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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITA' DI BOLOGNA

FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in

LETTERE

TITOLO DELLA TESI

L’ANIMA NELL’ALBERO
I MISTERI DEL BOSCO NELLA GERUSALEMME LIBERATA DI TORQUATO TASSO

Tesi di laurea in

LETTERATURA ITALIANA

Relatore Prof. GINO RUOZZI

Correlatore Dott. FABIO GIUNTA

Presentata da: ELISA MASINARA

Terza Sessione

Anno accademico
2012/2013

1
INDICE

- INTRODUZIONE

- CAPITOLO 1: Torquato Tasso e la Gerusalemme Liberata

- CAPITOLO 2: La selva del Tasso: I topoi silvestri nel “meraviglioso” della


Liberata
o 2.1 La rappresentazione della foresta
o 2.2 Il taglio degli alberi
o 2.3 Il topos della pianta parlante

- CAPITOLO 3: Rinaldo nella selva

- CAPITOLO 4: Foresta come locus amoenus e foresta VS locus amoenus

- CAPITOLO 5: L’anima nell’albero: boschi, selve e foreste nella letteratura


occidentale

- BIBLIOGRAFIA

2
Ad Angela, Marco e Luca
Per tutto il loro sostegno

3
INTRODUZIONE

Sorge non lunge a le cristiane tende


Tra solitarie valli alta foresta,
Foltissima di piante antiche, orrende,
Che spargon d’ogni intorno ombra funesta.
(G. l. XIII, 2, 2-3)

Il presente elaborato intende analizzare il tema della foresta e dei suoi


incanti e ha come fulcro la Gerusalemme Liberata, capolavoro di Torquato
Tasso. La foresta è nel poema un luogo centrale non solo in senso geografico
ma anche come luogo dell’anima che suscita nei protagonisti sentimenti diversi
e ai quali appare in diverse forme che sono quelle del loro inconscio. Al bosco,
che sarà uno dei luoghi del sublime romantico, è riservato uno spazio d’onore
nella Gerusalemme Liberata; il poeta lo rende, infatti, centrale nel
funzionamento della macchina narrativa del poema. Per questo e per mille altri
motivi la foresta tassiana è così affascinante e misteriosa e per questo l’ho scelta
come soggetto principale del mio studio.

4
CAPITOLO 1

Torquato Tasso e la Gerusalemme liberata

«Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi.


Questo è il primo e l'unico piacere che ho provato in Roma» 1. La frase di Leopardi
racchiude in sé tutta l’ammirazione che i poeti e gli intellettuali del periodo romantico
avevano nei confronti di Torquato Tasso. Goethe scrisse persino una tragedia dedicata
al Tasso che, per la sua vita così travagliata e misteriosa, era per i posteri come un
personaggio letterario. La tragedia di Goethe, Torquato Tasso, è un’opera romantica in
entrambi i sensi del termine; narra infatti l’amore sofferto del Tasso per Eleonora
d’Este e lo fa con il sentimento malinconico di tormento interiore che è tipico del
periodo. Tra i romantici affascinati dalla figura del Tasso abbiamo anche il pittore
francese Delacroix (che dipinge il quadro Tasso in the madhouse) e Lord Byron che
durante il suo viaggio in Italia si fece rinchiudere nella cella di reclusione che era stata
del Tasso, nella quale scrisse il poemetto The lament of Tasso, che racconta il periodo
trascorso dal poeta della Gerusalemme nell’Ospedale di Sant’Anna. Gli anni passati in
reclusione sono anni difficili che vedono il Tasso abbandonato a momenti di follia
visionaria alternati a momenti di lucidità in cui lavora alla sua opera. Forse proprio per
questa interna contraddizione di sentimenti il poeta e i suoi scritti saranno tanto
ammirati nel periodo romantico che è il periodo dei sentimenti per eccellenza. Quello
che gli avvenimenti suscitano è, per i romantici, fonte di poesia e non è un caso che il
Tasso con la sua poesia avesse proprio come intento quello di suscitare sentimenti nel
lettore.
Torquato Tasso nasce a Sorrento l’11 marzo del 1544, dove il padre Bernardo di
origine bergamasca si era trasferito con la moglie. L’ambiente in cui cresce è
culturalmente molto attivo e Torquato segue le orme del padre autore dell’Amadigi
dedicandosi alla composizione poetica. Tra il 1559 e il 1560 si trova a Venezia con il

1
Dalla lettera di Giacomo Leopardi al fratello Carlo del 20 febbraio 1823 ( G. Leopardi, Lettere, Milano,
Meridiani Mondadori, 2006, pp. 389-391).

5
padre e lì, incoraggiato dagli eventi e dal nuovo circolo letterario con cui entra in
contatto, compone le prime ottave del Gierusalemme. Il poemetto è certamente
un’opera giovanile, ma contiene già il tema fondamentale che sarà al centro di tutta
l’opera del Tasso maturo: la conquista di Gerusalemme da parte dei crociati guidati da
Goffredo di Buglione. La lungimiranza del Tasso, o meglio del Tassino (nome con cui
si identifica il Tasso in età adolescenziale) fu quella di comprendere l’importanza e il
successo che quel tema avrebbe avuto e soprattutto di capire di non avere ancora i
mezzi per affrontarlo al meglio. Per questo abbandona il progetto, che possiamo
comunque considerare il nucleo primitivo della Gerusalemme liberata, e si dedica a
una materia diversa; recupera il modello cortese-cavalleresco e nel 1562 pubblica a
Venezia il Rinaldo. Il poemetto in dodici canti di ottave racconta le imprese del
paladino di Carlo Magno Rinaldo, cugino di Orlando ed è nuovamente influenzato dal
poema dell’Ariosto ma anche dall’Amadigi di Bernardo.
Quando Tasso si accinge ad affrontare di nuovo, la materia del Gierusalemme
deve fare i conti con diverse contraddizioni di poetica e anche con il radicale
cambiamento della società dopo Riforma e Controriforma. La corte infatti, non è più la
stessa corte in cui aveva vissuto Ariosto e Tasso non riesce più a identificarsi nel
genere utilizzato dall’illustre predecessore ma capisce anche che il nuovo tipo di
poema scritto dal Trissino, L’Italia liberata dai Goti, non ottiene un riscontro positivo
nel pubblico perché manca di quella componente magica che caratterizzava il Furioso.
Dopo molti studi sulla Poetica di Aristotele, tra il 1562 e il 1564 Tasso scrive i
Discorsi dell’arte poetica, che saranno pubblicati solo nel 1587, nei quali costruisce
una teoria letteraria composta da principi e regole che cercherà poi di mettere in
pratica nella stesura del poema. Dedicarsi a un’opera di critica letteraria era una grande
novità per un poeta, ma la riscoperta della Poetica e della Retorica di Aristotele
incoraggiò questa pratica e cominciarono a fiorire opere di critica. Una di queste è
appunto quella del Tasso dove l’autore riflette sulla materia, sulla forma e sullo stile
del poema eroico. La lettura della Poetica di Aristotele aveva permesso ai letterati
cinquecenteschi di riflettere sui testi in modo nuovo avendo fornito loro generi, regole
e categorie e, con l’affermazione della supremazia del genere tragico su tutti gli altri
aveva aperto la strada al poema del Trissino. Tasso capisce che non c’è più spazio per

6
l’immaginazione pura dell’Ariosto e che quella del Trissino è la strada giusta da
seguire. Lo scarso successo dell’Italia liberata dai Goti però crea un ostacolo e Tasso
deve capire come seguire le regole tragiche scrivendo un’opera di successo come
quella di Ariosto. Ripropone allora, la teoria delle unità di tempo di luogo e di azione,
già presenti nella tragedia e su quelle sviluppa lo scheletro del suo poema. L’unità di
tempo della tragedia era all’incirca di ventiquattro ore, Tasso allarga l’azione
all’ultimo anno di guerra della prima crociata, prendendo a modello l’Iliade di Omero.
Per quanto riguarda il luogo, il poeta sceglie di ambientare tutta la sua azione
fuori dalle mura di Gerusalemme davanti alle quali i crociati giungono nel primo canto
e davanti alle quali si conclude il poema con la battaglia finale. Per quanto riguarda
l’azione ovvero la materia, essa secondo i canoni aristotelici doveva essere
«verisimile» cioè narrare di tutto ciò che è possibile che avvenga, senza tuttavia essere
realmente avvenuto. Per rispettare questo criterio la materia scelta non deve collocarsi
troppo lontano nel passato per evitare di sconfinare nella leggenda, ma neanche troppo
vicino perché i lettori potrebbero ricordarsi gli eventi da cui si prende spunto e non
essere soddisfatti della loro resa letteraria. Il Tasso vuole inoltre adattarsi ai dettami
della Controriforma e per questo la materia deve essere coerente con la morale
cattolica. Con il principio oraziano del miscere utile dulci, Tasso trova il modo di
evitare la noia provocata da Trissino senza sconfinare nell’immaginazione disordinata
di Ariosto; elabora cioè un nuovo tipo di “meraviglioso”: il meraviglioso cristiano.
Alle magie e agli incantesimi di Atlante e di Alcina, discepoli di Merlino e
completamente al di fuori dell’insegnamento cristiano, Tasso risponde con la magia di
Ismeno che viene accettata perché ispirata dal demonio, così come i miracoli e i
prodigi che aiutano i crociati vengono direttamente da Dio per mezzo dei suoi angeli.
Lo scontro tra bene e male, tra Dio e Satana rende l’opera viva e vitale e gli conferisce
quella carica innovativa che distingue la Gerusalemme liberata da tutti gli altri poemi
del periodo. Inoltre l’uso del meraviglioso cristiano rientra perfettamente nella
categoria del verisimile per gli uomini del tempo, ed è utile al Tasso per ispirare il
divertimento nel suo pubblico e per far meglio comprendere gli insegnamenti morali.
Per rispettare l’unità di azione Tasso teorizza che la materia di un poema sia
paragonabile a un mondo in cui c’è la compresenza di posizioni e sentimenti diversi tra

7
loro ma che tutte insieme servono alla composizione di un cosmo unitario. Ogni
personaggio e ogni episodio del poema deve essere quindi necessario al poema stesso
che senza, si sgretolerebbe come un castello di carte. L’idea è quella che non ci siano
episodi inutili alla storia e che perciò ogni episodio sia strettamente collegato con il
precedente e con il successivo, cosa che si pone in assoluto contrasto con i poemi
cavallereschi precedenti e soprattutto con quello dell’Ariosto che di fatto non ha né un
inizio né una fine precisi e che potrebbe esistere allo stesso modo anche se mancassero
degli episodi. La Gerusalemme liberata è per Tasso l’opera della vita se si considera
che egli vi lavora dal 1559 data di composizione del Gierusalemme, primo abbozzo
del poema, al 1593 data di pubblicazione della Conquistata. Sono anni di studio
intenso e di correzione continua dell’opera fino al suo totale rifacimento, che non ha
però ai nostri occhi lo stesso fascino dell’opera prima. La prima pubblicazione esce nel
1580 a Venezia con il titolo di Goffredo e contiene i primi dieci canti scritti dal Tasso
con l’aggiunta del XII e del XIV. Il poema completo con il titolo che oggi conosciamo
vede la luce a Parma all’inizio del 1581.
Come detto in precedenza il poema viene strutturato da Tasso seguendo le
regole che lui stesso si era dato nei Discorsi e una delle caratteristiche peculiari del suo
lavoro è l’attingere motivi e idee sia da Omero che da Virgilio. Come sostiene
Raimondi, dai poemi omerici Tasso deriva l’ideale guerresco, mentre dal poema
virgiliano il sentimento religioso e la dimensione tragica. Le fonti di Tasso sono
numerose e oltre agli illustri Omero e Virgilio, riscontriamo la presenza di Ovidio,
Lucrezio e Dante che, sempre secondo Raimondi, sono molto importanti perché
consentono a Tasso di comprendere «il senso ultimo della scrittura poetica come
chiave di interpretazione dell’uomo e del mondo»2.
La scelta della guerra contro gli “infedeli” si rivela poi un tema molto attuale e
per attenersi al principio della verosimiglianza Tasso recupera molto del suo materiale
dalla Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro.
La storia si colloca in un momento ben preciso nel tempo: la fine della prima crociata.
Tra la nomina di Goffredo a capitano dei crociati e la presa della città ci sono venti
canti in cui episodi e personaggi si susseguono quasi come in un film. Il suggerimento

2
E. Raimondi, Tempi e immagini della letteratura, Vol 2, Milano, Edizioni scolastiche Mondadori, 2003, p. 369.

8
ci viene sempre dal Raimondi che nel suo libro Poesia come retorica, paragona la
poesia della Gerusalemme al montaggio usato da Ėjzenštejn nelle sue pellicole. In
questo senso si colloca la descrizione dei personaggi e dei luoghi che in perfetta ottica
cinematografica, Tasso fa descrivere da coloro che più li bramano; usando quello che
viene definito “punto di vista patetico” la prima descrizione di Gerusalemme
l’abbiamo attraverso lo sguardo di Goffredo, e allo stesso modo la prima descrizione di
Tancredi, paladino cristiano ce la dà Erminia che è innamorata di lui.
Il contrasto di forze opposte costituisce il nucleo centrale del poema, che sia
Dio contro il Demonio, i cristiani contro gli infedeli, il bene contro il male, eros contro
thanatos è l’opposizione la forza motrice della macchina narrativa del Tasso. Ogni
personaggio ci viene presentato attraverso le sue azioni e i suoi sentimenti e la
caratterizzazione psicologica è molto approfondita. Come sostiene Raimondi «La
Gerusalemme liberata deve la sua grandezza letteraria a questa lacerante inquietudine
e a questa intima tensione, caratteri che ne fanno un’opera di frontiera, capace di
dissolvere i canoni del genere “poema epico” e di assurgere, nel senso pieno del
termine, a “poema del cosmo”: Tasso è un poeta capace di racchiudere nel proprio
testo, con perfetto rigore di parole, il senso del mondo e delle sue vicende»3.
Questa piccola digressione sulla vita del Tasso e sulla complessità della sua opera, che
meriterebbe pagine e pagine di studio, è utile per capire in quale contesto si colloca la
materia vera della mia ricerca, ovvero la foresta e i suoi incanti. Nel prossimo capitolo
parlerò infatti della foresta di Saron che occupa un ruolo di spicco nella vicenda della
Gerusalemme liberata e che mi ha dato lo spunto principale per intraprendere questo
lavoro.

