando più voci devono procedere insieme, ogni cantore deve sapere
bene quanto durano le note degli altri cantori, per potersi coordinare con loro. Il procedimento
semplice lunga-breve (dove la lunga è il doppio della breve) è tipico delle polifonie primitive.
Dura per tutto il brano, con sosta regolare sull’ultima sillaba.
Tutta la prima parte è cantata a due voci. Alla fine di ogni frase le due voci si fermano sempre
sullo stesso intervallo di quinta (Sol-Re): la voce inferiore si colloca sulla finalis del brano,
quella superiore su quella che sta una quinta sopra. Le due voci (come è di regola in ogni
conductus) procedono in omoritmia (ossia cantano le stesse sillabe contemporaneamente). Non
sarà però difficile accorgersi di come i loro profili siano indipendenti. Quando il brano si ripete,
entrano anche voci maschili (che aggiungono una terza linea melodica alla polifonia) e
strumenti, che non aggiungono nuove linee melodiche, ma rinforzano la sonorità. In
quell’epoca non si indicava quali strumenti dovessero suonare. La forma molto semplice e
simmetrica, segue le divisioni regolari suggerite dal testo.

ARS ANTIQUA: LA SCUOLA DI NOTRE DAME


Il desiderio dei chierici medievali di arricchire sempre più il canto liturgico, pur senza
modificarne la sostanza, condusse alla codificazione scritta della polifonia: essa permetteva
infatti di usare le melodie gregoriane quasi come stabili e immutabili fondamenta su cui
costruire un libero edificio sonoro.
Ampliamo la metafora architettonica per comprendere meglio la nascita di quel movimento
musicale ce si colloca nella zona di Parigi dalla seconda metà del XII secolo fino allo scorrere
del XIV secolo: la cosiddetta ars antiqua. Nella stessa epoca e nella stessa zona si assistette,
infatti, all’elaborazione di quel nuovo stile architettonico che verrà detto gotico.
L’architettura gotica non fece che sviluppare la tecnica romanica di scaricare il peso

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murario, attraverso le arcate delle volte, sui possenti pilastri e contrafforti; l’arco gotico a ogiva
permise di rendere più dinamico il gioco di spinte e controspinte, scarnificando i pilastri in fasci
di nervature di pietra e trasformando i massicci contrafforti romanici in agili archi rampicanti. I
muri perimetrali persero così ogni funzione portante, illuminandosi di grandi finestre istoriate,
l’intera costruzione poteva svettare in uno slancio verticale, che nel gotico più tardo, gotico
fiorito sarà moltiplicato visivamente all’esterno dalla fitta decorazione di guglie e di pinnacoli.
Come nell’architettura, così nella musica fu un importante espediente tecnico che permise alla
polifonia, in genere ancora a due voci, di ampliarsi in senso verticale, consentendo il canto di
tre, quattro o più voci sovrapposte: la notazione del ritmo. Man mano mesi sulla carta ritmi
sempre più complessi, il numero delle voci crebbe a dismisura: si arriverà, nell’epoca
fiamminga, a gestire perfino 36 parti vocali che cantavano contemporaneamente. Fino ad allora,
lo sforzo di chi si applicava a scrivere la musica era andato solo nella direzione di specificare
l’altezza delle note nel modo più preciso possibile.
Questo traguardo venne pienamente raggiunto intorno all’anno 1000. Verso la fine del XII
secolo, tuttavia, per controllare gli aggregati sonori che andavano facendosi sempre più
complessi, era indispensabile arrivare a stabilire con esattezza anche la durata delle note: ogni
cantore doveva inserirsi nel movimento delle altre voci in un incastro perfetto.
Il gruppo dei musicisti che rese possibile questa importante innovazione è detto modernamente
Scuola di Notre Dame, perché pare gravitasse intorno alla celebre cattedrale parigina e a quel
gruppo di professori e studenti che nel 1215 verrà riconosciuto come Università di Parigi. Il
primo nome di compositore tramandatoci è quello di Magister Leoninus, che dovrebbe essere
vissuto nella seconda metà del XII secolo. La fonte che si testimonia la sua identità, il
cosiddetto Anonimo IV è un trattato. Questo trattato ci dice che Leoninus fu “optimus
organanista” cioè compositore o esecutore di organa e che “fecit”, compose, un grande libro di
organa per amplificare il servizio divino. Ciò che ci interessa è che nella seconda metà del XII
secolo l’amplificazione musicale della parola liturgica era ormai definitivamente approdata alla
compilazione di un Magnus liber: si apre così la fase in cui la scrittura musicale non è più
funzionale solo alla conservazione del repertorio, ma alla sua stessa composizione.
L’Anonimo IV prosegue informandoci che l’opera di Magister Leoninus fu perfezionata da un
altro Magister, Perotinus Magnus, che rielaborò il Liber e vi aggiunse organa 3 e 4 voci.
Il Magnus liber organi originale è andato perduto, ma disponiamo di alcune versioni di esso che
risalgono al XIII e al XIV secolo: sebbene non possiamo stabilire quanta parte del loro
contenuto essere stata modificata in epoca successiva. Gli organa attribuibili all’epoca di
Leoninus sono tutti a due voci e si basano, come sempre, su un canto gregoriano preesistente.
La voce inferiore esegue il canto gregoriano originario prolungando molto a lungo la durata di
ciascuna nota, essa viene allora detta tenor, forse perché tiene a lungo la nota di sostegno,
dando modo alla voce superiore di eseguire la propria melodia in note assai più veloci. Ad ogni
nota del tenor corrispondono dunque molte note della voce superiore, detta duplum. Questo è
un procedimento identico a quello dell’organum melismatico. La grande differenza è che qui,

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almeno in alcune sezioni, il compositore prescriveva chiaramente il ritmo con cui andava
cantata la veloce melodia superiore: l’autore iniziava a determinare tutti i parametri della
musica.
Il trattato di Anonimo IV, è la principale fonte per capire la polifonia della Scuola di Notre
Dame. È importante principalmente per aver scritto riguardo a Léonino e Pérotin, assegnando
quindi un nome ai maggiori esponenti della Scuola di Notre-Dame che sarebbero stati altrimenti
anonimi; Léonino e Pérotin sono tra i compositori più antichi di cui sia conosciuto il nome.
Anonimo IV fu probabilmente un musicista inglese che lavorava presso Notre Dame a Parigi, a
partire dal 1270. Leonino trasformò il canto gregoriano “Viderunt òmnes” in un canto
polifonico a due voci con un espediente molto semplice: trasformò la linea melodica del canto
gregoriano nella linea base del canto polifonico della seconda voce, dovendo così solamente
sviluppare la linea melodica della prima voce.
Questo canto polifonico, come tutti i primi canti polifonici, mantengono il carattere
essenziale del canto gregoriano, ovvero quello dell’intoccabilità, poiché le parole di Dio in
quanto sacre non possono essere toccate. Nei testi scritti dei primi canti polifonici veniva
rappresentata una lettera che rimandava direttamente al canto gregoriano da cui hanno origine;
ad esempio nel canto polifonico di Leonino è rappresentata la lettera “V” che indica il canto
gregoriano Viderunt omnes. Il canto polifonico rispetto al canto gregoriano presenta uno
spessore sonoro maggiore, infatti se messi a confronto il canto gregoriano risulta piatto.
Leonino non trasformò tutto il canto gregoriano in canto polifonico altrimenti il canto sarebbe
dovuto durare troppo a lungo. Nei canti gregoriani l’asterisco indica l’entrata del coro. Leonino
nel suo canto polifonico trasformò la parte da solista in polifonia e la parte del coro l’ha
mantenuta uguale. Nel canto di Leonino ci sono delle parti in stile organum e altre in stile
discantus.
Nello stile organum una sola nota della seconda voce corrispondono più note della prima voce
mentre nello stile discantus a più note della seconda voce corrispondo più o meno alla stessa
quantità di note della prima voce. Così Loenino trasformò la parte sillabica (1 sillaba = 1 nota)
in stile organum e la parte melismatica (1 sillaba = più note) in stile discantus. l'Anonimo
parlava di ampliamento perché mentre il canto gregoriano durava meno, con l'ampliamento si
aveva un canto che durava di più. Lo spessore sonoro serviva nelle grandi chiese del tempo tipo
Notre Dame, che avevano bisogno di una musica in grado di riempire l'ambiente in modo
diverso. infatti il canto gregoriano era povero per queste grandi chiese perché canto delle
catacombe.
La polifonia è lo stile preferito della Chiesa cattolica romana dalla fine del 1200. Il conductus e
il Mondetto (a seguire) sono del 1300.

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Ascolto 3.
Mottetto politestuale: “ Ave Regina/ Mater/ Ite missa est”

Il mottetto è il genere di musica polifonica medievale più complesso e sofisticato.


Era un genere per intellettuali e intenditori, non per il volgo.
I mottetti nascono dalle parti dello stile discantus quindi la sovrapposizione delle
melodie è controllata dal compositore. Lo stile discantus non può essere
improvvisato, perciò deve essere scritto e controllato e questo non era semplice a
quel tempo, soprattutto perché la notazione gregoriana non dà la lunghezza delle
note. Da qui l’esigenza di migliorare la notazione per far capire la durata delle
note. Anzitutto si trattava di una composizione “politestuale”, in cui ogni voce
cantava un testo poetico diverso (anche se esistevano rapporti di connessione e di
allusione fra un testo e l’altro). Poi i testi potevano contenere significati nascosti.
Ad esempio nel nostro caso le prime parole o le prime lettere di ogni verso
contenevano nel triplum (scorre più velocemente del duplum, seconda voce la
quale scorre più velocemente del fructus), il testo dell’Ave Maria e nel duplum la
firma dell’autore: Marcum Paduanum. Il frammento su cui tutto l’edificio era
costruito era un Ite missa est (andate la messa è finita) gregoriano che in questa
esecuzione viene affidato ad uno strumento. In questo complesso edificio
polifonico le parole sfuggivano all’ascolto, e questo era un altro dei modi con cui
la musica custodiva i suoi segreti: bisognava conoscere i testi per capire le parole.
Il mottetto in questione ci sono tre testi e tre melodie sovrapposte:
I VOCE  Ave regina
II VOCE  Mater
III VOCE  Ite missa est (canto gregoriano).
Fu composto da Marchetto da Padova, teorico e maestro di canto del Duomo, nei
primi anni del 300, il mottetto fu eseguito a Padova nel 1305 in occasione
dell’inaugurazione della cappella degli Scrovegni, decorata da Giotto con
affreschi che ancora oggi sono considerati fra i suoi capolavori. L’inaugurazione
avvenne nel giorno dell’Annunciazione (25 marzo) e per questo il testo del
mottetto è in onore della Madonna e include l’Ave Maria. La funzione della
musica era quella di accompagnare il rito e di creare solennità.
Rispetto al brano precedente il ritmo è straordinariamente più ricco. La nuova
tecnica che i francesi chiamavano ars nova e che caratterizza tutto il trecento, ha

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proposto suddivisioni dell’unità ritmica , della pulsazione di base estremamente
più complesse di quelle dell’esempio precedente: l’unità può essere divisa in due
o tre parti (ritmo binario o ternario), e ciascuna delle divisioni può a sua volta
essere divisa in due o tre parti. In una polifonia l’intreccio delle voci doveva
toccare ogni tanto dei punti di concordanza: in determinati momenti (indicati con
doppia barra //) le voci raggiungevano un comune arrivo e una comune sosta (ad
oggi questi punti li chiamiamo cadenze). Fra una cadenza e l’altra si può notare
come il triplum (che ha molte più parole da pronunciare) proceda più spesso con
pronuncia sillabica, mentre il duplum (che ha meno parole) procede piuttosto con
melismi. Il compositore non ha alcuna cura di far coincidere le sillabe accentate
delle parole con gli accenti metrici della musica. Poiché i compositori dell’epoca
conoscevano benissimo tali coincidenze (il gregoriano era molto attento alla
pronuncia) si deve pensare che questa prassi fosse voluta, quasi per rivendicare
un’autonomia ritmica della musica che le tecniche dell’ars nova aveva appena
raggiunto.
Il tenor viene eseguito in questa registrazione con 2 strumenti, uno a fiato e uno a
pizzico. La forma del brano viene scandita dalla presenza dei punti di “cadenza”.
Ci sono però da osservare due particolari significativi: la durata dei brani separati
dalle cadenze non è regolare, ci sono brani più lunghi e brani più brevi, solo in
epoche successive si imporrà il gusto per le simmetrie formali. In secondo luogo,
le cadenze non coincidono con la fine dei versi.

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Argomento 4: Il Rinascimento
- JosquinDesprez, “Sanctus”, dalla messa L’Hommearmésexti toni.
- Anonimo, canzone : “Baco, Baco”
- Claudio Monteverdi, madrigale “Eccomi pronta ai baci”

INASCIMENTO: Il rinascimento indica quella fase della cultura italiana che va


più o meno dagli inizi del Quattrocento alla fine del Cinquecento. Non fa riferimento alla storia
generale di un’epoca ma solo alla storia della cultura, nello specifico quella delle arti. Già nel
Trecento la cultura italiana aveva raggiunto, in molti campi, livelli qualitativi molto alti.
Rispetto al Medioevo emergono nuovi valori: il valore della conoscenza scientifica (sistema di
misura e di calcolo, uso dei numeri arabi), il valore del denaro, il valore del tempo. Rispetto al
pensiero mistico del millennio precedente si stava sviluppando un pensiero nuovo che vedeva
l’uomo capace di costruire da sé il proprio destino. Un pensiero di questo tipo era in realtà già
esistito presso le grandi civiltà antiche, quella greca e quella romana, le quali avevano posto le
basi per il pensiero scientifico, le conoscenze razionali e il valori laici che ora si stavano
riscoprendo. Possiamo, dunque, asserire che l’Umanesimo (studio sistematico della cultura
classica) abbia trovato nei classici del passato lo stesso senso della vita che stava culturalmente
portando avanti. Nel Quattrocento il potere politico delle principali città del Centro e del Nord
Italia si stava concentrando nelle mani di alcune famiglie potenti (Medici, Gonzaga, Visconti,
Sforza), che crearono in molte città un vero e proprio dominio signorile. I signori dovevano
sancire la loro superiorità anche attraverso la cultura, favorendo il sapere e le arti, circondandosi
di filosofi, letterati, scienziati e artisti; lo stesso pontefice si comportò come uno dei grandi
signori italiani. Tutto ciò portò a quella fioritura culturale che prende il nome di Rinascimento.
Gli intellettuali di corte si sentirono di dover indicare le qualità psicologiche ma anche fisiche
dell’uomo ideale, il quale fu descritto a partire dalla cultura antica, greca e romana. La bellezza,
la proporzione, l’armonia dovevano riflettere quella fiducia “laica” nelle facoltà dell’uomo e
della natura in cui l’uomo profondamente credeva. La cultura rinascimentale non negò mai la
validità della fede religiosa ma cercò di rinnovarne i contenuti: le facoltà dell’uomo potevano
essere riconosciute come un dono di Dio.
All’inizio del Cinquecento, tuttavia, questa fiducia nell’uomo iniziò ad incrinarsi. L’Italia fu
attraversata da potenti eserciti francesi e spagnoli e principi italiani compresero quanto era
importante appoggiarsi a potenze straniere per poter sopravvivere. Anche la chiesa stava
affrontando una dolorosa crisi con la diffusione del protestantesimo, ad opera dei principi
tedeschi. In questo clima la corte non perde il suo carattere innovativo tuttavia comincia ad
avvertire inquietudini e insicurezze. In entrambi i secoli i principi chiamarono presso le corti i
più rinomati musicisti e si dotarono di complessi vocali e strumentali di grande prestigio. La
funzione della musica a palazzo era ora rituale (nelle feste o nelle grandi occasioni celebrative),
ora d’intrattenimento, ora estetica (quando i signori chiedevano ai propri musicisti di mettere in
rilievo le loro abilità esecutive e compositive). Anche la chiesa non era da meno in questo

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campo; tutte le grandi chiese italiane avevano al loro servizio complessi professionali che
fornivano musiche durante le celebrazioni sacre, sancendo il prestigio sociale dell’istituzione.

Diminuzione, improvvisazione e virtuosismo: i trattati italiani della seconda metà del


Cinquecento: (dispensa, articolo Pozzi)Howard Mayer Brown ha descritto dettagliatamente i
trattati del Cinquecento sottolineando come gli strumenti seguissero tutti la stessa prassi,
utilizzando le stesse tecniche usate dai cantanti per abbellire le composizioni. Questa prassi
consiste nella ridefinizione del contenuto melodico-motivico di una composizione, in cui, a
seguito della modifica delle singole parti, la trama compositiva ne risulta trasformata. Il
musicista poteva attuare la trasformazione aggiungendo diversi tipi di ornamentazione (tremoli,
groppi, trilli, accenti) o sostituendo le note di ampia durata con note di breve durata (passaggio,
da qui il termine diminuzione). L’arte di eseguire ed improvvisare le ornamentazioni era
considerata indispensabile per i professionisti. Diego Ortiz descrive tre modi per concertare per
viola e cembalo:
1. Fantasia: improvvisazione libera e senza limitazioni;
2. Improvvisazione sopra il canto piano;
3. Diminuzione di una o più voci tratte da una composizione preesistente (un mottetto o
un madrigale). → esempio pag. 23 (dispensa) O felici occhi miei.
La prassi esecutiva della diminuzione ebbe un ruolo estremamente importante nel passaggio
dalla tradizione polifonica ad una nuova concezione estetica e stilistica. Tale processo ebbe
effetti dirompenti, proprio perché verificatosi in un’epoca caratterizzata dalla sostanziale
identità tra la figura dell’interprete e quella del compositore.

LA MUSICA NELLE CORTI UMANISTICHE


Osservando l’epoca umanistico-rinascimentale ci si imbatte nel fenomeno comunemente
definito mecenatismo. Il termine mecenate fa riferimento alla figura di un ricco, nobile
personaggio, il quale commissionava opere a musicisti, pittori o letterati, intrattenendo con essi
un rapporto di parità. In realtà, grazie a studi successivi, si è scoperto che la natura di questo
rapporto era tutt’altro che di parità. Era un rapporto padrone-servo, in cui il mecenate offriva
protezione in cambio di sottomissione e prestazione di servizi. Il musicista era solo uno dei tanti
dipendenti della corte. Nel momento dell’esecuzione musicale signori e musicisti potevano
sedere alla stessa tavola per suonare o cantare insieme, non dimenticando però di avere posti
diversi sulla scala sociale. Nella civiltà rinascimentale, la musica colta rappresentava una sorta
di status symbol che proclamava al mondo la ricchezza e la potenza del mecenate. La
committenza di opere musicali destinate a questo scopo è stata definita mecenatismo
istituzionale, in quanto elemento imprescindibile dalle istituzioni politiche. Alla realizzazione
di questo tipo di musiche erano deputate determinate categorie professionali, quali:
- Trombettieri, ai quali era affidata la gestione dei segnali sonori che regolavano la vita
delle corti e delle città; ad essi erano anche attribuite mansioni di messaggeri o spie.

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- Cappella alta, un gruppo di strumenti a fiato di “alta” sonorità, impiegati in occasione di
cerimonie, balli, feste all’aperto.
- Cantori della cappella di corte: alcune grandi corti d’oltralpe erano fornite di un certo
numero di ecclesiastici che si occupavano delle celebrazioni liturgiche giornaliere. Questi
musicisti avevano una posizione sociale tra le più elevate rispetto agli altri dipendenti della
corte: essi prima ancora che musicisti, erano uomini di chiesa e di cultura, che svolgevano
funzioni di consiglieri, diplomatici e amministratori. Nel corso del Quattrocento molte
corti italiane vollero emulare l’esempio delle corti d’oltralpe, istituendo analoghe cappelle
di corte.
Nell’epoca umanistica, però, il mecenatismo istituzionale venne assumendo una connotazione
particolare, denominata mecenatismo umanistico. Anche in questo caso la spinta proviene
dalla Francia dove la musica era un requisito essenziale per l’educazione del perfetto uomo di
corte, il cui insegnamento viene legittimato dal Libro del cortegiano di Baldassarre
Castiglione. Ciò era sostenuto anche da Aristotele nella Politica, che fu tradotta e fatta circolare
in Francia da Nicola Oresme e che dette avvio a questa tradizione. La competenza musicale da
possedere non faceva solo riferimento all’abilità di compositore o esecutore ma alla sensibilità
artistica (il mecenate umanistico promuoveva attività musicali da camera, possedeva strumenti,
compilava e collezionava manoscritti musicali). Il doppio binario su cui scorre la committenza
quattro-cinquecentesca (mecenatismo istituzionale e umanistico) rispecchia il duplice volto
della musica di quest’epoca: da una parte la polifonia fiamminga, dall’altra il canto a voce
sola accompagnata da strumenti. Quest’ultima tipologia era sta promossa dai letterati umanisti
che ritenevano la tecnica polifonica come espressione dello stile gotico. Essi prediligevano il
canto solista in quanto esaltava il valore della parola poetica. Una tale pratica (cantare le poesie)
viene fatta risalire a Petrarca ed era presente in tutte le corti italiane. Di questo mondo ci sono
poche tracce perché rientrava nella tradizione orale. Le corti di Mantova e Ferrara
confermano l’esistenza della contemporaneità tra musica istituzionale e musica umanistica:
infatti, le due signore (Isabella d’Este, moglie del signore di Mantova Gonzaga, Lucrezia
Borgia, moglie del fratello di Isabella, signore di Ferrara, gli Este) entrano in rivalità e cercano
di dimostrare la propria superiorità culturale. Entrambe disponevano di un proprio gruppo di
esecutori e compositori, tra cui Bartolomeo Tromboncino, famoso per la composizione di
frottole (genere di musica profana, eseguibile monodicamente). I loro rispettivi consorti, in
quanto detentori del potere politico, disponevano degli esecutori che eseguivano non solo il
mecenatismo umanistico ma anche quello istituzionale. In conclusione vi era una netta
differenza tra musica istituzionale, di pertinenza dei signori, e musica umanistica alla quale
avevano accesso anche le consorti.

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Ascolto 1.
JosquinDesprez, “Sanctus”, dalla messa l’homme armé sexti toni

Desprez era uno dei numerosi musicisti fiamminghi (Nord Europa) che fra il ‘400 e il ‘500
scesero in Italia al servizio delle corti dei principi del Rinascimento. In alcune delle grandi
cattedrali gotiche della Francia del Nord esistevano da molto tempo efficienti scuole di musica
e i musicisti franco-fiamminghi che ne provenivano erano altamente apprezzati per la
conoscenza perfetta della loro professione. Desprez che era nato intorno al 1440, iniziò la sua
carriera a Milano alle dipendenze della famiglia Sforza. Negli anni Ottanta entrò al servizio
della cappella papale e in quell’occasione compose la messa di questo esempio. Il titolo di
messa “l’homme armé” deriva da un’usanza medievale, quella di costruire una polifonia
partendo da un frammento melodico pre-composto, detto tenor (di solito un frammento di canto
gregoriano) e di sovrapporre ad esso le altre voci di nuova invenzione. La differenza è che in
questo caso il tenor non è un canto gregoriano, ma una canzone, molto nota in quell’epoca: si
tratta di un canto dei crociati in guerra molto diffuso e usato dai compositori dell’epoca. L’uso
di musiche profane in una cerimonia religiosa non veniva sentito come improprio, forse perché
era pratica comune travestire con parole sacre le canzoni popolari, forse perché la conoscenza
della canzone permetteva agli ascoltatori di capire meglio l’abilità del musicista nell’arte di
adattare, variare, elaborare la melodia pre-esistente. L’ascoltatore di oggi che non conosce la
canzone può apprezzare meno queste abilità. Qui Josquin non affida la canzone alla voce del
tenore (la più acuta), come l’usanza richiedeva, ma la distribuisce fra le 4 voci con opportuni
adattamenti. L’altra dizione “sexti toni” (del sesto tono)indica la scala: la messa è stata
composta sulla sesta delle otto diverse scale (dette appunto toni o anche modi) che si potevano
usare nella musica medievale, una scala abbastanza vicina alla nostra scala maggiore. Il genere
della messa polifonica ha la funzione di accompagnare i riti ai quali si voleva dare particolare
solennità, ma anche quella di indicare l’aristocratica finezza dei gusti del nobile. In questo caso
lo scopo è anche un altro: il musicista doveva fare il suo esordio in un ambiente difficile come
quello della chiesa romana e doveva presentarsi come artefice di uno stile nuovo e accattivante.
I canti Sacri nel Rinascimento erano cinque:
- il Kyrie;
- il Gloria;
- il Credo;
- il Santo;
- l’Agnello di Dio.
Il Kyrie, il Santo e l’Agnello di Dio essendo testi lunghi, per la loro composizione si preferisce
utilizzare il testo omoritmico, in modo che la lunghezza venga smaltita in un dato tempo; non
poteva durare troppo l’esecuzione del canto.
Il Gloria e il Credo essendo il testo molto breve, è necessario un allungamento delle parole.

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Si utilizza per questo scopo la tecnica dell’imitazione.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Il “Sanctus” è una delle 5 parti della Messa che di norma venivano
musicate in versione polifonica:
“Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus sabaoth (4 VOCI)
Pleni sunt caeli et terrae gloria tua (S-T “Pleni”/ E-B “Gloria”  E falsettista come se fosse una donna)
hosanna in excelsis” (4 VOCI, perché l’invocazione deve essere cantata da tutte le voci)

il canto è basato su una pulsazione che domina. Le voci sono solo 4, ma la loro sonorità
complessiva è grandiosa e morbida allo stesso tempo. Il Sanctus è diviso in 3 parti: la prima e
l’ultima sono a quattro voci piene, quella interna (Pleni sunti… Gloria tua) è organizzata a due
voci. Il tutto crea dunque un edificio sonoro decisamente simmetrico, nelle due parti estreme le
due voci procedono per semplice “contrapposizione” polifonica, con saltuari effetti di dialogo
(Sanctus, Hosanna) oppure per imitazione (Dominus). Nelle due parti interne invece le voci
procedono a “Canone”: le due voci acute lo propongono e le due voci basse lo ripetono uguale.
All’interno del canone si inserisce ad un certo punto un episodio in “progressione” che
sottolinea ed intensifica il significato delle parole. Le parole, soprattutto le parole-chiave come
Sanctus e Hosanna vengono più volte ripetute o prolungate con lunghi ed eleganti melismi. Le
conclusioni di tutte le parti sono sottolineate da cadenze sulle note toniche d’arrivo.
La principale innovazione stilistica che Josquin stava sperimentando consiste nel rendere
percepibili i rapporti fra le voci e nel sottolineare i significati delle parole: all’interno del
canone si inserisce un episodio di progressione che, appunto, sottolinea il significato delle
parole. Le parole, soprattutto quelle chiave, vengono ripetute o prolungate con lunghi ed
eleganti melismi (gruppo di note di passaggio, che collega due note di una melodia. È tipico del
canto gregoriano). La tradizione tardo-medievale tendeva ad occultare più che a manifestare il
rapporto con la parola: si trattava di quell’atteggiamento che l’estetica dell’epoca definiva
musica reservata, musica per intenditori. Molti contemporanei di Josquin continuano in questa
direzione, lui no, il piacere fisico del suono e dell’ascolto cominciano a diventare per lui più
importanti dell’ingegnosità occulta.

CHANSON L’HOMME ARMÉ


L'homme, l'homme, l'homme armé,
L'uomo, l'uomo, l'uomo armato,
L'homme armé
L'uomo armato
L'homme armé doibt on doubter, doibt on doubter.
L'uomo armato lo si deve temere, lo si deve temere.
On a fait partout crier,
In ogni luogo si è proclamato
Que chascun se viegne armer
Che ciascuno venga ad armarsi
D'un haubregon de fer.
D'una maglia di ferro.

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La melodia de L’homme armè venne usata per la prima volta nella chanson Il sera pour vous
conbatu/L’homme armè attribuita a Robert Morton, composta probabilmente nel 1463.
Un’altra possibile prima versione è un’opera anonima a tre voci non datata, mentre nel 1523
Pietro Aron, nel trattato Il Toscanello, afferma che la chanson fu composta da Antoine Busnois.
Diversamente Richard Taruskin ha affermato che Busnois scrisse la prima messa conosciuta
sulla melodia, ma alcuni invece affermano che fu Guillaume Dufay il primo compositore che
scrisse una messa L’homme armè. La gran parte dei compositori del Rinascimento scrissero
almeno una messa su questa melodia in un periodo che va dal 1450 al 1500.
Le origini della popolarità della canzone e l’importanza dell’uomo armato sono oggetto di
opinioni diverse. Alcuni dicono che l’uomo armato è San Michele Arcangelo mentre altri
suggeriscono che fosse il nome di una taverna presso la quale Dufay risiedeva a Cambrai.
Diverse interpretazioni collegano la chanson agli ordini dei cavalieri per le Crociate contro i
Turchi. Planchart ha osservato che il numero di battute della canzone (31) corrispondeva al
numero di cavalieri dell’Oriente del Toson d’Oro. La prima apparizione della chanson avvenne
intorno al 1453, data della caduta di Costantinopoli per mano dei Turchi.

Ascolto 2.
Anonimo, canzone: “Baco,Baco”

Se il genere musicale della Messa costituiva la prova più alta e complessa del magistero
compositivo fiammingo, una sorta di punto d’onore per i compositori dell’epoca, altrettanto
diffusa e altrettanto fortunata nell’Italia di fine Quattrocento fu la produzione di brevi e
semplici composizioni di carattere popolaresco, senza complicazioni polifoniche, ma con temi
vivaci e divertenti. In molte importanti corti del Nord ebbero successo gli autori del genere
musicale della “frottola”, che allietava i palazzi signorili di Mantova, Ferrara, Milano al punto
che uno dei primi volumi a stampa, quando la stampa musicale (la stampa musicale nasce nel
1501 a Venezia con Ottaviano Petrucci), fu appunto un libro di “frottole”.
L’esempio qui presentato non è una frottola, ma una Canzone.

Baco, Baco non è una frottola ma una canzone. È tratta da un manoscritto compilato a Venezia
negli anni Venti contenente un centinaio di composizioni di questo tipo alcune firmate da
musicisti anche importanti, altre anonime. Brani di questo tipo nascevano da vere e proprie
canzoni popolari, di cui riproducevano la melodia adattandola polifonicamente, in altri casi si
ispiravano a melodie popolari e ne imitavano lo stile, in altri casi ancora adottavano una
struttura musicale semplice, anche se non necessariamente popolare. La struttura consisteva
nell’affidare la melodia principale alla voce superiore e nel considerare le altre voci come
integrazioni sonore della prima. Così la polifonia era concepita spesso come omoritmia e le
voci inferiori potevano venir cantate, ma potevano anche essere suonate da strumenti.

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L’esecuzione era comunque abbastanza libera da vincoli precisi: si eseguivano queste
composizioni con gli strumenti che ogni corte aveva a disposizione.
GUIDA ALL’ASCOLTO
Baco, Baco santo idio
Baco, Baco in tua memoria
Baco, idio degno di gloria
Baco grato signor mio.

Baco, Baco’col cantare


Festeggiando oggi s’onori
Coronàn de fronde e fiori
E de tirsi il sacro altare.

Oh, oh, oh, che state a fare?


Ritroviam di che a lui si faccia offerta
Un uom che mora, come il signor merta.

Il nome “Baco” è un modo veneto di pronunciare il nome del Dio Bacco: la canzone è una
specie di inno scherzoso al dio del vino, alla gioia di vivere. I tirsi sono bastoni ornati di fronde
che si usavano anticamente nelle feste bacchiche. L’accenno dell’ultimo verso al sacrificio della
morte potrebbe essere un invito a perdere i sensi per ubriachezza.
La riscoperta umanistica aveva introdotto nel Rinascimento anche la moda delle immagini
pagane, di sollecitazione ai piaceri della vita, a quell’insieme di comportamenti a cui gli
scrupoli morali del Medioevo avevano messo ostacoli. Il ritmo è scandito con un modulo di
danza che resta costante per tutto il brano. Gli esecutori moderni hanno deciso di ricorrere in
questo caso a un ricco apparato di strumenti: scelta legittima da un punto di vista storico. Gli
strumenti usati sono soprattutto flauti e bombarde, per l’uso all’aria aperta. La canzone viene
ripetuta 3 volte, con diverse combinazioni di voci e strumenti. Dal punto di vista della struttura
polifonica la prima parte comprende interventi imitativi, la seconda è omofona. Rispetto ai
modelli trecenteschi, la melodia si è semplificata, ha acquistato una scorrevolezza e una
naturalezza che prima non possedeva.
Forma: il testo viene ripetuto tre volte
1) Con le voci in primo piano più strumenti;
2) Solo con gli strumenti
3) Ritornano le voci
Questa era forse una prassi tipica anche per aumentare la durata e ballabilità.

