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I Quaderni di Creativity Papers n°1

Collana aperiodica di saggistica, narrativa, giornalismo, poesia


Direttore responsabile Roberto Sonaglia
150 Volte Fratelli d’Italia
I Quaderni
Simone Stricelli

Introduzione

Il processo che ha portato all'unificazione dei tanti stati, staterelli, granducati e regni, ognuno
con la propria Storia, tradizioni e cultura, in cui era suddivisa la penisola italiana, e che oggi
chiamiamo parte da lontano. Se vogliamo dal crollo dell'Impero Romano, col conseguente
spezzettamento del territorio, che lasciò una traccia di divisione nell'inconscio collettivo, i cui germi
si svilupparono lentamente nei secoli. Un processo che portò, verso la fine del Secolo dei Lumi,
quando la Rivoluzione francese, a un sentimento di possibile unità nelle menti di intellettuali e
umanisti, come Vittorio Alfieri per esempio.
Ma, definizione per definizione, il processo di cui sopra culminò nell'800, limitato a poche
decine di anni in cui si risolse il destino del Paese. Quel periodo che chiamiamo Risorgimento.
Dalla nascita delle prime sette, come la Carboneria, che si opponevano al dominio territoriale da
parte di case regnanti straniere, alla concettualizzazione sociale e politica di una possibile
unificazione della penisola, da parte principalmente di Giuseppe Mazzini, all'identificazione del
Regno di Sardegna quale primo nucleo dell'Italia Unità, il pensiero unitario si sparse a macchia
d'olio, inarrestabile.
Teorici, politici e uomini d'azione presero in mano le sorti dell'idea unitaria che, storicamente, si
concluse con la proclamazione del Regno d'Italia, il 17 Marzo del 1861, dopo che i Mille di
Garibaldi offrirono a Vittorio Emanuele II il territorio meridionale liberato dai Borboni.
La spedizione garibaldina è l'aspetto più eclatante e, se vogliamo, 'estetico' di questo processo,
al quale contribuirono, dietro le quinte, personaggi come il Cavour, e lo stesso Mazzini.
Questo libro, che esce in concomitanza coi 150 anni dell'Unità d'Italia, ripercorre eventi e fatti,
presenta date e personaggi, ma non rinuncia ad un'analisi sociale, politica ed economica di quel
periodo. Perché ancora oggi viviamo nella lunga scia del Risorgimento, con gli obbiettivi raggiunti
e le contraddizioni che ancora permangono.
Per superare le quali, e perché, come suggerisce l'autore di questo testo, lo sforzo degli uomini
che 150 anni fa hanno teorizzato, voluto e lottato per un'Italia unita non sia vano, "dobbiamo
camminare verso un nuovo Risorgimento politico, socio-culturale ed economico".

Roberto Sonaglia

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Simone Stricelli

Simone Stricelli

150 volte Fratelli d'Italia

Edizioni Creative

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I Quaderni
Simone Stricelli

Vorrei dedicare questo libro ai miei genitori che mi hanno dato la


possibilità di conoscere la storia del paese in cui vivo, ai
professori che hanno creduto nella nostra storia tanto da
trasmettercela e a tutti voi che la leggerete; perchè non sia solo un
fatto personale, ma diventi una storia d'amore da trasmettere.

Simone Stricelli, Maggio 2011

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I Quaderni
Simone Stricelli

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150 Volte Fratelli d’Italia
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Simone Stricelli

Oggi possiamo parlare di Risorgimento e non di


rivoluzione. Essa, infatti, implicherebbe una drastica
modifica dei rapporti sociali e politici a opera di una classe
in ascesa e in lotta aperta contro le vecchie classi
dominanti. Con questo termine si intende sottolineare la
rinascita del sentimento nazionale per edificare uno stato
unitario per via diplomatico-militare. L'Unità d'Italia e
l'indipendenza si realizzarono principalmente grazie alla
progressiva espansione e le annessioni del Piemonte
sabaudo. In tutto questo giocarono un ruolo importante
l'esercito, l'azione della diplomazia, il genio di uno statista
(Camillo Benso conte di Cavour) e il potere di una dinastia
(i Savoia).

Nella storia della nostra Patria ci sono sicuramente


volti e nomi che si debbono ricordare obbligatoriamente. Il
primo dei quali è Giuseppe Mazzini.

Appartenente al partito democratico dopo i fallimenti del '48-'49, Mazzini rilanciò l'attività
organizzativa e fondò nel 1850 il Comitato centrale democratico europeo (organismo che ebbe
un'esistenza effimera) e il Comitato nazionale italiano, con lo scopo di coordinare e dirigere l'azione
delle diverse sette che si rifacevano al suo pensiero. Consolidò la rete cospirativa in Sicilia (insieme
a Rosolino Pilo e Francesco Crispi), nelle Romagne, in Toscana e soprattutto a Genova e nel
Lombardo-Veneto, dove la repressione fu durissima. Si ebbero numerose impiccagioni, tra cui nel
1851 quelle di Luigi Dottesio, Amatore Sciesa e Giovanni Grioli e nel 1853 quelle di cinque patrioti
sugli spalti del forte di Belfiore.
Il programma non era stato modificato, né era stata avviata una riflessione approfondita sulle
cause della sconfitta, che continuavano ad essere attribuite a debolezze organizzative. Dall'altra
parte gli obbiettivi rimasero quelli dell'Unità, dell'indipendenza,
della libertà e insieme alla scelta repubblicana. L'involuzione della
rivoluzione francese aveva rinsaldato Mazzini nella convinzione
che fosse necessario, per così dire, far da soli (senza, cioè, ricorrere
agli alleati) e all'idea necessaria di originalità e del primato della
missione italiana. Il paese continuava ad apparirgli come una
polveriera pronta a esplodere se adeguatamente innescata. La
miccia, pertanto, fu innescata nelle città del nord. Il più importante
tentativo è l'insurrezione di Milano nel febbraio del 1853, in cui
centinaia di popolani, abbandonate dalla componente borghese della
cospirazione, scesero in piazza e furono inutilmente sacrificate.

