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Università degli Studi di Torino

Scuola di Studi Umanistici


Dottorato in Culture Classiche e Moderne
Coordinatore: Prof.ssa Paola Cifarelli
XXVIII ciclo

Il luogo dello sguardo.


Paesaggio e scrittura in Calvino, Celati e
Biamonti
Francesco Migliaccio

Tutors:
Prof. Giorgio Ficara (Università degli Studi di Torino)
Prof.ssa Laura Nay (Università degli Studi di Torino)

Commisione:
Prof.ssa Erminia Ardissino (Università degli Studi di Torino)
Prof. Pierantonio Frare (Università Cattolica di Milano)
Prof. Enrico Testa (Università degli Studi di Genova)

a.a. 2014/2015
A Ulisse della 183ª brigata Adriano Caralli,
partigiano nel suo paesaggio.
Indice

7 Introduzione

Capitolo I
Dall'opaco. L'orientamento nel paesaggio

16 1. Inspirations méditerranéennes
18 2. La scrittura-immagine
27 3. Immagine e narrazione
33 4. Le lettere come atomi
38 5. La coscienza del labirinto
44 6. I livelli di realtà
51 7. L'esaustione dei possibili
57 8. Il disfacimento in un vortice di frammenti
63 9. La ragione in oscillazione
72 10. Orientarsi

Capitolo II
La strada di San Giovanni. Paesaggio e distanza spaziale

78 1. Il mondo visto dall'alto

85 2. Il pathos della distanza

89 3. Lo schermo dove s'accampano le immagini

97 4. La prospettiva lineare e lo spazio

104 5. Il mondo in superficie

112 6. La bipartizione dello spazio

118 7. Spazio grafico e spazio mentale


Capitolo III

Ricordo di una battaglia. Paesaggio e distanza temporale

127 1. Lo scrittore e il viandante

132 2. La luce e l'oscurità del ricordo

134 3. Il recesso della memoria

142 4. La mnemotecnica e i loci della memoria

146 5. L'archivio della memoria e l'emergenza del ricordo

151 6. Il rovello fra storia e natura

162 7. La prospettiva della storia

168 8. I giochi narrativi: distanza e avvicinamento

175 9. L'oblio e la crisi dell'esperienza

Capitolo IV

Verso la foce. La lontananza nel paesaggio

181 1. Una filosofia della descrizione

188 2. La poetica dell'empatia

197 3. La scrittura dell'indefinito e del lontano

202 4. «In guisa che la vista non arrivi alla valle»

205 5. Lontananza e «demonicità»

214 6. Il punto interno dello sguardo

222 7. Storia, decadenza e apprendimento

234 8. Memoria, poesia e paesaggio in Leopardi

247 9. Memoria epica e lontananza


255 10. Il punto di vista degli archeologi

259 11. La memoria collettiva

266 12. Tutt'intorno, l'atmosfera

Capitolo V

L'angelo di Avrigue. Alla ricerca del romanzo-paesaggio

271 1. Calvino teorico del romanzo

276 2. Il fallimento della forma romanzesca

286 3. I sentieri si separano a San Giovanni

292 4. Terra e mare

299 5. Personaggi in cammino nello spazio-tempo

305 6. Afflato lirico e immanenza fenomenica

312 7. La narrazione come mediazione fra distanza e lontananza

322 Conclusione

342 Appendice

366 Bibliografia

394 Ringraziamenti
Sortons.
Paul Cézanne
Introduzione
Ogni desiderio di ricerca nasce dall'occasione di un incontro. Un'estate portai con
me il romanzo d'esordio di Francesco Biamonti, L'angelo di Avrigue: la lettura fu
l'esperienza di un coinvolgimento inatteso. Iniziai così a ponderare le ragioni del
mio interesse e trovai il primo spunto di riflessione in alcune frasi scritte da Italo
Calvino per la quarta di copertina: «ci sono romanzi-paesaggio così come ci sono
romanzi-ritratto. Questo vive, pagina per pagina, ora per ora, della luce del
paesaggio aspro e scosceso dell'entroterra ligure, nell'estremo suo lembo di
Ponente, al confine con la Francia». Le domande sorte a quel tempo sono ancora il
fondamento di questo lavoro. Che cosa intende Calvino con «romanzo-paesaggio»?
E perché ha impiegato questa formula? Quale la sua origine? Nel corso dei mesi ho
notato che questi interrogativi coinvolgono tutto l'arco della produzione letteraria e
saggistica di Calvino e non soltanto gli scritti degli ultimi anni. La comprensione
del «romanzo-paesaggio» è stata dunque un'opportunità per osservare da un punto
di vista insolito l'intera opera dello scrittore di Sanremo.
Ho dedicato maggiore attenzione al secondo termine, il paesaggio. I luoghi che
circondano il dipanarsi dell'azione e le immagini che appaiono alla coscienza dei
personaggi mi hanno suggerito nuove domande per affrontare vecchi quesiti.
Durante la formazione universitaria avevo dedicato i miei studî ai rapporti che la
parola letteraria – soprattutto prosastica e di genere narrativo – intrattiene con il
nostro mondo. Avevo notato che il dilemma poteva essere descritto in due modi fra
loro antitetici. Secondo il primo approccio esiste una differenza netta fra le parole e
il mondo a cui esse si riferiscono; di conseguenza è fecondo studiare il divario
aperto da questa incongruenza e le tipologie delle relazioni sussistenti fra i segni e
la realtà apparente. Oppure, ed è la seconda via, non esiste una differenza
discernibile fra il testo e il mondo di riferimento. Quest'ultima impostazione implica
due soluzioni alternative: tutto è riducibile alla significazione, ovvero ai modelli di
comprensione e ai linguaggi tramite cui esperiamo l'esistente; oppure tutto può

7
essere ricondotto alla realtà materiale perché le parole, i gesti e i concetti
appartengono allo stesso cosmo in cui siamo immersi.
Il paesaggio, grazie alla sua intrinseca ambiguità, mi ha permesso di pensare dal
principio le antinomie menzionate. Secondo alcuni il paesaggio è un'immagine della
natura, dunque è una proiezione simbolica. Secondo altri è un frammento di
territorio che s'apre davanti a noi, un aggregato materiale e concreto. Oppure
potrebbe essere un punto di incontro, una soglia mobile che vibra fra la percezione
soggettiva e il mondo circostante.1 Interrogare la dimensione letteraria del
paesaggio mi è parso un tentativo fecondo per studiare di nuovo lo statuto della
realtà evocato dalla parola poetica.
Sin dall'inizio delle ricerche mi sono accorto che l'ambiguità del paesaggio emerge
in varie discipline: la geografia, la filosofia estetica, la storia dell'arte. L'interesse per
queste branche del sapere non nasconde la presunzione di criticarne gli strumenti o
modificarne l'impianto epistemologico, né il mio intento è stato quello di proporre
una sistematizzazione delle conoscenze sul paesaggio. Più modestamente mi è parso
fecondo sperimentare in che modo i problemi e le discussioni pertinenti ad altri
campi della conoscenza possano arricchire lo sguardo e gli strumenti della critica
letteraria. La possibilità di vagliare e impiegare criticamente conoscenze e
sensibilità afferenti a dominî estranei alla letteratura non è certo una mia
intuizione, ma proviene da una tensione conoscitiva che apparteneva allo stesso
Calvino e ad alcuni suoi compagni di viaggio. Nel gennaio del 1969 Gianni Celati
redigeva il Protocollo d'una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968 da Italo
Calvino, Gianni Celati e Guido Neri. I tre amici si erano riuniti per progettare una
rivista di letteratura e i Protocolli riassumono schematicamente i punti di partenza
stabiliti dal piccolo gruppo. Si legge nella prima sezione: «diviene necessaria la
ridefinizione della letteratura come luogo di significati e di forme che non valgono
solo per la letteratura; con altri termini: come luogo dei fondamenti dell'operare
umano». La letteratura è intesa come una «enciclopedia dei topi del sapere» entro
cui possono confluire riti, conoscenze, gesti, schemi mentali, pratiche sociali. La
funzione di aggregare in un sistema unitario la varietà delle pratiche e delle
1 A questo proposito si veda l'appendice sul concetto di paesaggio posta dopo la conclusione della
tesi.

8
conoscenze è un compito che da sempre svolge il mito. Un mito «non inteso al
modo romantico come fabulazione fascinatoria e derealizzante», ma come
«cosmologia» o «energetica primaria che pervade non solo il discorso letterario,
ma anche quello politico ed ogni forma di discorso umano, compreso quello
scientifico». La letteratura, dunque, diviene il luogo ultimo di mediazione e di
rielaborazione dei materiali mitici e il suo studio va inteso come «una poetica del
discorso umano».2 Erano idee, queste, che all'epoca godevano di una certa fortuna.
Nello stesso 1969 Einaudi aveva pubblicato l'Anatomia della critica3 di Northrop
Frye e un anno prima gli studi di Bachtin su Dostoevskij. 4 Ancora nel 1968, e
sempre dalle stanze di Einaudi, Bollati redigeva un lungo saggio posto a
Introduzione della Crestomazia della prosa di Leopardi. Per quale motivo, si
domanda Bollati, Leopardi raccoglie testi di varia origine – trattati scientifici, opere
storiografiche, pagine di insegnamento morale, riflessioni filosofiche – in una
antologia votata a conservare il meglio della prosa italiana? Bollati nota come ogni
conoscenza attragga Leopardi «solo nella misura in cui egli è, nella sua specifica
accezione, poeta». Ne consegue che «la filosofia tecnica, la specializzazione
filosofica, egli la rifiuta come ogni altra specializzazione». Tutti i linguaggi, in
Leopardi, tendono a essere letti dal punto di vista dello stile, dunque sono assunti
nel cielo della letteratura: «bisognerebbe non degradare a documento la letteratura,
ma promuovere (se possibile) a letteratura il documento, perché confessi il suo
vero».5 Il mio interesse per i testi e le riflessioni estranei al discorso prettamente

2 G. Celati, Protocollo d'una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968 da Italo Calvino, Gianni
Celati e Guido Neri, in I. Calvino, G. Celati, C. Ginzburg, E. Melandri, G. Neri, «Alì Babà». Progetto di
una rivista 1968-1972, a cura di M. Barenghi e M. Belpoliti, Riga 14, Marco y Marcos, 1998, pp. 56-71.
3 N. Frye, Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari, Einaudi,
Torino 1969. In merito a Frye e all'attinenza delle sue ricerche si veda il primo capitolo, paragrafo 3.
4 M. Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 1968. In un saggio giovanile dedicato
alla teoria della critica letteraria Bachtin sostiene che «nessuna sfera della cultura, tranne la poesia,
ha bisogno della lingua tutta intiera: la conoscenza non sa che farsene della complessa originalità
dell'aspetto sonoro della parola nel suo aspetto qualitativo e quantitativo, non sa che farsene della
molteplicità delle intonazioni possibili, non sa che farsene della sensazione di movimento degli
organi di articolazione, ecc; lo stesso si deve dire anche di altre sfere della creazione culturale:
nessuna può fare a meno della lingua, ma tutte vi prendono pochissimo. Soltanto nella poesia la
lingua svela tutte le sue possibilità, poiché le esigenze nei suoi riguardi qui sono le più alte: tutti i
suoi aspetti sono tesi all'estremo e giungono ai loro limiti; è come se la poesia spremesse dalla lingua
tutti i succhi, e la lingua qui superasse se stessa». M. Bachtin, Il problema del contenuto, del materiale
e della forma nella creazione letteraria, in Id., Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979, p. 41.
5 G. Bollati, Introduzione, in G. Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, Einaudi, Torino 1968, pp.
LXXIV-LXXV.

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letterario confluisce in questo comune sentire.
Queste note introduttive sono un tentativo cosciente di svelare le mie intenzioni e
le riflessioni di origine. Ho menzionato dilemmi così complessi perché desidero
illuminare meglio le ragioni di fondo che hanno ispirato lo studio del paesaggio in
Calvino. Sebbene i problemi teorici che ho sfiorato siano pertinenti con il tema
delle mie indagini e siano fondamentali per intuire il senso del mio lavoro, il mio
fine non è stato quello di proporre un modello originale dei rapporti fra il paesaggio
e la narrazione o fra il linguaggio letterario e il mondo. L'obiettivo concreto di
questa tesi è meno ambizioso: desidero dimostrare come dalla questione del
paesaggio possa sorgere una più acuta e articolata comprensione della poetica di
Calvino e di alcuni scrittori a lui strettamente legati. Le interrogazioni teoriche
generali cui ho accennato compongono l'atmosfera che avvolge e compenetra
l'intero percorso di ricerca.
La struttura di questo lavoro si divide in cinque sezioni. I primi tre capitoli sono
dedicati a Calvino e intendono rivelare come il dilemma del paesaggio attraversi
l'intera produzione creativa e critica, dagli esordi fino agli ultimissimi anni. Ciascun
capitolo si concentra su un racconto peculiare o breve poème en prose e allarga poi
il campo di indagine agli altri scritti, ai pensieri e alle letture di Calvino. Il primo
capitolo riguarda Dall'opaco, il secondo La strada di San Giovanni, il terzo Ricordo di
una battaglia. Queste tre prose avrebbero dovuto essere raccolte in un volume
dedicato ai «passaggi obbligati» d'una formazione letteraria: l'autore stesso
contemplava la possibilità di rinvenire in esse un bilancio dell'esperienza creativa di
quattro decenni. Il mio lavoro potrebbe essere inteso come un tentativo – critico e
non poetico – di realizzare un fine analogo. Il quarto capitolo si sofferma su due
opere di Gianni Celati elaborate durante gli anni Ottanta: Narratori delle pianure e
Verso la foce. I due scrittori strinsero una profonda amicizia sul declinare degli anni
Sessanta, poi i loro cammini si allontanarono lentamente. Tuttavia Calvino
conosceva Narratori delle pianure e aveva letto le bozze di Verso la foce. La
valutazione delle divergenze fra la poetica di Calvino e quella di Celati mi ha
permesso di cogliere meglio i problemi di fondo che coinvolgono la visione
paesaggistica e la conseguente resa letteraria. Il quinto capitolo, infine, riguarda

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L'angelo di Avrigue di Francesco Biamonti e affronta finalmente la questione del
«romanzo-paesaggio»: per molteplici ragioni si tratta di un punto di arrivo. Da
questa breve descrizione strutturale si intuisce che l'indagine non valica i limiti
della coscienza poetica di Calvino. Ho ritenuto opportuno – e in un certo senso
anche proficuo – non inoltrarmi nelle opere di Celati e Biamonti che Calvino non
ha più potuto leggere.
Prima di concludere questa introduzione vorrei fornire una sinossi più approfondita
dei temi e dei problemi di ogni capitolo. Non aggiungo nulla che non sia
argomentato nelle pagine a venire: il mio unico intento, qui, è quello di fornire un
orientamento preliminare al lettore o una mappa generale dei temi e delle domande
da richiamare nel corso della lettura.
Dall'opaco, l'oggetto principale di indagine della prima parte, è un testo del 1971,
forse il più difficile e ostico. Qui il paesaggio dell'infanzia – la Liguria di Ponente
osservata dal balcone di casa – diviene emblema del ragionamento che presiede
all'atto della scrittura. La coscienza dell'io s'orienta a partire dalla posizione del sé
stesso di «allora» affacciato dalla balaustra della casa situata «a mezza costa»:
davanti si distende lo spazio illuminato dal sole, una superficie su cui giacciono le
linee visibili degli oggetti; dietro sussiste il versante umbratile dell'entroterra
inconoscibile e silenzioso. La scrittura è un arduo lavorio di traduzione: le forme
affiorano dal buio, dall'oscuro intrico di materia che attende muto al di qua della
significazione, e sono proiettate sulla superficie della pagina come immagini
luminose e discernibili. Il paesaggio dunque raffigura uno spazio immaginario dove
la coscienza dello scrittore media il rapporto fra le forme intelligibili e il mondo
fisico. Attraverso l'interpretazione di Dall'opaco è possibile interrogare le pagine
letterarie e saggistiche dedicate alla relazione fra le parole e la realtà e ricostruire
un'ipotesi di letteratura come luogo d'invenzione di modelli cosmici.
Il contrasto fra i due versanti della Liguria ispira anche il secondo capitolo. La
strada di San Giovanni è un racconto dal tono autobiografico dedicato ai luoghi
dell'infanzia, al rapporto con il padre. Gli spostamenti a piedi dalla casa dei genitori
fino agli spazi ancora incontaminati dell'entroterra imprimono nella memoria del
protagonista due paesaggi fra loro inconciliabili: quello marittimo di San Remo,

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promessa della storia a venire e della modernità, e quello della campagna di San
Giovanni, precaria resistenza di un mondo naturale in disparizione. Entrambi sono
colti da un osservatore posto in alto e al di fuori di essi. Quando il protagonista
accede alla campagna e cammina lungo i terrazzamenti, non si danno più immagini
ma solo vaghe e oscure sensazioni tattili e sonore. Il paesaggio è dunque
un'immagine osservata da lungi, una proiezione dai toni nitidi e dai contorni netti.
La visione distaccata del paesaggio è una costante in Calvino e fa capolino nei
racconti lunghi degli anni Cinquanta e nelle Città invisibili, negli scritti critici sulle
arti figurative e in Marcovaldo. La distanza risente di un atteggiamento percettivo
peculiare della cultura occidentale, quello della prospettiva. Entro la tradizione
figurativa prospettica il paesaggio è la proiezione di un segmento di natura
osservato attraverso una finestra, un diaframma, una griglia. Sono strumenti di
mediazione, questi, cari allo scrittore. Tuttavia nell'opera di Calvino non sussiste
più un'unità complessiva dello spazio perché il mondo appare frammentato in un
pulviscolo di forme distinte, disposte in sequenza e fra loro inconciliabili. La
percezione a distanza non permette una sintesi organica fra molteplici
configurazioni.
Se la seconda parte propone un'analisi spaziale del paesaggio, nella terza l'intento
principale è quello di studiarne l'aspetto temporale. Il paesaggio è un'immagine
inscritta nella memoria, un resto del passato trattenuto dalla mente e contemplato
nel presente. La tensione fra il passato e il presente è il tema del Ricordo di una
battaglia, racconto breve ambientato nei boschi di Ponente dove una colonna
partigiana marcia in silenzioso avvicinamento verso un avamposto repubblichino.
Anche la scrittura è una marcia nella memoria, un avvicinamento agli attimi intensi
d'una vita vissuta allora. Ma il ritrovamento del tempo perduto – vitale, intenso e
immediato – è impossibile: i ricordi si contemplano attraverso la mediazione di una
distanza, sono immagini dislocate nell'altrove del passato e si concedono solo grazie
al filtro cosciente, controllato e volontario della scrittura. Poiché persiste
un'irriducibile incongruenza fra l'esperienza vissuta e la pagina scritta, si può avere
contezza del paesaggio solo tempo dopo e nel distacco: l'immagine prende forma a
posteriori – dall'alto degli anni trascorsi – e raffigura i luoghi per sempre

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abbandonati. Nell'immagine che appare alla coscienza risuona la dimensione della
storia: il paesaggio è una proiezione presente di un passato ormai disabitato dalla
vita. Anche in questo caso la struttura temporale del Ricordo di una battaglia affiora
nei racconti deduttivi degli anni Sessanta, in altri scritti resistenziali e nelle pagine
del Barone rampante.
L'attenzione critica del quarto capitolo si concentra su Verso la foce di Gianni Celati.
Il libro è un diario di viaggio dove la scrittura sgorga a stretto contatto con le
sensazioni esperite all'aria aperta: le parole affiorano nel momento dell'ispirazione.
La voce che ci raggiunge dai diari sconvolge il paradigma visivo di Calvino: il
soggetto non si pone a distanza ma è circondato dal paesaggio e la scrittura
scaturisce come secrezione di un corpo immerso in un campo affettivo. Il mondo
non è più una sequenza di immagini disconnesse, ma abbraccia il soggetto e gli sta
intorno: dal circolo dell'orizzonte appare una lontananza. Secondo Celati «siamo
guidati da ciò che ci chiama e capiamo solo quello; lo spazio che accoglie le cose
non possiamo capirlo se non confusamente. Idee che mi sono portato in viaggio,
ricavate da un pensiero di Leopardi (agosto 1821)». Lo spazio non è nitido né
disegnato nelle sue linee fondamentali, ma appare avvolto da un alone di indefinito.
Celati recupera una tradizione visiva estranea alla prospettiva: le cose viste in una
«certa lontananza» paiono remote e al tempo stesso si legano affettivamente al
soggetto della percezione. Poiché nessuna finestra o superficie di proiezione media
la distanza fra soggetto e oggetto, i confini sfumano in labili frontiere. Dal
paradigma della lontananza discende una diversa concezione della memoria: il
ricordo è una traccia inscritta nei luoghi e nelle cose, una presenza che attende
l'osservatore e si lascia riconoscere nell'attimo di un'apparizione. Dunque la
lontananza, come la distanza, è una dimensione al contempo spaziale e temporale: il
paesaggio di Celati è presente nel qui e ora della percezione, ma conserva anche
qualcosa di remoto. In esso permane come un incanto da ritrovare nonostante la
devastazione industriale.
All'inizio del quinto capitolo l'indagine ritorna a Calvino per affrontare il primo
termine del neologismo coniato per la quarta di copertina de L'angelo di Avrigue: il
romanzo. La riflessione sul romanzo occupa lo scrittore nei primi due decenni di

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attività letteraria e le ipotesi formulate allora contengono in nuce l'idea del
«romanzo-paesaggio»: un'opera narrativa dove la storia e la natura possano
aggregarsi in una sintesi. Calvino tenta più volte la via del romanzo, ma gli esiti
poco soddisfacenti inducono lo scrittore a percorrere vie alternative, finché, nei
primi anni Ottanta, egli intravede ne L'angelo di Avrigue il compiersi di una forma
immaginata tempo prima. Scrive in una lettera a Biamonti: «quello che il Suo
romanzo è riuscito a rappresentare, credo per la prima volta, è un'immagine della
Liguria che comprende insieme la vita agricola dell'entroterra, dura e aspra e
povera, e il modello della vita facile della Riviera che ora prende l'aspetto tragico
della droga come consumo di massa». La «comprensione» dell'entroterra e del
tratto costiero – il primo emblema della persistenza naturale, il secondo
dell'avanzata traumatica del progresso – ottiene finalmente una configurazione
narrativa. Perché, allora, Biamonti è riuscito dove Calvino ha fallito? Forse lo
sguardo in Biamonti deriva da un paradigma visivo alternativo a quello della
distanza assoluta. I suoi paesaggi suggeriscono come egli abbia trovato il modo di
eludere l'opposizione fra la distanza e la lontananza.

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Capitolo I

Dall'opaco.
L'orientamento nel paesaggio
1. Inspirations méditerranéennes.

In una conferenza del novembre 1933 Paul Valéry evoca il rapporto fra la
formazione della sua sensibilità e quel mare, il Mediterraneo, che «n'a cessé, depuis
mon enfance, de m’être présente soi aux yeux, soit à l'esprit». Le Inspirations
méditerranéennes6 rievocano la cittadina portuale della Linguadoca disposta «au
fond d'un golfe, au pied d'une colline»: luogo d''infanzia trattenuto dall'esprit in
forma di immagine, visione privilegiata da una «terrasse» situata «face à la mer».
La memoria indugia su «la simplicité générale de la mer», sulla natura intatta,
primitiva e sottomessa alle «forze universali» che trascendono la dimensione
umana. Poi lo sguardo si sposta sulla terraferma per cogliere «l’œuvre irrégulière
du temps, qui façonne indéfiniment le rivage, et puis l’œuvre réciproque de
l'homme» – al di qua del confine fra terra e mare si accumulano edifici e
costruzioni che disegnano figure geometriche e linee dritte «comme les flèches, les
tours et le phares». L'osservatore immobile contempla dal balcone – «comme la
scène d'un théâtre» – uno spettacolo dove recita un'unica attrice, «la LUMIÈRE!».7
Forse non esiste pagina migliore per introdurre Dall'opaco,8 poema in prosa
dedicato al paesaggio originario trattenuto dalla memoria: la Liguria di Ponente
bagnata dal sole ed esposta alla vuota distesa del mare. Anche l'osservatore di
Calvino è immobile sul balcone della casa di famiglia, dà le spalle all'entroterra e
percorre con gli occhi il proscenio d'una riviera disposta in frante linee
geometriche. Ma le visioni non sono soltanto immagini d'infanzia e quasi nulla
conservano dell'affezione commossa e un poco nostalgica che può accompagnare

6 P. Valéry, Inspirations méditerranéennes, in Id., Oeuvres, I, Bibliothèque de la Pléiade, édition établie


et annotée par J. Hytier, Gallimard, Paris 1957, pp. 1084-1098.
7 Ibidem, pp. 1084-1085.
8 Lo scritto uscì nell'Adelphiana del 1971. Ora è raccolto nel terzo volume dei Romanzi e racconti: I.
Calvino, Dall'opaco, in Id., Romanzi e racconti, Volume terzo, edizione a cura di C. Milanini,
Mondadori, Milano 1994, pp. 89-101. Per brevità i riferimenti a questo volume saranno sintetizzati
con RR III.

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l'evocazione del passato. I due paesaggi marini sono emblemi interiori che
suscitano il ragionamento: il mare e la riviera danno da pensare. 9
Il paesaggio marittimo, prima di tutto, stimola la riflessione sullo stile. Spesso il
giovane francese ammirava i pescatori carichi di tonni dalle corazze lucenti
attraccare a riva, finché un mattino, sulla spiaggia, i suoi occhi furono aggrediti da
un'immagine inattesa: «j'ai aperçus à quelques pas de moi, sous l'eau
merveilleusement plane et transparente, un horrible et splendide chaos qui me fit
frémir». Le viscere dei pesci squartati gettate sul bagnasciuga inducono una
sensazione indiscernibile di interesse e di disgusto che trattiene il bambino fra «la
fuite et l'analyse». La resistenza all'orrore si traduce in immagine e dà forma alla
scrittura: «l'art est comparable à cette limpide et cristalline épaisseur à travers
laquelle je voyais ces choses atroces: il nous fait des regards qui peuvent tout
considérer».10
Pensare il paesaggio è anche un movimento intellettuale «vers l'abstrait, des
impressions aux pensées»: al cospetto del mare, del cielo e del sole l'uomo misura
l'universo e ne pondera le proporzioni. Così la cognizione del cosmo ingenera il
ritrovamento d'un senso originario di sé: «mais nous sentons, vous dis-je, quand
nous méritons de le sentir, ce MOI universel qui n'a point de nom, point d'histoire, et
pour lequel notre vie observable, notre vie reçue et conduite ou subie par nous n'est
que l'une des vies innombrables que ce moi identique eût pu épouser...».11 Il
paesaggio interiore, quindi, suggerisce un'idea di stile e di letteratura, rivela la
misura del cosmo, desta nel soggetto la riflessione su di sé e sul senso di stare al
mondo. Pensieri dello stesso tenore sorgono dalla Liguria costiera di Dall'opaco e le
pagine che seguono sono un tentativo di comprendere in che modo, e perché, il
paesaggio di Calvino sia un invito al ragionamento.
Eppure, in Valéry, tutto può essere espresso – anche i resti informi delle interiora di
pesce hanno una loro possibilità di cristallizzarsi in scrittura – perché il mondo è

9 Scrive Calvino nel 1984 a proposito di L'oceano e il ragazzo di Conte: «trasformare un paesaggio in
ragionamento: forse è questo il vero tema che la Liguria proponeva e continua a proporre ai suoi
poeti e ai suoi scrittori, quanto più la precarietà del paesaggio s'accentua». I. Calvino, L'oceano e il
ragazzo di Giuseppe Conte, in Id., Saggi 1945-1985, edizione a cura di M. Barenghi, Mondadori,
Milano 1995, p. 1052; d'ora in poi ogni riferimento alle opere saggistiche sarà indicato con S.
10 P. Valéry, Inspirations méditerranéennes, cit., pp. 1088-1089.
11 Ibidem, p. 1093.

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del tutto avvolto dai caldi raggi solari: «le soleil introduit donc l'idée d'une toute-
puissance suréminente, l'idée d'ordre et d'unité générale de la nature». In
Dall'opaco non è più possibile conservare la stessa fiducia.12

2. La scrittura-immagine.

Dall'opaco si apre con una descrizione delle linee e delle superfici osservate nel
«paesaggio ligure».13

Se allora mi avessero domandato che forma ha il mondo avrei


detto che è in pendenza, con dislivelli irregolari, con sporgenze e
rientranze, per cui mi trovo sempre in qualche modo come su un
balcone, affacciato a una balaustra, e vedo ciò che il mondo
contiene disporsi alla destra e alla sinistra a diverse distanze, su
altri balconi o palchi di teatro soprastanti o sottostanti, d'un
teatro il cui proscenio s'apre nel vuoto, sulla striscia di mare alta
contro il cielo attraversata dai venti e dalle nuvole. (RR III, p. 89).

La scrittura evoca un'apparizione, traccia le coordinate di un'immagine; ma la


figura costiera non emerge solo dai giochi della semantica e della sintassi. Sono le
parole stesse, così come appaiono impresse sulla pagina, a disporsi su «dislivelli
irregolari» e a presentare «sporgenze e rientranze». I paragrafi sono spezzati e si
librano come sospesi sul biancore del foglio di carta. Il vuoto della striscia di mare
equivale quasi allo spazio libero che separa le “nuvole” dall'inizio del paragrafo

12 Anche Montale, due anni dopo Dall'opaco, si confronta con il mare di Valéry; e sono ancora
l'ordine e la cristallina unità del toit tranquille a essere interrogati: «Il grande tetto où picoraient des
focs / è un'immagine idillica del mare. / Oggi la linea dell'orizzonte è scura / e la proda ribolle come
una pentola. / Quando di qui passarono le grandi locomotive, / Bellerofonte, Orione i loro nomi, /
tutte le forme erano liquescenti / per sovrappiù di giovinezza e il vento più violento era ancora una
carezza». Qualcosa oggi è accaduto e il mare non è più come allora. La chiusura lascia una nota di
scetticismo: «E passò molto tempo. / Tutto era poi mutato. Il mare stesso / s'era fatto peggiore. Non
vedo ora / crudeli assalti al molo, non s'infiocca / più di vele, non è il tetto di nulla, / neppure di se
stesso». E. Montale, Quaderno dei quattro anni, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1990, pp.
523-524.
13 Secondo le note di Milanini aggiunte al terzo volume dei Meridiani «su una sola copia del
dattiloscritto compare, aggiunto a penna dalla mano di Calvino, il titolo “Paesaggio ligure”». (RR III,
p. 1212).

18
seguente. La scrittura disegna una forma sulla pagina, traccia immagini visibili
grazie all'alternanza di bianchi e di neri:

Comincerò allora col dire che il mondo è composto di linee


spezzate ed oblique, con segmenti che tendono a sporgere fuori
dagli angoli d'ogni giardino, come fanno le agavi che crescono
spesso sul ciglio, e con linee verticali ascendenti come le palme
che fanno ombra ai giardini o terrazzi sovrastanti a quelli in cui
hanno le radici,

e mi riferisco alle palme del tempo in cui ordinariamente erano


alte le palme e basse le case, le case anche loro che tagliano
verticalmente la linea dei dislivelli, poggiate mezzo sul gradino di
sotto e mezzo sul gradino di sopra, con due pianterreni uno sotto
una sopra, […]

Un testo disposto «a dislivelli» e «balconi» descrive l'andamento discontinuo del


territorio ligure di Ponente e così l'occhio può abbracciare la superficie della
scrittura fino a visualizzare la figura d'un paesaggio frammentato in linee verticali,
stilizzate come silhouette di palme e case: «la letterarietà di Calvino – nota
Mengaldo – si distende e svolge lungo una linea, quasi mimando un disegno».14
L'analogia fra la forma della scrittura e la forma del mondo è suggerita già nella
conclusione del Barone rampante. Biagio, narratore e fratello del Barone che visse
sugli alberi, si sta per congedare dai suoi lettori. Prima di posare la penna e di
vergare l'ultima frase, lo scrittore getta un ultimo sguardo fuori dalla finestra: vede
il paesaggio ormai spoglio di una Liguria immaginaria a inizio Ottocento –
«Ombrosa non c'è più. Guardando il cielo sgombro, mi domando se è davvero
esistita». Forse il «frastaglio di rami e di foglie» del bosco è esistito solo per
accogliere i leggeri spostamenti di Cosimo, forse era solo «un ricamo fatto sul nulla
che assomiglia a questo filo d'inchiostro». Il paesaggio di Ombrosa potrebbe essere
stato niente di più che una scrittura gravida di cancellature, «di rimandi, di sgorbi
14 P. V. Mengaldo, La lingua dello scrittore, in Aa. vv., Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale,
Firenze, Palazzo Medici-Riccardi 26-28 febbraio 1987, Garzanti, Milano 1988, pp. 219-220.

19
nervosi, di macchie, di lacune, che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a
momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se
stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e
poi s'intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge in
ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito». 15 Insieme al dubbio
scettico s'avanza l'ipotesi di una somiglianza fra i solchi vergati a mano e le
superfici sghembe e arcuate su cui Cosimo poggiò il piede senza mai cadere. Giù
c'era il vuoto, il «nulla» senza appigli, e sopra s'alzava un «frastaglio» di rami a
volte rarefatti, a volte fitti e intricati. Così anche la scrittura del narratore interno al
racconto si erge sul bianco nulla delle pagine, larga e rarefatta poi sempre più
minuta e condensata.16
Calvino, tuttavia, raggiunge i suoi lettori al tempo dell'editoria moderna: pur
immaginando una originaria redazione manuale così plastica da allargarsi e
restringersi, riempiendo il foglio di macchie e di «spiumii», come possono i
ghirigori originali resistere all'uniformità dei caratteri a stampa? È possibile
ipotizzare che alcune tracce – una certa marca stilistica, un particolare ritmo del
dettato – permangano a indicare una grafia disegnata?
I racconti degli anni Cinquanta, e in particolare le narrazioni brevi che saranno poi
raccolte ne Gli amori difficili, trattengono alcune risposte. Ne L'avventura di una
15 I. Calvino, Romanzi e racconti, Volume primo, edizione a cura di C. Milanini, Mondadori, Milano
1991, p. 777. Per brevità i riferimenti a questo volume saranno sintetizzati con RR I.
16 Secondo Enrico Testa ne Il barone rampante sussiste un rapporto fra «il trascorrente respiro della
voce» narrativa e la «fissità analitica della scrittura». Nonostante permanga una tensione fra le due
componenti, la seconda tende a prevalere ed «elementi di quest'ultima vengono addirittura assunti
in veste di figuranti metaforici (ad esempio “il cane […] correva correva per il prato, finché non si
vide che una virgola lontana, la sua coda, e anche quella sparì”)». E così alla fine del racconto di
Biagio avviene «l'assimilazione, condotta sempre lungo l'asse delle equivalenze tra elementi naturali
ed elementi grafici, del mondo di Ombrosa in quello della scrittura». E. Testa, Lo stile semplice.
Discorso e romanzo, Einaudi, Torino 1997, pp. 289-290. L'immagine grafica impegna anche i pensieri
dell'ultimo Calvino. Nel 1982 Calvino visita un'esposizione al Grand Palais dedicata alle origini della
scrittura. Per l'occasione redige “Prima della scrittura”, articolo raccolto successivamente in
Collezione di sabbia. Osservando i reperti geroglifici e i segni cuneiformi Calvino nota che
«l'esitazione tra figurazione e scrittura accompagna l'attività grafica per almeno due millenni, ed è
questa ambiguità che rende l'esposizione del Grand Palais bella da vedere oltre che nutriente da
“leggere” e studiare». (S, pp. 451-452). L'attenzione si sofferma ripetutamente sull'ambigua
oscillazione fra segno grafico e immagine: «perfino quando i geroglifici sono diventati un sistema di
scrittura ben codificato, lo scriba egizio preferisce, anziché seguire una disposizione lineare,
comporre dei raggruppamenti che mirano alla bellezza dell'insieme, anche se essa contrasta con
l'ordine logico e le proporzioni tra le dimensioni dei segni». (S, p. 452). E lo stesso vale all'inverso:
«le figure umane, stilizzate e tutte di profilo, sembrano partecipare della stessa natura dei segni
grafici». (S, pp. 452-453).

20
bagnante la protagonista nuota in mare, ma, una volta a largo, s'accorge di aver
perso il costume: solo l'acqua cela la sua nudità. Preoccupata, si volta verso la
spiaggia distante dove brulica una folla di bagnanti che «traboccava in mare»; dalla
visione d'un assembramento caotico e tumultuoso si sprigiona un senso di angoscia,
acuito da un ritmo verbale che non lascia respiro: «e sulla sabbia gli ombrelloni a
cerchi neri e gialli concentrici gettavano ombre nere in cui i corpi s'appiattavano, e
il brulichio dei bagnanti traboccava in mare, e nessuno dei pattini era più a riva, e
appena uno tornava era preso d'assalto prima ancora di toccar terra, e l'orlo nero
della distesa azzurra era mosso da un continuo schizzare di getti bianchi, specie
dentro le corde dove ribolliva la marmaglia dei bambini e ad ogni blanda onda si
levava un gridio con note subito inghiottite da un boato». La descrizione del
groviglio di uomini determina una sintassi che cresce per accumulazione: una frase
si affastella sull'altra, le coordinazione è ridondante (ai legami dalle virgole si
aggiungono le ripetute “e” di congiunzione), i suoni consonantici sono frequenti e
vari. Raggiunto l'apice della tensione, ogni rumore sembra essere sopraffatto dal
boato ininterrotto del mare in una continuità senza vuoti né differenze. Alle ombre
scure che s'allungano fitte oltre gli oggetti corrisponde il nero densissimo
dell'inchiostro di lettere pigiate una contro l'altra. Finalmente un punto sospende il
fragore e la voce del narratore descrive la condizione della bagnante: «al largo di
quella spiaggia, lei era nuda». 17 Al contrasto tematico fra il vuoto desolato del mare
aperto e il caos congestionato della società risponde lo scarto stilistico: la voce
narrativa rallenta e dà un senso di quiete e vastità, l'universo sembra sospendersi
fuori dal tempo, le vocali danno respiro. Ritornano le due tendenze descritte da
Biagio: il ritmo e la sintassi si addensano, raggiungono un limite invalicabile, poi si
allargano in anse distese.18
17 I. Calvino, Romanzi e racconti, Volume secondo, edizione a cura di C. Milanini, Mondadori,
Milano 1994, p. 1077. I riferimenti al secondo volume saranno indicati con RR II.
18 Nel finale la bagnante riceve il soccorso di un uomo e di suo figlio. I due portano la donna in
barca fino a un piccolo porto, dal quale si vede la vita del borgo di pescatori. Nel momento in cui lo
sguardo della protagonista indugia sulle case e sulla vita al tempo del tramonto, di nuovo le parole si
stringono una all'altra: «alla banchina s'affacciavano le grige case dei pescatori, con rosse reti tese
addosso a corti pali, e dalle barche attraccate qualche giovanotto alzava pesci color piombo e li
passava a ragazze ferme con ceste quadrate dal basso orlo puntate all'anca, e uomini con minuscoli
orecchini d'oro seduti in terra a gambe distese cucivano reti interminabili, e in certe nicchie
bollivano mastelli di tannino per ritingerle, e muretti di pietre dividevano piccoli orti sul mare dove
le barche giacevano a fianco delle canne dei semenzai, […] e certi vecchi con un soffietto davano

21
Nel 1963 su Nuova corrente Mario Boselli pubblica un commento sullo stile de La
nuvola di smog, racconto lungo scritto nel 1958 e inserito prima ne I racconti e poi
ne Gli amori difficili.19 Pochi mesi dopo Calvino scrive una lettera al critico
cogliendo l'occasione per sviluppare una ricchissima riflessione sulla sua scrittura.
Secondo Calvino nei testi coevi appaiono alcune parti «più scritte», alcuni segmenti
sintattici a cui lo scrittore ha dedicato una cura attenta e impegnata, quasi come
fossero quadri: sono «blocchi di “immagine-scrittura”», confessa Calvino. 20 Proprio
La nuvola di smog – in modo forse ancor più chiaro di quanto avvenga nei racconti
dello stesso periodo – presenta una struttura narrativa che pare architettata per
dispiegare una sequenza eterogenea di immagini e impressioni ottiche a tratti
ricche di minuzie e di termini concreti, a tratti sospese in pause dall'andamento
lirico.21
L'idea di una «immagine-scrittura» ribadisce in sede critica l'esistenza di una
connessione fra le figure suggerite dai significati, la disposizione sintattica, la
scansione dei suoni e le apparenze delle lettere. Continua Calvino: «la pagina non è
una superficie uniforme di materia plastica, è lo spaccato di un legno, in cui si
possono seguire come corrono le fibre, dove fanno nodo, dove si diparte un
ramo».22 Lo scrittore vede di nuovo nell'intersecarsi delle linee un richiamo ai segni
arborei. Il lavorio sullo stile può avere due esiti differenti:

dell'insetticida ai loro nespoli, e i meloni gialli crescevano sotto foglie striscianti, e le donne anziane
friggevano nelle padelle calamaretti e polipi oppure fiori di zucca rivoltati nella farina […].» (RR II,
p. 1085). Alla concentrazione sintattica corrisponde un lessico preciso e minuzioso che rilascia
immagini di oggetti finitimi: «orecchini», «muretti», «calamaretti». La densità della scrittura
sembra portare con sé una concretezza che coinvolge la percezione sensoriale; ma può accadere –
come per la descrizione dei bagnanti – che tale concretezza si risolva in una concentrazione di
materia così elevata da essere insostenibile alla coscienza, generando così uno stato della percezione
quasi allucinato. Nota Mengaldo che «ora il periodo calviniano scorre via trasvolando rapido, ora è
scisso molecolarmente». P. V. Mengaldo, La lingua dello scrittore, cit., p. 216.
19 Il saggio di Boselli regala numerosi spunti di notevole acutezza. Qui merita almeno evocare una
notazione sullo stile: «Calvino pare preferire questo linguaggio [assottigliato] ad ogni altro: sembra
quasi che debba sfuggirgli di mano per lievitare e farsi metafisico, se non intervenisse il solito
elemento concreto […] a ricondurlo nel suo alveo». M. Boselli, Il linguaggio dell'attesa, in «Nuova
Corrente», X, nn. 28-29, 1963, p. 139.
20 I. Calvino, A Mario Boselli, in Id., Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Mondadori, Milano 2000,
p. 796.
21 Scrive Calvino in una introduzione inedita del 1960 ai Nostri antenati: «scrivendo queste storie
sono partito sempre da immagini, mai da concetti». (RR I, p. 1221). E poi nella Prefazione ai Nostri
antenati: «all'origine di ogni storia che ho scritto c'è un'immagine che mi gira per la testa, nata
chissà come e che mi porto dietro magari per anni». (RR I, 1210).
22 I. Calvino, A Mario Boselli, in Id., Lettere 1940-1985 , cit., p. 797.

