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Paulo Freire

Educare per la liberazione degli oppressi

Agli straccioni del mondo


e a coloro che in essi si riconoscono
e così riconoscendosi con loro soffrono
ma soprattutto con loro lottano.

Giustificazione della pedagogia dell’oppresso


[…] Ancora una volta gli uomini, accogliendo la sfida drammatica del momento presente, si collocano di
fronte a se stessi come problema. Scoprono di sapere poco di sé, del proprio posto nell’universo, e sono
inquieti perché vogliono sapere di più. Del resto, una delle ragioni di questa ricerca è esattamente la co-
scienza di sapere troppo poco di sé. Quando si riconoscono in questa situazione di tragica ignoranza, si pon-
gono come problema a se stessi, indagano, rispondono, e le loro risposte li portano a nuove domande.
Il problema dell’umanizzazione, benché sia stato sempre il problema centrale dell’uomo, da un punto
di vista assiologico, assume oggi il carattere di una preoccupazione a cui non si può sfuggire.1 Il constatare
questa preoccupazione comporta indiscutibilmente il riconoscere la disumanizzazione, non solo come ipotesi
ontologica, ma anche come realtà storica. A partire da questa dolorosa constatazione, gli uomini si interro-
gano sui possibili cammini della loro umanizzazione. Sia l’una che l’altra, stanno alla radice della loro incon-
clusione, che li inserisce in una dinamica di ricerca permanente.
Umanizzazione e disumanizzazione, nella storia, in un contesto reale, concreto, obiettivo, sono
possibilità degli uomini come esseri inconclusi e coscienti della loro inconclusione. Ma anche se tutte e
due costituiscono una possibilità, solo la prima ci sembra costituire la vocazione dell’uomo. Vocazione
negata, ma affermata dentro la sua stessa negazione. Vocazione negata nell’ingiustizia, nello sfrutta-
mento, nell’oppressione, nella violenza degli oppressori. Ma affermata nell’aspirazione alla libertà, alla
giustizia, alla lotta degli oppressi per il recupero della loro umanità rubata.
La disumanizzazione, che non si verifica solo in coloro che si vedono rubare la loro umanità, ma
anche in quelli che la rubano, seppure in maniera differente, è una distorsione della vocazione ad essere
di più. È una distorsione possibile nella storia, ma non è una vocazione storica. Se ammettessimo che la
disumanizzazione è una vocazione storica degli uomini, non ci resterebbe altro che adottare un atteggia-
mento cinico o di disperazione totale. Non avrebbe senso la lotta per l’umanizzazione, per la liberazione
del lavoro, per la rottura delle alienazioni, per l’affermazione degli uomini come persone, come “esseri
per sé”. Questa lotta è possibile solo perché la disumanizzazione, anche se è un fatto concreto nella storia,
non è però un destino ineluttabile, ma il risultato di un “ordine” ingiusto, che genera la violenza degli
oppressori, la quale a sua volta genera un “essere di meno”.

