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UNGARETTI E I PITTORI

Rosa Elisa Giangoia

Tutta la vita poetica di Ungaretti è contrassegnata da un costante dialogo collaborativo con


amici pittori.
Gli inizi della sua produzione sono nel crogiolo di intensa ricerca di rinnovamento espressivo in
letteratura e pittura che si vive a Parigi, quando vi arriva dall’Egitto e vi soggiorna tra il ’12 e il ’14.
Il poeta, oltre a frequentare le lezioni del filosofo Henri Bergson, incontra i protagonisti dei
movimenti artistici d’avanguardia, conosce Picasso, Braque, Léger, De Chirico, Cendrars, Jacob,
Modigliani, Salmon e altri e ha occasione di vedere i Futuristi alla Galleria da Bernheim-Jeune.
Allo scoppio della guerra Ungaretti si trasferisce a Milano dove stringe amicizia con Carlo Carrà
che ammira molto anche perché, superato ormai il Futurismo, partecipa alla stessa ricerca
metafisica di De Chirico e ritrova i valori sommi della pittura in Giotto su cui ha pubblicato un
saggio nella Voce nel 1915 riguardo al quale Ungaretti dice «Che cosa delicata e limpida! Hai
approfondito anche il senso di quella pittura, con quel tuo linguaggio che è una vera trasposizione di
realtà».
Sono gli anni che con Il Porto Sepolto (1916) e Allegria di Naufragi (1919) inducono Ungaretti a
comporre una poesia completamente nuova, incentrata sulla parola isolata nella pagina, caricata di
intensa forza espressiva e comunicativa, nell’intento di rompere con la tradizione, grazie a
un’accensione lirica spinta fino agli estremi confini della rarefazione lessicale e sintattica, come le
arti figurative avevano profondamente innovato il modo di esprimersi infrangendo il muro del
naturalismo.
In questi anni ammira anche Ardengo Soffici, conosciuto a Parigi nel ’14 e di cui aveva detto:
«Soffici […] è uno di quelli […] che ha creato il clima dell’arte moderna italiana» e anche: «Ho
visto a Parigi Apollinaire e Picasso e abbiamo parlato di Soffici, bravo, gentiluomo, Soffici maestro
d’arte e di vita». Più tardi, nel ’26, scriverà sul “Mattino”: «Non c’è tentativo artistico del
dopoguerra ch’egli, già prima del 1914, non abbia esaminato».
Nel ’21 Ungaretti si trasferisce a Roma e qui recupera un rinnovato valore della tradizione. Scrive
infatti che «La “Ronda” e i “Valori Plastici” sono, in quel periodo, gli organi banditori da noi della
necessità d’un ritorno nelle lettere e nelle arti a ricerche di stile che non ignorassero i modelli del
passato». In questo clima nasce Sentimento del tempo (1933), testo in cui, specie se guardiamo il
manoscritto di Ungaretti1, vergato con l’abituale inchiostro verde, vediamo che la scrittura si può
interpretare come un disegno che si snoda e variamente riannoda. Tale infatti è l’essenza della
grafia poetica, di quel sublime disegno che è l’alfabeto; e la vera, la propria maniera di disegnare
per un poeta è «volgere il filo e il segno dell’alfabeto per comporre in parole la figurazione astratta
del suo sentimento poetico».
La sostanziale unità nello sviluppo delle arti è confermata ancora dal poeta quando,
nella Risposta all’anonimo,  scrive: «i miei problemi, della mia poesia che va dal 1919 al 1927,
possono essere i problemi di un Picasso o di uno Stravinski», ma anche di Bartok. Sono questi,
infatti, gli anni del generale rappel à l’ordre, di riviste come «Ars Nova» e «Valori Plastici», in cui
si inserisce quell’evoluzione poetica che conduce dall’Allegria al Sentimento del tempo.
A Roma Ungaretti entra in rapporto con altri pittori, i maggiori del momento: sono quelli della
Scuola romana, o Scuola di via Cavour, un eterogeneo gruppo di artisti di attitudine espressionista,
attivo tra il 1928 e il 1945. Tutto nasce quando nel novembre del ’27 Antonietta Raphaël e Mario
Mafai vanno ad abitare al n. 325 di via Cavour in un palazzo umbertino, poi demolito nel ’30 per far
posto a via dei Fori Imperiale. Antonietta nel ’71 così ricorda quella loro casa: «avevamo […] un
terrazzo enorme, meraviglioso, dove mangiavamo, dipingevamo, chiacchieravamo». Questo posto
1
Lo vi può vedere nella pregevole e rara edizione del Concilium Lithograficum di Roma (1945).
diventa un punto di ritrovo per letterati come Enrico Falqui, Libero de Libero, Leonardo Sinisgalli,
oltre ad Ungaretti, e per giovani artisti, come Gino Bonichi (Scipione), Renato Marino Mazzacurati
e Corrado Cagli. Più che da vere e proprie direttive programmatiche sono uniti da amicizia, sintonia
di intenti culturali e da una notevole coesione pittorica nel rifarsi all’espressionismo europeo, il che
li pone in contrapposizione formale e poetica al cosiddetto “Ritorno all’ordine” degli anni Venti.
