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Contagio, e dopo?
laRegione · 15 Apr 2020 · 1 · di Andrea Ghiringhelli, storico
Ho insegnato storia per tanti anni; epidemie e guerre erano parte della narrazione, da Tucidide ai
tempi nostri. Ma un conto è raccontare drammi lontani e un conto è vivere guerre o carestie o pe-
stilenze dal di dentro, sentirle vicine, spettri incombenti, e contare i morti, giorno dopo giorno, e a
furia di contarli ridurli a statistiche e dimenticare i visi e le sofferenze. E noi, generazioni del dopo-
guerra – convinti che perfino gli scempi perpetrati sul pianeta dalla dissennata politica del profitto
a tutti i costi siano giustificabili in nome del progresso – con sgomento dobbiamo ricrederci. Pure
Yuval Noah Harari, l’osannato autore di Sapiens e Homo Deus, dovrà rivedere il giudizio: dichiarò
che l’umanità è riuscita in un’impresa impossibile, liberarsi dalle epidemie. La smentita è clamoro-
sa: la legge aurea della globalizzazione neoliberista, oltre ad aver generato enormi diseguaglianze,
sta diffondendo il morbo con una velocità incredibile. I segnali c’erano già nel passato, ma non so-
no stati raccolti. Per ora, l’unica medicina efficace è quella antica, quella della peste manzoniana:
della rigorosa prossemica e dell’isolamento. Come nel passato siamo nudi e impotenti, in balìa del-
la calamità, e perfino la schiera di coloro che i vaccini li esecravano, ora domandano che la scienza
si affretti. E anche chi – fedele alla dottrina populista – condannava l’arroganza delle élite ed esal-
tava la virtù genuina dell’ignoranza, con un impudico voltafaccia conviene che la competenza ci
vuole.
Dove sono andati a finire – per dirla con Tom Nichols – quei personaggi che ancora pochi mesi or-
sono consideravano medici e scienziati, ricercatori e specialisti come gli odiosi sostenitori di un sa-
pere elitario, corporativo e fondamentalmente inutile?
Oggi la paura li ha redenti, e confidano in questa élite, fino a ieri aborrita, per salvare la pelle. Da
noi, come altrove, la categoria dei sanitari sta facendo un lavoro straordinario e anche il governo ha
saputo orientarsi – al netto di qualche inevitabile incertezza iniziale – con pacata fermezza. Irri-
guardoso, mi pare, il giudizio un po’ scentrato di qualche giornalista che ha confuso il dovere alla
critica intelligente con la saccenteria e una dose discreta di supponenza.
La storia si ripete
Ho visto, all’apparire del morbo, una moltitudine di persone concitate e smarrite, ammassate alle
stazioni di Milano e di Parigi. E constato che i comportamenti dissennati, di uomini e donne che
perdono la ragione per darsi alle emozioni, non conoscono età e la storia si ripete. Durante la peste
di Londra del 1665 Daniel Defoe ha descritto identiche scene: la furia dei partenti per le strade, da-
me e gentiluomini e uomini a cavallo, furgoni carichi di donne e bambini; un affannarsi di gente
che si fece spasmodico quando corse voce di barriere e steccati per isolare la città. Albert Camus
scriveva nel 1947 che, più del terrore del contagio, a condizionare i sentimenti collettivi è la separa-
zione, l’esilio imposto, la paura di essere prigionieri e di non poter più scegliere. E ci avvertiva che
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è assai faticoso essere vittima del morbo, ancor di più non volerlo essere. Ora ho capito che cosa
voleva dire. Mai come in questi giorni l’incessante appello al rispetto della distanza sociale è diven-
tato il fulcro della nostra esistenza: per sfuggire al morbo insidioso ci è chiesto di rinunciare alla
stretta di mano, al conversare ravvicinato, all’abbraccio amichevole.