3
E. Raimondi, Tempi e immagini della letteratura, cit, p. 370.

9
CAPITOLO 2

La selva del Tasso: I topoi silvestri nel “meraviglioso” della Liberata

Dalle lettere del Tasso che accompagnano il lungo lavoro di composizione e


revisione del poema si comprende che gli «incanti» e le «magie», sono per lui fonte di
grande frustrazione perché non adatte al «rigor de’ tempi». Molti degli episodi legati ai
miracoli o alle manifestazioni del «meraviglioso» saranno oggetto di correzione e in
alcuni casi di esclusione nella Conquistata; ma non gli incanti del bosco perché essi,
come sottolinea Raimondi, «appartengono di diritto al gruppo delle funzioni cardinali,
se si usa la terminologia moderna di Roland Barthes, in quanto, al pari degli incanti del
giardino di Armida e gli amori di Armida, d’Erminia, di Rinaldo, di Tancredi e de gli
altri essi non si possono espungere senza niuno o manifesto mancamento del tutto». Il
canto XIII della Liberata costituisce l’apice del «meraviglioso»4 di tutto il poema ed è
costruito con una coreografia che possiamo definire teatrale. Si tratta infatti di una vera
e propria rappresentazione che trova il suo epilogo nel canto XVIII quando Rinaldo
riesce a disincantare la selva.
Torniamo ora indietro e vediamo quando la selva fa la sua prima comparsa nel poema,
quali sono le sue caratteristiche principali e quali fatti vi accadono.

2.1 La prima apparizione della selva di Saron nel poema avviene nel canto III
quando Tasso spiega che la terra intorno a Gerusalemme è «nuda d’erba» (56,7) e non
c’è una sola pianta che possa riparare i crociati dai raggi estivi sennonché «oltra sei
miglia un bosco/ sorge d’ombre nocenti orrido e fosco». La foresta di Saron non è
un’invenzione del Tasso, è infatti segnalata da Guglielmo di Tiro nella sua Historia e
le cronache crociate riportano che la sua ubicazione fu segnalata da un uomo di Siria al
Duca di Normandia e al Conte di Fiandra (Vivadi5) cosa che il Tasso ricorda più
avanti nelle ultime ottave del canto III. Questa descrizione è però presa dall’Eneide di

4
E. Raimondi, I sentieri del lettore, Vol.1, Bologna, Il Mulino, 1994, p.495.
5
V. Vivaldi, Sulle fonti della Gerusalemme liberata, Catanzaro, Officina tipografica di Giuseppe Caliò, 1893,
p.142.

10
Virgilio, e precisamente dal I libro al verso 165. I troiani stanno per sbarcare sulla
costa della Libia e Virgilio descrive il paesaggio che li accoglie dicendo che nella
costa si apre un’insenatura protetta dai fianchi di un’isola che sono composti da scogli
enormi e sopra di essi si erge «horrentique atrum nemus imminet umbra»6. Dopo
essere stata introdotta all’ottava 56, la selva ritorna come luogo principale dell’azione
nell’ottava 74 dello stesso canto in cui Goffredo manda i fabbri a far legna nella
foresta per costruire le macchine da guerra. Tale pratica, appresa da Tasso dalle
cronache crociate, fa parte delle manovre di assedio e dei suoi precedenti letterari
parlerò in seguito. Al verso 5 si dice che «ella è tra valli ascosa» e l’ottava si chiude
poi con la precisazione che ai crociati l’aveva mostrata «uom di Soria». Nel primo
luogo in cui ci viene presentata Tasso si riferisce alla foresta con la parola bosco e, gli
aggettivi che seguono «orrido» e «fosco», insieme al fatto che il bosco è nascosto e
deve essere indicato ai crociati da un uomo del posto, porta intorno a questo luogo
un’aura di ostilità e di paura tipici dei meccanismi della fiaba. La selva di Saron infatti,
incute timore nei soldati e nei fabbri già dall’inizio perché viene percepita come un
luogo sacro dimora di spiriti malvagi. In realtà gli spiriti dei «cittadini d’Averno»
andranno ad occupare realmente la selva solo nel canto XIII dopo l’incantesimo del
mago Ismeno. Proprio nel canto XIII abbiamo la seconda descrizione geografica della
selva All’ottava 2 Tasso scrive «Sorge non lunge alle cristiane tende/ tra solitarie valli
alta foresta,/ foltissima di piante antiche, orrende,/ che spargon d’ogne intorno ombra
funesta.» e anche se l’incantesimo ancora non si è compiuto capiamo che il
parallelismo tra la foresta e l’inferno è molto evidente. Non è un caso poi che alla
prima descrizione nel canto III segua il concilio infernale del canto IV e che alla
descrizione del canto XIII segua l’invocazione degli spiriti dei morti da parte di
Ismeno. Le rappresentazioni della foresta e dell’inferno ci vengono mostrare contigue,
e mediante la giustapposizione l’autore le collega strettamente. C’è poi da ricordare,
che la foresta già nel mondo della fiaba viene considerata la porta per il mondo dei
morti e che quindi questo paragone ha radici molto antiche 7. Torna in questo senso la
somiglianza con la «silva» dei defunti del canto VI dell’Eneide nel quale Enea scende

6
«e v’incombe un bosco oscuro dalle ombre segrete» Virgilio, Eneide, Milano, Rizzoli, 2002, p.267.
7
V. Ja. Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, Roma, Newton Compton, 2012, pp. 177-179.

11
nel mondo dei morti per rigenerarsi e diventare un uomo nuovo pronto al suo destino,
esattamente come il fanciullo si reca nella foresta per il rito iniziatico che lo fa
diventare uomo nel quale deve morire per poi risorgere. Nella Gerusalemme liberata,
dove la selva diventa, grazie all’incantesimo del mago, una trasposizione terrena
dell’Averno, l’episodio del canto XIII in cui i soldati vi si recano per disincantarla è
una vera e propria catabasi che Raimondi ha paragonato a quella di Enea. La
differenza tra le due è che la seconda non serve ai soldati per rigenerarsi ma li porta
solo a vivere le paure del proprio inconscio che impediranno il successo dell’impresa
concesso solo a Rinaldo al quale, come vedremo in seguito, la selva apparirà con
diverse sembianze. L’ottava 2 del canto XIII riporta alla mente l’epica lucanea che
sicuramente Tasso conosceva e dalla quale ha preso spunto in più momenti del poema.
In questo in particolare riprende la connotazione della foresta come cupa e spettrale da
un passo del libro III della Pharsalia in cui si dice «lucus erat longo numquam violatus
ab aevo / obscurum cingens conexis aera ramis / et gelidas alte summotis solibus
umbras»8. Subito dopo Tasso ci dice che la luce è «incerta, e scolorita e mesta» e
questo aspetto lo riprende da Ovidio9 e da Dante10. Sicuramente il modello principale
di Tasso era comunque Ariosto che nei cosiddetti Cinque canti aveva già rivisitato i
modelli lucanei, ovidiani e danteschi nel canto II, dove all’ottava 101 scrive «quivi una
lega appresso, era una antica / selva di tassi e fronzuti cerri, / che mai sentito colpo
d’inimica / secure non avea né d’altri ferri: / quella mai non potesti farti aprica, / né
quando n’aprì il dì né quando il serri, / né al solstizio, né al tropico, ne mai / Febo, vi
penetrar tuoi chiari rai». Nonostante il paragone di Raimondi tra il canto VI
dell’Eneide e il XIII della Liberata sia molto interessante c’è chi, come Georges
Güntert, lo condivide solo in parte. Per Güntert11 infatti «più che di iniziazione si tratta
di una prova decisiva» nel senso che solo a Rinaldo la selva offre una prova da
superare forse simile a un rito iniziatico perché per gli altri e soprattutto per Tancredi
la selva è solo una sconfitta che porta a una profonda crisi del personaggio. Inoltre,

8
«v’era un bosco sacro, inviolato da tempo immemorabile, che cingeva con un intrico di rami l’aria tenebrosa e
gelide ombre profondamente remote dal sole» Lucano, La guerra civile o Farsaglia, Milano, Rizzoli, 1981, p.
196, vv. 399-401.
9
Ovidio Met. Milano, Rizzoli, 1994, XI, 594-596.
10
Dante Inf., a cura di N. Sapegno, Firenze, La nuova Italia, 2003, XIII, 106-107.
11
G. Güntert, Nella selva del Tasso, in W. Moretti e L.Pepe (a cura di), Torquato Tasso e l’Università Firenze,
Olschki, 1997, p.33.

12
sempre secondo Güntert, la prova di Rinaldo nella foresta non è un vero e proprio rito
iniziatico perché egli non è un giovane fanciullo, ma un cavaliere già affermato che
attraverso questa «prova decisiva» «assurge al ruolo di eroe esemplare, recuperando
l’etica del perfetto milite cristiano».

2.2 lo studio di Güntert mi offre lo spunto necessario per parlare della funzione
principale della foresta di Saron nel poema. Lo studioso svizzero ci dice che la selva
tassiana è completamente diversa sia da quella dantesca che da quella ariostesca,
nonostante prenda entrambe come modello; e questo perché la selva del Tasso ha una
funzione semantica e narrativa ben precisa: è l’unica riserva di legname a cui i crociati
possono attingere per costruire le macchine da guerra e per questo diventa a loro
indispensabile. Güntert continua poi dicendo che quando il mago Ismeno la incanta,
abbiamo nel poema una svolta drammatica forte perché la foresta diventa «da luogo
solitario e tenebroso […] realtà angosciosamente caotica» e di conseguenza il
maggiore ostacolo per i crociati che non riescono più ad accedervi fino all’intervento
di Rinaldo. La necessità di costruire nuove macchine belliche viene dal fatto che gli
infedeli avevano distrutto quelle che i crociati avevano costruito con il legname della
selva al loro arrivo alle porte di Gerusalemme. Come avevo già ricordato, alla fine del
canto III Goffredo invita gli artigiani a recarsi nella foresta per fare legna e all’ottava
74, dove Tasso riporta l’ordine del capitano, seguono due ottave in cui viene descritto
lo scempio che i soldati fanno al bosco per ricavare il legname.

L’un l’altro essorta che le piante atterri,


e faccia al bosco inusitati oltraggi.
Caggion recise da i pungenti ferri
Le sacre palme e i frassini selvaggi,
i funebri cipressi e i pini e i cerri,
l’elci frondose e gli alti abeti e i faggi,
gli olmi mariti, a cui talor s’appoggia
la vite, e con piè torto al ciel se’n poggia.
Altri i tassi, e le querce altri percote,
che mille volte rinovàr le chiome,
e mille volte ad ogni incontro immote
l’ire de’ venti han rintuzzate e dome;
ed altri impome a le stridenti rote
d’orni e di cedri l’odorate some.
Lascian al suon de l’arme, al vario grido,
e le fère e gli augei la tana e ’l nido. (G.l. III, 75-76)

13
Il topos del «taglio degli alberi» ha origini antiche e Tasso lo riprende dalla
classicità latina, in particolare da Virgilio e da Stazio, ma Raimondi ricorda tra i
modelli anche Lucano. Cominciamo proprio da quest’ultimo; in Poesia come retorica
leggiamo che nella Liberata «il rapporto dell’uomo con il bosco si presenta sin dal
principio come un’offesa e una trasgressione, lungo una traiettoria semantica che va
dagli inusitati oltraggi del canto III,75 al violàr del XIII,5» e proprio questo aspetto lo
ritroviamo nella Pharsalia di Lucano. Siamo anche qui nel libro III quando Cesare
penetra nel bosco sacro vicino a Marsiglia per tagliare la legna che gli serve per
costruire la sua torre d’assalto. Lucano ci dice che Cesare viola il bosco, considerato
sacro ma, al contrario di quello che pensavano gli avversari, non gli accade nulla.
Nessuna punizione divina si abbatte su Cesare profanatore del bosco. Vivaldi12 ci dice
che solitamente l’episodio lucaneo viene considerato una delle fonti del XIII canto in
cui l’idea della profanazione della selva si fa più presente tuttavia, come vedremo più
dettagliatamente, si ritiene che il Tasso lo avesse in mente anche durante la
composizione del canto III. Per quanto riguarda Stazio il luogo che Tasso prende a
modello è nel canto VI della Tebaide ai versi 97-106. Il passo che riporto di seguito
ricorda molto le ottave tassiane.

Fugere fearae, nidosque tepentes


absiliunt – metus urget – aves; cadit ardua fagus,
Chaoniumque nemus bruma eque inlaesa cupressus,
procumbunt piceae, flambi alimenta supremis,
ornique iliceaque trabes metuendaque suco
taxus et infandos belli potura cruores
fraxinus atque situ non expugnabile robur.
Hinc audax abies et odoro vulnere pinus
scinditur, adclinant intonsa cacumina terrae
alnus amica fretis nec inhospita vitibus ulmus.13

In particolare da Stazio Tasso riprende la fuga degli animali dai nidi e dalle tane per la
paura che in loro suscita il frastuono degli uomini. Per quanto riguarda invece
l’enumerazione dei tipi di piante che, come ricorda Genot, crea un effetto esotico e
orientale, essa non è un’invenzione staziana, anzi è una pratica letteraria antica che
12
Vedi nota 7
13
«fuggon le fiere, e per timor dal nido/volan gli augelli; cade il faggio eccelso,/e la caonia quercia, ed il
ferale/contro il verno sicuro alto cipresso,/e l'orno e l'elce e 'l velenoso tasso,/e 'l frassino che in guerra il sangue
beve,/ed il rovere annoso, e quel che sprezza/il mar sonante temerario abete,/e l'odoroso pino, e l'alno amica/de
l'onde, e l'olmo de le sacre viti.», in Stazio,La Tebaide, traduzione di Cornelio Bentivoglio, Torino, UTET, 1928,
VI, 97-106

14
possiamo far risalire fino a Omero. I poemi omerici contengono gli archetipi di molti
topoi letterari e questo in particolare si trova nell’Iliade. Siamo nel libro XXIII ai versi
143 e seguenti, Agamennone manda i soldati nel bosco per tagliare il legname per
costruire la pira di Patroclo di cui i greci sono appena riusciti a recuperare il cadavere.
Nella traduzione del poema omerico di Vincenzo Monti14 leggiamo: «Da tutte le parti
allor fece l’Atride/ dalle trabacche uscir giumenti e turbe/ per lo trasporto del funereo
bosco,/ […] Givan costoro/ di corde armati e di taglienti scuri/ […] agli erti boschi
alfine / giunser dell’Ida che di fonti abbonda. / Qui dier sùbita man con affilate /
bipenni al taglio dell’aeree querce / che strepitose al suol cadeano». Le caratteristiche
principali dell’episodio rimangono invariate, ma i successori di Omero aggiunsero
dettagli e variazioni. In realtà non si tratta di una vera e propria enumerazione perché
per la pira di Patroclo ci viene detto che vengono abbattute soltanto querce, ma la
precisione naturalistica di indicare la specie di albero che si sta abbattendo dà il via
agli esempi successivi in cui troviamo elenchi di semi diversi. Uno degli scrittori più
fedeli a Omero è sicuramente Virglilio che utilizza il topos del taglio degli alberi per
una situazione analoga a quella di Patroclo. Nel canto VI dell’Eneide, Enea si accinge
ad eseguire le istruzioni della Sibilla e ordina di abbattere gli alberi per cercare il ramo
d’oro e per costruire la pira funebre per Miseno. Al verso 178 leggiamo

Itur in antiquam silvam, stabula alta ferarum,


procumbunt piceae, sonat icta securibus ilex
fraxinaeque trabes, cunei set fissile robur
scinfitur, advolunt ingentis monti bus ornos.
Nec non Aeneas opera inter talia primus
hortatur socios paribusque accingitur armis15

e in questi versi troviamo molte delle caratteristiche che Tasso riprende nel suo poema;
l’esortazione ad abbattere la selva, l’uso delle scuri affilate e alcune specie di piante. Il
più ricco di essenze rimane comunque Stazio che arriva ad enumerarne fino a tredici
diverse compiendo un’operazione naturalisticamente poco realistica. Da Omero a
Virgilio fino a Stazio il motivo del taglio degli alberi è la costruzione di una pira che

14
V. Monti, Iliade di Omero, Milano Rizzoli BUR, 1990, vol. II., XXIII, 143 sgg.
15
«si va in un’antica selva, ricovero appartato di fiere, giù piombano cedri resinosi, risuona il leccio picchiato
dalle scuri, e il legname del frassino, e con cunei si spacca nelle fenditure il rovere, fanno rotolare enormi ontani
dalle colline. Non da meno Enea, in tale attività, per primo esorta i suoi e vi si accinge con pari impeto di
braccia» Aen. A. La Penna e R. Scarcia a cura di, Milano, Rizzoli, 2002, VI,178 sgg.