Ben esprime questo clima Cagli, quando dice: «In un’alba di primordio tutto è nuovamente da rifare
e la fantasia rivive tutti gli stupori e trema di tutti i misteri». Per Cagli Ungaretti ebbe una
particolare considerazione, fin da quando negli anni ’30 il pittore proponeva una nuova metafisica e
anche in seguito quando si orienta verso scelte più eclettiche, pur mantenendo sempre alti livelli
espressivi.
Ampio è il trascorrere di identici motivi verbali e iconici, dalla pagina alla tela e viceversa: non
solo la Roma barocca e carnale di Scipione si riflette nelle poesie del Sentimento, ma anche le
vedute metafisiche di Savinio e De Chirico sembrano trovare un corrispettivo verbale nelle
immagini che il poeta crea tramite le parole. L’«ora cieca» del deserto, «l’ora della monotonia
estrema», visualizzata da Ungaretti ne La risata dello dginn Rull (1931) e in molte delle prose
dedicate al mezzogiorno, è la stessa ora sospesa delle città di De Chirico, è «la deuzième heure» che
col suo abbaglio fa cadere «il velo delle apparenze».
Nel ‘31 si tiene a Roma un’importante esposizione pittorica (I Quadriennale). Il secondo premio
va a Carrà (50 mila lire), il terzo a Soffici; vince inopinatamente Arturo Tosi. Ormai Soffici è su
un’altra linea, quella del “ritorno all’ordine”, e rivede i suoi giudizi sull’arte francese che lo ha
entusiasmato in altri tempi. Ora dice che una diecina d’anni dopo, rivedendole, ritrova talune tele
impressioniste, di Manet, Monet, Renoir «smorte e bigie». Ungaretti gli risponde sul Tevere,
soprattutto per il suo ripudio di Mallarmé, ma aggiunge: «Dunque bruci tutto quello che hai adorato,
caro Soffici? Non ti danno più piacere le natiche delle ragazze di Renoir? Nemmeno le zinne di
Degas?».
Sui suoi rapporti con i pittori romani Ungaretti ritorna in Interpretazione di Roma (1968) dove
scrive: «Conobbi allora Scipione, e i rossi di porpora e i rossi in penombra, il rosso delle ferite e il
rosso della passione, il rosso gloria, tutti i rossi nel rosso che il vecchio travertino e le torpide acque
del Tevere ingoiavano negli estivi tramonti di Roma». Di qui trapela l’intersezione tra ricerca
letteraria e ricerca artistica, in questo caso, quella tra la sua personale ricerca e quella formale e
tonale della Scuola Romana e in particolare di Scipione, definito «l’unico pittore surrealista». A lui
si deve uno straordinario ritratto di Ungaretti (1930), una delle rappresentazioni più penetranti del
suo carattere. Scipione, attraverso particolari letture e ripensamenti viene ricondotto al Greco:
«Roma fu così vista surrealisticamente attraverso il Greco, con una forza sensuale da colosso e una
disposizione da agonizzante, con l’incubo della morte in una vita che non si arrendeva». Ungaretti
ammirava molto anche Mafai e De Chirico che definisce «un metafisico». Di un quadro di Mafai
scrisse: «quel fondo lapislazzuli del quadro di Mafai è una delle invenzioni pittoriche più
straordinarie che si possano vedere».
Questa scuola, e in particolare Scipione, dà vita a una sorta di “espressionismo barocco romano”,
in cui spesso compaiono scorci decadenti del centro storico barocco di Roma, popolato da prelati e
cardinali, visti con occhio allucinato e fortemente espressivo. Mafai, con una pittura tonale dagli
accenti caldi, propone un'immagine della Città di struggente intimismo e di sottile denuncia,
rappresentando le demolizioni in atto nella Roma fascista, dettate dalla volontà magniloquente e
celebrativa del regime, come si può vedere in Demolizione dell'Augusteo e in Demolizioni di via
Giulia, entrambe del 1936.
