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Sono in molti a discettare sulla recente disfatta dei partiti storici alle elezioni federali. Tante le ipo-
tesi, ma al fondo di tutto sta l’indiscussa realtà: l’insoddisfazione che impregna ampie fasce della
società e a cui i partiti storici non hanno saputo dare risposte. Per incapacità o per opportunismo,
per imperizia o scarsa lungimiranza hanno dimenticato una regola d’oro: se la collettività non ha la
speranza di un futuro migliore, la fiducia nei governanti scema, i cittadini cominciano a guardare
altrove e le richieste insoddisfatte spingono al cambiamento e a alla ricerca di soluzioni alternative.
È successo, e lo conferma una recente ricerca: in Svizzera, la fiducia nelle istituzioni, nei partiti in
particolare, è ai minimi storici e i penalizzati, ovviamente, sono quelli che governano. La crisi dei
partiti – ce lo indicano i politologi, gli scienziati e i filosofi della politica – è strutturale, e anche qui
c’è una causa da tener presente: i partiti oggi debbono fare i conti con un elettorato fluido, volatile,
liquido, che dà e toglie il sostegno in funzione delle emozioni e della congiuntura.
Oggi, detto per inciso, in Ticino resiste ancora una sorta di elettorato ibrido ma è un errore (...)
(...) cercare di arginare il declino aggrappandosi ai residui di un evanescente elettorato di apparte-
nenza. Invertire la tendenza è operazione difficilissima, la meta non si raggiunge con gli appelli gri-
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dati e non basta confessare pubblicamente “abbiamo perso”: bisogna capire perché, e non mi pare
che vi siano in circolazione delle lucide analisi.
Finale di partito?
Sul deficit dei partiti gli studiosi non inclinano all’ottimismo. Il sociologo Paolo Mancini ci avvisa
che le grandi narrazioni sono finite e gli appelli dei partiti alle gloriose adunate a bandiere spiegate
non funzionano più; il politologo Damiano Palano osserva che oggi i partiti sono ridotti a maschere
che celano maldestramente interessi di piccole e grandi consorterie e ipotizza una democrazia sen-
za partiti; lo scienziato della politica Marco Revelli ci avvisa che la fiducia nei partiti è un fattore re-
siduale e ci avverte che, di questo passo, sono destinati a finire miseramente.
C’è poi la nutritissima schiera di coloro – come il professore di Cambridge David Runciman o il già
consigliere di Bill Clinton William Galston – che temono una brutta fine per la democrazia liberale.
Insomma il panorama induce a toni piuttosto cupi.
Io mi permisi di riassumere il quadro generale evocato dagli studiosi intitolando un mio modesto
volumetto “Politica Senza”, e il complemento di privazione sta a marcare un vuoto inquietante: di
cultura politica, di politici che – fatta qualche doverosa eccezione – si elevino al di sopra della me-
diocrità (da noi esportata perfino sugli scranni federali), e poi, e soprattutto, l’assenza di partiti che
sappiano veramente offrire ai cittadini, a tutti i cittadini, dignità personale e benefici collettivi. Ma,
per farlo, sfuggendo al populismo dilagante, ci vuole il coraggio di politiche molto profilate, che
non cercano di carpire il consenso dando ai cittadini ciò che i cittadini vogliono subito, ma aiutan-
doli a “comprendere meglio i loro interessi di lungo termine”.
Il partito pigliatutti
Osservo l’essenziale. Il Partito liberale radicale, il grande sconfitto su cui mi voglio soffermare, as-
sunse fin dagli albori la caratteristica di partito in grado di pescare in tutti i ceti sociali, dagli im-
prenditori agli operai, passando attraverso la robusta fascia dei ceti medi: c’era attenzione alla mo-
dernizzazione del paese, ai bisogni dell’economia, allo sviluppo delle vie di comunicazione e dei
traffici, ma c’era pure una vigile attenzione alle questioni sociali e ad alcuni principi fondamentali
di giustizia sociale, senza la quale parlare di libertà diventa assai complicato. E questo perché il
partito liberale crebbe grazie all’eterogeneità delle opinioni: una Grande Corrente, convinta che per
agire bisognava conquistare l’opinione pubblica e poi procedere a passi cauti, si confrontava con
un’ala radicale, minoritaria ma assai battagliera, che rapidamente avvertì – per dirla con linguag-
gio aggiornato – che “non vi può essere vera libertà senza welfare”. Il dialogo fra queste due ali,
spesso conflittuali e dirompenti, era riconosciuto dai leader come elemento sostanziale e insostitui-
bile: consentiva al partito liberale di conservare la sua dimensione interclassista, di partito piglia-
tutti (è il Catch all party degli anglosassoni) che sapeva promuovere la collaborazione fra le classi
sociali.