15
sia essa funebre come nei primi due casi o votiva agli dei nel terzo. L’abbattimento
della selva per costruire le macchine da guerra Tasso lo riprende da Lucano e da
Ariosto. Gli episodi presenti nella Pharsalia e nei Cinque canti si somigliano molto
soprattutto per l’aura di sacrilegio che aleggia intorno alla distruzione del bosco.
Vediamo somiglianze e differenze tra i due e come hanno influito nel poema del
Tasso.
Hanc iubet inmisso silvam procumbere ferro;
nam vicina operi belloque intacta priori
inter nudatos stabat densissima montis.
Sed fortes trmuere manus, motique verenda
maiestate loci, si robora sacra ferirent,
in sua credebant redituras membra securis.
Inplicitas magno Caesar torpore cohortes
ut vidit, primus raptam vibrare bipennem
ausus et aeriam ferro proscindere quercum
effatur merso violata in robora ferro:
“Iam ne quis vestrum dubitet sub vertere silvam, credite me fecisse nefas”. Tunc paruit omnis
imperiis non sublato secura pavore
turba, sed expensa superorum et Caesaris ira.
Procumbunt orni, nodosa inpellitur ilex,
silvaque Dodones et fluctibus aptior alnus
et non plebeios luctus testate cupressus.
Tunc primum posuere coma set fronde carentes
admisere diem, prpulsaque robore denso
sustinuit se silva cadens. 16(Phar. 426-445 )

L’imperador commanda che dal piede


taglin le piante a lor bisogno et uso:
l’esercito non osa, perché crede,
o resta cieco o spiritato o attratto.
Carlo, fatta cantar una solenne
messa da l’arcivescovo Turpino,
entra nel bosco, et alza una bipenne,
e ne percuote un olmo più vicino:
l’arbor, che tanta forza non sostenne,
ché Carlo un colpo fe’ da paladino,
cadde in duo tronchi, come fu percosso;
e sette palmi era d’intorno grosso!
da lunga fama e vano error deluso,
che chi ferro alza incontra il bosco, fiede
sé stesso e more, e ne l’inferno giuso
visibilmente in carne e in ossa è tratto,

16 «Cesare ordina di radere al suolo questa foresta a colpi di scure: intatta nelle guerre precedenti, si ergeva
foltissima vicino alla fortificazione tra monti spogli. Ma le forti mani tremarono: vinti dalla paurosa maestà del
luogo, credevano che le scuri sarebbero rimbalzate contro le loro membra, se avessero colpito i sacri tronchi.
Appena Cesare vide le coorti immobilizzate dalla profonda indecisione, afferrando una bipenne, per primo
osando brandirla e colpire un’aerea quercia, esclamò, con il ferro ancora infisso nel tronco violato:“Ormai
nessuno di voi esiti ad abbattere la selva;ritenete il sacrilegio compiuto da me”. Allora la truppa ubbidì agli
ordini, non già rassicurata o bandito il timore, ma soppesando la collera degli dei e quella di Cesare. Cadono gli
orni, si abbattono i nodosi lecci, e le querce di Dodona, e gli ontani più adatti a navigare, e i cipressi che si
piantano ad attestare il lutto patrizio. Allora per la prima volta perdettero le chiome: spogliati delle fronde
lasciarono penetrare la luce; malgrado i colpi, la selva cadente si sostenne per la densità dei tronchi.» Lucano, La
guerra civile o Farsaglia, Milano, Rizzoli, 1981, III, 426-445

16
[…]così ferito ch’ebbe il bosco Carlo,
fu presto tutto il campo a seguitarlo.
Sotto il continuo suon di mille accette
trema la terra, e par che ‘l ciel ribombi;
or quella pianta or questa in terra mette
il capo, e rompe all’altre braccia e lombi.
Fuggon da’ nidi lor guffi e civette,
che vi son più che tortore o colombi;
e, con le code fra le gambe, i lupi
lascian l’antiche insidie e i lochi cupi.17(Cinque canti, II, 118-122)

I due episodi sono costruiti nello stesso modo, entrambi i comandanti devono assediare
una città e hanno bisogno del legname per costruire torri e armi d’assalto. Entrambi
però si trovano a fare i conti con le credenze legate al bosco che viene visto come un
luogo oscuro e tenebroso. Nel caso latino, l’autore non ci spiega perché il motivo del
timore dei soldati, che sono spaventati di una reazione del bosco contro di loro, mentre
Ariosto ci spiega che il timore dei soldati di entrare e profanare la selva Boema deriva
da un’antica leggenda che vede il luogo essere la dimora di Medea. La questione si
risolve con il coraggio del generale il quale, dimostrando l’assenza di pericoli rassicura
i soldati che con forza iniziano a fare scempio del bosco per ottenere il legname. I
richiami agli episodi funebri prima analizzati sono evidenti. In particolare qui torna il
motivo della bipenne brandito dagli achei che mancava in Virgilio e in Stazio, i
personaggi di questi ultimi infatti utilizzavano le scuri. Torna in Ariosto anche il
motivo degli animali, che impauriti lasciano il nido, e la componente sonora che è
molto presente anche nella Gerusalemme Liberata.
Tutti gli episodi precedentemente analizzati arrivano al Tasso mediati dalla
lettura di Ariosto e nella Liberata sono fusi insieme e creano una bellissima pagina
poetica. In due ottave Tasso, con il suo potere indiscusso di sintesi condensa tutti i
motivi del topos: la sonorità degli alberi che cadono sotto i colpi di scure, i vari tipi di
piante presenti nel bosco e i loro epiteti che, come nel caso del “funebre” cipresso, e
della quercia “antica” coincidono in tutte le opere, la fuga degli animali e la paura di
violare la sacralità del luogo. Unica differenza per quanto riguarda questo punto è che
il comandante, in questo caso Goffredo, non è presente sulla scena e non compie come
Carlo o Cesare il gesto eroico di abbattere il primo albero; sono i soldati che si
esortano l’un l’altro per trovarne uno che dia inizio agli «inusitati oltraggi».

17
L. Ariosto, Orlando Furioso e Cinque canti, a cura di R Ceserani e S. Zatti, Torino, UTET, 1997, vol II.

17
2.3 Come abbiamo visto dopo il canto III la selva di Saron rimane sullo sfondo
dell’azione e torna protagonista nel canto XIII. Qui dopo l’incantesimo del mago
Ismeno e i tentativi vani dei crociati di entrare nella selva, si trova l’episodio di
Tancredi che contiene uno dei misteri del bosco più interessanti di tutto il poema.
Siamo all’ottava 38 del canto XIII e Tancredi, che è riuscito a superare la paura per il
boato prodotto dalla foresta e la visione della città infuocata che gli era apparsa tra gli
alberi, si trova ora in un «largo spazio» al cui centro si erge un cipresso. La pianta
porta un’iscrizione funebre che funge da monito per chi si avvicina di non disturbare il
luogo che viene definito «secreta sede» all’interno dei «chiostri della morte».
Tancredi, nonostante provi emozioni contrastanti di dolore e spavento suscitati anche
dai venti e dai sussurri che sente, all’ottava 41 «tragge al fin la spada, e con gran forza
/ percote l’alta pianta». Inizia così l’episodio della pianta parlante, topos diffuso da
Virgilio e ripreso sia da Dante sia da Ariosto. Uno degli studi più interessanti e
completi sull’argomento è l’articolo di Daniela Foltran18 in cui si traccia una storia del
motivo analizzando somiglianze e differenze nei vari autori che lo hanno impiegato.
La Foltran ritiene capostipite Virgilio che, riprendendo antiche credenze che
vedevano gli alberi come «entità animate e inquietanti» trasmigranti le anime dei
morti, crea qualcosa di completamente nuovo. L’episodio Virgiliano è quello di
Polidoro19(III, 24 sgg). Enea sta raccontando a Didone gli avvenimenti che precedono
l’arrivo dei Troiani a Cartagine e racconta che dopo la fondazione della sua città in
Tracia si stava preparando a celebrare i sacrifici alla madre Venere per ottenere
protezione. Vicino all’altare si trovava un rialzo di terra su cui erano cresciuti arbusti
di corniolo e un cespuglio di stecchi di mirto. Per decorare l’altare Enea staccò uno
degli steli del mirto e questo versò dalle radici sangue denso che creò una macchia
sulla terra. Il troiano rimase atterrito dallo spettacolo ma, incuriosito dal fenomeno,
staccò un altro stelo e si trovò ad osservare lo stesso spettacolo. Mentre stava per
raccogliere un terzo rametto, la pianta emise un gemito, simile a una voce umana, che
implorava Enea di cessare lo scempio. «Quid miserum Aenea laceras?» 20 è l’esordio

18
D. Foltran, Il «topos» narrativo della pianta parlante da Virgilio a Tasso, in «Studi Tassiani», XLV, 45, 1997,
pp.209-229.
19
Aen. III, 19sgg.
20
«Perché Enea dilani un’infelice?» Aen. III, 41.

18
del discorso della pianta che poi spiega di essere l’anima del troiano Polidoro, figlio di
Priamo ucciso per il suo oro dai suoi ospiti e protettori. Il crimine commesso è così
nefasto che le aste usate per trafiggerlo si sono trasformate in piante per eternare la
memoria del giovane troiano. Lo schema che Virgilio inaugura con questo episodio
verrà ripreso quasi allo stesso modo sia da Dante che da Tasso, mentre Ariosto
presenta molte più differenze. Vediamo ora gli episodi nel dettaglio partendo da Dante
che nella selva dei suicidi del canto XIII dell’Inferno parte dall’archetipo virgiliano e
lo modifica ottenendo un’identificazione completa tra l’uomo e la pianta. In Virgilio
infatti il mirto non è la dimora dell’anima di Polidoro, rappresenta solo le aste che
hanno trafitto il corpo del giovane e che intrise del suo sangue si sono trasformate in
pianta. Dante invece usa gli alberi come strumento del contrappasso per le anime dei
suicidi che hanno voluto rinunciare alla loro vita e nell’aldilà non sono degni di
assumere forma umana e per questo sono trasformati in piante. Polidoro aveva detto ad
Enea «Nam Polydorus ego»21 sottolineando con l’uso del presente la propria presenza
sotto il mirto, mentre Pier delle Vigne dice a Dante «uomini fummo, e or siam fatti
sterpi» sottolineando, con la contrapposizione tra passato remoto e presente, la totale
identificazione dell’uomo con la pianta. Se non fosse per questa differenza e, per il
fatto che Polidoro è rappresentato da un mirto mentre Pier delle Vigne si trasforma in
un pruno, gli episodi sarebbero identici: infatti come Polidoro chiede a Enea il motivo
della sua azione così Pier delle Vigne dice a Dante «Perché mi schiante?» (XIII, 33) e
«Perché mi scerpi?» (XIII, 35). Nonostante la somiglianza sia evidente il Sapegno22 ci
fa notare che gli episodi sono pressoché identici solo dal punto di vista formale, perché
per quanto riguarda le funzioni narrative sono completamente diversi. In Virgilio «il
prodigio», anche se ha la funzione di allontanare Enea e i suoi compagni da una terra
ostile e inospitale, è soltanto un espediente che introduce il magico nella narrazione e
la varia; mentre in Dante ha un valore funzionale. Per dirla con le parole del Sapegno
«in Virgilio l’episodio nasce da un proposito d’arte raffinata e sensibile, e prevale
l’elegia; in Dante affonda le radici in un vigoroso concetto morale, e ne scaturisce una
situazione fortemente drammatica» la quale si esprime completamente nella

21
Aen. III, 45.
22
Nota 33 del canto XIII dell’Inferno.

19
figurazione che Dante, con la sua poesia, ci dà delle anime dei suicidi condannate a
restare intrappolate nella pianta anche dopo il giudizio universale e ad appendere ad
essa loro corpo umano: «Come l’altre verrem per nostre spoglie, / ma non però
ch’alcuna sen rivesta; / ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. / Qui le trascineremo,
e per la mesta / selva saranno i nostri corpi appesi, / ciascuno al prun de l’ombra sua
molesta»23.
L’episodio dell’Orlando furioso si colloca invece su toni completamente diversi
sia da quelli danteschi sia da quelli virgiliani nonostante sia comunque modellato sulla
loro falsa riga. Alla drammaticità di entrambi gli episodi appena descritti Ariosto
sostituisce una scena quasi comica che non a caso ha come protagonista il personaggio
forse più comico del poema: Astolfo. Nel canto VI l’autore sta seguendo le avventure
di Ruggero che è appena approdato con il suo destriero alato sull’isola di Alcina. Il
cavaliere lega l’ippogrifo a un albero dal quale però cerca di scappare impaurito da
qualcosa che vede muoversi nel bosco e nel tentativo fa «crollar sì il mirto ove è
legato»24. La descrizione di quello che accade dopo si spiega da sola e per questo è
bene riportarla.
Come ceppo talor, che le medolle
Rare a vòte abbia, e posto al fuoco sia,
poi che per gran calor quell’aria molle
resta consunta ch’in mezzo l’èmpia,
dentro risuona, e con strepito bolle
tanto che quel furor truovi la via;
così murmura e stride e si corruccia
quel mirto offeso, e al fin apre la buccia.
Onde con mesta e flebil voce uscìo
Espedita e chiarissima favella,
e disse: - Se tu sei cortese e pio,
come dimostri alla presenza bella,
lieva questo animal da l’arbor mio:
basti che’l mio mal proprio mi flagella,
senza altra pena, senza altro dolore
ch’a tormentarmi ancor venga di fuore.-
Al primo suon di quella voce torse
Ruggiero il viso, e subito levosse;
e poi ch’uscir da l’arbore s’accorse,
stupefatto restò più che mai fosse. (O.f. VI, 27-29)

Il prodigio della pianta parlante qui è causato da un incantesimo che, essendo


reversibile , costituisce una delle grandi differenze con le altre opere insieme al fatto

23
Inf. XIII, 103-108.
24
L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di L. Caretti, Torino, Einaudi, 1992, VI, 27-29.