I toni mistico-religiosi e l'impostazione interclassista della


predicazione mazziniana non erano, però, accettati da tutta l'area
democratica e rivoluzionaria.
Giuseppe Ferrari sosteneva la necessità di dare alla
rivoluzione un carattere accentuatamente socialista. In aperta

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polemica con Mazzini, Ferrari riteneva necessario saldare


l'azione rivoluzionaria italiana con quella francese e ricercare
l'unità con le masse.
Al razionalismo rivoluzionario di Ferrari si poneva il
socialismo radicale di Carlo Pisacane.
Secondo Pisacane la debolezza della borghesia italiana, lungi
dal rappresentare un limite, costituiva un vantaggio, in quanto
affidava necessariamente alle plebi diseredate il ruolo di
avanguardia e rendeva possibile la rivoluzione sociale senza
passare per la rivoluzione borghese.
Il movimento democratico, dopo i fallimenti al nord,
cominciò a guardare al sud come un'area calda. Il brutale
sfruttamento delle masse contadine e la debolezza dello stato
borbonico avrebbero potuto facilitare l'iniziativa rivoluzionaria.
Su questa base Mazzini e Pisacane si riavvicinarono, e
quest'ultimo tenterà la sfortunata spedizione di Sapri, con altri 30
mazziniani, nel giugno del 1857: essa finirà tragicamente il 2
luglio.
Questa ulteriore sconfitta approfondì la crisi del Partito d'azione, da poco costituito da Mazzini.
Si moltiplicarono gli ex mazziniani che si staccarono dall'antica guida. Su di essi cominciò a
esercitare una forte azione la Società nazionale: era quest'organizzazione legata agli ambienti
liberali cavouriani e orientata a fare del Piemonte lo stato-guida della causa italiana.
A essa aderirono Daniele Manin, Giuseppe La Farina e Giuseppe Garibaldi.
Dopo la ripresa della guerra contro l'Austria e della sconfitta di Novara del 1849 nella destra
sabauda la reazione si fece violenta. Il pericolo del colpo di stato fu scongiurato grazie alle elezioni,
seguite allo scioglimento della Camera (20 settembre 1849), e grazie al proclama di Moncalieri.
Vittorio Emanuele invitò gli elettori a sostenere una maggioranza moderata, onde evitare un
pericoloso conflitto tra Camera e corona.
Si formò quindi un governo di destra moderata, guidato da Massimo d'Azeglio.
Fu primo ministro dal 1849 al 1852. Nell'arco del suo mandato si impegnò alla lealtà
costituzionale. Aveva, inoltre, avviato una politica nettamente anticlericale con le Leggi Siccardi.

1. Venne abolito il foro ecclesiastico, il quale sottraeva gli uomini di Chiesa dalla giurisdizione
dello Stato Italiano per le cause civili e i delitti di sangue.
2. Venne abolito il diritto di asilo cioè l'impunità politica a chiunque si fosse macchiato di
qualsiasi delitto e avesse chiesto rifugio nelle Chiese, nei conventi e nei monasteri.
3. Venne abolita la manomorta che è la non assoggettabilità a tassazione delle proprietà
immobiliari degli enti ecclesiastici (esenzione dalle imposte governative)
4. Ogni acquisto da parte degli enti morali (Chiese e monasteri) di beni immobili era vietato
senza autorizzazione governativa.

Promosse la modernizzazione dell'agricoltura e la riforma dell'esercito, voluta dal generale


Alfonso La Marmora.

Il governo d'Azeglio fu costituito da grandi uomini, uno dei quali fu la mente dell'Unità d'Italia,
Camillo Benso conte di Cavour.

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Entrò a far parte del gabinetto d'Azeglio come ministro dell'agricoltura e del commercio nel
1850, poi delle finanze nel 1851, e impresse alla politica economica e finanziaria un indirizzo
dinamico e apertamente liberistico. Strinse alleanze commerciali con altri stati europei (Francia,
Gran Bretagna, Belgio e Austria) e si occupò di riorganizzare le finanze politiche del regno.
Invase più volte le sfere di competenza di altri ministri su importanti questioni politiche, come
per esempio il rapporto tra Stato e Chiesa, sull'insegnamento pubblico e sull'organizzazione della
giustizia. Spesso provocò tensioni sia all'interno del governo, sia nei confronti della corona.

Egli si mosse con decisione nel preparare le condizioni di quella svolta politica portata a
compimento nel 1852 col cosiddetto connubio. Questo consisteva nell'accordo tra l'ala moderata
dello schieramento democratico guidata da Urbano Ratazzi e la compagine più avanzata della
destra intorno a un programma coerentemente liberale: libero scambio, centralità di un parlamento
eletto a suffragio ristretto, difesa delle libertà fondamentali, innovazioni economiche, lotta per
l'indipendenza italiana.
Il connubio fu realizzato attraverso una rete fitta di trattative e di operazioni parlamentari:
elezione di Ratazzi a presidente della Camera, 11 maggio 1852; dimissioni del governo d'Azeglio il
16 maggio e reincarico con esclusione di Cavour; crisi definitiva del governo d'Azeglio il 22 ottobre
e incarico a Cavour di formare il nuovo governo il 24 ottobre.
Veniva aggregato un centro forte e decisamente egemone in parlamento (maggioranza vicina al
60 per cento) e si isolavano le ali estreme (a destra e a sinistra), rendendo impossibile la formazione
di una qualsiasi alternativa di governo.
In questo modo si rafforzava il ruolo del parlamento e il suo potere nei confronti della corona.
Nel febbraio del 1853 Cavour poté assumere un atteggiamento di ferma intransigenza nei
confronti dell'Austria e nel contempo perseguire i mazziniani piemontesi con misure di polizia (le
autorità piemontesi giunsero addirittura a preavvertire le autorità austriache del moto del 6
febbraio). Nel 1855 supererò la Crisi Calabiana (proponeva la soppressione di tutti gli ordini
religiosi contemplativi, ad eccezione degli ordini delle Suore della Carità e delle Suore di San
Giuseppe perché dedite alla cura dei malati e dei bisognosi), provocata dalla destra e dal re contro
un provvedimento di sospensione degli ordini religiosi contemplativi, e così rinsaldò ulteriormente
il potere all'interno e consolidò il regime parlamentare, elevando nettamente il prestigio del
Piemonte e vi si rifugiarono fino a 30.000 esuli, tra cui Bertrando Spaventa, Francesco de Sanctis,
Nicolò Tommaseo.

Isolati poi gli estremisti


mazziniani nello scomodo ruolo di
partito anti-sistema, Cavour si
adoperò a fare del Piemonte il
centro propulsivo del movimento
nazionale italiano, giocando
contemporaneamente sia sul piano
dei rapporti con le forze politiche
degli altri stati della penisola, sia su
quello dell'alta diplomazia con le
grandi potenze.
Il successo della sua azione –
attraverso la Società nazionale, che
conquistò un'indubbia egemonia

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anche sui democratici più accesi – e la sua abilità nel


pilotare il processo di unificazione sono infatti dovuti
principalmente a queste capacità di combinare
insieme un'eccezionale sensibilità all'interno e
un'accurata politica delle alleanze internazionali, che
gli permise di operare tra gli interstizi degli equilibri
europei.

La seconda guerra di indipendenza è la guerra


con la quale il Piemonte ottenne l'annessione della
Lombardia. L'annessione fu preceduta da un fitto e
complesso gioco diplomatico, le cui origini possono
essere fatte risalire all'intervento piemontese nella
guerra di Crimea (1855). Francia e Gran Bretagna,
impegnate contro la Russia, avevano richiesto
l'intervento dell'Austria, che però, restia a scendere in
campo contro la grande potenza conservatrice, aveva
accampato preoccupazioni circa le intenzione
piemontesi al confine lombardo: cosicché al
Piemonte era stato chiesto insistentemente di
partecipare esso stesso alla campagna. Vittorio Emanuele spingeva per la guerra. Cavour
tergiversava, rendendosi conto delle percussioni che avrebbe avuto tra l'opinione pubblica liberale
la partecipazione a una guerra a fianco dell'Austria.
Presa la decisione dell'intervento, la situazione fu salvata dalla scelta dell'Austria di non entrare
in guerra. Il Piemonte, però, a guerra vinta poté partecipare fra i vincitori al congresso di pace di
Parigi e proporre in quel contesto la questione italiana.
Si poterono così verificare gli atteggiamenti degli altri stati. Aperta benevolenza con cui Gran
Bretagna e Francia guardavano al liberalismo italiano, il discredito del regime retrogrado delle Due
Sicilie – indicato da Cavour come perenne causa di pericoli rivoluzionari –, la disponibilità ad
appoggiare o almeno tollerare l'iniziativa piemontese in Italia.