Ascolto 3.
Claudio Monteverdi, madrigale “ Eccomi pronta ai baci” Scheda I/7

Claudio Giovanni Antonio Monteverdi


Musicista (Cremona 1567 - Venezia 1643), figlio del medico Baldassarre. Studiò contrappunto e viola con M. A.
Ingegneri. Passò poi, ventiduenne, alla corte di Mantova quale violista e, dal 1603, maestro di cappella. Dal 1613
alla morte ebbe tale titolo a S. Marco a Venezia. Compì viaggi in Ungheria, nelle Fiandre (importante quest'ultimo

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per le sue esperienze artistiche) oltre che a Roma, Milano, Bologna, ecc. Dalla moglie Claudia Cattaneo, morta nel
1607, ebbe due figli: Francesco, che fu musicista, e Massimiliano. Carattere dell'arte monteverdiana è l'estrema,
quasi ostentata (ma non mai fine a sé stessa) libertà da ogni teoria, in vista della massima intensità espressiva nella
più ridotta semplicità dei mezzi. Servire l'espressione del testo (dell'"oratione" com'egli diceva), valendosi per
questo della melodia e del ritmo e, in modo ancora inusitato, dell'armonia, fu il suo segreto. Il quale determinò
contro di lui le più acri animosità da parte dei tradizionalisti e, in particolare, del canonico G. M. Artusi. Pure
richiamandosi ai modi tonali medievali. M. contribuiva con le sue dissonanze non "preparate" a sviluppare il senso
delle funzioni che si congegnano nella tecnica tonale moderna. Sempre in regime di polifonica compattezza, già il I
libro dei Madrigali a 5 voci (pubbl. 1587) mostra audacia armonica (quinte e ottave parallele, dissonanze, ecc.) e
melodica (salti di nona e undecima) che serve però all'espressione musicale delle parole più importanti. Nel II libro
(1590) compaiono musiche mai più superate da altri compositori per la immateriale loro perfezione, e
stilisticamente interessanti per la frequente adozione della struttura ternaria in seguito tanto fortunata. Un primo
saggio di rottura della compattezza polifonica mediante ricorso a passi in stile recitativo, il rilevarsi di una sulle
altre voci e l'annuncio della tonalità moderna si notano nel III libro (1592) e ancor più nel IV (1604) e nel V
(1605). Le "false relazioni", gli accordi di 5ª, di 9ª, gli intervalli di tritono, di 5ª minore, di 7ª diminuita, non
preparati, si risolvono in cadenze tonali moderne. Recitativi e "concertati" (dialoghi o monologhi commentati da
voci e da strumenti) si aprono spesso qua e là. Novità di grandissimo rilievo, anche per la disposizione delle parti
in concorso, conducono dal VI (1614) al VII (1619) e all'VIII libro (Madrigali guerrieri ed amorosi, 1638) a
suprema varietà e libertà di atteggiamenti, ove il contrappunto è spesso ridotto per favorire il coro ad accordi
verticali tra i quali si inquadrano passi monodici o dialoghi a 2 o a 3 voci. Nascono in tale ambiente composizioni
come il dialogo concertato a 7 Presso un fiume tranquillo, libro VI (ove il coro racconta la vicenda e i solisti
rappresentano i personaggi, come accadrà nel corso del Seicento con la cantata) o alcuni concertati che saggiano
varî strumenti (VII, VIII), balletti melodrammatici in stile rappresentativo quali Il Ballo delle ingrate e Il
combattimento di Tancredi e Clorinda, il secondo con una voce (quasi di Storico da oratorio) per narrare la vicenda
e una per ciascuno degli attori. Qui M., per completare l'effetto dell'"oratione", si giova anche di uno "stile
concitato" a mo' del tempo pirrichio dei Greci, rendendovi il tremolo degli archi. Altri madrigali e arie in
recitativo, canzonette e madrigali a 2 e a 3 voci apparvero poi sotto varî titoli nel 1632 e, postumi, nel 1651. Il
genio di M., per eccellenza drammatico, aveva già nei madrigali e nelle diverse musiche sacre che veniva
producendo affermazioni chiarissime. Anche più deciso il tratto drammatico, o comunque il rappresentativo (che è
tratto barocco) nelle opere che M. scrisse per il teatro. Già nell'Orfeo (testo di A. Striggio iunior, Mantova 1607) il
melodramma raggiunge, pochi anni dopo la sua nascita, vette difficilmente superabili, specie per l'equilibrio tra i
momenti esplicitamente narrativi (ossia d'azione) e lirici, risolti gli uni negli altri senza sensibile discontinuità.
Ingagliardita l'espressione nei recitativi; rivolto il declamato più che alla singola parola all'empito affettivo
dell'intera frase e situazione drammatica; ricchezza, sino allora inaudita, di moti musicali, dal canto a solo a quello
a più voci, dal monologo ai cenni di dialogo, dalla strumentalità alla vocalità. Della seconda opera, Arianna
(Rinuccini, Mantova 1608), rimane la musica del celebre Lamento scritta nell'impressione della morte della moglie
Claudia; essa testimonia della purezza ellenica cui era giunta la pur intensa e fervidissima espressione dell'arioso
monteverdiano; la fortuna che arrise a questo lamento indusse M. a comporne anche una versione polifonica. Dalle
ricchezze dell'orchestra mantovana si passa, con Il ritorno di Ulisse in patria (G. Badoaro, Venezia 1642), a ridotte
schiere strumentali e vocali. Dopo questa opera in parte affrettata si arriva all'ultima, L'incoronazione di Poppea
del 1643 (perdute sono andate le musiche di La finta pazza Licori, Mercurio e Marte, Vittoria d'Amore, Adone, Le
nozze di Enea e Lavinia e tutta l'Andromeda [in collaborazione] tranne un minuscolo frammento del prologo),
nella quale M. seppe compensare le veneziane deficienze di mezzi vocali e strumentali sia con il geniale partito
tratto dal materiale disponibile (per es., alla morte di Seneca, con l'ascendente implorazione dei discepoli, che
supplisce a una massa corale) sia con una nuova varietà tra forme chiuse e recitativo, con un'audacissima
intensificazione del linguaggio (specialmente in fatto di armonia) e soprattutto con la più ricca e intimamente
drammatica invenzione melodica. Introduceva il maestro nella storia dell'arte musicale un capolavoro, specie per la
complessità di vita nel personaggio, giustificante il raffronto, spesso proposto dagli studiosi, con il dramma
shakespeariano. E l'Incoronazione può esser considerata una delle pietre miliari del dramma musicale attraverso i
secoli. Molto ricca è anche la produzione monteverdiana di genere sacro e religioso, che dalle Sacrae Cantiunculae

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a 3 voci (1582), attraverso la raccolta del 1610 giunse a quella del 1651. La raccolta raduna musiche di diverso
carattere: una Messa, per es., in onore della B. Vergine, a 6 voci, ultima riassunzione (con l'altra Messa del 1641)
di stilistiche già dissuete, e i concerti sacri, ben più liberi nello slancio impetuoso del ritmo, nel sorprendente
mutarsi delle disposizioni foniche, nel vivace gioco coloristico delle voci e degli strumenti: pagine ferventi d'un
lirismo di tono barocco. Dopo una lunga parentesi d'oblio, M. è stato ripreso in considerazione quale uno dei più
grandi maestri della civiltà musicale.

La sua attività di compositore segnò il passaggio dalla musica rinascimentale alla musica
barocca. Fu uno dei principali innovatori che accompagnarono l'evoluzione del linguaggio
musicale. Monteverdi scrisse una delle prime opere teatrali in cui fosse sviluppabile una trama
drammatica, ovvero un melodramma, L'Orfeo, ed ebbe la fortuna (usuale per l'epoca) di godere
del proprio successo mentre era ancora in vita. Il Settimo libro fu pubblicato da Monteverdi nel
1619, quando ormai il genere del madrigale si stava trasformando in qualcos’altro. Nella sua
forma canonica cinquecentesca un madrigale era una composizione polifonica (di solito a 5
voci) su testi d’amore o di descrizione naturale, in cui la musica si sforzava di “imitare” (come
allora si diceva) il significato delle parole: ades. Sulla parola “salire” la melodia saliva, sulla
parola “onda” ondeggiava e così via. Era un modo di cercare un’espressività nuova. Tuttavia
l’uso della polifonia (eredità del Medioevo) non venne abbandonato. Monteverdi scrisse i primi
libri di madrigali negli anni Ottanta del Cinquecento e pubblicò l’Ottavo nel 1638. In 50 anni di
attività trasformò gradualmente il genere del madrigale avvicinandolo sempre più al canto
solistico e alla drammaturgia dell’opera. L’autore del testo in questione è Giovan Battista
Marino, uno dei più famosi poeti dell’epoca barocca. Il madrigale cinquecentesco era un genere
caratteristico del dialetto nobiliare. I buoni cortigiani dovevano essere anche buoni dilettanti di
musica e nel palazzo si faceva musica con loro e con i musicisti professionisti. Ma l’uso di
cantare insieme era diffuso anche tra la borghesia colta: i madrigali infatti venivano stampati e
venduti in quantità. Anche nel Seicento le cose non cambiano: qui però ormai era invalso l’uso
di accompagnare le voci con gli strumenti del basso continuo. In questo esempio il gruppo che
esegue ha deciso di realizzare il basso continuo con violoncello, arpa e clavicembalo.

Il madrigale è un genere musicale tipico del Rinascimento, composto da pochi versi in stile
arguto, che riesce a dare una immagine chiara al sentimento del poeta. Si presta bene ad essere
messo in musica. È un genere sintetico che esprime un significato preciso e spesso ci sono
parole che possono essere rappresentate musicalmente in modo molto immediato. Il
madrigalismo è una tecnica legata più all’esecutore stesso che al pubblico (occhi dell’amata,
note lunghe e bianche)quindi chi l’ascoltava non la vedeva; eppure in quell’epoca chi eseguiva
leggeva musica, vedeva musica e l’ascoltava. Il madrigalismo è tipico della musica profana.
GUIDA ALL’ASCOLTO

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Il testo di Marino è uno di quei componimenti ironici con cui i poeti barocchi ritraevano aspetti
bizzarri o inconsueti della realtà che li circondava. Alla fine del 500 si stava ormai perdendo la
passione rinascimentale per la bellezza ideale e non si esitava a puntare l’attenzione sulle
componenti più intime e fisiche dell’eros, che avrebbero dovuto essere sottoposte a censura in
un periodo come questo, ma presso le classi sociali più alte e gli intellettuali, alcuni
atteggiamenti di libero costume erano tollerati. Anche la Chiesa chiudeva un occhio.
Questo testo non segue schemi fissi di pulsazione: la sua varietà e imprevedibilità ritmica è
dovuta alle sottolineature con cui le parole sono pronunciate. Nei tre versi centrali viene usata
una sola voce, come in un recitativo d’opera. Dove invece il testo si fa più drammatico e
sottintende una componente gestuale, allora il trattamento delle voci cambia: ciò avviene alla
parola “baciami” a “denti mordaci” e nelle due vistose progressioni (rispettivamente
discendente e scendente) che caratterizzano il terzultimo e penultimo verso. In questi casi il
sovrapporsi e l’incalzarsi delle voci rendono parossistici gli slanci del bacio e i disdegni del
morso. In quegli episodi l’affollarsi delle consonanti crea persino voluti effetti di rumore. In
altri casi la declamazione assume sottili sfumature ironiche, come quando nel primo verso
“eccomi pronta” viene cantato da due voci in imitazione, mentre “ai baci” viene cantato dalle
tre voci in omofonia, o come quando l’ultimo “ahi” del penultimo verso viene prolungato con
una cadenza enfatica e quasi dolorante.
C’è poi una pausa prima dell’ultimo verso per indicare un fermo. Naturalmente non c’è da
meravigliarsi del fatto che voci maschili cantino parole attribuite ad una donna. Ciò era normale
nella prassi madrigalistica, (c’è da dire che una monodia – una linea melodica – accompagnata,
si presta meglio rispetto alla polifonia – più linee melodiche – per esprimere una sensazione in
quanto più linee melodiche nell’esprimere un sentimento si sovrappongono e creano
confusione).
La declamazione assume sottili sfumature come quando nel primo verso eccomi pronta viene
cantato da due voci in imitazione, mentre ai baci viene cantato dalle tre voci in omofonia e
l’ultimo ahi viene prolungato con una cadenza enfatica e quasi dolorante. Gli ultimi tre versi
sono cantati a 4 voci.

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Argomento 5: L’epoca Barocca
- Claudio Monteverdi, recitativo di Ottavia (“Disprezzata Regina”), dall’opera L’incoronazione di Poppea.
- Georg Friedrich Handel, aria, “Or la tromba” dall’opera Rinaldo.
- Johann Sebastian Bach, Aria per soprano e contralto con coro “So ist mein Jesus nun gefangen”, dalla
Passione secondo S.Matteo.

AROCCA: il Barocco musicale è distinto in tre fasi cronologiche, un primo


barocco che va da fine Cinquecento a metà Seicento, un medio barocco che arriva a fine
Seicento e un tardo barocco che comprende la prima metà del Settecento. Se il barocco
letterario nasce in Spagna, il barocco musicale nasce invece in Italia per poi diffondersi in
Europa, soprattutto in Germania. Il barocco è una cultura di crisi: economica ma soprattutto
ideologica e culturale. Le cause della crisi sono molteplici e vanno dall’indebitamento del
patriziato, ai conflitti di predominio e di religione che culmineranno nella guerra dei Trent’anni,
allo scoppio di pestilenze, all’eccesso di metalli provenienti dall’America che provocarono
l’inflazione e la povertà. I Paesi più colpiti dalla crisi furono Spagna, Italia e Germania. Il
primo periodo è caratterizzato dall’incapacità dei governanti di controllare le vicende
economiche e sociali, dalla presenza del luteranesimo, da una profonda inquietudine delle
coscienze, dal disagio delle classi sociali più basse che sfociò in continue ribellioni, e da
divulgarsi, tra gli intellettuali, di pericolose tendenze al pensiero libero. A tutto ciò i governanti
risposero con l’assolutismo politico e violenti interventi di repressione, potendo contare
sull’appoggio della chiesa e dei suoi strumenti (Tribunale dell’inquisizione). Le arti
registrarono queste sensazioni di insicurezza e inquietudine, scoprendo aspetti oscuri, eccessivi
e bizzarri.
In musica il primo barocco è caratterizzato, oltre che da questi aspetti espressivi, da due aspetti
strutturali specifici: il declino delle tecniche polifoniche (si dà maggiore importanza alle parole)
e la nascita della musica strumentale autonoma, non legata a compiti extra-musicali come danze
o cerimonie. Strumento barocco per eccellenza è il clavicembalo, simbolo dei nuovi
virtuosismi musicali.

Musica per muovere gli affetti. (DISPENSA)


Un solco profondo separa l’epoca rinascimentale da quella barocca: il sogno del perfetto
cortegiano, uomo di potere nobile d’origine e di valori. A spazzare via questa illusione è anche
una crisi economica intorno al 1620 e le pestilenze che ne seguirono. In questo contesto il
potere andava sempre più coagulandosi in regimi assoluti, spesso brutali e sicuramente poco
“cortesi”. In questo mutamento anche la musica ebbe i suoi riflessi: pian piano essa retrocesse a
semplice bene d’uso, mezzo insostituibile per celebrare i fasti dell’autorità e propagandarne
l’ideologia.
Il passaggio dalla musica rinascimentale alla musica barocca è contrassegnato da tre particolari
novità:

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La prima di tutte è l’esigenza di un nuovo tipo di tessuto musicale, dal testo polifonico, si passa
alla monodia con basso continuo, o monodia accompagnata (accompagnata da uno
strumento). Nella monodia di basso continuo vi era un’unica linea melodica bassa, a cui erano
sovrapposti degli accordi. Essa soppiantò quasi completamente il vecchio stile polifonico,
poiché era molto più adatta della polifonia ad esprimere compiutamente il contenuto
emozionale. La musica, infatti, voleva porsi al servizio della parola (sarà questo il significato
della “seconda pratica” di Monteverdi) per attingere da essa un’inedita intensità espressiva.
In secondo luogo, l’effetto della musica monodica veniva spesso potenziato dalle risorse di
varietà e di splendore sonoro apportate dal nuovo stile concertante. Esso consisteva nel
“concertare”, nell’unire insieme elementi eterogenei: voci e strumenti, o gruppi di voci, o
gruppi di strumenti. Si andava dunque frantumando l’ideale sonoro di unitarietà e compattezza
timbrica tipico del Rinascimento. Si passa, infatti, dal Cinquecento, un’epoca in cui si preferiva
un suono puro e uguale, a un’epoca, il Barocco, in cui si preferisce concertare, sovrapponendo
strumenti e timbri.
A ciò va aggiunta una terza pressante esigenza dei committenti seicenteschi, che possiamo
definire tendenza alla rappresentatività in musica: vale a dire, tendenza ad essere spettatori di
vicende teatrali rappresentate in musica sotto i propri occhi. Questo fatto va correlato alla
nascita della stessa categoria del “pubblico”. Anche nel Cinquecento coloro che fruivano di
un’esecuzione musicale non si consideravano un pubblico nel senso moderno del termine,
perché la musica era quasi sempre funzionale ad altri scopi e non fine a se stessa: nel caso della
musica ufficiale, cerimoniale, essi erano protagonisti della cerimonia stessa, nel caso della
musica liturgica, essi erano fedeli che implicitamente partecipavano a tali preghiere cantante;
nel caso della musica per danza o per banchetti, erano coloro che concretamente danzavano o
banchettavano.
Tuttavia nel Cinquecento non vi era una separazione fissa di ruoli tra spettatori ed esecutori: chi
suonava o cantava poteva deporre lo strumento o la pagina musicale e riposarsi ascoltando gli
altri; viceversa nel Seicento tale intercambiabilità di ruoli scomparve pressoché del tutto: da una
parte, gli esecutori assunsero una dimensione decisamente professionale, e dall’altra, la maggior
parte del pubblico depose ogni competenza musicale, tale separazione tra spettatori e musicisti
comportò anche il desiderio del pubblico di assistere a vere e proprie azioni teatrali.
Il fine della nuova musica monodica era, per usare la fraseologia del tempo, muovere gli affetti
degli ascoltatori: la quarta e la fondamentale esigenza percepita nell’epoca barocca.
Arcangelo Corelli, compositore e violinista italiano, viene considerato tra i più grandi
compositori del periodo barocco, anche il compositore e violinista italiano usa la fraseologia del
tempo di “muovere gli affetti degli ascoltatori”. Il termine “affetto” non va inteso nel ristretto
significato moderno: esso significa piuttosto “stato d’animo”, “sentimento”, “passione” tanto
positiva quanto negativa.
Ad esempio, il filosofo francese seicentesco Renè Descartes, distingueva sei affetti principali:
meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia e tristezza. Già i trattati cinquecenteschi avevano

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propugnato una musica che tornasse ad esercitare il suo potere sull’animo umano. Ma fu
nell’epoca barocca che questa ricerca divenne consapevole. Gli spettatori consegnavano ai
musicisti un enorme potere: per tutta la durata dell’esecuzione musicale, questi ultimi,
divenivano quasi padroni degli animi del pubblico, manipolandone a piacimento le emozioni:
l’aristocratico spettatore piangerà, riderà, si adirerà, trepiderà a seconda del volere di questi
salariati, che sfruttano il linguaggio musicale come una duttile ed eloquente arte oratoria. Le
autorità civili quanto quelle ecclesiastiche sfruttarono consapevolmente la capacità di
commozione e di persuasione detenute dalla musica, rendendola veicolo dei propri messaggi
propagandistici.

L’OPERA ITALIANA DEL SEICENTO: storia dell’opera, dalla corte all’impresa


Più di trent’anni separano le opere che Monteverdi scrisse a Mantova (L’Orfeo nel 1607,
L’Arianna nel 1608) da quelle che compose a Venezia (Il ritorno di Ulisse in patria e La
coronazione di Poppea). Ma sembra che tra le une e le altre ci sia un abisso: diversa la
committenza, le occasioni di esecuzione, il pubblico a cui si rivolgevano, il tipo di testi e gli
argomenti, lo stile musicale. L’opera era passata da opera di corte a opera impresariale.
A Firenze, il primo tentativo di imbastire uno spettacolo interamente cantato, l’opera appunto,
era andato di pari passo con la sperimentazione del recitar cantando e con l’esigenza di creare
eventi fastosi per celebrare occasioni solenni. I primi esemplari di opera erano spettacoli creati
e realizzati per il personale fisso della corte per un pubblico sceltissimo che accedeva tramite
invito. Il principe profondeva le sue risorse economiche senza risparmio per far sfoggio di tutto
il suo prestigio, non solo agli occhi dei presente, ma anche a quelli delle altre corti. L’eco di
questi avvenimenti giungeva alle altre corti attraverso resoconti di diplomatici, corrispondenze,
ecc. A realizzare questo tipo di spettacoli erano le corti di Firenze, Mantova, Ferrara, Piacenza,
Parma e Torino.
Fu però un'altra città a promuovere assiduamente questo nuovo tipo di spettacolo nei decenni
seguenti: Roma. Qui, seppur in presenza di una corte pontificia che non poteva realizzare
spettacoli profani, in singoli palazzi nobili e di cardinali, ma anche in collegi religiosi,
mitologia classica e connotazioni religiose dettero vita a numerose opere: da La morte d’Orfeo
di Landi a La catena d’Adone di Mazzocchi (con testo tratto da Adone di Marino, libro messo
all’Indice). Spesso, però, le opere abbondavano di intrecci desunti dalle vite dei santi e la
conclusione conteneva una conclusione edificante. Il primo spettacolo in assoluto nel nuovo
stile monodico fu proprio realizzato a Roma: Rappresentazione di Anima et di Corpo di Emilio
de’ Cavalieri nella Congregazione dell’Oratorio del 1600.
Nel 1631 fu rappresentato il Sant’Alessio di Stefano Landi, opera che inaugurò molte novità:
prima opera a mettere in scena la vita di un uomo concreto con i suoi drammi interiori;
inaugurazione del filone agiografico; nella sua seconda rappresentazione, l’anno seguente,
venne inaugurata la grande stagione delle cosiddette opere barberiane.

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I Barberini erano la famiglia romana più potente di quegli anni. Ai Barberini apparteneva il
papa Urbano VIII e i suoi tre nipoti, cardinali, tennero saldamente in mano tutte le leve del
potere, facendo celebrare i propri fasti dagli artisti più eminenti. Essi finanziarono anche
l’allestimento di numerose opere in vari palazzi della città, tra cui il loro nuovo palazzo di
famiglia costruito da Bernini con teatro in giardino annesso in cui vennero usate anche
macchine progettate dallo stesso Bernini. Un’altra ragione che fa del Sant’Alessio un opera
importante è il fatto che il suo libretto fu scritto dal letterato Rospigliosi, importante prelato al
servizio della famiglia poi divenuto papa con il nome di Clemente IX. Tra i libretti scritti da
quest’ultimo si ricorda anche Erminia sul Giordano, tratta dalla Gerusalemme Liberata di
Tasso. Ulteriore motivo d’interesse del Sant’Alessio è l’inserimento dell’elemento comico:
personaggi, appartenenti al ceto inferiore, di cui si poteva ridere.
I librettisti italiani adottarono lo stile iberico del tempo, uno stile distante dal rispetto delle
regole aristoteliche, anzi basato proprio sulla loro infrazione.
La morte di papa Urbano VIII nel 1644 e l’avvento al potere della rivale famiglia Pamphilj, con
l’elezione del papa Innocenzo X, segnarono il declino delle attività operistiche barberiniane. I
Barberini lasciarono Roma; vi rientrarono solo una decina di anni dopo con una riconciliazione
con i Pamphilij suggellata da un matrimonio e una rappresentazione operistica proprio al teatro
del palazzo Barberini, Dal male il bene (1653).
Tuttavia l’asse portante della vita operistica italiana si era spostata a Venezia: qui trovò una
società molto diversa, repubblicana e mercantile, con una fiorente industria editoriale (anche se
proprio in questo periodo essa andò in crisi profonda).
A Venezia è da rintracciare una svolta fondamentale dell’Opera: nel 1637 un gruppo di
musicisti romani e veneziani, capeggiati da Ferrari e Manelli affittarono il Teatro San Cassiano
e vi rappresentarono l’opera Andromaca su libretto di Ferrari e musica di Manelli, recuperando
le spese di allestimento dalle vendite dei biglietti. Fu questa una svolta perché fu il primo
esperimento di quello che sarebbe diventato una prassi, cioè l’impresa commerciale o opera
di impresa.
Naturalmente il fatto di poter accedere a vedere l’Opera non più tramite un invito, ma pagando
il biglietto, non vuol dire che l’opera divenne popolare: i prezzi dei biglietti erano comunque
molto alti e solo l’aristocrazia o l’alta borghesia poteva permetterseli.
Nacque contestualmente la nuova figura di impresario, colui che investiva il suo capitale
nell’allestimento dell’Opera: retribuzione del compositore, dei cantanti, dei componenti
dell’orchestra, dello scenografo, ecc., (tranne il librettista che si “ripagava” proprio con le
vendite dei libretti durante lo spettacolo). La fonte del guadagno dell’impresario era la vendita
dei biglietti, ma ben presto si comprese che così facendo occorreva anticipare ingenti somme;
così si pensò di affittare alle famiglie aristocratiche per l’intera stagione palchetti del teatro,
così da avere una somma di guadagno immediata da investire. Il ruolo di impresario era
comunque molto soggetto a rischio di fallimento economico.

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Tra gli anni ’30 e ’40 a Venezia vennero rappresentate opere con temi mitologici: Andromaca,
Nozze di Teti e Peleo, Amori di Apollo e Dafne, Il ritorno di Ulisse in patria (1640) e Le nozze
di Enea con Lavinia (1641) di Monteverdi.
I librettisti appartenevano ad una nota accademia di intellettuali veneziani, l’Accademia degli
Incogniti, erano scettici e libertini e questo si riflette sia sui temi che sui personaggi dei libretti.
Nel 1645 Venezia va in crisi: l’isola di Candia (Creta), possedimento veneziano, fu attaccata dai
Turchi. Questo portò Venezia a stringere un’alleanza anti-turca con l’impero asburgico e il
papato. Questa alleanza portò l’opera veneziana a diffondersi più rapidamente, ma i libretti
d’opera cambiarono, cioè subirono l’influenza della congiuntura bellica: trame più eroiche,
imperiali come ne Scipione affricano, Pompeo Magno (su libretto di Nicolò Minato per
Cavalli).

Bach, Johann Sebastian. Discendente da una vecchia famiglia di musicisti, rimasto orfano a 10
anni fu accolto dl fratello. Terminato il liceo non poté iscriversi all’università per motivi economici ed
entrò violinista nell’orchestra di Johann Ernst di Weimar. Presto passò all’organo di S. Bonifacio in
Arnstadt e a questo periodo risalgono le sue prime composizioni. Nel 1707 sposò la cugina Maria
Barbara. L’anno successivo fu chiamato a Weimar come organista di corte e cembalista dell’orchestra
ducale. Qui produsse la maggior parte delle sue composizioni per organo ed ebbe modo di studiare le
musiche italiane (Vivaldi). Nel 1720, morì la prima moglie e nel 1721 sposa Anna Magdalena Wülken,
ottima musicista. Nel 1723 iniziò ad insegnare a Lipsia, questi furono anni di inteso lavoro che però non
dettero molta fama a B, la stessa Passione secondo Matteo passò inosservata. Nel 1747 ricevette l’invito
di Federico il Grande e suonò e improvvisò a lungo su temi suggeriti ad re. Negli ultimi anni fu colto
da cecità e il suo ultimo componimento fu un corale per organo, da lui dettato al genero. I generi e le
forme della musica di J. S. Bach, tutta dominata da costanza e novità di pensiero, sono pochi: oratorio,
cantata, suite, concerto, variazione; culmine, e pietra di paragone della composizione a schema, la fuga,
di cui Bach è ineguagliato maestro. Il suo volto più noto è infatti quello del massimo contrappuntista
moderno, dell’infaticato costruttore di svolgimenti e combinazioni di parti, per vicende di grado in grado
più importanti, a echi, a incontri, a rincalzi, fino a quando non sia raggiunta la mèta. Egli plasma la
materia sonora per meglio trascenderla in idealità, per comporre, nelle sue proporzionate rifrangenze e
resultanze, uno specchio al proprio lucido spirito. Egli viene considerato come il massimo
contrappuntista moderno. È un’epoca forte e severa della musica tedesca quella racchiusa nell’opera di
Bach, che ha le sue radici nel movimento di coscienza provocato dalla riforma, di cui è espressione il
corale. Dell'opera musicale di Bach si ricordano: 2 Passioni (secondo Giovanni; secondo Matteo; una
Passione secondo Luca è d'incerta attribuzione); Oratorio di Natale; oltre 200 cantate, di cui una ventina
profane; 5 messe (4 Messe brevi, luterane, e la Grande messa in si min., cattolica); Magnificat; oltre 250
corali armonizzati; 4 mottetti; 6 concerti grossi; concerti solistici con orchestra d'archi; 12 sonate per
violino; 6 Suites per violoncello solo; 3 sonate per viola da gamba e clavicembalo obbligato; 8 sonate
per flauto; toccate, preludi e fughe, preludî e corali, messe per organo; il Clavicembalo ben temperato.

Ascolto 1.

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Claudio Monteverdi, recitativo di Ottavia “Disprezzata Regina”, dall’opera
L’incoronazione di Poppea.