20
che con le parole, dalla pianta non esce sangue. L’elemento del sangue è drammatico e
nella giocosa poesia dell’Ariosto sarebbe stato probabilmente inopportuno, per questo
la pianta parla soltanto e invita il cavaliere a staccare l’ippogrifo dal suo tronco. A
questo seguono due versi molto comici in cui il nobile Ruggiero, capostipite della
dinastia estense, corre a liberare l’albero con le guance rosse per la vergogna, cosa che
certo non si addice a un cavaliere del suo rango. La scelta del mirto è un chiaro
richiamo a Virgilio ma non possiamo riscontrare altre somiglianze con l’episodio di
Polidoro.
«È evidente quindi che l’episodio in cui Tancredi, nel XIII della Liberata, si
ritrae esterrefatto nel vedere del sangue colare da un albero da lui appena colpito e
nell’udire una voce uscire da quello, ha alle spalle una lunga e consolidata tradizione
letteraria e, considerato in questa prospettiva, non rappresenta affatto una novità» 25
tuttavia l’episodio del Tasso va esaminato a fondo perché partendo da modelli ben
definiti approda a risultati piuttosto nuovi. Possiamo subito dire, d’accordo con la
Foltran, che l’episodio della Liberata nulla ha a che fare con quello del Furioso bensì
si rifà ai modelli più antichi di Virgilio e Dante e soprattutto con quello virgiliano ci
sono i legami più stretti. Tasso riesce ad amplificare la drammaticità dell’episodio e a
conferirgli una funzione di grande importanza che non era presente negli esempi
precedenti. L’episodio di Tancredi, infatti, si colloca in un punto cruciale della
narrazione; poiché l’incanto della selva ha bloccato la raccolta di legname, e questa è
una condizione indispensabile al proseguimento dell’azione, tutti gli sforzi sono volti
alla liberazione della foresta dagli spiriti. Troviamo il tentativo di Tancredi segue
quello dei fabbri, dei cavalieri, del coraggioso Alcasto e dei valorosi crociati che
provano dopo di lui e si trova all’apice di una climax di ascendente drammaticità.
Tancredi si trova in quel momento in una situazione emotivamente difficile perché
deve ancora riprendersi dal dolore per la morte della sua amata Clorinda, ma quando
Goffredo chiede il suo aiuto, è costretto a fare il suo dovere e si accinge ad affrontare
la selva. Come l’umore di Tancredi tutta l’azione è pervasa da un’aurea mortifera
molto intensa e, la scelta del cipresso, che si discosta dalla tradizione precedente, ci fa
capire che Tasso era consapevole del significato che voleva dare a quel preciso

25
D. Foltran, op. cit., p. 216.

21
episodio. Il cipresso è l’albero della morte per eccellenza e la scritta che porta incisa
ricorda molto l’iscrizione fuori dalle porte dell’Inferno nel III canto della Commedia.
Il fatto che l’albero rappresenti la tomba di Clorinda secondo la Foltran si riesce a
intuire dai riferimenti che Tasso dissemina per il testo come l’aggettivo “eccelsa” nella
similitudine tra il cipresso e una piramide simbolo tomabale, che era già stato usato per
riferirsi alla guerriera. Lo sforzo che Tancredi deve fare per recidere la pianta è molto
grande perché il guerriero si trova in uno stato emotivo particolare di cui possiamo
trovare un riscontro solo in Dante. Dante però è intimorito dai lamenti che sente che
gli sembrano voci umane mentre Tancredi dopo aver decifrato la scritta sull’albero, la
collega con le ultime parole di Clorinda e quindi col pensiero della sua morte. Quando
finalmente si decide a recidere la pianta, «manda fuor sangue la recisa scorza, / e fa la
terra intorno a se vermiglia». Questi sono i versi che secondo Vivaldi legano l’episodio
di Tancredi con quello di Polidoro, tuttavia bisogna sottolineare che Enea replica il
tentativo di spezzare il ramo tre volte mentre Tancredi soltanto due e questo, secondo
la Foltran, perché Tasso vuole differenziarsi completamente da Virgilio e da Dante
esprimendo in questo modo il particolare stato d’animo del suo paladino. Tancredi,
infatti, a differenza di tutti gli altri, usa un’arma per ferire la pianta e la sua esperienza
gli ricorda quella già vissuta dell’uccisione di Clorinda. Quando poi dal cipresso esce
la voce della donna amata che dimora realmente nell’albero, come Pier delle Vigne
dimorava nel pruno, Tancredi ha un mancamento che lo porta a rinunciare all’impresa.
Il discorso di Clorinda è poi molto diverso sia da quello di Polidoro che da quello di
Pier delle Vigne, infatti la donna si rivolge a qualcuno che conosce già e non gli chiede
perché la scempia, ma piuttosto perché anche da morta non riesce a lasciarla in pace.

Ahi! Troppo
m’hai tu, Tancredi, offeso; or tanto basti.
Tu dal corpo che meco e per me visse,
felice albergo già, mi discacciasti:
perché il misero tronco, a cui m’affisse
il mio duro destino, anco mi guasti?
Dopo la morte gli aversari tuoi,
crudel, ne’ lor sepolcri offender vuoi?
Clorinda fui, né sol qui spirto umano
albergo in questa pianta rozza e dura,
ma ciascun altro ancor, franco o pagano,
che lassi i membri a piè de l’alte mura,
astretto è qui da novo incanto e strano,
non so s’io dica in corpo o in sepoltura.

22
Son di sensi animati i rami e i tronchi,
e micidial sei tu, se legno tronchi. (G. l. XIII, 42-43)

L’apparizione di Clorinda come cipresso e il suo discorso si collocano nel poema


come esperienza fantasmatica che appartiene alla machina del “meraviglioso”
tassiano; tuttavia la morale cristiana del poeta non avrebbe accettato che lo spirito dei
Clorinda convertita in punto di morte fosse trasmigrata in una pianta e per questo
l’episodio si svolge all’interno della selva incantata da Ismeno. L’incanto di Ismeno è,
infatti, analogo a quello di Atlante nel Furioso, con la differenza che Atlante mostrava
ai paladini quello che più desideravano mentre Ismeno quello di cui hanno più paura.
Tancredi, dopo aver superato le prime prove cui la selva l’ha sottoposto, sa che quello
che vede non è reale, ma il fantasma di Clorinda tramutato in cipresso che lo
rimprovera è per lui così vero e acuisce il suo senso di colpa a tal punto che fugge
dalla foresta sull’orlo della follia, perdendo ogni speranza di disincantarla cosa che
riuscirà solo Rinaldo.

23
CAPITOLO 3

Rinaldo nella selva

L’antichissima selva, onde fu inanti


De’ nostri ordigni la materia tratta,
qual sia la cagione, ora è d’incanti
secreta stanza e formidabil fatta,
né v’è chi legno di troncar si vanti,
né vuol ragion che la città si batta
senza tali instrumenti: or colà dove
panventan gli altri, il tuo valor si prove.
(G. l. XVIII, 3)

La vicenda di Rinaldo all’interno del poema non è come quella degli altri
paladini di Goffredo. Il percorso di Rinaldo, infatti, che da semplice soldato diventa
l’incarnazione del perfetto milite cristiano costituisce una sorta di Bildungsroman
all’interno dell’opera, che possiamo paragonare a quello degli antichi cavalieri
arturiani in cerca di avventure per trovare se stessi. Prima o poi nella loro quete, la
maggior parte dei cavalieri bretoni si trova a fare i conti con una foresta. Esempio
emblematico di questo filone è Yvain26 che deve diventare selvaggio per ritrovare la
sua civiltà e passa nella foresta un periodo molto lungo. Anche Rinaldo come Yvain
deve fronteggiare l’ostacolo della foresta ma questa non è che l’ultima prova del suo
viaggio, quella che lo consacra come vincitore assoluto di tutto il poema. Scrive
Raimondi che «nel grande circolo di iniziazione a cui deve sottoporsi il cavaliere
cristiano l’avventura dentro il bosco degli incantesimi marca l’atto decisivo, la somma
di tutte le tentazioni che la coscienza è chiamata ad affrontare lucidamente per
liberarsi»27. Raimondi la definisce iniziazione e come si è visto precedentemente c’è
chi come Güntert parla solo di prova, ma qui la teoria del rito iniziatico che passa
attraverso la foresta è, più che per ogni altro cavaliere, molto attuale.
Nel canto VII, in seguito all’arrivo di Armida nel campo cristiano si scatena una
rivolta tra i soldati e Rinaldo accecato dall’ira ispiratagli dal demonio uccide uno dei

26
C. de Troyes, Yvain, a cura di C. S. Lewis, Milano, Mondadori, 2011.
27
E. Raimondi, Poesia come retorica, Firenze, Olschki editore, 1996, p. 186.

24
suoi compagni: il principe norvegese Gernando. Goffredo allora per mantenere la pace
all’accampamento decide di giudicare Rinaldo e punirlo per quello che ha fatto.
Tancredi lo difende ma, per scongiurare l’imprigionamento del giovane, gli consiglia
di fuggire, di domare la propria ira compiendo grandi imprese e gli promette che
presto i cristiani avranno bisogno di lui e potrà tornare. La disputa tra il fiero Rinaldo e
quella del severo Goffredo ricorda molto la contesa tra Achille e Agamennone
nell’Iliade omerica e come Achille e Agamennone erano entrambi necessari alla
conquista di Troia, così Rinaldo e Goffredo lo sono per la conquista di
Gerusalmemme. Rinaldo decide di dare ascolto all’amico e fugge dal campo
meditando grandi imprese da compiere. La partenza di Rinaldo ricorda come detto
sopra il ciclo arturiano e ancor di più le gesta dei cavalieri ariosteschi. Tuttavia il
fallimento della quete di Rinaldo che finisce prigioniero di Armida e perde onore e
orgoglio sottolinea implicitamente il fallimento del modello narrativo dell’Ariosto.
Ritroviamo Rinaldo al canto XIV nel quale, Goffredo, dopo una visione che Tasso
descrive prendendo spunto dal Paradiso di Dante e dal Somnium scipionis di Cicerone,
capisce che l’unica speranza per espugnare Gerusalemme è richiamare Rinaldo e
perdonarlo per il suo crimine. In seguito alla richiesta di grazia da parte dello zio
Guelfo, si mandano due cavalieri a cercare Rinaldo: Carlo e Ubaldo. I due crociati
devono per prima cosa cercare un discepolo di Pietro l’Eremita ad Ascalona che li
aiuterà a trovare Rinaldo. Il mago che narra loro le peripezie del giovane dopo
l’abbandono del campo e fornisce ai due gli strumenti per combattere la magia di
Armida, ha tutte le funzioni e le caratteristiche di quello che nella fiaba viene chiamato
l’aiutante magico. Dal racconto del mago si evince che il destino di Rinaldo si è
incrociato con quello di Armida: il cavaliere, infatti, dopo aver liberato i soldati che lei
teneva in ostaggio ha subito la vendetta della maga che, dopo averlo fatto credere
morto, lo ha attirato in un’isola magica e lo ha addormentato. Tuttavia per la prima
volta nel poema la maga rimane vittima di una passione amorosa, dannosa come quelle
che aveva suscitato nei crociati, e decide di vivere lontana dal mondo la sua passione
con il giovane. Trasporta allora Rinaldo nelle esotiche Isole Fortunate e costruisce con
un incantesimo un palazzo magico e un lussureggiante giardino. Il mago di Ascalona,
dopo aver terminato il racconto, fornisce a Carlo e Ubaldo indicazioni precise per

25
trovare l’isola di Armida e per non rimanere vittime dei suoi incantesimi, così i due
partono alla ricerca del compagno. Nel canto XVI la poesia di Tasso raggiunge un
livello di espressività figurativa molto elevato, molte scene, infatti, sono descritte
come se fossero raffigurazioni pittoriche. Dopo aver raggiunto l’isola e trovato il
giovane cavaliere, Carlo e Ubaldo attendono che Armida lo lasci solo e poi lo
sorprendono apparendogli davanti armati di tutto punto. L’armatura dei crociati stride
fortemente con l’abbigliamento di Rinaldo e quando Carlo e Ubaldo lo fanno
specchiare in uno scudo per mostrargli ciò che è diventato, Rinaldo rimane straniato
dalla visione. Vedendo la sua immagine riflessa Rinaldo si sveglia dal sonno della
passione e prova subito vergogna per il suo aspetto.