Inoltre erano forti le possibilità di accordi operativi con la Francia di Napoleone III, interessato
a influire nei casi italiani. L'attentato di Felice Orsini all'imperatore francese del 14 gennaio 1858,
che avrebbe potuto pregiudicare la causa italiana, fu invece utilizzato da Cavour per dimostrare a
Napoleone III la pericolosità della situazione in Italia e l'opportunità di un intervento francese per
scalzare l'egemonia austriaca e allentare la pressione rivoluzionaria. Il 20 luglio 1858, in un
incontro segreto a Plombières tra Napoleone III e Cavour, furono concordate le linee di fondo per
una soluzione definitiva della questione italiana e la Francia si impegnò a intervenire militarmente a
fianco del Piemonte nel caso di un'aggressione da parte dell'Austria.
Il piano prevedeva un regno italiano settentrionale, comprendente Lombardia, Veneto ed Emilia
Romagna sotto il dominio di casa Savoia; una monarchia al centro, che Napoleone III sperava di
affidare al cugino Gerolamo Napoleone (cui fu stabilito di dare in sposa la figlia di Vittorio
Emanuele, Clotilde); un regno meridionale, dove l'imperatore francese avrebbe visto bene un figlio
di Murat; al papa sarebbe rimasta Roma. Il Piemonte avrebbe dovuto cedere Nizza e la Savoia alla
Francia. Cavour fece accettare queste condizioni a un recalcitrante Vittorio Emanuele. Bisognava
ora soltanto provocare l'Austria in modo tale che il Piemonte apparisse vittima di un'aggressione.

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L'occasione fu offerta dall'ultimatum posto il


23 aprile 1859 dall'impero asburgico al
Piemonte, che aveva avviato un'ostentata
politica di riarmo. Cavour rispose con un secco
rifiuto e all'Austria non rimase che la via della
guerra (26 aprile 1859): guerra formalmente
difensiva per il Piemonte, invaso dall'esercito
austro-ungarico.
Divenne così operante il patto d'alleanza con
le truppe francesi, che raggiunsero il teatro delle
operazioni tra il 10 e il 14 maggio 1859.

Ottima prova diedero i Cacciatori delle Alpi, guidati da Giuseppe Garibaldi. Prima a il 4
giugno, poi a Solferino e San Martino il 24 giugno, in sanguinosissime battaglie prevalsero le forze
franco-piemontesi. Il 6 luglio l'imperatore francese decise unilateralmente di sospendere le ostilità e
impose a Vittorio Emanuele con l'armistizio di Villafranca (11 luglio) le seguenti condizioni: la
Lombardia, ceduta alla Francia, veniva da questa donata al Piemonte; nella Toscana (insorta
nell'aprile), a Parma e a Modena (liberatesi nel giugno) venivano ripristinate le autorità legittime; le
fortezze del quadrilatero restavano all'Austria insieme alle Venezie.
La decisione francese fu determinata da molte cause: il massacro di Solferino (costato ai
francesi migliaia di vittime), un'epidemia di colera e soprattutto l'atteggiamento della Prussia.
Questa temeva un'eccessiva espansione dell'influenza francese e aveva minacciato di allearsi
all'Austria e di attaccare la Francia da nord.
tale decisione fu tuttavia colta come un tradimento dal movimento nazionale italiano e da
Cavour, che per protesta si dimise.

Dove si arrestò la diplomazia cavouriana, proseguì dal basso del movimento indipendentista: il
progetto di pace di Napoleone urtò infatti contro la resistenza dei governi provvisori dell'Italia
centrale, che nel frattempo si erano dati un proprio esercito, comandato da Garibaldi.
Sotto la spinta di Bettino Ricasoli, essi chiedevano con fermezza l'annessione al Piemonte.
Decisi a opporsi alla restaurazione degli antichi sovrani, essi resistettero fino al marzo del 1860,
quando, ritornato Cavour al governo in Piemonte, su pressione di Francia e Gran Bretagna e contro
la volontà del re, si trovò una soluzione.
Si convinse Napoleone ad accettare il compromesso: con due plebisciti Toscana ed Emilia si
pronunciarono per l'annessione al Piemonte; con
il medesimo procedimento Nizza e la Savoia
passarono alla Francia.

La seconda tappa dell'unificazione italiana è


costituita dall'annessione dei territori
meridionali. Contrariamente alla tappa
precedente, furono fondamentali l'iniziativa dal
basso dei rivoluzionari e il genio militare di
Garibaldi.
In primo piano ci furono le attività del
Partito d'azione e il moto sociale di rivolta delle
popolazioni meridionali, che crearono il

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necessario contesto entro cui poté trionfare la spedizione dei mille.


Dopo il trattato di Villafranca, l'agitazione mazziniana era ripresa con rinnovato vigore e si era
fatta particolarmente intensa nel regno delle due Sicilie. Rosolino Pilo e Francesco Crispi avevano
individuato nel regime borbonico un terreno fertile per l'insurrezione.
Dopo la rivolta di Palermo dell'aprile 1860, il Partito d'azione riuscì a convincere Garibaldi a
guidare in Sicilia una spedizione di un migliaio di uomini, in prevalenza lombardi e veneti, con
qualche piemontese e ligure, operai, artigiani, giovani borghesi.
Partiti da Quarto nella notte del 5 maggio, i Mille raggiunsero Marsala l'11, sbaragliarono le
truppe borboniche il 15 a Catalafimi e il 20 a Milazzo; il 6 giugno liberarono infine Palermo (nei
pressi morì Pilo, alla testa delle squadre armate che aveva organizzato per aiutare Garibaldi). In
agosto sbarcarono in Calabria e il 7 settembre occuparono Napoli, da cui il sovrano Francesco II,
succeduto a Ferdinando II, era fuggito a Gaeta per rifugiarsi.