Non singoli destini ma una storia collettiva Abolita la distanza personale, vale solo la distanza so-
ciale. Distanti ma vicini, ci dicono: corretto e necessario, ma l’obbligo di lontananza dagli altri ci
costringe ad agire come se non avessimo sentimenti individuali. In primo piano, in questi momenti
difficili, non vi sono i singoli destini ma una storia collettiva. Teniamolo presente. Qualcuno ha
scritto che divieti e restrizioni sono giuridicamente inammissibili e in effetti anche la Costituzione
ci rammenta che i nostri diritti sono intangibili nella loro essenza. Io penso, anzi sono convinto,
che tuttavia diritti e libertà non possano mai essere ridotti a un puro status personale, a una pro-
prietà individuale, a una manifestazione di indipendenza dall’altro. La libertà è soprattutto un fatto
relazionale fra individui. Ce lo indicano le radici etimologiche del termine: evocano amicizia, amo-
re, crescita comune, solidarietà.
La componente solidaristica
La componente relazionale e solidaristica la ritroviamo nella Dichiarazione dell’uomo e del cittadi-
no del 1789, all’art. 4, quando precisa che “la libertà consiste nel fare tutto ciò che non nuoce agli
altri” e la ritroviamo più compiutamente nella Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948,
all’art. 1: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ra-
gione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. Questa dimensio-
ne collettiva e relazionale – fortissima presso gli antichi – noi l’abbiamo dimentica e la libertà l’ab-
biamo ridotta a un privilegio dell’individuo a prescindere dagli altri.
Il significato originale di libertà
In queste settimane le Autorità hanno insistito sul rapporto stretto fra responsabilità individuale e
collettiva. E, forse inconsciamente, hanno ripristinato il significato originale di libertà che mette in
relazione l’individuo con la collettività: si è liberi insieme, si è liberi in funzione dell’utile comune e
l’utile comune, in questo momento, esige qualche limitazione. Insomma, le restrizioni temporanee
ma necessarie evidenzino come alla base della libertà vi sia il principio fondativo della solidarietà.
Che oggi mi pare assumere un significato dirompente e rivoluzionario, in un mondo in cui c’è chi
considera la solidarietà un reato, un atto crimine da punire e la ammette solo come ossessione
identitaria, per separare un gruppo dal resto del mondo.
Segnali inquietanti
Certo, è vero: se d’un canto il contagio scalzerà convinzioni che avevano fatto del fervore neoliberi-
sta l’ingannevole fede del benessere per tutti, se ci spingerà a ridare centralità al principio solidale
in politica forse ne ricaveremo qualcosa di buono. Ma ci sono pure segnali inquietanti, come quelli
lanciati da Orbán, e da quelli che lo applaudono, che prendono il contagio come alibi per legittima-
re i pieni poteri senza limiti e consolidare il sogno da tempo perseguito della democratura, della
democrazia illiberale.
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La pandemia climatica
Il dopo contagio è incerto, ed è difficile fare previsioni. Io vorrei che restasse forte non la paura, ma
il ricordo della paura, vorrei che questo sentimento alimentasse un’altra battaglia contro un’altra
pandemia ancor più pericolosa, la pandemia climatica: quella che si prepara a decretare la morte
delle future generazioni, quella generata dalla gretta politica del profitto, delle ingiustizie sociali e
degli egoismi nazionali. Bisognerebbe inventare un modo nuovo di far politica, di gestire l’econo-
mia, di guardare ai nostri rapporti con il territorio. Bisognerebbe fare questo e molto altro. Ma il
dubbio che la memoria evapori, che tutto ritorni come prima è assai forte. Lo disse il grande scrit-
tore José Saramago: si può essere ciechi quando, pur vedendo, non si vuole vedere quello che biso-
gnerebbe vedere. In fondo tocca a noi decidere. Oggi constato che il contagio ha sconvolto le nostre
abitudini, e ha delineato delle condizioni che ci pongono a un bivio: o decidiamo di puntare, come
in alcuni paesi, sui pieni poteri che preludono a forme di controllo totale sulla collettività o puntia-
mo su una società in cui ogni cittadino sia fortemente responsabilizzato e consapevole dell’urgenza
di un cambiamento radicale; o decidiamo di svoltare verso esasperate chiusure nazionalistiche o ci
convinciamo che l’unica speranza di salvezza passi da un recupero definitivo di una forma globale
di solidarietà. Le opzioni oggi sono in discussione. Io credo, anzi sono convinto, che responsabiliz-
zazione e solidarietà globali siano la strada da percorrere per frenare gli effetti di una conduzione
politica ed economica deficitaria e disastrosa. Ma per percorrerla dovremmo, prima di tutto, far
piazza pulita di tanti scellerati a cui abbiamo affidato le sorti del pianeta. Ne avremo la forza? Sare-
mo in grado di lavorare per gli uomini e per il pianeta e un po’ meno per il profitto?