Qual uom da cupo e grave sonno oppresso


Dopo vaneggiar lungo in se rinviene,
tal ei tornò nel rimirar se stesso,
ma se stesso mirar già non sostiene;
giù cade il guardo, e timido e dimesso,
guardando a terra, la vergogna il tiene.
Si chiuderebbe sotto il mare e dentro
Il foco per celarsi, e giù nel centro. (G. l. XVI, 31)

Lo stratagemma usato dai crociati non è un’invenzione tassiana, possiamo infatti


ritrovarlo in alcune opere precedenti. Il modello principale è l’episodio dell’Achilleide
di Stazio in cui Ulisse, dopo aver rintracciato Achille nascosto a Sciro travestito da
donna, gli ricorda il suo destino di guerriero attraverso il rispecchiamento in uno
scudo. Lo specchio serve ad Achille come a Rinaldo per ritrovare la propria identità e
il discorso che Ubaldo fa a Rinaldo subito dopo ricorda quello di Ulisse. Episodi simili
si possono trovare anche nel XXX canto del Purgatorio dantesco e nel Furioso. Nel
primo caso abbiamo Dante che specchiandosi nel «chiaro fonte» prova vergogna per il
suo aspetto, nel secondo invece abbiamo Ruggero prigioniero nell’isola di Alcina che
non riesce a resistere alla bellezza magica della dama e si innamora perdutamente di
lei che lo trasforma in un adone effeminato. Quando Melissa giunge sull’isola con le
sembianze di Atlante per salvare Ruggero, gli fa un discorso di rimprovero e poi gli
consegna l’anello magico che mostra tutte le cose come sono realmente senza
incantesimi e Ruggero vedendo le sue sembianze si vergogna profondamente.
L’episodio del Furioso è molto simile a quello del Tasso, entrambi si svolgono su

26
un’isola dimora di una maga innamorata del cavaliere che viene ammaliato con le arti
magiche e trasformato completamente. L’intervento esterno di Melissa in un caso e di
Carlo e Ubaldo nell’altro, riportano le due vittime a vedere la verità. Simili sono anche
le modalità usate per risvegliare il cavaliere: in entrambi gli episodi, la rivelazione è
preceduta o seguita da un discorso di rimprovero da parte dei salvatori e la vergogna
provata dalle vittime una volta rinsavite è la stessa. Il fatto di vedere finalmente la
propria sembianza effeminata porta tutti i cavalieri, da Achille a Rinaldo, a risvegliarsi
e a recuperare la propria identità e a provare talmente tanta vergogna da desiderare che
la terra si apra sotto i loro piedi e li inghiotta. Nella vicenda di Rinaldo in particolare
questa vicenda è molto importante perché serve al giovane per prendere coscienza del
suo ruolo e per tornare maturo al campo cristiano pronto sottomettersi al volere di
Goffredo e ad assolvere il suo compito. Di nuovo c’è il parallelismo con la vicenda di
Achille che una volta abbandonata l’ira concede ad Agamennone il suo aiuto, cruciale
per vincere la guerra.
Nella seconda parte del canto XVII troviamo il cavaliere sulla via del ritorno,
dove incontra insieme ai suoi compagni il mago di Ascalona e inizia il suo viaggio di
purificazione che si completa con la prova della foresta. Il mago gli porge un’armatura
lucente con il monito che di essa dovrà farne buon uso, adempiendo ai suoi doveri di
cavaliere cristiano e tenendo a freno le sue passioni. Carlo consegna poi a Rinaldo la
spada di Sveno che, come spiegato alle ottave 83-89, per volontà divina doveva essere
affidata a Rinaldo per uccidere Solimano e vendicare così la morte del principe danese.
Una volta ricevute le armi e tornato al campo cristiano accolto da tutti, Rinaldo si sente
pronto a risolvere il problema della foresta che subito gli è descritta dai compagni che
già hanno tentato l’impresa. Pietro l’Eremita tuttavia lo rimprovera dicendo che il suo
viaggio di purificazione non è ancora finito e che deve salire al monte Oliveto per
chiedere perdono a Dio per le sue colpe. Le ottave riferite all’esperienza sul monte
Oliveto hanno toni mistici e sono caratterizzate dalla presenza predominante della
luce. Le vesti di Rinaldo assumono un candore nuovo e la sua trasformazione viene
associata a quella di un serpente che effettua la muta. In questo luogo del poema il
serpente è visto come una presenza positiva che si contrappone al fiero rettile verde
sull’elmo di Solimano (IX, 25). Completata la salita al monte e la purificazione

27
dell’anima, Rinaldo è finalmente pronto per la foresta e si avvia verso di essa memore
degli avvertimenti dei suoi compagni.

Il bel candore de la mutata vesta


Egli medesmo riguardando ammira,
poscia verso l’antica alta foresta
con secura baldanza i passi gira.
Era là giunto ove i men forti arresta
Solo il terror che di sua vista spira;
pur né spiacente a lui né pauroso
il bosco par, ma lietamente ombroso (G. l. XVIII, 17)

Da questa prima ottava già si può comprendere che gli avvertimenti dei crociati poco
serviranno al giovane Rinaldo che troverà la foresta completamente diversa da come
l’avevano trovata i compagni. Se confrontiamo l’episodio di Rinaldo con quello di
Tancredi osserviamo la specularità con cui il poeta li ha costruiti. Quella che a
Tancredi sembra una «selva dal fero aspetto»(XIII,33) a Rinaldo appare un bosco
lietamente ombroso. Tancredi ode poi il rumore del tuono e del terremoto mentre
Rinaldo «un suono che dolsissimamente si diffonde», infine Tancredi quando si
addentra un poco nella selva si trova davanti la città del fuoco, mentre Rinaldo trova
un ruscello, gli uccelli che cantano e le ninfe danzanti. L’unico ostacolo che incontra è
il fiume ma, mentre cerca di capire dove si può guadare, appare un ponte dorato che
collega le due rive. Non appena Rinaldo l’ha attraversato, il ponte scompare così
com’era apparso. Proseguendo tra «le piante antiche e folte» Rinaldo torva fiori di
ogni specie, ninfe uccelli e canti lieti, finché come Tancredi, giunge in uno spiazzo
aperto dove si erge un mirto e a Rinaldo appare come la reggia del bosco.
L’apparizione dello spiazzo col mirto nulla ha a che fare con la presenza funerea del
cipresso in mezzo alla radura trovata da Tancredi. Tuttavia le sembianze dolci e soavi
del bosco celano altri tipi di mostri. All’ottava 26 mentre il cavaliere si guarda attorno,
nella radura gli appare una quercia dalla quale escono delle ninfe che gli parlano
soavemente e gli dicono che era atteso dalla loro regina. Cominciano poi una danza
accompagnata dal canto e, dal mirto che il Tasso ha introdotto prima, ma che lascia per
qualche ottava in secondo piano, esce una bellissima donna che a Rinaldo pare essere
Armida. Il poeta ci avvisa subito usando la parola “sembianze” che quella che Rinaldo
vede in realtà non è Armida ma è una visione frutto dell’incanto. Lei cerca di sedurlo

28
ma Rinaldo consapevole dell’inganno stringe la spada e si avvia verso il mirto con
l’intenzione di abbatterlo; la donna allora abbraccia il suo albero e prega il cavaliere di
non farlo. Vedendo che il cavaliere non cede alle sue suppliche, la donna si trasforma
in mostro e così le sue ninfe, ma Rinaldo armato della sua nuova forza purificatrice
abbatte il mirto riuscendo così, dove Tancredi aveva fallito, a “dismagare” la foresta. Il
distico finale dell’ottava 37 segna la vittoria del cavaliere sulla foresta e sull’inferno:
«tronca la noce: è noce, e mirto parve. / Qui l’incanto fornì, sparìr le larve».
Il mirto è un chiaro richiamo a Virgilio, che aveva usato questo albero nell’episodio di
Polidoro, tuttavia mirto non è perché quando Rinaldo lo abbatte esso si rivela essere un
noce albero caro alle streghe che lo ritenevano propizio per i loro rituali. La presenza
del noce richiama l’inizio della vicenda quando, all’ottava 4 del canto XIII Tasso
scrive che nella foresta «s’adunan le streghe, ed il suo vago», e dà a tutto l’episodio
iniziato diversi canti prima e interrotto da molte altre vicende, grande compattezza.

Tornò sereno il cielo e l’aura cheta,


tornò la selva al natural suo stato:
non d’incanti terribile né lieta,
piena d’orror ma de l’orror innato.
Ritenta il vincitor s’altro più vieta
Ch’esser non possa il bosco omai troncato;
poscia sorride, e fra se dice: “Oh vane
sembianze! E folle chi per voi rimane!”
39 Quinci s’invia verso le tende, e intanto
colà gridava il solitario Piero:
“già vinto è de la selva il fero incanto,
già se’n ritorna il vincitor guerriero:
vedilo”. Ed ei da lunge in bianco manto
comparia venerabile e severo,
e de l’aquila sua l’argentee piume
splendeano al sol d’inusitato lume (G. l. XVIII,38)

Le due ottave sopra riportate, che chiudono definitivamente gli incanti del
bosco nel poema, ritraggono Rinaldo vincitore che arriva al campo come
un’apparizione circondata di luce. La spavalderia del suo discorso sottolinea ancora di
più il fallimento di Tancredi. Nel saggio di Geroges Güntert, già citato nel capitolo
precedente28, questo parallelismo tra il successo di Rinaldo e il fallimento di Tancredi
legato alla foresta viene analizzato in maniera molto interessante. Güntert sostiene che
il primo dovere del cavaliere cristiano è quello di sottomettere le proprie passioni al

28
G. Güntert, op. cit., p.48.

29
servizio della collettività, e per questo il ruolo di Tancredi «latore di una passionalità
struggente ed autodistruggente»29 viene relegato in secondo piano perché non utile alla
collettività e, nonostante il suo valore nei combattimenti «è stato costretto ad agire
contro i propri affetti dalla rigorosa ed ineluttabile logica del poema». Da qui la
promozione di Rinaldo, personaggio che da Güntert viene definito «letterariamente
costruito in conformità con l’ideologia dominante». Una volta che la selva è
disincantata si ripete il rituale del taglio degli alberi per la costruzione delle macchine
da guerra e, così come era avvenuto alla fine del canto III, alla fine del XVIII Goffredo
invia gli artigiani a far legna nel bosco ed essi vanno senza più timore. Aggiunge
Güntert che la trasformazione della selva in materiale bellico è analoga alla
«riconversione delle passioni in strumento utile al perseguimento degli obbiettivi
cristiani»30 e che in questo processo Rinaldo si conferma campione assoluto perché
proprio nella foresta incantata prende coscienza piena del suo ruolo nella battaglia per
conquistare Gerusalemme.
Tutto l’episodio di Rinaldo nella selva è anticipatore degli eventi che
seguiranno. Il forte legame che lega la foresta con Gerusalemme, sia perché senza il
legname la città non può essere espugnata, sia perché se Gerusalemme rappresenta la
città e quindi la civiltà e la cultura, la foresta gli si contrappone rappresentando la
natura, ci fa capire che la liberazione della selva prefigura la liberazione della città
santa31.

29
G. Güntert, op. cit., p.47.
30
G. Güntert, op. cit., p.48.
31
L’idea si trova in Raimondi, Poesia come retorica, p.197.

30
CAPITOLO 4

Foresta come locus amoenus e foresta VS locus amoenus

L’analisi degli episodi di Tancredi e di Rinaldo nella selva porta alla luce un
altro topos legato al bosco: quello della contrapposizione tra locus amoenus e locus
horridus. Così come appare a Tancredi la foresta di Saron ha tutte le caratteristiche del
locus horridus, mentre quella che appare a Rinaldo è, almeno all’inizio, una selva
appartenente alla categoria del locus amoenus. Tuttavia se per la categoria del locus
horridus la selva di Saron costituisce nel poema l’unico esempio, per la
rappresentazione del paesaggio ideale Tasso non si limita all’avventura di Rinaldo ma
ci offre alcuni altri esempi come l’episodio di Erminia tra i pastori e la descrizione del
giardino di Armida. La contrapposizione tra locus horridus e locus amoenus legata alla
selva si può anche sintetizzare nella contrapposizione tra foresta e giardino. Il giardino,
composto da una serie di elementi topici di cui parlerò in seguito, costituisce la civiltà
e si contrappone alla foresta che viene vista come il luogo del selvaggio. Sono
entrambi luoghi della natura, ma il giardino per la sua conformazione viene più spesso
associato alla cultura e all’uomo; esso, infatti, è spesso un luogo costruito ad arte
dall’autore che segue regole precise.
Il bosco, come sostiene Gianna Petrone, è «referente di entrambi, medesima
realtà interpretata differentemente»32 e gli elementi che lo caratterizzano sono gli stessi
ma vengono interpretati in modo diverso: se nel boschetto del locus amoenus troviamo
alberi che offrono un’ombra rinfrescante e sicura, nella selva oscura troviamo alberi
minacciosi la cui ombra crea un buio sinistro e pauroso. L’ombra degli alberi è solo
una delle caratteristiche che vengono trasfigurate a seconda della necessità narrativa e
per capire meglio la differenza tra i due cominciamo dalla descrizione del locus
amoenus. Il locus amoenus viene definito come un angolo di natura piacevole e serena
nel quale possiamo trovare un albero o un boschetto, un prato verde o fiorito, una fonte
o un ruscello e nel quale possiamo udire il canto degli uccelli e il soffio della brezza. È

32
G. Petrone, Locus amoenus e locus horridus: due modi di pensare il bosco, in «Aufidus», V 1988, pp.3-18.

31
una chiara idealizzazione della natura che possiamo ritrovare in moltissimi autori sia
classici sia rinascimentali. Il capostipite è come sempre Omero che nell’Odissea offre
due esempi di questo tipo di natura, la grotta di Calipso (V,55sgg.) e il giardino di
Alcinoo (VII, 112-131). Entrambi i luoghi descritti sono abitati da ninfe e divinità e
questo conferisce al locus amoenus un’aura fiabesca che rimanda al soprannaturale,
che verrà ripresa anche da Tasso nella Gerusalemme. Nello studio di Rosaria Patanè
Ceccantini, Il motivo del locus amoenus nell’Orlando furioso e nella Gerusalemme
liberata, si traccia una breve storia del motivo nella quale la studiosa rileva proprio
che «i poemi omerici stanno alla base di tutta la tradizione del paesaggio ideale e gli
scrittori successivi non dimenticheranno di riferisti a queste descrizioni quando
vorranno ritrovare gli ingredienti di un perfetto locus amoenus»33. La Ceccantini cita
poi gli idilli di Teocrito di Siracusa, che usa i paesaggi siciliani come sfondo per le sue
poesie che diventano l’incunabolo di tutta la poesia pastorale successiva, da Virgilio in
poi. Il paesaggio pastorale dell’episodio di Erminia è l’unico vero locus amoenus della
Liberata, l’unico cui il Tasso dà una connotazione positiva; tutti gli altri dai luoghi di
Armida alla foresta apparsa a Rinaldo sono solo frutto di un incantesimo destinato a
svanire, che dietro a belle sembianze cela tutta la sua negatività. Tornando alla
classicità, Virgilio è proprio il terzo poeta che contribuisce con le sue opere al
completamento del topos. Oltre al paesaggio pastorale delle Bucoliche, molto
importante è la descrizione dei campi elisi (Eneide VI) che verrà poi riutilizzata nel
Medioevo per descrivere il paradiso. Nelle Bucoliche il paesaggio pastorale si
contrappone alla civiltà, è un luogo dove si può trovare rifugio e dove si può stare in
pace lontani dalle guerre civili che distruggono le città; questa stessa connotazione la
ritroviamo in Tasso, dove la parentesi di Erminia ci dà una pausa dal frastuono e dalle
violenze della guerra, ma tuttavia è pervasa dalla malinconia per la perduta età dell’oro
presente anche in Virgilio.
Il bosco visto nel suo senso positivo di luogo idillico e ideale accoglie sia la
pratica poetica sia quella filosofica e la Petrone34 sostiene che comune a entrambe le
discipline sia l’idea del bosco come «spazio confinato dal mondo circostante e

33
R. Patanè Ceccantini, Il motivo del locus amoenus nell’Orlando furioso e nella Gerusalemme liberata,
Lusanne, Université de Lusanne, 1996 p. 13.
34
G. Petrone, Locus amoenue e locus horridus: due modi di pensare il bosco, p.7.