22
Ora in queste parti più scritte ce n'è di quelle che io chiamo scritte
piccolo piccolo perché scrivendole accade (io scrivo a penna) che
la mia grafia diventi piccolissima, con gli o e gli a senza buco in
mezzo, ridotti a dei puntini; e ce n'è di quelle che chiamo scritte
grande perché la grafia mi viene invece più larga, con delle o e
delle a che ci può entrare dentro un dito.
Quelle scritte piccolo piccolo direi che sono quelle in cui tendo a
una densità verbale, a una minuziosità descrittiva. […] Le parti
scritte grandi invece sono quelle che tendono alla rarefazione
verbale. Per esempio dei paesaggi brevissimi, quasi dei versi: Era
autunno, qualche albero era d'oro. 23

Il fenomeno notato ne Il barone rampante emerge qui alla coscienza: la scrittura


assume movenze che influenzano gli altri strati del testo, fino a modellare la resa
figurativa della rappresentazione. «Era autunno, qualche albero era d'oro»: la
rarefazione dei caratteri, dei ritmi e della sintassi disegna una visione della natura
lungo i viali della città. Calvino aggiunge che «attraverso l'esame della scrittura, si
arriv[a] a capire qualcosa del senso ultimo di quello che scrivo, se c'è». 24 Dunque la
questione è tutt'altro che marginale.
Ci sono due avventure degli Amori difficili che dispiegano in forma di racconto i
moduli stilistici descritti da Calvino. L'avventura di un poeta racconta la gita in
barca di uno scrittore e della sua donna, le sensazioni d'un giorno d'estate trascorso
su una «costa del Meridione». Anche qui il mare è una distesa di quiete e l'uomo
contempla «un decantarsi dell'azzurro dell'acqua, uno smorire del verde della costa
in cinerino, il guizzo di una pinna di pesce proprio al punto dove la distesa di mare
era più liscia». (R II, p. 1167). L'apparire e lo sparire dei luccichii, il contrasto fra il
cielo aperto e l'ombra di una grotta che accoglie i due amanti, i riflessi sulle pareti

23 Ibidem, pp. 797-798. In apertura del suo breve saggio Franco Ricci sostiene che «il coinvolgimento
progressivo e totalizzante di Calvino per il segno grafico deriva dalla sua preoccupazione verso l'atto
dello scrivere». F. Ricci, Il visivo in Calvino, in M. Belpoliti (a cura di), Italo Calvino, Riga 9, Marcos y
marcos, Milano 1996, p. 283. La notazione è pertinente con le tesi di Calvino sostenute nella lettera a
Boselli.
24 I. Calvino, A Mario Boselli, in Id., Lettere 1940-1985, cit., p. 798.

23
di roccia: le sensazioni lasciano il poeta senza parole, «non riusciva a formularne
neanche una». L'espressione narrativa acquisisce un tono ancora più sospeso
quando Delia, la donna, entra in acqua e nuota nuda a fianco al canotto: «i raggi del
sole riverberato sott'acqua la sfioravano, un po' facendole da veste, un po'
spogliandola da capo». È un'esperienza del silenzio, vasta quiete del cosmo: «capiva
che quel che ora la vita dava a lui era qualcosa che non a tutti è dato di fissare a
occhi aperti, come il cuore più abbagliante del sole. E nel cuore di questo sole era
silenzio». (RR II, p. 1169).25 Poi, a un tratto, l'incanto al limite dell'afasia si
interrompe: «attenta, copriti! Si avvicinano delle barche, là fuori!». Navigano verso
di loro dei pescatori, portano con loro un senso di realtà concreta, densa e pesante.
Il poeta ora vede un «padre di cinque figli; disperato», un cappello di paglia che un
tempo poteva incutere «fierezza gradassa», ma ora comunica un senso di
«commedia d'ubriacone», lo sguardo indugia sui «baffi spioventi ancora neri». I
particolari accedono alla sua coscienza in forma di parole precisissime: «il remo
legato con un pezzo di corda allo scalmo a piolo», «un'ancoretta rugginosa a
quattro ganci», «nasse di vimini barbute». Mentre al cospetto della «bellezza di
natura» e delle distese di quiete acquorea la «parola gli veniva meno», alla vista dei
pescatori la mente è invasa da «una ressa di parole». La scrittura diviene ancora più
densa e particolareggiata quando il poeta intravvede un «paese incastrato in uno
spacco tra quelle alture», là dove gli oggetti e le sensazioni si accumulano in un
delirio caotico: le case sono «una sopra l'altra» attraversate dal «rivolo dei rifiuti di
mulo, e sulle soglie di tutte quelle case c'erano una quantità di donne, vecchie o
invecchiate, […] e dappertutto posate e in volo nuvole di mosche», e

a Usnelli venivano alla mente parole e parole, fitte, intrecciate le


une sulle altre, senza spazio tra le righe, finché a poco a poco non
si distinguevano più, era un groviglio da cui andavano sparendo
anche i minimi occhielli bianchi e restava solo il nero, il nero più
totale, impenetrabile, disperato come un urlo. (RR II, p. 1172).

25 Così Calvino in un auto-commento agli Amori difficili: «un racconto dove la scrittura, fin tanto
che evoca immagini di bellezza e di felicità, è rarefatta laconica pausata, ma appena deve dire la
durezza della vita si fa minuziosa, copiosa, fitta fitta». (Nota introduttiva, RR II, p. 1289). Una
considerazione da affiancare alle analisi inserite nella lettera a Boselli.

24
Una folta concentrazione di materia – intesa come asfissiante pienezza di cose e di
parole – cancella le differenze. L'affollamento sommerge la coscienza
dell'osservatore finché diviene impossibile riconoscere il profilo degli oggetti.
Anche l'alternanza fra il bianco e il nero – fondamento di una scrittura intesa come
differenza – tende a scomparire. Il mondo e la grafia si disperdono, indistinguibili,
in un «groviglio» senza forma; si alza un urlo: emissione di voce senza soluzioni di
continuità. Quando il magma materico copre ogni scarto e riempie ogni spazio
libero, s'interrompe il racconto: oltre la disfazione della forma la visione e la
scrittura non possono più sussistere.26
L'avventura di uno sciatore conclude Gli amori difficili. Un gruppo di sciatori
domenicali si accalca intorno allo skilift e disegna una coda senza forma,
disordinata. I movimenti sono appesantiti, i gesti poco armonici: raggiunta la vetta,
ciascuno si lancia con «malagrazia» verso valle perché «per loro, campione era chi
andava giù dritto come un pazzo». Un giovane sciatore con gli occhiali verdi –
maldestro, desideroso come tutti di compiere il suo «disordinato diroccare a valle»
– nota fra la folla una ragazza dal cappuccio celeste-cielo. A differenza del gruppo
di sciatori, lei «veniva giù prendendosela calma» ispirando grazia e armonia nei
movimenti: «il perché non l'avrebbero saputo spiegare, ma era questo che li teneva
a bocca aperta: tutti i movimenti le venivano i più semplici e i più adatti alla sua
persona, senza mai traboccare d'un centimetro, senza l'ombra di turbamento o di
sforzo, o di puntiglio a fare una cosa a tutti i costi, ma facendola così, naturalmente;
[…]: questo era il modo in cui la ragazza celeste-cielo andava sugli sci». (RR II, p.

26 L'avventura di un poeta è la traduzione in veste narrativa di una poesia raccolta in Ossi di seppia,
Marezzo. «Aggotti, e già la barca si sbilancia / e il cristallo dell'acque si smeriglia. / S'è usciti da una
grotta a questa rancia /marina che uno zefiro scompiglia». All'uscita dalla grotta ecco la visione del
sole e di un pescatore: «Fuori è il sole: s'arresta / nel suo giro e fiammeggia. / Il cavo cielo se ne
illustra ed estua, / vetro che non si scheggia. // Un pescatore da un canotto fila / la sua lenza nella
corrente». E anche il finale porta il poeta al limite del gorgo: «Così sommersi / in un gorgo d'azzurro
che s'infolta». (E. Montale, Ossi di seppia, in Id., Tutte le poesie, cit., pp. 90-92). Sul valore di Montale
– in particolare il Montale degli Ossi – nella poetica di Calvino si vedano i seguenti interventi:
Eugenio Montale: Forse un mattino andando in I. Calvino, S, pp. 1179-1189; Lo scoglio di Montale in I.
Calvino, S, pp. 1190-1193. Mc Laughlin, nel suo studio sui Racconti di Calvino, individua en passant
l'influenza montaliana, ma senza trarne conclusioni critiche: M. McLaughlin, Colours, Landscape and
the Senses in Difficult Loves, in B. Grundtvig, M. McLaughlin and L. Waage Petersen (edited by),
Image, Eye and Art in Calvino. Writing Visibility, Modern Humanities Research Association and
Maney Publishing, London 2007, pp. 26-47.

25
1176).
Gli amori sono l'avventura difficile di uno stile, la ragazza blu-cielo è l'emblema di
una scrittura ideale. Nell'informe «pasticcio della vita» la sciatrice trova «la
nascosta linea segreta, l'armonia», solo lei può «scegliere a ogni istante nel caos dei
mille movimenti possibili quello e quello solo che era giusto e limpido e lieve e
necessario». «L'ombra celeste cielo» sta «come sospesa» nel bianco: è la scrittura,
nel suo più alto grado di leggerezza rarefatta, che sul fondo nevoso della pagina
tratteggia le sue linee.
La ragazza propone allo sciatore con gli occhiali verdi di raggiungere la cima.

– E cosa c'è lassù?


– Si vede il ghiacciaio che sembra di toccarlo. Poi le lepri bianche.
– Le cosa?
– Le lepri. A quest'altezza le lepri d'inverno mettono il pelo
bianco. Anche le pernici.
– Ci sono lì?
– Pernici bianche. Con le penne tutte bianchissime.
(RR II, p. 1179).

I due si avventurano verso l'alto: lei senza fatica, lui segue affannato. La ragazza
giunge ad affacciarsi sull'altro versante ed esclama: «Là! Ha visto? Ha visto?». Il
ragazzo accorre, si guarda intorno, non vede niente. «– Ora non c'è più, – lei disse».
Agli occhi del protagonista il paesaggio-linguaggio si mostra con l'aspetto di
sempre: «sopra la valle svolazzavano i soliti uccelli neri gracchianti dei duemila
metri».
Che cosa sono, dunque, quelle pernici bianche, e le lepri? Sono quanto la scrittura
non può afferrare: il bianco su fondo bianco, il silenzio senza differenza, il vuoto al
di qua del linguaggio. L'immagine del villaggio disperato ne L'avventura di un poeta
segna il limite della «scrittura piccola piccola»: oltre inizia l'urlo, il boato del mare,
il troppo pieno senza forma dove vanno a morire i segni. La lepre bianca è invece il
limite sul versante della «scrittura in rarefazione»: dalla sua parte si apre il silenzio
ovattato, il troppo vuoto senza forma che precede la nascita delle parole. «La

26
perfetta trasparenza è – scrive Ossola su Calvino – il luogo dell'invisibilità». 27 La
scrittura – forma visibile e discontinua, scarto lineare su un fondo omogeneo – è un
movimento inesausto fra la rarefazione pausata e l'accumulazione precisa. 28 Oltre –
là dove la continuità del silenzio e la continuità del rumore stanno in attesa – lo
scrittore non può inoltrarsi.29

3. Immagine e narrazione.

Ne La nuvola di smog l'intreccio è un'esile impalcatura su cui disporre in serie le


visioni della società industriale. Calvino ammette che «l'eroe della Nuvola di smog,
dal fondo – si direbbe – d'una crisi depressiva di cui non conosciamo le origini
s'ostina a guardare, senza stornare mai gli occhi, e se ancora qualcosa egli s'aspetta,
è solo quello che vede: un'immagine da contrapporre ad un'altra immagine, ma non
è detto che la trovi».30 La riflessione è inserita nella Nota che introduce l'edizione in
volume de Gli amori difficili e lascia intendere che l'affiorare di impressioni ottiche
su uno sfondo narrativo sottile, quasi etereo, sia l'aspetto più rilevante di alcuni fra
i racconti brevi, come L'avventura di uno sciatore e L'avventura di un poeta.
Per comprendere meglio la relazione fra l'andamento narrativo e le impressioni
visive è fecondo richiamare l'Anatomia della critica di Northrop Frye, opera vasta,
27 C. Ossola, Calvino: la simmetria, il residuo, in Aa. vv., Il fantastico e il visibile. Giornata di studi su
L'itinerario di Italo Calvino dal neorealismo alle Lezioni americane, Napoli 9 maggio 1997, p. 32.
28 Nel 1981 Calvino scrive un intervento sulla mostra dedicata alle sculture di Melotti. La mostra fu
organizzata al Forte del Belvedere di Firenze e un'area di sculture è nominata “Gli effimeri”: «una
partitura di ideogrammi senza peso come insetti acquatici che sembrano volteggiare su di una
spalliera d'ottone schermata di un filtro di garza». Ma è bellissimo il discorso che le effimere
tengono dinanzi alla fortezza: «noi guizziamo nel vuoto così come la scrittura sul foglio bianco e le
note del flauto nel silenzio. Senza di noi, non resta che il vuoto onnipotente e onnipresente, così
pesante che schiaccia il mondo, il vuoto il cui potere annientatore si riveste di fortezze compatte, il
vuoto-pieno che può essere dissolto solo da ciò che è leggero e rapido e sottile». Lo scritto è stato
raccolto nelle Collezioni di sabbia (S, p. 487).
29 Un appunto decisivo sul rapporto fra forma della scrittura, forma del mondo e angoscia
dell'informe si ritrova in Cibernetica e fantasmi: Nel momento in cui ha appreso che «lo scrivere è
solo un processo combinatorio tra elementi dati» – scrive Calvino in Cibernetica e fantasmi – «ciò
che io provo istintivamente è un senso di sollievo, di sicurezza. Lo stesso sollievo e senso di
sicurezza che provo ogni volta che un'estensione dai contorni indeterminati e sfumati mi si rivela
invece come una forma geometrica precisa, ogni volta che in una valanga informe di avvenimenti
riesco a distinguere delle serie di fatti, delle scelte tra un numero finito di possibilità. Di fronte alla
vertigine dell'innumerevole, dell'inclassificabile, del continuo, mi sento rassicurato dal finito, dal
sistematizzato, dal discreto». (S, p. 217). Sono note da tenere a mente, fondamentali per corroborare
le argomentazioni dei paragrafi che seguiranno.
30 I. Calvino, Nota introduttiva a Gli amori difficili, RR II, p. 1292.

27
di complessa articolazione e tappa fondamentale per la formazione dello scrittore.
In questo contesto è sufficiente tenere conto solo della sezione dedicata alla «teoria
dei simboli» dove il critico si sofferma sulla polisemia del testo letterario inteso
come «varietà o sequenza di significati». 31 Frye, memore dalla lettera di Dante a
Cangrande, si richiama alla teoria medievale dei quattro sensi dell'interpretazione
ma ne modifica la struttura proponendo un sistema a cinque livelli. I primi due –
che nella teoria classica corrispondono al senso letterale – si distinguono in «fase
letterale» e «fase descrittiva». Nella prima domina una tensione centripeta: il
“letterale” riguarda il senso interno di ogni «unità di struttura verbale» e pone
l'accento sulle relazioni semantiche e sintattiche che s'intrecciano all'interno della
frase. La fase letterale è pertanto il fondamento di ogni composizione letteraria e ne
assicura l'autonomia dal mondo esterno. La pulsione centrifuga della fase
descrittiva, invece, eccede i confini del linguaggio: la combinazione dei significati
dà forma a descrizioni che si riferiscono agli oggetti e agli eventi di un mondo
ipotetico. Sia nel “letterale” che nel “descrittivo” agisce la mediazione di due
elementi costitutivi dell'impianto teorico del saggio, mutuati dalla Poetica di
Aristotele: il mythos (l'intreccio) e la dianoia (il tema). Nella fase letterale ogni
struttura verbale presenta un andamento ritmico, percepito come sonorità fonica
che si dispiega nel tempo, e una modulazione del senso interno alle frasi,
visualizzata dall'occhio come rapporto spaziale e simultaneo fra le parole. Il ritmo è
legato all'influsso del mythos, la modulazione invece è connessa alla dianoia: «le
opere letterarie si muovono nel tempo, come la musica, e si svolgono in immagini
come la pittura. Il termine narrativo, o mythos, esprime il senso del movimento
colto dall'orecchio, mentre il termine significato o dianoia, esprime il senso, o
quanto meno lo conserva, di simultaneità colto dall'occhio». 32 Anche nella fase
descrittiva Frye distingue la «narrazione», intesa come «la relazione dell'ordine
delle parole con eventi che assomigliano agli eventi della “vita” al di fuori», dal
«significato», equivalente al valore assertivo, e quindi referenziale, delle varie
modulazioni semiotiche. Nel momento descrittivo, quindi, il significato non è più
definito soltanto dai rapporti interni al linguaggio, ma anche dalla possibilità di
31 N. Frye, Anatomia della critica, cit., p. 94.
32 Ibidem, p. 103.

28
intendere i simboli immaginari come concrezioni visive riferibili a determinati
aspetti di una realtà esterna.
Il terzo livello identifica la «fase formale» e corrisponde al senso allegorico della
teoria medievale. Qui la letteratura è intesa come un complesso di «formule verbali
che imitano le proposizioni reali». La fase formale, a differenza del momento
descrittivo, recupera una tensione centripeta e investe «gli aspetti del contenuto [di
un'opera] e non campi esterni di osservazione». Per rafforzare la sua teoria Frye si
rivolge alla mimesis aristotelica. Il concetto di «imitazione» evocato nella Poetica,
secondo il critico, non ha un valore propriamente rappresentativo o referenziale:
«l'azione umana è per prima cosa imitata dalle storie, o strutture verbali che
descrivono azioni specifiche e particolari. Il mythos è un'imitazione secondaria di
un'azione, il che significa che esso non è a doppia distanza dalla realtà, ma che
essendo più filosofico della storia, descrive azioni tipiche. Il pensiero umano è
prima di tutto imitato dalla scrittura discorsiva che fa affermazioni specifiche e
particolari. La dianoia è un'imitazione secondaria dei pensieri, una mimesis logou,
riferita ai pensieri tipici, immagini, metafore, diagrammi e ambiguità verbali dai
quali si sviluppano le idee».33 L'imitazione delle azioni dà forma a una
concatenazione ipotetica di eventi, l'imitazione di idee invece dà forma a immagini
e pensieri che si estendono nello spazio interno dell'espressione letteraria.
Si può così intuire come, risalendo i diversi livelli di polisemia, Frye tenda
costantemente a leggere gli aspetti specifici di ogni dimensione del senso
descrivendoli mediante l'aspetto narrativo (o del mythos) e mediante l'aspetto
tematico e immaginario (o della dianoia). Così avviene anche per la «fase mitica»
corrispondente al senso etico nella classificazione medievale. Tale fase implica un
nuovo movimento centrifugo ed è individuata dagli archetipi narrativi e simbolici
che attraversano tutte le mitografie e le letterature dell'umanità. Ogni archetipo è
espressione delle finalità a cui tende la civiltà umana: «la concezione archetipica
della letteratura tratta la letteratura come una forma totale e l'esperienza letteraria
come una parte di quel continuum che è la vita, in cui uno degli scopi del poeta è
rendere visibili le mete del lavoro umano». 34 Frye individua due elementi di primo
33 Ibidem, p. 110.
34 Ibidem, p. 151.

29
piano nel rapporto mimetico che la letteratura instaura con i fini della civiltà: il rito
e il sogno; e sostiene che «il critico degli archetipi studia la narrazione sotto
l'aspetto del rituale o imitazione delle azioni umane considerate globalmente e non
solo come mimesis praxeos o imitazione di una azione. Analogamente, nella critica
degli archetipi il contenuto significante è il conflitto fra desiderio e realtà che ha
come base l'attività del sogno».35 Rito e sogno sono le dimensioni archetipiche delle
due mediazioni aristoteliche: «il rituale è l'aspetto archetipo del mythos e […] il
sogno è l'aspetto archetipo della dianoia».36 Se è la «ripetizione» delle azioni ad
avvicinare il rito all'intreccio, è importante notare come siano le immagini del
desiderio a condurre i sogni nell'alveo della dianoia.
La riflessione sul desiderio non sfugge a Calvino che nel 1969 dedica una
recensione all'opera di Frye: La letteratura come proiezione del desiderio.37 Lo
scrittore si muove con circospezione e non abbraccia interamente le proposte di
Anatomia della critica. In particolare emergono alcune caute obiezioni: Calvino
respinge le tendenze «arcaicizzanti», «cicliche» e «teleologiche» che sono state
avanzate dal saggio o che gli sono state attribuite dai lettori e dai commentatori e,
inoltre, non dà alcun rilievo alle spinte centripete determinate a ribadire
l'autonomia della letteratura, preferendo sottolineare le pulsioni verso l'esterno («è
un libro dalle continue spinte centrifughe»). (S I, p. 245). Soprattutto Calvino vuole
mettere in evidenza una particolare opposizione individuata da Frye: «a una
corrispondenza delle forme letterarie con le pratiche rituali, cioè con l'uso tecnico
ed istituzionale del mito, Frye contrappone (o integra affianca: in lui questi
movimenti non sono mai netti e univoci) la corrispondenza col sogno, proiezione
del desiderio e della ripugnanza in contrasto col quadro delle istituzioni vigenti. È
in questa chiave che mi piace leggere il libro». (S I, p. 244). Calvino si sofferma sulla
polarità di mythos e dianoia e, forzando un poco il testo di Frye, attribuisce al primo
elemento una dimensione istituzionale, rigida, e affida all'immaginario onirico una
potenzialità liberatoria, plastica.38 La funzione desiderante connessa con il polo
35 Ibidem, p. 138.
36 Ibidem, p. 141.
37 I. Calvino, La letteratura come proiezione del desiderio, S, pp. 242-251.
38 L'opposizione fra istituzione e liberazione è di nuovo riscontrabile nell'articolo di un anno
successivo sull'interpretazione del Carnevale di Bachtin: «potrà in una società futura realizzarsi
qualcosa di simile seguendo il ritmo dei cicli economici industriali, dei piani quinquennali,

30
della dianoia attrae così tutto l'interesse del recensore: «resta aperta la via per uno
studio del simbolo città dalla rivoluzione industriale in poi, come proiezione dei
territori e dei desideri dell'uomo contemporaneo» (S I, p. 245, il corsivo è di
Calvino).
La lettura di Frye e l'articolo di commento sono contemporanei alla stesura delle
Città invisibili e per questo è di estremo interesse rilevare come il simbolo della
città svolga un ruolo decisivo anche in Frye e proprio in relazione all'ultimo livello
di senso, quello anagogico, dove la letteratura tende alla sua completa autonomia.
Poiché solo l'anagogia realizza un «universo letterario autonomo», la critica si
assume finalmente il compito di osservare la letteratura come «una forma totale e
non semplicemente un nome con cui indicare il complesso di tutte le opere
letterarie esistenti».39 Le forme totali prendono le sembianze di un «gruppo di
simboli universali» che detengono «una capacità di comunicazione che è
potenzialmente illimitata». Tali simboli possono contenere, come una enciclopedia
perfetta, tutto il mondo naturale: «l'imitazione della natura si trasforma da riflesso
della natura esterna in un'organizzazione formale di cui la natura era il contenuto.
Ma nella fase formale la singola poesia è ancora contenuta dalla natura e nella fase
archetipica il complesso della poesia è ancora contenuto nei limiti del naturale e del
plausibile. Giungendo alla fase anagogica, la natura non è più il contenente ma il
contenuto». Fra i simboli dell'anagogia compare per prima la città: «i simboli
universali archetipi come la città, il giardino, la ricerca, il matrimonio non sono più
le forme desiderabili che l'uomo costruisce della natura, ma sono essi stessi le forme
della natura. La natura è dentro la mente di un uomo infinito che con la Via Lattea
costruisce le sue città».40
Senza dubbio le Città invisibili intrattengono un dialogo intenso e problematico con
le teorie simboliche di Frye. Grazie alla lettura di Anatomia della critica si può
intendere con la giusta complessità quale sia il valore universale e polisenso delle

dell'alternanza tra periodi di produzione accumulazione austerità pedagogia e periodi di consumo


festa contestazione delle autorità demistificazione a tutti i livelli?». I. Calvino, Il mondo alla rovescia,
S, p. 259. Certo l'intento di Calvino non è quello di privilegiare il dispendio a detrimento del rigore,
egli aspira anche in questo caso a un movimento capace di toccare, di volta in volta, entrambe le
polarità.
39 N. Frye, Anatomia della critica, cit., p. 155.
40 Ibidem, p. 156.

31
Città invisibili e l'orizzonte del progetto emerge nitido: l'opera di Calvino è un
meccanismo simbolico, una matrice inesauribile di sensi plurali, un'enciclopedia di
immagini e mitologie in movimento i cui rapporti interni non rimangono stabili,
ma esposti all'esercizio eterogeneo dell'interpretazione. Calvino scrive a Celati nel
gennaio del 1969 una lettera a proposito del saggio di Frye: «esistono problemi cui
l'immaginario primitivo risponde attraverso configurazioni mitiche elementari e
che sono i veri problemi che continuano a porsi all'uomo anche se li ha dimenticati
o rimossi, e la letteratura esprime il loro continuo riproporsi […] la letteratura è il
luogo in cui le scritture mitiche dell'uomo primitivo e dell'infanzia continuano a
imporre la loro logica e a essere discusse sul loro stesso terreno, ed è l'unico terreno
in cui si può in qualche modo contestarle e rivoluzionarle, l'unico terreno dove
qualcosa cambia, cioè dove anche gli archetipi possono avere una storia». 41
La creazione di un sistema totale e integrale, tuttavia, non è una possibilità
contemplata da Calvino: la scrittura, come si è argomentato nel paragrafo
precedente, si muove fra confini che non possono essere infranti, oltre i quali esiste
qualcosa che non è scrittura. La riorganizzazione creativa dell'immaginario e dei
simboli avviene sempre a partire da un attrito con un mondo che si erge al di fuori.
All'altezza della fase anagogica, invece, Frye intende dimostrare l'esistenza di una
«forma totale» della letteratura, contenitore cosmico dove si dissolvono tutte le
contrapposizioni, compresa quella fra mythos e dianoia: «nella sua fase anagogica,
dunque, la poesia imita l'azione umana come rituale totale e così imita l'azione di
una onnipotente società umana che ha in sé tutti i poteri naturali. La poesia da un
punto di vista anagogico unisce dunque il rituale totale, o azione sociale illimitata,
con il sogno totale o pensiero individuale illimitato». 42 Non sussistono più, in Frye,
le differenze e gli scarti fra la narrazione e l'immagine.
Eppure, come si è visto, nell'articolo dedicato a Anatomia della critica Calvino si
sofferma sull'opposizione fra il mythos e la dianoia, non accenna mai alla possibilità
di trascendere il dualismo e accorda un evidente privilegio a polo del desiderio. Il
simbolo-città dello scrittore ligure è così tutto sbilanciato sul versante tematico-
immaginario e riduce al minimo la narrazione: le visioni di Marco Polo si
41 I. Calvino, A Gianni Celati, in Id., Lettere 1940-1985, cit., pp. 1032-1033.
42 N. Frye, Anatomia della critica, cit., p. 157.

32
dispongono in sequenza e sono tenute insieme da una cornice che fluttua fuori dal
tempo, nel giardino senza storia che accoglie i dialoghi fra il mercante veneziano e
il Gran Kan.43 I resti narrativi palpitano frammentari di visione in visione – sono
cambiamenti di stato, mezze giravolte, repentine illuminazioni – ma nessuna
successione temporale attraversa i medaglioni: le relazioni di causa e di effetto non
riguardano il pulviscolo sospeso degli emblemi. Le forme, pur non mostrando nulla
di statico e di assoluto, appartengono al dominio della visibilità immaginaria, sono
figure così articolate da poter trattenere nei loro strati di senso l'articolazione
polisemica del mondo. Anche il paesaggio di Dall'opaco osservato dall'alto, allora,
appartiene alla stirpe degli archetipi: immagine visiva assunta a «forma del
mondo».44

4. Le lettere come atomi.

La scrittura di Calvino stabilisce relazioni complesse con le forme della visione, fino
a sbocciare nell'ipotesi di Dall'opaco: l'immagine di un paesaggio potrebbe essere un
emblema del mondo. Si legge nell'ultima, inedita, lezione americana: «l'universo si
disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice di entropia, ma
all'interno di questo processo irreversibile possono darsi zone d'ordine, porzioni
d'esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati in cui sembra di
scorgere un disegno, una prospettiva. L'opera letteraria è una di queste minime
porzioni in cui l'universo si cristallizza in una forma». (S I, p. 751). La forma del
«disegno» rivela un'ambizione cosmologica erede dei racconti delle Cosmicomiche e

43 Anche Mengaldo sostiene a proposito de Le città invisibili che «questa assenza di narratività non
è solo palese nel procedere del libro per riquadri autonomi e intercambiabili, nella subordinazione
del narrato al dialogato, del racconto a un racconto rivissuto, di secondo grado; ma ancor di più nella
totale mancanza di sviluppo e svolgimento, di “azione” (è quasi un romanzo di avventure cui siano
sottratte le avventure, di cui resta solo il diagramma virtuale e come l'ombra ), nella sospensione
temporale che caratterizza i racconti di Marco e i relativi commenti fuori di quadro». P. V.
Mengaldo, L'arco e le pietre. (Calvino, «Le città invisibili»), in Id., La tradizione del Novecento, Prima
serie, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 434.
44 Scrive Calvino a Fraçois Wahl, autore di un commento ai Racconti molto apprezzato da Calvino:
«Lei ha organizzato e sviluppato spunti di una mia metodologia della narrazione, che io avevo solo
accennato disorganicamente: che il mio punto di partenza sia l'immagine e che la narrazione
sviluppi una logica interna all'immagine stessa. Giustamente lei osserva che questo processo logico
portato alle ultime conseguenze a un certo punto si spegne e annulla in un terzo momento: quello
della contemplazione». I. Calvino, A François Wahl, 1º dicembre 1960, in Id., Lettere, cit., pp. 668-669.

33
degli interventi saggistici redatti per il Menabò di Vittorini. Nelle Lezioni è la figura
di Lucrezio ad essere associata con insistenza all'immagine dell'universo:

Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia


in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della
compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente
minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della
materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è
fatta di corpuscoli invisibili. È il poeta della concretezza fisica,
vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima
cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. (S
I, p. 636).

Sembra che le due citazioni presentino una contraddizione: la prima privilegia i


fenomeni di cristallizzazione come «porzioni» d'ordine entro l'entropia caotica,
mentre la seconda descrive con un certo trasporto il movimento molteplice e
oscillante del pulviscolo. Si ripropone un contrasto simile a quello che nel primo
paragrafo opponeva la scrittura rarefatta e cristallina alla scrittura «piccola
piccola» e ricca di particolari; se in precedenza il dualismo era di ordine stilistico e
sintattico, ora riguarda il piano iconico e simbolico. Più avanti si tornerà su questa
tensione dialettica fra le fluttuazioni pulviscolari e le concrezioni cristalline, 45 ora è
45 Per le ambivalenze del cristallo si veda il racconto I cristalli in Ti con zero. Una analoga
oscillazione di valori si riscontra all'apparire di aggregazioni pulviscolari. Nella pagine su Fourier e
sulla sua utopia pulviscolare Calvino conclude: «oggi l'utopia che cerco non è più solida di quanto
non sia gassosa: è un'utopia pulviscolare, corpuscolare, sospesa», ovvero una architettura
immaginaria capace di opporsi alle utopie cristalline e ordinate progettate nella modernità (I.
Calvino, Per Fourier 3. Commiato. L'utopia pulviscolare, S, p. 314). Valore opposto assume il
pulviscolo quando Marco Polo descrive il disfacimento dell'impero in un continuum metropolitano:
«Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i
luoghi si scambiano forma ordine e distanze, un pulviscolo informe invade i continenti. Il tuo atlante
custodisce intatte le differenze: quell'assortimento di qualità che sono come le lettere del nome». (RR
II, p. 475). Per un'analisi teorica del rapporto fra pulviscolo e cristallo si veda K. Pilz, Mapping
Complexity. Literature and Science in the Works of Italo Calvino, Troubador, Leicester 2005. Il saggio è
ben documentato e l'autrice si dimostra un'attenta lettrice di Calvino, ma l'impianto teorico è
sostanzialmente scorretto e presenta un limite notevole. Pilz ricerca una “riconciliazione” delle
tensioni fra caos pulviscolare e ordine cristallino nel modello di un “iper-romanzo”, costruzione che
sarebbe stata realizzata da un Calvino ormai “postmoderno”. «The vision that emerges is one that
reconciles laceration and harmony. […] While in the early novels these were problematised in the
hope of resolution, the new conception of knowledge as “multiplicity”, or knowledge as the complex
layering of the irreconcilable, obliges us to understand laceration in positive terms: ruptures, the
disjointed and discontinuous is the base ingredient of a new, interdisciplinary paradigm where unity

34
necessario soffermare l'attenzione critica sull'analogia che lega l'andamento della
scrittura ai modelli figurali del cosmo. Nel De rerum natura si conservano spunti
fecondi:

E spesso ha molto rilievo con quali altri elementi / e in quale


posizione si uniscano i medesimi corpuscoli primordiali, / e quali
spinte imprimano oppure ricevano; / infatti sono ugualmente essi
a costituire il cielo, il mare, / le terre, i fiumi, il sole, e ancora le
messi, gli alberi, i viventi, / ma si muovono commisti ad altri e in
modo diverso. / Anzi vedi sparse nei miei stessi versi / molte
lettere comuni a molte parole, / mentre è tuttavia necessario
ammettere che i versi/ e le parole si differenziano per significato e
per timbro di suono. / Tanto possono le lettere, solo a mutarne
l’ordine. / Ma le particelle elementari dei corpi hanno maggior
potere / poiché da esse si creano tutte le varie sostanze.46

Gli atomi (primordia) e le lettere (multa elementa) seguono andamenti dinamici


analoghi durante le loro aggregazioni. La suggestione non sfugge a Calvino e nelle
Lezioni accenna all'ipotesi secondo cui la scrittura sia «metafora della sostanza
pulviscolare del mondo: già per Lucrezio le lettere erano atomi in continuo
movimento che con le loro permutazioni creavano le parole e i suoni più diversi».
(S I, p. 653). La relazione analogica fra le regole combinatorie del linguaggio e il
funzionamento dei modelli atomistici nelle speculazioni della fisica antica permette
così di comprendere meglio perché la disposizione dei caratteri e dei paragrafi in
Dall'opaco abbia una certa somiglianza con le linee spezzate, i terrazzamenti e gli

in harmony needs to be understood as a synthesis of the ruptured, and the discontinuous as a


dynamic interdisciplinary exchange». (Ibidem, p. 23). Ma in Calvino le rotture non sono mai
integrate in un modello perfetto, come vorrebbe Pilz. Tuttavia secondo l'autrice è proprio la rottura
epocale che oppone moderno a postmoderno a favorire l'emergere di una visione molteplice,
“rizomatica” e “debole” dell'opera di Calvino: «likewise, Se una notte is an hypernovel where the
narrative space becomes a web of intersecting stories in which the reader/protagonists become
active participants thereby blurring the distinction between reality and fiction». (Ibidem, p. 118). Il
discorso teorico così elide un aspetto che non ha mai abbandonato lo scrittore ligure: lo scarto fra
scrittura e realtà, fra modelli del mondo e mondo non scritto. Questa cancellazione avviene in nome
di una continuità «postmoderna» fra segno e referente assicurata da un modello ipertestuale.
46 Lucrezio, De rerum natura, libro I, vv. 817-829. Propongo la traduzione di L. Canali per l'edizione
Rizzoli (La natura delle cose, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1994).

35
spazi vuoti figurati dal senso delle parole: vi è un costante scambio fra la forma
topologica dell'immagine cosmica e quella “letterale” del testo, fra iconologia e
stilistica.47
La vocazione cosmologica della letteratura individuata da Calvino non si limita al
recupero delle teorie dell'antichità classica, ma s'interroga anche se sia possibile, e a
quali condizioni, un confronto con la scienza moderna. Nel 1985 compare un saggio
di Calvino pubblicato in francese: Le livre de la nature chez Galilée. Il titolo si
riferisce alla celeberrima metafora che Galileo recupera dalla tradizione medievale
ed espone ne Il Saggiatore: «il libro dell'universo», ammonisce lo scienziato in un
passo citato da Calvino, «non si può intendere se prima non s'impara a intendere la
lingua, e conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica,
e i caratteri sono triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche» (S I, p. 853). 48 Solo
chi conosce la lingua della natura, aggiunge il fisico, non corre il rischio di
«aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». Nel passo citato appare però una
differenza, decisiva, rispetto alla teoria medievale: i «caratteri» non sono inscritti
nel corpo stesso del cosmo – non vanno intesi come signatura rerum – ma sono
sistemi di significazione regolati da leggi indipendenti dal mondo, così come
avviene per gli assiomi della geometria euclidea o per le formalizzazioni fondate sul
linguaggio matematico. Lo scienziato deve intendere a priori le regole della
«lingua», affinché la natura sia intelligibile alla sua mente: il mondo non è un libro
ma è leggibile come un libro dall'osservatore abile a dedurne le regole per decifrarlo.
È un aspetto che Calvino coglie alla perfezione: «l'apporto più nuovo di Galileo alla
metafora libro-mondo è l'attenzione al suo speciale alfabeto […]. Si può allora
precisare che il vero rapporto metaforico si stabilisce, più che tra mondo e libro, tra
mondo e alfabeto». (S I, p. 854). Calvino rafforza la sua tesi citando il Dialogo sopra
i due massimi sistemi, dove Galileo paragona l'alfabeto al sistema dei colori:

47 Un aspetto che Boselli aveva colto molto bene nel 1969 in occasione del commento a Ti con zero:
la scrittura di figure «è una tecnica utilizzata per rendere la lingua capace di essere insieme parola e
immagine, parola e figura, parola e fotogramma, lasciando al lettore la facoltà di creare da sé
suggestioni, emozioni, sentimenti». M. Boselli, “Ti con zero” o la precarietà del progetto, ora in Nuova
Corrente XXXIX (1992), p. 143.
48 La citazione si trova anche in G. Galilei, Il Saggiatore, in Id., Opere, volume primo, a cura di F.
Brunetti, Mondadori, Milano 2008.