Tutta quanta l'operazione venne condotta contro la volontà di Cavour, anche se con la segreta
benevolenza del re. Lo statista piemontese temeva infatti sopra ogni cosa un rafforzamento del
Partito d'azione e in generale dei repubblicani. L'impresa garibaldina offriva loro non solo
l'occasione di un clamoroso rilancio, ma anche la possibilità di governare un ampio territorio. Se
poi, conquistata Napoli, Garibaldi avesse voluto raggiungere lo Stato pontificio e Roma, Cavour ne
temeva lo scontro con le truppe francesi poste a difesa del Papa, che avrebbe provocato un incidente
internazionale.
Cavour non desiderava l'unificazione di tutta l'Italia a ogni costo e non in tempi brevi, e
intendeva garantirsi un sufficiente periodo di tempo per consolidare il governo al nord; si
sarebbe accontentato di una soluzione dualistica, con Vittorio Emanuele al nord e i Borboni al
sud.
Temeva che un'Italia troppo forte e cresciuta in fretta avrebbe sollevato l'ostilità delle grandi
potenze. Cavour fece perciò tutto il possibile per ostacolare la spedizione garibaldina. Essa riuscì
tuttavia a sfuggire alla flotta sarda, incaricata di bloccare le navi Piemonte e Lombardo su cui erano
imbarcati i Mille.
Cavour, pertanto, inviò subito al sud Giuseppe La Farina, col compito di contrastare i piani
democratici e di organizzare un moto moderato a Napoli – fallito miseramente prima dell'arrivo dei
garibaldini – in modo da strappare loro l'iniziativa.

Il Partito d'azione, e più in generale i radicali, ebbero in quel momento la loro grande occasione.
Garibaldi aveva assunto fin da maggio la carica di dittatore in Sicilia, nominando Crispi segretario
di Stato. I radicali avevano in mano l'iniziativa e potevano dare credibilità e operatività al proprio
programma. Se fossero riusciti a giungere dalla Sicilia a Roma avrebbero potuto realizzare l'unità
d'Italia per via rivoluzionaria e immediata, anziché attraverso successive e graduali annessioni al
Piemonte sabaudo. In secondo luogo, e questa era la soluzione sollecitata da lontano da Mazzini,
una volta impadronitisi di mezza Italia avrebbero potuto convocare un'assemblea costituente e
decidere soluzioni diverse da quella monarchica, in senso repubblicano e federalistico.

L'occasione però fu perduta. I radicali non seppero affrontare la rivoluzione meridionale


nell'unico modo possibile: legandosi strettamente al moto di rivolta sociale che aveva sorretto e dato
forza alla loro iniziativa politica. Lungo tutto l'itinerario della spedizione garibaldina, le popolazioni
contadine insorte avevano iniziato un violento processo di liberazione dell'antico sfruttamento: si
erano impadronite delle terre, avevano rivendicato la ripartizione dei terreni demaniali e aggredito
notabili e possidenti nelle forme tradizionali della rivolta agraria. L'impresa dei mille era sentita

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come un rovesciamento radicale degli ordinamenti


sociali e come una rifondazione totale,
millenaristica.
Tuttavia i radicali settentrionali non assunsero la
direzione del moto, non lo guidarono al di là degli
eccessi con un programma credibile. Interessati
unicamente a fare l'Italia e portatori di un discorso
essenzialmente politico, da cui erano estranee le
istanze sociali, se ne ritrassero: in Sicilia si
limitarono ad alleggerire il carico fiscale dei più
poveri, ma si preferì l'appoggio della borghesia
liberale e dell'aristocrazia. Queste componenti della
classe dominante avevano cominciato a considerare Garibaldi come la migliore garanzia d'ordine
contro la rivolta delle classi subalterne.
Il fronte radicale era diviso. I mazziniani conservavano un atteggiamento di ostilità verso il
Piemonte e continuavano a guardare con favore a una soluzione repubblicana, Garibaldi, invece, pur
mantenendo un'assoluta ostilità per Cavour, di cui continuava a chiedere le dimissioni, restava
fedele al programma “Italia e Vittorio Emanuele” e, giunto al termine dell'impresa, intendeva
offrire la corona d'Italia al re piemontese.
Cavour ebbe così buon gioco a imporre alla fine la propria iniziativa, approfittando della
favorevole congiuntura internazionale. Contando sulla simpatia della Gran Bretagna in cui erano
tornati al potere i whigs di Palmerston, egli convinse la Francia della necessità di fare intervenire le
truppe piemontesi nel centro-sud per impedire a Garibaldi (il cui esercito di volontari aveva
raggiunto i 53.000 uomini) di puntare su Roma e imporre così l'egemonia radicale sul movimento
nazionale italiano.
I generali Manfredo Fanti e Enrico
Cialdini l'11 settembre 1860, col consenso
delle maggiori potenze, penetrarono nello
Stato della Chiesa, occuparono le Marche e
l'Umbria, sconfissero le truppe del papa a
Castelfidardo (8 settembre) e marciarono
verso il napoletano. Garibaldi sconfisse le
truppe borboniche nella battaglia di Volturno
(1-2 ottobre), doveva decidere se proseguire
verso Roma scontrandosi con i piemontesi e
come affrontare le rivolte contadine contro i
proprietari terrieri.
Cavour fece prontamente votare al
parlamento piemontese l'annessione di Napoli e della Sicilia al regno sabaudo: se i repubblicani si
fossero opposti, sarebbero ora apparsi come i nemici dell'unità.
A Garibaldi non restò che accettare la sconfitta politica: dopo i plebisciti del 21 ottobre, che
approvarono l'annessione, e lo storico incontro di Teano (26 ottobre), in cui salutò Vittorio
Emanuele "re d'Italia", egli si ritirò nell'isola di Caprera.

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Il 17 marzo 1861 il parlamento nazionale


proclamava ufficialmente il sovrano
piemontese re d'Italia "per grazia di Dio e
volontà della nazione", col nome di Vittorio
Emanuele II. Si sanzionava così la continuità
con la dinastia sabauda e si segnava il definitivo
trionfo della via moderata all'unità.

Al momento della sua unificazione, l'Italia


era un paese essenzialmente agricolo,
(producendo il 57 per cento del prodotto
nazionale lordo), l'industria era embrionale e
debole (producendo il 20 per cento del prodotto). La rete dei trasporti era quasi inesistente (1.707
km di ferrovie, di cui 850 km concentrati nel regno sardo-piemontese, 483 km nel Lombardo-
Veneto e 225 km in Toscana: 22.500 km di strade nazionali e 63.500 di strade comunali, contro i
400.000 della Francia del secondo impero); il reddito nazionale era pari a 1/3 di quello francese e a
¼ di quello inglese; vi era un 78 per cento di analfabetismo e un elevatissimo frazionamento
regionale (non più del 2,5 per cento della popolazione parlava italiano).
L'isolamento geografico e la mancanza di vie di comunicazione, il permanere di forme di
proprietà e di gestione semi-feudali e la scarsità degli investimenti avevano fatto sì che la maggior
parte dell'attività agricola fosse destinata all'autoconsumo e che la produzione per il mercato fosse
limitatissima. Neppure per l'acquisto dei prodotti industriali il contadino si rivolgeva al mercato, ma
ricorreva piuttosto al lavoro domestico (la tessitura o produzione di attrezzi agricoli). Lo scambio
città-campagna era perciò decisamente asfittico e limitato. Variava poi a seconda delle differenti
aree geografiche.