Anche la poesia di Ungaretti si sostanzia di nuovi scenari. Il suo canto sboccia a contatto con il
paesaggio italico, quello laziale in particolare, dei colli romani, fino al bosco di Marino; è un
paesaggio di Terra Promessa dove si inseriscono le stratificate dimensioni d’arte e di colore in cui
ormai il poeta vive. Lo dice espressamente: «Mi ero stabilito a Roma e da quella data appare nella
mia poesia il paesaggio laziale. È un paesaggio al quale mi accosto con amore e che nel suo segreto
mi diviene consueto non senza sforzo». Aggiunge che il suo stato d’animo ora «si riflette in un
paesaggio sontuoso, sebbene s’arricchisca a spese di rovine e trovi unità e solenne perfezione
sognando sulle rovine».
Il tonalismo e il colore sono esperienze che la poesia di Ungaretti negli anni ’30 compie fino in
fondo. Nell’Interpretazione di Roma cerca di spingere l’ipotesi della figliazione del barocco da
Michelangelo, fino a identificarla nella filiazione storica (di mentalità e di costumi) dei Romani e di
Roma dagli Etruschi che ne erano stati i fondatori, quasi a stabilire una primogenitura delle radici
toscane su Roma.
Ungaretti amava anche Ottone Rosai a cui dedica la poesia Senza più peso (1934): «Per un Iddio
che rida come un bimbo, / Tanti gridi di passeri, / Tante danze nei rami…». Rosai era espressione di
un realismo per molti aspetti “primitivo” con i suoi personaggi sullo sfondo dei quartieri popolari,
ma, per forza di concentrazione, raggiunge sovente effetti metafisici. Nel 1966, poi, il poeta
presenterà a Firenze il libro di Piero Santi Ritratto di Rosai.
Agli anni Trenta risale anche l’amicizia con lo scultore e pittore Pericle Fazzini che nel ’36
realizzò un primo ritratto di Ungaretti in legno. Anche in quest’opera, che rimane una delle
immagini più familiari del poeta per il pubblico, lo scultore esprime l’essenziale del soggetto
ritratto, senza suggestioni classiche.
Il saggio di Ungaretti Poesia e pittura (1933) si inserisce nel secolare dibattito sui rapporti tra le
due arti: la precedenza spetta al pittorico, considerato come «prima divinazione», segno «ancora
muto» che «aspetta la parola». Successivamente, in Pittori italiani contemporanei (1950), il poeta
definisce la pittura come «discorso scritto dalle parole profetiche», «essendo primordiale, essendo il
più istantaneo nel riflettere i segreti dell’essere». La differenza tra i due medium è stabilita dunque a
partire dal diverso rapporto che essi intrattengono con il loro referente oggettivo: le arti visuali, e la
scultura sopra tutte, sono più vicine alla natura, al contrario, l’arte della parola è la più astratta in
quanto «esige una metamorfosi radicale. Si tratta di contenere l’universo nelle sillabe».
Abbiamo anche interessanti testimonianze di collaborazione tra la poesia di Ungaretti e la pittura
in alcune edizioni rare, impreziosite da opere di artisti, grazie alle quali il poeta sperimentò varie
possibilità di intersezione tra immagine e parola con un vero e proprio connubio artistico che giunge
ad «una reale interazione tra segno pittorico e linguistico» in una stessa pagina. Nel 1944 esce
Piccola Roma, un volume che comprende cinquanta disegni di Orfeo Tamburi che raffigurano
scorci paesaggistici e monumentali di Roma, accompagnati da una Poesia di Ungaretti, composta,
secondo quanto si legge nella dedica ad apertura di libro, appositamente per le “vedute” di Tamburi.
L’anno successivo viene pubblicata la già ricordata cartellina di tre facciate con una litografia di
Pericle Fazzini e il testo manoscritto della poesia di Ungaretti Frammenti per la Terra Promessa,
mentre in copertina è presente un’incisione di Orfeo Tamburi e in quarta, un ritratto di Ungaretti
opera di Mino Maccari.
Dopo l’esperienza del Dolore, legata alla perdita del figlio e alle vicende belliche, l’orizzonte di
Ungaretti si allarga alla pittura europea. In una lettera del ’63 scrive a Leone Piccioni di aver visto
una grande riproduzione di Guernica e aggiunge: «dopo Michelangelo del Giudizio, il più bel
quadro del mondo». Questo anche se per Ungaretti il Picasso più degno d’ammirazione resta quello
dei comuni anni parigini, quando il pittore, superati i suoi periodi “blu” e “rosa”, passava dal
“cubismo analitico” al “cubismo sintetico”, mentre le opere più recenti quelle del «furibondo
amante del mostruoso» suscitano le sue perplessità. Anche in un’altra lettera, sempre del ’63 a
Piccioni, si occupa ampiamente di pittura e indica come mirabile «la rivelazione di Pollock» che
aveva avuto modo di conoscere nel 1952.