36
il pittore da i semplici colori diversi, separatamente posti sopra la
tavolozza, va, con l'accozzare un poco di questo con un poco di
quello e di quell'altro, figurando uomini, piante, fabbriche, uccelli,
pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili, senza che
sulla tavolozza sieno né occhi né penne né squamme né foglie né
sassi: anzi pure è necessario che nessuna delle cose da imitarsi, o
parte alcuna di quelle, sieno attualmente tra i colori, volendo che
con essi si possa rappresentare tutte le cose […]. (S I, p. 855). 49

L'alfabeto costituisce un codice autonomo di valori minimi la cui combinazione


genera serie di significati riferibili al mondo. Emerge qui l'idea moderna di una
rappresentazione organizzata a partire da un linguaggio formale esterno e separato
dall'oggetto contemplato:50 un di più di informazione sul mondo – come la
descrizione dell'irregolare suolo lunare – è possibile dopo aver adottato una
grammatica formalizzata su base combinatoria. L'interpretazione di Galileo è
l'occasione per elaborare un auto-commento: Calvino ragiona sugli scritti dello
scienziato pisano e ritorna sui metodi adottati durante la sua produzione poetica,
ricerca le regole che hanno ordinato la sua scrittura. La luna di Galileo e la luna
delle Cosmiche si specchiano l'una nell'altra: «Galileo appena si mette a parlare
della luna innalza la sua prosa a un grado di precisione ed evidenza ed insieme di
rarefazione lirica prodigiose». (S I, p. 228). 51 Un fil rouge si dipana fra Gli amori

49 Panofsky coglie una relazione significativa fra l'impostazione scientifica di Galileo e le sue
predilezioni artistiche. Secondo il critico tedesco la regola espressa da Galileo secondo cui i singoli
elementi della pittura debbano essere neutri e di per sé privi di valore è in contrasto con le immagini
di Arcimboldo, dove le allegorie stagionali sono composte dai frutti del periodo pertinente. Così,
continua Panofsky, la critica ad Arcimboldo è coerente con le valutazioni negative riservate a Tasso
e in generale alle forme coeve legate al Manierismo. Galileo aderirebbe così a un'ideale estetico
rinascimentale, e tale ideale sarebbe il fondamento del suo metodo scientifico. E. Panofsky, Galileo
as a Critic of the Arts: Aesthetic Attitude and Scientific Thought, in Isis, Vol. 47, No. 1 (Mar., 1956), pp.
3-15.
50 Insiste Calvino: «l'alfabeto geometrico o matematico del libro della natura sarà quello che, in base
alla sua capacità di essere scomposto in elementi minimali e di rappresentare tutte le forme del
movimento e del cambiamento, abolisce l'opposizione tra cieli immutabili e elementi terrestri». (S, p.
859). Proprio la tensione fra il procedimento formale e l'attenzione per le minuscole movenze e le
irregolarità che costellano la realtà avvicina la sensibilità di Calvino a quella di Galileo. Entrambi si
dedicano alla ricerca di modelli del mondo capaci di trattenere le irregolari movenze dell'orografia
lunare.
51 Per i racconti sulla luna si veda in Cosmicomiche: La distanza della Luna. In Ti con Zero: La molle
Luna. In La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche: La Luna come un fungo e Le figlie della
Luna. Per una riflessione critica: M. Rizzante, Calvino e la luna, in Riga 9, cit., pp. 293-303.

37
difficili, i racconti “cosmicomici” e i bilanci critici dell'ultimo anno di vita: una
ricerca poetica capace di coniugare una concretissima precisione con l'equilibrio
formale.
Ancora una precisazione, tuttavia, è necessaria. Lucrezio, per intendere la
somiglianza fra corpuscoli di materia e lettere, impiega una metafora di ordine
iconico, visivo; Galileo, invece, sposta l'analogia sul piano formale e sostiene che
per rappresentare «squamme, foglie, sassi» sia necessario un linguaggio dotato di
regole interne di combinazione, distinto dagli oggetti stessi ma capace di rendere le
varie sfumature di colori, le molteplici articolazioni delle forme. Le pagine di
Calvino risentono della corrente lucreziana: «l'immagine-scrittura» si aggrega e si
disgrega come gli elementi atomici immaginati da Lucrezio; ma è presente anche la
lezione di Galileo: il linguaggio è un sistema di regole il cui uso permette una
descrizione mediata del mondo a partire da un codice astratto. Come ha intuito alla
perfezione Boselli, «il linguaggio si moltiplica sullo stesso parametro delle cellule»
e degli atomi, così che «gli oggetti e figure sono ricostruiti in forme artificiali, citati
come lettere d'alfabeto» disponendo sulla pagina una «materia piatta, in piena
luce» come immagine linguistica del mondo.52
Forse la sfida fra scienza e letteratura vive nell'oscillazione fra l'analogia iconica,
immaginativa, e l'analogia formale che consente ai segni di ricostruire gli stati del
mondo disponendoli sulla superficie della pagina. Sono proprio tali intrecci fra
mondo, immagini e parole a testimoniare l'intento – comune alla letteratura come
alla scienza – di accrescere la conoscenza congetturale di quanto vibra al di fuori
della coscienza individuale.

5. La coscienza del labirinto.

L'insieme delle conoscenze – sostiene d'Alembert nel Discours préliminaire


all'Encyclopédie – costituisce un «arbre encyclopédique» che contiene
sinteticamente le relazioni fra i diversi ordini del sapere. Tuttavia disegnare l'albero
non è impresa facile: «Le système général des Sciences & des Arts est une espece de

52 M. Boselli, “Ti con zero” o la precarietà del progetto, cit., pp. 133-134.

38
labyrinthe, de chemin tortueux où l'esprit s'engage sans trop connoître la route qu'il
doit tenir».53 Ritorna la metafora del «laberinto», immagine di un mondo – o di un
sistema di conoscenze sul mondo – caotico e senza forma. Il soggetto conoscente
s'affanna al suo interno, segue strade diverse, incontra ostacoli che compromettono
la possibilità di concepire la figura dell'albero. Per evitare lo smarrimento è
necessario uno sforzo ulteriore:

Ce dernier [l'ordre encyclopédique] consiste à les [nos


connoissances] rassembler dans le plus petit espace possible, & à
placer, pour ainsi dire, le Philosophe au - dessus de ce vaste
labyrinthe dans un point de vûe fort élevé d'où il puisse
appercevoir à la fois les Sciences & les Arts principaux; voir d'un
coup d'oeil les objets de ses spéculations, & les opérations qu'il
peut faire sur ces objets; distinguer les branches générales des
connoissances humaines, les points qui les séparent ou qui les
unissent; & entrevoir même quelquefois les routes secretes qui les
rapprochent. C'est une espece de Mappemonde qui doit montrer
les principaux pays, leur position & leur dépendance mutuelle, le
chemin en ligne droite qu'il y a de l'un à l'autre; chemin souvent
coupé par mille obstacles, qui ne peuvent être connus dans
chaque pays que des habitans ou des voyageurs, & qui ne
sauroient être montrés que dans des cartes particulieres fort
détaillées. Ces cartes particulieres seront les différens articles de
notre Encyclopédie, & l'arbre ou système figuré en sera la
mappemonde.54

È dunque possibile dotarsi di un metodo e riordinare i dati così da vedere


l'articolazione delle conoscenze da fuori, da un punto di vista sopraelevato, e
cogliere in un colpo d'occhio la chiara distinzione delle figure. Si deve dunque
osservare l'accumulo del sapere come un paesaggio e tracciarne una mappa o

53 J.-B. d'Alembert, Discours préliminaire, in Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des
arts et des métiers, par une société de gens de lettres, mis en ordre par M. Diderot de l'Académie des
Sciences et Belles-Lettres de Prusse, et quant à la partie mathématique, par M. d'Alembert de l'Académie
royale des Sciences de Paris, de celle de Prusse et de la Société royale de Londres, Paris 1751, p. XIV.
54 Ibidem, p. XV.

39
«mappamondo»: la mappa è l'Encyclopédie. Le metafore topologiche richiamano la
dialettica fra luce e ombra: il labirinto è oscuro, il soggetto non vede quasi niente,
mentre dall'alto tutto s'osserva nella giusta luce. Scrive ancora il filosofo: «heureux
donc, si nous nous engageons dans ce labyrinthe, de ne point quitter la véritable
route; autrement les éclairs destinés à nous y conduire, ne serviroient souvent qu'à
nous en écarter davantage».55
L'osservatore in Dall'opaco è rivolto verso il mare, alla destra e alla sinistra ha una
striscia di terra spezzata in tanti balconi, il suo sguardo percorre nervosamente un
mondo trafitto dai raggi solari: «per chi osserva da fermo l'unico elemento continuo
è l'arco che il sole percorre salendo e scendendo dalla sinistra alla destra». (R III, p.
96). Il soggetto è pertanto indotto a «far coincidere l'aprico con l'esistenza del
mondo». Tuttavia emerge poco a poco il sentore che un altro lato del mondo si apre
alle sue spalle:

Chiamasi «opaco», – nel dialetto: «ubagu», – la località dove il


sole non batte, – in buona lingua, secondo una più ricercata
locuzione: «a bacìo»; – mentre è detta «a solatìo», o «aprico», –
«abrigu», nel dialetto, – la località soleggiata. Essendo il mondo
che sto descrivendo una sorta d'anfiteatro concavo a mezzogiorno
e non essendo in essa compresa la faccia convessa dell'anfiteatro,
presumibilmente rivolta a mezzanotte, vi si riscontra di
conseguenza l'estrema rarità dell'opaco e la più ampia estensione
d'aprico. (R III, p. 98).

Il «rovescio» opaco è un territorio di nebbie che si distende dietro al soggetto, un


intrico di boschi e torrenti in cui ci si inerpica su per dirupi, poi si ridiscende nel
folto – un universo che si pone aldilà della cognizione e del controllo razionale. Una
presenza perturbante, sebbene di «estrema rarità». L'opposizione fra la luce e
l'ombra ha lo stesso valore assiomatico notato nel Discours: l'oscurità coincide con il
disorientamento della coscienza nel labirinto aggrovigliato del «fondovalle»,
mentre l'aprico corrisponde al mondo visto dall'alto dove le figure si dispongono

55 Ibidem, p. VII.

40
chiare e nette grazie all'apporto luminoso della ragione. Come nota Ossola «il
visivo è un aspetto della forma e la forma è […] il luogo della conoscenza». 56
Dall'opaco, tuttavia, non è un recupero sereno e fiducioso delle speranze dei
redattori dell'Encyclopédie, il tono dell'osservatore ha una cadenza più incerta e
cauta:

«D'int ubagu», dal fondo dell'opaco io scrivo, ricostruendo la


mappa di un aprico che è solo un inverificabile assioma per i
calcoli della memoria, il luogo geometrico dell'io, di un me stesso
di cui il me stesso ha bisogno per sapersi me stesso, l'io che serve
solo perché il mondo riceva continuamente notizie dell'esistenza
del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c'è.
(RR III, p. 101.)

La possibilità di conoscenza è più precaria, forse «inverificabile». L'io è un


diaframma fra i due versanti, uno spiraglio – breve, effimero – nella naturale e
opaca incoscienza delle cose. Grazie a questo baluginio di consapevolezza l'universo
può «sapere se c'è»: da ammasso di materia può essere tradotto in una forma
linguistica ipotetica, organizzata dall'elaborazione dell'intelletto. Nella precarietà
sempre più angosciante questo è «l'ubi consistam» di Calvino, «il suo de natura
rerum […]: parlo e scrivo, dunque sono!».57
In Dall'opaco l'attrito fra l'oggettività materiale del mondo e il lavorio della
coscienza si presenta in veste simbolica, ma il ragionamento sulle condizioni della
conoscenza non è nuovo allo scrittore ligure. Nell'intervento del 1960 sul Menabò, il
Mare dell'oggettività, Calvino accenna una valutazione dei movimenti artistici
contemporanei e denota la tendenza sempre più diffusa ad abbandonarsi alla natura
materica ed informe, eleggendo a criterio poetico lo «sprofondamento» nel
«brulicante», nel «folto» e nel «labirintico». In opposizione alla continuità
dell'informale Calvino si auspica uno scarto di coscienza, una resistenza che si
aggrappi ancora al «distacco storico»: «il momento che vorremmo scaturisse […] è

56 C. Ossola, Calvino: la simmetria, il residuo, cit., p. 31.


57 M. Boselli, “Ti con zero” ovvero la precarietà del progetto, cit., p. 148. È da notare che le parole di
Boselli precedono da due anni la pubblicazione dei Dall'opaco.

41
pur sempre quello della non accettazione della situazione data, dello scatto attivo e
cosciente, della volontà di contrasto, della ostinazione senza illusioni». (S I, p.60).
La sfida al labirinto è il titolo di un intervento posteriore di due anni, ma è anche la
formula più felice per tenere insieme la tradizione della modernità – non è un caso
che la topologia del labirinto appaia in Galileo come in d'Alembert – e rilanciare nel
cuore del Novecento l'aspirazione a una resistenza critica. Elaborando un nuovo
bilancio delle avanguardie contemporanee lo scrittore ribadisce il suo sostegno alla
«linea razionalista» dei movimenti poetici: la razionalità e il rigore metodologico
sono ancora le vie più sicure per far fronte alla liquefazione del sapere e dei
linguaggi perché «quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più
particolareggiata possibile». Tuttavia lo scrittore argomenta con maggiore cautela
poiché è consapevole che le ricerche sull'entropia in ambito scientifico e l'aumento
della complessità nella civiltà degli anni Sessanta sono sintomi di una crisi dei
modelli formali usuali e delle tradizioni politiche correnti. Nelle ultime pagine
Calvino sospende le ambizioni della ragione e riconosce che «la mappa
particolareggiata» è più un orizzonte a cui aspirare che una possibilità concreta. Per
il presente egli si limita a postulare un'etica volontaristica che possa resistere al
magma e alla fluidità: «è la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura
della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della
resa al labirinto». (S I, p. 122).
Nei due decenni successivi gli orientamenti culturali ed epistemologici sono
tutt'altro che stabili, i cambi di paradigma e i rivolgimenti si susseguono a velocità
accelerate, la società dell'informazione aumenta il rumore di fondo e s'espande una
«peste del linguaggio», tuttavia in Calvino permane costante il desiderio di far
fronte alla frammentazione delle conoscenze e degli assetti sociali: egli non si
risolve mai a dismettere un'etica della resistenza e dello scarto dal magma. Un
intervento tenuto negli Stati Uniti nel 1983, Mondo scritto e mondo non scritto, è la
migliore testimonianza di tale coerenza. Fin dalle prime pagine Calvino individua
due tendenze culturali e filosofiche di rilievo nel corso del Novecento. Una ha la sua
base a Parigi e l'altra a Praga: da una parte lo strutturalismo che ha dominato la
scena degli anni Sessanta, dall'altra la tradizione analitica inaugurata da

42
Wittgenstein e dal Circolo di Vienna. «La prima dice: il mondo non esiste; esiste
solo il linguaggio. La seconda dice: il linguaggio comune non ha senso; il mondo è
ineffabile. Secondo la prima, lo spessore del linguaggio si erge al di sopra d'un
mondo fatto d'ombre; secondo la seconda, è il mondo a sovrastare come una muta
sfinge di pietra un deserto di parole come sabbia trasportata dal vento». (S II, 1867)
Nella argomentazione di Calvino entrambe le tradizioni rischiano di assumere una
posizione univoca: tutto è linguaggio, e il mondo ne è una secrezione; oppure esiste
solo il mondo, chiuso nel suo silenzio. Lo scrittore recupera, invece, una posizione
dualistica grazie a cui sia possibile contrapporre la parola cosciente alla presenza
silente di un mondo esterno: «oggi siamo in grado d'evitare molte confusioni tra ciò
che è linguistico e ciò che non lo è, e così possiamo vedere chiaramente i rapporti
che intercorrono tra i due mondi». (S II, p. 1868). I due mondi, come da titolo, si
distinguono in «non scritto» e «scritto»: la scrittura è ancora la via difficile d'una
transizione fra l'opaco e l'aprico. La «sfida» decisiva da accogliere è quella di
descrivere il «groviglio» impiegando un «linguaggio che sembri tanto trasparente
da creare un senso di allucinazione»: una poetica dello straniamento giocata sulla
distanza fra il soggetto e le cose. Accanto alle scelte stilistiche e narrative emerge
infine una presa di posizione di carattere teoretico:

credo che sempre scriviamo di qualcosa che non sappiamo:


scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi
attraverso di noi. Nel momento in cui la mia attenzione si sposta
dall'ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile
complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento
vicino a capire che dall'altro lato delle parole c'è qualcosa che
cerca di uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio,
come battendo i colpi su un muro di prigione. (S II, p. 1875).

6. I livelli di realtà.

La frattura simbolica nel paesaggio ligure divide la materia magmatica – l'invisibile,


quanto ancora non sappiamo – dai significati visibili dischiusi dalle parole. È la

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scrittura a tradurre l'opaco in aprico: i segni emergono dal silenzio, le forme
modellano l'oscuro brulichio, il labirinto assume i tratti della mappa. Nelle frasi di
Calvino vi è la parvenza di una teoria della conoscenza. In una lettera del 1969 a
Mario Bosellli, Calvino confessa la sua vicinanza a Popper: «l'epistemologo che più
mi ha convinto».58 È un indizio fecondo, questo, per studiare i legami che Dall'opaco
intrattiene con il dibattito epistemologico contemporaneo.
In Dall'opaco l'io congettura la forma del mondo «in assenza del mondo», ovvero
per astrazione deduttiva. Popper in Scienza e filosofia coglie nel «punto di vista
galileano» una delle nobili origini del metodo deduttivo che ha dominato la scienza
nella modernità59: «la tradizione inaugurata da Galileo fu la rinascita [del pensiero
razionale]».60 Per concepire il nuovo modello lo scienziato italiano «ha osato andare

58 I. Calvino, Lettera a Mario Boselli, 23.10.1969, in Id., Lettere 1940-1985, cit., p. 1062.
59 La relatività galileiana prevede che un moto inerziale non sia percepibile da parte di un
osservatore posto all'interno dell'oggetto in movimento, come afferma Salviati nel Dialogo: «sia
dunque il principio della nostra contemplazione il considerare che qualunque moto venga attribuito
alla Terra, è necessario che a noi, come abitatori di quella ed in conseguenza partecipi del medesimo,
ei resti del tutto impercettibile e come s'e' non fusse, mentre che noi riguardiamo solamente alle cose
terrestri». G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Id., Opere, volume secondo, a
cura di Franz Brunetti, Mondadori, Milano 2008, p. 149. Questo spiega perché apparentemente i
corpi cadono al suolo in linea retta, e non secondo un moto obliquo. Dunque non ci si può affidare ai
sensi perché sono ingannevoli, e come ingannano sul moto dei corpi così ci fanno credere che sia il
sole a girare intorno al globo terrestre. Di nuovo Salviati: «oh io non vorrei dedur precetti più utili e
più sicuri, imparando ad esser più circospetto e men confidente circa quello che a prima giunta ci
vien rappresentato dai sensi, che ci possono facilmente ingannare; […] Meglio è dunque che, deposta
l'apparenza, nella quale tutti conveghiamo, facciamo forza co 'l discorso, o per confermar la realtà di
quella, o per iscoprir la sua fallacia». (Ibidem, p. 316.) Dunque lo spettatore interno al sistema deve
immaginare la Terra come se egli si trovasse al di fuori del globo: «l'abitante» deve fare astrazione
della sua posizione e congetturare nella sua mente un modello di spiegazione cosmologico. Sui
procedimenti astratti della fisica galileiana che pone i corpi «dans l'irréel de l'espace géométrique» si
veda A. Koyré, Études galiléennes, Hermann, Paris 1966. Tale modello va poi applicato ai dati. Da qui
il privilegio per il procedimento deduttivo accordato da qualunque impostazione che assuma la
separazione fra coscienza e realtà come fondamento della ricerca. Come Salviati rimprovera a
Simplicio, è necessario osservare «non con l'occhio della fronte», ma «con quel della mente». (G.
Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, cit., p. 184). Eppure per Galileo il linguaggio
matematico fa parte della natura, si trova al suo interno e le leggi della fisica non sono solo
convenzioni. Da qui sorge una complessissima tensione fra l'astrazione e la descrizione delle
irregolarità e le imperfezioni della natura. Tale contraddizione è stata individuata da Koyré nel suo
capitolo sulla legge di inerzia: Galileo, seppur deduttivo e “platonico”, «il n'a pas su, ou pu, ni
s'affranchir du fait, ni accepter la consequence inévitable de la mathématisation du réel». (A. Koyré,
Études galiléennes, cit., p. 211). Questa dialettica fra il sistema formale dei segni e le occorrenze
singolari del mondo naturale avvicinano ancora di più lo scienziato a Calvino; e in fondo la tensione
fra lo schema della rappresentazione e l'irriducibilità degli oggetti naturali è il movimento che dà
vita anche a queste pagine critiche. Per una valutazione del dibattito contemporaneo a proposito del
platonismo di Galilei è molto chiaro l'articolo di De Caro: M. De Caro, Galileo e il platonismo fisico-
matematico, in R. Chiaradonna, Il platonismo e le scienze, Carocci, Roma 2012, pp. 119-138.
60 K. R. Popper, Scienza e filosofia, in Popper, Mondadori, Milano 2008, p. 590. Il dibattito sull'apporto
di Galileo all'impostazione metodologica della scienza moderna ha prodotto un'ampia bibliografia e

44
oltre il mondo noto dei nostri sensi» e ha privilegiato una distanza critica dai
fenomeni, così da rendere possibile l'astrazione e «la conquista del mondo da parte
della nostra mente».61 La separazione fra il pensiero e la realtà esterna domina
questa impostazione: la mente elabora mappe e schemi interiori e ne pondera il
valore grazie al confronto con i dati provenienti dal fuori. Ogni nuovo modello
immaginato dal pensiero accresce la cognizione umana perché ogni teoria è una
rappresentazione sempre più raffinata del cosmo e non solo un sistema di calcoli
funzionale all'istituzione di predizioni valide.
Ogni nuova deduzione scientifica, secondo Popper, sorge dall'esigenza di descrivere
aspetti del mondo prima invisibili. La convinzione secondo cui «molto ci è
nascosto, e che molto di ciò che è nascosto può essere scoperto» riecheggia in un
appunto di Calvino: «il mondo come oggetto visivo. Gli occhi, i nostri occhi, come
strumento attraverso cui il mondo si vede. […] Il mondo non è un panopticon ma
un pancripticon. Non il nascosto occulto (viscere, segreto) ma il nascosto con
intenzione d'essere trovato (tracce, tesoro nascosto)». (R III, p. 1215). 62 Secondo

ha impegnato filosofi e storici del pensiero scientifico. In questa sede è di vitale importanza citare i
lavori di Giorgio De Santillana, docente in storia della scienza al MIT di Chicago a partire dalla fine
del conflitto americano. Oltre a una monografia sul processo a Galilei (The crime of Galileo, Chicago
University Press, Chicago 1955) ha curato e introdotto l'edizione anglosassone del Dialogo sopra i
massimi sistemi (“Historical Introduction”, in G. Galileo, Dialogue on the great world systems,
Chicago University Press, Chicago 1953, pp. xi-lii) e ha introdotto la versione anglosassone della
monografia di Geymonat sullo scienziato toscano (L. Geymonat, Galileo Galilei: A Biography and
Inquiry Into His Philosophy of Science, McGraw-Hill, New York 1965). Nei primi anni Sessanta
Calvino viaggerà attraverso gli Stati Uniti e in quell'occasione sarà accolto proprio da De Santillana,
i cui studî sulle conoscenze astronomiche arcaiche avranno una profonda influenza sulle
Cosmicomiche e sulle Città invisibili (si veda G. De Santillana e H. Von Dechend, Il mulino di Amleto.
Saggio sul mito e la struttura del tempo, Adelphi, Milano 2007). Calvino, poi, introdurrà negli anni
Ottanta le principali opere dello storico e scienziato tradotte in italiano. L'articolo apparve sulle
colonne di “la Repubblica”, ora raccolto nei saggi: Fato antico e fato moderno di Giorgio de
Santillana, in I. Calvino, Saggi, cit., pp. 2085-2091. (Il saggio è oggi disponibile nell'ultima edizione
Adelphi: G. De Santillana, Fato antico e fato moderno, Adelphi, Milano 2004). È lecito supporre che fu
De Santillana a sollecitare l'approfondimento sugli scritti di Galileo. Calvino in ogni caso tornerà in
più occasioni su Galileo; oltre agli interventi citati in precedenza va ricordato un articolo su un
saggio di Pietro Redondi incentrato sulla storia del processo a Galileo e sul pensiero religioso dello
scienziato: Pietro Redondi, Galileo eretico, in I. Calvino, Saggi, cit., pp. 2077-2084. Importantissime le
ultime frasi dell'articolo che citano l'ipotesi di Redondi secondo cui Cartesio sarebbe stato un segreto
lettore di Galileo. Cartesio «sviluppa le idee di Galileo senza mai citarlo, ed evita le trappole
teologiche e i guai dei cui retroscena è perfettamente al corrente». Ibidem, p. 2084. Sul rapporto fra
Galileo e Cartesio,e in particolare sul tentativo da parte del primo di coniugare l'astrazione
matematica con la fisica reale, si vedano i già citati Études galiléennes di Koyré.
61 K. R. Popper, Scienza e filosofia, cit., p. 591.
62 Si tratta di una nota scritta per l'ipotesi di racconto sulla visibilità da inserire nella serie dei
cinque sensi. L'appunto è trascritto da Milanini nell'apparato di note del terzo Meridiano.

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Popper la scoperta scientifica porta alla luce un nuovo strato di senso prima
impercepibile: «i livelli più alti e più congetturali sono i più reali, e proprio a
dispetto del fatto che sono più congetturali». 63 Da un livello di complessità all'altro,
ogni congettura deve essere «dotata di un grado di universalità più alto», 64 ma
senza dimenticare che «non siamo onniscienti» e che «non c'è dubbio che molto è
reale, che nessuno di noi conosce». 65 Ogni passo avanti nell'aprico – confessa
l'osservatore che guarda il paesaggio con l'occhio della mente – è in realtà un
ritrarsi nell'opaco.66
Scienza e filosofia è uscito per la prima volta in Italia nel 1969 in una edizione
Einaudi. È legittimo inferire che le considerazioni sui livelli istituiti dalla congettura
scientifica abbiano influenzato lo scrittore. Nel 1978 Calvino tiene un intervento sui
«livelli della realtà in letteratura», studiando le diverse frontiere o soglie che
frammentano il testo al suo interno: cornici narrative, mises en abyme, racconti
indiretti che aprono sempre nuovi strati di significazione. L'argomentazione critica
di Calvino adatta alla letteratura – mediante l'apporto delle teorie semiotiche – la
cognizione di un universo costituito da strati, fratture e scarti differenziali. 67 Ne
consegue che il rinvenimento di un nuovo livello permette di osservare gli strati
sottostanti da una posizione privilegiata ed esterna, consentendo un maggior grado
di astrazione. Sebbene la riflessione verta principalmente sui livelli interni al testo,
rimangono interessantissime ai fini di questo studio le note su un livello primario e
fondativo, quello dove il testo scritto si separa dall'universo non scritto:

63 K. R. Popper, Scienza e filosofia, cit., p. 613, corsivo dell'autore.


64 Ibidem, p. 628.
65 Ibidem, p. 615.
66 Boselli dimostra di essere lettore acuto anche nell'analisi di Dall'opaco: «nei suoi testi (e in modo
speciale in Dall'opaco) l'immagine è lo spazio dove linguaggio poetico e linguaggio scientifico
mostrano di essere complementari, di completarsi a vicenda. Essa è il risultato di tale
complementarità applicata alla logica delle ipotesi delle relazioni fra gli oggetti e ha uno dei suoi
probabili moventi nell'epistemologia cosmogonica di Karl Popper, che Calvino ha chiaramente
meditato nella necessità drammatica “di imparare qualcosa sull'enigma della conoscenza che l'uomo
ha di questo mondo” al di là di ogni “sistema di asserzioni certe o stabilite una volta per tutte” al cui
posto c'è una quantità imponderabile di “ipotesi azzardate, di anticipazioni affrettate e premature, di
pregiudizi”». M. Boselli, Italo Calvino: l'immaginazione logica, Nuova corrente, XXVI, n. 78, 1979, p.
140.
67 Chiara, in questo senso, l'analisi in Cibernetica e fantasmi, sebbene, forse, la definizione vada
attribuita soprattutto alla poetica letteraria dello scrittore: «il processo in atto oggi è quello d'una
rivincita della discontinuità, divisibilità, combinatorietà, su tutto ciò che è corso continuo, gamma di
sfumature che stingono una sull'altra». (S I, p. 210).

46
«Io scrivo». Questa affermazione è il primo e solo dato di realtà
da cui uno scrittore può partire. «In questo momento io sto
scrivendo». […] Stabiliamo dunque che l'affermazione «Io scrivo»
serve a fissare un primo livello di realtà che devo tener presente
in forma esplicita o implicita per ogni operazione che metta in
rapporto livelli diversi di realtà scritta e anche cose scritte e non
scritte. (S I, pp. 383-384).

Il primo livello è una «piattaforma» da cui discendono tutti gli altri. La stessa
frattura originaria ritorna simbolicamente nella linea di faglia che divide il
paesaggio ligure in aprico e opaco: la coscienza dell'«io scrivo», seppur sia un
assioma inverificabile, traccia il confine differenziale, l'incongruenza fra le parole e
le cose, fra l'universo e l'osservatore solitario.68
Dall'opaco, come si è cercato di dimostrare, è un'immagine letteraria in dialogo con
i dilemmi epistemologici che negli stessi anni appassionano la filosofia e la storia
della scienza. Una prova a posteriori di tale relazione fra immaginazione letteraria e
modelli conoscitivi si conserva nella recensione del 1980 a un saggio di storia della
scienza uscito in Francia l'anno precedente: La nouvelle alliance, scritto dal premio
Nobel di chimica Ilya Prigogine e dalla collaboratrice belga Isabelle Stengers. I due

68 La tesi è in accordo con le argomentazioni di Francesca Serra quando dimostra nel suo saggio
come «Calvino col suo stesso puntare sul fatto che lo statuto di non-realtà della letteratura non
condiziona l'esistenza della realtà stessa, poiché i due piani vanno accuratamente scissi, faccia
decadere in sostanza il punto cruciale dell'argomentazione nominalistica che è quello appunto di
un'indistinzione fra finzione e realtà, e lasci quindi aperta, consapevolmente o no, la porta all'idea di
base, almeno come presupposto di confronto, di una consistenza oggettiva della realtà al di fuori
della letteratura». F. Serra, Calvino e il pulviscolo di Palomar, Le Lettere, Firenze 1996, pp. 194-195. La
tesi qui sostenuta pertanto non può concordare con l'interpretazione “monistica” di Antonello: «la
forma binaria, oppositiva che Calvino ha visibilmente disseminato in tutta la sua opera, non lo
esaurisce, anzi lo misinterpreta. La polarità è solo la prima mossa, lo scenario di partenza […].
L'uomo parla come cosa fra le cose, natura naturata, continuità della materia ovvero emergenza dei
processi cognitivi all'interno delle dinamiche autopoietiche degli organismi biologici. E il riverberare
di questa continuità uomo-natura, paesaggio biotico-minerale e esperienza storica, si propaga fin dai
primissimi lavori». P. Antonello, L'entropia del cristallo, in M. Belpoliti (a cura di), Italo Calvino, Riga
9, cit., p. 215. Anche le proposte critiche avanzate da Porro sono inaccettabili: «il reale è un universo
di segni, disegni e forme, che si trasmettono, si conservano, si trasformano e scompaiono: è su
questo sfondo informazionale e cibernetico, in cui realtà fisica, biologica, umana e tecnologica si
stringono attraverso il modello del linguaggio, che si opera la con-fusione fra pagina e natura. […]».
Secondo tale prospettiva lo stile cristallino di Calvino tenderebbe «a confermare la continuità
sempre cercata con la natura». M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, in M. Belpoliti (a cura
di), Italo Calvino, cit., pp. 271-272.

47
autori individuano uno scarto epocale nella storia del pensiero scientifico: alla
scienza classica nata nel Seicento e fondata sulla dinamica del moto si oppone una
spiegazione del mondo di ordine termodinamico dove vige la dissipazione
dell'energia, il caos delle particelle e l'irreversibilità dell'entropia. L'approccio che fu
di Galileo e poi di Newton e Laplace presupponeva un punto di vista esterno su un
universo stabile e ordinato: l'osservatore doveva astrarre dalla natura le regole
basilari e dedurre l'universale sistema del cosmo e di conseguenza considerava sé
stesso come un'eccezione cosciente al cospetto di una natura estranea, silenziosa e
immutabile. La scienza nata con la termodinamica, invece, intende spiegare lo
squilibrio dei sistemi e la generazione di eventi imprevedibili e instabili quali la
formazione di organismi pluricellulari e l'evoluzione di esseri senzienti. Il soggetto
osservatore diventa dunque parte integrante di un universo caotico in espansione, è
«situato nel mondo fisico», e non ha più il privilegio di osservare a distanza un
modello cosmico in equilibrio permanente: si stabilisce finalmente una «nuova
alleanza» fra il mondo naturale e i suoi abitanti. Calvino espone con precisione i
contenuti del saggio ma si sofferma in particolare sulla prima parte, quella dedicata
alla scienza classica: «tra i più bei capitoli del libro sono quelli sulla rivoluzione
newtoniana e la nascita della scienza moderna». (S, p. 2040). La citazione più lunga
riportata dallo scrittore è tratta dalla sezione su Newton, Laplace e il meccanicismo
cosmologico:

Le monde de Laplace, comme celui auquel aspirait Einstein, est un


monde simple et limpide, sans ombre, sans épaisseur, […]
l'homme, et tant que habitant, participant à un devenir naturel, y
est inconcevable; […] il a également disparu, il s'est résorbé
jusqu'à n’être plus que un point: la conscience connaissante qui
contemple un monde livré et sans mystère. Mais ce point, lui, est
un résidu d'une opacité totale. Il est dans l'obscurité impénétrable
qui constitue le corrélat logique d'un monde totalement éclairé
parce que sans relief, point hors du monde, source inconnaissable
de lumière.69
69 I. Prigogine, I. Stengers, La nouvelle alliance. Métamorphose de la science, Gallimard, Paris 1979, p.
131. Calvino cita la traduzione italiana in I. Calvino, S, p. 2041.

48
A distanza di dieci anni ritornano gli accenni alla luce e alla superfici sospese su un
vortice di oscurità. Dalle note di Prigogine e Stengers sulla scienza classica si
sprigiona nuova linfa per un dialogo ritrovato fra immagini letterarie e metafore
della scienza.70
Calvino è uno scrittore pensante, restio ad abbandonarsi all'istinto e all'incoscienza;
è quindi comprensibile che dal rigoroso procedere della sua poetica emerga, fra
saggi critici e racconti deduttivi, un abbozzo di teoria della letteratura e un dialogo
con i paradigmi epistemologici della modernità occidentale. Ma l'interpretazione del
pensiero di uno scrittore è fruttuosa se in ultima istanza ritorna al testo e si
concentra sui fenomeni narrativi, sintattici e stilistici, senza ricostruire un ipotetico
disegno teoretico autonomo.71 È necessario dunque comprendere quali effetti
letterari produca il dualismo fra aprico e opaco. Alcune risposte potranno essere
argomentate nelle pagine a venire, altre – di ordine stilistico – sono già state
avanzate e ora possono essere formulate con maggiore chiarezza. Dall'opposizione

70 Proprio nel 1971 esce la traduzione italiana dei saggi e degli interventi di Albert Einstein. In La
ricerca scientifica lo scienziato evoca la visione d'un paesaggio colto dall'alto per esemplificare il
nesso che sussiste fra la contemplazione e la ricerca scientifica: «io credo con Schopenhauer che
l'impulso più potente che spinge [gli uomini contemplativi] verso l'arte e la scienza è il desiderio di
evadere dalla vita d'ogni giorno con la sua dolorosa crudezza e il suo vuoto senza speranza di
sfuggire alle catene dei desideri individuali più sensibili fuori del loro io individuale, verso il mondo
della contemplazione e del giudizio obiettivo. Questo impulso è paragonabile al desiderio ardente
che attira irresistibilmente i cittadini fuori dal loro ambiente bruciante e confuso verso le placide
regioni d'alta montagna, dove lo sguardo si perde dolcemente lontano attraverso la calma e la
purezza dell'atmosfera e accarezza contorni riposanti che sembrano creati per l'eternità. Ma, a
questo movimento, se ne aggiunge un altro positivo. L'uomo cerca, in maniera adeguata alle sue
esigenze, di formarsi un'immagine del mondo, chiara e semplice,e di trionfare così sul mondo della
esistenza sforzandosi di rimpiazzarlo, in una certa misura, con questa immagine. È così che
agiscono, ciascuno a suo modo, il pittore, il poeta, il filosofo speculativo, il naturalista. Di questa
immagine e della sua conformazione, egli fa il centro di gravità della sua vita sentimentale allo scopo
di cercarsi la calma e la solidità che gli sfuggono nel cerchio troppo stretto della sua esistenza
personale e vorticosa». A. Einstein, Come io vedo il mondo, Bottega del libro, Bologna 1971, pp. 63-
65.
71 Recentemente è uscito un saggio sul “metodo” di Calvino: D. Calcaterra, Il secondo Calvino. Un
discorso sul metodo, Mimesis, Milano 2014. Le tesi principali avanzate concordano con quanto
sostenuto qui: il discreto è il fondamento epistemologico ed esiste una discrasia fondamentale fra
mondo scritto e mondo non scritto. Notevole anche l'acutezza nell'individuare i legami fra le visioni
di Palomar e le argomentazioni contenute ne Il saggiatore di Galileo. Non si può invece concordare
con l'orizzonte complessivo del saggio, poiché esso si arresta alla sola ricostruzione di una
epistemologia di Calvino, ovvero del suo “discorso sul metodo”. Qualora si intenda leggere Calvino
come filosofo, è probabile che emergano alcune contraddizioni e che, alla prova dei fatti, il pensiero
non abbia particolare rilevanza entro il contesto della riflessione filosofica moderna. Meglio allora
ricordarsi che Calvino non era epistemologo di professione, ma uno scrittore.

49
originaria – fra il linguaggio e il fluire delle cose, fra la coscienza e la materia –
discende la possibilità di disegnare sulla pagina un reticolo di immagini come
modelli ipotetici del mondo. Poiché le immagini sono discernibili solo grazie a un
nuovo contrasto, quello fra lo sfondo bianco del piano e il nero emergente delle
lettere, la scrittura oscilla dalla rarefazione all'intensità, e viceversa: è una tensione
mobile in cerca di una forma. Lungo le estremità assolute del bianco e del nero la
scrittura perde di definizione: svanisce la forma risucchiata dal mare
dell'oggettività, si sgretola la coscienza origine di ogni discontinuità. L'«io scrivo»,
per non smarrirsi, non può avventurarsi nel bianco continuo dell'orizzonte marino,
né può discendere nell'intrico materico dell'opacità caotica. Solo entro i limiti del
contrasto differenziale la scrittura può evocare quanto vi è di ancora informe e in
silente attesa.72 In Dall'opaco Calvino traduce poeticamente – e in forma di
paesaggio – le tensioni stilistiche e sintattiche emerse durante la redazione delle
prose degli anni Cinquanta e la riflessione saggistica pubblicata su Il Menabò. La
visione in Dall'opaco è un'allegoria difficile del conflitto fra la rarefazione e
l'intensità della scrittura: il dilemma della forma s'adagia sui tracciati del territorio
d'infanzia.