Il grande tradimento: da liberale a liberista
Poi la svolta sul finire del secolo scorso, rapida e repentina. Una svolta puntellata su una serie di
sciocchezze concettuali che dovevano legittimare il nuovo corso: si decretò la fine delle ideologie, si
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ripetè che le correnti erano cose di altri tempi e i radicali dei residuati del passato, si sostennero
teorie assai bislacche sull’“obsolescenza euristica” della distinzione fra destra e sinistra. Coincisero
quegli anni con la conversione del partito liberale all’unicità del pensiero neoliberista, quello della
legge aurea, del falso dogma dello sgocciolamento della ricchezza verso il basso, del mercato che
deve prevalere sul diritto delle persone.
Economia e interessi corporativi
Di colpo il partito liberale diventò un’etichetta che non definì più una teoria politica della libertà
ma una concezione economica della libertà assoluta del mercato. L’effetto vistoso fu di privare d’un
sol colpo il partito liberale della sua dimensione interclassista, di farlo apparire come un partito
che subordinava la politica all’economia e agli interessi corporativi. In quegli anni il partito liberale
ripudiò la sua storia, identificandosi con un’ l’ideologia neoliberista, antipolitica per definizione
perché non mira al bene collettivo ma a quello di pochi: liberista nei comportamenti, il partito rin-
negò i fondamenti stessi del liberalismo. L’abbraccio neoliberista fu mortale, una sorta di suicidio
assistito, e coincise con il definitivo misconoscimento del ruolo della fastidiosa componente radica-
le che aveva sempre insistito sul necessario rispetto di alcuni aspetti di giustizia e equità sociale,
senza i quali non sono date né libertà né dignità degli individui. La scomparsa dell’anima radicale,
salutata dagli strateghi del momento come una conquista del partito del futuro, ha di fatto inaugu-
rato il lento processo di autoaffondamento tutt’ora in corso.
Ci si congiunge per perpetuare il presente
La tanto declamata congiunzione è stato certamente un errore, ma non è stata la causa della scon-
fitta: l’ha semplicemente agevolata perché ha evidenziato l’immagine di due partiti arroccati in di-
fesa che non proponevano, non davano visioni, non aggredivano le criticità del quotidiano ma sem-
plicemente si preoccupavano di difendere le rendite di posizione, di “perpetuare il presente” con
una logica che escludeva e delegittimava ogni alternativa. Il risultato prevedibile è che una fetta co-
spicua di cittadini ha guardato altrove, a destra o a sinistra, là dove vi erano delle idee e dei proget-
ti.
De profundis o resurrezione?
I rimedi alla corrosione continua dei consensi? È ancora possibile invertire la rotta? Non ho né
strumenti né il vanto della preveggenza: non lo so. Ribadisco solo che le analisi degli specialisti non
sprigionano eccessivo ottimismo. Ci suggeriscono che il primo ostacolo è rappresentato dal proble-
ma dell’autocorrezione: difficile senza un profondo rinnovamento delle coscienze e di quei quadri
che abbagliati dal pensiero unico del neoliberismo hanno affossato la dimensione interclassista e
delegittimato le istanze sociali del radicalismo. Un secondo ostacolo è costituito dal generale ap-
piattimento sul presente dell’ultima generazione di politici: una colpevole perdita di memoria che
va di pari passo con una carenza di cultura politica. Tanti politici danno l’impressione di pesci che
nuotano senza accorgersi dell’acqua che sta intorno (lo spiegò il geniale Foster Wallace: le realtà
più ovvie e onnipresenti sono spesso le più difficili da capire). Un illustre storico, di fronte al deso-
lante panorama, propose di mandare a scuola i politici per debellare l’ignoranza. Un’accreditata
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studiosa, di fronte all’ascesa dell’incompetenza propose un patentino, previo esame, per chi ago-
gnasse l’arena politica: provocazioni, certamente, ma dovrebbero fare riflettere
Leggo che qualcuno vuole affidarsi ai sondaggi per vedere cosa pensano i cittadini (quali cittadini?
Quelli delle sezioni? Tutti?): servono solo a indicare il totale disorientamento dei vertici e la perdita
di contatto con la quotidianità dei problemi. Se una via ci può essere, l’unica praticabile, io credo
sia quella suggerita dalle procedure della democrazia deliberativa: si costituiscano dei gruppi rap-
presentativi dei vari ceti sociali che si confrontino con assiduità sui grandi temi che scuotono il
mondo (dallo sconquasso della globalizzazione neoliberista alla degenerazione ambientale, dalle
grandi migrazioni ai problemi della dignità delle persone, dal sovranismo all’Europa Unita ecc.) e
sui temi della quotidianità che scuotono il Ticino (pensioni, casse malati, frontalieri, salario mini-
mo, discriminazioni di genere, fuga dei cervelli ecc.). Sarebbe la strada per cercare perlomeno di
riagganciare la quotidianità dei cittadini; un punto di partenza per l’elaborazione di un programma
ponderato. Però poco credibile se non vi sono le giuste premesse.
‘Regola d’oro: se la collettività non ha la speranza di un futuro migliore, la fiducia nei governanti
scema, i cittadini cominciano a guardare altrove e le richieste insoddisfatte spingono al cambia-
mento e alla ricerca di soluzioni alternative’
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