Intanto abbiamo altre occasioni di collaborazione di Ungaretti con pittori. Nel 1951 segue
Gridasti: Soffoco… in cui le cinque strofe della poesia sono intercalate da disegni di Léo Maillet,
legati tematicamente al testo. Questa poesia verrà poi pubblicata l’anno successivo in Un Grido e
Paesaggi con cinque disegni di Giorgio Morandi. Del 1965 è il volume Inni di Ungaretti /
Acqueforti di Fazzini con 7 poesie e 3 acqueforti. Nel 1971 esce La luce – Poesie 1914-1961,
elegante edizione di poesie di Ungaretti accompagnate da 13 grafiche di Piero Dorazio, un’opera
che rappresenta l’incontro tra due artisti che hanno saputo interpretare in ambiti diversi “l’arte
astratta” che il pittore ha sempre praticato con coerenza.
All’ultimo ventennio dell’attività del poeta risalgono le collaborazioni con Jean Fautrier,
Alberto Burri e Lucio Fontana, nate dall’interesse di Ungaretti per l’Informale. Infatti Fautrier è
stato uno dei maggiori esponenti del Tachisme e, insieme a Jean Debuffet, un protagonista dell’arte
informale. Burri svolge tutta la sua ricerca nell’ambito di un linguaggio astratto con opere che non
concedono nulla al figurativo in senso tradizionale, anche per l’utilizzo di elementi abitualmente
estranei alla pittura, quali catrame e pietra pomice, per arrivare poi ai famosi sacchi, alle stoffe e
alle camicie usate, nell’intento di attuare una sublimazione poetica dei rifiuti. In seguito, dal 1957,
con la serie delle “combustioni”, compie una svolta significativa nella sua arte, introducendo il
“fuoco” tra i suoi strumenti artistici. Il massimo di purezza ed espressività lo raggiunge dagli inizi
degli anni Settanta con i “cretti”, realizzati con una mistura di caolino, vinavil e pigmento fissata su
cellotex. Lucio Fontana dapprima emerge come astrattista, per volgersi poi a superare in una
prospettiva “spazialistica” i codici della pittura e della scultura con la sua famosa stagione dei
“buchi” e dei “tagli” della tela o di altre superfici.
L’interesse per questo tipo di realizzazioni pittoriche trova il corrispettivo poetico in Ungaretti
nel ritorno alla tecnica del frammento, avvenuto con il passaggio dalla Terra Promessa al Taccuino
in cui gli schemi metrici sembrano prevalere sulla libera rievocazione degli oggetti e gli oggetti
stessi, nel loro adeguarsi all’ordine e alla misura, acquistano un massimo di verità e di evidenza e
appaiono completamente inventati senza alcun indugio descrittivo per cui assolvono naturalmente la
loro funzione di simbolo e di analogia.
Tra Fautrier e Ungaretti c’è stata un’amicizia fraterna. Nel dicembre del ’62 Fautrier è a Roma;
ci torna nel maggio del ’63 e partecipa a una trasmissione in diretta dell’Approdo, intervistato da
Ungaretti che scrive: «L’intervista con Fautrier è andata molto bene e ho sentito commenti
favorevolissimi». Nel febbraio del ’64 le notizie di salute del pittore non sono buone: «Il suo
successo invece cresce – dice Ungaretti – il Museo d’Arte Moderna gli prepara una grande
prospettiva per aprile». Sulla sua casa di Parigi intanto si è aperta una controversia che si risolve
con la decisione che il pittore può rimanervi fino alla morte, poi sarà trasformata in Museo Fautrier
e Ungaretti commenta: «Dopo la morte di Braque, è il maggiore vivente». Nel Maggio del ’64,
quando Ungaretti riceve la notizia che Fautrier è moribondo, scrive «Se ne va l’ultimo dei veri
pittori. Di poeti ne sono rimasti di più. Ma non molti». Fra le opere più importanti Fautrier lascia la
serie degli Otage, dedicati alle vittime delle guerre. Valgono molto, quasi 5 milioni di franchi
ciascuno. Ungaretti vorrebbe comprarne uno, ma non ha mezzi.