72 Che la scrittura sia un territorio di mezzo, discontinuità fra due infiniti, appare chiarissimo nel
saggio sui livelli di realtà. Prima di arrivare a dimostrarlo, però, è necessario recuperare alcune
considerazioni sul soggetto scrivente. Ammette Calvino che nel gioco di duplicazioni fra narratori e
proiezioni autoriali «il vero primo soggetto dello scrivere ci appare sempre più lontano, più
rarefatto, più indistinto: forse è un io-fantasma, un luogo vuoto, un'assenza» (S I, p. 391). La
considerazione vale per quel soggetto empirico che vive in uno spazio-tempo precedente all'atto
della scrittura. Una considerazione simile appariva già in Cibernetica e fantasmi: «la persona io,
esplicita o implicita, si frammenta in figure diverse, in un io che sta scrivendo e in un io che è
scritto, in un io empirico che sta alle spalle dell'io che sta scrivendo e in un io mitico che fa da
modello all'io che è scritto. L'io dell'autore nello scrivere si dissolve: la cosiddetta “personalità” dello
scrittore è interna all'atto dello scrivere, è un prodotto e un modo della scrittura». (S I, p. 215). L'io,
quindi, è una funzione differenziale che fonda il testo, ma in quanto funzione è un ente vuoto, non
dice nulla sulla persona vivente che si pone sull'altro versante. Ma anche la scrittura tende a
confluire in un vuoto. Alla fine del saggio Calvino evoca il canto delle Sirene ascoltato da Ulisse,
emblema del silenzio ultimo a cui la poesia tende: «l'estremo punto di arrivo della scrittura, il nucleo
ultimo della parola poetica, e forse sulle tracce di Mallarmé arriveremmo alla pagina bianca, al
silenzio, all'assenza». (S I, p. 397). Scriveva Mallarmé in Le mystère dans les lettres: «appuyer, selon la
page, au blanc, qui l'inaugure son ingénuité. À soi, oublieuse même du titre qui parlerait trop haut:
et, quand s'aligna, dans une brisure, la moindre, disséminée, le hasard vaincu mot par mot,
indéfectiblement le blanc revient, tout à l'heure gratuit, certain maintenant, pour conclure que rien
au delà et authentiquer le silence –». (S. Mallarmé, Igitur. Divagations, Un coups de dés, Gallimard,
Paris 2003, p. 288). La scrittura, allora, è una discontinuità fra due vuoti continui. Conclude Calvino
con un periodo che potrebbe essere posto a esergo di queste pagine: «è nel campo di tensione che si
stabilisce tra un vuoto e un vuoto che la letteratura moltiplica gli spessori d'una realtà inesauribile di
forme e di significati». (S, pp. 397-398).

50
Diceva Michelangelo che «tra gli uomini esist[e] una sola arte e scienza», ed è l'arte
di «disegnare e dipingere» e tutte le altre sono «derivazioni», poiché ciascuno
produce ogni giorno «nuove forme e figure» indossando vestiti, costruendo edifici,
lavorando la terra. Il signor Palomar – un Palomar apocrifo mai apparso nel volume
omonimo – è affascinato dalla riflessione di Michelangelo e «crede che non solo
l'uomo tenda a creare e produrre forme e figure, ma pure vi tendano ogni animale e
pianta e cosa inanimata, e così il mondo intero e l'universo, egli considera l'uomo
come uno strumento di cui il mondo si serve per rinnovare la propria immagine di
continuo». (S II, p. 1992). Le forme specifiche dell'uomo sono transeunti, mai
definitive: «fas[i] di approssimazione verso una forma futura». Se è di buon umore,
Palomar pensa che nei disegni lasciati dall'uomo ci sia «non un'astratta violenza ma
una aggiunta necessaria a completare e svelare la forma di ciò che esiste»; ma in
altri momenti «gli pare che la degradazione delle immagini corroda il mondo, che le
cose e le persone non abbiano più la forza d'imporsi alla vista componendosi in
figure precise, ma s'ammucchino alla rinfusa davanti agli occhi». (S II, p. 1992).
Infine, in un rinnovato moto di fiducia, Palomar non esclude che anche nelle visioni
scomposte e caotiche si celi «il disegno segreto, la Forma a cui inconsapevolmente
tende tutta la nostra civiltà e barbarie». Ma l'immagine definitiva accederà mai al
cielo della coscienza umana?

Forse un gigantesco insetto sta guardandoci da lontano


affascinato. La nostra bruttezza rifrangendosi nelle sfaccettature
d'un enorme occhio d'insetto si ricompone in un disegno
d'assoluta perfezione. (S II, p. 1993).

7. L'esaustione dei possibili.

La sfida al labirinto evoca nel finale il desiderio di una letteratura del presente e
dell'avvenire: «oggi cominciamo a richiedere dalla letteratura qualcosa di più d'una
conoscenza dell'epoca o d'una mimesi degli aspetti esterni degli oggetti o di quelli
interni dell'animo umano. Vogliamo dalla letteratura un'immagine cosmica». (S I, p.
123). L'idea di una vocazione cosmologica della letteratura appare con una certa

51
costanza negli scritti di Calvino, ma l'ambizione di disegnare un catalogo completo
del mondo deve confrontarsi con la resistenza dell'opaco: l'immagine letteraria non
può ambire alla totalità perché dietro a ogni schema luminoso esiste un versante
d'ombre immerso nel silenzio. Tuttavia l'obiezione critica non soffoca l'anelito a
una rappresentazione esaustiva dell'esistente.
Nella conferenza del 1967 pubblicata con il titolo Cibernetica e fantasmi Calvino
delinea quali possibili effetti critici e creativi possano scaturire dal confronto fra la
letteratura, la logica combinatoria e le recenti teorie dell'informazione. Il modello
degli scontri atomici lucreziani, oltre ad alimentare le fantasie pulviscolari, induce
anche una riflessione di ordine logico-matematico: se un sistema dispone di una
serie di elementi limitati e di regole definite, allora è possibile produrre un numero
considerevole ma non infinito di soluzioni. Calvino non è attratto dalla velleità di
aggiornare la letteratura e di adeguarla alle discipline in voga, ma è interessato a
un'ipotesi più profonda e decisiva, di natura antropologica: un approccio
combinatorio alla letteratura potrebbe forse concedere una migliore comprensione
dei processi mitopoietici che dalla notte dei tempi caratterizzano l'attività umana. 73
Nelle prime tribù «il numero delle parole era limitato» e gli uomini spiegavano il
mondo multiforme con un «numero finito di suoni variamente combinati». (S, p.
205) Il primo narratore iniziò a combinare una parola con l'altra «per dedurre una
spiegazione del mondo dal filo d'ogni discorso-racconto possibile, dall'arabesco che
nomi e verbi, soggetti e predicati, disegnavano diramandosi gli uni dagli altri». (S,
p. 206). Il procedimento narrativo costruisce una spiegazione del mondo a partire

73 La necessità di osservare la letteratura da un punto di vista antropologico, rilevando i rapporti


che legano le narrazioni e la formazione della civiltà, diede l'avvio di un progetto di rivista che fra il
1968 e il 1972 coinvolse Calvino, Gianni Celati, Guido Neri, Enzo Melandri, Carlo Ginzburg. Si legge
dai protocolli redatti da Celati nel gennaio del '69 e in parte già citati nell'introduzione a questa tesi:
«1.5 Diviene necessaria la letteratura come luogo di significati e di forme che non valgono solo per
la letteratura; con altri termini: come luogo dei fondamenti mitici dell'operare umano. 1.6. Se il mito
non è inteso al modo romantico come fabulazione fascinatoria e derealizzante, ma nell'accezione che
si è venuta imponendo con l'antropologia moderna (soprattutto con Lévi-Strauss), come cosmologia,
e quindi come classificazione dei ruoli della prassi e dei punti di riferimento del reale, assolve alla
funzione di denominatore comune delle esigenze che la prassi promuove; è l'energetica primaria che
pervade non solo il discorso letterario, ma anche quello politico ed ogni forma di discorso umano,
compreso quello scientifico». G. Celati, Protocollo d'una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968
da Italo Calvino, Gianni Celati e Guido Neri, in I. Calvino, G. Celati, C. Ginzburg, E. Melandri, G.
Neri, «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972, cit. Se esisteva un orizzonte comune, non
altrettanto comuni erano le strade per giungervi. La combinatoria applicata ai sistemi e gli interessi
semiotici di Calvino, ad esempio, si riveleranno estranei alla sensibilità di Celati.

52
da un sistema di regole e «strutture fisse» – una «grammatica», come direbbe
Galileo – definito in precedenza. Il patrimonio di miti, narrazioni e fiabe potrebbe
quindi essere formalizzato in una serie di costanti. Da una simile ipotesi può
derivare una conseguenza estrema: se si individuano tutti gli elementi e tutte le
regole del sistema è possibile realizzare la sua esaustione. La nostra mente «è una
scacchiera» e potenzialmente può sviluppare tutte le «possibili mosse» e tutte la
partite immaginabili. Eppure il nostro tempo è limitato e «neppure in una vita che
durasse quanto l'universo s'arriverebbe a giocarne tutte le partite possibili».
Nondimeno l'esaustione delle combinazioni è una eventualità interna al sistema di
regole, è prevista dalle sue leggi: «ma sappiamo che tutte le partite sono implicite
nel codice generale delle partite mentali, attraverso il quale ognuno di noi formula
di momento in momento i suoi pensieri, saettanti o pigri, nebulosi o cristallini». (S,
p. 210).74 È sufficiente «dissolvere» la personalità dell'autore e spostare l'attenzione
sulla «macchina letteraria» per avvalorare la descrizione della letteratura come
campo combinatorio coerente, regolato da costanti e potenzialmente finito.
«L'immagine cosmica» auspicata da Calvino è strettissima parente della Biblioteca
di Borges.
La passione per la formalizzazione ha coinvolto lo scrittore fin dalla raccolta delle
fiabe italiane – attraverso la mediazione del formalismo russo e di Propp – e
influisce anche sui racconti degli anni Cinquanta. Scrive nella Nota introduttiva agli
Amori difficili che «costruendo una novella (cioè stabilendo un modello di relazioni
tra funzioni narrative), lo scrittore mette in evidenza il procedimento logico che
serve agli uomini per stabilire relazioni anche tra i fatti dell'esperienza». (R II, p.
1291). La «macchina della letteratura» presenta due analogie con i dispositivi
preposti ad organizzare «i fatti dell'esperienza»: funziona grazie a un catalogo di
elementi appartenenti a un modello coerente e finito; ogni espressione significante
sottende una logica che ordina le relazioni fra le parti e le combinazioni interne. Il
rapporto fra la letteratura come «immaginazione logica» 75 e la scienza si riassume
74 La metafora degli scacchi apre la riflessione su Filosofia e letteratura, e con la stessa funzione
significante: «lo sguardo dei filosofi […] riduce la varietà dell'esistente a una ragnatela di relazioni
tra concetti generali, fissa le regole per cui un numero finito di pedine muovendosi su una
scacchiera esaurisce un numero forse infinito di combinazioni». (S, p. 188).
75 Nel concetto di “immaginazione logica” sono presenti almeno due riferimenti critici. Il primo è
relativo al già citato saggio di Boselli: L'immaginazione logica. L'altro a un intervento critico di

53
si spiega a partire da tali corrispondenze.
Ne Il castello dei destini incrociati Calvino ha messo alla prova le ipotesi avanzate in
sede teorica. Fra la fine degli anni Sessanta e l'inizio del decennio seguente egli
ricopre la scrivania di tarocchi: il mazzo miniato da Bonifacio Bembo nel XV secolo
è la matrice della prima parte del testo (Il castello dei destini incrociati), mentre i più
comuni tarocchi francesi (L'ancien Tarot de Marseille) ispirano la seconda parte (La
taverna dei destini incrociati). Le carte ospitano personaggi umani (Fante di Bastoni,
Re di Spade...), oggetti raggruppati in serie numeriche (Sette di Denari, Cinque di
Coppe...) e figure eredi dell'iconografia medievale (Il Diavolo, L'appeso...); la loro
disposizione casuale sul piano forma un rettangolo. Lo scrittore percorre i tarocchi
adagiati nel rettangolo e inventa una storia per ogni gruppo di carte. Poiché le file
si incrociano, più storie possono svilupparsi con gli stessi elementi ma ogni volta si
presentano direzioni e ordini di connessione differenti: «il significato di ogni
singola carta dipende dal posto che essa ha nella successione di carte che la
precedono e la seguono; partendo da questa idea, mi sono mosso in maniera
autonoma, secondo le esigenze interne del mio testo». 76 Ogni carta, ovvero
l'elemento minimo alla base di ogni storia, assume un valore definito dalla sua
posizione.
Alla riuscita dell'esperimento si contrappone la resistenza dei personaggi e degli
oggetti a costituire una forma narrativa coerente e a radunarsi in un un significato
unitario: «nel massacro generale le carte si mescolano di continuo». La fiducia nel
dispositivo letterario rischia di tradursi in ossessione: «quello che rimane di me è
solo l'ostinazione maniaca a completare, a chiudere, a far tornare i conti. Ancora mi
manca da ripercorrere due lati del quadrato in senso opposto, e io vado avanti solo
per puntiglio, per non lasciare le cose a mezzo». (RR II, 543-544). Il «puntiglio»
dello scrittore tuttavia non abbandona il sogno di esaurire i possibili: «questo
quadrilatero di carte che continuo a disporre sul tavolo tentando sempre nuovi
accostamenti non riguarda me o qualcuno o qualcosa in particolare, ma il sistema di
François Wahl citato dallo stesso Calvino nella Nota introduttiva agli Amori difficili: «Lo choc del
reale provoca l'apparizione di un'immagine: è ancora il reale ed è già un'altra cosa; l'immagine
traduce un'esperienza, ma significa di più e su un altro piano. Ed ecco che questo simbolo si mette a
vivere; sviluppa una logica sua propria; porta con sé una rete d'avvenimenti, di personaggi; impone
il suo linguaggio». (RR II, pp. 1298-1299).
76 I. Calvino, Nota all'edizione del 1973, in S, p. 1276.

54
tutti i destini possibili, di tutti i passati e i futuri, è un pozzo che contiene tutte le
storie dal principio alla fine tutte in una volta.» 77 Non è un caso che “l'esaustione”,
in francese, sia “l'épuisement”, ovvero, etimologicamente, lo svuotamento del
sotterraneo bacino acquifero, secchio dopo secchio. 78
Simili dilemmi infestano anche la reggia di Kublai Kan. «Ai piedi del trono del Gran
Kan s'estend[e] un pavimento di maiolica» e Marco Polo, informatore prediletto di
corte, mostra al sovrano gli oggetti raccolti in città lontane: «un elmo, una
conchiglia, una noce di cocco, un ventaglio». Gli oggetti, elementi minimi e
differenziati, diventano componenti essenziali del racconto: «disponendo in un
certo ordine gli oggetti sulle piastrelle bianche e nere e via via spostandoli con
mosse studiate, l'ambasciatore cerca[a] di rappresentare agli occhi del monarca le
vicissitudini del suo viaggio, lo stato dell'impero, le prerogative dei remoti
capoluoghi». Anche i reperti de Le città invisibili lasciano intravvedere l'ordine di
un sistema di relazioni: «Kublai [è] un attento giocatore di scacchi» e nota che i
pezzi-mercanzie di Marco possono assumere determinati rapporti fra di loro ed
eseguire mosse precise e regolari sul pavimento di maiolica. Riflette l'imperatore:
«se ogni città è come una partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a conoscerne le
regole possiederò finalmente il mio impero, anche se mai riuscirò a conoscere tutte
le città che contiene» (RR II, p. 461). Kublai Kan non ha più bisogno di inviare
Marco Polo alla scoperta del suo impero poiché ormai è in grado di dedurre tutte le
città esistenti in atto e in potenza, estendendo il suo dominio sulla realtà e
sull'immaginario. La scacchiera, da figura adottata nei saggi per esemplificare l'idea
di una letteratura formale, diventa simbolo topologico di una grammatica
totalizzante: «a forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all'essenza, Kublai
era arrivato all'operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori
dell'impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno
piallato: il nulla...». (RR II, p. 462). Il sogno totale del modello perfetto si converte
nel nulla: all'eccesso di essenzialità rarefatta corrisponde il vuoto.

77 I. Calvino, Note e notizie ai testi, RR II, p. 1374.


78 Nel racconto L'avventura di un fotografo Antonino, colto dalla passione della fotografia, scatta
innumerevoli foto a Bice, la sua donna, fino a frantumarne l'identità in un «pulviscolo di immagini».
Secondo Antonino «la fotografia ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini possibili.» I.
Calvino, L'avventura di un fotografo, RR II, p. 1107.

55
Tuttavia il testo prosegue perché una forma, una leggerissima traccia, emerge sulla
scacchiera e ne interrompe la vuota continuità:

La tua scacchiera, sire, è un intarsio di due legni: ebano e acero. Il


tassello sul quale si fissa il tuo sguardo illuminato fu tagliato in
uno strato del tronco che crebbe in un anno di siccità: vedi come
si dispongono le fibre? Qui si scorge un nodo appena accennato:
una gemma tentò di spuntare in un giorno di primavera precoce,
ma la brina della notte l'obbligò a desistere. […] Ecco un poro più
grosso: forse è stato il nido di una larva; non d'un tarlo, perché
appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d'un bruco che
rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l'albero fu scelto per essere
abbattuto... Questo margine fu inciso dall'ebanista con la sgorbia
perché aderisse al quadrato vicino, più sporgente...
La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di
legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a
parlare dei boschi d'ebano, delle zattere di tronchi che discendono
i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre...(RR II, p. 469)

Una singolarità infrange il piano – griglia formale, schema aprico – e rampollano


informazioni e visioni che silenziose attendevano di emergere alla percezione.
Anche nel centro di Berenice una nuova città nascosta «sta scavando il suo spazio»
per «germogliare in segreto» e finalmente rompere l'involucro superficiale,
espandersi. Forse questi movimenti vanificano l'ambizione di trattenere in forma
d'immagine la mappa generale del cosmo e sembra che «l'edificio della ragione
[abbia] una certa tendenza alla frantumazione».79

8. Il disfacimento in un vortice di frammenti.

In una lettera a Vicari del 1970 – ripubblicata dieci anni dopo in Una pietra sopra –
Calvino volge il pensiero a Cibernetica e fantasmi e ammette che «negli ultimi due
anni» non si sia «mai più sorpreso a pensare a un universo finito e numerabile
79 G. Ficara, Per Italo Calvino, in Id., Stile Novecento, Marsilio, Venezia 2007, pp. 135-136.

56
(idea più che errata, infernale)». La combinatoria vale ancora come esercizio del
pensiero, ma è un «metodo tanto più necessario in quanto mai esaustivo per
addentrarci nello sterminato intrico del possibile». (S, p. 253). In una lettera a Celati
del 1969 Calvino riconosce i limiti di «ogni procedimento riduttivo» e avanza
l'ipotesi di immaginare nuovi «modelli incolmabili».80 La scacchiera infranta di
Kublai è l'emblema più nitido e significativo di quanto sia arduo realizzare
l'esaustione sistematica dei modelli. Ne consegue dunque una crescente sfiducia
nella mappa del labirinto? Forse in questa direzione si potrebbe leggere il
«massacro generale» della mescolanza dei tarocchi. Anche in Dall'opaco – non a
caso coevo al lavoro sul Castello e sulle Città invisibili – l'osservatore si accorge di
sprofondare via via nel fondo dell'intrico mentre rafforza la sensazione di essere
accerchiato da un'ombra invisibile che s'allarga alle spalle: s'accresce la sfiducia nel
sogno illuministico e «la situazione rispetto all'opaco e all'aprico» risulta
controversa. Forse, egli congettura, «ero fin dal principio» nell'ombra, forse esiste
solo l'opaco e l'aprico è il suo fragile rovescio :

e già s'affrettano i galli lontani e i galli vicini a tracciare la


prospettiva che inquadri tutti i segni sonori nel buio, prima che la
spugna dell'alba impiastricci la lavagna da un angolo all'altro, e
alla luce del giorno non c'è più un suono che arrivi sapendo da
che parte viene, il cigolio della macchina per il solfato s'impiglia
nel rombo della motocicletta, il ronzio della segheria elettrica
involge il carillon della giostra, per chi osserva da fermo il mondo
si sfalda discontinuo alla vista e all'udito nella frana dello spazio e
del tempo. (R III, p. 96).

Le pagine liguri sono dunque un'ammissione di sconfitta e di resa all'opaco («ero


nell'ombra fin dal principio)», una palinodia delle sfide lanciate su Il Menabò?81
Oppure sono espressione di una revisione critica, determinata ad accogliere le

80 Aa. vv., Alì Baba, cit., p. 73.


81 Secondo Celati questo sarebbe l'esito di Palomar: «nei racconti del signor Palomar il mondo
esterno appare alla fine come una forma di vaghezza non riducibile entro i limiti di spiegazioni ben
definite, e dunque non più come qualcosa di facilmente catturabile e manipolabile attraverso la
potenza delle parole». G. Celati, Palomar, nella prosa del mondo, Nuova Corrente XXXIV (1987), p. 232.

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incertezze che negli anni si affacciano con maggiore insistenza? In quest'ultimo
senso Dall'opaco potrebbe essere uno strenuo tentativo di avvicinarsi all'invalicabile
confine del silenzio, di protrarre le congetture e i segni così da abbracciare quanto è
ancora in ombra. Al mattino l'ombra è ben contrastata dalle zone in luce e si lascia
trattenere da parole distinte: «si può tener conto delle macchie d'ombra cioè dei
luoghi non raggiunti dai raggi, di come l'ombra acquista nettezza
proporzionalmente al prender forza del sole, di come l'ombra mattutina di un fico
da tenue e incerta diventa col salire del sole un disegno in nero del fico foglia per
foglia», poi «s'accuccia sotto gli alberi nell'ora meridiana», fino a sommergere tutto
sul far della sera: «fino all'ora in cui gli altri fantasmi di piante non crescono fino a
coprire [l'ombra del fico], il poggio la colla la costa dilagano in un unico lago
d'ombre». (RR III, p. 97). Il linguaggio si spinge fino al tramonto ed esplora il
confine oltre il quale tutto è un intrico indistinto: non sarebbe, questa una resa al
labirinto, ma un tentativo di accogliere la sfida più difficile: portare il linguaggio
sino al suo limite, perseverare il sogno dell'esaustione progettando nuove
estensioni sintattiche.
La risposta a tali quesiti può dare origine almeno a due diverse interpretazioni
complessive dello scrittore ligure. L'ipotesi di una cesura avvenuta negli anni
Sessanta suggerisce la distinzione di un “primo” e di un “secondo” Calvino e
accentua le svolte elaborate nel periodo parigino: lo scrittore avrebbe gradualmente
dismesso l'impegno politico e civile dimostrato ai tempi dell'adesione al comunismo
e, poi, della militanza culturale dalle colonne de Il Menabò. Al contrario
un'interpretazione più sensibile alla persistenza di costanti tratti stilistici e teoretici
disegna un'evoluzione poetica più continua ed omogenea: Calvino allora complica
le regole della sua poetica, progetta nuovi esperimenti ed esplora vie alternative pur
di non arrendersi alla mimesi del magma e del garbuglio. 82

82 Mengaldo, a partire da considerazioni di ordine stilistico, insiste molto sulla svolta de Le


cosmicomiche: «Non c'è dubbio che quest'opera […] è stata la svolta capitale dello stile di Calvino – e
non solo di quello: anche perché le opere successive conserveranno tutte, quale più quale meno,
tracce precise del linguaggio cosmicomico». P. V. Mengaldo, La lingua dello scrittore, cit., p. 221.
Barenghi in un intervento dedicato all'«unità dell'opera di Calvino» riconosce anch'egli una svolta:
«l'unica suddivisione corretta che è lecito praticare nell'opera calviniana è dunque d'ordine
temporale: fino a un certo punto l'opzione di un cimento risolutore del destino individuale si offre
come possibilità effettiva, impegnativa sì, ma superabile: poi le barriere s'innalzano, le strade si
confondono, scompaiono prima i margini positivi di successo, poi gli stessi presupposti di un esame

58
Il campo d'indagine migliore per ponderare il valore delle due possibilità riguarda il
contesto nel quale fu redatta la citata lettera a Celati del 1969. I due amici stanno
progettando una rivista insieme a Guido Neri e fra il 1968 e 1971 intrattengono
frequenti scambi epistolari e interminabili discussioni dal vivo. Sono accomunati
dal desiderio di studiare la letteratura come «poetica del discorso umano», ovvero
come fondamento unitario di tutte le «funzioni del linguaggio», «compreso quello
scientifico».83 La letteratura, in questo senso, esprime la civiltà umana dal punto di
vista dei suoi fini e dei suoi desideri, e l'influenza di Frye – la cui Anatomia della
critica è stata proposta a Einaudi proprio da Calvino 84 – è determinante. La fase
progettuale si protrae nei mesi mentre ai tre si uniscono Carlo Ginzburg ed Enzo
Melandri. Nei primi anni Settanta l'interesse per una letteratura «universale»,
«cosmologica»85 ed «enciclopedica» che aveva caratterizzato gli esordi del progetto
risente delle critiche ai procedimenti di formalizzazione e di sintesi totalizzante.

in cui l'individuo possa esprimere le proprie capacità. […] Nel mezzo […] una diffusa zona di
transizione». M. Barenghi, Italo Calvino. Le linee e i margini, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 45-46.
Eppure, conclude Barenghi, «le idee di Calvino sulla letteratura rimangono negli anni fedeli a se
stesse». Questo studio intende rinvenire questa fedeltà nell'immagine del paesaggio di Dall'opaco.
83 Aa. vv., Ali Baba, cit., p. 58. Ma già nel 1965 Calvino affermava in una tavola rotonda con
Sanguineti, Citati e Fortini: «la letteratura è un'operazione sulle parole, è un'operazione sulle
immagini, e in quanto tale condiziona in una sua modesta ma pure essenziale parte il procedere di
altri modi dell'operare umano. La letteratura agisce sui modi d'immaginarsi il mondo, sul modo di
usare la parola attraverso cui il mondo viene definito. Insomma, il poeta agisce sugli strumenti delle
operazioni mentali dello scienziato, del tecnico, del politico, del filosofo, anche quando questi non lo
sanno». I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, Mondadori, Milano 2012, p. 109.
84 Interessante notare come Calvino, non uso alle lunghe citazioni, riporti un'intera pagina
dell'Anatomia di Frye all'inizio del suo intervento critico: «la civiltà non è semplicemente imitazione
della natura, ma un processo di costruzione di una forma umana totale mediante elementi della
natura, ed è sospinta da quella forza che abbiamo definito desiderio. Il desiderio del cibo e della casa
non è appagato dalle radici e dalle caverne; produce quelle forme umane di natura che definiamo
coltivazione e architettura. Il desiderio non è dunque una semplice risposta alla necessità, per cui un
animale può aver bisogno di cibo e ottenerlo senza coltivare i campi, né è semplicemente la risposta
alla mancanza o desiderio di qualcosa in particolare. Non è né limitato né soddisfatto dagli oggetti,
ma è una forza che guida la società umana a sviluppare la sua forma peculiare. In questo senso, il
desiderio è l'equivalente sociale di ciò che è l'emozione al livello letterale, vale a dire un impulso che
sarebbe rimasto amorfo se la poesia non lo avesse liberato dotandolo della forma per esprimersi.
Analogamente la forma del desiderio è liberata e resa apparente dalla civiltà. La causa efficiente
della civiltà è il lavoro, e la poesia, dal punto di vista sociale, ha lo scopo di esprimere, come ipotesi
verbale, la visione della meta del lavoro e delle forme del desiderio». (S, pp. 242-243). Per il
riferimento al saggio di Frye: Anatomia della critica, cit., p. 139.
85 Nella sua analisi al Castello dei destini incrociati Maria Corti ha colto alla perfezione la vocazione
cosmologica nella disposizione dei tarocchi come inviti alla narrazione: Calvino è «un ottimo
scrittore e, come tale, non può non fare un passo in là e, oltrepassato lo spartiacque tra la visione
semiotica e l'immaginazione artistica, trasformare la stessa teoria dei modelli di prevedibilità, di
natura logica e astratta, in simbologia universale dell'esistenza terrestre». M. Corti, Il gioco dei
tarocchi come creazione di intrecci, in Id., Il viaggio testuale, Einaudi, Torino 1978, p. 178.

59
L'interesse del circolo si rivolge di conseguenza agli elementi che non sono
integrabili nei sistemi: le singolarità, i frammenti, gli scarti. La migliore
testimonianza a questo proposito è contenuta nelle note di Calvino scritte nel 1972
e pensate come introduzione al primo numero. Con il fallimento della rivista gli
appunti saranno raccolti in Una pietra sopra con il titolo de Lo sguardo
dell'archeologo. Lo scrittore esordisce enumerando la composizione del «magazzino
dei materiali accumulati dall'umanità» al cui interno s'affastellano «meccanismi,
macchinari, merci, mercati, istituzioni, documenti, poemi, emblemi, fotogrammi,
opera picta, arti e mestieri, enciclopedie, cosmologie, grammatiche, topoi e figure
del discorso, rapporti parentali e tribali e aziendali, miti e riti, modelli operativi».
L'archeologo della contemporaneità, orfano di un chiaro orizzonte d'azione, «non
riesce più a tener[e] in ordine» il magazzino. (S, p. 324). L'archeologo osserva il
mondo nel momento della sua esplosione in pulviscolo: è la stessa circostanza in cui
Marco Polo indica le tracce del legno sopra la scacchiera piallata. L'attenzione per le
tracce e i reperti dispersi coinvolge, seppur in modo diverso, tutti i collaboratori
della rivista immaginata: Celati redige nello stesso periodo un intervento sulla
possibilità di valutare in senso storico i resti del passato (Il bazar archeologico 86);
Melandri, nel suo saggio monumentale sull'analogia 87, propone un procedimento
filosofico «archeologico» fondato su un'ermeneutica sintomatologica; Carlo
Ginzburg elabora gli strumenti epistemologici – anch'essi di natura sintomatologica
– da cui conseguirà la metodologia della “microstoria”.
Un'epistemologia della traccia esula dall'ordine del sistema e non contempla più i
procedimenti esaustivi, come emerge in modo particolarmente chiaro nel fortunato
intervento di Ginzburg. Il saggio di Ginzburg (Spie. Radici di un paradigma
indiziario) conserva un'intensità critica notevole ed è un documento fecondo per
cogliere l'atmosfera del progetto e la natura delle discussioni interne al gruppo di
intellettuali.88 Ginzburg ripercorre un paradigma che nella seconda metà

86 G. Celati, Il bazar archeologico, in Id., Finzioni occidentali, Einaudi, Torino 1975 (terza edizione
2001), pp. 195-227. A differenza di Calvino, per Celati l'archeologia è una regressione «senza
l'artificio dell'agnizione», dove è abbandonata ogni presunzione di conoscenza. Una divergenza che,
fra le altre, condurrà forse al naufragio della rivista. Per una trattazione più approfondita si veda il
quarto capitolo, paragrafo 10.
87 E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull'analogia, Quodlibet, Macerata 2004.
88 Il saggio comparve in una prima parziale versione sulla Rivista di Storia Contemporanea (fas. 1,

60
dell'Ottocento accomuna un investigatore immaginario (Sherlock Holmes), uno
storico dell'arte italiano (Morelli) che firmò i suoi interventi sotto falso nome russo
e il fondatore della psicoanalisi. Morelli aveva individuato un sistema per
riconoscere i falsi d'arte a partire dall'attenta osservazione di particolari minimi
come i lobi delle orecchie e la resa pittorica delle unghie. Poiché i dettagli
marginali, osservava Morelli, trascendono lo stile cosciente e controllato dell'autore
e del suo eventuale imitatore, la loro individuazione e la conseguente
interpretazione permettono di stabilire la corretta attribuzione dell'opera. Le tracce
involontarie nei gesti e nel linguaggio, inoltre, sono i materiali su cui lavora
l'ermeneutica di Freud, così come gli indizi marginali sono l'oggetto d'attenzione
dell'investigatore londinese. Le analogie metodologiche rinviano a un comune
procedimento indiziario. Nella seconda parte del saggio – forse la più originale e
appassionante, e dal respiro più ampio – Ginzburg studia il sostrato antropologico
del paradigma indiziario indagando le pratiche e i processi mentali che informano
la conoscenza nelle società arcaiche ed antiche. Il procedimento sintomatologico fu
usato dai cacciatori per inferire la posizione della preda a partire dalle orme, ma fu
anche il fondamento della semeiotica medica e delle pratiche divinatorie. Nel corso
della modernità, tuttavia, l'induzione indiziaria pare essere una forma di
conoscenza marginale, relegata a ridosso del flebile confine fra le scienze poco
rigorose e le superstizioni. Inoltre, nonostante sia sopravvissuto fino ai nostri
tempi, il paradigma indiziario non ha mai goduto di una attenta riflessione
filosofica, ovvero di una critica metodologica. Questo è avvenuto, secondo
Ginzburg, perché un altro paradigma, «imperniato sulla fisica galileiana, ma
rivelatosi più durevole di quest'ultima», ha dominato la cultura della modernità.
Dopo Galileo la scienza ha preservato le sue forme di indagine – «anche se la fisica
moderna non si può definire “galileiana” (pur non avendo rinnegato Galileo) il
significato epistemologico (e simbolico) di Galileo per la scienza generale è rimasto
intatto» – a discapito delle procedure induttive e qualitative: «ora, è chiaro che il
gruppo di discipline che abbiamo chiamato indiziarie (medicina compresa) non
1978), poi fu inclusa una nuova versione nel volume Crisi della ragione (a cura di A. Gargani,
Einaudi, Torino 1979). Il saggio è ritornato pressoché invariato in C. Ginzburg, Miti emblemi spie.
Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986. Qui si cita la riproposizione del saggio definitiva nel
numero di Riga dedicato al progetto di rivista: Aa. vv., Alì Baba, cit., pp-223-265.

61
rientra affatto nei criteri di scientificità desumibili dal paradigma galileiano. Si
tratta infatti di discipline eminentemente qualitative, che hanno per oggetto casi,
situazioni e documenti individuali, in quanto individuali, e proprio per questo
raggiungono risultati che hanno un margine ineliminabile di aleatorietà». 89 Dunque
è stata la deduzione galileiana – la formulazione di un'immagine del mondo in
assenza del mondo – ad esiliare ai margini le discipline che intendono i sintomi
come tracciati immanenti ai contesti di indagine.90 Per rafforzare le sue tesi
Ginzburg ripercorre ad ampie falcate la storia moderna della scrittura e nota come
si sia affermato – ancor prima di Gutemberg – un processo di «progressiva
smaterializzazione del testo» che ha indotto una lenta espulsione di «tutti gli
elementi legati all'oralità e alla gestualità; poi, anche gli elementi legati alla fisicità
della scrittura».91 A partire dal nuovo approccio mentale e trascendente ai testi
Galileo può sovvertire il senso originario del «libro della natura»: da scrittura
aderente al mondo e connessa all'immediata «leggibilità dei dati», il libro della
natura diviene «entità profonda invisibile, da ricostruire al di là dei dati sensibili». 92
Inevitabilmente, allora, le discipline studiate da Ginzburg – senza avanzare una
matrice irrazionalista, ma fondando il razionalismo su un'altra tradizione 93 –
confliggono con l'impostazione deduttiva, organizzata sui «livelli» che separano il
mondo e la scrittura.
Il saggio di Ginzburg pare corroborare l'ipotesi menzionata all'inizio del paragrafo:
con il volgere del decennio Calvino abbandona il sogno dei modelli formali e anima
in prima persona un gruppo di intellettuali che si propongono di sovvertire il

89 Aa. vv., «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972, cit., pp. 237-238.
90 Una definizione della scienza galileana era stata fornita qualche anno prima in diversi passaggi de
La linea e il circolo di Melandri, legato anch'egli al gruppo redazionale. Una proposta, quella di
Melandri, in sintonia con le tesi avanzate in queste pagine: «il gran libro del mondo, ossia la fisica
del macrocosmo, dice Galilei, non si può intendere se prima non s'impara a intendere la lingua, e
conoscer i caratteri, ne' quali è scritto l'universo. Le sensate esperienze si dicon tali non tanto in forza
dell'evidenza empirica, quanto perché, per intenderne il senso, bisogna prima sapere di che cosa – di
quale ipotetica funzione coordinatrice – esse sono una sensata, ossia intelligibile esemplificazione. Il
mondo fisico è oggetto d'intellezione prima che di sensazione». E. Melandri, La linea e il circolo, cit.,
p. 498.
91 Aa. vv., «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972, cit., p. 239.
92 Ibidem, p. 240.
93 «L'analisi di questo paradigma, largamente operante di fatto anche se non teorizzato
esplicitamente, può forse aiutare ad uscire dalle secche della contrapposizione tra “razionalismo” e
“irrazionalismo”» C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit. , p. 223.

62
paradigma deduttivo94 e le sue traduzioni letterarie, filosofiche e scientifiche.
L'evocazione conclusiva dell'io come «inverificabile assioma» in Dall'opaco sarebbe
allora da leggere ponendo l'accento sull'aggettivo, e non sul sostantivo: nel
paesaggio ligure – presentato al pubblico proprio nel 1971 – si consuma, forse,
l'ultimo atto della proiezione aprica: la distanza fra la mente ragionante e il mondo
si discioglie sommersa in un vortice di frammenti che non si possono più
ricomporre in una «forma del mondo».

9. La ragione in oscillazione.

Ma come giustificare gli interventi successivi come I livelli di realtà in letteratura e


la conferenza sulle differenze fra mondo scritto e mondo non scritto? In altre
parole: come spiegare la persistenza della linea di demarcazione fra i segni e la
coscienza da una parte, il mondo fisico dall'altra? La questione pare più complessa,
e non è detto che Calvino abbia aderito in modo incondizionato allo
smantellamento del formalismo deduttivo. 95 Forse la crisi può ancora sfociare in un
razionalismo critico, sempre più complesso e difficile e, certo, abitato da numerosi
dubbi.
Le posizioni assunte dallo scrittore si possono osservare con più chiarezza a una
certa distanza di tempo. Nel gennaio del 1980 Calvino recensisce Spie sulle colonne
94 Per una critica alla deduzione e alla scienza di stampo galileano si veda, dell'opera di Melandri, il
tredicesimo capitolo: “Le figure ipotetiche”. In E. Melandri, La linea e il circolo, cit., pp. 487-516.
95 Ne Lo sguardo dell'archeologo, che avrebbe dovuto introdurre il primo numero, Calvino dimostra
un'insolita ambiguità nel corso dell'argomentazione. Da una parte sostiene di voler «indicare e
descrivere più che […] spiegare», dall'altra ricorda che «ci è ugualmente estraneo il compiacimento
dell'inesplicabile». In merito alla formalizzazione non presenta una critica, ma esprime il desiderio di
studiare «la spinta tendenziale a render conto di tutti i modelli di rappresentazione e di
comunicazione, a generalizzare e formalizzare il codice delle prime operazioni dell'ordinatore umano
e più in là biologico». Fino ad accennare ad una «grammatica generale di ciò che esiste, la matrice
pitagorica del mondo». A queste note, però, corrispondono alcune revisioni non del tutto chiare:
«proprio perché rispettiamo il metodo nelle sue procedure formalizzanti più rigorose […] vogliamo
qui distanziarcene istituendo un diverso spazio di ricerca. […] sono i contenuti che ci stanno a
cuore». (S, pp. 326-327). Scrive Celati a Calvino in una lettera del febbraio 1972: «ti lanciavi in una
sottoscrizione personale […] a un preformismo grammatologico, o una mathesis universalis, dove
insomma è il programma inscritto nelle cose che determina i conseguenti sviluppi, e per capire il
mondo bisogna capire l'invisibile matrice formale dei suoi segni da cui tutto procede». L'amico fa
anche notare la contraddizione nel passaggio dagli schemi formali ai contenuti: «il brusco passaggio
è spiegabile psicologicamente, perché hai voluto mettere insieme ciò che sta a cuore a te e ciò che
sta a cuore a noi, però risulta quanto mai illogico formalmente». (Aa. vv., «Alì Babà». Progetto di una
rivista 1968-1972, cit., p. 148).

63
de La Repubblica e dopo alcuni paragrafi introduttivi sottolinea come Ginzburg
palesi «la chiara intenzione di rappresentare un paradigma epistemologico,
contrapposto a quello della scienza detta galileiana, basato sulla generalizzazione, la
quantificazione e la ripetibilità dei fenomeni». Non a caso, prosegue, il saggio è
stato accolto nel volume Crisi della ragione curato da Gargani che «vi ha premesso
uno stimolante saggio sulla crisi del modello logico-matematico della razionalità
tradizionale». (S, p. p. 2032). Calvino sa bene che una scienza della «singolarità» è
evocata da Ginzburg per contrastare l'egemonia del procedimento di riduzione
formale. E proprio appellandosi alle tracce e ai frammenti Calvino tenta di
rovesciare le conclusioni dello storico: «ma non è questo forse il movimento
proprio di ogni sapere? Riconoscimento della singolarità che sfugge al modello
normativo; costruzione di un modello più sofisticato, tale da aderire a una realtà più
accidentata e spigolosa; nuova rottura delle maglie del sistema; e così via». (S, pp.
2032-2033). Qui si cela la chiave per interpretare il rapporto fra la scacchiera e i
segni del legno nelle Città invisibili: Calvino ricorda che non può esistere alcuna
singolarità senza le leggi formali definite in precedenza, poiché solo in relazione a
un modello normativo – lo schema tabulare ed esteso su due dimensioni – è
possibile percepire il frammento sfuggente, il particolare ricco di nuove
informazioni. Sebbene la singolarità confuti la tenuta del sistema, la smagliatura
nella rete permette di vedere nuovi e imprevisti frammenti di mondo e, di
conseguenza, rende necessaria una formulazione più articolata delle «maglie», o
griglie della scacchiera. Calvino legge gli indizi attraverso la lente deduttiva e
critico-razionalistica di Popper: l'elemento marginale e inatteso è il dato di controllo
che falsifica un sistema elaborato in precedenza e ne impone una revisione o una
completa ridefinizione, finché non sopraggiunga, inevitabile, una «nuova rottura
delle maglie del sistema; e così via».96 È probabile che Calvino abbia letto Scienza e
filosofia dove il filosofo austriaco sostiene che «se controlliamo la nostra

96 E anche Popper: «così il compito della scienza si rinnova costantemente. Possiamo continuare
all'infinito, procedendo a spiegazioni dotate di un grado di universalità sempre più alto». K. Popper,
Scienza e filosofia, cit., p. 626. Secondo Falcetto per una «personalità che cerca la sua realizzazione
individuale sulla via maestra della razionalità e della precisione, […] tali smagliature e inquietudini
appaiono tanto più significative quali spie sintomatiche dei limiti invalicabili dell'operare razionale».
B. Falcetto, La tensione dell'esistenza. Vitalismo e razionalità in Calvino dal Sentiero allo Scrutatore, in
Nuova Corrente, XXXIV (1987), p. 46.