Cambiare paradigma
Per questo occorre cambiare paradigma. Fra qualche mese saremo in grado di fare i primi bilanci e,
analizzate le situazioni settore per settore, ramo per ramo, regione per regione, si dovranno rivede-
re il Piano finanziario e le Linee direttive cantonali, perché quanto stiamo ancora vivendo è parago-
nabile (tutti gli esperti concordano) a un vero e proprio stato d’emergenza postbellica, con tutti i
traumi che ne derivano. Nulla sarà più come prima. Neanche ciò che ha sorretto l’impalcatura fi-
nanziaria dei recenti bilanci pubblici, freno ai disavanzi compreso. Rilanciare l’economia vuol dire
aprire i rubinetti, inaugurare un vero piano anticiclico capace di gettare basi strutturali per un nuo-
vo sviluppo. Anche in Canton Ticino. La diffusione globale del Covid-19 ci ha nuovamente indicato,
fra l’altro, quanto sia illusorio credere nell’espansione incontrollata dell’antropocentrismo, della
supremazia dell’uomo sull’ambiente, sulla Terra che lo ospita. Per questo il nuovo sviluppo dovrà
potersi inserire in un nuovo paradigma internazionale, per il quale crescere e distribuire equamen-
te ricchezza non significa per forza avvelenare l’ambiente. Non mi hanno mai convinto troppo i
saggi sulla decrescita felice, non tanto per le analisi della situazione attuale, in genere molto accu-
rate, ma per la vaghezza o la sostanziale impraticabilità delle soluzioni avanzate, a mio modesto pa-
rere, poco utili per un dopocrescita comunque di benessere. Ma la cosiddetta ‘green economy’,
l’economia verde, ha da tempo molte frecce al proprio arco per reimpostare un progresso decisa-
mente più sano e meno violento. Partendo però dalle regole e quindi ricollocando la politica al cen-
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tro del villaggio globale. Sarà solo grazie a regole eque e condivise che tutte le democrazie potranno
superare questa e nuove emergenze pandemiche, grazie a uno sviluppo armonioso, rispettoso, pub-
blicamente sotto controllo, davvero inclusivo. Ma non c’è tempo da perdere. Il cambiamento, in Ti-
cino, dovrà essere parte importante già di questa legislatura, con un rilancio dell’economia produt-
tiva sostenibile e della ridistribuzione della ricchezza. Promuovendo la ricerca, i settori e le profes-
sioni ad alto valore aggiunto, ma soprattutto permettendo una graduale transizione da un’econo-
mia di rendita a un ‘green new deal’ del terzo millennio, capace di confrontarsi quotidianamente
con le sfide intercantonali, transfrontaliere e internazionali. Perché questa e non altra è l’acqua do-
ve nuotano i pesci. Non stagni, ma mari aperti, dove ogni isola è parte del tutto, dove a ritrovare
pace e benessere dopo la crisi è l’arcipelago nel quale viviamo tutti.
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