Al nord iniziava a penetrare qualcosa del capitalismo nelle campagne: nasceva un ceto di
imprenditori agrari, molto spesso fittavoli (non proprietari della terra), disponibili a investire il
proprio capitale nel miglioramento e nella gestione del fondo secondo criteri di efficacia e tecniche
moderne, in particolare nell'allevamento e nella risicoltura. Essi impiegavano una manodopera
salariata bracciantile “liberata” dalla crisi della piccola proprietà contadine a gestione familiare,
assai diffusa sia in Piemonte sia in Lombardo-Veneto ma incapace, per mancanza di capitali, di
procedere al necessario ammodernamento della produzione. Investimenti di tipo capitalistico si
ebbero anche nelle piantagioni di gelsi per la produzione industriale della seta.
Nell'Italia centrale la situazione era più arretrata, in particolare nel territorio dell'ex Stato
della Chiesa. La grande estensione delle terre ecclesiastiche, la diffusione della mezzadria
(prevedeva che un contadino lavorasse la terra altrui e i prodotti e gli utili venivano divisi a metà
con il proprietario) e del piccolo affitto e la permanenza della piccola azienda familiare come
cellula base della produzione agraria determinavano una relativa arretratezza. Anche in Toscana si
preferiva la mezzadria, forma di gestione economica decisamente conservatrice.
Soprattutto nell'Italia meridionale che l'agricoltura era drammaticamente arretrata. Il
prevalere del latifondo vi determinò un pesante stato di degradazione e di immobilismo. Il basso
tasso di produttività della terra, a causa di sistemi arcaici e della mancanza di investimenti, la
miseria, la forte spinta delle popolazioni a rivendicare la distribuzione delle terre demaniali (preda
della bassa nobiltà e dei nuovi ricchi di origine borghese) avevano determinato la radicalità della
rivolta contadina, che segnò il successo della spedizione dei mille.

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Con il 1861 l'unificazione del mercato


nazionale, una delle condizioni per lo sviluppo
capitalistico, era compiuta. Tutto era riposto
nell'iniziativa della classe politica alla guida del
nuovo stato unitario. Occorreva in primo luogo,
procedere all'unificazione amministrativa del
nuovo regno, sostituendo un'amministrazione
nazionale alle legislazioni e alle strutture dei
vecchi stati (eserciti, burocrazia, codici, bilanci)
e imponendo una direttiva omogenea nel campo
della politica doganale (i diversi stati preunitari
godevano di elevate barriere doganali). In
secondo luogo si doveva sviluppare la rete di comunicazioni, per realizzare un'effettiva
circolazione delle merci, e bisognava rendere operative quelle infrastrutture (poste e telegrafi)
indispensabili all'integrazione geografica del paese. In terzo luogo, ci voleva un sistema scolastico
capace di limitare il tasso di analfabetismo e compatibile con le esigenze di una moderna economia.
In quarto luogo, il bilancio del nuovo stato presentava un deficit di oltre 500 milioni (le spese della
guerra del 1859 ammontavano a 263 milioni e l'indennità da pagare all'Austria a 180 milioni), a cui
occorre aggiungere il debito pubblico (oltre 2.200 milioni) di cui erano caricati gli stati preunitari e
che ora veniva ereditato dal nuovo stato unitario.

L'economia italiana veniva a trovarsi nel momento del suo inserimento nel mercato
internazionale si trovava di fronte all'esigenza prendere delle scelte drastiche: liberismo o
protezionismo, sostegno all'industria o all'agricoltura, sviluppo equilibrato nord-sud o primato delle
aeree più dinamiche, fiscalismo rigido o astensionismo statale in campo economico, sostegno alla
domanda di mercato o prevalenza del risparmio e dell'investimento.

Il 6 giugno 1816 moriva Cavour. Il compito di risolvere i numerosi problemi connessi alla
costituzione del nuovo stato unitario spettava quindi alla classe politica moderata, definita in
seguito destra storica.
Si trattava di un ceto politico omogeneo e compatto, portatore di un'ideologia decisamente
conservatrice, composto da una ristretta élite. Ne facevano parte uomini come Rattazzi e La
Marmora, già protagonisti del connubio cavouriano; imprenditori come Quintino Sella e
Giovanni Lanza (tutti piemontesi); i moderati toscani, che nel 1859 avevano svolto un ruolo
decisivo nel determinare l'annessione al Piemonte (in primo luogo Bettino Ricasoli); infine i
moderati emiliani (Mario Minghetti e Luigi Carlo Farini).
Il modello di gestione si fondava su una base di rappresentanza estremamente ristretta e su un
sistema elettorale che ammetteva al diritto di voto meno del 2 per cento della popolazione, cioè
soltanto l'aristocrazia del censo, del sapere e delle alte cariche pubbliche. Escludeva dalla vita
politca la stragrande maggioranza dei cittadini e affidava alla classe politica un notevole potere di
decisione e di governo: garantiva poi una particolare stabilità, grazie alla quasi assoluta omogeneità
tra elettori e rappresentanti, sia sul piano della composizione sociale sia su quello degli interessi e
delle opinioni (come le ferrovie e le banche), per accelerare la formazione di un mercato unificato.
Si contrapponeva a una concezione dello sviluppo ancora incentrato sul ruolo guida dell'agricoltura,
assunta come settore trainante.

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Simone Stricelli

Fu deciso di applicare a tutto il territorio


nazionale (entro il 30 ottobre 1860) la tariffa
doganale del Piemonte, inferiore quasi del'80
per cento rispetto a quelle degli stati preunitari
più protetti, come il regno delle Due Sicilie.
Inseriva direttamente l'Italia nel contesto
europeo, l'apriva a nuovi influssi commerciali e
imponeva alle aree agricole dinamiche –
pianura Padana ed emiliana – un'ulteriore
modernizzazione; dall'altra tuttavia esponeva le
aree più arretrata e meno competitive a
contraccolpi disastrosi e sacrificava
gravemente le già deboli industrie meccaniche
e metallurgiche, incapace di reggere la concorrenza diretta delle più sviluppate imprese europee.
La seconda grande scelta riguardò la politica di bilancio: si trattava di decidere di puntare
sull'ampliamento del mercato con una politica fiscale discreta, scontare anche un prolungamento del
deficit e affidare al successivo sviluppo il compito di eliminarlo, se perseguire una rigorosa politica
di pareggio del bilancio, fondata su una stretta fiscale che rastrellasse sul mercato le più ampie
quote di reddito.

Il carico fiscale non fu distribuito in misura proporzionale al censo tra i vari strati sociali.
Anche nella definizione dei criteri di tassazione prevalsero le scelte e le solidarietà di classe e si
evidenziò la natura sociale del blocco dominante. Si mantenne bassa l'imposta fondiaria, favorendo
la grande proprietà terriera e la rendita, furono danneggiati in misura maggiore i redditi dei settori
industriali e commerciali e, soprattutto col ricorso alle imposte dirette, si colpì indiscriminatamente
tutta la popolazione, in particolar modo le masse contadine più povere. Su queste ultime pesava tra
l'altro la famigerata imposta sul macinato del 1868 (l'imposta doveva essere pagata al mugnaio da
colui che aveva portato il grano alla macina, prima del ritiro della farina), che incideva direttamente
sul prezzo del pane.