Lo spettacolo d’opera fece la sua prima comparsa alla corte di Firenze nel 1600 ed ebbe un tale
successo che fu ripreso negli anni successivi. Ogni personaggio dell’opera cantava la propria
parte e veniva accompagnato da un gruppo di strumenti che eseguivano il cosiddetto “basso”,
pensato come voce bassa di una composizione polifonica, che però anziché essere cantata,
veniva solo suonata. Su questa parte di “basso” altri strumenti eseguivano, improvvisandoli, gli
accordi necessari per sostenere il canto. Questa pratica nata nei primi anni del Seicento prese il
nome di “basso continuo” e si conservò per tutta l’epoca barocca, fino alla metà del 700.
Prima lo spettacolo d’opera veniva rappresentato solo nei teatri di corte. A partire dal 1638 si
aprirono a Venezia i primi teatri pubblici, ai quali si poteva accedere pagando un biglietto
d’ingresso. L’incoronazione di Poppea fu rappresentata nel 1643 e racconta le vicende della
giovane avvenente Poppea, che seduce Nerone per ambizione di potere. Sotto l’influenza di
Poppea, Nerone ripudia ed esilia la moglie Ottavia, fa suicidare Seneca e sposa alla fine l’astuta
e malvagia giovinetta. Nerone e Poppea sono simboli del modo in cui i principi dell’epoca
gestivano il loro potere. Scherzare con il prestigio e l’autorità dei potenti poteva essere in quegli
anni assai pericoloso; di solito gli uomini di teatro se ne guardavano bene. In questo caso però
non bisogna dimenticare che ci troviamo a Venezia, città mercantile, dove la circolazione delle
idee era più ricca e varia.
Dall’inizio del Seicento le tecniche compositive della monodia accompagnata italiana si erano
dedicate a due tipi di canto: il “recitativo” e l’”aria”: nel primo si pronunciavano le parole
secondo gli accenti del parlato (infatti era detto inizialmente “recitar cantando”), esso aveva il
compito di far progredire la trama; la seconda invece adattava le parole a un metro musicale
regolare e a pulsazioni isocrone, queste arie potevano essere anche modificate dai cantanti, ad
esempio nella tonalità, proprio perché erano i cantanti a decretare il successo di un’Opera. Lo
scopo del recitativo di Monteverdi è quello di suscitare commozione negli spettatori e
partecipazione empatica alle vicende narrate sulla scena.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Questo recitativo contiene un repertorio ricchissimo di imitazioni
stilizzate del parlato:
- Ritmo: uno degli strumenti retorici più efficaci e diffusi è l’uso di pause nei momenti più
commoventi. Molto usati sono anche i contrasti di ritmo: parti con pronuncia veloce
(“bestemmiato pur sempre e maledetto dai cordogli miei”) a cui seguono parti
improvvisamente lente (“dove, oimè”).
- Altezze: è legato all’uso di progressioni ascendenti che raggiungono un culmine e che poi
ridiscendono producendo vistosi mutamenti di profilo. Un altro procedimento di rilievo è
dovuto al gioco delle sospensioni o conclusioni tonali, che si trovano alla fine delle frasi.
Quasi tutte le frasi restano tonalmente sospese. I casi di conclusione tonale sono rari: il più
vistoso è quello della cadenza finale: “i miei martiri”. Esistono anche archi lunghi di

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tensione prodotti da ritmi e altezze che legano fra loro più frasi e non trovano un punto di
stasi se non dopo molto tempo. Uno degli esempi più caratteristici è quello del periodo che
comincia con “al nostr’empiotiran” e si conclude con “partorir la morte”.
- Forma: la forma musicale, nel recitativo, è sempre determinata dal testo poetico. Monteverdi
qui insiste molto sull’uso retorico delle ripetizioni: la ripetizione di parole importanti imita il
parlato di chi è preso da grande impeto emotivo, come nel caso di “disprezzata regina, regina
disprezzata, disprezzata regina…”, ancora più pregnante risulta la ripetizione a distanza cioè
la ripresa di parole precedenti che vengono improvvisamente ricordate e inserite all’interno
di un altro discorso. Infine un altro strumento importante è la ripetizione musicale dello
stesso frammento su parole diverse che evocano lo stesso stato d’animo: per es.
l’esasperazione di “ tu dimori/felice/e godi”.

Ascolto 2.
Georg Friedrich Handel, aria “Or la tromba” dall’opera Rinaldo

Georg Friedrich Händel, (1685–1759), è stato un compositore tedesco naturalizzato


inglese, del periodo barocco, che trascorse la maggior parte della sua carriera a Londra,
diventando molto conosciuto per le sue opere, oratori, inni, e concerti d'organo. Fu fortemente
influenzato sia dai grandi compositori del barocco italiano che dalla tradizione corale polifonica
medio tedesca. Nato lo stesso anno di Johann Sebastian Bach e Domenico Scarlatti, Händel è
considerato uno dei più grandi compositori dell'era Barocca, con opere come Musica sull'acqua,
Musica per i reali fuochi d'artificio e il Messiah che rimangono stabilmente popolari. Uno dei
suoi quattro Inni di Incoronazione, Zadok the Priest (1727), composto per l'incoronazione di
Giorgio II di Gran Bretagna, è stato eseguito ad ogni successiva incoronazione britannica,
tradizionalmente durante l'unzione del sovrano. Händel compose più di quaranta opere in più di
trent'anni.
Nel giro di quindici anni, Händel aveva avviato tre compagnie d'opera commerciali per
provvedere alla richiesta di opere italiane alla nobiltà inglese. Quasi cieco e avendo vissuto in
Inghilterra per quasi cinquant'anni, morì nel 1759, da uomo rispettato e ricco. Il suo funerale è
stato celebrato con gli onori di stato completi e fu sepolto nell'Abbazia di Westminster a
Londra.
Handel si perfezionò in Italia, che all’epoca era il paese dal quale provenivano le novità
musicali più sensazionali. Poi si trasferì il Inghilterra. Sia in Italia che in Inghilterra gli inizi del
700 sono anni di transizione. In Italia si era creato un movimento culturale di reazione alla
cultura del primo barocco, accusata di eccessi di fantasia, di desiderio di stupire. La fondazione
a Roma dell’Accademia dell’Arcadia, riuscì ad imporre gradualmente un nuovo gusto, anzi
“buon gusto” che consisteva nella cura di un perfetto equilibrio tra fantasia e ragione, fra diletto
e insegnamento.

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La società inglese era molto diversa: quando Handel si trasferì lì si presume sia stato attratto da
una situazione economica e culturale che in quegli anni era unica in Europa, in fase economica
espansiva. Il Rinaldo fu eseguito a Londra nel 1711 e con il successo che ottenne spianò la
strada alla carriera del musicista.
All’inizio del 700 l’aria, che all’epoca di Monteverdi era ancora di dimensioni limitate, aveva
raggiunto una forma ampia, mentre il recitativo che all’epoca di Monteverdi era il principale
strumento espressivo, riduce sempre più i suoi compiti. Lo spettacolo d’opera consisteva in
narrazioni che avevano come protagonisti grandi principi del passato, che venivano presentati
come regnanti buoni pronti a sconfiggere antagonisti malefici. L’opera narrava anche storie
d’amore, in cui sincerità e giustizia dovevano prevalere. In alcuni casi si trattava anche di
narrazioni di fantasia (il Rinaldo ad es. deriva da un brano della Gerusalemme Liberata in cui si
raccontano le vicende della maga Armida che tenta invano di sedurre Rinaldo con i suoi
incantesimi).
Le arie potevano essere categorizzate come aria amorosa, appassionata, tenera, brillante, di
vendetta… ciascuna dotata di struttura musicale corrispondente al contenuto semantico delle
parole. I principali virtuosi di canto (che Handel si procurava con frequenti viaggi in Italia)
erano le “primedonne” e i castrati, i cui compensi arrivavano a cifre enormi. Questi ultimi
nonostante la loro voce femminile, interpretavano le parti eroiche dei protagonisti. Nel caso del
Rinaldo il successo fu dovuto oltre che agli effetti scenici, anche alla presenza del castrato
Nicolini, allora sulla cresta dell’onda. Questo tipo di opera italiana (che oggi viene definita
opera seria, in contrapposizione all’opera comica) si basava dunque su un insieme di ingredienti
di estrema eleganza, di conseguenza questi gusti corrispondevano alle richieste del pubblico
nobile.
Tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 vi è anche una tensione all’interno del teatro musicale:
l’aria non piaceva molto ai letterati in quanto queste alla fine del ‘600 sono con il d’accapo,
cioè c’è una parte A collegata ai versi (una o due strofe) e una parte B contrastante e poi la
ripetizione della parte A. sono arie di affetti, ma si portano dietro una incongruenza: il d’accapo
creava un cortocircuito alla trama perché interrompeva il racconto creando tra l’altro un
nonsense. Le arie d’accapo, però, erano molto amate dai cantanti che potevano mostrare il loro
talento, aggiungendo virtuosi brillanti anche in arie con contenuto melodico limitato. Per evitare
gli eccessi nei virtuosismi, si pensò ad una alternanza con la tromba: il cantante così si trovava
quasi a duettare con la tromba.
All’inizio del ‘700, l’aria aveva raggiunto una forma ampia, organica e ricca, mentre il
recitativo ridotto sempre più e basato su formule e accompagnato solo dal basso continuo.
GUIDA ALL’ASCOLTO: L’episodio in questione si trova alla conclusione dell’opera:
Rinaldo, che è riuscito a sottrarsi alle seduzioni della maga Armida, si prepara allo scontro
finale con i saraceni e alla conquista di Gerusalemme. È sicuro della sua vittoria e già prevede il
successo finale e il ricongiungimento con l’amata sposa. Di norma un’aria nelle opere di
Handel ha la forma ABA, con la ripetizione finale della prima parte (d’accapo con ornamenti).

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Nel caso nostro i primi due versi corrispondono alla parte A e i secondi due alla parte B. l’aria
era di solito preceduta da un’introduzione strumentale che veniva ripetuta più volte anche per
permettere al cantante di riposare. In particolare era introdotta prima della parte B, per renderne
ben percepibile l’inizio. Nella ripresa di A era uso che il cantante introducesse varianti di sua
invenzione, anche improvvisate, che gli permettevano di mettere in rilievo i suoi virtuosismi
(emissione di note velocissime, assai difficili da eseguire, cantate su un’unica vocale, che di
solito è quella che nella parola porta l’accento: la “o” di tromba o la “a” di festante).
Qui l’introduzione strumentale non è affidata agli archi, come di solito accadeva, ma a una
brillante fanfara di trombe e timpani che dovevano accompagnare la sfilata dell’esercito.
Rinaldo, sulla spinta di questo trionfale esordio, si butta subito in imprese virtuosistiche. Le
trombe interrompono continuamente le sue affermazioni quasi invitandolo al dialogo, così che
ad un certo punto i due dialoganti si trasformano in veri e propri competitori: la voce tende ad
assumere la potenza di una tromba e la tromba tende a competere con la voce. Le pulsazioni
(sia nella parte strumentale che in quella vocale) sono sempre regolari e veloci.

Ascolto 3.
Johann Sebastian Bach, aria per soprano e contralto con coro “So ist mein
Jesus nun gefangen” , dalla Passione secondo S. Matteo.

Johann Sebastian Bach(1685 –1750) è stato un compositore e musicista tedesco del


periodo barocco. Universalmente considerato uno dei più grandi geni nella storia della musica,
le sue opere sono notevoli per profondità intellettuale, padronanza dei mezzi tecnici ed
espressivi e per bellezza artistica.
Bach operò una sintesi mirabile fra lo stile tedesco e le opere dei compositori italiani
(particolarmente Vivaldi, del quale trascrisse numerosi brani, assimilandone soprattutto lo stile
concertante).
La sua opera costituì la summa e lo sviluppo delle svariate tendenze compositive della sua
epoca. Il grado di complessità strutturale, la difficoltà tecnica e l'esclusione del genere
melodrammatico, tuttavia, resero la sua opera appannaggio solo dei musicisti più dotati e
all'epoca ne limitarono la diffusione fra il grande pubblico, in paragone alla popolarità raggiunta
da altri musicisti contemporanei come per es. Händel.
Nel 1829 l'esecuzione della Passione secondo Matteo, diretta a Berlino da Felix Mendelssohn,
riportò alla conoscenza di un vasto pubblico la qualità elevatissima dell'opera compositiva di
Bach, che è da allora considerata il compendio della musica contrappuntistica del periodo
barocco.
La Germania del ’700, frammentata in molti piccoli stati indipendenti, è divisa dal punto di
vista religioso in due aree: quella luterana al nord e quella cattolica al sud. Rispetto all’Italia, la
cultura nord-tedesca era più conservatrice. La vita professionale di Bach si svolse al servizio di
famiglie principesche e successivamente (dagli anni 20 agli anni 50) nella Chiesa di San

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Tommaso a Lipsia. Le caratteristiche stilistiche della musica nord-tedesca si mantenevano
fedeli all’antica tecnica della polifonia fiamminga. Ma Bach era interessato a tutto ciò che si
faceva negli altri paesi d’Europa: conosceva le musiche italiane (aveva trascritto alcuni concerti
di Vivaldi) e quelle francesi.
Nella Settimana Santa, da sempre le chiese di Lipsia solevano intonare in modi semplici le
narrazioni della passione di Cristo. Nel secondo decennio del 700 questa celebrazione assunse
una forma più ricca e solenne: le autorità ecclesiastiche permisero che nel pomeriggio di
venerdì santo in una delle principali chiese di Lipsia venisse eseguita una grande Passione di
Cristo con orchestra, solisti e coro in cui il testo evangelico veniva cantato in stile recitativo ma
era ampliato e commentato da altre parti musicali assai ricche. Bach compose la Passione
secondo Matteo. Il testo è diviso in due parti: alla fine della prima parte si colloca l’episodio del
bacio di Giuda e della cattura di Cristo. A questa narrazione segue il commento affidato a due
cantanti e al coro. L’inserimento della Passione nella liturgia del venerdì veniva vissuto dal
popolo come una sorta di spettacolo commovente, tuttavia il contesto era rituale. La musica
aveva lo scopo di scuotere le coscienze, non quello di presentarsi come oggetto estetico.
GUIDA ALL’ASCOLTO: In questo brano la continuità impassibile delle pulsazioni ritmiche
contrasta con la drammaticità degli eventi. Il canto delle due soliste continua imperterrito anche
quando il coro interviene con le sue invocazioni. L’unico stacco ritmico deciso si ha solo con
l’ultimo intervento del coro. Anche questo secondo episodio è caratterizzato da pulsazioni
regolari, ma qui troviamo un ritmo veloce e martellato, che non dà tregua: è la pronuncia
terribile delle maledizioni contro Giuda.
Soprano e contralto iniziano in imitazione: la prima voce annuncia la cattura di Gesù, e la
seconda ribadisce il pietoso annuncio. La melodia del soprano è un esempio caratteristico di
quelle “melodie lunghe” che Bach amava, intendendosi per lunga una melodia che resta in
sospensione per molte unità di tempo e non conclude se non dopo un percorso la cui fine viene
lungamente attesa. In questo caso la sospensione è legata al melisma sulla parola “gefangen”
(preso). Il verso successivo, invece, è cantato in omoritmia dalle due voci che scandiscono il
momento del dolore scendendo passo passo con una figura musicale chiamata “appoggiatura”
che per la retorica dell’epoca simboleggiavano il pianto o il dolore. In tutto l’episodio i suoni
sono organizzati in tre strati sovrapposti che si mescolano continuamente: quello dei due flauti
(che all’inizio anticipano il tema delle due voci), quello dei due strumenti ad arco (violino e
viola) e quello delle due voci. Il loro continuo ed impassibile intreccio è interrotto tre volte
dalla violenta invocazione del coro.
Nell’episodio successivo gli interventi in imitazione delle quattro voci tendono a creare un
magma sonoro sempre più fitto nel momento in cui vengono invocati i fulmini e i tuoni.
Successivamente, fino alla fine, tutte le voci pronunciano le parole insieme, in omoritmia, per
scandire con il massimo di rabbia la maledizione a Giuda. Tanto la parte delle due voci soliste è
tenera, quanto quella del coro è aggressiva.

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Argomento 6: Il secondo Settecento
- Franz Joseph Haydn, Sinfonia, Hob I/60, III movimento, Minuetto.
- Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n.35 K385 (Haffner), IV movimento, Allegro.
- W.A. Mozart, Don Giovanni, Duettino Là ci darem la mano.

ECONDO SETTECENTO: Negli ultimi cinquant’anni del Settecento lo stile


tardo-barocco, che ha avuto in Bach, Handel e Vivaldi i suoi protagonisti, si trasforma
decisamente. Le nuove caratteristiche si manifestano soprattutto nell’impero Austro-Ungarico,
tant’è che il nuovo stile prende il nome di “stile classico-viennese” (il quale si contrappone allo
stile romantico in quanto capace di comporre contrasti, nascondendo ad esempio spinte affettive
con il distacco). Vienna era un’importante capitale musicale: aveva raccolto l’eredità della
musica italiana, sviluppandola secondo nuovi canoni. Accanto all’imperatore esisteva un ampio
ceto aristocratico che si dedicava al mecenatismo artistico e organizzava musiche sia per feste e
diletti, sia per amore dell’arte. Si faceva musica anche nelle principali chiese di Vienna. Inoltre
vi era la presenza di un tessuto sociale borghese che pubblicava libri e concentrava le sue
attività in teatri e in sale concerto. Queste ultime erano presenti in poche città europee e si
basavano su ingressi a pagamento. La situazione del musicista si stava trasformando: se da un
lato la dipendenza da una famiglia nobile continuava a fornirgli una certa sicurezza, dall’altro la
società borghese in crescita gli offriva occasioni di lavoro più libere. Tuttavia il guadagno
dipendeva dal successo che, sera per sera, le musiche proposte potevano avere, per cui il rischio
era molto più alto. Sia Mozart che Haydn iniziarono la carriera al servizio dell’aristocrazia per
poi diventare liberi professionisti.

Haydn (1732-1809):(dispensa) Vero patriarca e sovrano della musica viennese fu per lunghi
anni Haydn. Terminata a 17 anni la carriera di cantore della cattedrale, conobbe anni duri sia
per le ristrettezze economiche che per il lavoro, tuttavia riuscì a farsi luce: conobbe Metastasio,
Gluck e nel 1761 fu assunto dal principe Paolo e poi da Nicola Esterházy. A questa famiglia,
che possedeva un’orchestra di 30 elementi, egli rimase legato per quasi tutta la vita. Nel 1781
strinse una grande amicizia con Mozart, con il quale usava suonare in quartetto. Nel 1790,
dopo la morte del principe Nicola Esterhazy, si stabilì, con una pensione, a Vienna ma
l’impresario Salomon lo invitò a Londra, dove rimase per un anno. Al ritorno conobbe
Beethoven, che divenne suo allievo a Vienna, ma dopo poco lo abbandonò non soddisfatto
delle sue lezioni. Nel 1794/5 fu di nuovo a Londra dove scrisse e diresse alcune tra le sue più
belle Sinfonie. Di ritorno a Vienna si accinse a comporre l’oratorio La Creazione e, dopo la
morte della moglie, l’altro oratorio Le Stagioni. Nel 1797 compose quello che divenne l’inno
imperiale austriaco. Egli fu l’artefice della forma sonata (composizione eseguita da strumenti,
in contrapposizione alla cantata), da lui in poi questa resta organizzata secondo lo schema
ternario. La parte centrale si svilupperà al punto di diventare un complesso di ragionamenti,
deduzioni per mezzo delle quali dalle premesse (temi) si arriva alle conseguenze (ripresa). La

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sonata si organizza generalmente in quattro movimenti: il secondo tempo, lento, ha spesso una
prima parte in maggiore, una seconda centrale in minore o maggiore contrastante con la
precedente, e una ripresa della prima, spesso variata; al terzo posto si conse3rva, dall’arcaica
suite, una danza, il minuetto, con il suo trio, contrastante per carattere e tonalità; il finale può
essere rondò, forma circolare fondata sulla ripresa periodica del tema con interposizione di parti
contrastanti, oppure con una forma-sonata. Il linguaggio musicale abbandona definitivamente
l’usanza del basso continuo, per creare quella moderna melodia armonica basata sul modulante
lavoro tematico ed istituisce perciò una specie di nuova polifonia strumentale.

Ascolto 1.
Franz Joseph Haydn, Sinfonia Hob I/60, III movimento, Minuetto

Haydn era al servizio di un principe ed aveva il compito di curare l’orchestra di corte, di


comporre musiche per intrattenimenti e feste, oltre che per il diletto del padrone di casa e di
produrre composizioni per la Chiesa. La sua fantasia è guidata dal piacere per le perfette
proporzioni, per la regolarità delle forme, in sostanza Haydn interpreta i modi di parlare, i gesti,
i comportamenti e i valori sociali del palazzo in cui vive e li celebra attraverso la sua musica,
con eleganza e al tempo stesso con vivace ricchezza di idee musicali. Il pezzo scelto è tratto da
una delle numerose sinfonie che scrisse per conto del principe. Per sinfonia si intende un brano
per orchestra e l’orchestra, all’epoca di Haydn, era composta da una base di archi ( violini,
viole, violoncelli, contrabassi) più alcuni strumenti a fiato di legno (flauto, oboe, fagotto) o di
ottone (corno, tromba, trombone) e dai timpani come strumento a percussione. Questa
composizione dell’orchestra rimarrà abbastanza stabile per tutto l’800: si tratta dell’orchestra
che ancora oggi viene detta “sinfonica” perché nata per eseguire sinfonie. Di norma una
sinfonia di Haydn comprendeva quattro “tempi” o “movimenti”:
- Un Allegro iniziale di dimensioni abbastanza ampie
- Un Adagio, per contrasto con il tempo precedente
- Un brano con carattere di danza (normalmente un Minuetto)
- Un brillante finale, di solito di nuovo un allegro.
Le sinfonie di Haydn da un lato servivano come forme di intrattenimento giocoso e piacevole
per gli ospiti del palazzo, d’altro lato venivano esteticamente apprezzate dagli intenditori come
oggetti d’arte.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Il brano è un Minuetto tratto dalla sinfonia n.60 che si chiama Hob
perché Hoboken è l’autore del catalogo delle opere di Haydn. Risale al 1774. Si tratta dunque di
un minuetto non da ballare ma da ascoltare. La forma del minuetto è chiarissima: si tratta di 3
parti di cui la terza ripete la prima. Non solo la forma è chiara, ma le parti di cui si compone
hanno tutte la stessa durata, questo deriva dal fatto che la coreografia del minuetto prevede, per
ogni figura, un numero di passi determinato e sempre uguale, e ciò implica che la musica sia
composta da frasi che scandiscano chiaramente i passi da eseguire. Il minuetto prevedeva

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sempre spostamenti di 8 passi divisi in 4+4, e la sua musica è composta di norma da frasi di 8
pulsazioni ternarie (il minuetto, come il valzer, è una danza di metro ternario ) divise in due
segmenti di 4.
Nella normale prassi del 700, che ama la chiarezza, la simmetria, la proporzione, il minuetto è
appunto il trionfo di questi procedimenti quasi geometrici, tuttavia in qualche caso Haydn
amava sorprendere i propri nobili ascoltatori, smentendo ciò che essi si aspettavano di sentire e
momentaneamente disorientandoli. Così in questo minuetto, subito dopo l’inizio che rispetta la
norma del 16 diviso in 8+8, le frasi successive introducono inattese dissimetrie. Tutte e tre le
parti sono costruite secondo lo schema ABB, nella prima parte, il motivo a8, con cui il minuetto
esordisce si colloca sempre a conclusione dei tre segmenti principali e si colloca anche a
chiusura del minuetto intero alla fine della terza parte.

Nella seconda parte lo stesso destino è riservato a b6 che si colloca sempre a conclusione di
ciascuno dei tre segmenti principali. Questo gioco di simmetrie regola e bilancia con grande
sapienza le dissimetrie presenti nel piano formale, e questo sta ad indicare che la presenza di
irregolarità non indica affatto disordine. L’amore per l’ordine sta alla base della concezione
ideologica di Haydn.
MINUETTO  è una danza barocca che all’epoca si ballava, però era in uso utilizzare degli
stilemi provenienti dalla danza per costituire questi testi che servivano per alleggerire. La danza
aveva, infatti, proprio lo scopo di alleggerire prima del quarto movimento.
Generalmente i minuetti sono danze regolari per permettere la danzabilità, in questo caso il
minuetto ha un metro ternario ed è costituito da 8 pulsazioni di base, quindi i danzatori che le
loro figure devono collegarsi a queste pulsazioni, spesso divise in 4+4 o 8+8.
Questo minuetto di Haydn è impossibile da ballare, perché ci sono delle particolarità
all’interno: una prima parte con forma ternaria che ha una sezione che è A16, una seconda di 30
e una terza di 30.

Wolfgang Amadeus Mozart


Musicista (Salisburgo 1756 - Vienna 1791). Fu avviato assai presto dal padre Leopold allo studio del
clavicembalo, insieme alla sorella Maria Anna, detta Nannerl. I suoi primi saggi di composizione
risalgono al 1759; nel 1762 scrisse il suo primo minuetto e un Allegro in si bemolle, che è un vero primo
tempo di sonata in miniatura. Con il 1762 ebbero inizio anche i viaggi musicali di M.: il bambino era
dotato di un eccezionale talento e il padre non si lasciò sfuggire l'occasione di condurlo in giro, insieme
con la sorella, per farlo conoscere e ammirare. In una di queste occasioni M. fu presentato
all'arcivescovo di Passau e suonò a Vienna alla presenza delle maestà imperiali. Nel 1763 percorse un
itinerario più lungo, con soste a Monaco, Augusta, Ulma, Mannheim, Francoforte, Colonia, Bruxelles,
Parigi. Dopo un soggiorno di sei mesi a Parigi, Leopold e i figli passarono in Inghilterra, dove rimasero
per più di un anno. A Londra l'esperienza musicale di M. ebbe modo di arricchirsi notevolmente:
durante il periodo londinese egli compose la sua prima sinfonia, sulle tracce di J. C. Bach che doveva
essere il suo primo modello anche nella composizione di concerti. Dall'Inghilterra la famiglia passò in
Olanda, da dove, dopo una lunga sosta a Lilla per una grave malattia di Wolfgang, fece ritorno a
Salisburgo, passando per Parigi, la Svizzera e la Baviera. Nella calma della città natia seguì un periodo

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di studio e raccoglimento interrotto soltanto da qualche breve soggiorno a Vienna: tra i lavori di questo
periodo vanno ricordati Die Schuldigkeit des ersten Gebotes, scritto su commissione dell'arcivescovo di
Salisburgo ed eseguito nel maggio 1767, le opere Apollo et Hyacinthus (1767), Bastien und Bastienne
(1768), La finta semplice, scritta nello stesso anno per invito dell'imperatore, e una Messa (n. 49 del
catalogo di von Köchel). La serie dei viaggi di M. si concluse in Italia: vi giunse nel 1768 e vi ritornò in
seguito. A Roma, avendo ascoltato nella Cappella Sistina il Miserere di G. Allegri, ne trascrisse a
memoria la partitura; a Bologna conobbe padre G. B. Martini, il quale fu preso da così viva simpatia e
ammirazione per lui, da caldeggiarne la nomina ad accademico filarmonico; a Milano si incontrò con G.
B. Sammartini e con N. Piccinni e in breve tempo scrisse l'opera Mitridate re del Ponto (1770). Lasciata
l'Italia nel 1771, vi ritornò nello stesso anno per comporre e farvi eseguire l’Ascanio in Alba, su testo di
G. Parini, e nel nov. del 1772 per la rappresentazione del Lucio Silla, su libretto di Giovanni de
Gamerra. A quest'epoca, M. aveva già dato alla luce 135 lavori musicali d'ogni genere: una quantità
sbalorditiva e più che mai promettente per qualità. Tornato a Salisburgo, dovette subire una serie di
amarezze; molto contribuì a rendergli la vita difficile l'incomprensione del nuovo arcivescovo di
Salisburgo, Geronimo di Colloredo, uomo duro e grossolano che nei M., padre e figlio, non seppe
vedere altro che due dipendenti. M. si dedicò allora a un lavoro continuo, senza riposo, e trasse notevoli
vantaggi dall'influenza che su di lui non mancò di esercitare M. J. Haydn (fratello di Joseph), allora
compositore e maestro dei concerti dell'arcivescovo. Tracce dei contatti avuti da M. con Haydn sono
evidenti nelle opere strumentali e particolarmente nei quartetti composti in quel tempo. Tuttavia il gusto
della corte salisburghese tendeva, per inclinazione del nuovo arcivescovo, verso la fatuità e la galanteria
e in questo senso si doveva orientare la produzione mozartiana di quel periodo: La finta giardiniera,
rappresentata a Monaco di Baviera nel 1775, è un'opera buffa all'italiana, piuttosto leggera e
convenzionale. A essa seguì un'altra opera minore, Il re pastore, rappresentata a Salisburgo nel 1776.
Nel settembre 1777, abbandonato provvisoriamente l'ingrato impiego, M. prese la via di Parigi, in
compagnia della madre. Durante una sosta a Mannheim, si innamorò della cantante Aloysia Weber, ma
la relazione fu bruscamente troncata per volere di Leopold. A Parigi, questa volta, la presenza di M. fu
poco notata; unico incarico offertogli fu quello di comporre per J. G. Noverre il balletto Les petits riens
e unico avvenimento artistico veramente notevole fu la composizione della Sinfonia in re K 297, detta
appunto La parigina. Morta la madre e scoraggiato per l'andamento delle cose, M., su consiglio del
padre, tornò, sia pure a malincuore, al servizio di Colloredo. Nel carnevale del 1781 fu rappresentata con
successo a Monaco l'opera Idomeneo, su libretto dell'abate Varesco, composta per incarico dell'elettore
di Baviera. Poco dopo ebbe luogo la rottura definitiva con Colloredo e M., abbandonata Salisburgo, si
trasferì a Vienna. Il decennio 1781-91 fu quello dei capolavori, ma anche un periodo triste per la vita del
compositore, che già volgeva al tramonto. Nel 1782 sposò Costanza Weber, sorella di Aloysia. Durante
il periodo del fidanzamento aveva scritto il Singspiel Die Entführung aus dem Serail, che si può
considerare come primo esempio di dramma lirico tedesco, distante sia dall'opera italiana sia dalla
concezione drammatica di Gluck. Dal 1782 al 1785 M. si dedicò particolarmente alla composizione di
musica strumentale, scrivendo tra l'altro la Sinfonia Haffner (1782), quella di Linz e i sei mirabili
quartetti dedicati a Joseph Haydn e pubblicati nel 1785. Nel 1786, dopo la breve opera Der
Schauspieldirektor, scrisse Le nozze di Figaro, una delle sue opere principali; il bel libretto di Lorenzo
Da Ponte, ricavato dalla commedia di Beaumarchais, offrì al temperamento mozartiano la possibilità di
espandersi liberamente. La rappresentazione delle Nozze di Figaro, prima a Vienna e poi a Praga, fu un
vero trionfo per M., che tuttavia non riuscì a trarne vantaggi economici notevoli. In seguito al successo
ottenuto, Bondini, direttore del Teatro di Praga, gli diede incarico di scrivere una nuova opera per la
stagione seguente: il Don Giovanni. Nel libretto di Lorenzo Da Ponte il buffo si innesta nel drammatico,
il cavalleresco nel fantastico; ma il lavoro acquista la sua reale vitalità soltanto attraverso la musica di

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Mozart. A differenza delle Nozze di Figaro, in cui la commedia quasi affoga nella musica, personaggi e
azione risaltano in una plastica cui la musica dà un'evidenza nuova: M. coglie rapidamente quello che di
drammatico è nella vicenda e lo scolpisce con un vigore di stile e una profondità di accenti che
sembrano annunciare il mondo romantico, mentre tuttavia la commedia, attorno, non ne risulta
sacrificata. Il Don Giovanni fu rappresentato per la prima volta a Praga il 29 ott. 1787 ed ebbe
un'accoglienza entusiastica. Tornato a Vienna, M. fu nominato Kammermusikus dell'imperatore
Giuseppe II. Nel 1788 scrisse le sue tre ultime e stupende sinfonie: in mi bemolle K 543, in sol minore K
550 e in do maggiore (Jupiter) K 551. Nel 1789 seguì il principe Karl Lichnowsky, suo allievo, in un
giro attraverso la Germania, ricevendo lusinghiere offerte da parte di Federico Guglielmo II. Ma preferì
tornare a Vienna, dove per incarico di Giuseppe II scrisse una nuova opera, Così fan tutte, anche questa
su libretto di Lorenzo Da Ponte, che fu rappresentata nel gennaio 1790. Morto in quel periodo Giuseppe
II, il nuovo imperatore Leopoldo II non mostrò per la musica l'interesse del suo predecessore. Bisognoso
di denaro, M. entrò in rapporti con Emanuel Schikaneder, l'impresario del Theater auf der Wieden, il
quale gli fece balenare l'idea di scrivere un'opera di puro carattere tedesco; nacque così la terza delle
maggiori opere teatrali di M., Die Zauberflöte su libretto dello stesso Schikaneder, rappresentata il 30
settembre 1791. Nell'agosto era stata composta, in soli dodici giorni, La clemenza di Tito, su un vecchio
libretto rimaneggiato di P. Metastasio. La composizione del Requiem, iniziata nel luglio del 1791, fu
interrotta, con dolorosa coincidenza, dalla morte del musicista, avvenuta il 6 dic. 1791. La produzione di
M. fu di una quantità veramente prodigiosa, specialmente se si confronta con la sua breve vita: il
catalogo delle sue opere, compilato da Ludwig von Köchel nel 1862, elenca 626 composizioni (che si
indicano col numero del catalogo preceduto dalla iniziale K). Tutte le forme di ogni genere interessarono
l'inesauribile facoltà inventiva di M., dalla musica vocale sacra e profana alla musica teatrale, dalla
musica sinfonica a quella da camera. Egli scrisse 21 opere, 49 sinfonie, 25 concerti per pianoforte e
orchestra, 5 concerti per violino e orchestra, 23 quartetti per archi, 17 sonate per pianoforte, 35 sonate
per violino e pianoforte, e inoltre messe, cantate, litanie, vespri, composizioni liturgiche minori, sonate
da chiesa, arie con orchestra, Lieder, canoni, trii, quartetti per varî strumenti, quintetti, marce e danze
per orchestra, divertimenti, serenate, cassazioni, concerti per diversi strumenti e orchestra. L'arte di M. è
complessa e molteplice, opera geniale di un indiscusso protagonista dei mutamenti culturali europei del
tardo Settecento. La molteplicità delle critiche testimonia l'universalità del genio mozartiano, ricco di
elementi diversi, di influenze (soprattutto italiane e tedesche) mirabilmente assimilate e lasciate alle
spalle, capace di un raro equilibrio tra la facilità dell'invenzione e la necessità della strutturazione
formale, tra contenuti spirituali e configurazioni morfologiche. Nel trapasso epocale dall'ancien régime
all'età rivoluzionaria M. fu perno nodale: la sua musica, pur non rinunciando a tratti di serenità e
compostezza sempre interiori, è difatti permeata di una sensibilità ormai indiscutibilmente moderna.