1 I movimenti di ribellione, soprattutto di giovani, nel mondo attuale, che rivelano necessariamente le caratteristiche peculiari
degli ambiti in cui si verificano, manifestano in profondità questa preoccupazione circa l’uomo e gli uomini, in quanto esseri nel
mondo e con il mondo, cioè cosa sono e come si svolgono nell’essere. Facendo il processo alla civiltà dei consumi, denunciando
le burocrazie di ogni tipo, esigendo una trasformazione delle università che porti alla scomparsa dei rapporti rigidi profes-
sore/alunno e all’inserzione di questi rapporti nella realtà, proponendo la trasformazione della stessa realtà affinché le università
si possano rinnovare, rifiutando l’ordine antico e le istituzioni cristallizzate, cercando l’affermazione dell’uomo come soggetto
delle sue decisioni, tutti questi movimenti riflettono la sensibilità più antropologica che antropocentrica della nostra epoca.
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La violenza degli oppressori, che li disumanizza, non instaura un’altra vocazione, quella di “essere di
meno”. L’essere di meno, come distorsione dell’essere di più, porta gli oppressi a lottare, prima o poi, contro
coloro che li hanno resi “di meno”. Tale lotta ha senso solo quando gli oppressi, cercando di recuperare la
loro umanità (il che è un modo di crearla) non si sentono ideologicamente oppressori degli oppressori, e non
lo sono, di fatto, ma divengono restauratori dell’umanità degli uni e degli altri. Ecco il grande compito uma-
nista e storico degli oppressi: liberare se stessi e i loro oppressori. Questi, che opprimono, sfruttano ed eser-
citano la violenza in forza del loro potere, non trovano in esso la forza che liberi gli oppressi e loro stessi. Solo
il potere che nascerà dalla debolezza degli oppressi sarà sufficientemente forte per liberare gli uni e gli altri.
Per questo il potere degli oppressori, quando cerca di rendersi gradito alla debolezza degli oppressi, si
esprime quasi sempre come falsa generosità, senza arrivare mai a superarla. Gli oppressori, falsamente ge-
nerosi, hanno bisogno che l’ingiustizia perduri, affinché la loro “generosità” continui ad avere le occasioni
per realizzarsi.
L’ordine sociale ingiusto è una fonte da cui sgorga perennemente questa falsa generosità, che si ali-
menta con la morte, lo scoraggiamento e la miseria. […]
Chi è preparato, più degli oppressi, a capire il significato terribile di una società che opprime? Chi può
sentire, più di loro, gli effetti dell’oppressione? Chi, più di loro, può capire la necessità della liberazione?
Liberazione a cui non arriveranno per caso, ma attraverso la prassi della loro ricerca; conoscendo e ricono-
scendo la necessità di lottare per ottenerla. Lotta che, in forza dell’obiettivo che gli oppressi le daranno, sarà
un atto di amore. […]
In questo saggio la nostra preoccupazione è solo di presentare alcuni aspetti di ciò che ci sembra
costituire quella che da tempo veniamo chiamando pedagogia dell’oppresso: quella che deve essere forgiata
con lui e non per lui, siano uomini che popoli, nella lotta incessante per recuperare la loro umanità. Pedagogia
che faccia dell’oppressione e delle sue cause un argomento di riflessione per gli oppressi; ne risulterà l’im-
pegno indispensabile alla lotta per la loro liberazione, in cui questa pedagogia si farà e rifarà costantemente.
[…]