La rinuncia all'uso di misure rivoluzionarie – come il disconoscimento del debito pubblico e


degli impegni finanziari assunti dagli stati preunitari, l'epurazione delle vecchie burocrazie –,
determinata dalla volontà di caratterizzare in senso moderno il trapasso alla gestione sabauda e di
non rompere con le classi proprietarie, fece sì che il deficit di bilancio aumentasse enormemente.
Inoltre la Destra storica non ricorse all'aiuto dei privati, ma impegnò direttamente lo stato
nella costruzione e nel finanziamento delle infrastrutture essenziali all'unificazione
economica: nelle ferrovie furono investiti ben 1.850 milioni e in un ventennio la rete rotabile
raggiunse gli 8.700 km, le strade 3.500 km. Tutto ciò, sommato agli investimenti su poste e
telegrafo, impose ulteriori carichi all'erario.

Per quanto riguarda la questione della forma amministrativa da dare al nuovo stato, i federalisti,
proprio in considerazione delle forti differenze che ancora dividevano la penisola (in particolare il
nord più sviluppato dal sud arretrato), sarebbero stati favorevoli alla costruzione di un sistema
amministrativo su base regionale. Volevano cioè una struttura fondata sul decentramento
amministrativo, che desse maggiore spazio alle autonomie locali e si avvalesse delle strutture e del
personale dei precedenti stati.

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Simone Stricelli

Si mossero uomini come Carlo Cattaneo o


Stefano Jacini, per lo più di provenienza
lombarda, timorosi dell'egemonismo sabaudo;
ma anche esponenti della componente emiliana
e toscana, come Marco Minghetti, non
schierati su posizioni federaliste, eppure fautori
di un moderato decentramento.
A favore del centralismo era invece la
componente piemontese, schierata su posizioni
conservatrici. Essa influenzata dal modello
amministrativo della Francia napoleonica e
temeva che sia pur parziali concessioni al
regionalismo indebolissero il già fragile stato
unitario, dando spazio ai localismi: si batteva quindi per rafforzare il potere di controllo della classe
politica piemontese e l'amministrazione sabauda sul resto del paese. Considerava infatti il processo
di unificazione come una sorta di annessione al regno sardo-piemontese.
La Destra storica impose con nettezza il proprio segno: con la legge del 20 marzo 1865, il
governo presieduto dall'esponente della destra Alfonso La Marmora decretò l'applicazione del
modello amministrativo dello stato sabaudo al resto d'Italia. Venne divisa in 59 province
amministrate da prefetti, cioè da rappresentanti del potere centrale nominati dal re e dotati di
un'ampia autorità. L'alto funzionario divenne così uno strumento fondamentale di controllo
dell'autorità sull'operato degli enti locali. Ogni provincia a sua volta, venne divisa in comuni,
ognuno presieduto da un sindaco.

Con la legge del 2 aprile 1865 venne realizzata l'unificazione legislativa, estendendo a tutto
il territorio il corpus giuridico piemontese; il 25 giugno dello stesso anno fu promulgato un codice
civile unitario, ispirato a quello napoleonico. Contemporaneamente si trasferiva ovunque personale
amministrativo piemontese, sostituendo i precedenti funzionari e creando spesso situazioni di
tensione con le popolazioni locali.
Il sistema scolastico fu strutturato su base nazionale e con indirizzi centralistici: fin dal
1860, infatti, venne estesa a tutti i territori unificati la legge Casati, che prevedeva l'istruzione
elementare e gratuita per i primi due anni e istituiva una struttura educativa ispirata a criteri
fortemente aristocratici.
L'intero quadro di comando dell'esercito fu tratto dall'esercito piemontese. Fortemente
sacrificati furono i volontari garibaldini, che vennero inseriti nei ranghi del nuovo esercito italiano
solo in minima parte e sempre in ruoli subalterni. Ma anche gli ufficiali dei piccoli eserciti toscano e
borbonico furono tenuti in disparte, ai margini della carriera. Fu, inoltre, istituito su tutto il
territorio nazionale il servizio obbligatorio di leva.

Queste soluzioni contribuirono ad attenuare le spinte centrifughe, ma produssero tuttavia una


crescente ostilità verso quello che a molti sembrò un potere estraneo interessato a rafforzare
l'immagine di conquista piemontese assunta dall'unificazione italiana.

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Si erano da poco spenti i


combattimenti tra bande
garibaldine e truppe borboniche,
quando il fenomeno del
brigantaggio sconvolse l'area tra
l'Irpinia, la Basilicata, il Casertano
e la Puglia. Iniziata nell'autunno
del 1860, si protrasse per oltre un
quinquennio, raggiungendo
dimensioni di massa e imponendo
ai piemontesi provvedimenti
eccezionali. Si calcola che le bande
fossero più di 350 (almeno 33 con
più di 100 uomini) e abbiano
coinvolto decine di migliaia di
ribelli, comandati da capi dai nomi leggendari come Crocco (ex bracciante), La Gala (ex soldato
borbonico) e Pasquale Romano (ex garibaldino). La guerriglia era anche alimentata dalla
propaganda borbonica, particolarmente forte nei territori al confine con lo Stato della Chiesa
(offriva anche rifugio e basi d'appoggio ai briganti).
La virulenza del fenomeno era soprattutto il prodotto del disagio sociale, della delusione seguita
alle promesse non mantenute della riforma agraria. Si trattava della disperata reazione di un mondo
contadino che trovava nella figura del brigante il proprio “eroe sociale”, capace di contrapporsi al
nuovo stato fondato sulla recente alleanza tra borghesia settentrionale e proprietà terriera
meridionale. Assunse ben presto i caratteri di una vera guerra civile e costrinse i piemontesi ad
aumentare sempre più il numero dei soldati impiegati al sud: dai 22.000 iniziali si arrivò a un
massimo di 120.000 nel 1863.
Si proclamò lo stato d'assedio e fu votata una legge speciale che affidava la competenza per i
reati di brigantaggio ai tribunali militari. Così la rappresaglia dello stato fu durissima: incendi e
distruzione di interi villaggi, fucilazioni senza processo di centinaia di contadini sospetti di portare
armi, uso indiscriminato della legge di guerra.
Il brigantaggio fu un fenomeno diffuso in tutta la parte continentale dell'ex regno delle Due
Sicilie, ma la sua competenza fu più intensa e temibile per il nuovo regno d'Italia nell'area
appenninica compresa tra l'Abruzzo meridionale e la Basilicata. Quelle aeree si prestavano bene a
una guerra per bande, tanto più a una guerra contro un “nemico” che poteva contare su una limitata
conoscenza dei luoghi. D'altra parte proprio in quelle aree appenniniche era più fragile l'economia
agricola tradizionale e più diffuso il timore che lo sviluppo di un'economia moderna costituisse una
minaccia grave per le già precarie condizioni di vita dei contadini poveri.