32
separato dalla normale umanità». La solitudine tuttavia è legata al bosco anche nel suo
senso più oscuro; infatti, nel caso del locus amoenus il bosco ospita i canti pastorali e
le meditazioni solitarie del filosofo, mentre nel caso del locus horridus l’uomo si trova
isolato nel bosco per necessità di nascondersi oppure per indole selvaggia e quindi non
adatta alla vita di comunità. Nel contrasto tra natura e cultura il bosco si colloca
sempre dalla parte della natura ma se è rappresentato come ameno rappresenta una
natura positiva che prevale sulla cultura barbara della civiltà umana dilaniata dagli
scontri, mentre se è rappresentato come oscuro e aspro rappresenta un’umanità
primitiva paragonabile agli animali selvatici.
Per quanto riguarda il locus horridus esso si caratterizza con gli stessi elementi
dell’amoenus essi assumono però diverse connotazioni: le acque sono scure e
pericolose, le grotte sono spelonche e manca il canto degli uccelli. Le divinità se vi
abitano sono divinità crudeli come quelle della caccia a ambigue come Pan e Fauno.
La tradizione letteraria del locus horridus è certamente debitrice di Virgilio che ricopre
con la foresta il suo Averno. Nel canto VI dell’Eneide l’eroe troiano si appresta a
scendere nell’aldilà accompagnato dalla Sibilla e la descrizione che Virgilio dà
dell’Averno è quella di un bosco circondato dalle acque di Cocito, «tenent media
omnia silvae, / Cocytusque sinu labens circumvenit atro» (Aen VI, 131-32). A questo
proposito la Petrone nota che la cosa più interessante di tutto il passo Virgiliano è il
commento di Servio, «secondo cui con le selve il poeta tenebras et lustra significat, in
quibus ferita set libido dominantur»35. L’assimilazione tra il bosco e il selvaggio non
desta novità ma la presenza della parola libido è per la Petrone molto importante
perché apre le porte alla ‘selva’ oscura dantesca. In Virgilio il bosco è rappresentato in
entrambe le sue forme e viene utilizzato in un caso per rappresentare i campi elisi e
nell’altro per rappresentare l’inferno: Dante riutilizza questo sistema nel suo poema.
Nella Commedia la selva si trova in tre luoghi del poema; due loci horridi nell’Inferno
e un locus amoenus nel Purgatorio. Nell’Inferno troviamo la selva nel canto I e nel
XIII; mentre nel Purgatorio si trova la “divina foresta” del paradiso terrestre nel canto
XXVIII.

35
G. Petrone, Locus amoenus e locus horridus: due modi di vedere il bosco, op. cit. p.15.

33
Nel primo canto dell’Inferno Dante nei primi cinque versi connota la sua selva
con quattro aggettivi: “oscura” al v.2, “selvaggia, aspra e forte” al v.5. Nel Purgatorio
compie poi la stessa operazione con la foresta del paradiso terrestre che, al verso 2 del
canto XXVIII viene definita: “divina, spessa e viva”. È chiaro, come sottolinea la
Ceccantini36, che la “selva antica” (come viene definita in Pg, XVIII,22) si
contrappone alla “selva oscura” e le coppie di aggettivi che il poeta usa rafforzano il
rimando testuale. Entrambi i luoghi sono descritti da Dante con le caratteristiche
principali del topos l’oscurità, le fiere selvagge da un lato e la luminosità, la presenza
del canto degli uccelli e delle fresche acque dall’altro. Tuttavia nella Commedia la
differenza nella rappresentazione rappresenta qualcosa di più profondo; la selva serve
a Dante per rappresentare il peccato in un caso e la redenzione nell’altro, usando le
parole della Ceccantini, la “selva antica” «rappresenta la felicità che l’uomo può
raggiungere sulla terra avvalendosi dei mezzi della ragione».37 Tornando al XIII
dell’Inferno, la foresta assume un ruolo narrativo, essa è l’insieme delle anime dei
suicidi che, avendo rinunciato alla vita, non meritano di avere forma umana nemmeno
nell’aldilà e vengono trasformati in piante. Dante usa in questo caso la parola “bosco”
e lo caratterizza con l’aggettivo “fosco” dando probabilmente lo spunto al Tasso per il
«bosco / […] d’ombre nocenti orrido e fosco». A sua volta Dante, secondo il Sapegno,
ha avuto l’idea dall’Hercules furens di Seneca.
Tasso utilizza il modello dantesco per rappresentare l’oscura foresta di Saron
per la rappresentazione dei luoghi ameni invece si rifà soprattutto ad Ariosto e a
Boiardo e alla tradizione edificatoria rinascimentale dei giardini. La Ceccantini
sostiene che la fortuna dei poemi cavallereschi nel quattrocento e nel cinquecento sia
dovuta al gusto per il fantastico che i rinascimentali avevano; ritiene inoltre che la
rappresentazione dei luoghi ameni di questi poemi dipenda da molti fattori. Per prima
cosa rinvia alla tradizione letteraria da Omero a Dante di cui si dice sopra con qualche
riferimento al giardino boccacciano del Decameron; in secondo luogo al gusto per
l’esotismo. Il periodo è quello dei grandi viaggi alla scoperta di nuovi mondi e nei

36
R. Patanè Ceccantini, Il motivo del locus amoenus nell’Orlando furioso e nella Gerusalemme liberata, op. cit.
p.19.
37
R. Patanè Ceccantini, Il motivo del locus amoenus nell’Orlando furioso e nella Gerusalemme liberata, op. cit.
Ivi.

34
poemi cavallereschi i giardini si trovano quasi sempre in Oriente, delimitati da un
confine d’acqua e spesso dimora di una maga che vi attira l’eroe di cui si è innamorata.
Infine poi la rappresentazione di questi giardini è influenzata, secondo la Ceccantini,
dalle teorie del De re aedificatoria scritto da Leon Battista Alberti per Lionello d’Este.
Nel trattato, molto apprezzato alla corte estense culla dei poemi cavallereschi, si dice
che il giardino deve avere caratteristiche precise che sono «distese di prati fioriti,
campagne soleggiate, boschi ombrosi, sorgenti e ruscelli limpidissimi, specchi d’acqua
ove bagnarsi»38. I giardini dell’Orlando innamorato, dell’Orlando furioso e quelli
della Gerusalemme liberata rispecchiano pienamente questo modello e, come nota la
studiosa, la bellezza della natura organizzata viene enfatizzata dalle costruzioni
architettoniche che circonda. Notiamo quindi che il bosco in questo caso viene
utilizzato come semplice elemento decorativo facente parte di un sistema organizzato
usato per costruire un luogo naturale che di natura non ha più nulla e che si può
collocare quindi nella sfera dell’uomo e della civiltà, in netto contrasto con la foresta
sempre amena ma «spessa e viva» che troviamo nell’Eden dantesco.
Sia nel Furioso sia nella Liberata troviamo due tipi di loci amoeni: bucolico -
pastorale e magico. Per quanto riguarda il primo esso è identificabile nel Furioso con
gli episodi della fuga di Angelica e nella Liberata con l’episodio della fuga di Erminia.
In entrambi i casi le due donne prima di arrivare al luogo pastorale passano attraverso
una selva oscura portando così alla luce il confronto diretto tra l’utilizzo del bosco nel
locus amoenus e nel locus horridus. La differenza sta nel modo in cui i due poeti
trattano lo stesso tema. Lo studio della Ceccantini più volte citato in questa sede ha
come fulcro proprio questo tema che cercherò di riassumere di seguito. Entrambe le
donne stanno fuggendo da qualcuno: Angelica da Rinaldo ed Erminia dai cavalieri
cristiani e da Tancredi che la inseguono avendola scambiata per Clorinda a causa
dell’armatura che indossa. L’accostamento tra la foresta oscura e il boschetto, secondo
la studiosa, serve ai poeti per costruire un paesaggio che rispecchia lo stato d’animo
delle protagoniste dell’episodio; tuttavia se Ariosto si perde a descrivere la natura
selvaggia delle selve, Tasso riassume il paesaggio in un unico verso: «l’ombrose

38
L. B. Alberti, L’architettura, testo latino e traduzione a c. di G. Orlandi, Milano, Il Polifilio, 1996, IX,II.

35
piante d’antica selva»39. La stessa tecnica viene utilizzata per la descrizione del
paesaggio pastorale che l’Ariosto descrive nei particolari in più punti del primo canto
soffermandosi sulla bellezza dei paesaggi e sulla varietà delle piante (O.f. I, 35,3-8;
I,37,1-4), mentre Tasso dà al canto un tono prevalentemente tragico riassumendo
l’idillio nei quattro versi che seguono il risveglio di Erminia sulle rive del Giordano:

Non si destò fin che garrir gli augelli


Non sentì lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori. (G.l. VII,5,1-4)

Il discorso del pastore che esprime le sue polemiche sulla guerra sottolinea il tema
della pace e della solitudine del luogo pastorale che Tasso riprende direttamente dalle
Bucoliche e dalle Georgiche virgiliane.
Per quanto riguarda la natura magica e fantastica sia Ariosto sia Tasso ci
offrono esempi interessanti e simili tra loro. Tralasciando la foresta che appare a
Rinaldo nella sembianza di dolce bosco felice della quale si è già parlato nel capitolo
precedente, nella Gerusalemme liberata troviamo il giardino di Armida sulle Isole
Fortunate che ricorda il giardino dell’Isola di Alcina dell’Orlando Furioso. Entrambi i
giardini sono dimora di una maga e ancora una volta il locus amoenus si lega a una
figura femminile. Da Omero a Dante infatti la presenza della donna può essere
considerata una caratteristica del luogo ameno quanto i ruscelli e i boschetti ombrosi e,
in questi due esempi, Alcina e Armida ricordano più Calipso, che tiene Ulisse lontano
da casa perché è innamorata di lui, di Beatrice che rimprovera Dante per il suo aspetto
poco adatto alla beatitudine del luogo in cui si trova. Le isole delle due maghe si
trovano in luoghi remoti e lontani dalla società umana tuttavia conservano gli elementi
della presenza di una civiltà. La Ceccantini a questo proposito nota che le descrizioni
non ci fanno più pensare a una civiltà pastorale bensì ci rimanda alle descrizioni
colombiane del nuovo mondo, usando anche l’enumerazione delle essenze esotiche
che compongono il paesaggio:

Vaghi boschetti di soavi allori,


di palme e d’amenissime mortelle,

39
Gerusalemme liberata, VII,1,1-2.

36
cedri et aranci ch’avean di frutti e fiori
contesti in varie forme e tutte belle,
facean riparo ai fervidi calori
de’ giorni estivi con lor spesse ombrelle
e tra quei rami con sicuri voli
cantando se ne giano i rosignuoli (O.f. VI,21)

L’ottava ariostesca viene ripresa da Tasso nel canto X quando i soldati cristiani liberati
dal dominio della maga dall’intervento di Rinaldo raccontano a Goffredo quello di cui
la donna è capace e descrivono il suo palazzo usando le caratteristiche topiche del
luogo naturale meraviglioso:

V’è l’aura molle e ’l ciel sereno e lieti


Gli alberi e i prati e pure dolci l’onde,
ove fra gli amenissimi mirteti
sorge una fonte e un fiumicel diffonde:
piovono in grembo a l’erbe i sonni queti
con un soave mormorio di fronde,
cantan gli augelli: i marmi io taccio e l’oro
meravigliosi d’arte e di lavoro. (G.l. X,63)

Questa scena prelude ai due episodi legati a Rinaldo e Armida che sono quello del
fiume Oronte del canto XIV e del giardino incantato sull’Isola Fortunata nel canto
XVI. Quest’ultimo luogo è costruito, secondo la Ceccantini, artificialmente come se
fosse uno dei giardini estensi dell’Alberti ma con la soprannaturalità della magia che
aleggia su di esso.

L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto,


l’aura che rende gli alberi fioriti:
co? Fiori eterni eterno il frutto dura,
e mentre spunta l’un, l’altro matura.

Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia


Sovra il nascente fico invecchia il fico;
pendono a un ramo, un con dorata spoglia,
l’altro con verde, il novo e ’l pomo antico;
lussureggiante serpe alto e germoglia
la torta vite ov’è più l’orto aprico:
qui l’uva ha in fiori acerva, e qui d’or l’have
e di piropo e già di nèttar grave.

Vezzosi augelli infra le verdi fronde


Temprano a prova lascivette note;
mormora l’aura, e fra le foglie e l’onde
garrir che variamente ella percote.
Quando taccion gli augelli alto risponde,
quando cantan gli augei più lieve scote;
sia caso od arte, or accompagna, ed ora
alterna i versi lor la musica òra. (G.l. XVI,10,5-12)

37
«Il giardino di Armida deve illustrare il regno della voluttà e la poesia tassesca
sollecita continuamente i sensi della vista e dell’udito»40. Tasso rende la voluttà con
un’intensità rara nella sua poesia e lo fa inondando il lettore di suoni e colori per
cercare di raffigurare con le parole la bellezza del luogo che sta descrivendo. L’ottava
undicesima rimanda al frutteto di Alcinoo nell’Odissea elaborandolo e ponendo la
natura in uno stato di eterna fecondità, di eterna primavera. Tutta la scena prefigura
quello che Rinaldo incontrerà nell’affrontare la foresta di Saron nel canto XVIII, nella
quale l’incanto di Ismeno trasforma il bosco nel luogo in cui Rinaldo aveva smarrito la
sua strada colpito dalla magia e dalla bellezza della natura e della maga.

40
R. Patanè Ceccantini, Il motivo del locus amoenus nell’Orlando furioso e nella Gerusalemme liberata, op. cit.
p. 48.

38
CAPITOLO 5

L’anima nell’albero: boschi, selve e foreste nella letteratura occidentale

L’immaginario del bosco è molto affascinante per l’uomo contemporaneo che


associa la parola al mondo incantato del Medioevo o alle storie magiche del genere
fantasy, oggi molto popolare sia in campo letterario sia cinematografico. Le parole
“bosco”, “selva” e “foresta” sono considerate sinonimi da enciclopedie e vocabolari di
molte lingue. In latino il campo semantico del bosco viene espresso con quattro
termini: silva, lucus, nemus e saltus, ed essi essendo quasi sinonimici sono di difficile
differenziazione semantica, con l’eccezione di lucus a cui viene data la sola
definizione di bosco sacro. L’ambiguità semantica si può ritrovare anche nella lingua
italiana di cui si riportano di seguito le definizioni di “foresta”, “bosco” e “selva”,
prese, le prime, dall’enciclopedia Treccani41 e le seconde dal vocabolario Zingarelli42:

FORESTA – insieme di piante prevalentemente arboree fittamente distribuite su una


vasta superficie di terreno, che consta di diversi piani di vegetazione.
BOSCO – associazione vegetale di alberi selvatici di alto fusto su una notevole
estensione di terreno.
SELVA – associazione vegetale di alberi spontanei su un’estensione di terreno, e il
terreno da questa occupato.