64
congettura, e riusciamo a falsificarla, vediamo molto chiaramente che c'era una
realtà, qualcosa con cui essa poteva collidere. Le nostre falsificazioni indicano così i
punti in cui abbiamo per così dire, toccato la realtà». La resistenza opposta dal
mondo esterno previene i rischi idealistici della deduzione «le teorie sono nostre
invenzioni, nostre idee: non si impongono su di noi, ma sono i nostri strumenti di
pensiero, che abbiamo fatto da noi: questo è stato visto chiaramente dagli idealisti.
Ma alcune di queste nostre teorie possono cozzare contro la realtà: e quando
cozzano, sappiamo che c'è una realtà; che esiste qualcosa, a rammentarci il fatto che
le nostre idee possono essere errate».97
La seconda parte della recensione al saggio di Ginzburg si sofferma sul rapporto fra
la teoria della conoscenza e le tecniche narrative e ancora una volta l'interrogazione

97 K. Popper, Scienza e filosofia, cit., p. 614-615. Ernst Gombrich, direttore del Warburg Institute
durante gli anni Sessanta, dichiara nella prefazione a Arte e illusione il suo debito nei confronti di
Die Logik der Forschung di Popper. Non è un caso che l'impianto teorico del suo saggio sulla
ricezione psicologica di stili e modulazioni artistici sia fondato su una forma di razionalismo
deduttivo. Innanzitutto la connessione fra il mondo e la sua rappresentazione non si fonda su una
mimesi diretta della realtà, ma sulla riproduzione dei «rapporti» che sussistono fra gli enti nel
linguaggio della pittura (E. H. Gombrich, Arte e illusione, Einaudi, Torino 1960, p. 66). Ogni
immagine pittorica, inoltre, non scaturisce immediatamente dalla sensazione, ma deriva da
«schemi» pittorici veicolati dalla tradizione e da specifiche competenze stilistiche: «senza qualche
punto di partenza, qualche schema iniziale, non potremmo mai fissare il flusso dell'esperienza. Senza
categorie non potremmo analizzare e sceverare le nostre impressioni». Ogni artista inizia a
descrivere il mondo a partire da una grammatica: «non esiste un naturalismo neutro. L'artista al pari
dello scrittore ha bisogno di un vocabolario prima di accingersi a copiare la realtà». (Ibidem, pp. 106-
107). Come spiegare allora l'innovazione e l'evoluzione degli stili? Ogni schema è aperto e flessibile
ed è costantemente soggetto a correzioni revisioni se la resa del mondo non è più soddisfacente
entro un determinato contesto storico: un procedimento che Gombrich definisce come «schema e
correzione». Pare questo un sistema creativo non dissimile da quello avanzato di Calvino; la
filiazione dal modello di Popper è un primo indizio. Ma è lo stesso Calvino a citare le opere dello
storico d'arte. La citazione più recente è contenuta ne Il raggio dello sguardo, la recensione al libro di
Pierantoni, dove lo scrittore evoca Gombrich quando sfiora «un territorio di frontiera tra teoria della
visione e problematica delle arti figurative». (S, p. 526). Ma già in Cibernetica e fantasmi Calvino cita
il saggio del «geniale storico dell'arte» dedicato ai giochi di parole in Freud (Freud e la psicologia
dell'arte). (S, p. 220). Secondo Gombrich la teoria del gioco di parole è un movimento tensivo che
coinvolge l'inconscio e le competenze linguistiche del parlante. Per questo ogni witz richiede
«l'acquisizione della padronanza» del linguaggio. Solo una raffinata e controllata conoscenza delle
regole linguistiche può costruire sentenze che lascino intravedere il movimento dell'inconscio.
Gombrich avanza una teoria estetica critica nei confronti dell'avanguardia surrealista e di tutti i
movimenti irrazionalisti responsabili di aver travisato gli insegnamenti del medico viennese. (Non a
caso Calvino menziona il saggio proprio in Cibernetica e fantasmi.) È fondamentale notare come
secondo Gombrich il gioco linguistico si fondi su «combinazioni e permutazioni»: «ci devono essere
– e ci sono – nella scienza e nella tecnica processi nei quali si usa un qualche mezzo o modello per
saggiare le strutture per via analogica e nei quali si adoperano tecniche di variazione e di
permutazione sistematica per scoprire nuove possibilità». (E. H. Gombrich, Freud e la psicologia
dell'arte. Stile, forma e struttura alla luce della psicanalisi, Einaudi, Torino 1967, pp. 33-34). Inutile
soffermarsi qui sull'importanza delle permutazioni e delle variazioni entro un sistema definito di
possibilità nella poetica di Calvino.

65
filosofica diviene ragionamento sulla letteratura: «ritrovo nella pratica del
raccontare le stesse fasi di movimento che ho cercato di delineare poc'anzi,
parlando della scienza galileiana». Ogni racconto, infatti, «propone insieme
singolarità e geometria: si dà racconto quando la singolarità dei dati si compone in
uno schema, sia esso rigido o fluido». Anche la teoria del racconto di Calvino
prevede una continua rottura e ricomposizione degli schemi: «ogni nuovo racconto
è una vittoria della singolarità sullo schema già ossificato, finché un insieme di
eccezioni allo schema non si configurano come schema esse stesse». (S, p. 2034). Le
tracce – intese come snodi di realtà contro cui cozzano gli schemi – permettono di
ridisegnare mappe apriche sempre più complesse, e mai definitive.98
La riflessione sul metodo della conoscenza non si insinua solamente nella critica
delle tecniche narrative, ma nutre l'immaginazione e diventa stimolo primario del
racconto: con le ultime Cosmicomiche si sperimenta «un tipo di narrazione […]
basata essenzialmente su una costruzione logica, su un ragionamento deduttivo». 99
È il caso de Il conte di Montecristo, racconto finale di Ti con zero, dove un narratore
che risponde al nome di Dantès scrive nel chiuso di una cella del castello d'If.
Dantès è assiso alla sua scrivania immobile, intento a figurarsi la topografia della
fortezza perché «l'unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire
come è fatta la prigione», mentre il suo compagno di detenzione, l'abate Faria,
spende vanamente il suo tempo scavando cunicoli e saggiando nuove vie di fuga.
Faria ha perso il senso di orientamento e «non riconosce più i punti cardinali, anzi
neppure lo zenit e il nadir», però «è parte» del progetto di Dantès «perché le
informazioni di cui dispongo sul luogo dove mi trovo mi sono date dalla
successione dei suoi errori». (R II, p. 347). All'interno delle sue stanze Dantès cogita
«ogni segmento in una figura regolare», immagina poliedri e ipersfere: «e più
chiudo la forma della fortezza più la semplifico, definendola in un rapporto

98 Questa tensione dialettica fra le griglie del linguaggio e le resistenze di una realtà ancora
silenziosa non consente di interpretare le Città invisibili – e in generale tutta la produzione coeva –
come luogo testuale dove tutta la realtà è ormai trasformata in segno. Eppure è quanto propone
Bertoni in un saggio attinente con questa ricerca: «In Città invisibili il processo della trasformazione
del reale in segni è compiuto, tanto che anche l'individuo […] è mutato in emblema». R. Bertoni,
Int'abrigu int'ubagu. Discorso su alcuni aspetti dell'opera di Italo Calvino, Tirrenia Stampatori, Torino
1993, p. 113.
99 I. Calvino, Premessa 1968, RR II, p. 1302.

66
numerico o in una formula algebrica». Il narratore si domanda se Faria non sia «un
personaggio» immaginato dalla sua mente, un calcolo della ragione di cui lo
scrittore ha bisogno per pensare meglio e si augura che «l'abate Faria non smetta di
battersi contro frane di terriccio, chiavarde d'acciaio, scoli di fogna […] perché
l'unico modo di rinforzare la fortezza pensata è mettere continuamente alla prova
quella vera». (RR II, p. 350). I tentativi, le sensazioni e le esperienze singolari si
inscrivono nella coscienza di un «io scrivo»: i personaggi esistono e respirano in
uno spazio proiettato da un narratore che osserva e valuta i movimenti da una certa
distanza. Così gli errori di Faria sono accolti dallo schema disposto dal narratore e
ne modificano di volta in volta la topografia. Il finale del racconto è quasi un
manifesto del razionalismo critico100 redatto in forma immaginaria:

Così continuiamo a fare i conti con la fortezza, Faria sondando i


punti deboli della muraglia e scontrandosi con nuove resistenze,
io riflettendo sui suoi tentativi falliti per congetturare nuovi
tracciati di muraglie da aggiungere alla pianta della mia fortezza
congettura.
Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è
impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla
vera – e in questo caso è certo che da qui non usciremo mai; ma
almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui
perché non potrebbe trovarsi altrove – o sarà una fortezza dalla

100 In merito all'idea che vi sia una certa parentela fra il razionalismo critico di Popper e i
procedimenti creativi di Calvino è d'accordo anche Francesca Serra: «Calvino arriva a elaborare nel
modo figurativamente più seducente i tratti essenziali di quello che a questo punto possiamo a buon
diritto chiamare il suo “realismo critico”: il mondo, infatti, che esiste fuori dalla mente dell'uomo, ha
bisogno però, per un intimo impulso di estroflessione, di questa stessa mente per poter acquistare e
organizzare un suo messaggio e quindi significato di esistenza». (F. Serra, Calvino e il pulviscolo di
Palomar, cit., p. 199.) Considerazioni sostanzialmente in accordo con le tesi qui presentate, a patto di
riconoscere che per «realismo» si deve intendere un approccio filosofico all'epistemologia che lo
scrittore impiega in forma di narrazione e di creazione linguistica. Più distante, quindi, il significato
di “realismo” proprio alla storia della rappresentazione letteraria. Il metodo popperiano abita anche
le argomentazioni teoriche di Calvino. Scrive in Cibernetica e fantasmi: «la logica del mio discorso –
fino a che una nuova dimostrazione più convincente non la mandi all'aria – porta alla conclusione
che la fabulazione precede la mitopoiesi» (Cibernetica e fantasmi, S, p. 222). Una sensibilità
razionalistica che, a suo dire, condivideva con Vittorini: «spero di non stare forzando le linee del
progetto vittoriniano per avvicinarle al punto in cui oggi mi accade di trovarmi, cioè per identificare
il suo metodo con quello del modello costruito per via deduttiva e che ha valore di ipotesi operativa
fino a quando non viene smentito sperimentalmente». (Vittorini: progettazione e letteratura, S, p.
164).

67
quale la fuga è ancora più impossibile che di qui – e allora è segno
che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto
in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera per
trovarla. (R II, p. 356).

La possibile confutazione dello schema deduttivo dimostra la persistenza di


un'incongruenza fra la scrittura e il suo fuori. 101 Esiste allora un tratto comune nella
poetica di Calvino dagli esordi fino agli anni Ottanta, ed è lo spazio differenziale fra
le parole e le cose, fra la coscienza e il magma: «quel senso d'un misterioso confine
che separa dal mondo aperto ed estraneo, che è il senso d'essere entrati “int'ubagu”,
nell'opaco rovescio del mondo». (RR III, p. 99). La linea di separazione erede del
dualismo fra mente e realtà non implica una coerente teoria della conoscenza, ma
ispira piuttosto immagini simboliche, specifiche strutture testuali e andamenti
narrativi: il paesaggio ligure, la narrazione nella cornice, il racconto breve e
discontinuo.102 La linea separa il territorio della forma – e della scrittura – dal
101 Così Calvino in una intervista a Madeleine Santschi uscita sulla “Gazette de Lausanne” nel 1967:
«io non sono tra coloro che credono che esista solo il linguaggio, o solo il pensiero umano. […] Io
credo che esista una realtà e che ci sia un rapporto (seppure sempre parziale) tra la realtà e i segni
con cui la rappresentiamo. La ragione della mia irrequietezza stilistica, dell'insoddisfazione riguardo
ai miei procedimenti, deriva proprio da questo fatto. Io credo che il mondo esiste indipendentemente
dall'uomo; il mondo esisteva prima dell'uomo ed esisterà dopo, e l'uomo è solo l'occasione che il
mondo ha per organizzare alcune informazioni su sé stesso. Quindi la letteratura è per me una serie
di tentativi di conoscenza e classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e
relativo ma in qualche modo non inutile». Lo stralcio è citato nelle note a Ti con zero dell'edizione
dei Meridiani (RR II, p. 1347). Ancora preciso si dimostra Boselli: «non sempre lavorando per ipotesi
Calvino riesce a costruire una perfetta “immagine della fortezza” e allora ha luogo una commistione
di realtà e finzione, di verità e ipotesi, di ciò che è verificabile con ciò che non lo è». M. Boselli, “Ti
con zero” o la precarietà del progetto, cit., pp. 137-138.
102 La tesi del dualismo concorda con la lettura di Barenghi: «la legge interna della narrativa di
Calvino […] è una sorta di dualismo euristico, non rigido, né manicheo o definitorio. Le antinomie
calviniane non offrono spiegazioni ultimative, ma servono come strumenti di ricerca. Quello che
conta è il legame intrinseco fra i termini opposti, la loro relazione reciproca: ciò che resta nel mezzo,
la scintilla che scocca. Un dualismo tensivo. E – per dir così – galvanico, mai placato dal superiore
conciliativo sguardo di un'impersonalità storica o metafisica». M. Barenghi, Italo Calvino. Le linee e i
margini, cit., pp. 63-64. E anche Asor Rosa sostiene che «l'essere è, – almeno, direbbe Calvino, –
duplice; al massimo molteplice. La formula più esatta, e forse più concretamente corrispondente alle
procedure logico-fantastiche della scrittura calviniana, è che l'essere è infinitamente duplice». A.
Asor Rosa, Il «punto di vista» di Calvino, in Aa. vv., Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale,
Firenze, Palazzo Medici-Riccardi 26-28 febbraio 1987, Garzanti, Milano 1988, p. 265.
All'interpretazione dualistica si oppone una scuola di pensiero che vede nell'ultimo Calvino un
radicale abbandono della realtà storica a favore di un monismo semiotico: «una volta che tutto è
ridotto a segno (e la semiologia è in un certo senso la riduzione di tutto ciò che è percepibile a ciò
che è visivo), la realtà cessa di manifestarsi come tale». (G. Bertone, Italo Calvino. Il castello della
scrittura, Einaudi, Torino 1994, p. 163). Una tesi simile è avanzata da alcuni lavori già citati – come i
saggi di Antonello o la monografia di Bertoni – e permea anche l'argomentazione di Ferretti in G. C.

68
versante informe non ancora sfiorato da una coscienza 103: nel momento in cui la
scrittura nomina una porzione d'«opaco», esso ha già valicato la frontiera ed è un
nuovo frammento uscito dal silenzio, conquistato alle precarie e sottili ragioni del
linguaggio.104 Questo, tuttavia, non cancella l'angoscia del disordine perché «sotto
la lineare lucentezza dello stile si annida […] il caos». 105
Il confine traccia il campo operativo della scrittura, spazio turbato dal conflitto fra
l'ordine cristallino e l'instabilità del pulviscolo: gli schemi solidi si infrangono e le
giostre e i vortici delle parole riprendono con rinnovata energia per tradurre le
informazioni impreviste, e dare vita a nuovi modelli. 106 La dialettica fra la nettezza

Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e saggista. 1945-1985, Editori Riuniti, Roma 1989. Chi
rileva un abbandono della tensione fra il segno e la realtà propende per una lettura “postmodernista”
della poetica tarda dello scrittore. (Si veda almeno la Postilla in G. Bertone, Italo Calvino, cit., pp.
174-176). In questo lavoro ho deciso di non adoperare l'opposizione fra “modernismo” e
“postmodernismo” poiché il suo valore euristico mi sembra limitato. Per una difesa del
“modernismo” in Calvino si veda almeno G. Ferroni, Lo sguardo di Calvino, in Aa. vv., Il fantastico e
il visibile, cit., pp. 13-30.
103 Chiarisce Calvino in Cibernetica e fantasmi a proposito del fondamento discontinuo del suo
procedere: «il mondo nei suoi vari aspetti viene visto sempre più come discreto e non come
continuo. Impiego il termine “discreto” nel senso che ha in matematica: quantità “discreta” cioè che
si compone di parti separate. Il pensiero, che fino a ieri ci appariva come qualcosa di fluido, evocava
in noi immagini lineari come un fiume che scorre o un filo che si sdipana, oppure immagini gassose,
come una specie di nuvola […] oggi tendiamo a vederlo come una serie di stati discontinui, di
combinazioni di impulsi su un numero finito (un numero enorme ma finito) di organi sensori e di
controllo». (S I, p. 209).
104 Ricorda Calvino che «l'inconscio è il mare del non dicibile, dell'espulso fuori dai confini del
linguaggio, del rimosso in seguito ad antiche proibizioni; l'inconscio parla […] attraverso parole
prestate, simboli rubati, contrabbandi linguistici, finché la letteratura non riscatta questi territori e li
annette al linguaggio della veglia». (Cibernetica e fantasmi, S, pp. 218-219). Non dissimile
l'interpretazione di Boselli: «Il dramma sta sotto o al di là e lo si coglie oltrepassando la barriera del
testo, della sua unità non conflittuale di “oggetto” linguistico, di Forma idealisticamente concepita».
M. Boselli, Italo Calvino: l'immaginazione logica, cit., p. 146. Qualche anno prima, e a proposito de La
nuvola di smog, lo stesso Boselli aveva scritto al proposito alcune notazioni di valore: «L'oggettività
linguistica su spiega, dunque, con la presenza di questa razionalità mediante la quale Calvino
controlla e verifica cose e fatti. Si tratta, ad ogni modo, d'un linguaggio oggettivo particolare: esso
non significa distacco tra «l'io» narrante e gli oggetti ma, anzi, partecipazione con la realtà
rappresentata. Soltanto, questa partecipazione non è soggettiva perché Calvino ricorre a tutti gli
strumenti stilistici a sua disposizione per mantenere costante l'equilibrio fra soggetto e oggetto. Ne
cerca la corrispondenza non la confusione o l'alterazione». M. Boselli, Il linguaggio dell'attesa, cit., p.
141.
105 M. Boselli, Per Calvino, Nuova Corrente XXXIX (1992), n. 109, p. 200.
106 Antonello coglie bene la tensione fra la cristallizzazione e la disfazione pulviscolare: «ad ogni
sconfitta del cristallo, Calvino rilanciava la posta e ritentava, anche se ogni volta da una posizione di
arretramento rispetto al passo precedente […] e la battaglia consisteva sempre nel tentativo di
solidificare una ragione d'ordine, una linea di percorso che facesse chimica e cristallizzasse,
riducendosi però a trovare sempre un punto lasco, una maglia slabbrata che ridava fiato al caos
ovvero alla libera evoluzione e disponibilità dei possibili». P. Antonello, L'entropia del cristallo, cit., p.
211. Tuttavia la sua tesi conclusiva – come si è già notato – propende per un monismo inaccettabile
in questa sede.

69
del cristallo e le vibrazioni nebulizzate di singolarità in dispersione coinvolge così
lo stile, i temi delle narrazioni brevi sul cosmo, le immagini simboliche e le
strutture che organizzano la narrazione.107
La letteratura, più che un sistema immobile di combinazioni, è una inesauribile
tensione fra la possibilità di una mappa e la sua negazione, fra la confutazione dei
modelli e la loro revisione in scritture, immagini, geometrie rinnovate. 108 Ogni
minimo frammento, e imprevisto, si dà a vedere solo attraverso una griglia formale;
ma tale griglia è precaria perché ogni singolarità emergente corrode la tenuta della
struttura.109 Nulla è pacificato una volta per tutte perché un inesauribile movimento
increspa la scrittura, smuove e capovolge ogni congettura che s'appresta ad
assumere le tinte della certezza. Ricorda nella lezione sull'esattezza:

sempre la mia scrittura si è trovata di fronte a due strade


divergenti che corrispondono a due diversi tipi di conoscenza:
una che si muove nello spazio mentale d'una razionalità
scorporata, dove si possono tracciare linee che congiungono
punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze; l'altra che si

107 Accade, come si è notato, che «molti elementi dell'armamentario stilistico di Calvino
s'impennano di frequenza e soprattutto tendono a cambiar segno, concettualizzandosi e quasi
diventando, da formali, tematici». P. V. Mengaldo, La lingua dello scrittore, cit., p. 222.
108 «Il pensiero poetico-teorico di Calvino si svolge lungo un percorso apparentemente
intransitabile: la costruzione – attraverso una perenne metamorfosi delle cose e del linguaggio – di
una condizione mentale flessibile, duttile, capace di interrompere e/o distruggere sul nascere ogni
tensione, ogni tentazione verso il definitivo». M. Boselli, La polvere della storia, in Nuova Corrente,
34, n. 99 p. 197. Secondo Falcetto «la razionalità non è infatti in Calvino un principio statico o un
punto di vista privilegiato e stabile nel quale si esprima una visione armonica e organizzata delle
cose e del mondo. È piuttosto uno strumento duttile e indispensabile – ma non garantito – di
interpretazione del reale, con una valenza certo costruttiva e organizzativa ma ugualmente animato
da un vivace senso critico e autocritico che lo rende elemento dinamico e inquieto, mai in riposo.
[…] Si tratta quindi di un'idea di razionalità non chiusa, onnicomprensiva e isolata ma aperta e in
costante contatto con il diverso da sé». B. Falcetto, La tensione dell'esistenza, cit., p. 34. Ma
l'immagine più suggestiva è regalata dallo stesso Calvino recensore del Codex Sepaphinianus: «Alla
fine (è l'ultima pagina del Codex) il destino di ogni scrittura è di cadere in polvere, e pure della mano
scrivente non resta che lo scheletro. Righe e parole si staccano dalla pagina, si sbriciolano, e dai
mucchietti di polvere ecco che spuntano fuori gli esserini color arcobaleno e si mettono a saltare. Il
principio vitale di tutte le metamorfosi e di tutti gli alfabeti riprende il suo ciclo» I. Calvino,
L'enciclopedia di un visionario, S, p. 560.
109 Un aspetto colto con precisione da Maria Corti: «si nota come l'elemento descrittivo, col suo
scomporsi in una serie di immagini minute e col suo prolungarsi, sfugge al processo schematizzante
nell'atto stesso in cui genera l'orizzonte poetico e un'atmosfera lirica in espansione su tutto il testo;
in altre parole l'elemento descrittivo è un punto di fuga della struttura logica insita nell'intreccio».
M. Corti, Il gioco dei tarocchi come creazione di intrecci, cit., pp. 181-182.

70
muove in uno spazio gremito di oggetti e cerca di creare un
equivalente verbale di quello spazio riempiendo la pagina di
parole con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al
non scritto, alla totalità del dicibile e del non dicibile. Sono due
diverse pulsioni verso l'esattezza che non arriveranno mai alla
soddisfazione assoluta […]. Tra queste due strade io oscillo
continuamente e quando sento di aver esplorato al massimo le
possibilità dell'una mi butto sull'altra e viceversa. (S, pp. 691-692).

Anche Calvino, ed è uno dei suoi ultimi interventi, sottolinea una continuità nelle
scelte poetiche: «sempre», «continuamente» sono indici significativi. Ma esiste
anche un'evoluzione nel tempo e dall'inizio degli anni Settanta la ricerca poetica
indugia con crescente insistenza sulla disfazione dei modelli e sull'emersione di
dettagli imprevisti e difficilmente leggibili. Oggetti singolari, minuzie, scarti
dell'esistenza di solito passati inosservati attraggono l'interesse dello scrittore:
l'occhio di Palomar è un osservatorio su minimi aspetti del mondo colti nel
momento della loro emersione, uno sguardo sull'apparire della singolarità come
falsificazione delle credenze e sovversione dei sistemi. 110 Permane la discontinuità
fra la coscienza e il mondo, ma il soggetto è affacciato su un universo sempre meno
omogeneo e stabile, travagliato da un divenire processuale che disfa, mescola e
ricompone le sue forme. Le possibilità di successo nella congettura di modelli
generali – o «modelli dei modelli»111 – divengono sempre più flebili e sono ormai

110 Lo «sguardo dell'archeologo» è un momento dell'indagine – meglio ancora: è un aspetto del


lavoro immaginario dello scrittore – e deve confluire in un generale procedimento intellettuale: «il
vero luogo della nostra impresa precede oppure segue l'applicazione di un metodo: fornendogli
materie prime o rifornendosi di semilavorati dalle sue officine». (Lo sguardo dell'archeologo, S, p.
327).
111 La dialettica fra la tendenza all'ordine cristallino e l'espansione pulviscolare va dunque letta
secondo due prospettive. Una di ordine morfologico: la tensione agisce con maggiore o minore
intensità in tutta la produzione poetica e i movimenti fra cristallo e pulviscolo influenzano le forze
sottocutanee del testo; l'altra di ordine storico: nel corso degli anni Calvino intensifica la
frammentazione e la dispersione atomica delle immagini e delle parole. Muzzioli insiste soprattutto
sulla seconda: «nelle riflessioni del signor Palomar (soprattutto ne Il modello dei modelli), Calvino
delinea questo passaggio progressivo: da un modello unico, fissato in astratto con il massimo di
ordine geometrico e armonia, epperò in perpetua difficoltà, malgrado i progressivi aggiustamenti
possibili, di fronte alla deformità e complessità del mondo; fino a modelli sempre più “trasparenti” e
“sottili”, parziali e problematici, ai limiti della sparizione». F. Muzzioli, Polvere di utopia, Nuova
Corrente XXXIV (1987), pp. 147-156.

71
ineludibili le ragioni del pulviscolo.112 Le mappe del mondo e le ipotesi
cosmologiche sono esposte alla disfatta, eppure la pulsione alla conoscenza – intesa
come deduzione immaginativa, tentativo di «isolare il caos, dargli un nome
indicandolo»113 – non s'esaurisce: «Palomar non finisce mai di interrogarsi sul
senso o sull'assenza di senso dell'universo».114

10. Orientarsi.

Le pagine di Calvino sono gremite di forme topologiche: l'opposizione fra il


cristallo e il pulviscolo distingue la scrittura schematica e rarefatta da quella precisa
e minuziosa, la stabilità cosmica dal suo contrario; la scacchiera è emblema del
sogno d'esaustione; il labirinto invece è immagine del caos e dell'intrico. Le
immagini topologiche assumono una dimensione semantica (sono occorrenze
visibili, temi, oggetti della riflessione), ma influiscono anche sulla forma del testo
(ordinano lo stile, suggeriscono una determinata disposizione delle lettere sulla
pagina e presiedono all'articolazione dei rapporti narrativi). Uno studio topologico
dedicato a Calvino si dimostra un'occasione feconda per trascendere il dualismo fra
analisi tematica e analisi formale. Sono considerazioni, queste, non distanti da un
saggio di Hans Magnus Enzesberger (Topologische Strukturen in der modernen
Literatur115) di cui Calvino ha letto la traduzione spagnola. 116 Il poeta tedesco, dopo
112 Celati coglie nei «processi congetturali» di Palomar il pensiero sia «in balia del cogito»: «il
cogito è la premessa di tutte le forme di pensiero moderno basate su sistemi e su modelli. È la
premessa che dovrebbe risolvere definitivamente la questione del nostro essere nel mondo in base al
fatto che siamo creature pensanti,che ci istituisce come soggetti autonomi come la supposta
autonomia del nostro pensiero, e che separa istantaneamente la misteriosa incertezza d'ogni forma
di vita dalle mirabili certezze del sapere». Eppure, secondo Celati, Palomar riduce la questione
conoscitiva «ad una pura ossessione». Calvino mantiene indiscusso il «principio cogitativo che il
pensiero sia un piano di rappresentazione dove annotare un nostro possibile dominio degli oggetti
esterni, per mezzo di sistemi e di modelli». G. Celati, Palomar, nella prosa del mondo, cit., pp. 236-237.
113 M. Boselli, La polvere della storia, cit., p. 197.
114 G. Ficara, Per Italo Calvino, cit., p. 137. La ragione di Calvino, infine, insiste nella critica di sé
stessa senza varcare del tutto la soglia della dissoluzione. Per questo Calvino non abbandona la linea
razionalista di tradizione settecentesca, pur portandola alle estreme conseguenze. Un buon
commento a Dall'opaco pare una riflessione di Calvino sul Candide: «il “razionalismo” di Voltaire è
un atteggiamento etico e volontaristico che si campisce su uno sfondo teologico incommensurabile
all'uomo quanto quello di Pascal». (S, p. 1002)
115 H. M. Enzesberger, Topologische Strukturen in der modernen Literatur, in Id., Scharmützel und
Scholien. Über Literatur, Surkamp, Frankfurt am Main 2009, pp. 45-64.
116 Il saggio è esplicitamente citato in Cibernetica e fantasmi. Lo stesso intervento di Ezesberger
risente de La sfida al labirinto di Calvino. Non è un caso che Calvino, Vittorini e il poeta tedesco

72
aver analizzato alcune strutture topologiche deputate a ordinare i confini formali
fra finzione e realtà, sostiene che «nun können solche Muster auch zum “Inhalt”
der Erzählung werden. In solchen Fällen läßt sich dieser Inhalt vom
Kompositionsschema nicht immer Unterschieden; meist schlägt das abgebildete
Muster im Verfahren der Abbildung, das heißt in ihrem Aufbau, oft sogar in ihrer
Syntax, durch».117
Nel corso dell'intervento Enzesberger si chiede quale possa essere l'orizzonte di uno
studio della topologia in letteratura, e quale il fine di una sua applicazione poetica.
L'impiego dei modelli spaziali non può essere soltanto una soluzione estetica, né
tale operazione può ambire a un diretto confronto scientifico con la matematica e la
geometria. Enzesberger esclude anche che la figura topologica letteraria possa
avere un fine esclusivamente ludico, sebbene abbia una certa relazione con i giochi:
«was solche Spiele vor allen andern auszeichnet und, wie ich vermute, ihren
Daseinsgrund ausmacht, ist nicht allein ihr räumlicher Charakter, sondern der
Umstand, daß sie den Spieler nötigen, sich selbst im Raum zurechtzufinden. Ich
möchte sie deshalb Orientierungsspiele nennen».118 Immaginare figure spaziali è
dunque una strategia d'orientamento: la letteratura è il luogo in cui poter trovare la
strada nell'intrico labirintico del mondo. Proprio sul tema del labirinto i due
scrittori convergono e Calvino traduce in italiano la continuazione del saggio di
Enzesberger:

Ogni orientamento presuppone disorientamento. Solo chi ha


sperimentato lo smarrimento può liberarsene. Però questi giochi
di orientamento sono a loro volta giochi di disorientamento. In
ciò sta il loro fascino e il loro rischio. Il labirinto è fatto perché chi
vi entra si perda ed erri. Ma il labirinto costituisce pure una sfida
al visitatore perché ne ricostruisca il piano e ne dissolva il potere.
Se egli ci riesce, avrà distrutto il labirinto; non esiste labirinto per
chi lo ha attraversato. […] Nel momento in cui una struttura
topologica si presenta come struttura metafisica il gioco perde il

collaborino per la versione europea de Il Meanabò.


117 H. M. Enzesberger, Topologische Strukturen in der modernen Literatur, cit., p. 54.
118 Ibidem, p. 61.

73
suo equilibrio dialettico, e la letteratura si converte in un mezzo
per dimostrare che il mondo è essenzialmente impenetrabile, che
qualsiasi comunicazione è impossibile. Il labirinto cessa così di
essere una sfida all'intelligenza umana e si instaura come
facsimile del mondo e della società. (Cibernetica e fantasmi, p.
224).

Nella parte non tradotta da Calvino il poeta tedesco afferma che grazie ai giochi di
orientamento la letteratura rinviene un «Weltmodell», ovvero una «forma del
mondo» o mappa di un aprico. Ora, alla fine di questo percorso critico, si può
notare come le forme topologiche del labirinto e della mappa – e anche, su un piano
diverso, del cristallo e del pulviscolo – siano disposte una contro l'altra nel
paesaggio di Dall'opaco. I due versanti del paesaggio sono il cosmo dove il soggetto-
scrittore deve orientarsi:

È chiaro che per descrivere la forma del mondo la prima cosa è


fissare in quale posizione mi trovo, non dico il posto ma il modo
in cui mi trovo orientato, perché il mondo di cui sto parlando ha
questo di diverso da altri mondi possibili, che uno sa sempre dove
sono il levante e il ponente in tutte le ore del giorno e di notte, e
allora comincio col dire che è verso mezzogiorno che io sto
guardando, il che equivale a dire che sto con la faccia in direzione
del mare, il che equivale a dire che volto al monte le spalle, perché
è questa la posizione in cui io di solito sorprendo il me stesso che
se ne sta all'interno di me stesso, anche quando il me stesso
all'esterno è orientato in tutt'altro modo o non è affatto orientato
come spesso succede, in quanto ogni orientamento comincia per
me da quell'orientamento iniziale, che implica sempre l'avere sulla
sinistra il levante e sulla destra il ponente, e solo a partire di lì
posso situarmi in rapporto allo spazio, e verificare la proprietà
dello spazio e delle sue dimensioni (R III, pp. 90-91)

74
Esiste un breve saggio di Kant (Che cosa significa orientarsi nel pensiero 119) scritto
nel 1786 per redimere una controversia filosofica esplosa nell'ambiente intellettuale
tedesco a proposito della conoscibilità razionale della divinità. Qui non è pertinente
ricostruire le cause del dibattito, né soffermarsi sul percorso che Kant traccia fra
l'orientamento trascendentale e le condizioni di esistenza di una speculazione
metafisica. Stimolano invece la riflessione critica le prime pagine del breve trattato
dove Kant distingue tre diverse tipologie di orientamento. Innanzitutto il soggetto
si orienta «geograficamente» quando determina i suoi punti di riferimento «a
partire da una certa regione del mondo (una delle quattro in cui suddividiamo
l'orizzonte) […] in particolare l'oriente ». Già nell'orientamento geografico, però,
opera un criterio interiore la cui responsabilità è affidata al discernimento del
soggetto: «quindi nonostante tutti i dati oggettivi fornitimi dal cielo mi oriento
geograficamente in base a un criterio di distinzione puramente soggettivo ». Il «puro
sentimento della differenza fra i miei due lati, destro e sinistro» interviene anche
nell'orientamento «matematico», definito come «l'orientarsi in un dato spazio in
generale» e non in un contesto specifico e mondano. L'astrazione dal mondo e
l'accento posto sul lavorio soggettivo e trascendentale si accrescono
nell'orientamento «logico» relativo alle operazioni della ragione durante i
movimenti del pensiero in territori indipendenti dai sensi: «sarà compito della
ragione pura guidare il proprio uso quando essa, partendo da oggetti noti
(dell'esperienza), vorrà estendersi al di là di tutti i confini dell'esperienza». 120

119 I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, traduzione italiana di P. Dal
Santo, Adelphi, Milano 1996. Per una definizione storica della polemica originaria si veda
l'introduzione di Volpi. Sebbene il testo non abbia avuto notevole successo in Italia, almeno fino alla
traduzione Adelphi, può essere interessante notare che nel 1960 uscì una traduzione francese
(Qu'est-ce que s'orienter dans la pensée?) preso l'editore parigino Vrin.
120 Una prefigurazione di Che cosa significa orientarsi nel pensiero appare già in uno degli Scritti
precritici: Del primo fondamento della distinzione delle regioni dello spazio. (In I. Kant, Scritti precritici,
Laterza, Bari 1982). Qui Kant si domanda se «si possa trovare una prova evidente che lo spazio
assoluto è indipendente dalla esistenza di ogni materia ed ha anche una realtà propria come primo
principio di possibilità della composizione della materia» (Ibidem, p. 412). Per trovare una soluzione
al dilemma Kant parte dai principi spaziali soggettivi (come l'opposizione fra destra e sinistra) e
tenta di dimostrare come essi si riferiscono in ultima istanza «allo spazio assoluto e originario».
Durante l'argomentazione Kant avanza un ragionamento che potrebbe essere fonte diretta di
Dall'opaco: «nello spazio corporeo, a causa delle sue tre dimensioni, si possono pensare tre piani che
si tagliano tutti tra loro ad angolo retto. Ora, siccome tutto ciò che è fuori di noi è da noi conosciuto
coi sensi soltanto in quanto è in relazione con noi stessi, non è da meravigliarsi se noi prendiamo il
primo fondamento per generare il concetto delle regioni nello spazio, dal rapporto di questi piani di
intersecazione col nostro corpo. Il piano, su cui la lunghezza del nostro corpo cade

75
L'orientamento, dunque, è un'operazione che avviene a partire da un certo distacco
– l'orientamento si dà «in assenza del mondo», come direbbe l'osservatore ligure.
Dall'opaco esprime poeticamente le cogitazioni trascendentali di un soggetto
intento a trovare il suo orientamento in un universo sempre più frammentario,
caotico e incomprensibile.121 Il paesaggio osservato è così una forma congetturale
che l'io immagina per spiegare il suo rapporto con il mondo esterno, definire la
posizione occupata e verificare le possibilità e i limiti della scrittura: è sul crinale di
fronte al mare che il soggetto pondera l'incongruenza fra le parole e le cose. 122
Dall'orientamento dell'io scrivente, inoltre, si originano i simboli e gli emblemi, le
strutture del racconto, lo stile e le possibilità narrative. Il paesaggio, allora, è la
figura topologica che precede e ordina tutte le altre, grembo immaginario della
facoltà fantastica. Dirà Calvino nella sua ultima intervista: «come ambiente
naturale quello che non si può respingere o nascondere è il paesaggio natale e
familiare. […] Ogni indagine non può che partire da quel nucleo da cui si
sviluppano l'immaginazione, la psicologia, il linguaggio».123

perpendicolarmente, rispetto a noi si dice orizzontale; e questo piano orizzontale dà motivi alla
distinzione delle regioni che indichiamo come sopra e sotto. Possono poi cadere perpendicolarmente
su questo, e nello stesso tempo incrociarsi ad angolo retto due altri piani, cosicché la lunghezza del
corpo umano sia pensata nella linea di intersecazione. L'uno di questi due piani verticali divide il
corpo in due metà simili esterne, e dà il principio della distinzione del lato destro dal sinistro; l'altro,
che cade perpendicolarmente sul primo, fa sì che noi possiamo avere il concetto del lato anteriore e
posteriore». (Ibidem, pp. 412-413).
121 Barenghi scrive a proposito di Dall'opaco: «Potremmo parlare di una sorta di autobiografismo
trascendentale, cioè di una riduzione del recupero memoriale all'individuazione dello schema a
priori […] che sottostà al rapporto presente del soggetto con la realtà». M. Barenghi, Italo Calvino.
Le linee e i margini, cit., p. 102.
122 Secondo Boselli in Dall'opaco «l'autore sembra avervi compendiato, sotto specie di racconto,
alcune caratteristiche fondamentali dei suoi modi di immaginare ed esprimere la realtà, quasi per
darne dimostrazione paradigmatica». M. Boselli, Italo Calvino: l'immaginazione logica, cit., p . 137.
123 I. Calvino, Intervista di Maria Corti, S, p. 2926. Per una analisi più attenta del dialogo con Maria
Corti si veda il terzo capitolo, paragrafo 6.

76
Capitolo II

La strada di San Giovanni.


Paesaggio e distanza spaziale
1. Il mondo visto dall'alto.