Alla questione sociale si contrapponeva quella politica. La questione romana era resa
incandescente dalla decisione del primo parlamento italiano di dichiarare nella seduta del 27 marzo
1861, Roma futura capitale d'Italia, mentre ancora la città era saldamente in mano al Papa, garantito
dall'appoggio delle principali potenze europee. Avevano rivendicato Roma come capitale e si erano
espressi a favore di una sua rapida conquista in particolare il Partito d'azione e più in generale i
democratici.
I moderati erano riusciti a controllare pienamente il processo di unificazione, per la corrente
democratica risorgimentale la questione romana era un'opportunità per recuperare una presenza
politica significativa. La questione romana appariva al centro della complessa rete di alleanze

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tessuta dai moderati nel contesto europeo: far precipitare la situazione, accelerare e forzare il
processo di unificazione, ponendo, cioè la questione in termini rivoluzionari, avrebbe significato
mettere in gravissima difficoltà la Destra e la sua intera politica estera.
La problematica politico-religiosa della questione romana esasperava la contrapposizione tra
l'intransigente anticlericalismo (e per certi aspetti anticattolicesimo) dei democratici e la logica più
mediatrice e compromissoria di parte della destra. La formula separatista cavouriana “Libera
Chiesa in libero Stato” si basava infatti sull'idea di un compromesso stabile tra Stato liberale e
Chiesa cattolica, fondato sulla rinuncia da parte della seconda al proprio potere temporale in
cambio del dominio spirituale, e sull'impegno del primo di garantire non soltanto la piena
libertà religiosa ma “il primato etico-civile del cattolicesimo come base della vita nazionale”. In
questo senso si erano orientate le trattative di Cavour con la Santa Sede.
Nella stessa direzione si era mosso Bettino Ricasoli, che il 12 giugno del 1861 gli succedette
alla guida del governo. Questi aveva tentato, senza risultato, sia di convincere Pio IX a una
soluzione negoziata, sia di ammorbidire la posizione francese sulla questione: da un lato Pio IX
difese il proprio potere temporale con intransigenza, opponendo un netto “non possumus” alle
ipotese diplomatiche italiane; dall'altro, Napleone III protrasse ulteriormente la permanenza delle
truppe francesi nello Stato pontificio, avvertendo nel contempo che un'iniziativa italiana su quel
territorio sarebbe stata considerata alla stregua di un'aggressione diretta.
Ricasoli, contestato sia dalla destra (che avrebbe preferito maggior cautela) sia dalla sinistra
(caldeggiava una politica estera più aggressiva, minacciando un'azione di tipo garibaldino), dopo
nove mesi di governo, il 3 marzo del 1862, dovette rassegnare le dimissioni. Lo sostituì Urbano
Rattazzi.

Garibaldi fu incoraggiato dal tacito assenso del governo italiano che, secondo una tecnica già
sperimentata da Cavour, sperava di poter trarre vantaggio dall'azione dal basso senza
compromettersi, e si diede allora a organizzare gruppi di volontari.

L'appoggio della Gran Bretagna non era più condizionato; e la Francia, più guardinga nei
confronti della potenza cresciutale ai confini meridionali, rimaneva intransigente.
Napoleone III dichiarò la sua aperta ostilità a ogni iniziativa. Rattazzi e il re intervennero
sciogliendo con la forza le organizzazioni di volontari a Sarnico il 15 maggio 1862.

Più energicamente il governo italiano intervenne quando Garibaldi, pochi mesi più tardi, tentò
l'avventura dal sud; concentrò i propri volontari in Sicilia e puntò su Roma. Voleva ripetere la
gloriosa impresa di due anni prima. Il governo italiano, pressato dalla Francia, proclamò lo stato
d'assedio e ordinò alle truppe regolari di fermare i volontari sulle pendici dell'Aspromonte, in
Calabria: l'esercito italiano non esitò ad aprire il fuoco. Garibaldi fu ferito, arrestato e rinchiuso nel
forte di Varignano (amnistiato si rifugiò a Caprera). L'8 dicembre 1862 anche il governo Rattazzi fu
costretto a dimettersi.

I governi che si succederanno dovranno adottare una tattica del tutto diversa, fatta di caute
trattative diplomatiche ma attenta, nel contempo, a sfruttare gli spiragli aperti nel quadro europeo
delle contraddizioni tra le potenze dominanti.
Così farà il ministero presieduto dal moderato bolognese Marco Minghetti, succeduto nel
marzo del 1863 al governo di transizione di Luigi Carlo Farini. Convinto della necessità di una
soluzione consensuale della questione romana, Minghetti si mosse sul piano diplomatico con
l'obbiettivo prioritario di rassicurare le grandi potenze, in particolare la Francia. Il 15 settembre del

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1863 Napoleone III firmò un accordo in base al quale il governo italiano si impegnava a difendere i
confini dello Stato Pontificio e a stabilire la propria capitale a Firenze (implicita rinuncia a Roma);
in cambio i francesi avrebbero ritirato le truppe entro due anni. In questo modo ci si garantiva la
benevolenza di Napoleone III (il cui il presidio di Roma incominciava a costare eccessivamente) e
contemporaneamente si ponevano i democratici di fronte al fatto compiuto. L'ondata impopolare di
tale soluzione travolse il governo. I democratici denunciarono con la forza il carattere di definitiva
rinuncia a “Roma capitale” della convenzione.
Torino insorse, il 21 settembre, contro la decisione di trasferire la capitale; ci fu una
sanguinosa repressione che causò 30 morti. Minghetti fu così costretto alle dimissioni (23
settembre 1864) e venne sostituito alla guida del governo generale La Marmora (28 settembre
1864).

Il Vaticano, allarmato per le possibili conseguenze dell'accordo italo-francese, accentuò


ulteriormente il proprio atteggiamento di intransigente chiusura al liberalismo e di ogni forma di
modernizzazione. Pio IX denunciò i principi liberali come “funestissimi errori del nostro tempo”.