Ascolto 2.
Wolfgang Amadeus Mozart, Sinfonia n.35 K385 (Haffner), IV movimento,
Allegro

La sigla K 385 deriva dall’autore del catalogo delle opere di Mozart che si chiamava Koechel.
Il titolo Haffner deriva dal nome del suo destinatario. La sinfonia, infatti, è stata tratta da un
brano che Mozart aveva composto per una ricorrenza celebrativa, probabilmente il
conferimento di un titolo nobiliare, a Siegmund Haffner. Per lo stesso personaggio Mozart
aveva composto anni prima un altro brano in occasione del matrimonio della figlia. In entrambi
i casi si trattava di serenate cioè di composizioni sinfoniche che venivano eseguite la sera in

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occasioni di festa; avevano compiti di intrattenimento e perciò dovevano essere facilmente
ascoltabili, scorrere leggere e allietare gli animi. Per questa ragione erano composte di molti
tempi (o movimenti).
La sinfonia è la riduzione di una precedente serenata a cui sono stati tolti due tempi. Il tema
(cioè il motivo musicale, la melodia) con cui si apre il quarto movimento qui registrato è molto
simile a quello di un’aria di uno dei personaggi principali. L’opera racconta la storia di una
ragazza che viene rapita da un principe turco e messa nel suo harem. La ragazza, che resiste a
tutte le insistenze amorose del pascià rapitore, verrà alla fine liberata dal suo innamorato.
Osmino, il tremendo guardiano della villa del principe, dopo essere riuscito a bloccare la fuga
dei due giovani canta un’aria buffa: non sta nella pelle per la sua vittoria e non vede l’ora di
impiccare i malcapitati. Mozart non voleva alludere a nessuna impiccagione, introducendo
questa citazione nel suo pezzo per Haffner: voleva semplicemente riprendere quel brano
allegro.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Si nota subito la presenza di un contrasto dinamico netto e deciso
fra il tema musicale iniziale (rapido, conciso ma enunciato quasi in sordina) e la sua
prosecuzione. Troviamo, quindi, aspetti dinamici ritmici e seguono quelli timbrici: squilli di
trombe e rulli di timpani, come per evocare immagini di battaglia. Infine aspetti d’altezza:
progressioni ascendenti con tensioni ripetute che raggiungono finalmente un culmine. A questo
inizio si contrappone subito dopo una seconda idea tematica altrettanto netta, ma esposta con
sonorità attenuate, e con timbri di soli archi e poi il flauto, che le danno una caratterizzazione
più gentile.
La logica complessiva è quella della ripetizione del tema iniziale, che, se ben si ascolta, viene
ripreso 4 volte durante il brano: ogni ripresa è sempre preceduta da una preparazione che in
qualche caso prolunga l’attesa del suo ritorno, in altri casi lo enuncia improvvisamente quando
non lo si aspetta. L’intenzione è quella di tener sempre desta l’attenzione degli ascoltatori. Cosa
possibile all’epoca, perché la forma generale del brano è quella cosiddetta a rondò del tipo A-B-
A-C-A-D-A, dove il tema iniziale viene ripetuto più volte. Gli ascoltatori dell’epoca
conoscevano benissimo questa forma standard, anzi si aspettavano di trovarla nell’ultimo
movimento di una sinfonia dove essa compariva (è appunto il nostro caso) assai spesso.

Ascolto 3.
Mozart , Don Giovanni, duettino “La ci darem la mano”

L’ouverture del Don Giovanni è composta da due parti, una è un Andante con moto, che verrà
ripetuto nella penultima scena, nel momento in cui la statua del Commendatore entrerà nella
casa di Don Giovanni. La seconda parte, invece, è un Allegro di carattere festoso. La prima aria
dell'opera è Notte e giorno faticar, cantata da Leporello, seguita poi dall'ingresso di Donna
Anna e di Don Giovanni, che interpretano insieme al servo il trio Non sperar se non m'uccidi.
La caratterizzazione psicologica dei personaggi è il vero capolavoro di Mozart e Da Ponte: Don
Giovanni, pur essendo nobile, veste quasi il ruolo del tipico basso buffo settecentesco
(vocalmente, un baritono o un basso-baritono), quasi a sottolineare l'immoralità del suo

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comportamento che, per così dire, lo "abbassa" di livello. Leporello (anche lui un basso ai limiti
del buffo, la cui estensione va da un "Fa grave" fino al "Mi acuto") è invece un personaggio
frequentemente in bilico tra l'ironia, l'insolenza e la sottomissione nei confronti del padron Don
Giovanni.
Leporello attende il suo padrone Don Giovanni, introdottosi mascherato in casa di Donna Anna
per sedurla e, se del caso, violentarla, lamentandosi della sua condizione di servitore. Ma la
tentata violenza da parte del nobile non riesce: egli era intento a cercare di violentare Donna
Anna che, anche se all'inizio credeva che fosse il suo fidanzato Don Ottavio a farle visita, subito
dopo si era accorta dell'inganno ed era riuscita ad allontanare il nobiluomo dalla sua stanza,
facendolo scappare fino in giardino, dove il servo lo attendeva. Sopraggiunge allarmato il
Commendatore, padre di Anna, che dopo aver mandato la figlia a chiamare i soccorsi, sfida a
duello Don Giovanni. Questi, prima riluttante, accetta ed in pochi istanti uccide il vecchio.
Ritrova Leporello che, spaventato, si era nascosto. Ora che il Commendatore è stato ucciso, al
nobile ed al suo complice non resta che fuggire. Donna Anna, quando scopre il cadavere del
padre, sviene per il dolore; Don Ottavio, che l'accompagna, la soccorre e le promette di
vendicare la morte del suocero a qualsiasi costo.
Nel frattempo, Don Giovanni è per strada con Leporello in cerca di nuove conquiste e, mentre
parla con quest'ultimo, scorge da lontano una fanciulla tutta sola e le si avvicina, ma quando
scopre che quella dama è Donna Elvira, da lui già sedotta ed abbandonata pochi giorni prima e
che ora lo cerca disperata d'amore, si trova in grande imbarazzo. Don Giovanni cerca di
giustificarsi e quando Donna Elvira viene distratta da Leporello, si allontana in fretta lasciando
il povero servo a tentare di placare la furia funesta di donna Elvira: viste le circostanze, egli non
può far altro che rivelarle la vera natura del carattere di Don Giovanni e, in un’aria del catalogo,
elenca l'infinita serie delle sue conquiste di donne in tutto il mondo: 640 in Italia, 231 in
Germania, 100 in Francia, 91 in Turchia e in Spagna 1003.
Donna Elvira, sebbene sia sconvolta e molto triste, non vuole arrendersi e ricercherà quel
birbone di Don Giovanni affinché si penta definitivamente delle sue malefatte. Intanto, un
gruppo di contadini e contadine festeggiano le nozze di Zerlina e Masetto. Don Giovanni e
Leporello, fuggiti da Donna Elvira, vanno a vederle. Intenzionato a sedurre la fresca sposina,
Don Giovanni fa allontanare con una scusa il marito in compagnia di Leporello (che stava
corteggiando alcune invitate) con tutti gli altri paesani, suscitando l'ira di Masetto che però
riesce a contenersi e, rimasto solo con la giovane Zerlina, la invita a seguirlo e le promette di
sposarla. Proprio quando Zerlina sta per cedere alle promesse e alle lusinghe di Don Giovanni,
sopraggiunge Donna Elvira arrabbiatissima, che la avvisa delle cattive intenzioni del malvagio
libertino e la porta via con sé mentre arrivano Donna Anna e Don Ottavio, venuti a chiedere a
Don Giovanni aiuto per rintracciare l'ignoto assassino del Commendatore, senza sapere che sia
stato proprio lui. Donna Elvira arriva di nuovo e dice di non credere a Don Giovanni, ma questi
la accusa di essere pazza. Donna Anna e Don Ottavio, partiti Don Giovanni e Donna Elvira,
rimangono soli: Donna Anna ha riconosciuto dalla voce di Don Giovanni l'uccisore del padre,
ricorda al fidanzato la sua promessa e poi parte. Rimasto solo, Don Ottavio rimane stupito dalle
parole di Donna Anna, ma prima di arrestare Don Giovanni, decide di andarla a consolare.

Don Giovanni, per sedurre Zerlina, ordina a Leporello di organizzare una grande festa in onore
del matrimonio. Partiti, Zerlina cerca di farsi perdonare da Masetto ma nel frattempo arriva Don
Giovanni che li invita al ballo insieme agli altri paesani. Prima della festa, Donna Anna, Don
Ottavio e Donna Elvira vogliono andare mascherati al matrimonio che Don Giovanni ha

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organizzato, per arrestarlo. Il donnaiolo ordina a Leporello di invitarli, senza sapere le loro
intenzioni. Arrivano contadini e contadine in festa che iniziano a scherzare e ballare. Il
cavaliere balla con Zerlina e la conduce in disparte per farla sua, mentre Leporello intrattiene
ancora Masetto. Ma la giovane grida fuori scena e tutti vengono in suo soccorso. Don Giovanni
dapprima cerca di accusare della tentata violenza l'innocente Leporello, ma Donna Elvira,
Donna Anna e Don Ottavio, gettate le maschere, lo accusano apertamente e cercano di
arrestarlo insieme a Masetto, Zerlina e agli altri paesani. Don Giovanni e Leporello, però,
riescono a fuggire.
Atto II
La Sera, di fronte alla casa di Donna Elvira, Don Giovanni e Leporello discutono animatamente
(Eh via, Buffone). Inizialmente quest'ultimo, dopo le accuse rivoltegli ingiustamente, vorrebbe
prendere le distanze dal suo padrone, ma questi, offrendogli del denaro, lo convince a tornare al
suo servizio attuando una nuova impresa: scambiare con lui gli abiti in modo tale che mentre il
servo distrae Elvira, egli possa corteggiare impunemente la sua cameriera. Donna Elvira,
affacciatasi alla finestra (Ah, taci ingiusto core), cade nel tranello e si illude che Don Giovanni
si sia pentito e ravveduto.
Dopo che Donna Elvira e Leporello travestito si sono allontanati, Don Giovanni intona una
serenata sotto la finestra della cameriera. Sopraggiunge Masetto in compagnia di contadini e
contadine armati in cerca del nobile per ucciderlo. Protetto dal suo travestimento, Don Giovanni
riesce a far allontanare tutti gli altri tranne Masetto (Metà di voi qua vadano): rimasto solo con
il giovane e con l'inganno privato delle sue armi, Don Giovanni lo prende a botte e si allontana.
Zerlina, di lì passante, soccorre il marito che quando le rivela l'accaduto, decide insieme a
questi di catturare non solo Don Giovanni ma anche il suo sfortunato complice dato che
Masetto crede di esser stato picchiato da lui (Vedrai carino).
Nel frattempo, Leporello travestito non sa più come comportarsi con Donna Elvira che lo
incalza e vorrebbe fuggire senza dare nell'occhio: trovata un'uscita, decide di tagliare la corda,
ma è bloccato dall'arrivo di Donna Anna, Don Ottavio, Zerlina e Masetto accompagnati da
servi, contadini e contadine, che credendolo Don Giovanni, si fanno avanti per catturarlo e
ucciderlo, non prima che però il poveretto riveli la sua vera identità (Sola sola in buio loco). Le
cose comunque non cambiano, Zerlina lo accusa di aver picchiato Masetto, Donna Elvira di
averla ingannata e Don Ottavio e Donna Anna di tradimento, quindi lo vogliono uccidere
ugualmente. Il servo spiega a Masetto e a Zerlina di non sapere nulla, dato che è da un'ora che
gira con Donna Elvira e spiega a Donna Anna e a Don Ottavio che non ha colpa di tradimento
verso di loro, poi fugge (Ah, pietà signori miei). Don Ottavio è sempre più deciso ad assicurare
Don Giovanni alla giustizia e parte per vendicare gli amici (Il mio tesoro). Mentre Masetto
cerca Don Giovanni, Zerlina raggiunge Leporello e cerca di eliminarlo perché non crede alle
sue parole, ma con l'inganno Leporello riesce a fuggire nuovamente (Per queste tue manine).
Zerlina, insieme a Donna Elvira, cerca di inseguirlo ma sopraggiunge Masetto che spiega che
Leporello è innocente perché ha visto Don Giovanni con gli abiti del servo, poi partono. Donna
Elvira, rimasta da sola, dà sfogo a tutta la sua amarezza e rabbia ai suoi sentimenti contrastanti,
divisi fra l'amore per Don Giovanni e il desiderio di vendetta nei suoi confronti (In quali eccessi
e Mi tradì quell'alma ingrata).
È notte fonda, verso le due. Don Giovanni si è rifugiato nel cimitero e attende Leporello. Questi
arriva e racconta al padrone ciò che gli è capitato dicendo che avrebbe fatto meglio ad
andarsene invece di accettare la sua offerta di soldi: Giovanni reagisce ridendo di gusto
all'accaduto del suo servo, ma all'improvviso si ode una voce minacciosa: «Di rider finirai pria

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dell'aurora». Stupiti, si guardano intorno per vedere di chi fosse quella voce tenebrosa, ma la si
sente ancora dicendo «Ribaldo, audace, lascia ai morti la pace». È la statua funebre del
Commendatore a parlare. Leporello è tremante nascosto sotto una panchina, ma Don Giovanni
non ne è per nulla intimorito, anzi, ordina beffardo a Leporello, terrorizzato, di invitarla a cena
(Oh statua gentilissima): la statua accetta rispondendo terribilmente "Sì".
Palazzo del Commendatore, notte. Don Ottavio chiede a Donna Anna se si sia decisa a sposarlo.
Donna Anna dice che lo ama moltissimo ma è troppo addolorata per la perdita del padre, quindi
dichiara che potrà sposarlo solo quando il colpevole di questo atroce delitto (Don Giovanni)
sarà arrestato (Non mi dir). Don Ottavio non può fare a meno di darle ragione: lui e i suoi amici
vendicheranno il Commendatore, ma nessuno di loro sa che Don Giovanni lo ha invitato a cena
nel suo palazzo.
Nel palazzo di Don Giovanni, tutto è pronto per la cena: la tavola è preparata, i musicisti sono
al loro posto ecc. Quindi Don Giovanni si siede a mangiare. Il licenzioso cavaliere si intrattiene
ascoltando brani delle opere: Una cosa rara di VicenteMartín y Soler, Fra i due litiganti il
terzo gode di Giuseppe Sarti e infine in una spiritosa autocitazione, Le nozze di Figaro, in quel
caso, l'aria di Figaro Non più andrai farfallone amoroso dello stesso Mozart (Già la mensa è
preparata). Giunge all'improvviso Donna Elvira, che implora ancora una volta a Don Giovanni
di pentirsi (Ultima prova dell'amor mio), ma questi si prende gioco di lei e la caccia via. La
donna esce di scena, ma la si sente gridare terrorizzata. Don Giovanni ordina a Leporello di
andare a vedere cosa stia accadendo là fuori e si sente un altro grido e questa volta è Leporello a
tornare pallidissimo e tremante: alla porta c'è la statua del Commendatore! Dato che il servo è
troppo spaventato, lo stesso Don Giovanni, allora, si reca ad accoglierla a testa alta mentre il
servo si nasconde sotto al tavolo. Entra quindi la statua del Commendatore (Don Giovanni a
cenar teco), vedendo Don Giovanni stupito e Leporello tremante che cerca di convincere il
padrone a scappare, malgrado egli rifiuti.
Il “convitato di pietra” vuole ricambiare l'invito, e propone a Don Giovanni di recarsi a cena da
lui, porgendogli la mano. Impavido e spericolato, Don Giovanni accetta e stringe la mano della
statua: pur prigioniero di quella morsa letale, rifiuta fino all'ultimo di pentirsi. Il
Commendatore, molto arrabbiato, scompare in mezzo a nubi di foschia, improvvisamente
compare fuoco da diverse parti e si sente un gran terremoto; sono demoni e diavoli che stanno
richiamando il libertino all'inferno. Egli cerca di sfuggire al suo destino ma il potere dei mostri
è troppo forte e Don Giovanni viene inghiottito dalle fiamme dell'inferno. Giungono gli altri
personaggi con servi, contadini e contadine pronti ad arrestarlo. Leporello riferisce l'orribile
scena appena accaduta. Dato che il Cielo ha punito l'incorreggibile libertino, Don Ottavio
chiede a Donna Anna se questa volta ella sia disposta a sposarlo ma il suo cuore si deve ancora
sfogare, Masetto e Zerlina vanno a cena insieme ai loro amici, Donna Elvira, poiché l'unico
uomo che ha amato, Don Giovanni, è morto, decide di ritirarsi in convento e Leporello va a
cercare un padrone migliore. Il sipario si chiude infine sui personaggi che dopo aver cantato il
concertato finale (Questo è il fin di chi fa mal) si allontanano in direzioni diverse.

Don Giovanni è un dramma giocoso in due atti rappresentato per la prima volta a Praga, Teatro
reale, il 29 ottobre 1787. Dopo il successo delle Nozze di Figaro il direttore del Teatro aveva
chiesto a Mozart un’opera nuova, che offrisse una parte di protagonista al baritono italiano L.
Bassi che aveva trionfato nelle Nozze. Da Ponte propose la storia. A Praga, dove Mozart stesso

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diresse le prime quattro rappresentazioni, Don Giovanni raccolse i consensi e gli applausi più
caldi che mai il musicista ricevesse (a Vienna l’anno seguente l’opera non fu molto accalmata).

Il duetto della seduzione di Zerlina è uno dei pezzi più celebri dell’opera. Praticamente l’unico
caso in cui vediamo il Don Giovanni in azione nella sua qualità di seduttore. Esso mette in atto
2 situazioni psicologiche: l’incalzante invito di Don Giovanni e il turbamento che invade
Zerlina. Argomento del duetto p il progressivo sopravvento che l’iniziativa dell’uomo
raggiunge sulla resistenza, sempre più debole, della contadinella. L’originalità del duetto sta
nell’innocenza con cui è vista la caduta di Zerlina. Infatti la contadinella con lievi vocalizzi che
si contrappongono alle decise battute di Don Giovanni che ha ben in mente il suo scopo,
manifesta non una natura civettuola, ma una innocenza campagnola che ben viene descritta
dalla morale goethiana “dove c’è un impulso, c’è un dovere”: una contadina schietta, vivace,
dotata di sana grazia naturale.

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Argomento 7: Il Romanticismo
- Ludwing van Beethoven, Quinta sinfonia op.67, III movimento, Allegro.
- Franz Schubert, Trio op.100, per violino violoncello e pianoforte, II movimento, Andante con moto (inizio).
- Fryderyk Chopin, Studio n.6, dai Dodici studi op.25.

OMANTICISMO: La borghesia si era evoluta nel corso dei secoli precedenti e


nel Settecento era ormai in grado di competere con l’aristocrazia. I due ceti presentavano ideali
e pensieri completamente divergenti. La borghesia, infatti, si basava sul principio di libertà
(economica, di pensiero e di critica), sul principio di uguaglianza e sull’abolizione di privilegi
irrazionali. Questo stravolgimento del modo di pensare sfocia nel 1789 nella Rivoluzione
francese. Il movimento che prende il nome di Romanticismo si basa su questi aspetti di
scontro sociale e legittimazione di valori. Le idee promosse dal romanticismo riguardano
soprattutto la borghesia intellettuale, infatti, il proposito perseguito da tutti gli artisti è
soprattutto quello di scoprire, precisare e legittimare le caratteristiche di un’umanità ideale che
doveva sostituirsi a quella aristocratica: un’umanità dotata di tutte le qualità di sincerità
interiore, di libertà di pensiero, di autenticità di sentimenti, di speranza nel futuro, che la nuova
società richiedeva. Questo processo di ricerca rivoluziona la funzione delle arti: mentre in epoca
di mecenatismo gli artisti parlavano a nome dell’aristocrazia, in epoca borghese essi parlano a
nome di se stessi, non dipendono più da nessun signore, non hanno nessun obbligo, anche se di
fatto si rivolgono alla nuova società che li circonda, e di cui si sentono parte; e che gli permette
al tempo stesso la loro sopravvivenza economica. In questa società il sistema dei valori era
ancora da costruire e ciò avviene nell’Ottocento. Questi valori, riguardanti aspetti della vita
interiore e spirituale, tesero a cambiare a seconda delle trasformazioni che si verificavano volta
per volta nella società, essendo questa per sua stessa natura libera e mobile. La musica della
cultura romantica tende a sottostimare la funzione d’intrattenimento e chiede agli ascoltatori di
concentrare l’attenzione sui contenuti affettivi della comunicazione; lo scopo è dunque di natura
estetica.

Classicismo e Romanticismo.(dispensa) I termini “classico” e “romantico” non sono proprio


in antitesi tra di loro, anzi esiste una certa continuità tra i due stili per cui è possibile asserire
che la maggior parte della musica scritta tra il 1770 e il 1900 costituisca un unico stile. Il
termine romantico deriva da romanzo, che si riferisce ad un racconto o ad un poema che tratta
eventi o personaggi eroici perciò la parola romantico fa riferimento ad un mondo immaginario e
ideale che contrasta con la realtà. In senso generale è possibile affermare che tutta l’arte è
romantica poiché, anche quando trae i suoi materiali dalla realtà, li trasforma, crea un mondo
molto distante da quello reale. Contro gli ideali classici di ordine, equilibrio, perfezione il
romanticismo predilige la libertà, il movimento, la ricerca senza tregua dell’irraggiungibile.
Esiste un conflitto tra ideale della musica strumentale e orientamento letterario della musica
ottocentesca. Tale conflitto si risolve nel concetto di musica a programma, una composizione
strumentale associata ad un tema letterario, non per mezzo di figure retorico-musicali (come

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avveniva nel barocco) o con l’imitazione di suoni e movimenti naturali, ma attraverso la forza
della suggestione fantastica. La Sinfonia pastorale di Beethoven sancisce l’inizio della musica
a programma.

Ludwig van Beethoven, l’uomo e la sua musica (DISPENSA)


Beethoven venne sulla scena in un momento storico favorevole: egli ereditava da Haydn e da
Mozart uno stile e alcune forme musicali che erano ben sviluppate, ma che si prestavano ad
ulteriori sviluppi. Come Goethe, era figlio di quei fermenti che avevano caratterizzato la
Rivoluzione francese. Dal punto di vista storico il lavoro di Beethoven è costruito sulle
conquiste del periodo classico1, ma egli seppe trasformare questa eredità e diventare la fonte di
tutto quanto fu caratteristico del periodo romantico. Lui, infatti, non è né un classico né un
romantico, è semplicemente Beethoven.
Inizia la sua formazione musicale con suo padre, che voleva fare di lui un secondo Mozart.
Prende lezioni da Haydn a Vienna e studia il contrappunto con uno dei maggiori insegnanti del
suo tempo. Lo stesso Mozart gli predisse un futuro brillante dopo averlo ascoltato suonare. La
particolarità della sua produzione si evince dal paragone con le sinfonie di Haydn che erano un
centinaio, Beethoven ne scrisse 9, ma molte più lunghe di quelle di Haydn e la revisione che
accompagna ogni sua idea musicale è lunga e severa. Beethoven e Haydn compongono
entrambi nella forma sonata. La musica di Beethoven dà l’impressione di essere espressione
diretta della sua personalità, perciò è importante capire lui stesso per comprendere la sua
musica. La disgrazia della sordità iniziò a manifestarsi nel 1798 e divenne totale nel 1820, ma
ciò non gli impedì di scrivere capolavori come la seconda sinfonia nel 1802. Era sua abitudine
comporre all’aperto e lui stesso scrive in una lettera che durante le sue passeggiate trasformava
gli stati d’animo in note come i poeti li trasformano in parole: io non posso dirlo [dove traggo
le mie idee]con nessuna certezza: esse vengono a me da sole [..] io potrei quasi afferrarle con
le mani […] durante le mie passeggiate. La caratteristica della musica di Beethoven è la
“qualità di energia demoniaca” che tratti della sua personalità rivelano, presente in alcuni
passaggi come la chiusura del I movimento della quinta sinfonia. Essa è anche tenera e
malinconica e, infatti, assistiamo a cambiamenti bruschi di stati d’animo. Le sue opere
solitamente si suddividono in tre periodi:
- Il primo periodo dell’Imitazione va fino al 1802 e comprende i 6 quartetti per archi, le
prime dieci sonate per pianoforte e le prime due sinfonie;
- Il secondo dell’Estrinsecazione va fino al 1816 e comprende le sinfonie dalla terza
all’ottava;
- Il terzo della Riflessione comprende le ultime 5 sonate per pianoforte e la nona sinfonia.

1
In genere il Classicismo nella storia della musica è il periodo che succede al barocco e precede
l’avvento del romanticismo, in particolar modo esso dominò la musica europea tra il 1770 e il 1830 ed
ebbe il suo centro a Vienna.

44
Ludwig van Beethoven (1770 – 1827) è stato un compositore, pianista e direttore d'orchestra
tedesco. Appartenente ad una dinastia di contadini fiamminga, suo nonno fu il primo musicista della
famiglia, mentre il padre fu tenore nella cappella di Bonn. In questa città, dove nacque, proseguì i suoi
studi musicali sotto la guida di vari maestri. Nel 1784 entra a far parte dell’orchestra di corte come
violinista e, a seguito di buoni rapporti con l’elite culturale cittadina divenne maestro di pianoforte
entrando così in un contesto anche culturale molto importante che gli consentì di entrare in contatto con
le letture di Kant, Goethe, Schiller, ecc. riuscì a partire a Vienna per perfezionare i suoi studi e qui
ritornò nel 1792 stipendiato dall’arcivescovo e studiò con Haydn e Salieri. In questo periodo compone
Cantata in morte dell’imperatore Giuseppe II, celebrazione del mito settecentesco del sovrano
illuminato. A Vienna Beethoven rimase fino alla morte.
In questa città la sua bravura come pianista e soprattutto la sua fama di improvvisatore non tardarono ad
aprirgli le porte della nobiltà viennese. Questa, proprio alla luce del mecenatismo di aristocratici
illuminati sempre più attivo, consentiva proprio di avere un trampolino di lancio per le attività nelle
pubbliche sale da concerto e nell’allacciare rapporti con le case editrici.
Il ventennio compreso fra il 1795 (anno del suo primo concerto) e il 1815 (quando a causa della sordità
interruppe ogni attività di pianista e direttore) fu il periodo di maggior fortuna di Beethoven.
I primi sintomi della sordità iniziarono a manifestarsi intorno al 1798 e portarono alla lenta atrofia del
nervo acustico. La malattia lo portò a momenti di sconforto, ma allo stesso tempo dalle crisi il musicista
ne usciva grazie al suo ottimismo e l’amore ideale per l’umanità anche se i rapporti sociali ne risentirono
molto. La sua solitudine, oltre che alla malattia, era dovuta anche al modello di cultura offerto: una
borghesia commerciale nascente troppo lontana dagli ideali illuministi di Beethoven. Fino al 1795 B.
scrisse prevalentemente per strumento a tastiera, ma tra il 1790 al 1800 il suo interesse cominciò a
volgersi anche verso altri generi: la Cantata per la morte di Giuseppe II, il primo gruppo di quartetti per
archi. Dal 1800 e il 1815 la creatività dell’autore si orientò soprattutto verso le grandi forme del genere
sinfonico e concertante. Fu in questi anni che nacquero 7 della 9 sinfonie, dalla Seconda all’Ottava. Se
la seconda fase è quella in cui Beethoven è al vertice del successo, caratterizzata da chiaroscuri e da un
autentico romanticismo musicale; la terza fase è quella in cui l’artista cerca semplicità, l’essenza, si
tratta di uno stile metastorico, più propenso al futuro. Alla radice di questo divenire c’è il dualismo dello
spirito beethoviano: da un lato la tendenza al linguaggio musicale fine a se stesso sulla linea del
classicismo, dall’altra l’energia dirompente di una dialettica romantica degli opposti che ha fatto parlare
di un’eterna incompiutezza di Beethoven.
Nel sinfonismo beethoveniano convergono tre elementi: la pura meditazione in vista dell’assoluto
musicale, l’eroico che tende al conflitto tragico, l’incomprimibile vitalità spesso colorata d’ironia e di
divertimento. Dal punto di vista tecnico vi è l’uso di organici orchestrali poco numerosi, sobri e
variegati, che riescono a produrre, comunque, potenti effetti.
L’unico lavoro teatrale di Beethoven degno di nota è il Fidelio, dramma dell’amor coniugale che nella
prima nel 1806 ebbe un insuccesso, solo nel 1814 venne applaudita. Tra la produzione di Beethoven può
essere ricordata anche l’oratorio Cristo sul monte degli ulivi, La Messsa in do maggiore, le Bagatelle,
brevi pezzi pianistici.

E. T. A. HOFFMAN, La musica strumentale di Beethoven (dispense)


Hoffmann descrive Beethoven come compositore prettamente romantico, come colui che
possiede il genio romantico. La sua musica suscita sentimenti nostalgici perché muove le leve
del terrore, del brivido, del dolore. Il maestro (come Haydn ripetutamente lo definisce nel testo)
possiede la capacità di separare il “proprio io” dal mondo interiore dei suoni sui quali governa.

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Fra le opere che maggiormente esprimono questi sentimenti troviamo la sinfonia 5,
“impareggiabile” composizione, afferma Haydn, che trascina l’ascoltatore attraverso un
crescente clima di tensione. Il primo allegro consiste di due sole battute, il carattere ansioso è
accresciuto dal tema collaterale che sembra annunciare un’incombente catastrofe. Finché
sopraggiunge un altro tema melodioso “che fa luce nella notte”. Sono tutte frasi brevi di due, tre
battute al massimo e questo dovrebbe far pensare ad un pezzo frammentario o incomprensibile,
invece è proprio questa struttura, il ripetersi delle stesse frasi, degli stessi accordi a portare al
massimo grado quella sensazione di nostalgia. Il riferimento continuo al tema principale ci dice
quanto elaborato sia stato il concepimento dell’intera opera. Il tema principale riappare anche
nel Minuetto con un senso di inquietudine fino al tema finale dove tutta l’orchestra prorompe in
un inno di trionfo. Altra caratteristica fondamentale è che tutte le frasi musicali, la loro struttura
musicale, gli sviluppi, l’ordine in cui le idee si susseguono tendono ad un unico punto di arrivo.
Ma è l’affinità dei diversi temi che crea questa unitarietà e che sostiene l’ascoltatore per tutto il
tempo con un stesso stato d’animo.
Haydn apprezza molto i due trii opera 70 e considera Beethoven come uno dei pochi ad aver
compreso le più intrinseche peculiarità del pianoforte. Di certo è uno strumento adatto più
all’armonia che alla melodia propria delle sfumature dell’arco del violinista o del fiato di un
suonatore di flauto, di clarinetto o di corno. Per contro nessun altro strumento come il
pianoforte riesce a dare la pienezza degli accordi e dell’armonia e se si concepisse un quadro
musicale ricco di gruppi e di chiaroscuri solo un pianoforte potrebbe evocarlo. È lo strumento
ideale per l’improvvisazione, la lettura di partiture, l’esecuzione di sonate…
Anche nei trii, alla base di ciascun tempo Beethoven pone un tema semplice e cantabile, ma
costruito in maniera tale da prestarsi alle più svariate combinazioni contrappuntistiche,
abbreviazioni… tutte le altre idee e figurazioni secondarie sono intimamente affini al tema
cosicché il gioco strumentale si intreccia e si snoda in una forma unitaria.
Per eseguire con precisione e naturale disinvoltura le composizioni di Beethoven bisogna
capirle e addentrarsi fino in fondo, il vero artista vive per l’opera come l’ha concepita l’autore e
si guarda bene dal mettersi davanti con la propria personalità, solo così può far rivivere la forza
del maestro.