FORESTA – grande estensione di terreno coperta di alberi


BOSCO – estensione di terreno coperta di alberi, specialmente di alto fusto e di arbusti
selvatici / il complesso di tali organismi vegetali.
SELVA – bosco esteso con folto sottobosco / foresta.

Analizzando le definizioni si può notare che la Treccani dà ai termini “foresta” e


“bosco”solo il significato di insieme di alberi, ma non quello della superficie che

41
Treccani.it enciclopedia italiana
42
Lo Zingarelli, vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli, Bologna, Zanichelli, 2004

39
ricoprono, mentre la parola “selva” ricopre sia l’estensione di terreno che l’insieme
delle piante che la ricoprono. Al contrario lo Zingarelli considera la foresta solo come
estensione di terreno, il bosco sia estensione che insieme di alberi e la selva come
sinonimo sia di foresta, sia di bosco. Ermanno Malaspina, nel suo discorso Prospettive
di studio per l’immaginario del bosco nella letteratura latina43, riporta che il
Dizionario della lingua italiana De Mauro conferisce i due significati a tutti i termini
del campo semantico mentre il Devoto-Oli distingue tra “bosco” e “foresta”
sostenendo che il primo è solo un’estensione di terreno, mentre la seconda solo un
insieme di alberi e condensa i due significati nella parola “selva”. La stessa situazione,
riporta sempre Malaspina, si ha nella lingua inglese dove il campo semantico è
indicato dalle parole “Forest” e “Wood” e, il Longman Dicrionary of the English
language considera forest sia a tract of wooded land sia a dense growth of trees,
mentre a wood dà solo il secondo significato. L’excursus linguistico serve a questo
studio come a quello del Malaspina per sottolineare che la profonda ambiguità che
aleggia intorno ai misteri del bosco la si può ritrovare anche a livello linguistico.

Nell’Odissea, definita da Boitani44 “protoromanzo”, si rintracciano già due


diverse immagini della foresta, espressa in greco con la parola hyle. Il periodo in cui si
svolge la storia di Ulisse si può collocare agli inizi della civiltà occidentale e le foreste
coprivano ancora buona parte dell’Europa. La scena in cui il giovane Odisseo caccia
con il nonno nelle selve del monte Parnasso è quindi una scena realistica.

Quando mattutina apparve Aurora dalle rosee dita,


per la caccia partirono, sia i cani sia loro,
i figli di Autolico; il chiaro Odisseo andava
con essi. Salirono il ripido monte vestito di boschi,
il monte Parnasso, e presto arrivarono in gole ventose.
Il sole colpiva da poco i campi
Fuori dal calmo e profondo Oceano fluente,
e i cacciatori arrivarono in una valletta: davanti ad essi
andavano i cani, cercando le tracce, e dietro
i figli di Autolico; il chiaro Odisseo andava
con essi, accosto ai cani, agitando la lancia dalla lunga ombra.
Lì, nella folta macchia, era acquattato un grosso cinghiale;
non la penetrava il vigore dei venti che spirano umidi,

43
E. Malaspina, Prospettive di studio per l’immaginario del bosco nella letteratura latina, in «Incontri triestini
di filologia classica» 3, 2003-2004, pp. 97-118.
44
P. Boitani, La foresta, in F. Moretti a cura di, Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003.

40
né mai il sole lucente la colpiva coi raggi,
e neppure vi filtrava la pioggia: così fitta
essa era, e c’era un mucchio enorme di foglie. (Od. XIX, 428-443)

Omero scrive che il monte è coperto di hyle così fitta che mai i raggi del sole la
raggiungono, né la pioggia, né i venti; il motivo dell’impenetrabilità viene ripreso da
tutta la tradizione letteraria successiva ma, se qui chi vi si addentra non avverte paura e
il dato viene dato dall’autore per descrivere il luogo, il motivo si modificherà portando
alle buie foreste medievali covi dei fuorilegge e delle streghe, alla “selva oscura”
dantesca, al bosco “orrido e fosco” di Tasso, alle sinistre foreste delle fiabe dei
Grimm, solo per citarne alcuni. «Nulla di terrificante, dunque, o di abominevole, qui:
la selva è da una parte, semplicemente, il luogo della caccia del re e dei giovani
aristocratici, e dall’altra, significativamente, uno dei punti in cui si radica, e sui
romanzescamente rivolve, l’identità originaria dell’eroe»45. Eroe che, una volta
cresciuto di ritorno dalla guerra, si ritrova in un altro tipo di hyle: quella dell’isola di
Ogigia dimora di Calipso. Come si è evidenziato nel capitolo precedente la dimora di
Calipso diventerà uno degli archetipi del locus amoenus.

Un bosco rigoglioso cresceva intorno alla grotta:


l’ontano, il pioppo e il cipresso odoroso.
Uccelli con grandi ali vi avevano il nido:
gufi, sparvieri e corvi di mare
ciarlieri, che amano le cacce marine.
Attorno alla grotta profonda, s’allungava
Vigorosa una vite, ed era fiorita di grappoli.
Quattro fonti sgorgavano in fila con limpida acqua,
vicine tra loro e rivolte in parti diverse.
V’erano intorno morbidi prati fioriti di viole
e di sedano. Arrivato il quel luogo, anche u Dio
avrebbe guardato stupito, e gioito nell’animo suo. (Od. V, 63-74)

In questo passo Boitani trova qualcosa di «meraviglioso e leggermente inquietante» 46


perché l’isola, pur presentando tutte le caratteristiche che diventeranno quelle topiche
del luogo ameno, si trova agli estremi confini della terra ed è vuota di essere umani.
«Se la hyle del Parnasso e di Itaca è il luogo dove si conserva la memoria di se e
l’identità, questa di Ogigia è il prologo dell’oblio e della perdizione»47.

45
P. Boitani, Ibid. p. 452.
46
P. Boitani, Ivi.
47
P. Boitani, Ibid. p. 453.

41
La foresta vista come luogo di identità e come luogo di perdizione torna nel Medioevo
perché l’antichità classica utilizza l’immagine del bosco soprattutto nella poesia
pastorale e nei poemi come l’Eneide e la Tebaide, nei quali non assume nessuna di
queste due caratteristiche. Boitani, nello studio sopra citato, sostiene che il motivo di
questa scelta da parte degli autori classici consiste nel fatto che l’ambientazione delle
loro vicende è principalmente il Mediterraneo, le cui coste, con lo sviluppo della
civiltà greco-romana, sono state deforestate e quindi, nelle foreste ancora presenti che
erano quelle della Britannia e quelle della Germania nessun autore avrebbe
rappresentato altro che battaglie con i “barbari”. Lo stesso Boitani riporta poi che a
partire da Aristotele la parola greca hyle, acquisti soprattutto un significato astratto:
quello di materia priva di forma, indeterminata e irriconoscibile.
Il Medioevo e la narrativa cavalleresca riportano il bosco a un ruolo centrale nel
racconto portando nuove sfumature rispetto al passato. Harrson scrive che le foreste
nel Medioevo regolato da precise istituzioni feudali ed ecclesiastiche erano «foris, al di
fuori. In esse vivevano i reietti, i folli, gli amanti, i briganti, gli eremiti, i santi, i
lebbrosi, i fuggitivi, gli spostati, i perseguitati e i selvaggi. […] ma il rifugio offerto
dalla foresta era qualcosa di abominevole. Nella foresta non si poteva rimanere umani,
ci si poteva soltanto elevare al di sopra o abbassare al di sotto del livello umano»48. Per
la Chiesa poi esse erano considerate soprattutto le ultime roccaforti del culto pagano e
per questo venivano viste in modo molto negativo; tuttavia Harrison sottolinea che,
nonostante la Bibbia riporti qualche passo in cui si invita a distruggere i boschi
(Deuteronomio 7.5, 12.3, 16.21), non ci furono crociate cristiane contro il paesaggio
foresta. In questo modo si preservarono le antiche leggende legate al folklore e agli
esseri che popolavano e proteggevano i boschi che permettevano la conservazione
della memoria popolare legata al mondo pagano. Nonostante la manifesta ostilità nei
confronti della foresta da parte della chiesa, nelle categorie di persone che trovano
rifugio nel bosco indicate da Harrison, si trovano anche i santi e gli eremiti. Infatti
molti devoti, vedendo il bosco come luogo altro rispetto alla corruzione della società
umana, scelsero di rifugiarvisi per essere in comunione perfetta con il loro Dio.

48
R.P. Harrison, Foreste. L’ombra della civiltà, Milano, Garzanti, 1992.

42
Per quanto riguarda la letteratura medievale, tralasciando Dante, di cui si è già parlato,
che identifica la selva con il peccato in sintonia con le teorie ecclesiastiche, uno dei
generi in cui la foresta copre un ruolo importante è il romanzo cavalleresco.
Paolo Golinelli scrive che i testi medievali più antichi come Nibelungenlied, il
Cantar del Cid e persino nei viaggi di Marco Polo, sono carenti di descrizioni di
boschi o foreste perché più attenti alle battaglie o ai costumi degli uomini. La selva,
che non aveva bisogno di essere descritta perché la sua diffusione era molto ampia nel
periodo, compare quindi, secondo Golinelli, «quando assume un ruolo per lo
svolgimento degli avvenimenti: essa diventa allora un elemento fondamentale della
narrazione, esercitando una sua precisa funzione narrativa. Tale funzione può essere
indicata con la parola “nascondimento”»49. Le cose che il bosco può nascondere sono
molte e di diverso genere, nel Beowulf (X sec.) e nel Sir Gwain and the Green Knight
(XIV sec.), ad esempio, il bosco nasconde un luogo: nella prima opera un bosco
«senza gioia» nasconde l’acuqa torbida del lago in cui vive la famiglia del drago
Grendel; mentre nella seconda un bosco di grandi querce grigie nasconde il castello
del cavaliere verde. Un altro esempio di nascondimento, riportato anch’esso da
Golinelli, è quello del crimine nefando come nel caso del Cantar del Cid, dove alla
fine della terza parte i giovani fuggiti dal leone del palazzo del Cid si vendicano della
vergogna subita sulle loro mogli abbandonandole in un bosco di querce; o in quello del
Nibelungenlied dove nel bosco avviene l’episodio dell’assassinio di Sigfrido. La
foresta può essere anche il luogo di rifugio per la vergogna subita come nel caso di
Yvain, per sfuggire agli avversari come in Erec er Enide, per nascondere il proprio
amore come in Tristano e Isotta o per cercare un percorso alternativo che sia più sicuro
rispetto a un altro come all’inizio del Lancelot. Contraria alle altre, e per questo
spiegata con più ampiezza nel saggio di Golinelli, è la situazione di Perceval. Chrétien
de Troyes, riprendendo un’antica tradizione epica considera Perceval figlio della dama
della Guasta Foresta solitaria. Il giovane conosce molto bene la foresta e i suoi abitanti
e la ama più delle terre coltivate che si trovano al di fuori di essa, ma un giorno al
limitare della foresta scorge dei cavalieri, figure nobili e diverse da lui. Perceval

49
P.Golinelli, Tra realtà e metafora: il bosco nell’immaginario letterario medievale, in B. Andreolli e M.
Moretti a cura di, Il bosco nel Medioevo, Bologna, CLUEB, 1988.

43
incantato da questi uomini decide di diventare come loro e parte per la sua “queste”
che consisterà, al contrario di quella di molti altri cavalieri, nell’uscire dal bosco per
inserirsi nel mondo dei tornei e delle avventure.
Nel romanzo cavalleresco medievale la foresta è spesso anche il luogo della
pazzia. L’episodio della pazzia di Orlando nel Furioso, dove il paladino si denuda e
comincia a sradicare alberi e a vivere come un selvaggio mangiando carne cruda,
prende a modello proprio gli esempi medievali che si illustrano di seguito. Il primo
esempio, che si può considerare anche il più emblematico e significativo, è quello di
Yvain. Nell’omonimo romanzo di Chrétien de Troyes, Yvain, cavaliere di Artù,
andando in cerca di avventura si imbatte in un selvaggio nella foresta di Brocelandia, il
quale gli indica la giusta via da seguire. L’uomo viene descritto come una creatura
“laida e orrenda” dalla quale Yvain si allontana inorridito, tuttavia l’unica cosa che li
divide, come sottolinea Harrison50, è la legge del contratto sociale. Infatti, quando più
avanti nel romanzo, Yvain impazzisce in seguito a una delusione amorosa, si trasforma
in un selvaggio e si rifugia nel profondo della foresta dove uccide le belve selvatiche e
si ciba della loro carne cruda. Meno significativi sono gli episodi di Tristano che, in
tutte le versioni principali della storia, si trasforma in un selvaggio nella Foresta di
Morois per un periodo di tempo; e quello di Lancillotto che perde il senno in quattro
diverse occasioni e trascorre molti anni nel bosco allo stato selvaggio. La pazzia e il
regredire allo stato di uomo dei boschi serve ai cavalieri per ritrovare se stessi
raggiungendo una più elevata consapevolezza di se. Anche la pazzia è considerata
quindi avanture e si svolge nella foresta. Tornando alla tesi di Golinelli che nota la
mancanza di descrizione delle foreste nei romanzi cavallereschi nei quali essa ha
tuttavia un ruolo centrale c’è da sottolineare, seguendo il Boitani51, l’episodio di
Gawain che emerge dal calderone delle avventure dei cavalieri di Artù proprio per la
differenza con cui si tratta il luogo foresta. Il romanzo è della fine del trecento e come
negli altri casi il protagonista entra in una foresta alla ricerca di qualcosa: la Cappella
Verde. Essa è descritta all’inizio come «profonda, paurosa e selvaggia», tuttavia viene
collocata nello spazio e vengono indicate le specie di alberi che la compongono. Essa