Andavano maturando, sul piano internazionale, le condizioni per un'ulteriore tappa al processo
di unificazione: la conquista delle Venezie, ancora sotto il dominio austriaco. Decisivo era il
progressivo indebolimento dell'Impero asburgico, sotto la pressione del processo di unificazione
tedesca e in seguito alla crescente aggressività della Prussia. Di esso saprà infatti giovarsi il governo
italiano, attuando un'attenta politica delle alleanze.
L'8 aprile 1866, di un trattato segreto di alleanza con la Prussia: in cambio avrebbe avuto il
Veneto e gli altri territori italiani ancora sotto il dominio asburgico. La clausola prevedeva che
nessuno dei due paesi potesse concludere un armistizio o la pace senza l'assenso dell'altro.
Il 17 giugno del 1866 la Prussia dichiarò guerra all'Austria, il presidente del consiglio italiano,
generale La Marmora, si dimise per raggiungere lo stato maggiore al fronte, cedendo la guida del
governo a Ricasoli.
Il 20 giugno anche l'Italia entrò ufficialmente in guerra. La situazione però fu subito
difficilmente per l'Italia. La Marmora, superato il fiume Mincio alla testa di forze numericamente
superiori, fu affrontato dal duca Alberto d'Asburgo e fu costretto a una disonorevole ritirata.
All'origine dell'indecorosa sconfitta vi furono clamorosi errori strategici, ingenuità,
disorganizzazione; ma determinante fu la rivalità tra i due comandanti dell'esercito, il generale La
Marmora (che guidava il grosso delle truppe attestato sul Mincio) e il generale Cialdini (schierato
sul basso Po). Tale rivalità impedì anche una controffensiva italiana, nonostante il numero delle
perdite fosse stato fino ad allora limitato (lo stesso giorno della vittoria prussiana a Sadowa) e
penetrarono profondamente nel Trentino: il 21 luglio, dopo una seconda vittoria a Bezzecca, si
apriranno la strada verso Trento. Una seconda catastrofe militare gettò una profonda ombra di
discredito sull'Italia: il 20 luglio, nei pressi dell'isola dalmata di Lissa, la flotta italiana fu
clamorosamente sconfitta dall'ammiraglio austriaco Wihelm Von Tegethoff. Ciò indebolì
gravemente la posizione italiana nei confronti dell'alleato prussiano: Bismarck scelse di non
umiliare eccessivamente l'Austria e firmò l'armistizio, il 26 luglio, senza neppure interpellare il
governo italiano1. L'8 agosto il governo ordinò a Garibaldi di ritirarsi dal Trentino, in buona parte
occupato dai volontari. L'armistizio fu firmato il 12 agosto a Cormons, vicino a Gorizia.
Il trattato di pace tra Prussia e Austria, siglato a Praga il 23 agosto 1866, non prenderà neppure
in considerazione l'Italia: il Veneto sarebbe stato ceduto formalmente dall'Austria a Napoleone III,

1 Senza il consenso dell'Italia non avrebbe potuto.


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il quale avrebbe provveduto a trasferirlo all'Italia; Trento e la Venezia-Giulia sarebbero invece


rimaste all'Austria.
Venne approvata e sanzionata anche dal trattato di pace tra Austria e Italia, siglato a Vienna il 3
ottobre 1866, con cui l'imperatore austriaco riconosceva anche il regno d'Italia. Il 19 ottobre 1866 il
generale austriaco Karl Moring consegnerà ufficialmente Venezia al generale francese Edmond
Le Boeuf, il quale a sua volta la cederà ai rappresentanti della città lagunare. Il 21 ottobre, un
plebiscito sanzionerà l'unione del Veneto al regno d'Italia: furono 69 i voti contrari su 647.426
votanti.

In questo clima politico avvelenato dalle polemiche e segnato dalla crescente impopolarità del
governo, maturò l'ultima impresa del Partito d'azione. Voleva far marciare su Roma un piccolo
esercito di volontari comandato da Garibaldi e giocare la carta dell'insurrezione popolare nella
capitale. Rattazzi assunse un atteggiamento ambiguo: prima approvò tacitamente l'impresa, poi,
richiamato da Napoleone III agli impegni assunti dal governo italiano, fece arrestare Garibaldi (24
settembre) e lo costrinse al soggiorno obbligato a Caprera. Garibaldi riuscì a raggiungere la Toscana
e a prendere il comando di oltre 9.000 volontari.
Napoleone III, ritenendo violati gli accordi, inviò a Roma 20.000 uomini per garantire la
protezione al Papa.
Un primo tentativo di insurrezione fallì tra il 22 e il 23 ottobre: un gruppo di volontari penetrò
nella città, sotto la guida dei fratelli Cairoli, e fu sconfitto dalle truppe pontificie. Garibaldi,
raggiunto Monterotondo, pochi chilometri da Roma, costrinse il presidio pontificio alla resa; il 3
novembre a Mentana – l'ultimo avamposto sulla strada della capitale – venne però duramente
sconfitto dalla guarnigione francese sbarcata nel frattempo a Civitavecchia.

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Simone Stricelli

Costretto a ripiegare in territorio italiano, Garibaldi fu arrestato dalle truppe regie e rinviato
a Caprera.

L'ondata d'indignazione dell'opinione pubblica contro il governo presieduto dal generale Luigi
Menabrea (succeduto a Rattazzi) e contro la Francia fu fortissima. Essa si saldò alla crisi sociale
aperta dalla legge sul macinato. Il 14 dicembre 1869 il governo Menabrea fu costretto a dimettersi,
sostituito da un ministero presieduto dal piemontese Giovanni Lanza, che si avvalse, come
ministro delle finanze, dell'opera particolarmente efficace di Quintino Sella. Si dedicò in primo
luogo al risanamento finanziario e al pareggio del bilancio assumendo provvedimenti assai severi.
Il governo Lanza approfittò di una situazione internazionale particolarmente favorevole per
risolvere definitivamente la questione romana. Il 19 luglio 1870 scoppiò il conflitto tra Francia e
Prussia e creò le condizioni per un facile intervento militare italiano. All'inizio d'agosto Napoleone
III dovette ritirare i suoi uomini di stanza nel Lazio. In tutta l'Italia cresceva la richiesta popolare
per una soluzione di forza. Il 1 settembre l'imperatore francese cadde prigioniero dei prussiani e il 4
fu proclamata a Parigi la repubblica: il 5 il governo italiano decise all'unanimità di occupare Roma.
Il conte Gustavo Ponza di San Martino fu inviato a Roma con una missiva in Vittorio
Emanuele II offriva al papa Pio IX “tutte le garanzie necessarie all'indipendenza spirituale della
Santa Sede”. Ma il pontefice rifiutò ogni trattativa, e l'esercito italiano, comandato dal generale
Luigi Cadorna, invase lo stato pontificio: il 20 settembre 1870 l'artiglieria italiana aprì una breccia
nelle mura presso Porta Pia e la città fu conquistata. Caddero 49 soldati italiani e 19 soldati
pontifici. Il 2 ottobre un plebiscito sanzionò l'annessione di Roma e del Lazio all'Italia.
Il senato italiano voterà, il 27 gennaio 1871, il trasferimento della capitale da Firenze a
Roma.

La storia, i nomi e i volti di coloro che hanno fondato questo paese sono elencati in queste
pagine. Il racconto non poteva essere che da libro di Storia. Nessuno, probabilmente, dei nostri
padri l'ha mai raccontata veramente da un lato imparziale e obbiettivo. Di fronte al libro che ne
parla preferiamo tenerlo chiuso o a leggerlo con le proprie ideologie e precompressioni. Leggendole
troveremo che, alcune discussioni che si dibattono oggi nelle aule del parlamento, sono le stesse di
cento cinquant'anni fa. Ma quando il nostro paese potrà sentirsi adulto? Quando gli italiani si
potranno sentire appartenenti a questa nazione? Probabilmente è inutile cercare futili motivi per
dividersi ancora. Tuttavia, una cosa è chiara. Dobbiamo camminare verso un nuovo Risorgimento
politico, socio-culturale ed economico. Perché lo sforzo di questi uomini non sia vano. Celebriamo,
dunque, i 150 anni d'Italia.

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Simone Stricelli
150 volte Fratelli d'Italia
I Edizione

Editing: Maria Papa


Progetto grafico: Samanta Sonaglia
Impagniazione: Giovanni Pili
Le immagini non di pubblico dominio sono (c) Simone Stricelli

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