Ne La strada di San Giovanni un narratore ormai adulto rievoca il paesaggio della


Liguria di Ponente fra la fine degli anni Venti e l'inizio del decennio successivo. La
voce del narratore recupera lo sguardo del bambino che s'affaccia dal balcone della
dimora di famiglia situata «a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a
frontiera fra due continenti». «In su» attende il mondo naturale delle alture
collinose di San Giovanni «tra muri a secco e pali di vigne», mentre «in giù» s'apre
un paesaggio di mare e di case affastellate. A San Giovanni, località dell'entroterra
che sovrasta Sanremo, i Calvino erano proprietari di una «campagna» racchiusa in
una valle dove l'avanzata della modernità ancora non era giunta. Tuttavia è il
mondo in basso ad attirare l'attenzione del bambino: «il porto non si vedeva,
nascosto dall'orlo dei tetti delle case alte di piazza Sardi e piazza Bresca, e ne
affiorava solo la striscia del molo e le teste delle alberature e dei battelli; e anche le
vie erano nascoste e mai riuscivo a far coincidere la loro topografia con quella dei
tetti, tanto irriconoscibili mi apparivano di quassù proporzioni e prospettive».
Dall'alto appaiono le sagome della città marittima, un intreccio di linee e superfici
senza profondità dove una distesa irregolare di tetti preclude la cognizione del
reticolato interno delle vie. San Remo appare come un collage di figure accostate
l'una contro l'altra: «là il campanile di San Siro, la cupola a piramide del teatro
comunale Principe Amedeo, qua la torre di ferro dell'antica fabbrica d'ascensori
Gazzano […], le mansarde della cosiddetta «casa parigina», un palazzo
d'appartamenti d'affitto». L'occhio inquieto dell'osservatore immobile percorre dal
basso verso l'alto il digradare del territorio: «al di là si levava, come una quinta, […]
la riva di Porta Candelieri, […] e s'aggrappava la vecchia casbah della Pigna, grigia e
porosa come un osso dissotterrato, con segmenti neri catramati o gialli e cespi
d'erba, sormontata […] da un giardino pubblico ben ordinato e un po' triste, che

78
saliva con le sue siepi e spalliere la collina: fino al ballo d'un dopolavoro montato su
palafitte, al palazzotto del vecchio ospedale, al santuario settecentesco della
Madonna della Costa, dalla dominante mole azzurra». (RR III, pp. 8-9).
La visione dall'alto di un agglomerato urbano è un motivo caro a Calvino e ricorre
in diverse occasioni. La nuvola di smog è un racconto lungo dove numerose visioni
urbane si succedono una dopo l'altra nel tentativo di disegnare una
rappresentazione complessiva dei processi industriali che hanno modificato la
società italiana durante i decenni successivi alla guerra. Nel capitolo centrale il
protagonista – un intellettuale disincantato e d'animo volubile – sale in compagnia
dell'amata «per la verdeggiante spalliera di collina che cinge la città a levante» e
ordina all'autista di raggiungere «un punto panoramico, là in alto». La città è un
brillio di frammenti luminosi adagiato nel paesaggio: «scendemmo di macchina.
[…] Io saltavo di qua e di là, mostrandole là dove dal cielo emergeva la cresta
biancastra delle Alpi […] e di qua il rilievo movimentato e saltuario della collina
con paesi e strade e fiumi, e in basso la città come una rete di minute scaglie opache
o luccicanti, meticolosamente allineate». (RR I, p. 925). Per un attimo l'occhio coglie
dall'alto un ammasso urbano dai colori accesi, vari e dalla forma geometrica.
Un'esperienza percettiva impossibile all'abitante che quotidianamente percorre le
strade e le piccole vie. Di poco anteriore è l'immagine di Mosca presentata nel
diario del viaggio sovietico del 1954:

Sono sui monti Lenin (la collina dei Passeri, di napoleonica


memoria). È una bella giornata; a Mosca pare non ci sia quasi mai
nebbia, la vista è appena appannata in lontananza dall'aria umida
autunnale. Già vedo la Moscova color d'acciaio e al di là,
estendersi Mosca. I quartieri più vicini sono di legno, a un piano,
casette, baracche, piccole officine (segherie, autorimesse) e,
proprio accanto quartieri di grandi palazzi nuovi, dall'aspetto
sontuoso e lustro; e così è tutta la città sterminata; una scacchiera
di vecchio e nuovo, d'alto e di basso, di zone in costruzione e di
zone in demolizione. In mezzo a tutto spuntano le ciminiere delle
fabbriche, e, smisuratamente alti, i grattacieli. (S, pp. 2418-2419).

79
Dai monti le linee e i colori della capitale paiono integrarsi con il fiume e
l'atmosfera, il tempo si mostra nell'ordinata rete che avvolge il passato e il futuro
della Russia rivoluzionaria. Tuttavia le sezioni della città non intessono legami
organici, ma sono descritte come se fossero accostate l'una all'altra: qui i quartieri
di legno, più in là i palazzi sontuosi, poi le zone in demolizione, le sagome delle
fabbriche. L'occhio non coglie le relazioni ma solo la contiguità spaziale fra parti
disconnesse. San Remo, Torino e Mosca paiono nitide distese di edifici analizzati in
prospettiva e proiettati su una «scacchiera» dove l'azzurro tinto d'acciaio dell'acqua
si contrappone ai colori abbaglianti delle costruzioni umane.
Ne La strada di San Giovanni ogni mattina d'estate il figlio accompagna il padre
sino alla campagna per contribuire ai lavori campestri. Il ricordo segue le svolte
della strada che porta «in su»: «si usciva nella scalinata di Salita San Pietro, a
ciottoli e mattoni», «percorrevamo un tratto di carrozzabile» e «si andava fino al
ponte di Baragallo in una periferia mezzo campestre ma già presa d'assalto dalla
città», i due poi lasciano la carrozzabile e costeggiano un torrente, salendo su per
«luoghi più raccolti e familiari» (RR III, pp. 16-18). L'ultimo tratto del sentiero è in
piano e sotto si apre la valle che accoglie «la campagna»:

Poi la mulattiera s'addentrava verso San Giovanni per un bel


tratto in piano; il mare, era alle nostre spalle; di là dal torrente la
riva di Tasciaire era squarciata da un lungo e vasto dirupo,
prodotto da un'antica frana, azzurro nella pietra scheggiata color
terra. Da una certa svolta in poi già si vedeva in fondo alla valle
aprirsi di sbieco la valletta di San Giovanni, nitida da poterla
distinguere fascia per fascia – dove gli olivi non annuvolavano la
vista –, e chi vi lavorava, e il fumo dai tetti rossi dei casoni». (RR
III, p. 19).

«Di fascia in fascia» il territorio è sezionato in diversi livelli che procedono ordinati
fino al fondovalle. Il nitore delle linee contrasta con il verde sfumato degli ulivi e i
tetti mostrano un colore acceso. Lo sguardo dall'alto dà forma a un paesaggio

80
screziato da una quiete laboriosa. Non appena l'osservatore abbandona la sua
immobilità e riprende la marcia per addentrarsi nella campagna, le immagini si
dissolvono: «mi toccherebbe qui di raccontare ancora ogni passo e ogni gesto e
ogni mutamento d'umore all'interno del podere, ma tutto ora nella memoria prende
una piega più imprecisa, come se, finita la salita con il suo rosario di immagini, io
venissi ogni volta assorbito in una specie di limbo attonito». L'avvicinamento non
comporta un incremento di conoscenza, ma induce un senso di smarrimento ed
estraneità. Lo stordimento «durava finché non veniva l'ora di dare mano alle ceste e
riprendere la strada per tornare» (RR III, p. 21): l'osservatore non può configurare
un'immagine dall'interno del paesaggio.
Una condizione visiva analoga ritorna nel poème en prose conservato nel centro
esatto delle Città invisibili. La città non si trova in basso, ma è sospesa in cielo
grazie a «sottili trampoli che s'alzano dal suolo a gran distanza l'uno dall'altro e si
perdono sopra le nubi». A Bauci «ci si sale con scalette. A terra gli abitanti si
mostrano di rado: hanno già tutto l'occorrente lassù e preferiscono non scendere.
Nulla della città tocca il suolo tranne quelle lunghe gambe da fenicottero a cui si
appoggia e, nelle giornate luminose, un'ombra traforata e angolosa che si disegna
sul fogliame». Perché gli abitanti hanno deciso di abbandonare la terra e vivere a
distanza? Le ipotesi convergono tutte sulla ricerca di un corretto punto di vista:
«tre ipotesi si dànno sugli abitanti di Bauci: che odino la terra; che la rispettino al
punto d'evitare ogni contatto; che la amino com'era prima di loro e con
cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna,
foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la
propria assenza». (RR II, p. 423). I cittadini di Bauci ammirano affascinati il mondo
come un paesaggio di cui non fanno parte, contemplano l'immagine in condizione
di distacco.
Nelle visioni dall'alto Calvino accoglie ed elabora un'attitudine percettiva fortunata
nella modernità occidentale:124 la visione di una porzione territoriale da parte di un
124 Nell'introduzione al suo Voyage en Hollande Diderot raccomanda: «si vous n’êtes pas un homme
de peu de cervelle, vous pratiquerez partout le conseil que je vais vous donner. Arrivé dans une ville,
montez sur quelque hauteur qui la domine, car c'est là que, par une application rapide de l'échelle de
l’œil, vous prendrez une idée Juste de sa topographie, de son étendue, du nombre de ses maisons, et
avec ces éléments quelque notion approchée de sa population». D. Diderot, Voyage en Hollande, in
Id., Supplément aux Oeuvres de Diderot, Belin, Paris 1819, p. 4. In merito al rapporto fra la visione

81
soggetto situato in posizione privilegiata, astratta dalle cose. 125 Per comprendere
questo trattamento dell'immagine è necessario accennare ai presupposti che
rendono possibile la contemplazione a distanza di un paesaggio. Il testo più
completo e pertinente è la breve Filosofia del paesaggio 126
pubblicata da Simmel nel
1913, un bilancio teoretico ed estetico sull'origine e la forma del paesaggio. In base
alle conoscenze a disposizione è impossibile dimostrare che Calvino abbia letto il
saggio, tuttavia il filosofo tedesco affronta con precisione e intelligenza un
problema caro alla stessa tradizione – occidentale e moderna – che impregna la
formazione dello scrittore ligure. Secondo Simmel la natura è «l'infinita
connessione delle cose (endlosen Zusammenhang der Dinge), l'ininterrotta nascita
e distruzione delle forme» e presenta una radicale differenza «rispetto all'arte e ai
prodotti artificiali, all'ideale e alla storia». Come entità autonoma e organica la
natura è definita come una «unità di una totalità (Einheit eines Ganzen)» 127 ed è
pertanto un paradosso supporre che sia divisibile in sezioni autosufficienti limitate
da un riquadro. Eppure la modernità – in quanto processo di emancipazione dal
continuum indifferenziato delle origini – si è resa responsabile di una «lacerazione
rispetto al sentimento unitario della natura». Per compensare 128 la dissoluzione
della comunione fra l'uomo e la natura è nata la disposizione a vedere il paesaggio:
dall'alto e il razionalismo moderno si vedano le acute osservazioni di Farinelli: «perché un paesaggio
esista sono necessarie almeno tre, e non due cose: non soltanto un soggetto che guarda e qualcosa
da guardare ma anche il massimo d'orizzonte possibile, dunque un'altura che funzioni da punto di
vantaggio […]. Perciò il paesaggio presuppone non soltanto la modernità, ma anche la
domesticazione dei monti, la loro inclusione nell'ecumene, che appunto soltanto tra Sette e
Ottocento avviene. Il soggetto del paesaggio, l'uomo che guarda dall'alto il panorama sottostante, è
perciò un soggetto storicamente determinato. In geografia esso coincide con la nascita della “società
civile”, dell'opinione pubblica che si oppone in Germania al mondo aristocratico-feudale». F.
Farinelli, Geografia. Un'introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, Torino 2003, p. 41.
125 Per un bilancio critico opposto a quello qui proposto si veda B. Grundtvig, “Leaning from the
Steep Slope...”. The Fall of the Cartographic Eye in Calvino's Late Works, in B. Grundtvig, M.
McLaughlin, L. W. Peterses, Image and Art in Calvino, Legenda, London 2007, pp.171-184. Secondo
Grundtvig durante la lettura dell'ultimo Calvino «our eyes crash down from the elevated points of
observation into maelstroms». (Ibidem, p. 181). Si è tentato di dimostrare nella prima parte come la
sfida al labirinto e al mare dell'oggettività non comporteranno mai, nemmeno negli ultimi più
disperati anni, la resa incondizionata all'abisso informe e caotico.
126 G. Simmel, Philosophie der Landschaft, in Id., Jenseits der Schönheit. Schriften zur Ästhetik und
Kunstphilosophie, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 2008, pp. 42-52. Per la traduzione in italiano si fa
riferimento alla versione raccolta in Estetica e paesaggio, a cura di P. D'Angelo, Il Mulino, Bologna
2009.
127 G. Simmel, Philosophie der Landschaft, cit., p. 42.
128 La riflessione sulla funzione del paesaggio di compensare esteticamente le ferite apportate dal
progresso storico sarà ripresa da Joachim Ritter in Paesaggio. La funzione dell'estetico nella società
moderna, in P. D'Angelo, Estetica e paesaggio, cit., pp. 65-83.

82
«l'individualizzazione delle forme interiori ed esteriori dell'esistenza, la
dissoluzione dei legami originari e delle unioni in entità particolari differenziate,
questa grande formula del mondo successiva al Medioevo ci ha anche fatto vedere
per la prima volta il paesaggio nella natura». 129 Il paesaggio deriva quindi dal
desiderio di dare forma a una nuova unità nell'epoca del discernimento critico, del
distacco e dell'analisi scientifica. Frammento in sé delimitato e dotato di una
organicità autonoma, il paesaggio non è più natura, ma avanza la pretesa di essere
un «tutto indipendente» come la natura. Cosa può giustificare l'unità se i legami
naturali sono infranti? La totalità interna al paesaggio è un effetto dell'accordo
sentimentale che il soggetto proietta di fronte a sé. È la tonalità emotiva – la
Stimmung130 – a tenere insieme gli elementi disparati del paesaggio come complesso
in sé autosufficiente racchiuso in una unità visiva: «la Stimmung del paesaggio
pervade tutti i suoi singoli elementi, spesso senza che si possa definire quale ne sia
la causa; in un modo difficilmente definibile ciascuno ne fa parte – ma essa non
esiste al di fuori di questi apporti, né è composta da essi». 131 La «tonalità
percettiva» colta dal soggetto e «l'unità visiva» del paesaggio sono quindi due
aspetti del medesimo procedimento costitutivo: «infatti, non potrebbero in realtà la
tonalità spirituale (Stimmung) del paesaggio e la sua unità visiva (anschauliche
Einheit) essere una sola cosa, soltanto vista da due lati?». Poiché «l'unità di una
totalità» non discende più dalla natura, ma deriva dalla mutua compenetrazione di
apparenza visiva e sentimento, il paesaggio emerge come configurazione estetica.
Da qui Simmel trae una conclusione fondamentale: «il paesaggio è già una forma
spirituale (ein geistiges Gebilde), non si può toccarlo all'esterno o camminarci
attraverso (man kann sie nirgends im bloß Äußeren tasten und betreten), vive solo
in grazia della forza unificatrice dell'anima». 132 Per questo il paesaggio «ci sta di
fronte ad una distanza che è fonte di obiettività (steht uns die Landschaft in einer

129 G. Simmel, Philosophie der Landschaft, cit., p. 43.


130 Se nello studio storico-semantico di Spitzer (L'armonia del mondo. Storia semantica di un'idea, Il
Mulino, Bologna 1967) la Stimmung è l'accordo armonico fra l'io e il mondo precedente
all'illuminismo e alla sua dialettica, in Simmel invece la tonalità spirituale è una funzione unitaria
interna al processo della modernità. La riflessione filologica investe il tempo precedente al distacco,
quella del filosofo si sofferma invece sulla condizione del distanziamento: una difficoltà ulteriore da
aggiungere al complesso gioco di sfumature che circondano la Stimmung.
131 G. Simmel, Philosophie der Landschaft, cit., p. 49.
132 Ibidem, p. 50.

83
Distanz der Objektivität gegenüber)», 133 ovvero si costituisce oggettivamente in
seguito ad una proiezione soggettiva e sentimentale. La distanza è la mediazione
che regola la tensione fra il sentimento d'una atmosfera e la percezione visiva
unitaria.134
Se il paesaggio è una apparizione spirituale e intangibile, allora si comprende
meglio perché a San Giovanni le immagini si corrodono e svaniscono non appena il
giovane protagonista fa il suo ingresso nella campagna: la visione unitaria del luogo
dipende dal distacco d'un soggetto che osserva da un punto situato in alto, altrove o
al di fuori. Si può dunque ipotizzare che la distanza di Calvino discende dalla
medesima «grande formula del mondo» individuata da Simmel: la modernità come
«individualizzazione» e «dissoluzione dei legami originari». Nelle descrizioni di
San Remo, Torino e Mosca, tuttavia, si può notare come gli elementi del paesaggio
si dispongano uno accanto all'altro in un accostamento di frammenti privi di
connessioni organiche, lasciando apparire un'aggregazione di parti senza una
comunione nella totalità.135 Nel procedimento per giustapposizione riposa una
variazione rilevante nel metodo percettivo e nello stile di Calvino.
Nonostante la frantumazione è importante notare come l'astrazione dello sguardo e
la distanza permettano una visione complessiva del territorio, una quieta
contemplazione che interrompe per un attimo gli affanni dell'esistenza. A Bauci gli
abitanti potrebbero osservare la loro assenza incantati e rispettosi «al punto da
evitare ogni contatto». Oppure, secondo un'altra ipotesi, i cittadini di Bauci

133 Ibidem, p. 47.


134 Prima ancora di Simmel è stato lo storico dell'arte Alois Riegl a individuare in un articolo del
1899 il nesso fra visione dall'alto, Stimmung e senso di unità. Secondo Riegl spesso l'uomo subisce un
timore dovuto alla vicinanza e alla presenza della natura. Ma non appena sale su una montagna per
vedere il paesaggio egli è libero di contemplare e conoscere un mondo che si concede alla sola vista.
Finalmente dalla vetta «indem ich nun das Ganze überschaue», posso abbracciare con lo sguardo la
totalità. Il verbo “überschauen”, impiegato anche da Simmel nella sua Filosofia del paesaggio, rende
molto bene l'idea di un'apparenza colta da uno sguardo che sta sopra e oltre le cose. Interessante
notare – alla luce delle riflessioni a venire – come Riegl denoti lo stretto rapporto che lo sguardo
estetico e artistico dall'alto della montagna intrattiene con lo sguardo della scienza. A. Riegl, Die
Stimmung als Inhalt der modernen Kunst, Graphische Künste XXII, 1899.
135 La disgregazione avviene perché allo sguardo si presentano, oltre agli elementi «naturali»,
anche tetti rossi, fumi e costruzioni umane? Secondo Simmel, tuttavia, il paesaggio non è più
«natura», ma una configurazione autonoma di elementi che stanno insieme come se fossero natura
organica e viva, dunque anche tetti e fabbricati. Perché allora è impossibile ritrovare una
corrispondenza atmosferica fra le parti, un accordo fra il fiume e la città? È un interrogativo che sarà
affrontato nel quinto capitolo, in particolare al paragrafo 2.

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potrebbero avere in odio la terra laggiù, coacervo di inquietudini e turbamenti
materiali: solo dall'alto la visione del mondo sarebbe loro sopportabile. Così avviene
anche ne La formica argentina, racconto lungo dei primi anni Cinquanta. Un
emigrante si è da poco installato nella nuova dimora insieme alla moglie e al figlio
ancora in fasce. Durante il corso della narrazione la famiglia deve fronteggiare
l'invasione di nugoli brulicanti di piccole formiche in una crescente sensazione di
disagio, quasi di orrore. L'occasione di contemplare il giardino da una posizione
sopraelevata concede una pausa in una vita di tensioni infelici:

Mia moglie ed io salivamo per questo viale e giù dalle balaustre


vedevamo la casetta dove abitavamo, ancora così poco a noi
familiare, e la sterpaglia del terreno incolto, e il giardinetto di
Reginaudo simile al cortile d'un magazzino, e il giardinetto dei
Brauni con la sua compostezza quasi cimiteriale, ed ecco ora
potevamo dimenticarci che erano luoghi neri di formiche, ecco
ora potevamo vederli come sarebbero stati senza quell'assillo al
quale non ci si poteva sottrarre neppure per un attimo, ecco ora a
quella distanza potevano anche sembrare un paradiso – e però più
dall'alto li guardavamo più ci prendeva un senso di pietà per la
nostra vita laggiù, come se a vivere in quel meschino, gracile
orizzonte non si potesse che continuare a batterci contro problemi
gracili e meschini. (RR I, p. 474).

A partire dal distacco la «casetta», la «sterpaglia» e tutti gli oggetti disposti in serie
all'intorno appaiono meno invivibili e compongono sulla pagina un'immagine
nitida e cristallina. «A quella distanza» è possibile valutare meglio l'aspetto
oggettivo di un luogo perché non si è più parte del garbuglio soffocante
dell'esistenza e si trae giovamento dalla pace del trascendimento.

2. Il pathos della distanza.

«Il buio è punteggiato di piccoli chiarori: ci sono grandi voli di lucciole intorno alle

85
siepi». Il sentiero dei nidi di ragno si conclude su lievi lucori notturni intravisti da
Pin e dal suo compagno di viaggio. « – C'è pieno di lucciole, – dice il Cugino. – A
vederle da vicino, le lucciole, – dice Pin, – sono bestie schifose anche loro, rossicce.
– Sì, – dice il Cugino,– ma viste così sono belle». (RR I, p. 147). Nel 1958 Cesare
Cases scrive un bilancio dei primi dieci anni di attività letteraria dello scrittore
ligure: Calvino e il «pathos della distanza».136 «Si sapeva che Calvino – inizia Cases
– ha caro quello che Nietzsche chiamava il «pathos della distanza». […] Questo
pathos della distanza, se è segno di elezione, è anche causa d'infelicità, incapacità di
adattarsi alla realtà immediata, a quelle bestie immonde che sono per Pin le donne
come sua sorella, la Nera del carruggio, o all'esaltazione bordelliana degli
avanguardisti a Mentone. In questa tensione tra la solitudine della distanza e la
comunità necessaria, ma disgustosamente vicina e infida, vive l'opera di
Calvino».137 Il riferimento al pathos nietzschiano138 è una suggestione ispirata dalla

136 C. Cases, Calvino e il “pathos della distanza”, ora in Id., Patrie lettere, Einaudi, Torino 1987, pp.
160-166. Calvino in più occasioni ha dimostrato di stimare il saggio di Cases. Tredici anni dopo
Calvino scrive a Falaschi: «Lei è stato molto bravo anche a trovare quello scritto di Cases su “Città
aperta” che nella bibliografia critica che mi riguarda mia pare una delle poche cose che contano».
Ibidem, p. 1114.
137 Ibidem, p. 160.
138 La formula del «pathos della distanza» è impiegata da Nietzsche nella Genealogia della morale.
Nietzsche s'impegna a dimostrare come l'origine del giudizio di «buono» dipenda dai nobili e dai
potenti, «uomini di condizione superiore» ben distinti dal sentire «volgare e plebeo»: «prendendo le
mosse da questo pathos della distanza si sono per primi arrogati il diritto di foggiare i valori, di
coniare le designazioni di valori». (F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico,
Adelphi, Milano 1984, p. 15). Questa impostazione di ordine etico è poco pertinente con le
interrogazioni di Calvino. È credibile che Cases facesse riferimento agli aforismi della Gaia scienza,
dove la distanza è investita da considerazioni di ordine epistemologico. Nell'aforisma 60 il filosofo si
trova «in mezzo al furore della risacca mentre le sue bianche fiamme guizzano alte fino a lambire i
miei piedi», assediato da vicini «ululati, minacce, grida, stridori». Poi «ecco che d'un tratto, come
partorito dal nulla, appare dinanzi alla porta di questo labirinto d'inferno, a una distanza di poche
braccia appena (nur wenige Klafter weit entfernt) – un grande veliero che scivola via tacito come un
fantasma. Che bellezza spettrale!». Una distanza, per quanto minima, rende più sopportabile
l'esistenza, d'una bellezza incantata. Eppure il saggio sa che «anche sul veliero più bello c'è molta
gazzarra e tumulto e anche, purtroppo, tanto piccolo, miserabile tumulto!». Conclude che «l'incanto
è […] un effetto a distanza, una actio in distans: ma ci vuole appunto, e in primo luogo e soprattutto
– distanza! (Distanz!)». (F. Nietzsche, La gaia scienza e Idilli di Messina, Adelphi, Milano 1977, pp.
105-106). Nietzsche non distingue fra l'allontanarsi (“entfernen”) e la distanza (“Distanz”), una
differenza semantica che acquisterà rilevanza nel corso di questo lavoro. Altrove (aforisma 59)
Nietzsche oppone al peso dell'esistenza la leggerezza sorvolante della visione d'artista: «ci mettiamo
a salire sulle vie più rischiose, là sopra i tetti e le torri dell'irrealtà e senza la minima vertigine».
(Ibidem, p. 104). «Le cose più vicine» infatti «appaiono grandi e pesanti» mentre «in lontananza
perdono, tutte, grandezza e peso». (Ibidem, p.180). La distanza è dunque la via alla leggerezza che
permette di incantare e al contempo di vedere meglio il mondo e sé stessi: «dobbiamo, di tanto in
tanto, riposarci dal peso di noi stessi, volgendo lo sguardo là in basso su di noi, ridendo o piangendo
su di noi da una distanza di artisti». (Ibidem, p. 146).

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lettura de Il barone rampante, pubblicato l'anno precedente: «Calvino ha trovato la
soluzione: ha insediato il suo eroe sulle piante, a una distanza tale da poter essere in
rapporto con gli uomini e giovar loro senza essere offeso dalla sana, ma un po'
maleodorante natura del popolo e da quella arida e crudele dei suoi familiari.» 139 A
Parigi Voltaire domanda a Biagio, fratello del protagonista e narratore: «Mais c'est
pour approcher du ciel, que votre frère reste là-haut?» E Biagio: «Mio fratello sostiene
che chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria». (RR II, p.
423). La distanza necessaria si traduce in racconto, in avventura, nel giorno in cui
Cosimo promette a Viola di vivere per sempre fra le fronde, forte dell'empatia con
l'universo di rami e foglie: «io non sono mai caduto da un albero in vita mia!». Si
istituisce così la distinzione netta fra un soggetto aereo e il mondo che s'apre in
basso: «giù digradava la valle sotto un cielo di corone di nubi e fumo che saliva da
qualche tetto d'ardesia, casolari nascosti dietro le ripe come mucchi di sassi; un
cielo di foglie alzate in aria dai fichi e dai ciliegi; e più bassi prugni e peschi
divaricavano tarchiati rami» (RR I, p. 578). 140 I tetti, i casolari: è lo stesso paesaggio
– ma d'un verde più intenso, dalla vegetazione più folta – osservato dall'alto della
strada che porta a San Giovanni. Anche il paesaggio d'Ombrosa è l'esito di un
distacco: «se l'Ariosto riesce a superare le dissonanze del mondo guardandolo,
come dice Croce, “con gli occhi di Dio”, Calvino, più modernamente e
modestamente, ci riesce guardandolo con gli occhi di un arboricolo». Le dissonanze
sono dunque superate nella pace contemplativa del paesaggio, oppure permane un
dissidio? Lo stesso Cases ha rilevato una «tensione» fra la solitudine e la comunità
e ricorda: «l'unità epica del soggetto e dell'oggetto nell'essere-nel-mondo-degli-
alberi deve continuamente affermare la propria autonomia, e siccome questa
autonomia è, in ultima istanza, impossibile, si crea una continua tensione tra il
pericolo di distruggerla e la possibilità di ribadirla». Per questo il pathos che
impregna l'immagine non è una semplice fuga dal reale, né una fredda astrazione,
ma esprime il rovello fra la ricerca d'una giusta distanza e il desiderio d'una

139 C. Cases, “Calvino e il «pathos della distanza”, cit., p. 160.


140 In un'intervista del 1979 Calvino ritorna su Il barone rampante e conferma le tesi che si stanno
esponendo: «col Barone rampante sono stato un teorico, se vogliamo, della piccola distanza, del passo
indietro, o al di sopra per vedere meglio e più lontano.» I. Calvino, Genericità della parola, esattezza
della scrittura, in Id., Sono nato in America, cit., p. 291.

87
rinnovata integrazione con la società e la natura.
Calvino scrive nel 1958 a Cases che «il discorso sull'essenza della realtà che può
essere colta solo a distanza ma se ci si mette sopra il naso appare mostruosa e priva
di senso, è giusto».141 Lo scrittore dimostra di accogliere le riflessioni del critico, ma
il riferimento a «l'essenza della realtà» sposta l'accento dall'interrogazione di ordine
etico-politico al problema della percezione degli oggetti e del loro effetto
sull'animo.142 Il dilemma conoscitivo relativo alla modulazione dalla distanza si
ripropone nell'Autobiografia di uno spettatore scritta nel 1974 come prefazione al
volume di Fellini Quattro film. Nell'Autobiografia Calvino rievoca la sua passione
adolescenziale per il cinema e si sofferma sul particolare significato delle immagini
proiettate allora, figure in bianco e nero nel buio della sala. Prima della guerra era
possibile percepire una netta distinzione fra «due dimensioni temporali diverse»
che corrispondevano al «dentro e fuori del film»: una «discontinuità» separava il
mondo confuso della realtà di tutti i giorni dalle immagini sospese sullo schermo.
L'ingresso al cinema comportava un attraversamento del «confine» e per questo
«l'intervallo fra il primo e il secondo tempo […] veniva a ricordare che ero sempre
in quella città, in quel giorno, in quell'ora: e secondo l'umore del momento cresceva
la soddisfazione a sapere che tra un istante sarei tornato a proiettarmi nei mari
della Cina o nel terremoto di San Francisco». (RR III, pp. 30-31). Il diaframma fra il
mondo di fuori e il mondo proiettato sullo schermo origina un senso di distanza:
«cos'era stato dunque allora il cinema, in questo contesto, per me? Direi: la
distanza. Rispondeva a un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale, di
veder aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili, astratte come entità
geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di facce e situazioni e
ambienti, che col mondo dell'esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta)
di rapporti». (RR III, p. 41). Lo schermo trattiene la tensione fra l'astrazione

141 I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 574.


142 Elio Gioanola intende il pathos della distanza come «sofferenza di un io costitutivamente debole
che ha smarrito il senso dello spazio e del tempo vissuti e si difende con la separatezza contro la
paura dei rapporti». E. Gioanola, Modalità del fantastico nell'opera di I. Calvino, Nuova Corrente XXXIV
(1987), p. 271. Il fantastico di Calvino sarebbe allora una barriera razionale contro le insorgenze delle
pulsioni indesiderate: una poetica come protezione dal rimosso. Si è dimostrato nel primo capitolo
come il rapporto con l'opaco sia più complesso; non è un caso che il critico si soffermi solo sulle
«sublimazioni cristalline» di Calvino, senza confrontarsi con le configurazioni pulviscolari.

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geometrica delle figure proiettate e la concretezza evocata da «facce situazioni
ambienti». Si tratta della stessa vibrazione che sorge dalla scacchiera del Gran Kan:
minute e concrete tracce d'esperienza risalgono dall'ombra, raggiungono il versante
in luce e si rapprendono sul reticolo di superficie. La rievocazione della distanza
cinematografica è l'occasione per avanzare una riflessione più generale sul rapporto
fra gli stimoli sensoriali e l'immaginazione: il «confine» fra i due mondi descritto
nell'Autobiografia sembra individuare la medesima separazione fra l'opaca
«esperienza diretta» e l'aprica «rete astratta di rapporti» ponderata in Dall'opaco.
L'equilibrio è sempre precario e non si può escludere che la mediazione della
distanza si riduca fino a rovesciarsi nell'assillo della vicinanza: «dal dopoguerra in
poi il cinema è stato visto, discusso, fatto, in un modo completamente diverso. […]
Non c'è un mondo dentro lo schermo illuminato nella sala buia, e fuori un altro
mondo eterogeneo separato da una discontinuità netta, oceano o abisso. La sala
buia scompare, lo schermo è una lente di ingrandimento posata sul fuori
quotidiano, e obbliga a fissare ciò su cui l'occhio nudo tende a scorrere senza
fermarsi. Questa funzione ha – può avere – la sua utilità, piccola, o media, o in
qualche caso grandissima. Ma quella necessità antropologica, sociale, della distanza,
non la soddisfa». (RR III, p. 41). L'angoscia dovuta alla percezione di un continuum
immediato, esito dell'abolizione della distanza, sembra aver conquistato il cinema:
«il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto
definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre
vite tutto resta lì, angosciosamente presente; le prime immagini dell'eros e le
premonizioni della morte ci raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è
cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo d'essere solo
spettatori è la storia della nostra vita». (RR III, p. 49). Forse per questo gli scritti di
Calvino sul cinema sono limitati e pressoché nullo è il suo contributo alla settima
arte. La distanza va esplorata percorrendo altri sentieri.

3. Lo schermo dove s'accampano le immagini.

Nel 1977 Calvino scrive un commento a Forse un mattino andando in un'aria di

89
vetro in occasione della commemorazione degli ottant'anni di Montale. Dopo alcune
pagine d'analisi precisa del «senso di sospensione e insieme di concretezza»
suggerito dalla poesia, Calvino propone alcune considerazioni dall'andamento più
libero e divagante: «la mia lettura di Forse un mattino si può così considerare
conclusa. Ma essa ha messo in moto dentro di me una serie di riflessioni sulla
percezione visiva e l'appropriazione dello spazio». (S, p. 1184). I ragionamenti «a
ruota libera» coinvolgono, fra gli altri, i versi conclusivi: «Poi su uno schermo si
accamperanno di gitto / alberi case colli per l'inganno consueto. Ma sarà troppo
tardi; ed io me n'andrò zitto / tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto».
Calvino nota come «la ricostruzione del mondo» coinvolge una metafora («come su
uno schermo») la quale «non può che richiamare il cinema». Se la «nostra
tradizione poetica» ha solitamente individuato nello schermo la funzione di
occultare le cose, «questa è la prima volta che un poeta italiano usa “schermo” nel
senso di “superficie su cui si proiettano le immagini”». Alle metafore teatrali
impiegate nel passato da «poeti e drammaturghi» il nostro secolo «sostituisce al
mondo come teatro il mondo come cinematografo, vorticare di immagini su una
tela bianca». (S, p. 1188). La poesia di Montale dischiude una nuova riflessione sul
dualismo fra la superficie di proiezione che accoglie le immagini e la caotica e
oscura vibrazione delle particelle:

l'immagine che vediamo non è qualcosa che l'occhio registra né


qualcosa che ha sede nell'occhio: è qualcosa che avviene
interamente nel cervello, su stimoli trasmessi dai nervi ottici, ma
che solo in una zona del cervello acquista una forma e un senso. È
quella zona lo «schermo» in cui s'accampano le immagini, e se
riesco, rivolgendomi, voltando me stesso dietro di me, a vedere al
di là di quella zona del mio cervello, cioè a comprendere il mondo
com'è quando la mia percezione non gli attribuisce colore e forma
di alberi case colli, brancolerò in una oscurità senza dimensione
né oggetti, attraversata da un pulviscolo di vibrazioni fredde e
informi, ombre su un radar mal sintonizzato. (S I, pp. 1187-1188)

90
La speculazione ormai ben nota grazie a Dall'opaco sfiora qui i temi secolari cari
all'ottica e alla teoria della percezione visiva. L'idea secondo cui le immagini del
mondo sarebbero proiettate su una interiore superficie della mente risale al
dibattito che fra Seicento e Settecento opponeva i fautori dell'innatismo agli
empiristi. Il modello della scatola cranica dove si proiettano le immagini si ispira al
funzionamento della camera obscura ed è stato impiegato, a diversi fini teorici, da
Newton, Descartes, Locke, Hume e Berkeley. 143 Come appare in una nota incisione
del 1646 che correda la Ars Magna Lucis et Umbrae di Athanasius Kirchner, il
soggetto cosciente è chiuso in una stanza dotata di una piccola apertura su una
parete. I raggi passano attraverso il foro e proiettano sulla parete interna le
immagini del mondo. È il nostro cervello, accolto nella piccola stanza cranica dotata
di una finestrella sull'universo, che capovolge le immagini, le ordina e conferisce un
significato alle sensazioni.144 Il medesimo modello di spiegazione è descritto da
Descartes nel quinto capitolo de La dioptrique:

Vous voyez donc assez que, pour sentir, l'âme n'a pas besoin de
contempler aucunes images qui soient semblables aux choses

143 Per una ricostruzione del dibattito si veda almeno J. Crary, Le tecniche dell'osservatore. Visione e
modernità nel XIX secolo, Einaudi, Torino 2013; in particolare il capitolo “La camera oscura e il suo
soggetto.” Per una trattazione del rapporto fra arti visive e camera oscura nella pittura olandese si
veda il fortunato saggio di Svetlana Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese,
Bollati Boringhieri, Torino 1984. Sebbene le conclusioni di Alpers e Crary siano opposte, sono
comunque buoni strumenti per una definizione storica del ruolo culturale della camera oscura. Per il
dibattito italiano si veda il libro di Pierantoni letto e recensito da Calvino (R. Pierantoni, L'occhio e
l'idea. Fisiologia e storia della visione, Bollati Boringhieri,Torino 1981) e l'articolo più recente di
Emiliano Ferrari, Prospettive sulla camera oscura, Itinera, Milano, giugno 2004
(http://www.filosofia.unimi.it/itinera/mat/saggi/ferrarie_cameraoscura.pdf, ultima consultazione nel
settembre 2015). Sul dualismo cartesiano fra mente non estesa – come teatro delle proiezioni – e
spazio esteso si vedano gli studi di Rorty: «questa arena interiore con il suo osservatore interiore era
stata suggerita in diversi momenti del pensiero antico e medievale, ma non era stata mai presa sul
serio abbastanza a lungo da costruire la base di una problematica. Il XVII secolo invece la prese
sufficientemente sul serio da consentire l'enunciazione del problema del velo delle idee, il problema
che rese la gnoseologia centrale nella filosofia». Dal momento che nella mente si formano le
immagini del mondo, sta alla filosofia come epistemologia ponderarne il valore di verità e discernere
le più attendibili. R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 1986, p. 42.
144 Per una definizione del funzionamento della camera oscura codificata nella prima modernità
basti citare l'opera del dotto olandese Willem Jacob' s Gravesande che nel primo decennio del
Settecento dà alle stampe l'Essai de perspective. Al suo interno vi è una sezione dedicata all'Usage de
la chambre obscure pour le dessein, nel quale l'autore afferma che «on nomme chambre obscure, tout
lieu privé de lumière dans lequel on représente sur un papier, ou sur quelque autre chose de blanc,
les objets qui sont au dehors, exposez au grand jour». G. J. 's Gravesande, Essai de perspective, La
Haye, Troyel, 1711.

91
qu'elle sent; mais cela n'empêche pas qu'il ne soit vrai que les
objets que nous regardons en impriment d'assez parfaites dans le
fond de nos yeux; ainsi que quelques-uns ont déjà très
ingénieusement expliqué, par la comparaison de celles qui
paraissent dans une chambre, lorsque l'ayant toute fermée,
réservé un seul trou et ayant nus au-devant de ce trou un verre en
forme de lentille, on étend derrière, à certaine distance, un linge
blanc, sur qui la lumière, qui vient des objets de dehors, forme ces
images. Car ils disent que cette chambre représente l'œil; ce trou,
la prunelle; ce verre, l'humeur cristalline, ou plutôt toutes celles
des parties de l'œil qui causent quelque réfraction; et ce linge, la
peau intérieure, qui est composée des extrémités du nerf
optique.145

Le relazioni fra il modello tecnologico della camera oscura e la metafora dei


procedimenti cognitivi godono di notevole fortuna lungo il corso della modernità 146,
giungono fino al Novecento e sono dibattute nei testi di storia della percezione
oculare che Calvino dimostra di conoscere. In un articolo del 1982 lo scrittore
recensisce un saggio di Ruggero Pierantoni, psicologo e studioso di fisiologia della
visione.147 Nel suo studio storico sulle teorie ottiche Pierantoni afferma che
«esistono […] camere oscure che sono vere e proprie camere nel senso letterale
della parola. In esse la luce penetra attraverso un piccolo foro praticato su una
parete e, su quella opposta, il mondo appare»; accade così che a volte nei modelli di

145 R. Descartes, La dioptrique, Cinquième discours, Des images qui se forment sur le fond de l’œil.
Giorgio Bertone nota come la teoria cartesiana comporti una «scissione dell'atto percettivo»,
collegandola alla tecnica prospettica e alla tradizione pittorica del paesaggio mediato dalla finestra.
G. Bertone, Lo sguardo escluso. L'idea di paesaggio nella letteratura occidentale, interlinea, Novara
1999, p. 38.
146 Scrive Locke: «I pretend not to teach, but to inquire; and therefore cannot but confess here
again,—that external and internal sensation are the only passages I can find of knowledge to the
understanding. These alone, as far as I can discover, are the windows by which light is let into this
dark room. For, methinks, the understanding is not much unlike a closet wholly shut from light,
with only some little openings left, to let in external visible resemblances, or ideas of things without:
would the pictures coming into such a dark room but stay there, and lie so orderly as to be found
upon occasion, it would very much resemble the understanding of a man, in reference to all objects
of sight, and the ideas of them». J. Locke, An essay concerning human understanding, Oxford
University Press, Oxford 1975, pp. 162-163.
147 I. Calvino, La luce negli occhi, in S, p. 529. Il saggio di riferimento è: R. Pierantoni, L'occhio e
l'idea, cit.

