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1 I movimenti di ribellione, soprattutto di giovani, nel mondo attuale, che rivelano necessariamente le caratteristiche peculiari
degli ambiti in cui si verificano, manifestano in profondità questa preoccupazione circa l’uomo e gli uomini, in quanto esseri nel
mondo e con il mondo, cioè cosa sono e come si svolgono nell’essere. Facendo il processo alla civiltà dei consumi, denunciando
le burocrazie di ogni tipo, esigendo una trasformazione delle università che porti alla scomparsa dei rapporti rigidi profes-
sore/alunno e all’inserzione di questi rapporti nella realtà, proponendo la trasformazione della stessa realtà affinché le università
si possano rinnovare, rifiutando l’ordine antico e le istituzioni cristallizzate, cercando l’affermazione dell’uomo come soggetto
delle sue decisioni, tutti questi movimenti riflettono la sensibilità più antropologica che antropocentrica della nostra epoca.
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La violenza degli oppressori, che li disumanizza, non instaura un’altra vocazione, quella di “essere di
meno”. L’essere di meno, come distorsione dell’essere di più, porta gli oppressi a lottare, prima o poi, contro
coloro che li hanno resi “di meno”. Tale lotta ha senso solo quando gli oppressi, cercando di recuperare la
loro umanità (il che è un modo di crearla) non si sentono ideologicamente oppressori degli oppressori, e non
lo sono, di fatto, ma divengono restauratori dell’umanità degli uni e degli altri. Ecco il grande compito uma-
nista e storico degli oppressi: liberare se stessi e i loro oppressori. Questi, che opprimono, sfruttano ed eser-
citano la violenza in forza del loro potere, non trovano in esso la forza che liberi gli oppressi e loro stessi. Solo
il potere che nascerà dalla debolezza degli oppressi sarà sufficientemente forte per liberare gli uni e gli altri.
Per questo il potere degli oppressori, quando cerca di rendersi gradito alla debolezza degli oppressi, si
esprime quasi sempre come falsa generosità, senza arrivare mai a superarla. Gli oppressori, falsamente ge-
nerosi, hanno bisogno che l’ingiustizia perduri, affinché la loro “generosità” continui ad avere le occasioni
per realizzarsi.
L’ordine sociale ingiusto è una fonte da cui sgorga perennemente questa falsa generosità, che si ali-
menta con la morte, lo scoraggiamento e la miseria. […]
Chi è preparato, più degli oppressi, a capire il significato terribile di una società che opprime? Chi può
sentire, più di loro, gli effetti dell’oppressione? Chi, più di loro, può capire la necessità della liberazione?
Liberazione a cui non arriveranno per caso, ma attraverso la prassi della loro ricerca; conoscendo e ricono-
scendo la necessità di lottare per ottenerla. Lotta che, in forza dell’obiettivo che gli oppressi le daranno, sarà
un atto di amore. […]
In questo saggio la nostra preoccupazione è solo di presentare alcuni aspetti di ciò che ci sembra
costituire quella che da tempo veniamo chiamando pedagogia dell’oppresso: quella che deve essere forgiata
con lui e non per lui, siano uomini che popoli, nella lotta incessante per recuperare la loro umanità. Pedagogia
che faccia dell’oppressione e delle sue cause un argomento di riflessione per gli oppressi; ne risulterà l’im-
pegno indispensabile alla lotta per la loro liberazione, in cui questa pedagogia si farà e rifarà costantemente.
[…]
“riempire”. L’educatore sarà tanto migliore quanto più sarà capace di “riempire” i recipienti con i suoi “de-
positi”. Gli educandi saranno tanto migliori quanto più si lasceranno docilmente “riempire”.
In questo modo l’educazione diventa l’atto di depositare, in cui gli educandi ricevono e l’educatore
fa il deposito.
Invece di comunicarsi, l’educatore fa “comunicati” e depositi, che gli educandi […] ricevono pazien-
temente, imparano a memoria e ripetono. Ecco l’educazione “depositaria”, in cui l’unico margine di azione
che si offre agli educandi è ricevere i depositi, conservarli e metterli in archivio. Margine che permette di
divenire collezionisti o compilatori di schede. In questa concezione “depositaria” dell’educazione, che nella
migliore delle ipotesi è un equivoco, chi rimane confinato in archivio però sono gli uomini. Archiviati, perché
fuori di una ricerca, fuori della prassi, gli uomini non possono “essere”. Educatore e educandi si confinano
nell’archivio perché, in questa visione deformata dell’educazione, non esiste creatività, non esiste trasfor-
mazione, non esiste sapere. Il sapere esiste solo nell’invenzione, nella re-invenzione, nella ricerca inquieta,
impaziente, permanente che gli uomini fanno nel mondo col mondo e con gli altri. Ricerca che è anche so-
stanziata di speranza. Nella visione “depositaria” dell’educazione, il sapere è un’elargizione di coloro che si
giudicano sapienti, agli altri, che essi giudicano ignoranti. Elargizione che si basa su una delle manifestazioni
strumentali dell’ideologia dell’oppressione: “l’assolutizzazione dell’ignoranza”, che costituisce ciò che chia-
miamo alienazione dell’ignoranza (l’ignoranza si troverebbe sempre nell’altro).