Ascolto 1.
Ludwig van Beethoven, Quinta sinfonia op.67, III movimento, Allegro.

In questo periodo Napoleone era di fatto il grande diffusore delle idee rivoluzionarie in Europa,
e nei paesi da lui sottomessi i sostenitori delle nuove idee lo accoglievano trionfalmente. Certi
aspetti dell’arte di quegli anni sono caratterizzati da immagini eroiche. L’attenzione e la
fantasia di Beethoven erano state molto attratte in quegli anni dagli avvenimenti francesi e dalle
idee rivoluzionarie, ed erano state scosse dal personaggio di Napoleone, prima amato da
Beethoven e poi avversato dopo la sua auto-proclamazione ad Imperatore. Agli ideali eroici
dell’epoca Beethoven aveva dedicato alcune opere, fra cui la Terza sinfonia, che fu

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soprannominata appunto “eroica”. Anche la Quinta appartiene allo stesso genere. Nei suoi 4
movimenti si delinea una sorta di vicenda narrativa: la caratterizzazione emotiva del primo
movimento (che si apre con il famoso tema che tutti oggi conoscono) è turbolenta, minacciosa,
inquieta; nel secondo movimento diventa meditativa e profonda; il terzo tempo, che
tradizionalmente era un minuetto, conserva, qualche mossa meno drammatica, ma non certo
ispirata alle danze dell’aristocrazia; il quarto movimento è, infine, una sorta di apoteosi gioiosa
e trionfale. La successione dei brani va dunque gradualmente sviluppandosi da un massimo di
incertezza e difficoltà a un massimo di sicurezza e di speranza. La sinfonia, come molte altre
delle 9 sinfonie di Beethoven, si chiude con un messaggio di fiducia mandato al suo pubblico,
con una proiezione ottimistica sul futuro. Normalmente Beethoven viene annoverato fra i
musicisti di stile “classico viennese”, per la chiarezza delle sue forme, che obbediscono ancora
ai principi di proporzione e di simmetria. Tuttavia il carattere delle sue composizioni è legata
agli entusiasmi delle nuove generazioni. In questo senso la sua figura appartiene più alla storia
dell’800 che non a quella del 700.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Il brano inizia con una introduzione misteriosa, con suoni profondi,
cupi. A questa introduzione si contrappone poco dopo un tema chiaro e ben definito. Il tema è
composto di 4 note che hanno la stessa cellula ritmica “pam-pam-pam-pàm” con accento sulla
quarta nota. In questo caso, però, le 4 note, diversamente dal primo tempo, hanno tutte la stessa
altezza. Dunque il terzo movimento inizia alludendo alle atmosfere tragiche del primo
movimento, ma la sua funzione si preciserà a poco a poco come totalmente diversa. La
successione fra i due temi si ripete 3 volte – schema: ab-ab-ab.
Nella tradizione settecentesca il terzo movimento di una sinfonia era un minuetto, Beethoven
nella seconda e nella terza sinfonia, aveva sostituito il minuetto con uno “scherzo”, cioè con
una composizione di tipo movimentato e fantastico. Nella Quinta il terzo tempo non è definito
né minuetto né scherzo; tuttavia di essi conserva la struttura formale standard che, (come nel
minuetto di Haydn) prevede una prima parte, una seconda parte totalmente diversa e una terza
parte che ripete la prima.
La terza parte inizia in modo ambiguo: l’ascoltatore “d’epoca” si aspetta che venga ripetuta
integralmente la parte prima, e così sembra accadere inizialmente. Tuttavia a poco a poco ci si
rende conto che le melodia sono già quelle inizialmente sentite, ma gli strumenti che le
presentano sono diversi: in particolare gli archi suonano pizzicando le corde (anziché usando
l’arco) e gli ottoni sono sostituiti dai “legni”. Inoltre la tessitura sonora, che nella prima parte
era compatta e robusta, qui è diradata e lieve. Il senso non è più quello di una grave marcia;
come se le intenzioni cupe che dominavano all’inizio, si allontanassero a poco a poco dalla
scena. Alla fine l’episodio fluisce direttamente nell’ultimo tempo della sinfonia che inizia
subito con un andamento trionfale e ottimistico in tonalità “maggiore”. Concludendo si può
dunque affermare che il Terzo tempo della Quarta sinfonia ha il compito di condurre
l’ascoltatore dalle atmosfere cupe con cui la sinfonia esordisce a quelle luminose con cui si
conclude.

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Franz Peter Schubert
Figlio di un maestro originario della Slesia, trascorse quasi tutta la sua vita a Vienna e nei dintorni. Nel
1808, grazie al suo talento, poté entrare a far parte del coro della cappella della corte imperiale.
Frequentò il seminario imperiale dove ricevette una buona istruzione. Nel 1813 lasciò la scuola per fare
pratica come insegnante, studiando composizione con Salieri. Durante i tre anni successivi insegnò nella
scuola del padre e compose i suoi primi lavori tra i quali 5 sinfonie, 4 messe e 4 opere teatrali. Fino al
1816 compose oltre 500 Lieder per voce e pianoforte, fra cui diversi sul testo di Goethe: Greta, Prima
perdita, Il re degli Elfi; mentre Il viandante è sul testo di Schmidt von Lueck. Lasciò la scuola quando fu
assunto come maestro di musica presso la famiglia del conte Esterházy. Ultima la Sinfonia in do
maggiore nel 1818, si tratta di un omaggio alla Sinfonia n.1 in do maggiore di Beethoven sia alla musica
di Rossini. Dopo l’incontro con il cantante lirico Vogl scrisse l’opera per il teatro di corte I gemelli che
venne rappresentata a giugno del 1820. Con Vogl andò in vacanza e in quell’estate videro la luce la
Sonata per il pianoforte in la maggiore, il Quintetto con pianoforte in la maggiore. Dagli anni 1820 al
1822 S. compose: Quartetto in do minore, Salmo 43 per voci femminili e pianoforte, Fantasia in do
maggiore, Sinfonia in si minore detta L’incompiuta.
Verso la fine del 1822 si ammalò di sifilide e nel 1823 dovette far fronte al naufragio delle sue speranze
operistiche perché Alfonso und Estella fu rifiutata dalla direzione dei teatri di corte.
Nel 1824 si dedicò alla musica da camera deciso ad emulare Beethoven. In questo periodo scrisse una
serie di capolavori tra cui: La morte e la fanciulla e Ottetto. Nel 1825 si mise al lavoro per realizzare un
progetto che accarezzava da anni, una sinfonia (Sinfonia in do maggiore), ma a causa della lunghezza
non venne apprezzata per molti anni. Negli ultimi tre anni di vita portò a termine numerosi Lieder:
Canto del cigno, Quintetto in do maggiore per archi, Fantasia, Messa. Il concerto del 1828 fu un
successo tanto che anche editori fuori da Vienne iniziarono a mostrarsi interessati e il Trio per
pianoforte in mi bemolle maggiore venne accettato per la pubblicazione.
Morì di febbre tifoidea nel novembre di quell’anno; venne sepolto nel cimitero di Wahring vicino a
Beethoven.

Ascolto 2.
Franz Schubert, Trio op.100, per violino, violoncello e pianoforte, II movimento,
Andante con moto (inizio).

Il genere del brano (Trio) indica appunto tre strumenti, quasi sempre strumenti ad arco; così il
genere “Quartetto” indica sempre quattro archi: due violini, viola, violoncello. In questo caso,
però, il titolo deve menzionare anche il pianoforte perché i tre strumenti non sono solo archi.
Questi generi musicali indicanti il numero degli strumenti si distinguono dal genere “Sonata”
che, nell’800, indica una composizione per uno strumento solo (quasi sempre il pianoforte) o al
massimo per due strumenti. Le composizioni per pochi strumenti costituiscono un particolare
tipo di repertorio indicato come “musica da camera”, perché inizialmente, fin dal 700, si
trattava di composizioni eseguite in case private e in luoghi di ridotte dimensioni. Schubert
compose questo trio nel 1828. Nel corso della sua vita coltivò sempre amicizie con un gran
numero di musicisti. Le sue musiche furono pensate proprio per l’esecuzione domestica, alla
presenza non solo di intenditori di musica, ma anche di persone, come i suoi amici,

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profondamente imbevuti di pensiero romantico. Ora la cultura era cambiata. Il rifugio nella
propria interiorità, il fascino del viaggio introspettivo, erano i nuovi campi di scoperta musicale.
Tra le composizioni degli ultimi anni di Schubert e, paradossalmente, non soltanto tra quelle, al
Trio in mi bemolle maggiore toccò la sorte rara di essere non solo eseguito (per ben due volte!)
mentre l'autore era ancora in vita ma anche di venir pubblicato prima della sua morte.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Il secondo movimento, Andante con moto, è in do minore e ha una
storia; Schubert si ispirò per il tema a un canto popolare svedese che aveva ascoltato dal tenore
Isak Albert Berg, durante una sua visita a Vienna nel novembre 1827, in casa delle sorelle
Fröhlich. Se lo spunto è popolare, l'oscillazione tra modo maggiore e modo minore che pervade
la melodia sembra quasi fatta per Schubert, se non nata da lui: e ancor più inquietante è ciò che
ne deriva: un accompagnamento in forma di marcia che dà alla melodia un andamento sinistro e
un colore cupo, dalla intensità dolorosa e ossessiva, esplodendo in una grandiosa Ballata di
terribile violenza emotiva. Perfino in Schubert abisso e ciclo hanno raramente spalancato tali
visioni di sublimi orrori. L'Andante con moto si apre con uno stentato ritmo di marcia, che ha in
sé qualcosa di funereo, su cui dopo due battute entra un tema di penetrante malinconia, ispirato
da un Lied del compositore svedese Isaac Berg: «Vedi, il sole declina». Al do minore di questa
prima parte si oppone il mi bemolle maggiore di un episodio di crescente esaltazione e questo
contrasto fra le due sezioni in minore e in maggiore si ripete, finché nella coda, in tempo Un
poco più lento, il tema sembra restare in sospeso. Lo Scherzo è invece brillante e pieno di
slancio e non conosce che qualche leggera e fugace ombra.

Fryderyk Franciszek Chopin (1810 –1849)


È stato un compositore e pianista polacco naturalizzato francese.Fu uno dei grandi maestri della musica
romantica, talvolta definito «poeta del pianoforte», il cui "genio poetico" è basato su una tecnica
professionale che è "senza eguali nella sua generazione." Bambino prodigio, crebbe in quello che fu
l'allora Ducato di Varsavia, dove ebbe modo di completare la sua formazione musicale. A seguito della
repressione russa della Rivolta di Novembre (1830), all'età di 20 anni si trasferì a Parigi nel contesto
della cosiddetta Grande Emigrazione polacca.
Durante gli ultimi diciotto anni della sua vita, diede solo circa trenta spettacoli pubblici, preferendo
l'atmosfera più intima dei salotti. Visse e si mantenne grazie alla vendita delle sue composizioni e con
l'insegnamento del pianoforte, per il quale la domanda era consistente. Chopin fu in amicizia con Franz
Liszt e fu ammirato da molti dei suoi contemporanei, tra cui Robert Schumann. Nel 1835 ottenne la
cittadinanza francese. Gran parte delle composizioni di Chopin vennero scritte per pianoforte solista; le
uniche significative eccezioni sono i due concerti, quattro ulteriori composizioni per pianoforte e
orchestra, e la Sonata op. 65 per pianoforte e violoncello. Scrisse anche alcune composizioni di musica
da camera e alcune canzoni su testi polacchi. Il suo stile pianistico fu altamente individuale e spesso
tecnicamente impegnativo, ma mantenendo sempre le giuste sfumature e una profondità espressiva. Egli
inventò la forma musicale nota come ballata strumentale e addusse innovazioni ragguardevoli alla
sonata per pianoforte, alla mazurca, al valzer, al notturno, all'improvviso, allo scherzo e al preludio. Le
influenze sul suo stile compositivo includono la musica popolare polacca, la tradizione classica di
Johann Sebastian Bach, Wolfgang Amadeus Mozart, Ludwig van Beethoven e Franz Schubert, come
quella dei salotti parigini ove era ospite frequente. Le sue innovazioni nello stile, nella forma musicale e

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nell'armonia e la sua associazione della musica con il nazionalismo, sono stati influenti in tutto il
periodo romantico e anche successivamente.

Ascolto 3.
Fryderyk Chopin, Studio n.6, dai Dodici studi op.25

Nell’800 il pianoforte ha un ruolo dominante, la sua possibilità di ottenere infinite sfumature


dinamiche di piano e forte in maniera semplice, cioè utilizzando il dito con maggiore o minore
energia era stato considerato un meccanismo così ingegnoso da dare il nome allo stesso
strumento. Un’altra qualità inedita era costituita dalla potenza del suo suono. Nell’800
cominciarono ad andare di moda i cosiddetti “fogli d’album” contenenti pagine di musica
piacevole. Nel catalogo delle opere di Chopin figurano ad esempio: Ballate, Mazurche, Valzer.
Chopin era nato in Polonia nel 1810 da padre francese e dal 1831 visse sempre a Parigi, con
grande nostalgia per il paese nativo, che era stato occupato dai russi e nel quale non tornò più.
Era stato un fanciullo prodigio sia per la composizione sia per il pianoforte, e negli anni Trenta
era già un musicista affermato.
GUIDA ALL’ASCOLTO: L’esercizio tecnico che Chopin propone è quello delle doppie note
in intervallo di terza, affidate alla mano destra del pianista (quella che suona le note più alte).
Per suonare la melodia il pianista è costretto da questo esercizio a usare non un dito, ma due
dita , e due dita non contigue, es pollice e medio. Se si ascoltala velocità con cui le note acute si
susseguono, si può avere una misura dell’abilità richiesta all’esecutore. L’ascolto è formato da
strati che costituiscono la sua tessitura sonora. C’è uno strato superiore (quello della mano
destra) e ci sono due strati inferiori (eseguiti dalla mano sinistra): uno basso e uno intermedio.
- Strato superiore: la melodia delle doppie note inizia con qualche esitazione e poi a poco a
poco si sviluppa e sale fino a un culmine acuto.
- Strato intermedio: compare nel momento in cui la melodia superiore sta raggiungendo il
suo culmine: è costituito da una melodia discendente irrobustita da accordi.
- Basso: si sente dall’inizio con coppie di note ben sonore e più volte ripetute.
L’insieme espressivo è basato sulla contrapposizione fra la mano destra sempre irrequieta e
volante, di ritmo agitato, e la mano sinistra sempre stabile e seria di ritmo più grave e costante.
Questo andamento contrapposto resta uguale per tutta la composizione. La forma del brano è
semplice: il tema del primo episodio viene esposto per 4 volte e ogni esposizione è collegata
alla successiva mediante lunghi episodi di connessione. I collegamenti fra un’esposizione e
l’altra sono simili ma mai uguali.

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Argomento 8: L’Ottocento popolare
- Gioacchino Rossini, duetto “Pace e gioia” dal secondo atto de Il barbiere di Siviglia.
- Verdi, Il Quartetto nel Rigoletto
- Un estratto da : Johann Strauss, Kaiserwalzer, (Valzer dell’Imperatore) op.437

TTOCENTO POPOLARE: La musica romantica era legata a un gruppo sociale


definibile e colto. Si diffusero anche altre musiche per altre persone: il folklore musicale
tramandato oralmente e musiche stampate da molti editori che avevano un vasto mercato a cui
rivolgersi. Nel secolo precedente c’era il vincolo aristocratico e i musicisti di valore come
Beethoven per sopravvivere si legavano ad una famiglia che nel suo caso era viennese e gli
concesse un vitalizio a patto di non lasciare Vienna; per altri come Schubert fu difficile sbarcare
il lunario. Il vincolo divenne quello del mercato che funzionava in termini quantitativi:
bisognava vendere molto e tenere conto delle richieste degli ascoltatori. Il 1848 è un anno di
profondi cambiamenti sia dal punto di vista politico-sociale che musicale. Sorge la figura
dell’editore che commissionava opere ai compositori corrispondendoli solo più tardi con diritti
d’autore e noleggiandone le partiture ai teatri. Verdi risente di questi cambiamenti e dopo aver
raggiunto un certo successo il suo ritmo di produzione rallentò. I generi rivolti a un pubblico
più basso sono il teatro d’opera, il virtuosismo e la musica da ballo. L’opera godeva di un
pubblico molto vasto così da poter sopravvivere con i propri mezzi; anche il virtuosismo
permetteva di ottenere successi di pubblico e altrettanto guadagno. L’opera italiana era ritenuta
un’opera popolare per questo motivo non veniva considerata dai musicisti della tradizione
romantica in quanto genere commerciale. Era lontana dai canoni di musica pura (come
Hoffmann descriveva le sinfonie di Beethoven) che si reggeva sola senza racconti o altro e con
finalità esclusivamente estetiche. L’altro genere ritenuto inferiore era la musica da ballo, ma è
pur vero che non doveva sollecitare interessi estetici, ma stimolare solo la gente a ballare. Nella
Vienna dell’Ottocento, tuttavia, alcuni compositori seppero riunire entrambe le caratteristiche
estetiche e del ballo, ad esempio nel Valzer viennese.

Ascolto 1.
Gioachino Rossini, duetto “pace e gioia” dal secondo atto de Il barbiere di
Siviglia

Rossini, Gioacchino (Pesaro 1792 - Passy, Parigi, 1868). Figlio di un suonatore di trombetta e di
un buon soprano, a Lugo cominciò a profittare degli insegnamenti (clavicembalo e canto) di don
Giuseppe Malerbi, finché a Bologna (circa alla fine del 1804) fu affidato al noto maestro A. Tesei,
allievo di S. Mattei. Qui egli divenne abile suonatore di viola e ottimo accompagnatore al cembalo. Nel
1806, iscritto al liceo musicale bolognese, vi completò gli studî nel violoncello, nel pianoforte e nel
contrappunto. Già componeva, intanto, le prime musiche, tra le quali si ricorda la cantata Il pianto
d'Armonia sulla morte d'Orfeo (1808) per la chiusura dell'anno scolastico, e le arie per un Demetrio e
Polibio, che fu allestito soltanto nel 1812. Ma già prima di allora egli aveva fatto rappresentare altre

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opere, scritte dal 1810 al 1812, e cioè da quando aveva abbandonato il conservatorio (lasciando
incompiuti gli studî di composizione) per lavorare per impresarî. La prima fu la farsa in un atto La
cambiale di matrimonio (Venezia, 1810); seguì, nell'autunno 1811 a Bologna, l'opera L’equivoco
stravagante, da cui R. trasse poi pagine per La pietra di paragone. Il 1812 iniziò per R. con una nuova
farsa, L’Inganno felice, applaudita a Venezia nel gennaio, e proseguì con l’opera seria (impropriamente
chiamata oratorio) Ciro in Babilonia, rappresentata con scarso successo a Ferrara, con la poco fortunata
farsa La scala di seta (Venezia, 5 maggio), con la prima rappresentazione del Demetrio e Polibio
(Roma, 18 maggio), con La pietra di paragone (Milano, 26 sett.), melodramma giocoso che si può dire
“rivelò” il genio rossiniano, conquistando l'entusiasmo del pubblico per oltre 50 repliche. Sempre del
1812 è la farsa L’occasione fa il ladro (Venezia, 24 nov.), non molto fortunata nonostante la sua reale
vivacità e grazia. Tra l'altro vi si nota il caratteristico procedimento, eternato poi dal Barbiere, di
affidare alla voce un semplice declamato mentre l’orchestra ricama un’agile melodia. Nel 1813 si dette a
Venezia un’altra farsa: Il Signor Bruschino ovvero il figlio per azzardo, che ancora oggi si rappresenta
con successo. Grandi entusiasmi destò la nuova opera seria di R.: il Tancredi (“melodramma eroico”,
rappresentato a Venezia il 6 febbr. dello stesso anno), nel quale R., irrobustendo la propria scrittura
musicale e manifestando ormai una completa maturità tecnica, nonché conferendo all’opera seria
un’inconsueta snellezza grazie alla limitazione dei recitativi a vantaggio dei pezzi d'insieme, mostrava di
avviarsi a conquistare la preminenza sul gusto musicale europeo. La stessa importanza che nel genere
serio ha il Tancredi può essere riconosciuta, nel genere comico, alla nuova opera di R., L’Italiana in
Algeri, rappresentata a Venezia il 22 maggio 1813. Né lo scarso successo di alcune opere dal 1813 al
1814 (Aureliano in Palmira, seria, Milano, 26 dic. 1813; Il Turco in Italia, buffa, Milano, 14 ag. 1814;
Sigismondo, seria, Venezia, 26 dic. 1814) riuscì a menomare tale fiducia nel compositore. Questi intanto
riceveva dall'impresario D. Barbaja la direzione dei teatri napoletani di S. Carlo e del Fondo, con
l’obbligo di scrivere due opere l’anno. R. andò a Napoli, e qui ben si adattò all'ambiente teatrale della
città (dove tra i cantanti primeggiava Isabella Colbran, sua futura moglie), conquistando subito, con
l’Elisabetta regina d'Inghilterra (seria; 4 ott. 1815), l'entusiasmo generale. Della facoltà, concessagli dal
contratto con Barbaja, di comporre anche opere per altre città, R. si giovò per rappresentare a Roma, tra
l'altro, Torvaldo e Dorliska (seria; 26 dic. 1815), poco fortunata, e un’opera comica commissionatagli
per l'Argentina il 15 dic.: Almaviva ossia l'inutile precauzione. Questo Almaviva non era altro che il
Barbiere di Siviglia, il cui titolo era stato così mutato per rispetto al Barbiere di G. Paisiello, il vecchio
glorioso maestro, allora ancora vivente. L’esito dell'opera fu disastroso alla prima rappresentazione (20
febbr. 1816) ma migliorò assai nelle repliche, e il nuovo Barbiere passò presto, acclamato, in tutti i teatri
d'Italia. La partitura fu scritta in una ventina di giorni e, contrariamente a quanto dissero alcuni, non
contiene musica d’altri maestri. Qua e là però compaiono spunti di altre opere rossiniane e la sinfonia
che oggi si conosce è quella dell’ Areliano in Palmira (poi trasmigrata anche nell’Elisabetta), mentre
quella composta (su temi spagnoli) per il Barbiere è andata poi perduta. Tornato a Napoli, R. dette
subito due nuove opere: La Gazzetta (comica; 25 sett. 1816), ben presto caduta in un meritato oblio, e
Otello, ossia il moro di Venezia (seria; 4 dic. 1816), stupenda affermazione del genio rossiniano che
procurò un nuovo trionfo ai cantanti (Colbran, Nozzari) e all’autore. Il 25 genn. 1817 R. dette al Teatro
Valle di Roma La Cenerentola, miracolo (e anche questa composta in pochi giorni) non inferiore al
Barbiere per pregi musicali, per quanto su libretto poco consistente in confronto a quello, eccellente,
dell’altra opera. L’insuccesso alla prima andò poi mutando fino al trionfo. Da Roma R. passava a
Milano, facendovi applaudire un altro capolavoro, La Gazza ladra (semiseria; 31 maggio 1817). Tornò
quindi a Napoli, e vi dette un’Armida (eroica; 11 nov. 1817) accuratamente elaborata ma non bene
accolta e tornata con successo sulle scene nel sec. 20° dopo un periodo d'oblio. Altro insuccesso, quello
della seria Adelaide di Borgogna ovvero Ottone re d’Italia (Roma, 27 dic. 1817). Poi, alternando periodi

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di faciloneria con altri di coscienzioso impegno, compì un notevole passo verso la dignità e la coerenza
drammatica con l’ “azione tragico-scenica” del Mosè in Egitto (seria; Napoli, 5 marzo 1818). Seguì un
nuovo periodo di lavori mediocri, alcuni dei quali però fortunati all’epoca: Adina o Il Califfo di Bagdad
(comica; rappr. a Lisbona solo nel giugno 1826); Riccardo e Zoraide (seria; Napoli, 3 dic. 1818),
applauditissima; Ermione (seria; Napoli, 27 marzo 1819), caduta nonostante la presenza di un potente,
drammatico finale; Edoardo e Cristina (seria; Venezia, 24 apr. 1819), applaudita. Importante è invece
La donna del lago, opera seria composta sulla trama dell'omonimo romanzo di W. Scott, nella quale R.
entra per la prima volta in contatto con il romanticismo europeo. Non compresa alla prima
rappresentazione (Napoli, 24 sett. 1819), divenne poi, ben presto, popolarissima. Mediocre una Bianca e
Falerio (seria), rappresentata a Milano il 26 dic. 1819, mentre un Maometto II (seria; Napoli, 3 dic.
1820), pur non molto applaudito, segnava un progresso notevole nella via della dignità drammatica e
dell'autorevolezza concettuale. A Roma seguiva, con esito contrastato, una Matilde di Shabran (seria; 24
febbr. 1821). Ed ecco le ultime musiche per Napoli: due cantate e l'opera Zelmira (16 febbr. 1822), il cui
grande successo si rinnovò nelle numerose repliche in tutta Italia e in quella Vienna (1822) ove R. si
recò dopo aver celebrato le nozze con Isabella Colbran. Anche a Vienna R. si conquistò gli animi.
Tornato in Italia, la sua fama europea ebbe una consacrazione ufficiale nell'invito a Verona (dic. 1822)
per dare le sue musiche alla solennità del Congresso delle Nazioni. Nacquero così quattro cantate ( Il
vero omaggio; L’augurio felice; La sacra alleanza e Il Bardo). Seguì l'ultima opera italiana di R.:
Semiramide (seria; Venezia, 3 febbr. 1823), nuovo saggio nel genere storico e nella concezione
grandiosa del Mosè, che disorientò sulle prime il pubblico, ma non tardò ad assicurarsi universale
successo. Nell'ottobre 1823 i coniugi R. partirono per Parigi e vi si trattennero per un mese, proseguendo
poi per Londra dove li chiamava un contratto col King's Theatre e vi rimasero circa sei mesi tra il favore
della corte e l'entusiasmo del pubblico. Per Londra R. non scrisse nulla di nuovo, tranne una cantata Il
pianto delle Muse in morte di Lord Byron. Ritornato da Londra in possesso di una fortuna ormai
notevole, il maestro si stabilì a Parigi quale direttore della musica e della scena al Teatro Italiano. Il 19
giugno 1825 egli dette una piccola opera di circostanza, Le voyage à Reims, per festeggiare
l'incoronazione di Carlo X (la musica di quest’opera verrà trasfusa in Le comte Ory). R. mirava ormai,
liberato com’era da ogni preoccupazione e da ogni scadenza, a scrivere a modo suo, elaborando
attraverso successivi saggi uno stile nuovo che non s’accontentasse soltanto della brillante e fitta
successione di arie e concertati, ma assicurasse allo spettacolo una continuità drammatica,
un’omogeneità di colore e d'ambiente, secondo quanto avevano mostrato, un tempo, i lavori di C. W.
Gluck e ora l’Olympia di G. Spontini e il Freischütz di C. M. von Weber. Primo tentativo in questo
genere fu Le siège de Corynthe (trasformazione del Maometto II, 9 ott. 1826). Dopo quest'opera lasciò le
sue cariche per quelle di compositore di Sua Maestà e ispettore generale del canto. Nel 1827 diede un
rifacimento del Mosè (Moïse et le pharaon), riportando un vero trionfo. Ma l’opera nuova, che il
pubblico parigino sempre più ansiosamente richiedeva, non venne che con Le comte Ory. In quest'opera
comica, che trionfò all'Opéra il 20 ag. 1828, non vi è più la comicità irresistibile del Barbiere, ma
piuttosto un sottile umorismo, un’arguzia diffusa, eleganza, continuità espressiva; qualità che avranno
influenza incalcolabile su tutta la scuola ottocentesca dell’opera francese. Seguì l'anno dopo (prima
rappresentazione, 3 ag. 1829) il Guillaume Tell, di cui De Jouy gli aveva preparato il libretto: anche i più
accaniti antirossiniani, come J. F. Fétis, H. Berlioz ed altri, riconobbero la bellezza e l'enorme
importanza del capolavoro. Questo Tell, con cui R. pareva essersi impadronito di uno stile nuovo, adatto
all’ambiente e ai tempi, fu l’ultima opera lirica che egli scrisse. Più che l’avversione per il nuovo gusto
musicale che si veniva formando, sembra che veramente una naturale indolenza, unita a molte fastidiose
contrarietà pratiche e allo stato precario della sua salute (nel 1831 R. era stato colpito da una grave
forma di esaurimento nervoso), abbia fatto svanire a poco a poco nel maestro quello stato di tensione

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creativa in cui le necessità l’avevano fino allora tenuto: egli si limitava ormai a buttar giù brevi pagine
umoristiche per canto o per pianoforte (Soirées musicales, 1835) o si dedicava a cesellare, con una
calma e una accuratezza che l’agitata vita operista non gli aveva mai consentito, due capolavori: lo
Stabat Mater e la Petite Messe solennelle. Dopo il Tell, R. venne per qualche tempo in Italia, sostando a
Milano e a Bologna, ovunque acclamatissimo. Intanto però la caduta di Carlo X veniva a complicare la
sua situazione a Parigi, e soltanto grazie a lunghe liti e peripezie egli riusciva, perdendo ogni carica
ufficiale, ad ottenere la dovuta pensione. Da quel momento la vita di R. si può dividere in quattro
periodi: il primo dal 1829 al 1836, in cui egli visse solo a Parigi e iniziò lo Stabat Mater. Si era intanto
diviso dalla Colbran per convivere con Olimpia Pélissier, preziosa e fedele compagna, che avrebbe
sposato il 16 ag. 1846, poco dopo la morte della Colbran (7 ott. 1845). Il secondo periodo, dal 1836 al
1848, R. tornò in Italia, stabilendosi a Bologna, occupandosi seriamente del liceo musicale bolognese e
completando lo Stabat che, a Parigi nel genn. 1848, e a Bologna (direttore G. Donizetti) nel marzo
seguente, rinnovò l'entusiasmo europeo per il suo genio. Veniva intanto acuendosi la reciproca
incomprensione tra il vecchio maestro e i nuovi spiriti liberali e patriottici, incomprensione che si
esasperò nel 1848 fino a determinare manifestazioni contro di lui e in conseguenza la sua fuga a Firenze.
Dal 1848 al 1855 si svolse il terzo periodo, appunto "fiorentino": periodo rattristato specialmente
dall'aggravarsi delle infermità, per curare le quali R. tornò a Parigi, dove rimase dal 1855 in poi.
Migliorate le sue condizioni fisiche, R. poté assumere a Parigi quella posizione di incontrastato prestigio
che tenne fino alla morte, attorniato, nella sua villa di Passy, dalla reverenza di tutti. Placate le invidie e
le rivalità, egli viveva ormai della sua gloria, assistendo all'universale omaggio che tutti i musicisti gli
tributavano: non ultimi, i più giovani e ambiziosi rivoluzionarî, quali Wagner e Berlioz. L'esecuzione, in
sede privata, della sua ultima composizione d'impegno, la Petite Messe solennelle (marzo 1864), si
risolse in un commovente tributo d'ammirazione dei maggiori musicisti francesi del tempo, Meyerbeer,
Gounod, ecc. Dall’Italia gli giungevano parimenti omaggi e inviti: tra l’altro, il ministro E. Broglio, in
una lettera del 1868, lo invitava a presiedere una “Società rossiniana” per apportare un miglioramento
alla situazione dell’opera lirica in Italia. Poco dopo, aggravatasi nuovamente la sua salute, moriva la sera
del 13 nov. 1868 ed era sepolto al Père-Lachaise, donde la salma fu poi riportata in Italia nel 1887 e
tumulata in Santa Croce a Firenze.
L’arte di R. seppe rinnovare il teatro musicale italiano e contribuì largamente a rinnovare anche quello
europeo, che con W. A. Mozart, D. Cimarosa, G. B. Paisiello era giunto all’ultima, suprema espressione
della raffinata e delicata sensibilità settecentesca. La rivoluzione operata da R., trionfante fin dalle opere
giovanili ovunque queste apparissero, significò l’avvento di un teatro assai diverso: uno stile dinamico e
semplice, un’ispirazione ritmica d’irresistibile slancio, un tono luminoso e caldo, riuscirono ad attirare in
teatro un nuovo pubblico: quello delle masse del popolo, imponendosi alla sua ingenua spiritualità con la
forza di uno dei grandi fenomeni della natura. Sulle sue orme procedettero in Italia tutti gli operisti, da
V. Bellini a G. Verdi, in Francia gli operisti da D.-F.-E. Auber a J. Meyerbeer, mentre nei paesi tedeschi
gli stessi oppositori, come per es., Weber, finirono col subire la sua influenza.