La concezione “depositaria” dell’educazione


Quanto più analizziamo i rapporti educatore/educando, nella scuola, a qualunque livello, o fuori di essa,
sempre più ci convinciamo che questi rapporti presentano un carattere speciale ed evidente: sono fonda-
mentalmente rapporti narrativi, nozionistici.
Narrazione di contenuti, che per ciò stesso tendono a fossilizzarsi, sia che si tratti di valori sia che si
tratti di dimensioni empiriche della realtà. Narrazione o dissertazione che comporta un soggetto (colui che
narra) e degli oggetti pazienti che ascoltano (gli educandi).
Esiste una specie di malattia dell’esporre, del narrare. L’accento dell’educazione cade fondamental-
mente sul narrare, sempre narrare.
Parlare della realtà come di qualcosa di fermo, statico, suddiviso e disciplinato, o addirittura disser-
tare su argomenti completamente estranei all’esperienza esistenziale degli educandi, è sempre stata la su-
prema inquietudine di questa educazione. La sua ansia irrefrenabile. L’educatore è l’agente indiscutibile, il
soggetto reale, il cui compito sacro è “riempire” gli educandi con i contenuti della sua narrazione. Contenuti
che sono dei veri e propri ritagli della realtà, sconnessi rispetto all’insieme da cui hanno origine, e in cui
troverebbero significato. La parola, in queste dissertazioni, si svuota della dimensione concreta che dovrebbe
avere, o si trasforma in bla-bla-bla, in verbosità alienata e alienante. È più un suono che un significato: sa-
rebbe meglio non pronunciarla.
Ne deriva che una delle caratteristiche di tale educazione che disserta è la “sonorità” della parola e
non la sua forza trasformatrice. Quattro per quattro sedici; la capitale dello Stato del Parà è Belém. L’edu-
cando impara a memoria e ripete, senza accorgersi che cosa significhi realmente quattro per quattro. […] La
narrazione, di cui l’educatore è il soggetto, conduce gli educandi a imparare a memoria meccanicamente il
contenuto narrato. Peggio ancora, la narrazione li trasforma in vasi, in “recipienti” che l’educatore deve
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“riempire”. L’educatore sarà tanto migliore quanto più sarà capace di “riempire” i recipienti con i suoi “de-
positi”. Gli educandi saranno tanto migliori quanto più si lasceranno docilmente “riempire”.
In questo modo l’educazione diventa l’atto di depositare, in cui gli educandi ricevono e l’educatore
fa il deposito.
Invece di comunicarsi, l’educatore fa “comunicati” e depositi, che gli educandi […] ricevono pazien-
temente, imparano a memoria e ripetono. Ecco l’educazione “depositaria”, in cui l’unico margine di azione
che si offre agli educandi è ricevere i depositi, conservarli e metterli in archivio. Margine che permette di
divenire collezionisti o compilatori di schede. In questa concezione “depositaria” dell’educazione, che nella
migliore delle ipotesi è un equivoco, chi rimane confinato in archivio però sono gli uomini. Archiviati, perché
fuori di una ricerca, fuori della prassi, gli uomini non possono “essere”. Educatore e educandi si confinano
nell’archivio perché, in questa visione deformata dell’educazione, non esiste creatività, non esiste trasfor-
mazione, non esiste sapere. Il sapere esiste solo nell’invenzione, nella re-invenzione, nella ricerca inquieta,
impaziente, permanente che gli uomini fanno nel mondo col mondo e con gli altri. Ricerca che è anche so-
stanziata di speranza. Nella visione “depositaria” dell’educazione, il sapere è un’elargizione di coloro che si
giudicano sapienti, agli altri, che essi giudicano ignoranti. Elargizione che si basa su una delle manifestazioni
strumentali dell’ideologia dell’oppressione: “l’assolutizzazione dell’ignoranza”, che costituisce ciò che chia-
miamo alienazione dell’ignoranza (l’ignoranza si troverebbe sempre nell’altro).
L’educatore, alienato dall’ignoranza, si mantiene in posizioni fisse, invariabili. Sarà sempre colui che
sa, mentre gli educandi saranno sempre coloro che non sanno. La rigidità di queste posizioni nega l’educa-
zione e la conoscenza come processo di ricerca. L’educatore si colloca di fronte agli educandi come se fosse
la loro indispensabile contraddizione. Riconosce nell’assolutizzazione della loro ignoranza la ragione della
sua esistenza. Gli educandi, a loro volta, alienati come lo schiavo nella dialettica hegeliana, riconoscono nella
loro ignoranza la ragione dell’esistenza dell’educatore, ma non arrivano, neppure come fa lo schiavo in quella
dialettica, a scoprirsi educatori dell’educatore.
La ragione di essere dell’educazione liberatrice, come vedremo in seguito, consiste veramente nel
suo impulso iniziale di conciliazione. Cioè tale educazione comporta il superamento della contraddizione
educatore/educando, in modo che ambedue divengano contemporaneamente educatori e educandi.
Nella concezione “depositaria” che stiamo criticando, per cui l’educazione è l’atto di depositare, tra-
sferire, trasmettere valori e conoscenze, non si verifica questo superamento, e non può verificarsi. Al con-
trario, come riflesso di una società oppressiva, come dimensione della “cultura del silenzio”, l’educazione
“depositaria” mantiene e stimola la contraddizione.
Infatti si basa su una serie di postulati che richiamano un tipo di rapporti “verticali”:
a) l’educatore educa, gli educandi sono educati;
b) l’educatore sa, gli educandi non sanno;
c) l’educatore pensa, gli educandi sono pensati;
d) l’educatore parla, gli educandi l’ascoltano docilmente;
e) l’educatore crea la disciplina, gli educandi sono disciplinati; […]
f) l’educatore sceglie il contenuto programmatico, gli educandi, mai ascoltati in questa scelta,
si adattano;
g) l’educatore identifica l’autorità del sapere con la sua autorità funzionale, che oppone in
forma di antagonismo alla libertà degli educandi; questi devono adattarsi alle sue determi-
nazioni;
h) l’educatore infine è il soggetto del processo, gli educandi puri oggetti. […]
È normale quindi che in questa educazione “depositaria” gli uomini siano visti come esseri destinati
ad adattarsi. Quanto più gli educandi diventano abili nel classificare in archivio i depositi consegnati, tanto
meno sviluppano la loro coscienza critica, da cui risulterebbe la loro inserzione nel mondo, come soggetti
che lo trasformano.
Quanto maggiore è la passività loro imposta, tanto più “naturalmente” tendono ad adattarsi al
mondo (invece di trasformarlo) e alla realtà che ricevono sminuzzata nei “depositi”.
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Questa educazione “depositaria”, nella misura in cui annulla o minimizza il potere creatore degli edu-
candi, stimolando la loro aderenza alla natura e non la loro capacità critica, soddisfa gli interessi degli op-
pressori: per questi, non è fondamentale mettere a nudo il mondo e trasformarlo. Il loro “umanitarismo”
non è umanesimo e consiste nel preservare la situazione di cui risentono i benefici. […] Perciò reagiscono
perfino in modo istintivo contro qualunque tentativo di educazione che stimoli veramente il pensiero. […]
Ciò che gli oppressori in realtà si ripromettono è «trasformare la mentalità degli oppressi e non la
situazione che li opprime», per dominarli meglio, adattandoli a questa situazione.
A questo fine usano la concezione e la pratica dell’educazione “depositaria”, cui aggiungono tutta
un’azione sociale di carattere paternalista, in cui gli oppressi ricevono il simpatico nome di “assistiti”. Sono
casi individuali, semplici “emarginati”, che stonano nella fisionomia generale della società. Questa è buona,
organizzata e giusta. Gli oppressi, come casi individuali, sono la patologia della società sana, che ha bisogno,
per questo, di adattarli a sé, cambiando la loro mentalità di uomini inetti e pigri.
In quanto emarginati, “esseri fuori di”, o “al margine di”, la soluzione per loro sarebbe “integrarsi”,
incorporarsi dentro la società sana da cui un giorno sono partiti. […]
Ci sembra indiscutibile che, se pretendiamo la liberazione degli uomini, non possiamo cominciare
dall’alienazione, o dalla conservazione dell’alienazione. La liberazione autentica, che è umanizzazione in pro-
cesso, non è una cosa che si depositi negli uomini. Non è una parola in più, vuota, creatrice di miti. È una
prassi, che comporta azione e riflessione degli uomini sul mondo, per trasformarlo. […]