50
R. P. Harrison, Foreste, op. cit. p. 82.
51
P. Boitani, La foresta, op. cit. p. 455.

44
si trova tra “alti colli” ed è composta da «querce a centinaia, grigie e possenti. /
Noccioli e biancospini tutti intrecciati»52. L’autore, che nei versi immediatamente
precedenti questi, aveva descritto il cammino di Gawaine attraverso il freddo
inverno53, compie un’operazione del tutto nuova e immerge il protagonista nel
paesaggio. Usando le parole di Boitani possiamo dire che la foresta sembra «farsi
mimeticamente moderna»54.
Uscendo dal Medioevo ed entrando nel rinascimento ci si imbatte nelle foreste
«letterarie, immaginarie, fantastiche, portentose, utopiche»55 del Furioso e alla foresta
di Saron della Liberata di cui si è già trattato nei capitoli precedenti. Analizzando i
modi di rappresentazione di queste foreste rinascimentali ci accorgiamo però che
quella di Gawaine è stata solo una parentesi perché nei romanzi cortesi tra quattro e
cinquecento, «ritroviamo la selva tal quale l’avevamo lasciata prima e dopo Sir
Gawaine: un luogo impersonale di destini incrociati, dove al paesaggio appena
abbozzato corrisponde talvolta il sentimento del personaggio che la attraversa» 56.
Con il grande sviluppo sociale tra Umanesimo e Rinascimento la vita si fa sempre più
cittadina e aumentano le opere di disboscamento che influenzano anche la letteratura.
La foresta, infatti, «tende ad assumere una funzione narrativa fissa convertendosi in
una scenografia convenzionale e ripetitiva di peripezie, smarrimenti, incontri e
convegni d’amore»57. A questo proposito conviene citare l’incredibile varietà delle
foreste shakespeariane. Le opere di Shakespeare sono varie sia per il genere sia per lo
stile e le foreste che vi sono rappresentate sono principalmente di due tipi: i boschi
incantati delle commedie e le foreste sinistre delle tragedie. Si torna con questa
differenziazione al contrasto tra locus amoenus e locus horridus di cui si è trattato nel
capitolo precedente. Nelle commedie del Bardo dal Sogno di una notte di mezza estate,
al Come vi piace alla Tempesta che commedia propriamente non è, l’azione è
ambientata in un bosco incantato idillico e innocente che si contrappone all’ipocrisia e

52
Sir Gawaine and the Green Knight, trad. It. P. Boitani, Milano, Adelphi, 1987, vv. 740-47.
53
Ibid., «ucciso quasi dal nevischio nell’armatura dormì / troppe notti su un nudo letto di roccia, / dove il
torrente precipita freddo dalla cima del monte / e alto pende sulla sua testa in dure lame di ghiaccio» vv. 729-32.
54
P. Boitani, La foresta, op. cit. p. 457.
55
R. P. Harrison, Foreste, op. cit. p. 119.
56
P. Boitani, La foresta, op. cit. p.456.
57
G. Baffetti, Foresta, in G. M. Anselmi e G. Ruozzi a cura di, Luoghi della letteratura italiana, Milano,
Mondadori, 2003, p. 207.

45
alla corruzione del mondo cittadino dal quale i personaggi fuggono. Nelle tragedie,
invece, dove l’azione richiede un paesaggio ostile, Shakespeare, secondo Baffetti, si
ispira alla foresta del Tasso drammatica e introspettiva. Comunque esso venga
rappresentato però, il bosco è per Shakespeare sempre «il simbolo della Natura» 58, una
natura che corrisponde anche agli istinti e ai sentimenti dell’uomo e che gli offre
rifugio da una società in cui «la strada della corona passa per il delitto, in cui il fratello
spoglia il fratello dell’eredità, e il padre esige la morte della propria figlia quando
questa sceglie un marito contro il suo volere»59. A proposito della strada della corona
che passa per il delitto, Shakespeare ce ne offre un esempio in una delle sue opere più
famose: il Macbeth nel quale si ritrova una foresta molto particolare. La foresta di
Birnam è un luogo vicino ai protagonisti e da loro conosciuto e tuttavia, come
sottolinea Laura visconti, esso si connota come «spazio oscuro, spazio della paura» 60.
La foresta è nella tragedia la dimora delle streghe e il luogo in cui esse incontrano
Macbeth e gli profetizzano che diventerà re. L’uomo accecato dalla brama di potere
uccide il presente re e prende il suo posto. Una volta conquistato il potere però teme di
perderlo e si reca di nuovo dalle streghe per ottenere altre profezie sul futuro. Le
streghe attraverso tre visioni gli indicano cosa lo aspetta e la terza apparizione recita:

Come il leone altero e fiero, disdegna chi protesta e agitandosi cospira. Macbeth non può esser vinto finché il
gran bosco di Birnam non l’assalga salendo in vetta al monte Dunsiniane. (Mac. VI, I)

Macbeth convinto di essere invincibile si rasserena e alla fine, quando vedrà la


profezia avverarsi con gli uomini che marciano contro di lui, tanto coperti di rami
tagliati dal bosco da sembrare tronchi di alberi in marcia, sarà colto da una visione
allucinata e mostruosa nella quale crede che la foresta si sia mossa per detronizzare
l’usurpatore.
Con l’avanzare del progresso in Europa diminuiscono le foreste, che restano
patrimonio degli altri continenti che l’Europa sta via via colonizzando. Con il
romanticismo e la nascita del sublime, in Inghilterra nasce anche il forest feeling

58
J. Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 233.
59
J. Kott, Ivi.
60
L. Visconti, Tra realtà e immaginario. Foreste shakespeariane, in G. L. Parrinello a cura di, Il bosco nella
cultura europea tra realtà e immaginario, Roma, Bulzoni, 2002, p. 70.

46
alimentato dalle poesie di Wordsworth e Shelley che domina ancora oggi
l’immaginario dei viaggiatori della natura. Come scrive Boitani, «il romanzo europeo
è troppo impegnato a fare i conti con le moderne “foreste”, le labirintiche città che con
la rivoluzione industriale si gonfiano in giungle perigliose e impenetrabili, per
dedicarsi a quelle selve antiche di cui è rimasta in Europa soltanto la memoria» 61. La
foresta diventa quindi dominio delle fiabe, di cui i fratelli Grimm creano una raccolta
di un successo senza precedenti, e dalla fiaba entreranno poi nei romanzi fantasy nel
novecento: le opere di Tolkien per citarne uno su tutti. Prima di arrivare a Tolkien è
però opportuno soffermarsi sul ruolo del bosco nella fiaba e su un romanzo
ottocentesco che fa eccezione rispetto agli altri, e inserisce il bosco in uno dei suoi
episodi: i Promessi sposi.
I fratelli Grimm, come ricorda Harrison, condivisero con Tacito, che nel trattato
sulla Germania scriveva che dal bosco “nacque la gente”, il sentimento atavico del
bosco. La passione per il folklore germanico li condusse a raccogliere fiabe, ballate e
leggende nella cui gran parte si trovano delle foreste e molte delle fiabe contengono
schemi narrativi che riprendono quelli dei romanzi cavallereschi medievali. Le foreste
dei Grimm sono infatti foreste che stanno al di fuori del mondo conosciuto dai
personaggi che in esse si perdono e incontrano creature magiche, come Pollicino e
Biancaneve, subiscono incantesimi e si trovano a dover affrontare il proprio destino
come Hansel e Gretel o a imparare una lezione come nel caso di Cappuccetto Rosso.
Spesso nelle fiabe la foresta è anche la dimora della strega e diventa quello che Propp
ha definito il suo «accessorio costante»62. Tuttavia sempre dall’analisi di Propp
notiamo che anche nelle fiabe dove non è presente la strega, l’eroe o l’eroina si
trovano immancabilmente ad affrontare il bosco che assume in questo caso il ruolo
dell’ostacolo che impedisce il cammino. Come si è già ricordato nei capitoli
precedenti, il bosco per Propp è anche il luogo del rito di iniziazione e del contatto con
il mondo dei morti.
Inserito nel mondo della fiaba dal “Cammina, cammina” iniziale, l’episodio dei
Promessi sposi che vede protagonista Renzo mentre vaga nel bosco costituisce

61
P. Boitani, La foresta, op. cit. p. 459.
62
Propp, Le radici storiche dei racconti di magia, op. cit. p. 177.

47
un’eccezione nel nuovo romanzo ottocentesco che, come si è detto, poco si occupava
delle foreste. Nel capitolo XVII Renzo sta fuggendo da Milano verso Bergamo e
Manzoni, pur ambientando il suo romanzo nei paesaggi del seicento lombardo trova il
modo di sfruttare il topos del bosco a modo suo63. Renzo, come scrive Boitani, è
completamente immerso in una fiaba, è come «bambino costretto ad attraversare un
bosco pieno di fantasmi di cui l’immaginario tradizionale ha riempito le selve, eppure
un uomo adulto che decide di proseguire»64. Renzo vive un’avventura di «apparizioni
strane deformi e mostruose»65, come Gawaine e come Dante e quando vinto dal terrore
sta per soccombere al suo inconscio e decide di tornare indietro, sente il rumore del
fiume che lo salva. Per Boitani il passo manzoniano dell’attraversamento del bosco è
“perturbante” perché, «in pieno Ottocento, Manzoni, rimette in scena dopo secoli,
rivisitandola alla luce delle fiabe e con ben altra articolazione psicologica, la “prova”
affrontata dal cavaliere medievale e da Dante»66 nella foresta.
Il finire dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vedono la fortuna dei romanzi
esotici ambientati nelle foreste o nelle giungle dei continenti lontani, si pensa a
Stevenson, a Kipling, a Conrad e a Salgari. In Italia, come sottolinea Baffetti, il bosco
che ormai non è più foresta, lo si ritrova nei racconti fantastici e fiabeschi come Il
segreto del Bosco Vecchio di Buzzati (1935), o il Barone Rampante di Calvino (1957).
Tuttavia il bosco è anche l’habitat della resistenza partigiana che rivive nella
descrizione delle Langhe di Fenoglio e della Maremma di Cassola, e soprattutto fa da
sfondo al Sentiero dei nidi di ragno di Calvino (1947) che Pavese descrisse come una
«variopinta favola di bosco»67.
In chiusura di questo studio credo che l’opera di Tolkien, citata anche da
Boitani e da Baffetti, meriti una breve parentesi. Fuori dall’Italia, contemporaneo degli
autori appena citati, John Ronald Reuel Tolkien dedica la vita a un’opera che comincia
a vedere la natura in modo diverso. L’amore per gli alberi e l’ostilità nei confronti del
progresso e della tecnologia, entra nell’opera di Tolkien e diventa una delle
caratteristiche principali del racconto. Nel Signore degli anelli si trovano foreste e

63
P. Boitani, La foresta, op. cit. p.460.
64
P. Boitani, Ibid., p.461.
65
G. Baffetti, Foresta, op. cit. p. 209.
66
P. Boitani, Ivi.
67
G. Baffetti, Ibid., p. 211.

48
boschi molto diversi tra loro: oscuri, ameni, incantati ma soprattutto molto vivi.
Emblema della vitalità della natura sono soprattutto il Vecchio uomo salice e gli Ent:
creature inventate dall’autore per dare agli alberi una voce. Nella lettera del 30 giugno
1972, Tolkien spiega la specifica connotazione dei boschi della Terra di Mezzo e la
loro funzione narrativa nella storia:

Lothlòrien è bellissima proprio perché gli alberi sono amati, in altre parti le foreste sono rappresentate nel
momento in cui si destano a nuova consapevolezza di se stesse. La Vecchia Foresta era ostile ai bipedi a causa
del ricordo di molte ferite subite. La Foresta di Fangorn era antica e bella, ma all’epoca del mio racconto piena di
ostilità perché minacciata da un nemico che adorava le macchine. Bosco Atro era caduto sotto il dominio di un
potere che odiava tutte le cose viventi, ma riacquistò l’antica bellezza e divenne Bosco Verde il Grande prima
della fine della storia68.

Da queste parole si evince tutto il significato dell’opera e il ruolo svolto dalle foreste
che è quello di rimarcare la concezione tolkeniana per cui, in un’ottica ecologica di
preservazione della natura, la Natura vince sulla Cultura e sul «nemico che adorava le
macchine». Molti sono i topos legati al bosco che Tolkien riprende, tra questi vi è la
rappresentazione della foresta come locus horridus e come locus amoenus, il tema del
taglio degli alberi che vengono utilizzati per costruire le torri da guerra e per fare legna
da ardere nelle fucine di Saruman, e molti altri che non possono essere spiegati
accuratamente in questa sede. Una menzione particolare la merita la Foresta di
Fangorn, la più antica e la più rilevante nel romanzo. Fangorn è abitata dagli Ent o
pastori degli alberi che sono creature antichissime vicine all’estinzione, l’avventura
degli hobbit a Fangorn è importante perché evidenzia il problema della distruzione
delle foreste da parte dell’uomo. Quello che segue nel racconto, cioè la decisione degli
Ent di entrare in guerra e marciare contro l’uomo distruttore è il frutto della delusione
di Tolkien in seguito alla lettura del Macbeth. Nella lettera del 7 giugno 1955 Tolkien
scrive chiaramente il motivo della marcia degli Ent:

Il loro ruolo nel racconto è dovuto, penso, alla mia amara delusione e al disgusto provato a scuola di fronte
all’uso scadente che Shakespeare fece dell’arrivo del Grande bosco di Birnam sull’alta collina di Dunsinane:
desideravo creare una scena in cui gli alberi potessero davvero marciare e andare in guerra.

68
J. R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza – Lettere 1914-1973, H. Carpenter e C. Tolkien a cura di, (1981),
Milano, Bompiani, 2001, lettera n°339.

49
Così, la foresta «un po’ buia e terribilmente “vegetale”» svelle le sue radici e marcia
contro il distruttore, ma lo fa dopo una lunga e ponderata decisione. La difficoltà di
prendere parte in una guerra e di schierarsi viene dal fatto che nessuno più è dalla parte
degli alberi e della natura e questo è quello che Tolkien vuole trasmettere con la sua
opera straordinaria.
Il problema ecologico è oggi più che mai attuale e per questo concludo questo mio
studio sulle foreste letterarie con due frasi che mi sembrano riassumerlo perfettamente.
La prima viene pronunciata proprio da Fangorn nel secondo volume del Signore degli
anelli e la seconda è la frase conclusiva del saggio di Baffetti.

Io non sono dalla parte di nessuno, perché nessuno è del tutto dalla mia parte; non so se mi spiego: nessuno è più
affezionato ai boschi quanto me, neppure gli Elfi69.

Così, di fronte al rischio della distruzione che sempre più minacciosa incombe sulle foreste, anche la letteratura
può mobilitare le sue risorse continuando a tramandare la millenaria vicenda del bosco e delle sue metamorfosi
infinite70.

BIBLIOGRAFIA

OPERE

69
J. R. R. Tolkien, Il signore degli anelli. Le due Torri(1954), Milano, Bompiani, 2002.
70
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50
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RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano il Professor Gino Ruozzi e il Dottor Fabio Giunta per i preziosi


suggerimenti durante la stesura del testo, la Biblioteca Angelo Mai di Bergamo e
l’Associazione Romana Studi Tolkeniani per la disponibilità e l’aiuto nel reperimento
di alcuni materiali.

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