Nel 700 lo spettacolo d’opera all’italiana si configurava in 2 categorie distinte:


- L’opera che i musicologi chiamano “seria”
- L’opera che chiamano “comica”
Quest’ultima era nata a Napoli sull’onda del teatro popolare napoletano. Le trame raccontavano
storie di vita quotidiana, erano commedie, e i cantanti erano cantanti-attori e non virtuosi del
bel-canto. Dopo l’esordio napoletano l’opera comica trova sviluppi favorevoli in Venezia e
verso la metà del secolo varca i confini italiani. Nell’opera comica c’era maggior varietà

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musicale: i pezzi forti non erano costituiti solo da arie solistiche, ma anche da duetti, terzetti.
Pezzi d’insieme. In secondo luogo, anche durante i pezzi musicalmente più impegnativi
l’azione continuava: ad esempio nell’aria di Handel il protagonista manifesta i suoi sentimenti e
l’azione momentaneamente si interrompe per lasciargli spazio, mentre ciò accade molto più
raramente nell’opera comica. In questo brano di Rossini i due attori dialogano fra loro e
l’azione si sviluppa durante la loro discussione: l’abilità dei compositori consiste proprio nel
comporre musiche ben calzanti per l’azione scenica che devono sostenere.
La storia del Barbiere di Siviglia, è ispirata a un famoso ciclo di commedie di Beaumarchais
che avevano destato scandalo nella Francia pre-rivoluzionaria perché trattavano i costumi
aristocratici con poco rispetto e spesso li mettevano in ridicolo. Il protagonista di queste
commedie era Figaro, un servo intelligente e coraggioso che si dimostrava sempre più abile dei
suoi padroni. In questo caso Figaro è un barbiere che aiuta il giovane conte d’Almaviva a
sedurre e poi a sposare una fanciulla orfana e non nobile che per contratto era legata ad un
vecchio e ridicolo tutore del quale essa voleva liberarsi. Durante la commedia, la fantasia di
Figaro si scatena per creare le situazioni più impensabili che permettano ai due giovani di
incontrarsi. In questo caso Almaviva si traveste da prete e finge di essere un maestro di musica
mandato dal maestro vero a dar lezioni alla ragazza.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Il ritmo e la gestualità in questo brano sono le cose più significative
perché riescono a mettere subito in rilievo i tratti fondamentali dei due personaggi: la soave
lentezza del falso prete e l’inquietudine del vecchio tutore geloso. Le frasi indicate nel testo tra
parentesi sono quelle che i due personaggi pensano senza dirle forte: dal punto di vista musicale
i cantanti le pronunciano veloci, con un effetto comico che molto spesso si trova nel teatro di
Rossini. Non si tratta solo di velocità della pronuncia. O ritmo musicale, ma anche dei profili
d’altezza. Basta osservare la differenza fra le battute per così dire esterne (“Gioia e pace”) e
quelle interne (“questo volto non m’è ignoto”). Le esterne, oltre che lente, sono anche di altezza
costante: le prime 6 sillabe del conte (gio-ia e pa-ce sia- con ) vengono pronunciate su una nota
sola e le ultime due aggiungono alla nota una piccola graziosa inflessione ascendente quasi a
sottolineare il significato di “voi”. Quelle interne invece, oltre che rapide sono anche di profilo
irrequieto e incostante: procedono prima discendendo rapidamente, poi salendo o oscillando e
così via. I due personaggi parlano a se stessi in modo molto diverso da come parlano al proprio
interlocutore.

L’opera italiana nell’Ottocento: Giuseppe Verdi (dispense)


Il 1848, anno di crisi politico-sociale in tutta Europa, portò molti cambiamenti sia nel mercato
operistico che nella vita di G. Verdi (1813-1901). Innanzi tutto ci furono interventi della
censura che inasprirono anche nel Lombardo-Veneto. In secondo luogo, la crisi economica di
que3gli anni avviò al tramonto il sistema impresariale fino ad allora dominante, facendo
nascere una nuova figura, quella dell’editore. Quest’ultimo commissionava le opere ai
compositori, noleggiandone le partiture ai teatri, così facendo per ogni ripresa di un’opera

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accrescevano i guadagni di editore e compositore. Anche Verdi risentì di questa mutata
atmosfera: il suo ritmo di compositore rallentò anche perché ormai famoso aveva raggiunto una
solida indipendenza economica.
Dal 1850 in poi la trilogia Verdiana di Il trovatore, La traviata (Venezia 1853) e Rigoletto
(Venezia, 1851) non hanno più abbandonato i teatri di tutto il mondo.
Nel 1855 Verdi scrisse una nuova grande opera, si tratta de Les vépres siciliennes (Parigi, 1855)
per l’Opéra di Parigi a cui seguirono Boccanegra, Un ballo in maschera. Negli anni ’60 scrisse
altre tre importanti opere: La forza del destino (S. Pietroburgo), Don Carlos (Parigi, scritta in
francese nei canonici 5 atti), Aida (Il Cairo, 1871). Seguirono anni in cui Verdi, oltre che a
prendersi cura e ad ampliare la propria tenuta di S. Agata, lavorò intensamente alla
rielaborazione di opere precedenti tra cui il Don Carlos in edizione italiana (4 atti)
rappresentata a Milano nel 1884 e poi un Macbeht rappresentato a Parigi 1865. Alla morte di
Rossini scrisse una Messa da Requiem con l’intento di rendere omaggio con altri compositori
allo scomparso, ma tale esecuzione non ebbe mai luogo e tale Requiem fu completato ed
eseguito a Milano nel 1874 in memoria di Alessandro Manzoni.
Negli ultimi anni compose: un dramma lirico Otello basato sulla tragedia shakespeariana,
Quattro pezzi sacri (1898): un Ave Maria, le Laudi alla Vergine Maria, un Te Deum e uno
Stabat mater.

Ascolto 2. Verdi
“Il Quartetto nel Rigoletto” (Gilda, Maddalena, Duca e Rigoletto)

RIGOLETTO:
Opera in 3 atti, su libretto di F.M. Piave, tratto dal romanzo di V. Hugo, Le roi s’amuse. Prima
rappresentazione Venezia, teatro la Fenice 1851. È la prima opera della trilogia popolare. La
censura vietò che un re si presentasse come un cinico libertino e fu chiesto a Verdi di cambiare
il protagonista Francesco I di Francia con un anonimo duca di Mantova. Allora ,Verdi, fece
protagonista il buffone del re: Rigoletto. Gli altri personaggi sono: Sparafucile, Gilda, il duca di
Mantova, il cavaliere Marullo, Maddalena.
TRAMA:
Atto I
Scena I: ci troviamo nel ducato di Mantova in epoca rinascimentale. Il Duca di Mantova dà una festa e si
allontana con la Contessa di Ceprano. Rigoletto, il gobbo buffone di corte, si fa beffe della gelosia del
Conte di Ceprano. Nel frattempo Marullo, un cavaliere, rivela agli invitati di aver scoperto che Rigoletto
ha un'amante (in realtà è la figlia tenuta da lui nascosta in casa in particolare dal duca). Arriva il duca di
Monterone accusando il Duca di aver sedotto sua figlia. Rigoletto si fa beffe del vecchio che viene
arrestato e maledice il buffone. Rigoletto ha una figlia, di nome Gilda, che egli tiene lontana dal duca
libertino.
Scena II: Rigoletto sta per entrare in casa, ancora scosso dalla maledizione di Monterone quando viene
avvicinato da un assassino di professione, Sparafucile, che gli offre i suoi servigi. Il buffone lo congeda,
ripromettendosi di cercarlo in caso di necessità. Rigoletto ordina alla figlia e alla cameriera Giovanna di
non aprire a nessuno ed esce. Il Duca, travestito da studente, con la complicità di Giovanna entra in casa

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e dichiara alla fanciulla il proprio amore. Poi qualcuno si avvicina ed il duca fugge, Gilda però se n’è
innamorata e desidera rivederlo. Giungono Marullo e i cortigiani intenzionati a portar via al buffone
colei che credono essere la sua amante. Rigoletto li scopre, ma essi gli fanno credere di voler rapire la
figlia di Ceprano; il buffone si offre di aiutarli. Rigoletto è bendato, e ignaro di tutto regge la scala
contro il muro della propria casa: i cortigiani hanno così via libera per rapire Gilda e solo dopo che se ne
sono andati il buffone scopre l'amara verità.

Atto II
Gilda è prigioniera nel palazzo del duca. Rigoletto, intanto, cova la sua vendetta. Quando Gilda irrompe
in scena e gli racconta, piangendo, di essere stata sedotta, il buffone, pazzo di dolore, giura di uccidere il
Duca, mentre Monterone si avvia al patibolo.
Atto III
Rigoletto ha portato Gilda alla locanda per fargli scoprire l'infedeltà dell'amato. All'arrivo del Duca, i
due si nascondono. Il Duca intona una romanza sull'incostanza delle donne, corteggiando nel frattempo
Maddalena, sorella di Sparafucile. Rigoletto convince la figlia a partire per Verona, dove intende
raggiungerla il giorno dopo. La giovane parte, mentre il buffone assolda Sparafucile per uccidere il
Duca, Maddalena riesce a persuadere il fratello a risparmiare il bel giovane che si è ritirato in una stanza
per riposare. Maddalena ha adescato la vittima, ma incapricciatasi del Duca, induce il fratello ad
uccidere la prima persona che entrerà nella locanda per consegnare il cadavere a Rigoletto. Nel
frattempo Gilda, che in abiti maschili è ritornata per continuare ad osservare quello che avviene
all'interno della locanda, ha udito la conversazione e decide di sacrificarsi per salvare il Duca. Entra così
nella stanza e lì viene pugnalata da Sparafucile. Arriva Rigoletto: si fa consegnare il cadavere in un
sacco e trionfante lo trascina verso il fiume, ma si ferma quando sente la voce del Duca che canta in
lontananza. Il buffone apre il sacco e con orrore scopre che dentro c'è sua figlia. Gilda spirando chiede
perdono al padre il quale grida contro la maledizione che si è avverata.
Il quartetto “Bella figlia dell’amore” si trova nel terzo atto dell’opera.
Il brano è costituito da due tempi: un Allegro (tempo d’attacco) e un Andante (cantabile),
entrambi in forma bipartita. La scena introduttiva manca e si inizia subito, in media res con un
tempo d’attacco basato sul dialogo fra Maddalena e il Duca, mentre Gilda osserva da una
fenditura nel muro la scena e interviene con brevi interiezioni di dolorosa e sdegnata sorpresa e
Rigoletto fa sentire la sua voce alla fine, che conduce al quartetto vero e proprio:” e non ti basta
ancor”. In Rigoletto si assiste a una schermaglia di bassa galanteria. Maddalena astuta e
provocante fa la ritrosa, mentre il duca sta alle regole del gioco ostentando una plateale opera di
seduzione.
Il quartetto ha inizio con un cantabile del duca: “bella figlia dell’amore”, con moto
ascensionale, il canto si carica di un’ostentazione melodica che esprime tutta l’opera seducente
del duca, ostentazione che si sottolinea nella cadenza sulla parola palpitar. La risposta di
Maddalena è deridente e si lega a quella di Gilda che è discendente con un ritmo spezzato,
come di pianto e all’intervento di Rigoletto (taci il piangere non vale). Ecco la ripresa di “bella
figlia dell’amore”, Maddalena ogni due battute ripete la sua frase irridente, e Rigoletto e Gilda
procedono con un canto largo e ordinato. Le quattro voci seguitano con varie armonie. Il duca
continua ad amoreggiare con Maddalena mentre Rigoletto promette alla figlia vendetta. Il canto

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del soprano è spezzato, comincia pianissimo insieme a quello degli altri, va crescendo e diventa
fortissimo, poi di nuovo pianissimo e fortissimo chiudendo di nuovo spezzato.
La caratteristica consiste non solo nel far intervenire i quattro personaggi in maniera sincronica
uno dopo l’altro e poi successivamente cantano insieme (due sono fuori la casa e due dentro),
ma anche nel conferirgli in base alla caratterizzazione melodica a ciascuno una propria identità
drammatica: la foga erotica del duca, le risate sprezzanti di Maddalena, il pianto dirotto di
Gilda, il furore represso di Rigoletto. I 4 stati d’animo dei personaggi sono percepibili
nell’ascolto: - il duca corteggia Maddalena, - Gilda è innamorata del Duca,- Rigoletto sta nel
registro basso e grida vendetta.

Ascolto 3.
Un estratto da Johann Strauss, Kaiserwalzer (Valzer dell’Imperatore) op.437

Johann Strauss ( 1825 –1899) è stato un compositore e direttore d'orchestra austriaco figlio
dell'omonimo compositore Johann Strauss.
Johann Strauss figlio è principalmente noto per la sua attività di compositore di musica da ballo e di
operette. Suoi fratelli furono i compositori Josef ed Eduard Strauss. Johann Strauss è stato il più celebre
membro di una famiglia di musicisti che, per quasi un secolo, dominò le scene musicali viennesi. La sua
fama è legata soprattutto ai suoi valzer, per questo motivo a Strauss è stato universalmente riconosciuto
l'appellativo di "re del valzer". La lista delle sue opere comprende circa 500 composizioni fra valzer,
polke, marce e quadriglie.

Il valzer era una danza austriaca di origine contadina che nella seconda metà del 700 venne
diffondendosi a poco a poco anche in città. Il successo di questa danza è dovuto alla borghesia
urbana che cercava qualcosa di diverso dalle danze nobili e che trovò forse nel valzer, ballato in
coppia con i corpi ravvicinati. Agli inizi dell’800 il valzer era di gran moda in Austria, negli
anni successivi il successo dilagò nel resto dell’Europa. Strauss padre, era nato nel 1804, ma già
nel 1817 era entrato in un piccolo complesso che suonava in locali pubblici, in seguito fondò un
complesso tutto suo e a distanza di 10 anni fu nominato direttore dei balli di corte. Il valzer da
danza popolare era diventata danza nobile adottata anche dall’imperatore. Strauss figlio, per cui
il padre sognava una carriere di banchiere, fu da lui violentemente osteggiato nelle sue
ambizioni musicali. Quando il padre lasciò la famiglia e si trovò un’altra compagna, il giovane
Strauss formò un complesso musicale e si mise a rivaleggiare il padre. La fortuna di Strauss
figlio fu immensa.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Nelle sue mani il semplice valzer popolare delle origini era
diventato qualcosa di più sofisticato: l’utilizzo delle varianti agogiche (modificazioni della
durata fra pulsazioni) in una composizione (accelerando, ritardando) era stato rivalorizzato dai
musicisti romantici. Il frammento registrato inizia con un ritmo lentissimo, in cui l’atmosfera
introduttiva è quella dell’invito a prendere posizione nel ballo, il timbro è quello degli archi
suonati con delicatezza, non ha una direzionalità precisa, non si sa bene dove voglia andare a
parare. Dopo questo esordio, la cui funzione è più o meno quella di mettere a suo agio la

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coppia, scoppia improvviso e contrastante un andamento più rapido che invita i ballerini a un
movimento attivo e brillante. L’alternanza fra questi inviti a gesti diversi e sempre
imprevedibili, obbliga le coppie a seguire sempre con prontezza l’invito musicale e rende
piacevole e sorprendente il gioco della danza.

FRANZ LISZT E LE FANTASIE OPERISTICHE: (dispensa)


Il genere della fantasia e della parafrasi operistica costituiranno gran parte dei repertori degli
interpreti oltre a far parte dei programmi di concerto nella seconda metà dell’Ottocento. Nella
fantasia dominava una gestualità espressiva, retorica e un’enfasi soggettiva che superava la
discontinuità e la frammentazione della forma.
L’origine della fantasia è legata ai generi improvvisati, alle prassi rinascimentali e barocche
della diminuzione, a metà Settecento questo genere affascinava l’ascoltatore non solo per il
virtuosismo degli interpreti ma per la pluralità di idee musicali e per la possibilità di letture
diverse di un’opera già conosciuta. Le fantasie operistiche sono un genere particolare in quanto
sono fantasie su arie d’opera scritte da altri compositori, quindi per questo considerate meno
originali. Ad eccezione delle fantasie lisztiane il genere viene sottovalutato perché si rivolgeva
a una fascia più popolare ed era un genere legato all’improvvisazione. La conoscenza delle
fantasie operistiche è essenziale soprattutto per comprendere il percorso stilistico, la produzione
lisztiana e anche per comprendere Liszt come musicista di pianoforte. Le fantasie operistiche
sono parte notevole d’altronde della sua produzione e alcune come Don Giovanni o Rapsodie
Ungheresi, scrive Hamilton, hanno acquistato dignità estetica al pari di quella di una
composizione originale. Nel 1847 Liszt interruppe la sua carriera da pianista per dedicarsi alla
composizione.

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Argomento 9: Il secondo Ottocento
- Gustav Mahler, Sinfonia n.5, I movimento, Trauermarsch (Marcia funebre), frammento iniziale.
- Claude Debussy, Jeu de vagues (giochi d’onde) da La mer. Trois esquisses symphoniques (Il mare. Tre
schizzi sinfonici), frammento iniziale.
- Liszt, Die Ideale

ECONDO OTTOCENTO: La Rivoluzione Francese ha contribuito a mutare


profondamente l’assetto della società. Essa è stata la rivoluzione degli intellettuali in quanto si è
fatta portavoce di ideali quali libertà, fraternità ed uguaglianza; d’altra parte è stata la
rivoluzione della borghesia industriale sostenitrice del liberalismo economico. Queste due
anime della rivoluzione, inizialmente si sostennero a vicenda; in un secondo tempo, con la
nascita del socialismo e delle teorie di Marx, nel XIX secolo, arrivarono ad una rottura vera e
propria. Queste nuove tendenze furono espresse pienamente dagli intellettuali realisti e veristi,
che descrissero nelle loro opere in maniera dettagliata le condizioni di lavoro del proletariato e
analizzarono in maniera accurata le tendenze morali della società. Gli artisti della seconda metà
dell’Ottocento ostentarono immoralismi di varia natura, esternando attraverso la corrente
dell’estetismo, che la vera religione per cui valeva la pena combattere era l’arte. Nella seconda
metà dell’Ottocento, gli artisti più radicali tesero a staccarsi dal grande pubblico, creando un
prodotto artistico di nicchia, sia per ragioni di principio (il rifiuto di considerare l’arte come un
prodotto commerciale), sia per ragioni ideali (il rifiuto di identificarsi con i valori della
borghesia da loro ritenuti mediocri e con l’ipocrisia della politica), sia per ragioni di linguaggio
(la produzione artistica doveva essere indirizzata solo a coloro i quali erano capaci di intendere
l’arte con profondità). A fine 800 i valori predominanti erano legati a fenomeni quali
l’espansione industriale, il colonialismo, il potere militare: si stava avvicinando lo spettro della
grande Guerra e, nell’epoca che essi stessi definivano decadente, molti artisti assunsero
posizioni estreme di rifiuto della società, correndo il rischio di isolamento.

Il sinfonismo del secondo Ottocento, da Brahms a Mahler


La forza dei neotedeschi o progressisti era molto forte, tanto che nel 1854 quando fu pubblicato a Lipsia
un volumetto di estetica che sosteneva idee opposte, tutte le forze dei conservatori coagularono
idealmente intorno al suo autore. Si trattava del saggio Del bello nella musica di Eduard Hanslick,
critico, musicologo boemo di origine tedesca. La posizione di Hanslick, detta anche formalismo era: la
bellezza della musica non consiste nel sentimento che essa eventualmente vorrebbe esprimere, ma è
interna alla musica stessa; il bello della musica è, quindi, specificamente musicale dato che la musica
non ha altro contenuto se non i suoni e il loro artistico collegamento, cioè le forme sonore in
movimento.
Nel 1860 un gruppo di musicisti decise di firmare un manifesto per dichiarare la propria opposizione ai
progressisti, tra questi musicisti vi era anche il celebre violinista Joseph Joachim, ma anche Johannes
Brahms. Con uno stile musicale personale che proveniva da studi sulla musica del passato per estrarre
da essa linfa vitale, Brahms riuscì a coniugare l’insegnamento di due maestri come Bach e Beethoven,
costituendo davvero l’unione delle tre grandi B. nella sua musica, infatti, il contrappunto di stampo

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bachiano diventa un mezzo quasi onnipresente per realizzare il principio beethoviano dell’elaborazione
motivico-tematica. Questo stile che era tipico della musica da camera, venne esteso da Brahms anche
alla musica sinfonica.
Tuttavia con studi più attenti si può notare come Brahms pur partendo da premesse diverse, giunga
comunque ad un esito non dissimile da quello dei progressisti, tanto che nel 900 venne proprio
annoverato tra i progressisti e definito iniziatore della modernità.

TRAMONTO DELL’OTTOCENTO: GUSTAV MAHLER E RICHARD STRAUSS


(dispensa)
L’Ottocento stava ormai tramontando e durante questo periodo spicca la musica di Mahler. Le
sue sinfonie sono infatti percorse da squarci frequenti di musica bassa (tipo marce militari,
motivetti da orchestrina, canti alla moda o musiche da birreria). Il tutto trova posto nelle
sinfonie di Mahler, in quanto per quest’ultimo l’arte che rappresenta il bello si appropria anche
del brutto o del banale, per far sì che, in questo caso, con la musica possa trovare espressione
tutto il mondo con la sua ipocrisia e laceranti contraddizioni. Mahler non fu compreso dalla sua
epoca, e infatti da molti venne inteso come un grande direttore d’orchestra in vena di stranezze,
che invece di produrre musica originale. Mahler, inoltre, decise di eliminare il programma che
caratterizzava inizialmente se le sue prime 4 sinfonie, perché riteneva più opportuno un
programma interno, di sensazioni oscure che possono essere rese in musica quando non si
riesce a farlo con le parole.
Anche se parte della sua produzione risente del clima tardo- romantico, per altri versi anticipa i
motivi del secolo venturo ovvero il Novecento, tanto che Schonberg lo ha definito come loro
mastro e capofila. Il suo appartenere alla musica Moderna si rivela nel situarsi al di fuori
dell’estetica romantica, servendosi non dell’inventiva, ma del materiale precostituito
assemblandolo, frapponendolo, giustapponendolo: un comporre “musica nella musica”
rispondendo, in tal modo, bene alle tendenze del XX secolo in materia. Richard Strauss invece
si ritrasse con grande sdegno da tali tendenze. Egli si dedicò alla composizione di poemi
sinfonici, respinse l’idea di una musica costruita su un programma, poiché riteneva che la forma
musicale deve avere fondamento in se stessa.
Tra i suoi poemi più noti ricordiamo: Il don Giovanni (1888-89), Don Chisciotte (1896-97).
L’atmosfera espressiva di Strauss è diversa rispetto a quella di Mahler in quanto nel primo
domina un acceso e intenso vitalismo.

Mahler Gustav Compositore e direttore d’orchestra austriaco (Kaliště, Boemia, 1860 - Vienna 1911).
Sensibile interprete di un mondo in crisi e prossimo alla dissoluzione, M. portò il linguaggio romantico a
uno sviluppo estremo, aprendo la strada alla musica del Novecento. Artista dalla personalità
problematica, come direttore d’orchestra raggiunse in vita una fama straordinaria, per il suo stile
interpretativo nel quale introdusse criteri innovativi nell’orchestrazione, ma anche nella messa in scena e
nella regia operistica. La valutazione della sua produzione come compositore fu invece spesso ostacolata
da pregiudizi e incomprensioni, tanto che il suo apporto al rinnovamento del linguaggio musicale fu
riconosciuto solo dopo il secondo conflitto mondiale. M. compose dieci sinfonie (di cui l’ultima
incompiuta), caratterizzate da una ricerca timbrica e strumentale particolarmente innovativa e da una

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dilatazione fino a dimensioni insolite del numero dei movimenti, della loro durata e dell’organico
impiegato; compose inoltre numerosissimi Lieder.

Allievo di J. Epstein, R. Fuchs e F. Krenn a Vienna, ove si diplomò nel 1878, iniziò nel 1880 a soli 20
anni l’attività direttoriale passando con crescente successo nei maggiori centri musicali europei; fu
dapprima direttore del Hoftheater di Kassel, quindi nel 1886 a Praga, procedendo contemporaneamente
nella sua attività di compositore che, iniziata con Das klagende Lied, proseguì con un primo ciclo di
Lieder, i Lieder eines fahrenden Gesellen (1884) e la prima sinfonia Titan (1884-88). Chiamato a Lipsia
per dirigervi un ciclo di opere wagneriane, entrò in piena rivalità con A. Nikisch; passò poi a Budapest
(1888-91), quindi ad Amburgo. Nel 1897, nominato direttore artistico del teatro dell’Opera Imperiale di
Vienna, destò unanimi ed entusiastici consensi per le memorabili esecuzioni di opere sia del repertorio
classico sia di nuovi compositori come Strauss, Wolf e Puccini. È di questi anni il periodo più fecondo
della sua attività produttiva: nascono infatti la Quarta, la Quinta, la Sesta, la Settima e l’Ottava sinfonia,
oltre a numerosi Lieder. Lasciata Vienna nel 1907, visse gli ultimi anni tra l’Austria e gli Stati Uniti,
alternando l’attività di compositore a quella direttoriale, che gli procurò riconoscimenti negli ambienti
musicali di tutto il mondo.
A lungo considerato inattuale, la sua posizione storica andò poi gradualmente chiarendosi nell’ambito
della tradizione del sinfonismo tedesco e l’importanza della sua opera cominciò a delinearsi dopo il
secondo conflitto mondiale, venendo riconosciuto il suo apporto al rinnovamento del linguaggio
musicale. Da allora il giudizio su M. è passato dal riconoscimento dei valori più genuini della sua
concezione musicale a un'esaltazione talora eccessiva, restando aperto il problema di una definitiva
chiarificazione del vero significato della sua opera, rappresentata da un patrimonio di composizioni
ragguardevole, sia per la mole delle singole composizioni sovente caratterizzate da un grandioso
dispiego dei mezzi espressivi, sia per gli indiscutibili valori poetici presenti in molte delle sue pagine più
ispirate. Restano infatti 10 sinfonie, cicli di liriche vocali-strumentali e pagine minori. Nelle
composizioni sinfoniche (ispirate a un oscuro pessimismo, ove, in un drammatico oscillare di sentimenti,
la visione ironica e amara dell’esistenza viene a tratti contrapposta a un sommesso e intimo lirismo, che
tende a sciogliersi in un malinconico canto di speranza) si rispecchiano i caratteri più eloquenti e sofferti
dell’esasperata personalità romantica di M.; in esse peraltro, più che l’originalità o il gusto della
tematica, accusate di sentimentalismo e banalità dei temi, si fa ammirare la felicità espressiva e la novità
della scrittura orchestrale, caratterizzata non soltanto dall’introduzione di nuovi impasti timbrici, ma da
un’insolita e originalissima utilizzazione degli strumenti tradizionali. Idealmente ricollegate alla
tradizione che, dai classici viennesi, conduce direttamente all’esperienza sinfonica di Brahms e di
Bruckner, le sinfonie, che costituiscono il nucleo centrale dell’opera mahleriana, tendono all’enormità
sia nella lunghezza dei movimenti sia nell’ampiezza dei mezzi adunati (ad eccezione della Quinta, Sesta
e Settima esclusivamente strumentali e in cui non compaiono elementi programmatici concettuali, le
sinfonie di M. si giovano anche dell'intervento di voci solistiche o corali); esse appaiono spesso legate a
un intento programmatico e, secondo la concezione wagneriana per cui “la parola è il veicolo dell'idea
musicale”, si spiegano i costanti riferimenti a testi letterari, nonché a immagini di carattere figurativo.
Raggiunto il vertice della potenza sonora nell'Ottava sinfonia, la cosiddetta Sinfonia dei Mille per
l’eccezionale organico in cui un’immensa orchestra viene contrapposta a un doppio coro, M. ha lasciato
nel ciclo Das Lied von der Erde, ispirato a liriche cinesi, una delle sue pagine più ispirate e poeticamente
sentite. Non meno vigorosa, seppure stilisticamente diversa dalle precedenti composizioni per la
semplificazione dei mezzi espressivi, si rivela la Nona sinfonia, opera in cui si avverte quasi un presagio
di morte. Soprattutto in queste ultime composizioni, nella cosiddetta Trilogia della morte o del
commiato, ove pare si possano cogliere i presentimenti della tragedia del primo conflitto mondiale e del
crollo dell'impero asburgico, M., mediante una scrittura armonica rivoluzionaria, è pervenuto al
superamento e alla disintegrazione del linguaggio musicale romantico. Considerato all’epoca "inattuale",
in confronto a R. Strauss, solo in tempi relativamente recenti a M. è stato riconosciuto il ruolo di

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antesignano della musica del Novecento, ovvero di "attuale" scopritore di nuovi importanti orizzonti
musicali.

Ascolto 1.
Gustav Mahler, Sinfonia n.5, I movimento, Trauermarsch (Marcia Funebre,
frammento iniziale).

La Sinfonia n. 5, in do diesis minore è del 1903. È anche l'unica sinfonia su cui Mahler tornerà
più volte fino alla fine della sua vita, perché non era mai del tutto soddisfatto della
strumentazione: Consta di cinque movimenti, divisi in tre parti. La prima parte è costituita dai
primi due movimenti, fra loro tematicamente legati. Il primo è una marcia funebre in cui
compare di nuovo in modo prepotente il gusto sardonico di Mahler; il secondo movimento, in
forma-sonata e in la minore, è in un tempo agitato e verso la fine presenta un luminoso tema in
modo maggiore che tornerà nel finale della Sinfonia. La seconda parte è costituita per intero da
un vastissimo Scherzo in re maggiore. L’ultima parte della Sinfonia si apre con il famoso
Adagietto, in fa maggiore, forse la pagina più nota di Mahler, utilizzato poi da Luchino Visconti
per la colonna sonora del film Morte a Venezia: 103 battute affidate solo agli archi e ad un’arpa.
Questa pagina detiene forse un record fra tutti i brani di musica classica: quello della maggiore
differenza di durata che è possibile riscontrare fra le varie esecuzioni.
Il genere sinfonia lo ritroviamo per tutto l’Ottocento. Si divide tra due tendenze: il poema
sinfonico e la sinfonia. Il primo si ispira a un testo letterario del quale racconta in musica la
trama. La sinfonia conserva invece la struttura formale di origine classica: la divisione in più
movimenti (allegro, adagio, scherzo, finale) e l’adozione di forme standard (ad es. la forma
sonata) in ciascuno di essi. Le dieci sinfonie di Mahler appartengono alla seconda delle due
tendenze, ma la rielaborano in modi inediti: ad esempio la Quinta è in cinque movimenti e il
primo invece di essere un Allegro è una marcia funebre. L’autore concepisce le sue sinfonie
come grandiose testimonianze della propria esperienza autobiografica.
Mahler proveniva da una piccola città della Boemia, da una famiglia povera ebrea. Le sue
sinfonie sono considerate capaci di forti comunicazioni e portatrici di espressività e di valori.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Il brano registrato è un esempio di marcia funebre (cosa frequente
nelle sue sinfonie) concepita con un’idea dell’orchestra originale: gli strumenti talvolta quasi
urlano più che suonare, e lo svolgimento della marcia alterna ricordi di banda affidati agli ottoni
e ricordi di canzoni popolari affidati agli archi. Il brano è amplissimo e la parte qui registrata
contiene l’episodio iniziale. La forma è A-B-A. La fanfara con cui esordisce viene ripresa nella
terza parte e in episodi successivi dello stesso movimento.
Inizia misteriosamente, perché una tromba solista all’inizio di una sinfonia è al di fuori delle
norme: l’ascoltatore dell’epoca, colto di sorpresa, deve chiedersi cosa sta accadendo, anche
perché quel suono autoritario e deciso non è per nulla rassicurante. Il ritmo è quello tradizionale
di una marcia funebre, che tutte le bande usano quando accompagnano la bara al cimitero

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Qui la banda ha una sonorità più violenta e cupa di quella di una banda normale. A parte il
clamoroso colpo di piatti con cui si conclude l’assolo della tromba, altri strumenti a percussione
prendono corpo subito dopo, ma soprattutto ciò che caratterizza l’episodio è la tessitura sonora
in cui intervengono compattamente e pesantemente tutti gli strumenti più oscuri e gravi
dell’orchestra, dai tromboni a i corni ai contrabbassi. Se a questo si aggiunge che anche il
motivo melodico principale è più volte ripetuto in una discesa sempre più precipitosa verso il
basso, non c’è davvero alcun dubbio sulle intenzioni espressive di Maher; il clima di incubo e
di tragedia è dichiarato senza ambiguità. La parte successiva (B) è ancora accompagnata dal
ritmo di marcia funebre, ma il clima è meno devastante: gli archi cantano una lunga melodia
che sembra imitare un canto popolare. Ben presto però il suono iniziale della tromba riprende e
il terzo episodio ripiomba nel clima iniziale.