L’educatore, alienato dall’ignoranza, si mantiene in posizioni fisse, invariabili. Sarà sempre colui che
sa, mentre gli educandi saranno sempre coloro che non sanno. La rigidità di queste posizioni nega l’educa-
zione e la conoscenza come processo di ricerca. L’educatore si colloca di fronte agli educandi come se fosse
la loro indispensabile contraddizione. Riconosce nell’assolutizzazione della loro ignoranza la ragione della
sua esistenza. Gli educandi, a loro volta, alienati come lo schiavo nella dialettica hegeliana, riconoscono nella
loro ignoranza la ragione dell’esistenza dell’educatore, ma non arrivano, neppure come fa lo schiavo in quella
dialettica, a scoprirsi educatori dell’educatore.
La ragione di essere dell’educazione liberatrice, come vedremo in seguito, consiste veramente nel
suo impulso iniziale di conciliazione. Cioè tale educazione comporta il superamento della contraddizione
educatore/educando, in modo che ambedue divengano contemporaneamente educatori e educandi.
Nella concezione “depositaria” che stiamo criticando, per cui l’educazione è l’atto di depositare, tra-
sferire, trasmettere valori e conoscenze, non si verifica questo superamento, e non può verificarsi. Al con-
trario, come riflesso di una società oppressiva, come dimensione della “cultura del silenzio”, l’educazione
“depositaria” mantiene e stimola la contraddizione.
Infatti si basa su una serie di postulati che richiamano un tipo di rapporti “verticali”:
a) l’educatore educa, gli educandi sono educati;
b) l’educatore sa, gli educandi non sanno;
c) l’educatore pensa, gli educandi sono pensati;
d) l’educatore parla, gli educandi l’ascoltano docilmente;
e) l’educatore crea la disciplina, gli educandi sono disciplinati; […]
f) l’educatore sceglie il contenuto programmatico, gli educandi, mai ascoltati in questa scelta,
si adattano;
g) l’educatore identifica l’autorità del sapere con la sua autorità funzionale, che oppone in
forma di antagonismo alla libertà degli educandi; questi devono adattarsi alle sue determi-
nazioni;
h) l’educatore infine è il soggetto del processo, gli educandi puri oggetti. […]
È normale quindi che in questa educazione “depositaria” gli uomini siano visti come esseri destinati
ad adattarsi. Quanto più gli educandi diventano abili nel classificare in archivio i depositi consegnati, tanto
meno sviluppano la loro coscienza critica, da cui risulterebbe la loro inserzione nel mondo, come soggetti
che lo trasformano.
Quanto maggiore è la passività loro imposta, tanto più “naturalmente” tendono ad adattarsi al
mondo (invece di trasformarlo) e alla realtà che ricevono sminuzzata nei “depositi”.
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Questa educazione “depositaria”, nella misura in cui annulla o minimizza il potere creatore degli edu-
candi, stimolando la loro aderenza alla natura e non la loro capacità critica, soddisfa gli interessi degli op-
pressori: per questi, non è fondamentale mettere a nudo il mondo e trasformarlo. Il loro “umanitarismo”
non è umanesimo e consiste nel preservare la situazione di cui risentono i benefici. […] Perciò reagiscono
perfino in modo istintivo contro qualunque tentativo di educazione che stimoli veramente il pensiero. […]
Ciò che gli oppressori in realtà si ripromettono è «trasformare la mentalità degli oppressi e non la
situazione che li opprime», per dominarli meglio, adattandoli a questa situazione.
A questo fine usano la concezione e la pratica dell’educazione “depositaria”, cui aggiungono tutta
un’azione sociale di carattere paternalista, in cui gli oppressi ricevono il simpatico nome di “assistiti”. Sono
casi individuali, semplici “emarginati”, che stonano nella fisionomia generale della società. Questa è buona,
organizzata e giusta. Gli oppressi, come casi individuali, sono la patologia della società sana, che ha bisogno,
per questo, di adattarli a sé, cambiando la loro mentalità di uomini inetti e pigri.
In quanto emarginati, “esseri fuori di”, o “al margine di”, la soluzione per loro sarebbe “integrarsi”,
incorporarsi dentro la società sana da cui un giorno sono partiti. […]
Ci sembra indiscutibile che, se pretendiamo la liberazione degli uomini, non possiamo cominciare
dall’alienazione, o dalla conservazione dell’alienazione. La liberazione autentica, che è umanizzazione in pro-
cesso, non è una cosa che si depositi negli uomini. Non è una parola in più, vuota, creatrice di miti. È una
prassi, che comporta azione e riflessione degli uomini sul mondo, per trasformarlo. […]
in cui crescono insieme e in cui gli “argomenti di autorità” non hanno più valore. In cui, per essere funzional-
mente autorità, bisogna essere con la libertà, e non contro di essa.
A questo punto nessuno educa nessuno, e neppure se stesso: gli uomini si educano in comunione,
attraverso la mediazione del mondo.