92
spiegazione «l'apporto dell'occhio [è] declassato a mera, periferica camera obscura e
tutto il carico, tutta la responsabilità della visione ricadrà sul cervello». 148 È quindi
evidente che il modello della camera oscura esemplifica la relazione fra una
coscienza serrata nella stanza del pensiero e il mondo esterno che vi accede
attraverso una fessura.149
Nell'articolo sul saggio di Pierantoni, Calvino si sofferma sulle due principali teorie
ottiche che dall'antichità si contendono il primato. Secondo la prima – sostenuta in
origine da Pitagora ed Euclide – un fascio di raggi emesso dai globi oculari incontra
gli oggetti reali e torna indietro per «informare» gli occhi e il cervello in merito agli
oggetti recepiti; la seconda, invece, sottolinea la funzione ricettiva della retina:
«eredi della scienza greca, gli Arabi partivano da Galeno, accettavano la mediazione
dello spirito visivo ma respingevano nettamente l'idea dei raggi proiettati dagli
occhi verso l'esterno: la visione ormai viene da fuori, non da dentro.» (S I, p. 527). Il
mondo di fuori entra nell'interno del cervello e si imprime in una forma dotata di
senso: è la soluzione prediletta da Calvino ed ispira diversi brani dedicati alla
fenomenologia della percezione. Il racconto che chiude la prima raccolta delle
Cosmicomiche – La spirale – dà voce alla coscienza di un mollusco primordiale che
milioni di anni fa, prima dello sviluppo di forme di vita più complesse, ha iniziato a
secernere la sua conchiglia: «mi ci applicavo, […] in quell'atto di secernere, senza
distrarmi un secondo, senza mai pensare ad altro». (RR II, p. 214). Il mollusco Qfwfq

148 R. Pierantoni, L'occhio e l'idea, cit., p. 14 e p. 20. Il saggio esce nel 1981, quindi Calvino lo legge
due anni dopo aver scritto il saggio su Montale. Tuttavia gli interessi di Calvino per quanto riguarda
l'ottica e la fisiologia della percezione non interessano solo gli ultimi anni di attività. Nella
recensione del libro di Pierantoni, Calvino afferma di aver letto i due trattati di teoria dei colori di
Goethe e Wittgenstein,
149 Lo stesso Pierantoni, in un convegno del 1987, descrive Calvino come uno scrittore affascinato
dalla camera oscura, soprattutto all'epoca delle narrazioni dedicate agli “antenati”: «non si può
resistere alla tentazione di vedere un Calvino muoversi nella campagna settecentesca, metter il capo
sotto un gran panno nero e disegnare accuratamente paesaggi, alberi foglia per foglia, miti parola
per parola. […] L'uso della camera oscura mobile permette di non interferire con la realtà: non
occorre illuminarla. Ci pensa già il sole. Al disegnatore Calvino basta solo sedersi all'ombra e
delineare, seguendo i contorni delle cose. Nel fare questo le immagini divengono dettagliatissime
perfette colorate e mobili. La lingua e la scrittura aumentano di “risoluzione”, ossia separano
linguisticamente dettagli non separabili dalla prosa del periodo precedente. Ma non può sfuggire che
la pagina non reca più il segno della mano, e cioè quello della condanna delle denuncia e della forza.
La pagina emerge dal buio della camera oscura coperta di segni e di immagini seducenti e
meravigliose ma la stria di bruciato, la volontà di illuminare e forse di distruggere allo stesso tempo
sono scomparse». R. Pierantoni, Calvino e l'ottica, in Aa. vv., Italo Calvino. Atti del convegno
internazionale, Firenze, Palazzo Medici-Riccardi 26-28 febbraio 1987, Garzanti, Milano 1988, p. 281.

93
s'impegna nella secrezione al fine di lasciare un'immagine di sé: «io producendo la
conchiglia ne producevo anche l'immagine». Ma le impressioni retiniche della
conchiglia, all'inizio, sono solo «potenziali», perché «per formare un'immagine ci
vuole tutto il necessario [...]: un encefalo con i suoi relativi gangli ottici, e un nervo
ottico che porti le vibrazioni da fuori fin lì dentro, il quale nervo ottico, all'altra
estremità finisce in un qualcosa fatto apposta per vedere cosa c'è fuori che sarebbe
l'occhio». (RR II, pp. 217-218). La tesi di Qfwfq presuppone la precedenza logica e
cronologica delle immagini del mondo sui meccanismi di impressione:
«l'importante era costruire delle immagini visuali, e poi gli occhi sarebbero venuti
di conseguenza». La pulsione a costituire una «bella immagine» dipende dal
desiderio del narratore di essere percepito dalla controparte femminile ed «entrare
nella ricettività visiva di lei». Il racconto di Qfwfq si colora d'una ironia nostalgica
perché la conchiglia rende sì possibile la visione, ma solo per «gli altri», per gli
esseri viventi più complessi: «solo non avevo previsto una cosa: gli occhi che
finalmente si aprirono per vederci erano non nostri ma di altri». (RR II, p. 219). 150
Rimane la proposta filosofica di Qfwfq: «tutti questi occhi erano i miei. Li avevo
resi possibili io; io avevo avuto la parte attiva; io gli fornivo la materia prima,
l'immagine». (RR II, p. 220). Nessun élan vital , quindi, nessuna spinta interna
151

consente la formazione degli organi; al contrario il costituirsi dell'immagine genera


una tensione dal fuori verso il dentro, come se fossero i fenomeni a indurre la
formazione degli organi percettivi. «Del resto, – scrive ancora Calvino a proposito

150 In uno degli Études philosophiques Paul Valéry riflette sulla conchiglia secreta dal mollusco e
compara la creazione animale all'atto umano responsabile della formazione di un oggetto o di
un'opera d'arte. La congettura sulla coscienza del mollusco è senza dubbio una fonte di ispirazione
del testo di Calvino: «il ignorera toujours toute la beauté de son œuvre et de sa retraite. Après sa
mort, la substance exquise qu'il a formée en déposant alternativement sur la paroi le produit
organique de ses cellules à mocus et la calcite de ses cellules à nacre, verra le jour, séparera la
lumière en ses longueurs d'onde, et nous enchantera les yeux par la tendre richesse de ses plages
irisées». P. Valéry, L'homme et la coquille, in Id., Œuvres I, cit., p. 902.
151 Nel capitolo dedicato a “L'élan vital” de L'évolution creatrice, Bergson per spiegare l'evoluzione
biologica da un punto di vista non meccanicista prende ad esempio proprio la formazione degli
occhi nei vertebrati e nei molluschi: «en général, quand des espèces ont commencé à diverger à
partir d'une souche commune, elles accentuent leur divergence à mesure qu'elles progressent dans
leur évolution. Pourtant, sur des points définis, elles pourront et devront même évoluer
identiquement si l'on accepte l'hypothèse d'un élan commun. C'est ce qu'il nous reste à montrer
d'une manière plus précise sur l'exemple même que nous avons choisi, la formation e l’œil chez les
Mollusques et chez les Vertébrés. L'idée d'un élan originel pourra d'ailleurs devenir ainsi plus
claire». H. Bergson, L'évolution creatrice, PUF, Paris 1941, pp. 88-89.

94
del poeta – negli specchi di Montale […] le immagini non si riflettono ma affiorano
“di giù”, vengono incontro all'osservatore». (S, p. 1187).
Dunque che consistenza ha il mondo di fuori? Stando alle intuizioni di Qwfwq
sembra inconfutabile che vi sia qualcosa al di là della coscienza, un insieme di
entità le cui ombre, passando attraverso un canale ricettore, assumono una forma
cosciente, dotata di senso e proiettata su uno schermo. Ma che ruolo ha la
coscienza? Se, per esempio, un soggetto osserva una «spada di luce» sul mare,
ovvero il riflesso del sole che si allunga sull'acqua, tale baluginio esiste solo per chi
guarda («ognuno ha un suo riflesso»), o esiste di per sé?152 Il problema
epistemologico di Palomar assume dimensioni metafisiche: «sarebbe questa la
natura? Ma nulla di ciò che egli vede esiste in natura: il sole non tramonta, il mare
non ha quel colore, le forme sono quelle che la luce proietta nella retina. […] La
natura non esiste?». (RR II, pp. 885-886). Il pensiero si sospende su un abisso di
dubbi ma non abbandona gli assunti ricostruiti in queste pagine: le forme sono
proiezioni del mondo esterno disposte sulla superficie interna dell'intelletto. Così,
alla fine, la soluzione provvisoria a cui giunge Palomar è la stessa del mollusco: «il
signor Palomar nuota sott'acqua; emerge; ecco la spada! Un giorno un occhio uscì
dal mare, e la spada, che era già lì ad attenderlo, poté finalmente sfoggiare tutta la
snellezza della sua punta acuta e il suo fulgore scintillante». L'inquietudine
conoscitiva – forse solo per un attimo – si placa: «si è convinto che la spada
esisterà anche senza di lui: finalmente s'asciuga con un telo di spugna e torna a
casa». (RR II, p. 887).
La congettura di Palomar e le riflessioni sullo «schermo» di Montale evidenziano di
nuovo il dualismo fra la presenza del mondo esterno e il lavorio ordinatore del
pensiero immaginante. Una certa consapevolezza dell'eredità filosofica che ispira
tale impostazione emerge chiaramente in un testo del 1983 dedicato a De Chirico e
scritto come accompagnamento a una mostra del pittore:

152 Il confronto fra Palomar è la riflessione dei raggi solari potrebbe essere stato suggerito dalla
lettura di Pierantoni: «Quando la superficie dell'acqua è calma il riflesso ci “collega” idealmente al
Sole o alla Luna, venendo a morire ai nostri piedi. Non cade mai alla nostra destra o alla nostra
sinistra: un'ulteriore riprova del fatto che il riflesso “ci segue”». R. Pierantoni, L'occhio e l'idea, cit., p.
106.

95
Dal tempo in cui leggevo i filosofi molto tempo è passato, la mia
memoria s'è fatta incerta, e ora sto cercando di ricordare quello
che diceva un filosofo...Je pense donc...il pensiero bisogna bene
che sia da qualche parte, che occupi un luogo, il pensiero deve
avere una residenza spaziosa, una città...Si pensa, dunque esiste
una città del pensiero. Non sono sicuro di ricordare esattamente il
filo di quel discorso, il meccanismo di quel metodo. Era un
filosofo che pensava in una stufa, questo lo ricordo. Il suo
pensiero aveva bisogno d'un luogo a forma di stufa intorno,
doveva riempire lo spazio d'una stufa, occupare una città piena di
stufe. (RR III, p. 400).

La mente costruisce uno spazio interiore immaginario ovvero un luogo simile a una
piccola stanza riscaldata da una stufa e separata da quanto esiste al di fuori: un
dentro dove dare una forma immaginaria al fuori. «J'étais alors en Allemagne, où
l'occasion des guerres qui n'y sont encore finies m'avait appelé – scrive Descartes
all'inizio della seconda parte del Discours de la méthode – le commencement de
l'hiver m’arrêta en un quartier où […] je demeurais tout le jour enfermé seul dans
un poêle, où j'avais tout le loisir de m'entretenir de mes pensées».153 Tutto il giorno,
nel chiuso della stanza, il filosofo proietta nella sua mente i pensieri che si
organizzeranno in una metodologia fondata sul nitore e sull'evidenza. La poetica
della distanza154 risulta dal divario fra il mondo e la coscienza ed è coerente con
l'ipotesi d'un confine originario che separa il versante opaco dove brulica un
«pulviscolo di vibrazioni informi» da quello luminoso dove s'accampano le
immagini.155
153 R. Descartes, Discorso del metodo, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2013, p. 30.
154 Anche Mengaldo individua ne Le città invisibili una «poetica della distanza utopica», dove
l'aggettivo pone l'accento sul divario fra l'immagine letteraria come desiderio e la realtà come
irruzione angosciosa dell'informe: «il libro di Calvino […] vive precisamente nella continua tensione
e distanza fra utopia e realtà, sicché l'utopia si pone esplicitamente come tale e insieme vuole
continuamente misurato il suo grado di plausibilità, il suo angolo di divaricazione dal reale». P. V.
Mengaldo, L'arco e le pietre, cit., p. 442.
155 Come si è dimostrato nella prima parte e in queste pagine, il dualismo fra le immagini mentali e
la realtà fisica assume le sembianze, in Dall'opaco, del paesaggio ligure. Ma è interessante notare che
la stessa concezione di “paesaggio” cui fa riferimento Calvino è compenetrata dal divario fra la
mente e il mondo. In un articolo del 1982 Calvino recensisce il quinto volume degli Annali della
Storia d'Italia Einaudi, intitolato Il paesaggio, e dimostra di intenderne la duplice natura (fisica e
simbolica): come esiste un «paesaggio reale» ne esiste anche uno «mentale», il primo è legato alla

96
4. La prospettiva lineare e lo spazio.

In Dall'opaco l'io «serve solo perché il mondo riceva continuamente notizie


dell'esistenza del mondo, un congegno di cui il mondo dispone per sapere se c'è».
L'io è il punto di vista da cui il mondo contempla sé stesso da una certa distanza.
Qualche anno dopo, e «in seguito a una serie di disavventure intellettuali», Palomar
decide che «la sua principale attività sarà guardare le cose dal di fuori». Così
l'osservatore s'impone di dedicare alle parvenze un'attenzione «minuziosa e
prolungata», ma non sa se è il caso di osservare «tutto ciò che gli capita a tiro»,
oppure se «affrontare ogni volta problemi di scelte, esclusioni, gerarchie di
preferenze». Allora prende atto di «tutti i problemi che ha col proprio io». (RR II, p.
968). Ma che cos'è l'io per Palomar?

Di solito si pensa che l'io sia uno che sta affacciato ai propri occhi
come al davanzale d'una finestra e guarda il mondo che si
distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui. Dunque: c'è una
finestra che s'affaccia sul mondo. Di là c'è il mondo; e di qua?
Sempre il mondo: cos'altro volete che ci sia? Con un piccolo
sforzo di concentrazione Palomar riesce a spostare il mondo da lì
davanti e a sistemarlo affacciato al davanzale. Allora, fuori dalla
finestra, cosa rimane? Il mondo anche lì, che per l'occasione s'è
sdoppiato in mondo che guarda e mondo che è guardato. E lui,
detto anche «io», cioè il signor Palomar? Non è anche lui un
pezzo di mondo che sta guardando un altro pezzo di mondo?
Oppure, dato che c'è mondo di qua e mondo di là della finestra,
forse l'io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo
guarda il mondo. (RR II, p. 969).

La finestra è dunque il diaframma mediatore della relazione fra la coscienza del

«trasformazione dei luoghi» mentre il secondo «alla trasformazione delle idee visuali che ci si fa dei
luoghi, cioè della visualizzazione simbolica che ogni tempo si costruisce del proprio spazio». I.
Calvino, “Naufragar m'è dolce in questo mare”, in Il Corriere della Sera, 13/12/1982. Poi raccolto,
rimaneggiato, in La città pensata: la misura degli spazi, S, pp. 514-518.

97
mondo e il mondo stesso. Ed è ancora una finestra ad ispirare l'ultima, lirica pagina
de Il barone rampante: «ogni tanto scrivendo m'interrompo e vado alla finestra. Il
cielo è vuoto, e a noi vecchi d'Ombrosa, abituati a vivere sotto quelle verdi cupole,
fa male agli occhi guardarlo». Biagio scrive le avventure del fratello nel chiuso di
una stanza: le parole seguono la fisionomia di apparenze esterne che giungono
attraverso un riquadro. Così la penna del narratore disegna l'evoluzione del
paesaggio: «le piante antiche sono arretrate in alto: sopra le colline gli olivi e nei
boschi dei monti pini e castagni; in giù la costa è un'Australia rossa d'eucalipti,
elefantesca di ficus, piante da giardino enormi e solitarie, e tutto il resto è palme,
coi loro ciuffi scarmigliati, alberi inospitali del deserto». (RR I, p. 776). Poi la
nostalgia del passato richiama ancora il ricordo del «frastaglio di rami», evocazione
finale del mondo naturale che ha accolto le peripezie del barone. Con l'ultimo breve
cammino nella stanza Biagio lascia intendere che senza finestra – ovvero senza il
diaframma fra un dentro e un fuori, senza la separazione fra un narratore e un
personaggio – non sarebbe stata possibile alcuna narrazione. La finestra appare qui
come emblema figurale dei «livelli di realtà» che scandiscono, secondo Calvino, la
struttura di ogni opera letteraria.156
Nel maggio del 1984 Calvino redige una prosa per un catalogo del pittore Leonardo
Cremonini. Appaiono nei quadri immagini di bambini affacciati a finestre che
danno su paesaggi distanti, dislocati in altri tempi e in altri luoghi. La descrizione
dei dipinti è forse il pretesto per una nuova riflessione sulla cornice: «il ricordo è
quello che passa tra stipite e stipite, tra spigolo e spigolo, tra il battente e l'altro
battente della stessa finestra (o di un'altra) aperta (o socchiusa), vista di fianco (o di
sghembo)». Ogni evocazione dell'altrove – quanto si trova al di là della stanza, al di
là del presente – ha bisogno di una «intelaiatura» per essere discernibile e
«prendere posto tra elementi che dividono lo spazio in un dentro e in un fuori, in
un sopra e in un sotto, in una successione di piani e di lontananze». Ogni visione
del fuori deve «predisporre un interno in cui catturarlo, delimitato irregolarmente
da segmenti rettilinei e superfici piane» perché solo attraverso il rettangolo della
pagina o del quadro «può apparire qualcosa o qualcuno, affacciarsi, prendere

156 Su I livelli di realtà in letteratura si veda il primo capitolo, paragrafo 6.

98
forma» e «passare dall'esterno all'interno». (RR III, p. 430). Che cos'è, ad esempio, il
“mare” se non una forma dai confini ben definiti?

La parola mare è dunque quella con cui si è convenuto di


designare un particolare campo di sensazioni e di emozioni
determinato a sua volta da un campo geometrico, da una certa
disposizione di coordinate: linee, superfici, proiezioni di luci e di
ombre, insomma da una prospettiva. Se invece cerco di prendere
il mare come punto di partenza e comincio a svolgere il filo del
mio ricordo dalla mattina alla spiaggia, dal calore della sabbia che
scotta sotto il sole cocente, dal gridare lontano dei bambini che
giocano a palla, dal dilatarsi delle sensazioni come nella vampa
incolore che trema sospesa, per prima cosa ho bisogno d'un
insieme d'elementi che mi permettano di contenere questi ricordi
in modo che non svaniscano nella foschia luminosa, appoggiarli a
qualcosa che non partecipi della loro stessa labilità fluttuante. (RR
III, p. 432).

Ogni descrizione – anche quella di vaste distese d'azzurro – fonda il proprio


linguaggio sulla discontinuità analitica perché «l'illimitato esiste solo in quanto
esiste una gabbia per trattenerlo» e «l'immensità è fatta di confini e di limiti». (RR
III, p. 433). Dunque la finestra è sia la membrana di separazione fra un dentro e un
fuori, sia il piano analitico su cui poggiare e distendere le forme. La distanza
imposta dalla presenza del telaio assume così un senso di inesorabilità: «in questo
spazio […] c'è la distanza che [lo] sguardo vorrebbe annullare e che resta
incolmabile». (RR III, p. 435). Queste pagine riflettono l'intenso grado di
consapevolezza critica di Calvino: la distanza fra il soggetto e l'oggetto della
rappresentazione richiama una tradizione figurativa le cui radici sfiorano le origini
delle arti figurative moderne.
Scrive Leon Battista Alberti nel primo libro di Della pittura: «qui solo, lassato l’altre
cose, dirò quello fo io quando dipingo. Principio, dove io debbo dipingere scrivo
uno quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere una

99
finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto».157 Il quadro è
dunque una superficie piana che interseca perpendicolarmente la piramide visiva
d'un soggetto immobile: mirare il dipinto è un'azione analoga alla contemplazione
d'un paesaggio attraverso una finestra. Lo studio novecentesco più approfondito e
acuto sulla prospettiva rinascimentale è stato concluso nel 1927 da Erwin Panofsky
ne La prospettiva come “forma simbolica”. Lo storico percorre più di dieci secoli
d'arte: dagli accenni di prospettiva nelle «discontinuità singolari» nell'età classica
risale alle figure a sfondo dorato dell'arte bizantina, si sofferma sullo stile
omogeneo del romanico e sui primi accenni di «infinità» spaziale nel gotico, e
infine si concentra sul Rinascimento italiano dove la prospettiva lineare raggiunge
la più piena consapevolezza teorica e tecnica. Oltre a coinvolgere un tema attinente
al problema della distanza rappresentativa, il saggio ha una storia editoriale di
notevole interesse. La prima edizione italiana compare nel 1961 presso Feltrinelli
con la curatela di Guido Neri,158 studioso e critico che quasi dieci anni dopo aderirà
con Gianni Celati, Carlo Ginzburg e allo stesso Calvino al gruppo di progettazione
di “Alì Baba”.159 Da questi dati non è azzardato inferire che gli studî dello storico
tedesco hanno influito direttamente sulle interrogazioni e sugli interessi dello
scrittore ligure.
L'interpretazione critica dei trattati rinascimentali permette a Panofsky di
dimostrare come la prospettiva sia istituita laddove «l'intero quadro […] si
trasforma in una finestra, attraverso la quale noi crediamo di guardare lo spazio,
dove cioè la superficie materiale pittorica o in rilievo, sulla quale appaiono,
disegnate o scolpite, le forme delle singole figure o delle cose, viene negata come
tale, e viene trasformata nel “piano figurativo” sul quale si proietta uno spazio
unitario visto attraverso di esso e comprendente tutte le singole cose […].» Fra
l'occhio e la realtà esterna si frappone una superficie a due dimensioni sulla quale si
proietta la sezione del mondo retrostante in una simulazione di trasparenza.
Durante la descrizione della procedura tecnica Panofsky si sofferma con particolare
attenzione sul concetto di distanza e ne individua due diverse accezioni. In una
157 L. B. Alberti, Della pittura, edizione critica di L. Mallé, Sansoni, Firenze 1950, p. 70.
158 E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di G. Neri, Feltrinelli,
Milano 1961.
159 Per i materiali preparatori della rivista si veda «Alì Babà». Progetto di una rivista 1968-1972, cit.

100
rappresentazione prospettica sussistono sia le distanze interne che ordinano la
disposizione degli oggetti e delle figure (lo storico denomina «intervalli di
profondità» i piani che digradano in successione verso il punto di fuga), sia la
distanza – ormai ben nota – fra il «piano figurativo» e l'osservatore. 160 In una
pagina densa di informazioni e di riferimenti bibliografici, Panofsky dimostra in che
modo le due tipologie di distanza siano direttamente connesse. Per calcolare
l'ampiezza degli «intervalli di profondità» 161 è necessario individuare il «punto di
distanza», ovvero il punto dove si trova l'occhio immobile dell'osservatore. Il punto
di distanza è esterno alla superficie di rappresentazione, ma può essere proiettato al
suo fianco grazie all'impiego di un «disegno ausiliario eseguito su un foglio a
parte». Dal punto di distanza il pittore traccia le rette che incontrano il piano
figurativo: i punti di intersezione con la cornice definiscono le coordinate esatte per
stabilire il digradare proporzionale dello spazio raffigurato. 162 Ne consegue che la
distanza fra l'occhio e la superficie del quadro regola i rapporti quantitativi e
geometrici delle distanze interne alla rappresentazione. 163 Così il Rinascimento
160 La distanza fra l'occhio e la superficie di rappresentazione determina la forma della visione:
«mutato la distantia et mutato il porre del razzo centrico, subito la superficie parrà alterata.
Adunque la distantia et la positione del centrico razzo molto vale alla ciertezza del vedere». L. B.
Alberti, Della pittura, cit., p. 62. Di conseguenza: «sappi che cosa niuna dipinta mai parrà pari alle
vere dove non sia certa distanza a vederle». Ibidem, p. 72.
161 Un quadrato di base sezionato in «intervalli di profondità» è il classico pavimento a scacchiera
su cui si dispongono le figure come nell'Annunciazione del 1344 di Lorenzetti. Da un punto di vista
storico sono ancora rilevanti le considerazioni di Panofsky. Il sistema semplificato della “costruzione
legittima” dell'architettura rinascimentale adottato dai pittori «poteva essere facilmente sviluppato
da un quadrato scorciato correttamente diviso in un certo numero di quadrati più piccoli; e
l'ottenere questo quadrato di base, o meglio questa scacchiera […] era lo scopo di quella “costruzione
abbreviata” che fu praticata dai pittori del Quattrocento italiano». E. Panofsky, La vita e le opere di
Albrecht Dürer, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 324-325.
162 Così spiega Alberti: «trovai adunque io questo modo optimo: così in tutte le cose seguendo
quanto dissi, ponendo il punto centrico, traendo indi linee alle divisioni della giacente linea del
quadrangolo. Ma, nelle quantità transverse, come l'una seguiti l'altra così seguito: prendo uno
piccolo spatio nel quale scrivo una diritta linea et questa divido in simile parte in quale divisi la linea
che giace nel quadrangolo; poi pongo di sopra uno punto, alto da questa linea quanto nel
quadrangolo posi el punto centrico alto dalla linea che giace nel quadrangolo; et da questo punto
tiro linee a ciascuna divisione segniata in quella prima linea. Poi costituisco quanto io voglia
distantia dall'occhio della pittura et ivi segno, quanto dicono i mathematici, una perpendiculare linea
tagliando qualunque truovi linea. […] Questa così perpendiculare linea dove dall'altre sarà talliata
così mi darà la successione di tutte le traverse quantità. Et a questo modo mi truovo descripto tutti e
paralleli cioè le braccia quadrate del pavimento nella dipintura quali quanto sieno direttamente
descripti ad me ne sarà inditio se una medesima ritta linea continoverà diamitro di più quadrangoli
descritti nella pictura». L. B. Alberti, Della pittura, cit., pp. 72-73.
163 Per una maggiore esaustività si veda la nota 60 del saggio di Panofsky, da pagina 95 a pagina
101. Denso di informazioni sulla distanza prospettica anche il capitolo “Dürer teorico dell'arte” in E.
Panofski, La vita e le opere di Albrecht Dürer, cit. Meno dense e precise mi sembrano le note scritte

101
realizza «un'immagine spaziale all'interno della quale i corpi e i loro intervalli
costituiti dallo spazio libero apparivano uniti secondo determinate leggi al “corpus
generaliter sumptum”: esisteva ora una regola universale e matematicamente
fondata che determinava “quanto una cosa dovesse distare dall'altra, o in che modo
dovesse essere connessa alla prima affinché la comprensione della rappresentazione
non fosse ostacolata dall'eccessivo affollamento né dall'eccessiva scarsità di figure”
(Pomponio Gaurico)».164 La tecnica proiettiva descritta dall'Alberti configura lo
spazio infinito, omogeneo e isotropo destinato a dominare la modernità. Conclude
Panofsky: «era stato così realizzato il passaggio dallo spazio psicofisiologico allo
spazio matematico: in altre parole, un'obiettivazione della soggettività». 165 Tale
obiettivazione, tuttavia, è il frutto di un processo storico e non la scoperta della
modalità percettiva universale e naturale dell'uomo: lo spazio della prospettiva
lineare – che è anche lo spazio della rappresentazione cartografica e della
rivoluzione scientifica del Seicento166 – è dunque una «forma simbolica», esito di
una cognizione del mondo contingente e non assoluta.167
Grazie al lavoro di sintesi critica di Panofsky è possibile interrogare con maggiore
precisione la natura dello spazio nelle prove narrative di Calvino. Sebbene sin qui si
sia dato ampio risalto al divario fra il soggetto e il mondo esterno, non è stata
dedicata ancora la dovuta attenzione alle distanze interne alla rappresentazione.
Quali relazioni spaziali intrattengono le figure dislocate fra il primo piano e
l'orizzonte d'un paesaggio? Un giorno Marco Polo e Kublai Kan si trovano all'aperto
e silenziosi fumano le loro pipe. Osservano il fumo salire in alto, volteggiare
nell'aria, diradarsi: «al soffio che portava via il fumo Marco pensava ai vapori che
annebbiano la distesa del mare e le catene delle montagne e al diradarsi lasciano

da Svetlana Alpers sullo stesso argomento: Arte del descrivere, cit., p. 74.
164 E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, Abscondita, Milano 2007, p. 45.
165 E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, cit., p. 47.
166 Per lo spazio omogeneo e infinito fondato da Galileo e adottato da Descartes si vedano gli studi
di Koyré e in particolare: A. Koyré, Études d'histoire de la pensée scientifique, Gallimard, Paris 1973; e
inoltre: Id., Dal mondo chiuso all'universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970. Per una riflessione
geografica sulla nascita e la crisi dello spazio si vedano invece i due saggi di Farinelli che hanno
ispirato ampi tratti di questa tesi: F. Farinelli, Geografia, cit.; e Id., La crisi della ragione cartografica,
Einaudi, Torino 2009.
167 «La struttura di uno spazio infinito, costante e omogeneo, in breve puramente matematico, è
addirittura antinomica rispetto a quella dello spazio psicofisiologico». E. Panofsky, La prospettiva
come “forma simbolica”, cit., pp. 12-13.

102
l'aria secca e diafana svelando città lontane». Le nubi sembrano scorrere via dalla
scena e dietro di esse, più distanti, compaiono città nitide e cristalline. «Era al di là
di quello schermo d'umori volatili che il suo sguardo voleva giungere: la forma delle
cose si distingue meglio in lontananza». (RR II, p. 442). Qui l'occhio cerca di
scrutare oltre le nubi e i vapori per cogliere il piano che vi è dietro, o al di là, dove
la distanza consente di afferrare le forme con nitida precisione. In una delle prime
note del suo saggio Panofsky sostiene che il senso originario di “prospettiva” non è
tanto «vedere attraverso» – significato invalso solo a partire dalla modernità –
quanto quello di «vedere distintamente», traduzione letterale del greco οπτική.168
Nella visione di Marco, tuttavia, permane una sensazione di artificio, come se il
piano più ravvicinato delle nuvole scorresse di lato e lasciasse libera la
contemplazione di un pannello nuovo e distinto dal precedente.
Si può estrarre un esempio altrettanto significativo da La nuvola di smog. Una sera
il narratore è convocato ai piani alti della fabbrica dall'ingegner Cordà, consigliere
delegato della compagnia. Giunto nell'ufficio l'uomo guarda alle spalle
dell'ingegnere e dei suoi colleghi: «la parete dietro di lui era una lastra di vetro, una
larghissima finestra dalla quale si dominava l'estensione della fabbrica».
L'immagine al di là della finestra presenta due livelli di rappresentazione: sullo
sfondo della sera nebbiosa emergono «poche ombre» e in primo piano «spiccava la
sagoma d'un elevatore a catena che portava su grandi secchi – credo – di polvere di
ghisa». (RR I, p. 932). All'improvviso irrompe una netta variazione di luce e una
seconda immagine dischiude una visione in precedenza celata:

In quel momento egli diede l'ordine d'accendere la luce;


d'improvviso contro il buio di fuori la vetrata apparve ricoperta
d'un minuto smeriglio, certo fatto di polvere di ghisa, luccicante
come il pulviscolo d'una galassia. Il disegno delle ombre là fuori si
scompose; più nette risultarono in fondo le sagome delle
ciminiere, incappucciate ciascuna da uno sbuffo rosso, e sopra
queste fiamme per contrasto s'accentuava l'ala nera come
d'inchiostro che invadeva tutto il cielo e vi si scorgevano salire e

168 E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica”, cit., p. 55.

103
vorticare punti incandescenti. (RR I, p. 933).

L'immagine lascia intravedere una sequenza di superfici sovrapposte che vanifica


l'illusione della continuità spaziale e della profondità che degrada all'orizzonte. Lo
stesso contrasto luminoso conferisce alla scena un andamento frammentario e
meccanico. La distanza, allora, non ordina più i rapporti interni alla
rappresentazione, ma permane solo come originaria mediazione fra lo sguardo e lo
«schermo» della pagina. Si presenta davanti agli occhi una superficie piana e
discontinua dove vorticano le sconnesse immagini composte dalla scrittura.

5. Il mondo in superficie.

«Questa poesia – ha scritto Calvino ancora a proposito di Forse un mattino andando


in un'aria di vetro – appartiene chiaramente all'era del cinema, in cui il mondo corre
davanti a noi come ombre d'una pellicola, alberi case colli si stendono su una tela di
fondo bidimensionale, la rapidità del loro apparire («di gitto») e l'enumerazione
evocano una successione di immagini in movimento». (S, p. 1188). L'effetto di
profondità svanisce quando s'impone alla coscienza la natura «bidimensionale» del
piano di proiezione: «l'era» contemporanea è dominata dalla superficie.
Il signor Palomar osserva Roma dall'alto del suo terrazzo e l'impressione ricevuta
ricorda la descrizione di San Remo ne La strada di San Giovanni: «che là sotto,
incassate, esistano delle vie e delle piazze, che il vero suolo sia quello a livello del
suolo, lui lo sa in base ad altre esperienze; ora come ora, da quel che vede di quassù,
non potrebbe sospettarlo». (RR II, p. 919). I profondi meandri della città non sono
conoscibili, la forma urbana traspare «in questo sali e scendi di tetti, tegole vecchie
e nuove, coppi ed embrici, comignoli esili e tarchiati, pergole di cannucce e tettoie
d'eternit ondulata, ringhiere, balaustre, pilastrini che reggono vasi, serbatoi d'acqua
in lamiera, abbaini, lucernari di vetro, e su ogni cosa s'innalza l'alberatura delle
antenne televisive, dritte o storte, smaltate o arrugginite, in modelli di generazioni
successive, variamente ramificate e cornute e schermate, ma tutte magre come
scheletri e inquietanti come totem». (RR II, pp. 919-920). Come nel panorama della

104
città marittima le figure sono giustapposte l'una accanto all'altra in una densa
proliferazione di forme che si stringono sulla pagina. «Di quassù» appare la vera
immagine della «crosta terrestre», ineguale e frastagliata, ma «compatta, anche se
solcata da fratture non si sa quanto profonde, crepacci o pozzi o crateri, i cui orli in
prospettiva appaiono ravvicinati come scaglie di una pigna». E nemmeno ha senso
immaginare che cosa nasconda la profondità perché «già tanto ricca e varia è la
vista in superficie che basta e avanza a saturare la mente di informazioni e
significati». La fantasia di Palomar s'eleva sul mondo a volo d'uccello:

Così ragionano gli uccelli, o almeno così ragiona, immaginandosi


uccello, il signor Palomar. «Solo dopo aver conosciuto la
superficie delle cose, – conclude, – ci si può spingere a cercare
quello che c'è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile».
(RR II, p. 920).

Anche la «mappa del labirinto » auspicata sulle pagine del Menabò è la proiezione
zenitale d'una realtà che appare magmatica, così come la «fortezza pensata» di
Dantès è uno schema bidimensionale di una struttura a tre dimensioni. La «sfida»
di Calvino – forse anche la sua ossessione – è di ordine cartografico: lo scrittore
desidera tradurre la complessità globale in proiezioni piane, ovvero in sezioni
disposte in serie «come scaglie di una pigna» . Una procedura illimitata nel tempo e
nello spazio, se è vero che la «superficie delle cose è inesauribile».
Restano ancora inesplorate le ragioni che presiedono all'elezione di una
configurazione «bidimensionale». È possibile che un'inclinazione tecnica sorta nel
dominio estetico derivi da una più generale attitudine mentale? In altri termini: si
può ipotizzare che la poetica della distanza e la visione di superficie siano ereditate
da una specifica e antica disposizione a osservare e conoscere il mondo? Le indagini
sulla prospettiva e sulla nascita dello spazio moderno lasciano propendere per una
risposta affermativa, ma solo una ricerca più precisa può dare maggiore solidità a
queste ipotesi.
Nell'intervento su Galileo del 1985169 si trova una dichiarazione finora inosservata,

169 Sulle affinità fra «l'immaginazione logica» di Calvino e quella di Galileo si veda il primo

105
eppure pregna di significato. A commento della celebre affermazione di Galileo
secondo cui la natura è scritta nella lingua geometrica di «triangoli, quadrati,
cerchi, sfere, coni, piramidi et altre figure matematiche», Calvino scrive:

Si può notare che nella sua enumerazione di figure, Galileo, pur


avendo letto Keplero, non parla di ellissi. Perché nella sua
combinatoria deve partire dalle forme più semplici? O perché la
sua battaglia contro il modello tolemaico si gioca ancora
all'interno di un'idea classica di proporzione e perfezione di cui il
cerchio e la sfera restano le immagini sovrane? (S, p. 856).

Il silenzio sulle ellissi di Keplero è l'oggetto di un importante e ricchissimo dialogo


avvenuto negli anni Cinquanta fra Alexadre Koyré, storico della scienza moderna,
ed Erwin Panofsky. La considerazione di Calvino è così precisa e pertinente da un
punto di vista storico-scientifico da rendere plausibile l'ipotesi che egli fosse a
conoscenza del dibattito critico in questione. Sin dagli anni Quaranta Koyré si è
concentrato sul contributo forse più rilevante che Galileo ha offerto al pensiero
scientifico moderno: la «géométrisation de l'espace», ovvero «la substitution de
l'espace homogène et abstrait de la géométrie euclidienne à la conception d'un
espace cosmique qualitativement différencié et concret, celui de la physique
prégaliléenne».170 Galileo sarebbe così l'anello di congiunzione di una linea che
procede da Archimede e raggiunge Descartes e Newton, gli esponenti più insigni
del sogno di «expliquer l’être réel par l’être mathématique». Poiché la
comprensione matematica della natura si oppone a «celle non mathématique du
sens commun et de la physique aristotélicienne»,171 Koyré individua nella
predilezione per la formalizzazione in lingua geometrica un impianto
epistemologico di matrice platonica: «démarche que nous appellerons
archimédienne, ou mieux platonicienne: explication, ou mieux, reconstruction du
réel empirique à partir d'un réel idéal».172 Al contrario Keplero – seppur sia
capitolo, paragrafo 4. A proposito del rapporto fra il mondo reale e il linguaggio formale si vedano,
dello stesso capitolo, i paragrafi 4, 5 e 6.
170 A. Koyré, Études d'histoire de la pensée scientifique, cit., p. 170.
171 Ibidem, p. 186.
172 A. Koyré, Études galiléennes, Hermann, Paris 1966, p. 207.

106
considerato dallo storico «le plus grand génie de son temps» – è estraneo
all'impostazione quantitativa prescelta dallo scienziato italiano: «philosphiquement,
il est bien plus près d'Aristote et du Moyen Age que de Galilée et de Descartes. Il
raisonne encore en termes du Cosmos».173
La medesima opposizione fra i due cosmografi è avanzata da Panofsky in un saggio
del 1955. In Galileo as a Critic of the Arts: Aesthetic Attitude and Scientific Thought.174
Panofsky ambisce a spiegare perché Galileo, a differenza di Keplero, non ha potuto
abbandonare il modello circolare del moto dei pianeti:

Kepler and his friends were, after all, no less deeply committed to
the belief in the metaphysical supremacy – as we would say, the
"privileged status" – of the circle and the sphere than Galileo. He
was, in fact, the stricter Platonist (or Aristotelian) in that he
accepted the ontological difference between geometrical figures
and physical bodies which Galileo dared to deny. Galileo had
learned to consider the ideas of the sphere or the circle as
adequately realized in every material sphere or circle; Kepler still
sharply distinguished between "the intelligible idea of the circle"
and the "actual path of a planet." But just this "modern"
geometrization of nature – or, put it the other way,
materialization of geometry – made it difficult for Galileo to deny
the privileged status of circularity in physics and astronomy
while accepting it as axiomatic in mathematics and aesthetics;
whereas, conversely, Kepler's "conservative" separation between
ideal and material form enabled him to affirm that even the
celestial bodies, qua bodies, were bound to deviate from a
perfectly circular course, however desirable from a metaphysical
point of view, when such a deviation was required by the laws of
nature.175

173 A. Koyré, Études d'histoire de la pensée scientifique, cit, p. 208.


174 Qui si farà riferimento non alla prima versione del saggio, ma a quella successiva del 1956: E.
Panofsky, Galileo as a Critic of the Arts: Aesthetic Attitude and Scientific Thought, cit. La seconda
versione è stata scritta dopo l'intervento di Koyré e tiene conto degli elogi e delle obiezioni dello
storico.
175 Ibidem, p. 14.