Ascolto 2.
Claude Debussy, Jeu de vague (giochi d’onde) da La mer. trois esquisses
synphoniques (il mare. Tre schizzi sinfonici), frammento iniziale. Scheda I/20

Claude Debussy è il compositore francese che svetta sul confine tra 800 e 900, egli ha interesse
per ciò che è lontano nello spazio e nel tempo. È interessato alla musica asiatica per il fatto che
è un po’ sospesa, non ha delle direzioni precise legate al mondo della tonalità. Si considera egli
stesso un compositore particolare ma che comunque conosceva gli strumenti e le con i quali e
per i quali componeva. Un altro repertorio a cui Claude Debussy guardò per trarre ispirazione
fu il Canto Gregoriano da lui definito arabesco (come lo stile di Bach che apprezzava molto).
Per il musicista francese la musica deve iniziare “laddove la parola è impotente ad esprimere; la
musica è fatta per l’inesprimibile
Se in un primo momento si guardava a Debussy come un autore del tardo romanticismo,
considerandolo un impressionista musicale, oggi la tendenza è diversa. Infatti è stato
evidenziato che egli ha frequentato più gli ambienti simbolisti che impressionisti, quindi se
bisogna dargli un’etichetta è più giusto definirlo un simbolista che un impressionista. Si guarda
a Debussy come ad uno degli iniziatori del Novecento Musicale. In particolare è la sua
concezione del tempo ad essere di una modernità sconvolgente. Il suono diviene il centro della
sua attenzione, in quanto attraverso esso cerca di afferrare e bloccare l’attimo fuggente senza
essere legato ad un prima o un dopo; un suono che nasce dal silenzio e al silenzio ritorna.
Tuttavia la modernità del linguaggio debussiano non venne compreso dai suoi contemporanei.
È caratteristico il titolo del brano schizzo sinfonico; non esisteva un genere musicale
tradizionale che fosse chiamato in questo modo: non a caso il termine schizzo è derivato dalla
pittura, e in questo caso indica che l’opera, nonostante le sue grandi dimensioni, debba essere
ascoltata come se fosse qualcosa di non finito, come una traccia emergente della memoria, più
che come un quadro compiuto. Debussy diceva di sognare una musica che comunicasse per
metà: l’altra metà doveva essere scoperta da chi ascoltava, dalla sua capacità di entrare nel

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mistero dell’arte. Pare che lo schizzo sinfonico sia stato ispirato a Debussy da un quadro di un
artista giapponese che raffigurava un’onda marina.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Il brano ha fin dall’inizio brevissimi motivi melodici che subito
cambiano e lasciano il posto ad altri, raramente si ripetono; anche gli strumenti o i gruppi di
strumenti variano continuamente. La mancanza di veri e propri temi e di chiare divisioni in parti
è fatta di proposito per disorientare l’ascoltatore dell’epoca che, abituato alle proporzioni ben
costruite della tradizione classica e romantica, si aspettava ancora di trovarle. Debussy, come
tutti gli artisti della sua epoca, va alla ricerca di ciò che sta dietro l’apparenza delle cose, di ciò
che sfugge ai nostri strumenti consueti di conoscenza. Ascoltiamo strumenti a fiato più acuti e
leggeri accompagnati dalle percussioni.
Note tremolanti degli archi, note minacciose delle trombe, tonfi improvvisi delle percussioni,
continuità e contrasti, accelerazioni e ritardi si succedono senza tregua.

Ascolto 3.
Poema Sinfonico: “Die ideale (Gli ideali)” parte iniziale, di Liszt

Liszt pensa ad una introduzione prima del tema principale, ma si sente che dopo il primo
passaggio non si arriva mai al tema, ma si fanno delle digressioni, questo spostamento del tema
principale rappresenta in musica la difficoltà per il giovane di raggiungere gli ideali.
Liszt era un progressista (vedi appunti 12.04, dispensa pag 154).
L’opera inizia con un Andante triste e depresso, che si mostra poi più allegro e spiritoso prima
del finale. “Gli ideali” sono il poema sinfonico più lungo di Liszt. L’orchestra è maestosa,
pacchiana e pesante. Il tema degli Ideali arriva a 3:30 minuti dopo la prima introduzione, e
viene introdotto da violini. L’orchestra è costituita da 2 timpani, oboe, 4-5 clarinetti, 4 flauti, 4-
5 percussioni. Il compositore in questo brano cerca di raggiungere gli ideali, ma viene sempre
interrotto; nel momento in cui pensiamo di essere arrivati all’ideale tutto si blocca e ricomincia.

La musica a programma: descrizione e narrazione dell’Ottocento europeo (Pozzi,


Dispensa)
Il secondo caso di genere musicale nato sotto la diretta influenza della letteratura è quello della
musica a programma che si riferisce a soggetti, idee, argomenti tratti da opere letterarie o da
immagini o da altre forme artistiche: es Strauss con il poema sinfonico sul senno e le avventure
di Don Chisciotte. Secondo Stefan Kunze la musica a programma comprende ogni musica che
segua un dato modello extramusicale. Il termine programma indica che tale modello possiede
un’unità organica, un’intima consistenza che è in grado di determinare in qualche modo lo
svolgimento della musica. Condizione di un programma è comunque la possibilità di definirlo
concettualmente, cioè di dargli espressione verbale.
In senso stretto si dovrebbe definire musica a programma solo quella che ha un programma
letterario di riferimento; in realtà il termine viene adottato tutte le volte che il compositore
voglia “dipingere” musicalmente un qualche cosa di extramusicale.

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La più importante realizzazione della musica a programma nel periodo romantico è senza
dubbio il poema sinfonico. Nel 1847 Liszt interrompe la carriera di pianista e l’anno seguente si
stabilisce a Wiemar: in questo periodo si dedica alla creazione del poema sinfonico, un nuovo
genere compositivo che si affermò nel repertorio concertistico fino alla fine del secolo quale
grande forma della musica strumentale, accanto alla rinata sinfonia.

Nazionalismo e realismo nella musica dell’Ottocento. Storia di compositori europei alla


ricerca delle proprie radici
Quasi tutta la storia della musica occidentale fino ad ora delineata si è svolta in un ambito
geografico delimitato: Italia, Germania, Francia, fugaci incursioni in Spagna e Inghilterra.
Coloro che studiavano la composizione venivano attratti nell’orbita della musica occidentale.
Con il Romanticismo le cose iniziarono a cambiare, perché uno dei postulati estetici del
movimento era la riscoperta delle proprie radici nazionali: se questo atteggiamento fu condiviso
da quasi tutti i compositori di questo periodo, alcuni di essi vi si dedicarono particolarmente,
per contribuire al processo di autonomia dell’identità culturale del proprio popolo. Si assistette
così alla nascita di scuole nazionali. Tuttavia l’accentuazione dei caratteri musicali nazionali
dette luogo a una molteplicità di risultati differenti fra di loro: vi furono compositori del tutto
occidentali, salvo qualche velatura locale, ma anche compositori che minarono la base della
sintassi musicale ottocentesca, ponendo addirittura le premesse per la disgregazione del sistema
tonale e della ritmica tradizionale.
Un caso particolare avvenne in Russia.
Alla fine del ‘700 l’imperatrice Cateriina II aveva reso Pietroburgo una delle principali capitali
europee, imprimendo al suo teatro di corte un grande impulso verso l’opera italiana. Sotto lo zar
Nicola I, nella prima metà dell’800, l’Opera imperiale italiana assorbiva quasi tutte le risorse
finanziare destinate alla musica, pur esistendo un’Opera imperiale russa il cui repertorio e i
cui interpreti avevano comunque un’origine straniera, anche se vi erano alcuni stralci di
dialoghi russi e canzoni popolari.
L’autore più importante che produce opere in russo pur avendo una forte formazione
occidentale, fu Michail Ivanovic Glinka di cui si ricorda l’opera Una vita per lo zar debitrice
nello stile agli italiani Bellini e Donizetti. Questa, comunque, fu ritenuta la prima e vera opera
nazionale russa, la prima in cui compare in orchestra il tipico strumento russo, la balalaika.
Sotto lo zar Alessandro II si cercò di valorizzare maggiormente la produzione nazionale: il
pianista Rubinstein fondò la Società Musicale Russa (1859) che aveva lo scopo di porre un
limite al dilagare dell’opera italiana, favorendo, per converso, i compositori russi. Alcuni
musicisti, anche se non professionisti nel vero senso della parola, in opposizione alla Società
anche se non nell’intento, costituirono il gruppo dei Cinque (Balakirev, Cui, Murorgskij,
Rimskij-Korsakov, Borodin) i quali fondarono anche la Scuola Musicale Gratuita in
contrapposizione al Conservatorio.

66
L’unico tra i Cinque a servirsi di materiali musicali folklorici in modo strutturale fu
Musorgskij che dette vita anche a un realismo musicale molto influenzato dal Positivismo.
Musorgskij mise il realismo all’interno della propria produzione sotto un duplice aspetto: da un
lato servendosi nelle sue opere di testi in prosa, dall’altro nelle caratteristiche tecniche della sua
musica, inaugurando molte novità che si troveranno nel ‘900.
Nel frattempo di schieramento opposto, quello filo-occidentale vi era un grande compositore
russo Peter Il’ic Cajkovskij il quale oltre a congiungere i due poli del Romanticismo (la
struttura della musica assoluta, cioè la forma in più movimenti della sinfonia classica, con i due
principi fondamentali di Liszt, cioè la tecnica della trasformazione tematica e la pluralità di
movimenti in un unico movimento) si cimentò in musiche programmatiche, particolarmente in
poemi sinfonici: l’ouverture su Romeo e Giulietta e la fantasia sinfonica Francesca da Rimini,
anche se era famoso per aver inaugurato la stagione del balletto russo, componendo balletti
sinfonici: Il lago dei cigni e Lo Schiaccianoci.

Novecento. Storia di falsi impressionisti e di falsi veristi


Nel tardo Ottocento, inizialmente in Francia e poi nel resto d’Europa, si iniziò a prendere atto
dell’inesorabile fallimento del Positivismo: la ricerca scientifica, per quanto coronata da
successi, non poteva giungere ad illuminare gli interrogativi dell’uomo.
Si aprì la fase storica del Decadentismo, dal verso di Verlaine. Fiorirono numerose correnti di
pensiero irrazionali e misticheggianti, dedite anche all’esoterismo e all’occultismo o alla ricerca
di una religione alternativa. Fu il movimento francese del Simbolismo ad incarnare queste
tendenze di fondo all’interno di una produzione artistica di alto livello. I simbolisti ritenevano
che la realtà visibile fosse intimamente collegata a quella invisibile, essendone quasi uno
specchio simbolico. L’unica via di conoscenza sarebbe quella intuitiva, evocativa dell’arte. I
simbolisti e musicisti francesi furono molto interessati a Wagner non tanto per le musiche in sé,
ma per le sconvolgenti innovazioni armoniche e per la tecnica del Leitmotiv.
Anche Claude Debussy, compositore francese che più di tutti svetta tra ‘800 e ‘900, risentì
dell’ambiguo rapporto che il mondo francese intratteneva con Wagner.
Con una formazione alimentata dall’assidua frequenza di letterati simbolisti ed esperienze
musicali che lo portarono anche ad assistere ad una esibizione dell’orchestra gamelan dell’isola
dell’indonesia, Giava dalla quale fu colpito per la statica del ritmo dovuta alla sovrapposizione
di ritmi singoli contrastanti, concezione circolare della forma e drammaturgia, ma anche dalla
sorgente del canto gregoriano, Debussy fu indirizzato verso nuove soluzioni musicali.
Secondo Debussy la musica deve cominciare laddove la parola è impotente ad esprimere,
perché la musica è fatta per l’inesprimibile. Nella sua unica opera Pelleas et Melisande egli
applica tutti i suoi principi drammaturgici, tra cui l’uso lievissimo del leitmotive in contrasto
all’uso definito caricaturiale di Wagner.
Con la sua musica Debussy cerca di arrestare il flusso del tempo, disintegrare quello che fino
ad allora era un processo lineare (partire da un inizio, attraversare uno sviluppo, giungere ad

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una logica conclusione). Anche a livello di suono egli riesce ad esprimere il suo essere
simbolista: il suono diviene un valore di per sé che dal silenzio nasce e al silenzio torna. Da qui
scaturiscono le conseguenze più appariscenti: gli accordi perdono la loro funzionalità armonica
per divenire aggregati sonori con prevalente valore timbrico, l’armonia che si scinde dalla
melodia, la ritmica si fa statica, mentre la forma assume una connotazione circolare.
L’innovazione di Debussy non fu colta, tanto che nel periodo tra le due guerre fu un altro
musicista francese ad essere considerato all’avanguardia, Maurice Ravel, inizialmente definito
un emulo di Debussy, si spinge musicalmente lontano da Debussy nel trattamento ardito e
libero della dissonanza, a differenza di essa non disgrega i presupposti del sistema tonale e della
concezione del tempo musicale, ma rientra in pieno nel quadro formale tradizionale.
Ravel, poi, si pone in un’estetica antiromantica, ironica e disincantata; Ravel realizza una
spietata meccanizzazione del ritmo con strane assonanze a Rossini.

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Argomento 10: Le avanguardie del Novecento
- Igor Stravinskij, da Le sacre du Printemps ( Il rito della Primavera), “Danze delle adolescenti”.
- Arnold Schonberg, da Cinque pezzi per orchestra op.16:I, Vorgefuhle (Presentimenti).
- Pietro Grossi, Sketch n.1, n.2, n.3 (musica elettronica).

E “AVANGUARDIE” DEL NOVECENTO Agli inizi del Novecento il precario


equilibrio fra artisti e pubblico entrò definitivamente in crisi. In campo musicale, il dato più
evidente è che la borghesia, che frequenta i concerti, è sempre meno attratta dalle nuove
composizioni e rimpiange quelle del passato. In quegli anni uno dei temi ricorrenti in tutte le
arti è il terrore per la “cultura di massa”, particolarmente in Germania: gli artisti
dell’espressionismo tedesco raffigurarono nelle immagini letterarie, teatrali, cinematografiche e
musicali la degradazione dei livelli di vita ed i comportamenti passivi degli individui e delle
folle. Anche in altre situazioni culturali gli artisti avvertirono che il pubblico a cui si
rivolgevano aveva canali di formazione culturale differenti da quelli del mondo intellettuale. Si
accentuò il pessimismo, il disprezzo del pubblico di massa e l’emergere di linguaggi artistici
provocatori e aggressivi. Il periodo si caratterizza per la nascita di movimenti d’avanguardia
(futurismo) che sviluppano il problema della crisi del proprio rapporto con il pubblico.
Molti musicisti e molti artisti di quegli anni concepirono un rifiuto radicale nei confronti del
passato. Il linguaggio musicale doveva essere ricreato da capo: le scale, gli accordi, le
distinzioni tra suono e rumore, i metri, i ritmi; gli stessi strumenti musicali su cui si erano
sempre basati i linguaggi del passato vennero messi in discussione. Solo negli ultimi due o tre
decenni del Novecento, nella cosiddetta società “post-moderna”, bisognava confrontarsi con le
novità del periodo: una mentalità più aperta rispetto al passato; sviluppo di tecnologie e
globalizzazione; imposizione delle comunicazioni di massa come strumento di formazione
collettiva. I musicisti delle avanguardie novecentesche si sono dovuti confrontare con lo
sviluppo della musica commerciale.

“AVANGUARDIE E SPERIMENTAZIONI TRA EUROPA E AMERICA: LE


VICENDE E LE RIVOLUZIONI STILISTICHE DEL PRIMO NOVECENTO
MUSICALE”: (dispensa)
Nella storia della musica si determina intorno al 1890 una prima cesura con la tradizione dei
compositori della metà dell’Ottocento ad opera di alcuni importanti compositori europei
(Mahler, Strauss, Debussy): quest’epoca che va dal 1889 al 1914, è stata definita l’epoca della
modernità. Infatti nel 1889 abbiamo la Prima sinfonia di Mahler e il Don Juan di Strauss.
Dal punto di vista della storia della musica in questi anni si determina il superamento di due
basilari della cultura europea ottocentesca:
- messa in discussione dell’eurocentrismo musicale (solo i paesi del centro Europa potevano
elevarsi a livello artistico);

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- abbandono della supposta naturalità del sistema tonale (l’apertura ad una cultura extra-
europea fece emergere sistemi d’intonazione completamente diversi).
Successivamente al 1889 si determina una seconda cesura, una vera e propria rivoluzione
musicale caratterizzata dall’abbandono della tonalità come sistema teorico di base e
dell’abolizione della differenza tra consonanza e dissonanza che era stata alla base della musica
fino al Rinascimento.
In campo musicale i primi anni del secolo furono chiamati il “decennio degli esperimenti” con
il continuo proliferare di proposte e novità. Sono le rivoluzioni timbrico-armoniche di Debussy
unitamente a quelle atonali di Schonberg a provocare un vero e proprio choc nei salotti e nelle
sale di concerto europee. Alcuni compositori, come Strauss, non accettavano la presa atonale di
Schonberg. Schonberg, infatti, si svincolò dalla tonalità dal 1908 in poi, data che segnò l’inizio
della rivoluzione musicale e l’inizio dell’epoca della nuova musica. Anche i rumori diventano
suoni musicali, parte dalla sperimentazione sono, infatti, l’utilizzo di suoni non tradizionali.
La vera rivoluzione musicale, quindi, fu caratterizzata dall’abbandono della tonalità e
dall’abolizione della differenza tra consonanza e dissonanza che era stata alla base della musica
sin dal Rinascimento.
A proposito delle innovazioni timbrico- ritmiche, bisogna evidenziare 2 atteggiamenti:
1. al primo appartengono le ricerche intorno ai modi di attacco e di produzione del suono degli
strumenti tradizionali;
2. al secondo atteggiamento va ascritto lo sviluppo che ha avuto la famiglia delle percussioni. In
precedenza gli strumenti a percussione erano visti come “creatori di rumore”, ora le percussioni
sono diventate una famiglia orchestrale con gli stessi diritti degli archi, dei legni e degli ottoni.
Parlare di “avanguardie musicali” nel 900 significa trattare compositori che proponevano un
progressivo abbandono di concezioni estetiche, principi e tecniche compositive proprie delle
generazioni precedenti.

LE STRADE DELLA NUOVA MUSICA


Gli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento vengono definiti periodo della Musica Moderna.
Le vie d’uscita dalla tonalità erano ovviamente molteplici. Alcuni compositori non sembrano
allontanarsi troppo dalla tonale terra d’origine. Altri, invece, come Schonberg, si
incamminarono decisamente verso strade nuove: tagliando tutti i ponti con il passato tonale essi
giunsero ad una completa atonalità.
Si avvertiva anche il rischio che, nell’incombente società di massa, la stessa musica colta si
riducesse a puro prodotto commerciale, mercificata come la musica leggera. Allora, proprio
negli anni in cui il mondo si trasforma in un villaggio globale, i musicisti colti rifiutano la
concezione di musica come comunicazione.
In questo periodo cambia anche lo status del compositore che non è più uno strumentista o
direttore d’orchestra, come nella modernità, ma diventa un “intellettuale” che studia discipline

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scientifiche e pubblica le sue prese di posizione tecniche o estetiche, forse per riscattarsi da
secoli di condizione servile.

Ascolto 1.
Igor Stravinskij, da Le sacre du Printemps (il rito della primavera), “Danze
delle adolescenti”

Igor' Fëdorovič Stravinskij, (1882 –1971), Figlio di un rinomato cantante nacque a Pietroburgo. Pur
avendo iniziato lo studio del piano a soli 9 anni, non fu un piccolo prodigio, gli studi regolari di musica
iniziarono tardi con Rimskij-Korsakov. È stato un compositore e direttore d'orchestra russo naturalizzato
francese nel 1934, poi divenuto statunitense nel 1945.
In una sommaria classificazione dell'opera stravinskiana si possono distinguere tre grandi periodi
chiamati rispettivamente russo, neoclassico e seriale. Nel primo periodo, che comprende lavori quali
L'oiseau de feu, Petruška (1911), Le sacre du printemps (1913), la musica aderisce a un programma, a
un soggetto, a un testo, mentre nel secondo periodo, che va all'incirca dal balletto Pulcinella all'opera
The rake's progress, si manifesta la tendenza verso una musica "oggettiva", classicheggiante, astratta.
Fra questi due periodi si collocano opere che per certi tratti apparterrebbero al primo, per altri al
secondo; in ogni caso, le ripartizioni vanno intese con discrezione e non va dimenticata l'evidenza, già
frequente in lavori come Le sacre du printemps, di un'aspirazione alla "oggettività", che caratterizza i
lavori della seconda maniera. Già in quell'opera la musica, lungi dall'essere un riflesso dell'azione
scenica, è essa stessa il centro dinamico da cui ogni azione si sviluppa. Contemporaneamente a tale
processo di liberazione dallo psicologismo, dall'interferenza di elementi letterarî o altro, si afferma una
volontà di concentrazione e di semplificazione, che conduce dall'orgia coloristica di Petruška e del
Sacre alla semplicità dell'orchestra d'archi di un'opera come Apollon Musagète, orchestra però in cui il
compositore sfrutta al massimo le possibilità di varia combinazione e le peculiarità solistiche dei varî
strumenti. Mentre nelle opere del primo periodo abbondano i moduli espressivi ricavati dalla musica
russa, in quelle del periodo neoclassico sono frequenti i "ritorni" allo stile di altri musicisti. Si ha così
quella che è stata chiamata la musica al quadrato: il compositore fa oggetto della propria ispirazione
opere preesistenti, e il modello musicale prescelto serve come paradigma lessicale sul quale si innesta
una personalità nata in un differente clima. A partire dal Pulcinella, S. ha fatto continui ed espliciti
riferimenti a sempre nuove paternità elettive: Pergolesi nel Pulcinella, Bach e Vivaldi nel Concerto per
pianoforte e fiati, Verdi nell'Oedipus rex, Čajkovskij nel Baiser de la fée, Weber nel Capriccio, Rossini
in Jeu de cartes, di nuovo Bach nel Concerto in mi bemolle, Mozart in The rake's progress. Sia le opere
del periodo russo, sia quelle del periodo neoclassico sono caratterizzate musicalmente da un linguaggio
a base diatonica, che appare diametralmente contrapposto al linguaggio cromatico usato da Schönberg e
dai suoi allievi della corrente dodecafonica: si può dire anzi che S. e Schönberg abbiano segnato le due
strade divergenti su cui si è indirizzata in prevalenza la musica del 20º secolo. Questa scissione, che
sembrava inconciliabile, ha trovato uno sbalorditivo superamento nelle opere scritte da S. dopo The
rake's progress: gradualmente, a partire dalla Cantata del 1952 sino ai Threni del 1958, S. ha adottato
procedimenti seriali, che hanno portato la sua musica ad accostarsi a quella della scuola viennese,
sempre mantenendo, tuttavia, caratteristiche personali inconfondibili.

Il frammento è tratto da un balletto ideato da un coreografo russo. Nell’anno 1913 il balletto


doveva raffigurare una festa della primordiale Russia pagana. Nelle sue Memorie Stravinskij

71
afferma che una delle cose che più lo colpirono nell’infanzia era la violenta primavera russa che
sembra iniziare all’improvviso ed è come se la terra intera si spezzasse. Lo spettacolo
immaginato da Stravinskij doveva evocare in forma musicale non solo la violenza dell’evento
naturale, ma anche la risposta emotiva altrettanto violenta che provocava negli abitanti della
Russia preistorica. Nel balletto non esiste una vera e propria trama narrativa: si trattava di una
serie di danze propiziatorie che si concludevano con un rito di sacrificio: una fanciulla (l’Eletta)
danzava fino alla morte per placare le forze degli dei primaverili.
Uno dei temi cari alle avanguardie parigine dell’epoca era l’amore per il “primitivismo”. Un
altro tema ricorrente era quello dell’”oggettivismo” o della “dis-umanità”: gli oggetti naturali o
artificiali che siano, si muovono secondo logiche proprie, estranee ai bisogni dell’uomo.
GUIDA ALL’ASCOLTO: il frammento è caratterizzato all’inizio da un accordo dissonante e
martellante ribadito con ritmo meccanico dagli strumenti ad arco. Siamo di fronte ad un
fenomeno che gli ascoltatori dell’epoca consideravano aberrante, cioè all’uso di una dissonanza
fine a se stessa. Non a caso l’opera fu accolta dal pubblico dell’epoca con clamorosi dissensi.
“Martellante” indica non solo l’energia violenta con cui esso viene eseguito, ma anche la
ripetitività meccanica della sua esecuzione. Per di più alla ripetizione costante di questo accordo
si sovrappone (per 6 volte) un altro accordo, altrettanto aspro e dissonante. La caratteristica più
singolare di questa seconda sonorità è di essere ripetuta in maniera irregolare.
Stravinskij smentisce il principio di naturalità fisiologica e crea ritmi per così dire innaturali o
disumani. Da qui l’effetto di shock che questo famoso passo possiede. Dietro questi ritmi non si
intravedono figure umane, ma piuttosto immagini di oggetti che seguono logiche “altre”, non
comprensibili all’uomo. Sulla base di successione di colpi dissonanti si inserisce una brevissima
frase melodica: quattro note ossessivamente ripetute. Il clima resta quello primordiale che regna
in tutto il balletto, il quale naturalmente non era eseguito da ballerine in tutù, ma da masse
compatte di ballerini i cui passi e le cui figure crearono in quegli altri i principi della “danza
moderna”.

Ascolto 2.
Arnold Schonberg, Vorgefuhle (Presentimenti), da Cinque pezzi per orchestra op.
16.
Schonberg (1874-1951) – figlio di un modesto commerciante ebreo e di una madre dotata di buona
cultura musicale, ebbe già ad otto anni le prime nozioni musicali. Grazie alla conoscenza di Zemlinsky
riuscì nel 1895 ad essere assunto come direttore della corale dei metallurgici di Stockerau e due anni
dopo ad eseguire in pubblico il suo Quartetto in re maggiore che ebbe molto successo. Le sue prime
composizioni nacquero sotto l’influsso di Wagner e Mahler, anche se iniziarono ad emergere esperienze
armoniche spinte verso caratteri espressionisti, fino a giungere con Cinque pezzi per orchestra alla
dissoluzione della tonalità in direzione della atonalità o come diceva S. alla atonalità. Nonostante
queste spinte se Strauss, fortemente impressionato dalla sua musica, gli procurò un posto nel
conservatorio di Stern, Malher lo incoraggiò facendogli eseguire Pelleas und Melisande, il Quartetto e
la Kammeersymphonie (1907), nonostante questi successi S. perseverò nella propria strada

72
avvicinandosi sempre di più all’avanguardia artistica. Tra l’altro entrò in grande amicizia con Kandinskij
con il quale fondò il gruppo del Cavaliere azzurro. L’opera Pierrot lunaire si può considerare il
manifesto dell’espressionismo musicale e rappresenta una svolta decisiva nella musica contemporanea.
L’opera denuncia la crisi dell’uomo come soggetto, cioè dell’individuo, nell’alienazione della società
che sta precipitando verso la guerra. La musica si fa espressione della solitudine disperata del soggetto,
la sua incapacità di difendersi e di modificare la realtà esterna, contro la quale continuamente cozza, e la
conseguente chiusura dell’individuo nella propria interiorità. S. come Kandinskij proposero un teatro
dove suono, colore, parola e azione mimica si fondono in un unico piano prospettico.
Giunto all’atonalità, come compositore sentì l’esigenza di riorganizzare i mezzi formali della
costruzione musicale, nasce l’idea di un nuovo metodo per comporre mediante 12 suoni che non stanno
in relazione che fra loro, cioè la dodecafonia, la cui prima applicazione si ha nella Suite per pianoforte
(1921-23).
Con l’avvento di Hilter fu costretto ad andare in esilio prima a Parigi, poi in America dove ottenne la
cittadinanza nel 1940.

La versione dell’avanguardia nei paesi di lingua tedesca ebbe il suo movimento più importante
nell’espressionismo, termine che non ebbe la sua origine nel contesto musicale, ma dalla
pittura. Il termine espressionismo nasce dunque da una contrapposizione al termine
impressionismo. Gli espressionisti manifestavano una sorta di “disagio di vivere” in una società
alla quale si sentivano estranei e per questo motivo alcuni decisero di arruolarsi durante la
guerra mondiale, vivendo quest’esperienza come uno strumento per far uscire allo scoperto le
tendenze profonde dell’uomo (il pericolo, la paura, il sangue e la morte). Il musicista più
sensibile al movimento espressionista fu Schonberg (sia perché fu pittore e sia perché le sue
opere musicali richiamavano l’arte espressionista). Il tema che emerge maggiormente nelle sue
composizioni è quello dell’esperienza del terrore e dell’angoscia, pertanto il suono doveva
essere il più possibile aspro e dissonante.
GUIDA ALL’ASCOLTO: In quest’opera la difficoltà è l’impossibilità di fissare un suono di
riferimento; quello che nella tradizione musicale si chiamava nota “tonica”. dunque, il brano
risulta a-tonale ed è costruito in modo tale da evitare che l’orecchio dell’ascoltatore si orienti su
una nota più stabile o più attrattiva delle altre. Un altro elemento che risulta quasi totalmente
assente è la regolarità metrica (si riscontra una difficoltà nel “battere il tempo”) ed, inoltre, il
brano manca di melodia. Dunque, gli ascoltatori non potevano prevedere come il brano si
sarebbe sviluppato, dove e come potesse concludersi. Tuttavia, se ascoltato attentamente,
intorno alla metà del brano si raggiunge un culmine, che ne è il perno, di energia e violenza, che
viene raggiunto gradualmente e a poco a poco si dissolve. I primi secondi rimandano ad un’idea
di disordine, caratterizzata dall’esecuzione di gruppi di strumenti diversi, acuti o gravi, veloci o
lenti, forti o piano. In seguito viene introdotta una melodia che si ripete ostinatamente e sempre
più forte, alla quale si inseriscono altri strumenti riempiendo a poco a poco lo spazio fino a
raggiungere il culmine. Negli ultimi secondi vi sono interventi disordinati di strumenti bassi e
cupi o acuti e graffianti. Tutto si conclude con la presenza di violoncelli e contrabbassi che

73
sembrano voler introdurre un nuovo motivo, ma invece si interrompono improvvisamente senza
nessuna ragione apparente.