Si può dire che l’ultima ricerca espressiva di Ungaretti, che recupera il frammento, intessuto di
paesaggi del deserto e di scabre pietre, esistenzialmente all’insegna del dubbio, va di conserva con
il lavoro creativo che Varèse, Stockhausen, Nono e altri andavano facendo nel campo della musica,
come Fautrier e Burri in quello delle arti figurative.
Particolare il rapporto tra Burri e Ungaretti, mentre si intrecciano collaborazioni con altri pittori.
In una lettera del ’63 così lo tratteggia: «Burri, il medico, poi pittore reduce dalla prigionia nei
campi di concentramento che, con quell’orrore negli occhi vuota, nelle sue opere, il bubbone
infernale, ne mostra in mezzo ai lutti, l’ingiusto cratere di sangue e di fuoco voluto dall’inferno, e
mostra come la fiamma della libertà domini alla fine anche il più atroce sadismo». Nel ’65 Fontana
illustra con due opere originali Apocalisse e sedici traduzioni di Ungaretti. Nel luglio del ‘66
Ungaretti visita la Biennale di Venezia e resta colpito dalla «stupenda sala di Burri, l’ultimo pittore
rimasto nel mondo... Fontana ha una purezza unica. Il resto o è vecchio o è stupido. La pittura è
morta. La poesia è morta. Tempi allegri!». Nel ’67, in una lettera a Bruna Bianco lo definisce come
pittore «il maggiore vivente, salvo Picasso». Per gli ottant’anni del poeta nel 1968 viene pubblicato
in edizione numerata di 59 esemplari fuori commercio Dialogo che comprende le poesie d’amore
tra Ungaretti e la giovane Bruna Bianco con una combustione di Burri. Anche la raccolta delle
ultime poesie del 1967 Morte delle stagioni. La terra Promessa. Il Taccuino del Vecchio.
Apocalissi è arricchita da acqueforti e disegni di Giacomo Manzù.
Nel ’67 Ungaretti redige una presentazione delle opere pittoriche di Corrado Cagli che si può
leggere in Ungà. Giuseppe Ungaretti e l’arte del XX secolo2, mentre mantiene salde le sue
valutazioni e preferenze per i poeti viventi, come si può vedere anche in una lettera a Bruna Bianco:
«Dorazio […] è uno dei quattro o cinque ottimi di oggi. Gli Italiani ottimi, e reputati ottimi anche
all’estero, sono oggi tre: Burri, primissimo […] Cagli e Dorazio. C’è anche Schifano. Ma, dovrebbe
diventare un pochino più serio».
Nel ’68 a Roma Ungaretti scrisse il catalogo per una mostra di Carlo Guarienti che si tenne prima
a Venezia, poi a Roma, pittore su cui inizialmente sembrava scettico, ma che poi apprezzò sempre
di più. Nello stesso anno compose un saggio su «più di trecento» disegni «molto curiosi e acuti» di
Guttuso che a lui piacevano più della pittura del maestro siciliano che comunque definisce «pittore
valentissimo». Ungaretti ammirava anche Mario Schifano: tutte le volte che il giovane pittore venne
incriminato per uso di droga, il poeta fu sempre presente in tribunale per illustrarne la personalità
artistica. Nel ’69 escono ancora Il Dolore con 36 xilografie di Pasquale Santoro e Croazia segreta
con quattro acqueforti di Piero Dorazio. Anche l’ultimo componimento poetico è legato alla pittura:
«nella notte del 31 dicembre 1969, mattina del 1° gennaio 1970» scrive l’ultima poesia L’impietrito
e il velluto che verrà pubblicata in una cartella litografica, con due acqueforti di Piero Dorazio, il
giorno dell’ottantaduesimo compleanno.
Bastano questi pochi cenni per capire, oltre alle ricadute che le varie esperienze pittoriche hanno
avuto sulla poesia di Ungaretti, l’importanza dell’attività dedicata dal poeta all’arte figurativa con
interventi su quotidiani, riviste e cataloghi di mostre. Dato che il volume dei Meridiani Mondadori
Saggi e interventi (1974) aveva trascurato questa parte della produzione del poeta, ha colmato la
lacuna Angela Madesani curando il già citato Ungà. Giuseppe Ungaretti e l’arte del XX secolo a cui
si può affiancare il saggio di Teresa Spignoli, Giuseppe Ungaretti. Poesia, musica, pittura (Pisa,
ETS 2014).
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2
Milano, Nomos Edizioni, 2014. Il volume è collegato alla mostra Ungà tenuta alla Galleria Biffi Arte a Piacenza dal dicembre 2014 al febbraio
2015.
 

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