La concezione “problematizzante” dell’educazione e la liberazione


L’educazione che proponiamo a coloro che veramente si impegnano per la liberazione, non può basarsi su
una concezione degli uomini come esseri “vuoti” che il mondo “riempie” di contenuti; non può basarsi su
una coscienza-spazio, suddivisa meccanicamente, ma su uomini come “corpi coscienti” e sulla coscienza
come coscienza in rapporto intenzionale col mondo. Non può essere depositaria di contenuti, ma problema-
tizzante per gli uomini nei loro rapporti col mondo. L’educazione problematizzante, contrariamente a quella
“depositaria”, è intenzionalità, perché risposta a ciò che la coscienza profondamente è, e quindi rifiuta i co-
municati e rende esistenzialmente vera la comunicazione. […]
In questo senso, l’educazione liberatrice, problematizzante, non può essere l’atto di depositare, o di
narrare, o di trasferire, o di trasmettere conoscenze e valori agli educandi, semplici pazienti, come succede
nell’educazione depositaria, bensì un atto di conoscenza.

Il superamento della contraddizione educatore/educando


L’educazione problematizzante colloca come esigenza preliminare il superamento della contraddizione edu-
catore/educandi. […] Senza questo superamento non è possibile il rapporto dialogico. […]
L’antagonismo tra le due concezioni [depositaria e problematizzante, NdC], di cui una serve alla do-
minazione e l’altra alla liberazione, prende corpo esattamente lì. Mentre la prima necessariamente conserva
la contraddizione educatore/educandi, la seconda realizza il superamento. Per mantenere la contraddizione,
la concezione “depositaria” nega il dialogo come essenza dell’educazione e diviene anti-dialogica; per realiz-
zare il superamento l’educazione problematizzante […] afferma la dialogicità e si fa dialogica. In realtà non
sarebbe possibile all’educazione problematizzante, che rompe gli schemi verticali propri dell’educazione “de-
positaria”, realizzarsi come pratica della libertà, senza superare la contraddizione tra educatore ed educandi.
Come pure non le sarebbe possibile farlo fuori del dialogo.
Attraverso il dialogo si verifica il superamento da cui emerge un dato nuovo: non più educatore
dell’educando, non più educando dell’educatore; ma educatore/educando con educando/educatore. In tal
modo l’educatore non è solo colui che educa, ma colui che, mentre educa, è educato nel dialogo con l’edu-
cando, il quale a sua volta, mentre è educato, anche educa. Ambedue così diventano soggetti del processo
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in cui crescono insieme e in cui gli “argomenti di autorità” non hanno più valore. In cui, per essere funzional-
mente autorità, bisogna essere con la libertà, e non contro di essa.
A questo punto nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in comunione,
attraverso la mediazione del mondo.

[Da: P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Torino, Edizioni Gruppo Abele,


2011 (ed. or. 1968), pp. 27-30 e 57-69 passim.]

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