Ascolto 3.
Pietro Grossi, Sketch n.1, n.2, n.3, (Musica elettronica)

La musica elettronica nacque nel secondo dopoguerra dai giovani musicisti di quegli anni a
seguito di una revisione del linguaggio musicale. Le tecniche di questa musica negli anni ’50
furono di vari tipi:
– Uso e manipolazione di un nastro magnetico, più utile e funzionale rispetto alla
registrazione su disco (adottato negli anni ‘’30 nelle radio dei principali paesi); elaborare, in
questo caso significava molte cose: si poteva ad esempio aumentare o diminuire la velocità
del nastro, tagliare pezzi di nastro e ricombinarli a piacere, montare un nastro sopra un altro
e cosi via.
– Una seconda tecnica tipica di quegli anni, sviluppata soprattutto per iniziativa del musicista
Stockhausen, consisteva nell’uso di generatori di frequenza, cioè impulsi elettronici che
facevano vibrare la membrana di un altoparlante.
A metà degli anni Cinquanta si passò alla computer music che poteva produrre suoni artificiali
con tecniche molto più agili e più rapide.
GUIDA ALL’ASCOLTO: I musicisti che sperimentavano questa musica rappresentavano la
tendenza estrema dell’avanguardia musicale del periodo e si sentivano dei veri e propri
scienziati che volevano rivoluzionare il concetto di musica. Pietro Grossi, oltre ad essere un
brillante violoncellista e compositore, nel 1965 fondò al Conservatorio di Firenze il primo
studio italiano di computer music, dedicandosi ad una musica virtuale (ritenuta quella del
futuro). Cerca di far diventare la musica un prodotto collettivo (tutti possono cantarla e
comporla). Era un modo per opporsi all’idea tradizionale di musica che in Europa era stata
tramandata dall’estetica ottocentesca, secondo la quale i grandi musicisti avevano messaggi
quasi sacrali da comunicare e gli ascoltatori dovevano abbeverarsi a queste fonti. L’ascolto è
costituito da 3 sketch, non sono computer music, che furono composti nel 1955. Si tratta di
elaborazioni ironiche di materiale di vita comune:
- Il primo prende spunto da un giornale radio;
- Il secondo dalla pubblicità di un detersivo;
- Il terzo dall’acuto di un tenore che canta una famosa aria del Trovatore di Verdi.

Si vuole dimostrare che la musica sperimentale non è solo un esercizio astratto intellettuale, ma
può diventare un brano musicale dotato di senso e alla portata di tutti

74
Argomento 11: La musica afro-americana
- Bessie Smith e Louis Armstrong, st. Louis blues (autore: W. Ch. Handy)
- Ma Rainey, Run awey blues
- Charlie Parker, These Foolish Things.

A MUSICA AFRO-AMERICANA
Le persone di colore presenti in America, discendevano da quelle popolazioni che per qualche
secolo vennero deportate dall’Africa perché considerate semplicemente schiavi alla pari degli
animali. Cominciò a diffondersi la discriminazione razziale. Una delle principali zone di
gestazione e di nascita del blues e del jazz fu il delta del Mississipi, in cui la popolazione nera
agli inizi del Novecento, era impiegata nei lavori nei campi e nelle piantagioni di cotone e di
canna da zucchero e nei lavori pesanti dei porti fluviali. La donna nera aveva maggiore
importanza in quanto aveva il compito di partorire nuovi schiavi.
Tema ricorrente nelle canzoni degli anni venti, è il “blues del letto vuoto”, ossia il lamento per
la fuga del marito dal tetto coniugale per via della donna vista come figura dominatrice. Bessie
Smith, famosa cantante statunitense di blues e jazz, era vista in questo modo.
Che l’identità nera sia stata segnata dalle vicende dello schiavismo, lo si capisce tenendo in
considerazione anche la sfera religiosa. Inizialmente gli schiavi non erano ammessi ai riti della
chiesa e le loro celebrazioni rituali, severamente proibite, doveva svolgersi in segreto. Con il
passare del tempo, la loro graduale conversione, promossa dalla Chiesa, fu disciplinata,
nell’America del nord, dalla proibizione della danza e dalla imposizione di inni sacri occidentali
di cui, nell’ottocento, gli spirituals sono la versione nera.
Nel XX secolo, la musica Afro- americana aveva origini molto varie: il MINSTREL SHOW, ad
esempio, era uno spettacolo di varietà che comprendeva canzoni, e che nell’Ottocento era
recitato da attori bianchi dipinti di nero e metteva in scena stereotipi caricaturali del nero.
Diversa è la situazione del BLUES, la connotazione emotiva del Blues indica tristezza, infatti
“to have the blues significa: sentirsi depressi”. Questa etimologia è confermata dalla forma di
canto, le cui parole traggono origine dal lamento e dalla protesta delle comunità contadine e
delle periferie urbane. I primi bluesmen erano cantori girovaghi fortemente integrati nel tessuto
rurale e urbano degli insediamenti poveri del sud. Con l’emigrazione verso le città industriali
del Nord, a partire dagli anni 10 del ‘900, il blues cominciò ad acquistare fama ed entrare a
contatto con l’industria discografica bianca.
Il Jazz si poteva ascoltare soprattutto a New Orleans che era, agli inizi del secolo, un groviglio
di tradizioni razziali e culturali diverse e nel quartiere a luci rosse di Storeyville, paradiso della
malavita locale. Alla base del fenomeno Jazz vi era innanzitutto la pratica dell’improvvisazione
che lo diversificava dalla musica colta di tradizione europea e l’insieme di stili esecutivi e di
influenze stilistiche dovute agli spostamenti di musicisti da una città all’altra dell’America. Il
canto blues è la sua radice profonda.

75
GLI STILI DEL JAZZ (dispensa)
Esiste uno stretto rapporto tra le varie forme e i vari stili del jazz e le epoche nelle quali essi
furono creati.
Intorno al 1890- Ragtime
New Orleans è stata la città più importante per la nascita del jazz.
Lo stile di New Orleans è stato definito il primo stile della musica jazz ma sappiamo che ancora
prima esisteva il ragtime avente come principale capitale la Sedalia nel Missouri, dove si stabilì
Scott Joplin, principale compositore e pianista dello stile. Il rag è frutto di un lavoro di
composizione ed è musica per pianoforte. Poiché musica composta, manca, a differenza del
jazz, di improvvisazione. Ha però swing e per tale motivo ci si è abituati a considerarlo jazz.
I compositori di ragtime incisero i loro rags sui rulli dei pianoforti meccanici e questi rulli
vennero venduti a migliaia di esemplari. Uno dei primi musicisti che si allontanò
dall’interpretazione del ragtime fu JellyRollMorton di New Orleans. Egli trattò il materiale
melodico più liberamente e più nello spirito jazz.
1900 – New Orleans
Intorno al 1900 la città di New Orleans era un crogiolo di popoli e di razze. Si cantavano
canzoni popolari inglesi, si ballavano balli spagnoli, si suonava la musica popolare francese, a
questi suono si mescolavano gli shouts ovvero le grida dei neri simili a un canto.
Due popolazioni nere a New Orleans: vi erano i neri creoli e i neri “Americani”. I primi si erano
appropriati della cultura francese e molti erano commercianti benestanti. I secondi costituivano
il proletariato nero povero ed erano guardati con pregiudizio dai neri creoli. Rappresentavano
due gruppi diversi di musicisti. Il gruppo creolo, più colto, quello americano più vitale. Il
clarinetto che vanta in Francia una grande tradizione, divenne lo strumento principale del
gruppo creolo.
Lo stile di New Orleans è caratterizzato da tre linee melodiche che generalmente vengono
suonate da una cornetta (o da una tromba), da un trombone e da un clarinetto. La cornetta
sostiene la voce principale a cui si attacca il suono grave e maestoso del trombone. Il Clarinetto
ricama suggestivi arabeschi intorno ai due strumenti.
1910 – Dixieland
A New Orleans il jazz non era una prerogativa dei neri, infatti vi erano diverse band di bianchi
che suonavano musica jazz. Papa Jack Laine è considerato il padre del jazz bianco. I bianchi
avevano un modo particolare di fare jazz: era meno espressivo ma in compenso, tecnicamente
più perfezionato. Le melodie erano più lineari, le armonie più pulite, l’emissione del suono
meno spontanea.
Si utilizzava il termine Dixieland jazz per indicare il jazz dei bianchi, mentre New Orleans jazz
per indicare quello suonato dai neri.
Ricapitolando: La storia della musica jazz ha inizio con il ragtime, il New Orleans e il
Dixieland jazz. Il jazz nacque dall’incontro fra bianco e nero e tale incontro enne la sua
massima intensità nel sud degli Stati Uniti.

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1920 – Chicago
Lo sviluppo del New Orleans Jazz a Chicago viene collegato all’entrata nella prima guerra
mondiale degli Stati Uniti. Il comandante della marina militare della città, vide in Storyville
(esso è il quartiere a luci rosse di Chicago e anche centro della malavita locale) un pericolo per
la morale delle sue truppe e fece chiudere il quartiere, gettando sul lastrico un sacco di musicisti
che si trasferirono a Chicago. Accadde così che il primo stile di jazz si chiamò stile di New
Orleans ma visse il suo momento aureo a Chicago. Stessa cosa accadde per il blues che esisteva
già molto prima rispetto al jazz – almeno sin dalla metà del secolo prima. Gli anni venti
vengono considerati l’epoca del blues classico. Bessie Smith ne fu la più grande cantante e
interprete.
Durante gli anni 20 del 900 nasce anche lo stile di Chicago. Praticamente vi sono giovani
scolari e musicisti che sono particolarmente attratti dal jazz di New Orleans che si sentiva a
Chicago in quel periodo, allora vogliono imitare questo stile jazz. L’imitazione non riesce, ma
da questo tentativo viene fuori un nuovo stile jazz: lo stile di Chicago. In esso domina il singolo
individuo e acquista importanza il sassofono.
1930 – Swing
I precedenti stili di jazz vengono raggruppati sotto il nome di “Two beat jazz” dove beat
significa battito, baricentro ritmica. Tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta si
delineò un nuovo modo di suonare che confluì con la musica e con i rappresentati dello stile di
Chicago e di New Orleans: i quali cominciarono la seconda grande migrazione della storia del
jazz da Chicago a New York che vede la nascita dello swing.
La parola swing è la parola chiave del jazz e viene impiegata in 2 accezioni diverse:
1. indica un elemento ritmico;
2. la parola swing sta ad indicare lo stile jazzistico degli anni ’30.
Caratteristica dello stile swing degli anni trenta fu la costituzione di grandi orchestre chiamate
big bands.
(Appunti: Differenza tra l’organico di Amstrong e quello delle big bands. Il primo è costituito
da 5/6 persone mentre il secondo da 20 persone raccolte, vicine tra di loro, affinchè potessero
sentirsi e improvvisare. Qui le sezioni si sovrappongono.
Stile giungla: gli strumenti richiamano i versi degli animali della giungla creando ad esempio
dei barriti.
Il jazz dei neri è improvvisato mentre quello dei bianchi non lo è)
1940 – Bebop
Sul finire degli anni ’30, lo swing, viene definito il più grande business musicale di tutti i tempi;
ma quest’ultimo era diventato troppo commerciale per questo motivo un gruppo di musicisti
decide di allontanarsi dallo swing. Nacque così un nuovo stile chiamato bebop, dove bop
significa rissa o coltellate: infatti si sviluppò più che altro nei bassi borghi di New York e tra le
gangster di ragazzini. Molti appassionati e musicisti di spessore del jazz rimasero interdetti
dalla piega che aveva preso la loro musica, così decisero di tornare alle prime forme del jazz di

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New Orleans. Ma questo revival non prende molto piede e quindi si è in cerca di un nuovo stile
jazz.
1950 – Cool, hard bop
Verso la fine degli anni 40, ha inizio ciò che viene chiamato “COOL JAZZ”, per opera di Miles
Davis, John Lewis e Dameron. In realtà, la vera nascita del cool risale a qualche anno prima. Ne
fu ideatore un Lennie Tristano, che a partire dal 1945-46, dunque in piena era bebop, fondò a
New York la sua New School of Musica; con la sua musica e il suo pensiero egli diede
fondamento teorico al jazz freddo: inteso come musica fredda, per intellettuali e priva di
emozioni.
Dopo Tristano, il centro musicale del jazz si spostò sulla costa occidentale americana e nacque
così il West Coast jazz. A quest’ultimo venne contrapposto l’East Coast jazz, ma durante il
periodo di evoluzione del jazz la tensione non fu tra orientale e occidentale quanto piuttosto tra
la tendenza classicista da una parte e un gruppo di giovani musicisti dall’altra. Quest’ultimi
suonavano bebop più moderno, il cosiddetto hard bop, che era più puro e maggiormente
perfetto a livello tecnico-strumentale. Successivamente fu imposto un nuovo modo di suonare
detto FUNKY, ovvero blues suonati in modo lento o semi lento con l’espressività tipica del
blues originale. Anche la musica nera di chiesa, il Gospel, entrò a far parte del jazz e nacque
così un nuovo modo di suonare detto SOUL.

APPUNTI 10/05
Esistono cronache del 700/800 che attestano il fatto che alcune comunità di neri, portate in America con
la tratta degli schiavi, avevano mantenuto qualcosa della loro cultura, infatti si racconta che venivano
trovati nelle piazze a cantare o ballare, naturalmente non conosciamo i testi perché cantavano nella loro
lingua, ma probabilmente cantavano i disagi della loro condizione, popolo preso in schiavitù. Queste
cronache attestano anche che i lavori dei neri non erano solo nei campi, ma anche in cucina e soprattutto
come musicisti che allietavano le serate dei padroni. Con la scoperta dell’America, Spagna e Portogallo
iniziarono a portare il cristianesimo in quei luoghi nuovi, costruendo basiliche, e quindi non sorprende
che all’inizio abbiano portato anche compositori e musicisti motivati da alti guadagni in quanto il
viaggio era molto difficile. Con l’andar del tempo si mischiano, e i mastri di cappella o i compositori
diventano gente del luogo ed hanno quindi nomi indios, anche se nella scrittura e produzione viaggiano
in parallelo a quella occidentale con una differenza in senso ritmico, cioè le composizioni del luogo
(America) hanno un’accentuazione ritmica molto più forte rispetto alla nostra musica religiosa.
Alla fine dell’800 nasce il jazz. I jazzisti non erano solo gente di strada, per es. L. Armstrong nacque da
una famiglia disagiata, la madre era prostituta e il padre lasciò la famiglia quando lui era piccolo, lui in
tenera età soleva portare carbone alle amiche prostitute della madre, erano tempi difficili a New Orleans
che era stata una città commercialmente molto ricca fino a quando il commercio passava sul Mississipi,
con lo sviluppo della ferrovia le merci non viaggiano più sul Mississipi e quindi anche la ricchezza della
città crollò. Per le persone come Armstrong la musica è stata una chiave di volta.
Uno dei tasselli che ha formato il jazz è stato il ragtime, un altro è il blues che è un elemento importante
del jazz perché contiene già nel proprio genere musicale le caratteristiche del jazz, in più nel blues c’è

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una correlazione particolare con la tradizione europea perché nel blues noi troviamo i tre tipi di accordo
principale della tradizione europea cioè l’accordo sul I grado, sul IV grado e sul V grado.
Il primo blues è un blues cantato, testi legati alla popolazione nera. Il blues ha una struttura divisa in 3
pezzi, il primo e il secondo sono molto simili e il terzo propone una soluzione momentanea. Quindi il
blues è tutto costruito su 3 versi e 12 battute:
- Primo verso, prime 4 battute sull’accordo di I grado (che è DO)
- Secondo verso, altre 4 battute sull’accordo di IV grado ( che è FA)
- Terzo verso, ultime 4battute sull’accordo di V grado (che è SOL) e poi si torna al I
Il verso viene cantato nelle prime 2 battute, le seconde sono destinate alla musica dello strumento che le
accompagna.
Nel jazz ciò che conta è l’improvvisazione, il valore del pezzo viene indicato dalla qualità
dell’improvvisazione, per es. era possibile che la stessa canzone suonata per 3 giorni di fila in un
concerto o in un bar non fosse mai uguale, appunto perché si improvvisava sempre, di solito la parte
centrale, inizio e fine tengono insieme il brano.

Ascolto 1
Bassie Smith e Louis Armstrong, St. Louis blues, (autore: W. Ch. Handy).

La canzone fu registrata a New York nel 1925. Pare che Bessie Smith sia nata nel 1894 in una
famiglia del sud e che il padre sia morto precocemente lasciando orfani e in miseria i suoi
numerosi figli. Pare che la sua vita professionale sia cominciata nel 1912 in compagnia di
ministrels. Viene definita come una donna imperiosa e violenta, non priva di vizi, ma anche
molto generosa.
Armstrong è nato nel 1900 in una baracca a New Orleans, suo padre ha abbandonato la famiglia
pochi anni dopo e egli ha imparato a suonare la tromba in un riformatorio. La sua carriera iniziò
nel 1922 quando si trasferì al nord.
La canzone fu pubblicata nel 1912 da Handy che, dopo che la canzone ebbe successo, cominciò
ad autodefinirsi “padre del blues”. In realtà, in questa canzone egli ha mescolato componenti
afro-americane con schemi della canzone statunitense praticata da musicisti bianchi. Nella
pronuncia delle parole gli interpreti conservano le abitudini dell’ambiente nero.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Le pulsazioni principali sono lente e regolari, sottolineate dagli
strumenti di sottofondo. Le suddivisioni interne binarie della canzone presentano un andamento
sincopato, cioè la voce anticipa spesso il punto di caduta della pulsazione. Questa caratteristica
è ereditata dalla musica africana. Ogni frase musicale della cantante chiude quasi sempre sulla
tonica; si tratta spesso di una sorta di recitativo, tipico del blues. Anche le note sono prese
strisciando un po’ dal basso verso l’alto: si parla in tal caso di “blue notes”. Quando sono tenute
più a lungo, la voce oscilla. Il timbro vocale è quello che si usa in espressioni di stanchezza. Il
primo verso di ogni coppia di versi iniziale è ripetuto due volte, secondo l’uso del blues.

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Ascolto 2
Duke Ellington, Caravan, Scheda II/7

Nella storia jazz gli anni ‘30 vengono definiti l’era dello swing. Il termine indicava il carattere
ritmico della musica nera e la corrispondente gestualità ondulante dei ballerini. Dopo
l’invenzione e la diffusione della radio, dopo la nascita e lo sviluppo dell’industria discografica,
la musica nera era ormai ben nota non solo agl’intellettuali dell’America e dell’Europa, ma a
larga parte della classe media americana che aveva cominciato ad apprezzarla. Complessi jazz,
neri, ma anche bianchi, negli anni trenta lavorano regolarmente in locali da ballo, club,
alberghi, ritrovi notturni di livello più o meno sofisticato. È in questo ambiente che
cominciarono a ottenere ampi riconoscimenti orchestre particolarmente numerose, big bands,
come quella di Duke Ellington (nero). Questi complessi erano molto diversi, nelle intenzioni e
nelle tecniche, rispetto ai primi gruppi jazz.
GUIDA ALL’ASCOLTO: Caravan, che fu incisa nel 1937, è un esempio di melodia pseudo-
arabeggiante. Il brano esordisce con percussioni quali tamburi, contrabbasso, qualche colpo di
piatti e punteggiature di accordi di pianoforte, tuttavia il vero e proprio motivo della canzone,
che continua per tutta la durata del brano è affidato agli strumenti a fiato. L’arrangiamento di
Ellington fa sì che l’ascoltatore sia attratto dai colori strumentali con cui essa viene eseguita: un
trombone presenta elegantemente la melodia all’inizio e la conclude con distacco; un clarinetto
la varia; una tromba aggiunge giochi di sordina; un gruppo di saxofoni e clarinetti la eseguono
con modalità impreviste; infine un gruppetto di trombe e sax sembrano invitare l’ascoltatore a
non prendere quella musica troppo sul serio.

Ascolto 3
Charlie Parker, These foolish things, Scheda II/8

Dall’epoca del brano di Ellington a quella in cui fu registrato il seguente brano passano circa 10
anni. Fra l’una e l’altra data ci sono gli eventi della seconda guerra mondiale. C. Parker non
partì per la guerra perché era stato considerato psicologicamente inadatto all’esercito. Era nato
in un ghetto nero a Kansas City, la sua educazione fu di strada e di malavita. Fra il ’44 e il ’45
cominciò ad incidere i primi dischi che suscitarono scalpore nel mondo degli esperti di jazz. Poi
fu ricoverato in una clinica psichiatrica fino alla morte nel 1955.
A parte le vicende personali di Parker, anche le vicende collettive del popolo nero statunitense
stavano cambiando: la guerra aveva contribuito a stabilire contatti tra neri e bianchi, una certa
borghesia nera si stava anche affermando, ma la stragrande maggioranza della popolazione nera
viveva in miseria.
In questi anni si riscopre e si rivalorizza la prassi dell’improvvisazione che era comune nel jazz
delle origini, ma che nelle orchestre dell’epoca swing era stata in parte sostituita da fogli scritti.

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I locali in cui si esibivano i migliori jazzisti del nuovo stile bebop non erano i grandi locali di
lusso ma luoghi riservati in cui accorrevano gli appassionati di jazz, gli intenditori, in gran parte
neri, capaci di apprezzare le abilità creative di quei nuovi protagonisti della musica nera. Il
rapporto fra musicisti e pubblico era rovesciato rispetto alle convenzioni swing: in quelle il
musicista doveva fare i conti con le esigenze del pubblico, col bebop l’attenzione si concentrava
invece sul musicista e sui contenuti della sua arte. Per la prima volta i musicisti neri
rivendicavano una funzione di tipo estetico.
GUIDA ALL’ASCOLTO:La canzone utilizzata per improvvisare è Thesefoolishthings. La
canzone prevede due chorus di 4 versi all’inizio e alla fine, e un breve bridge di due versi che li
collega.
Lo schema formale a cui Parker si attiene è quello di 16 pulsazioni per ogni frase, anzi se è
possibile aumenta la regolarità (mentre il bridge di Sinatra è più breve).
Schema:
A1 (16 pulsazioni)
A2 ( “ )
B1 ( “ )
A3 ( “ )
A4 ( “ )
B2 ( “ )
A5 ( “ )
All’interno di questo schema i comportamenti improvvisativi sono vari.
Ci sono però 3 parti in cui egli si dedica con abbandono, quasi con passione ad inserire frasi
melodiche sue: sono la parte B1 (poi ripetuta in B2) e la parte A5.

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Argomento 12: Musica europea di tradizione orale e Repertorio extra-europeo
- Canzuna a la carrittera (Sicilia): “Er un ghiornu” Registrazione effettuata il 24 ottobre 1995, cantore: Ignazio
Dominici (Villabate).
- Repubblica centro-africana: Canto di caccia della popolazione Mandja
- Repubblica centro-africana: rituale di guarigione della popolazione Ngbaka-Mandja (frammenti).
-

usica europea di tradizione orale e repertorio extra-europeo


Con tali termini si indicano gli innumerevoli tipi di musica collettiva delle classi sociali
subalterne, sia di campagna che di città, tramandata oralmente e di solito legata a celebrazioni e
feste sia sacre che profane.
Oggi le tradizioni culturali si contaminano, si integrano e le musiche orali a volte sopravvivono
integre, in altri casi sono solo reperti storici o oggetti di studio, in altri vengono conservati
volontariamente come il caso dei Folk revival: gruppi di giovani o meno giovani che eseguono
in concerto le musiche o le danze tradizionali per perpetuarne la conservazione; in altri casi,
infine, si trasformano.

Etnomusicologia (dispensa)
L’ etnomusicologia, nell’accezione tradizionale è lo studio delle tradizioni musicali trasmesse
oralmente (musica popolare o folk, musica cosiddetta primitiva), nonché lo studio della musica
colta delle grandi tradizioni non europee. In Italia, le ricerche sulla musica popolare sono
iniziate tardi, intorno al 1948, con la fondazione del centro nazionale studi di musica popolare.
In numerose culture, la musica, include fatti per noi non musicali (la danza, il culto, la magia) e
costituisce una pratica funzionale a varie occasioni della vita sociale. A tal proposito viene
giudicata in termini di efficacia e appropriatezza piuttosto che di bellezza o bruttezza come
accade in occidente. Essa spesso è veicolo di espressione collettiva e solo raramente espressione
individuale.

La musica popolare europea.


Con tale termine si intende, nel mondo occidentale, la musica prodotta e fruita dalle classi
popolari con modalità e pratiche differenziate rispetto a quelle della musica colta. Essa è
convenzionalmente distinta in differenti tradizioni musicali. Sua caratteristica peculiare è
l’assenza di ogni forma di scrittura e annotazione. Altra caratteristica è che è legata a specifiche
occasioni funzionali quali festività, rituali domestici, lavoro e così via.
L’ Italia è musicalmente divisa in due grandi aree: l’Italia settentrionale e l’Italia centro-
meridionale; sotto il profilo dei testi e dei canti le due aree vengono rispettivamente definite:
Area del canto epico – lirico o canto narrativo e area del canto lirico monostrofico. A parte
queste due grandi distinzioni, la musica popolare in Italia si presenta con connotazioni locali di
regione o sub-regionali. La pianura padana piemontese, lombarda ed emiliana, si caratterizza
per un imponente produzione di canti popolari di carattere sociale e politico. In tutta l’Italia

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settentrionale, la musica strumentale, è legata per lo più al ballo ed è affidata a strumenti come
la fisarmonica, il clarinetto e gli ottoni per la banda. I cantastorie professionisti sono
praticamente scomparsi.
Europe occidentali
Nel Regno Unito la pratica della musica popolare rimane viva quasi ovunque per quanto
riguarda la parte vocale: canti lirico – amorosi e canti narrativi, mentre la tradizione strumentale
sopravvive quasi esclusivamente in Irlanda e in Scozia.
La Corsica presenta un repertorio di canti di lavoro nei campi, ninne nanne e canti lirico –
monostrofici. In Germania e in Austria la pratica della musica popolare è limitata alle
esecuzioni strumentali popolaresche dei gruppi folcloristici.
Le civiltà musicali non europee
Africa sub – sahariana: in questo tipo di musica, l’interesse per il ritmo prevale su aspetti quali
l’armonia e la melodia. La musica africana dipende dalle circostanze dell’esecuzione e dal
contesto. Poiché la musica in tutta l’Africa, ha un ruolo importante nelle cerimonie regali, i
musicisti professionisti sono spesso accreditati presso le corti. Per quanto riguarda gli strumenti,
si usano tamburi o strumenti non melodici come sonagli, campane o a percussione; strumenti
melodici come xilofoni, flauti e arpe. Gli strumenti vengono costruiti anche a mano e si
scoprono molti oggetti di natura animale o vegetale che riproducono suoni veri e propri come
zucche (sonagli) o le pietre.
Paesi arabi: la teoria musicale araba si fonda su tre nozioni principali:
- Materiale tonale;
- Modi melodici;
- Modi ritmici;

La musica della tradizione orientale è eseguita da un piccolo complesso detto takht, formato da
cinque elementi. Per quanto riguarda lo stile arabo occidentale si svilupparono tre principali
correnti: quella marocchina, algerina e tunisina.

Ascolto 1.
Canzuna a la carrittera (Sicilia): “er un ghiornu”.
Registrazione effettuata il 24 ottobre 1995, cantore: Ignazio Dominici.

Fra i molti repertori italiani di tipo melismatico il più importante è quello della canzuna alla
carrittera. Questo repertorio costituiva una vera e propria arte vocale. Veniva eseguito durante il
lavoro nei ritrovi serali, nei funnachi (una sorta di caravanserraglio dove i carrettieri trovavano
riparo per la notte), qui si svolgevano vere e proprie gare nelle quali i cantori si sfidavano. Nel
secondo dopoguerra questa usanza è venuta meno, il repertorio però non è scomparso.
GUIDA ALL’ASCOLTO: I testi verbali della canzuna alla carrittera trattano quasi sempre
argomenti amorosi, oppure temi legati al lavoro. Secondo la regola dovrebbero essere costituiti

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da coppie di endecasillabi, tuttavia nella concreta esecuzione il verso viene spezzettato. La
struttura musicale è complessa. Altra caratteristica del canto è la struttura ritmica libera. Ogni
verso inizia con una nota alta che scende gradualmente.
Trama della canzone: il protagonista che canta, ha allevato una palombella bianca e rossa, alla
quale taglia le lunghe ali pensando che così questa non avrebbe più volato. Ma un giorno
affacciandosi dalla finestra, vede che la palombella è volata e si è ricongiunta con le sue simili;
quando il protagonista la chiama, la palombella risponde: “vienimi dietro se mi vuoi bene”

Repertorio extra-europeo :Con tali termini si indicano gli innumerevoli tipi di musica
collettiva delle classi sociali subalterne, sia di campagna che di città, tramandata oralmente e di
solito legata a celebrazioni e feste sia sacre che profane.
Oggi le tradizioni culturali si contaminano, si integrano e le musiche orali a volte sopravvivono
integre, in altri casi sono solo reperti storici o oggetti di studio, in altri vengono conservati
volontariamente come il caso dei Folk revival: gruppi di giovani o meno giovani che eseguono
in concerto le musiche o le danze tradizionali per perpetuarne la conservazione; in altri casi,
infine, si trasformano.

MUSICA AFRICANA:Tutti gli etnomusicologi sono concordi nel dire che la dizione
“musica africana” è generica. Poiché l’Africa è un territorio molto estenso e ricco di climi e di
etnie diverse. La musica tradizionale dell’Africa si svolge nella piazza o nella casa, nel mercato.
La musica, quindi, fa parte della vita. La musica è patrimonio collettivo, tutti possono fare
musica. Il suono, inoltre, è sempre collegato alla danza e ai gesti.

Ascolto 2:
Repubblica Centro Africana: Canto di caccia della popolazione, Mandja.

In tutta l’Africa tradizionale i rituali di caccia erano molto diffusi. La caccia richiedeva una
complessa negoziazione con la divinità. I riti di caccia facevano dunque parte della vita delle
tribù o del villaggio, e la loro celebrazione implicava la presenza di tutti. La musica qua
registrata celebra il ritorno dalla caccia e di solito viene eseguita quando la caccia ha fruttato un
animale di prestigio come un bufalo, un elefante.
La popolazione dei Mandja vive nelle zone della Savana, ricche di animali.
GUIDA ALL’ASCOLTO: la registrazione inizia presentando uno dopo l’altro i quattro
protagonisti di una complessa polifonia: uno xilofono, un tamburo, un solista e il coro.
Ciascuno di loro esegue una breve formula melodica che viene continuamente ripetuta, si tratta
di un canto processionale o di una marcia di avvicinamento. Lo xilofono e il tamburo
obbediscono alle regole della poliritmia (combinazione di due ritmi). Lo stesso procedimento si

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verifica quando entrano le voci: il solista propone una breve frase, di ritmo molto vivace. In
questo brano il coro si limita a rispondere con una frase breve e sempre uguale.

Ascolto 3:
Repubblica Centro-Africana: rituale di guarigione della popolazione Ngbaka-
Mandja (frammenti)

In Africa alcune malattie non vengono curate con le medicine. L’idea di guarigione nella
cultura africana implica il raggiungimento di una sorta di equilibrio in un complesso sistema
magico- simbolico che permette la convivenza con la malattia. Strumenti specifici di questa
guarigione sono: il canto, il suono e il gesto. Le persone coinvolte nel rituale cioè il guaritore, il
malato e in qualche caso anche chi assiste, devono gradualmente perdere il contatto con la
realtà circostante.
GUIDA ALL’ASCOLTO:Il brano è un estratto di tre fasi del rito di guarigione: la
preparazione, la possessione e la guarigione. Nella prima parte la tessitura del brano è basata su
molte stratificazioni sonore: battiti regolari di mani, ritmi regolari di tamburi, suoni metallici,
tutti gli interventi si combinano, però, in un ritmo unitario. Le voci sono suddivise in cori
diversi anche se tutti cantano la stessa melodia. Il risultata corale non è polifonico ma
largamente eterofonico. La parte centrale della registrazione è basata su due solo voci, quelle
della guaritrice e di una sua assistente, e sulla presenza sommessa di uno xilofono e di un
tamburo. Alla fine la ripresa dei cori collettivi e delle stratificazioni iniziali che gradualmente si
riformano, acquistano un senso decisamente liberatore.

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