107
Per quale motivo uno storico dell'arte dovrebbe intervenire in un dibattito sulle
forme circolari ed ellittiche impiegate nella storia della scienza? La ragione appare
nell'accenno al binomio fra «mathematics» e «aesthetics»: fin dal saggio sulla
prospettiva Panofsky intende studiare le omologie 176 fra la ragione matematica e il
gusto estetico che emergono in un singolo pensatore o in un'intera fase storica. 177 In
particolare l'articolo in questione ambisce a dimostrare come il formalismo
geometrico di Galileo riveli una certa corrispondenza con le predilezioni in campo
artistico: «not much attention, however, has been paid to the fact that Galileo's
views on the other arts […] are no less outspoken than his views on poetry, and
that from all his statements there emerges an aesthetic attitude no less consistent
than – and possibly interrelated with – his scientific convictions».178 La ricerca di
un linguaggio di forme perfette per comprendere la realtà naturale deriverebbe
quindi da un'inclinazione per l'arte classica rinascimentale e la sua eredità
posteriore, in contrasto con l'allegorismo, il manierismo e ogni estetica figlia di una
«"anti-classic" tendency which had opposed to the ideals of rationality, selective
verisimilitude, simplicity, and balance». 179 Panofsky si richiama ai giudizi negativi
di Galileo nei confronti del Tasso e della pittura di Arcimboldo e sostiene infine:
«Galileo, born in 1564, was an eye witness to the revolt against this Mannerism,
and it is not difficult to guess where he stood. He was, if not a friend, at least a
well-disposed acquaintance of the very father of the theory of the beau ideal,
Monsignor Giovanni Battista Agucchi. His fidus Achates, Lodovico Cigoli, played

176 Secondo Natalie Heinich «il s'agit pour celui-ci de mettre en évidence, entre ces multiples
facettes de la culture renaissante, un rapport bien particulier: non pas de simple juxtaposition (car ce
n'est pas seulement la contemporanéité que le goûts esthétiques de Galilée ont en commun avec ses
conceptions scientifiques); ni de similitude (car il ne ressortissent pas aux mêmes domaines de
perception); ni de cause à effet, ni même d'influence (car rien n'autorise à considérer les uns comme
générateurs des autres); mais un rapport d'homologie, par lequel ces éléments ne se superposent ni
se ressemblent ni s'engendrent, mais obéissent en profondeur à un même modèle, à une même
structure génératrice». N. Heinich, Panofsky épistémologue, in Id., Comptes rendus, Les Impressions
Nouvelles, Liège 2007, pp. 37-38.
177 Si tratta di un'intuizione teorica già attiva nel saggio sulla prospettiva: «lo “spazio estetico” e lo
“spazio teorico” traducono sempre lo spazio percettivo riplasmato in un unico e medesimo sentire, il
quale nel primo caso appare simbolizzato, nel secondo logicizzato». E. Panofsky, La prospettiva come
“forma simbolica”, cit., p. 28.
178 E. Panofsky, Galileo as a Critic of the Arts: Aesthetic Attitude and Scientific Thought , cit., p. 3.
179 Ibidem, pp. 7-8.

108
exactly the same role in Florence as did the Carracci brothers and Domenichino in
Rome. And if Cigoli turned to Galileo as an authority in matters of artistic theory,
Galileo cited Cigoli as an authority in matters of artistic taste – as when he says
that Cigoli, "like any other first-rate painter," would laugh at those who might
consider double images a la Arcimboldo as serious or even exemplary works of
art».180
La menzione di Ludovico Cigoli – «the most important Florentine painter of his
time» – non è casuale perché il saggio di Panofsky prende le mosse proprio da una
lettera che Galileo ha scritto a Cigoli nel 1612.181 Lo scienziato risponde a un quesito
del pittore riguardo al dilemma se «la scultura sia più mirabile della pittura», una
comparazione fra le arti che già godeva di notevole fortuna nel Cinquecento. 182
Galileo distingue la natura sensoriale delle due forme d'arte: «la scultura imita più
il naturale tangibile, e la pittura più il visibile». Il valore della tattilità, tuttavia, è
subito ridimensionato perché nessuno fra gli scultori potrà mai dare l'impressione
de «il molle e il duro, il caldo e 'l freddo, il delicato e l'aspro, il grave e 'l leggiero,
tutt' indizi dell'inganno della statua». Il confronto, dunque, si gioca tutto sulla
facoltà visiva. L'occhio coglie solo due delle tre dimensioni, «cioè lunghezza e
larghezza […] perché delle cose che appariscono e si veggono, altro non si vede che
la superficie, e, la profondità non può dall'occhio esser compresa, perché la vista
nostra non penetra dentro a' corpi opachi. Vede dunque l'occhio solamente il lungo
e 'l largo, ma non già il profondo, cioè la grossezza non mai». Ne consegue che uno
spettatore percepisce sempre due dimensioni, sia che si trovi dinanzi a un quadro,
sia che ammiri una statua.183 Dunque possiamo conoscere la profondità non in sé,
180 Ibidem, p. 8
181 G. Galilei, Le opere, volume XI, Barbera, Firenze 1934, pp. 340-343.
182 Si vedano, fra gli altri, il primo libro del Cortegiano di Castiglione e la prima parte del Trattato
della pittura di Leonardo. Entrambi i testi saranno citati più avanti.
183 Sulle differenze e sui rapporti reciproci fra la vista e il tatto è fondamentale la Lettre sur les
aveugles di Diderot. Il filosofo si sofferma sul dibattito coevo stimolato dalla possibilità di rimuovere
chirurgicamente la cataratta. Grazie a tale intervento un individuo nato cieco ha la possibilità di
vedere il mondo. I filosofi s'interrogano se il cieco che ha una cognizione tattile del cubo e della sfera
possa riconoscere le due figure senza toccarle, usando la vista appena acquisita. La questione
coinvolgeva la diatriba fra le posizioni degli idealisti e quelle degli empiristi. Nel suo trattato Diderot
indaga gli aspetti più problematici del dibattito nella speranza di illuminarne meglio la complessità.
È interessante notare qui come egli distingua il tatto dalla vista: il primo individua la profondità, la
seconda ha invece una cognizione superficiale delle apparenze. Di conseguenza non si può parlare,
per il vedente, di cubi e di sfere: «j'ai substitué le cercle à la sphère et le carré au cube, parce qu'il y a
toute apparence que nous ne jugeons des distances que par l'expérience, et conséquemment que celui

109
ma «solo per accidente e rispetto al chiaro et allo scuro». La differenza fra scultura
e pittura si risolve nella resa del chiaro e dello scuro: «tutto questo è nella pittura
non meno che nella scultura, dico il chiaro, lo scuro, la lunghezza e la larghezza: ma
alla scultura il chiaro e lo scuro lo dà da per sé la natura, ed alla pittura lo dà l'arte:
adunque anche per questa ragione si rende più ammirabile un'eccellente pittura di
una eccellente scultura». Dunque l'arte pittorica richiede un maggiore impegno
artistico, mentre la scultura mostra ombre e sfumature reali e non artificiali. Inoltre
secondo Galileo è degna di apprezzamento ogni tecnica figurativa che impieghi un
linguaggio il più possibile astratto e indiretto, ovvero distaccato dalla materia che
intende descrivere: «quanto più i mezzi, co' quali si imita, son lontani dalle cose da
imitarsi, tanto più l'imitazione è maravigliosa». 184 Si tratta di una mossa teorica
analoga alla conversione del mondo naturale in linguaggio matematico. Il pittore è
superiore perché deve proiettare su un piano il suo contrario, ovvero la profondità
tridimensionale:

per questa ragione dunque, di qual maraviglia sarà l'imitare la


natura scultrice coll'istessa scultura, e rappresentare il rilevato
coll'istesso rilevo? Di niuna certo, o di poca; et artificiosissima
imitazione sarà quella che rappresenta il rilevo nel suo contrario,
che è il piano. Maravigliosa dunque, per tal rispetto, si rende più
la pittura che la scultura.185

qui se sert de ses yeux pour la première fois, ne voit que des surfaces et qu'il ne sait ce que c'est que
saillie; la saillie d'un corps à la vue consistant en ce que quelques-uns de ses points paraissent plus
voisins de nous que les autres». D. Diderot, Lettre sur les aveugles, in Id., Œuvres philosophiques,
Gallimard, Paris 2010, p. 178. Sulla percezione della superficie e della profondità Diderot avanza una
considerazione analoga nella Lettre sur les sourds et muets: «mon idée serait donc de décomposer,
pour ainsi dire un homme, et de considérer ce qu'il tient de chacun des sens qu'il possède. Je me
souviens d'avoir été quelquefois occupé de cette espèce d'anatomie métaphisique, et je trouvais que
de tous les sens l’œil était le plus superficiel, l'oreille le plus orgueilleux et plus incostant, le toucher
le plus profond et le plus philosophe». D. Diderot, Lettre sur les sourds et muets, in Id., Œuvres
philosophiques, cit., p. 206. L'anatomia della percezione di Diderot è interessante alla luce del
progetto incompiuto di Calvino di scrivere cinque racconti sui cinque sensi.
184 Ancora Heinich su Galileo: «cette ferme distinction entre le signe (“le moyens”) et le référent
(“les choses à imiter”) est d'une extreme modernité à une époque où la figuration était encore
largement soumise […] au régime de la mimesis». N. Heinich, Panofsky épistémologue, cit., p. 39.
185 Una possibile fonte della risposta di Galileo si trova al capitolo LI del primo libro del Cortegiano
di Castiglione, referenza sfuggita a Panofsky. A proposito del parallelo fra pittura e scultura afferma
il Conte: «voi ben dite il vero che l'una e l'altra è imitazion della natura; ma non è già così, che la
pittura appaia, e la statuaria sia. Ché avvenga che le statue siano tutte tonde, come il vivo, e la
pittura solamente si veda nella superficie; alle statue mancano molte cose, che non mancano alle

110
Dalla lettera di Galileo traspare un'attitudine conoscitiva che predilige la visione,
l'astrazione e il linguaggio formale. Come precisa Panofsky, «in Galileo's view,
then, art is at its best where its "means of imitation" (sounds in the case of music;
light, line and color in the case of the representational arts) are most emphatically
distinct from its subject matter: the world of psychological experience, on the one
hand; the world of three-dimensional things, on the other. And this insistence upon
a clear and clean separation of values and procedures which at the time were
commonly accepted as inseparable bears witness to a critical purism that may be
said to be the very signature of Galileo's genius».186 Si tratta dello stesso «purismo
critico» che induce Galileo a concepire il moto dei pianeti perfettamente circolare e
non ellittico: «on pourrait presque dire […] que Galilée avait pour l'ellipse la même
aversion invincible qu'il éprouvait pour l'anamorphose; et que l'astronomie
keplérienne était, pour lui, une astronomie maniériste».187 Galileo predilige il
circolo perché all'origine di ogni scelta rappresentativa – di ordine scientifico come
figurativo – vige un «atteggiamento di fondo» che dischiude «un senso unitario
della concezione del mondo».188 L'invenzione di una lingua distinta «dalle cose a
imitarsi» e la ricerca dell'astrazione procedono dal desiderio di cogliere da una
certa distanza la forma ultima degli enti osservati: qui riposa l'intimo accordo fra
Galileo e Calvino. Eppure, sostiene Koyré, Galileo non ha mai formulato in modo
esplicito la legge d'inerzia secondo la quale i corpi tendono a procedere di moto
rettilineo uniforme su uno spazio piano e infinito. Saranno Descartes e Newton a

pitture: e massimamente i lumi e le ombre. Perché altro lume fa la carne, ed altro fa il marmo; e
questo naturalmente imita il pittore col chiaro e lo scuro, più e meno, secondo il bisogno; il che non
può fare il marmorario. E se ben il pittore non fa la figura tonda, fa que' muscoli e membri
tondeggianti di sorte, che vanno a ritrovar quelle parti che non si veggono, con tal maniera, che
benissimo comprender si può ch'l pittor ancor quelle conosce e intende. Ed a questo bisogna un altro
artificio maggiore, in far quelle membra, che scortano e diminuiscono a proporzion della vista, con
ragion di prospettiva: la qual per forza di linee misurate, di colori, di lumi e d'ombre, vi mostra ancor
in una superficie di muro dritto, il piano e 'l lontano, più e meno, come gli piace». B. Castiglione, Il
Libro del Cortegiano, Garzanti, Milano 1981, pp. 105-106. Quanto e in che modo questa fonte possa
modificare l'interpretazione di Panofsky, non è compito di questo lavoro definire. Basti notare come
il problema della riduzione planare della profondità abbia attraversato la cultura italiana fra
Quattrocento e primo Seicento.
186 E. Panofsky, Galileo as a Critic of the Arts: Aesthetic Attitude and Scientific Thought, cit., p. 5.
187 A. Koyré, Études d'histoire de la pensée scientifique, cit., p. 283.
188 E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica e altri scritti, cit., p. 203.

111
spiegare «le réel par l'impossible»,189 ovvero ad adottare un'esplicazione del tutto
geometrica ed astratta del mondo naturale. Galileo non ha inteso operare «une
conversion totale, […] une substitution radicale d'un monde mathématique,
platonicien, à la réalité empirique»190 perché non ha mai abbandonato il proposito
di descrivere la concretezza, ovvero di trovare una lingua matematico-geometrica
capace di dare ragione dell'empiria e delle sue singolarità. Così i minuti e precisi
particolari del cosmo – come le irregolarità della luna per Galileo, le antenne sui
tetti di Roma per Palomar – si distendono sul piano come combinazioni di segni
astratti e formali.

6. La bipartizione dello spazio.

Panofsky e Koyré concordano su un'ulteriore, più marginale osservazione: le


considerazioni di Galileo sulla pittura sono analoghe ad alcune idee esposte da
Leonardo da Vinci nel suo Trattato, sebbene entrambi gli studiosi escludano che lo
scienziato pisano abbia avuto l'occasione di consultare il codice dell'artista. 191 Nella
prima parte del Trattato della pittura Leonardo dimostra l'altissimo valore della
pittura paragonandola alla scultura e alla poesia. Anch'egli elegge la vista a organo
sensoriale privilegiato: «l'occhio, dal quale la bellezza dell'universo è specchiata dai
contemplanti, e di tanta eccellenza, che chi si consente alla sua perdita, si priva
della rappresentazione della natura».192 La pittura è l'arte visuale per eccellenza
perché, a differenza della scultura, richiede un grado di astrazione più eminente:
«se tu dirai: le scienze non meccaniche sono le mentali, io ti dirò che la pittura è
189 Koyré, Études galiléennes, cit., p. 276.
190 Ibidem, p. 207.
191 Così Koyré: «les raisons invoquées par Galilée sont tout à fait analogues à celles que jadis faisait
Leonard de Vinci, que Galilée ne connaissait certainement pas». A. Koyé, Études d'histoire de la
pensée scientifique, cit., p. 278. E ribadisce Panofsky: «Galileo, then, reduces all human movements to
a system of circles and epicycles; and this is, curiously enough, precisely what Leonardo da Vinci
had suggested in his Trattato della pittura and systematically elaborated in a treatise on human
movement which can be reconstructed from the compilation of one of his followers. Galileo could
hardly have known of Leonardo's ideas; but it is noteworthy that his conception of human
movement as completely agrees with that of the first High Renaissance painter as it differs from
that of the greatest contemporary astronomer». E. Panofsky, Galileo as a Critic of the Arts: Aesthetic
Attitude and Scientific Thought, cit., p. 13. È necessario inoltre ricordare la storia complessa e
travagliata degli scritti vinciani, frammentati e dispersi nei secoli in diverse parti d'Europa. Lo stesso
Trattato è una composizione postuma di scritti vinciani.
192 Leonardo, Trattato della pittura, TEA, Milano 1995, p. 20.

112
mentale, e ch'ella, siccome la musica e la geometria considerano le proporzioni delle
quantità continue, e l'aritmetica delle discontinue, questa considera tutte le quantità
continue, e le qualità delle proporzioni d'ombre e lumi e distanze nella sua
prospettiva».193 In quanto arte mentale, la pittura è «di maggior artificio», mentre
ogni scultura «non è altro che ella pare» e quindi è molto più vicina alla natura che
all'arte. Inoltre se l'ambiente circostante non gettasse sulla scultura «ombre più o
meno oscure» e «lumi più o men chiari», l'opera sarebbe «di un colore chiaro e
scuro a similitudine di una superficie piana». 194. L'artista toscano sostiene che la
terza dimensione è un effetto ottico dovuto all'alternanza fra chiaro e scuro: nel
caso della scultura esso è dato dai riverberi causati dalle condizioni di luce
dell'ambiente circostante, nella pittura è l'esito della maestria d'un artista abile a
riprodurre la luce e l'ombra con vario accostamento dei colori. Quindi ogni
immagine del mondo appare alla vista in forma bidimensionale e la terza
dimensione è soltanto una parvenza suggerita dal grado di esposizione luminosa o
dagli effetti delle campate di colore. Ogni ente tridimensionale è così tradotto in
un'immagine mentale distesa in proiezione, come se la visione del mondo
circostante si riducesse a una sequenza di sezioni planari. È quanto emerge con
chiarezza in una ulteriore critica alla scultura:

Dice lo scultore che non può fare una figura, che non ne faccia
infinite per gl'infiniti termini che hanno le quantità continue;
rispondesi, che gl'infiniti termini di tal figura si riducono in due
mezze figure, cioè una mezza dal mezzo indietro, a l'altra mezza
dal mezzo innanzi; le quali, essendo ben proporzionate,
compongono una figura tonda, e queste tali mezze avendo i loro
debiti rilievi in tutte le loro parti, risponderanno per sé senz'altro
magistero per tutte le infinite figure che tale scultore dice di aver
fatte […].195

Lo scultore immaginato da Leonardo sostiene di aver realizzato un'opera

193 Ibidem, p. 28.


194 Ibidem, pp. 42-43.
195 Ibidem, p. 44.

113
osservabile da infiniti punti dello spazio. Gli «infiniti termini» sarebbero un motivo
di vanto per lo scultore perché il suo avversario, il pittore di prospettive, adotta un
solo punto di vista, e immobile. Leonardo ribatte che ogni opera scultorea non
consente una proliferazione infinita di percezioni perché i punti di vista possibili si
riducono soltanto a due: l'uno anteriore, l'altro posteriore all'oggetto rappresentato.
Basta infatti distendere in proiezione la forma di ciò che si vede «indietro» e poi di
ciò che appare «innanzi» per avere una cognizione esaustiva della scultura. La
procedura di Leonardo è molto semplice: egli divide la sfera immaginaria che
circonda la figura scolpita in due sezioni distese su un piano. È sorprendente notare
come Calvino – sempre nel commento a Forse un mattino andando in un'aria di
vetro – proponga un ragionamento del tutto analogo, seppur variando la posizione
del punto di vista:

Il «vuoto» e il «nulla» sono «alle mie spalle», «dietro di me». Il


punto fondamentale del poemetto è questo. Non è una
indeterminata sensazione di dissoluzione: è la costruzione d'un
modello conoscitivo che non è facile da smentire e che può
coesistere in noi con altri modelli più o meno empirici. L'ipotesi
può essere enunciata in termini molto semplici e rigorosi: data la
bipartizione dello spazio che ci circonda in un campo visuale
davanti ai nostri occhi e un campo visibile alle nostre spalle, si
definisce il primo come schermo d'inganni e il secondo come un
vuoto che è la vera sostanza del mondo. (S, p. 1184).

Il commento critico alla poesia è un'occasione per approfondire il funzionamento


del «modello conoscitivo», concentrando l'attenzione sulla divisione in due sezioni
piane di «ciò che ci circonda». Tale separazione «in un campo anteriore e in un
campo posteriore» è, secondo Calvino, «un dato di partenza comune a tutti gli
animali, che comincia assai presto nella scala biologica, da quando esistono esseri
viventi che si sviluppano non più secondo una simmetria raggiata, ma secondo uno
schema bipolare». (S, pp. 1184-1185). Da questa disposizione percettiva discende
l'impossibilità di una visione continua e atmosferica: «spostandosi e sommando i

114
campi visivi successivi, l'essere vivente riesce a costruirsi un mondo circolare
completo e coerente, ma si tratta sempre d'un modello induttivo, le cui verifiche
non saranno mai soddisfacenti». La visione è la composizione in successione di
campi visivi discontinui; se la posizione del soggetto è fissa in un punto, tali campi
si possono ridurre a due: un avanti e un indietro. Il modello della visione bipartita
procede da una teoria già affrontata in queste pagine ed esposta con chiarezza dallo
scrittore proprio nell'intervento dedicato a Montale: la coscienza soggettiva è
confinata nella stanza dell'intelletto, dietro ha il vuoto oscuro e di fronte s'apre una
finestra che dà sul mondo esterno. L'io proietta sullo schermo interiore della mente
le sezioni piane delle immagini che giungono da fuori, poi le monta in sequenza,
discontinue e separate l'una dall'altra. Per questo è impossibile disporre di una
cognizione simultanea della realtà circostante:

Se non è immobilizzato può girare il collo e tutta la persona e


avere una conferma che il mondo c'è anche lì, ma questa sarà
anche la conferma che ciò che egli ha di fronte è sempre il suo
campo visuale, il quale si estende per l'ampiezza di tot gradi e non
di più, mentre alle sue spalle c'è sempre un arco complementare
in cui in quel momento il mondo potrebbe non esserci. Insomma,
ruotiamo su noi stessi spingendo davanti ai nostri occhi il nostro
campo visuale e non riusciamo mai a vedere com'è lo spazio in cui
il nostro campo visuale non arriva. (S, p. 1185).

Ciascun atto visivo corrisponde all'estensione piana di un arco che esclude la


sezione «complementare» retrostante. Calvino ha letto con estrema attenzione i
codici leonardeschi, come dimostra la conclusione della lezione americana
sull'esattezza,196 ma in nessun modo si può provare una sua esplorazione attenta del
Trattato. Eppure le «due mezze figure» dell'argomentazione di Leonardo palesano
un ragionamento simile alle congetture sulla bipartizione della percezione. Forse
esistono fonti comuni nel primo Rinascimento che qui non sono state individuate,

196 Calvino si sofferma sui tentativi di approssimazione descrittiva dello scienziato. Al foglio 265 del
Codice Atlantico Leonardo compone per tre volte – e con parole diverse – l'immagine di un mostro
marino preistorico. Si veda il commento di Calvino in S, pp. 695-696.

115
oppure si può inferire che una medesima inclinazione percettiva e conoscitiva –
come la proiezione a distanza di un'immagine visiva del mondo – genera
un'assonanza nei processi logici e figurativi. La seconda ipotesi, sebbene esuli
dall'intento principale di questo lavoro, è rischiosa quanto affascinante.
Calvino, tuttavia, non è un filosofo, né uno scienziato. Una volta individuata
un'attitudine percettiva fondamentale è necessario verificare come questa si traduca
in discorso letterario. Il «modello dello spazio bipartito» ordina la forma del
paesaggio di Dall'opaco. Le due sezioni divengono evidenti alla coscienza quando
l'opacità del versante retrostante all'osservatore si oppone all'anfiteatro marittimo:
«di modo che potrei definire “l'ubagu” come annuncio che il mondo che sto
descrivendo ha un rovescio». (RR III, p. 99). E la linea di separazione originaria fra i
due versanti pare ineludibile: «è inutile che cerchi in fondo all'opaco uno sbocco
all'opaco, ora so che il mondo che esiste è l'opaco e l'aprico ne è solo il rovescio».
(RR III, p. 101). Il paesaggio ligure di Calvino è un emblema così complesso da
figurare al contempo il lavorio immaginativo dell'atto letterario, lo schema generale
di orientamento nel mondo, il rapporto fra il linguaggio e il cosmo 197 e il modello
primario di ogni atto percettivo. Dall'opaco, tuttavia, è solo l'esempio più articolato
e pregno di valori simbolici, ma non l'unico. Esiste una città invisibile, l'ultima della
serie “la città e gli occhi”, e il suo nome è Moriana. Ha le «porte d'alabastro
trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo […], le ville tutte di vetro come
acquari», ma il viaggiatore sa che le città come questa «hanno un rovescio»: «basta
percorrere un semicerchio e si avrà in vista la faccia nascosta di Moriana, una
distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine,
mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde
buone solo per impiccarsi a un trave marcio». Le due facce di Moriana
appartengono a una struttura topologica che rende vana ogni cognizione sintetica:
«da una parte all'altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo
repertorio d'immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un
rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non
possono staccarsi né guardarsi». (RR II, p. 449). La stessa discontinuità urbana

197 A questo proposito si vedano i paragrafi 9 e 10 del primo capitolo.

116
appare ne La nuvola di smog. Il protagonista s'aggira depresso nel grigiore della
città industriale finché una sera decide di entrare nella birreria luminosa che si
trova sotto il suo triste e solitario appartamento. I colori sgargianti del locale sono
la faccia rovesciata d'una metropoli appesantita dalla nebbia e dalle polveri sottili:

In trasparenza tra le linee e i colori di questa parte del mondo


andavo distinguendo l'aspetto del suo rovescio, del quale soltanto
mi sentivo abitatore. Ma forse il vero rovescio era questo,
illuminato e pieno d'occhi aperti, mentre invece l'unico lato che
contasse in ogni cosa era quello in ombra, e la birreria “Urbano
Rattazzi” esisteva solo perché se ne potesse sentire quella voce
deformata nel buio: “Una di gnocchi al burro!”, e lo sferraglio dei
bidoni, perché la nebbietta della via fosse interrotta dall'alone
dell'insegna, dal riquadro dei vetri appannati su cui si
disegnavano confuse sagome umane. (RR I, p. 923).

Il dissidio fra i due rovesci del mondo rimanda al senso d'armonia perduta che
opprime gli abitanti della modernità industriale. La «bipartizione dello spazio»
diviene la forma percettiva grazie a cui cogliere la lacerazione fra il grigiore della
condizione lavorativa e lo svago dei consumi, ma anche fra il tempo dedicato
all'industria e la vita privata, fra il progresso tecnico e la persistenza della natura.
Lo studio della configurazione letteraria del modello percettivo bipolare permette
infine di recuperare il testo che ha aperto questa sezione: La strada di San Giovanni.
La distinzione fra «mondo in su» – l'entroterra prealpino dove si apre la «valletta
di San Giovanni» – e quello «in giù» – il paesaggio costiero che abbraccia San
Remo – è la stessa che oppone in Dall'opaco il versante aprico a quello opaco. Nel
racconto autobiografico, tuttavia, il territorio ligure è attraversato dalla camminata
del padre e del figlio, un'azione che potrebbe innescare un approccio sensoriale
differente da quello predisposto dalla consueta immobilità del soggetto. Lo
spostamento lungo il percorso potrebbe infatti essere un fattore di unione fra gli
opposti, forse l'opportunità di una ricucitura armonica fra il mondo prediletto dal
narratore – il paesaggio marittimo,con la città e sue promesse d'avvenire – e quello

117
favorito dal padre: «per mio padre il mondo era di là in su che cominciava, e l'altra
parte del mondo, quella in giù, era solo un'appendice, talvolta necessaria per cose
da sbrigare, ma estranea e insignificante». (RR III, p. 7). Un'attenta osservazione
delle immagini paesaggistiche, tuttavia, suggerisce un'interpretazione opposta.
Poco prima della descrizione della «valletta» dove s'apre la campagna il narratore
ricorda che «la mulattiera s'addentrava verso San Giovanni per un bel tratto in
piano; il mare, era alle nostre spalle». Nel momento in cui il paesaggio di fasce
nitide, tetti rossi e ulivi emerge allo sguardo, il versante costiero si trova «alle
spalle» dei due protagonisti. Allo stesso modo il mare si concede alla vista solo
durante il ritorno, quando la nuca è volta alla campagna: «ora stiamo tornando. Io
cammino curvo sotto la mia gerla. […] Guardo il mare e penso che tra un'ora sarò
alla spiaggia. Alla spiaggia le ragazze lanciano palloni con le braccia lisce, si tuffano
nel luccichio, gridano, schizzano, su tanti sandolini e pedalò». (RR III, p. 26). Anche
ne La strada di San Giovanni è impossibile formulare un'immagine sintetica capace
di comprendere insieme la costiera marittima e l'entroterra appartato.

7. Spazio grafico e spazio mentale.

Durante lo spostamento verso San Giovanni il giovane protagonista non presta


attenzione ad alcunché: «non riconoscevo né una pianta né un uccello. Per me le
cose erano mute». Il padre invece «addita [...] certe foglie» e ne pronuncia il nome
perché il suo linguaggio intrattiene un rapporto materiale, indicale con la natura.
Per il figlio il linguaggio ha un funzionamento opposto: «le parole fluivano nella
testa non ancorate a oggetti, ma ad emozioni fantasie presagi». È sufficiente
evocare un nome sentito o letto da qualche parte – «nomi di teatri, attrici, vanità»
– e subito «la mente aveva preso il galoppo, la catena delle immagini non si sarebbe
fermata per ore e ore mentre continuavo a seguire in silenzio mio padre». (RR III, p.
12). La fantasia del bambino compone una sequenza di immagini nell'isolamento
dello spazio mentale. Il narratore ormai adulto adotta il medesimo procedimento
immaginativo quando dispone i ricordi della camminata fino a San Giovanni –
brandelli di visioni sepolte nella memoria – in un «rosario di immagini»:

118
Dal beudo si usciva sulla scalinata di Salita San Pietro […]. Vi si
incontravano i vecchi dell'Ospizio Giovanni Masaglia, […] le
monache e le bambine in fila delle «colonie milanesi», i parenti
dei malati che salivano al Nuovo Ospedale. L'abitato di quella
regione […] presentava sedimenti diversi: in antico come
dappertutto era stata una distesa d'orti custoditi da casolari; poi al
volgere del secolo anche lì intorno era sorta qualche villa
signorile […]; e in seguito le zone residenziali agiate della città si
erano disposte altrove e qua s'era stabilito un regno di villette
modeste […]. (RR III, p. 16-17).

I nessi di congiunzione («poi», «e in seguito») e la punteggiatura forte tracciano il


confine dei segmenti descrittivi: una teoria di visioni s'incatena in una
coordinazione sintattica lineare dove il tempo e lo spazio appaiono in
frammentazione. Il narratore distende in successione «garages, magazzeni di
fioristi, segherie, depositi di mattoni, una centrale elettrica tutta vetrate», un
catalogo di nomi fra i quali all'improvviso risuona un termine o una vocalizzazione
dialettale, quasi una vibrazione di concretezza lungo l'andamento astratto del
metodo sequenziale. Secondo Mario Boselli il linguaggio di Calvino è un tessuto
cellulare, o pulviscolare, che s'accresce in proliferazione: «il linguaggio si moltiplica
sullo stesso parametro delle cellule». 198 Le lettere come particelle fisiche 199 o
biologiche formano agglomerati discontinui che si compongono e si ricompongono
su un supporto piano posto a una certa distanza dal soggetto della percezione. Ha
ragione Barenghi quando denota in Calvino «un predominio delle linee sulle
superfici, e delle superfici sui volumi, fino alla virtuale riduzione dello spazio a due
sole dimensioni»,200 sebbene sia forse più adeguato invertire il rapporto di causa: è
la natura bidimensionale dello «schermo» di proiezione a privilegiare la

198 M. Boselli, “Ti con zero” o la precarietà del progetto, cit., p. 134.
199 A questo proposito si veda il primo capitolo, paragrafo 4.
200 M. Barenghi, Italo Calvino. Le linee e i margini, cit., p. 114. Sulla dominanza delle linee ortogonali
nel paesaggio di Calvino – e più propriamente della linea verticale – rimando a D. Scarpa, Viewing
Calvino's Landscape, in B. Grundtvig, M. McLaughlin, L. W. Peterses, Image and Art in Calvino, cit,
pp. 152-170.

119
proliferazione di linee e superfici.
Nel 1973 su il verri Gianni Celati pubblica Il racconto di superficie,201 un breve saggio
dedicato alle Città invisibili. Quello di Calvino è un «racconto di superficie in
quanto racconto di ciò che avviene su una superficie e rifiuto della antica
profondità del discorso».202 Secondo Celati – e i due si sono frequentati
assiduamente proprio durante la stesura dei resoconti di Marco Polo – il «discorso»
di Calvino è privo di valenze metaforiche e di fascinazioni simbolistiche perché non
allude ad alcuna profondità da svelare o scoprire. Tutto avviene su un piano dove le
frasi si dispongono in serie di significati: «il racconto complessivo sta qui, nella
spaziatura di un piano».203 Di conseguenza ogni accenno alla profondità dipende da
modulazioni di superficie204 così trasparenti da diradare l'illusione di spessore: lo
svelamento del procedimento tecnico della proiezione porta alla luce un
«meccanismo», «ovvero un insieme di parti che funzionano tutte assieme ma tra
cui vi è discontinuità, disgiunzione e dislocazione». 205 L'effetto artificiale di
profondità attivato dal «congegno» testuale è evidente al rarefarsi delle nubi
durante un dialogo fra Kublai Kan e Marco; ed è palese anche quando il mercante
veneziano racconta che a Moriana «da una parte all'altra la città sembra continui in
prospettiva moltiplicando il suo repertorio d'immagini: invece non ha spessore».
L'ultima citazione è quasi una sintesi del lavoro critico tentato in questa sezione: la
forma visiva dello scrittore ligure discende dalla tradizione moderna della
prospettiva e ne conserva alcune caratteristiche peculiari come la proiezione a
distanza e il distacco fra l'osservatore e l'oggetto, ma lo spazio della
rappresentazione perde lo «spessore»; lo spazio non suggerisce più un senso di
continuità in estensione infinita ma appare disomogeneo e frammentario.
Celati sostiene inoltre che «le parole in serie sono tutte uguali» e il loro significato
dipende dalla disposizione che assumono l'una con l'altra e dai loro scivolamenti,
così da considerarle «come segni puramente sintattici o equireferenziali». 206 È vero

201 G. Celati, Il racconto di superficie, il verri, n. 1, marzo 1973, pp. 93-114.


202 Ibidem, p. 94.
203 Ibidem, pp. 95-96.
204 «Il profondo – ricorda Celati – è quella serie del discorso a cui si applicano i congegni di
superficie» Ibidem, p. 97.
205 Celati, Il racconto di superficie, cit., p. 98.
206 Ibidem, p. 101.

120
che Calvino non istituisce una referenzialità diretta perché i nomi non sono calchi
trasparenti degli enti e nemmeno sono impiegati per «additare» gli oggetti, tuttavia
l'ultima considerazione di Celati adombra il rischio di attribuire al linguaggio dello
scrittore ligure una tonalità di puro gioco autoreferenziale. In Calvino i rimandi al
mondo esterno sono di ordine formale 207: egli imbastisce un linguaggio
indipendente dalla realtà materiale – ovvero un sistema combinatorio di segni
dotato di regole interne, simile alla «lingua matematica» di Galileo – per modellare
uno schema congetturale del mondo non scritto. Pertanto il «racconto di
superficie» descritto alla perfezione da Celati si fonda su un linguaggio autonomo
grazie al quale disegnare di volta in volta una proiezione cartografica del labirinto
della natura. A questo proposito, e con notevole acume, Boselli descrive una
«progressiva priorizzazione del linguaggio nei confronti del contenuto empirico
che affiora soltanto indirettamente».208 Lo schema non è mai del tutto puro e
astratto perché nuove emergenze rompono le maglie per disporsi a loro volta sulla
superficie: «dentro questi sistemi la realtà si dissolve, senza scomparire, cessare
affatto di apparire o di essere. Minutissime e molteplici particelle – provenienti da
una “precipitazione” della realtà trattata “scientificamente” alla stregua di una
sostanza da esaminare – penetrano ovunque e fondano la storia di questo
linguaggio».209
Dove si trova la superficie? Le immagini si accampano all'interno della mente, ha
scritto Calvino nel commento a Montale; anche il narratore di San Giovanni
racconta che le «immagini fluivano nella testa». Tuttavia l'immaginazione logica
della coscienza si distende anche sulla pagina e lo scrittore è colui che trasforma lo
spazio mentale proiettivo in «spazio grafico». 210 La pagina quindi è il supporto
tabulare analogo allo schermo dell'intelletto, uno spazio bianco dove le lettere si

207 Sul linguaggio come sistema combinatorio si veda la prima parte, paragrafi 4 e 7.
208 M. Boselli, “Ti con zero” o la precarietà del progetto, cit., p. 129.
209 Ibidem, p. 138. Nello stesso saggio Boselli descrive molto bene l'autonomia del linguaggio e la
relazione con il mondo esterno: «lo scopo essendo quello di comunicare l'infinita precarietà del reale
attraverso la dimostrazione dell'autonomia del linguaggio (nel senso della sua disponibilità al
“gioco” delle combinazioni, condizionata soltanto dal fatto di essere letteraria), bisogna pensare che
per Calvino la lingua si fa corpo nella sua sostanza, senza forma, trattabile, al massimo livello, come
la polpa mucillaginosa, il pancreas tagliato a pezzi, la gelatina, il pelo, la muffa e la bava dei suoi
mondi». Ibidem, p. 142.
210 M. Boselli, Italo Calvino: l'immaginazione logica, cit., p. 142.

121
organizzano in serie lineari. Secondo Celati, Calvino dispone «superfici ritagliate in
cui avviene un gioco locale di inscrizione sulla carta», realizzando «la riduzione
dell'universo incorporeo di profondità del libro alla superficie del suo spazio
materiale di artefatto cartaceo». 211 Ne La strada di San Giovanni il narratore si trova
serrato in un presente dove tutto – l'infanzia, il padre, la campagna – è scomparso:
egli è rimasto solo dinanzi a «un liscio foglio di carta bianca» da riempire con i
nomi e i vocaboli di quanto è ormai svanito. (RR III, p. 23). In Dall'opaco lo scrittore
disegna sul piano vuoto le linee del paesaggio marittimo ricostruendo una «carta
del pianeta» del tutto analoga alla «mappa d'un aprico che è solo un inverificabile
assioma per i calcoli della memoria». Le parole quindi si ordinano nello spazio
bianco come se tracciassero i contorni di immagini disposte in proiezione e, come
nota ancora con pertinenza Boselli, gli «oggetti e [le] figure sono ricostruiti in
forme artificiali, citati come lettere dell'alfabeto. I fatti e i loro intrecci, sono tradotti
in segmenti più o meno lunghi, procedenti da un nucleo centrale e irradiantisi ogni
oltre misura, nell'assenza di sfumatura, di penombre: la materia è piatta, in piena
luce, piuttosto uniforme, generalmente grigia o colorata artificialmente». 212
Come la pagina scritta somiglia alla mente che accoglie le immagini, così vale
anche il rapporto inverso: il processo cognitivo della visione è analogo
all'operazione di decodifica di lettere, parole, frasi. Osservare e comprendere il
mondo significa cogliere e interpretarne i segni: «i segni del futuro mi aspettavo di
decifrarli laggiù in quelle vie», confida il narratore de La strada di San Giovanni (RR
III, p. 7). Secondo Boselli «ciò significa considerare le cose come linguaggio, come
segno e scrittura. L'avverbio indica il modo d'essere della realtà; non tocca il
problema dell'esistenza delle cose ma il carattere non sempre conoscitivo
dell'esperienza della realtà, il suo carattere segnico». 213 La natura non è un libro, ma
211 G. Celati, Il racconto di superficie, cit., pp. 93-94.
212 M. Boselli, “Ti con zero” o la precarietà del progetto, cit., p. 133. Nella sua monografia su Calvino,
Giorgio Bertone dedica una densa nota alla forma dell'immagine in Palomar: «Palomar riduce la
realtà a superficie riquadrata; insomma, ogni oggetto, esperienza, evento viene tradotto in immagini
1) bidimensionali, 2) limitate da una cornice, 3) percepibili come elementi puntiformi, 4)
preferibilmente bicolori (bianco e nero)». (G. Bertone, Italo Calvino. Il castello della scrittura, cit., pp.
163-164). Le conseguenze che Bertone trae da questa perfetta descrizione della visualità sono – da
un punto di vista critico – inaccettabili: la formalizzazione della realtà provocherebbe, nell'ultimo
Calvino, la cancellazione della differenza fra i segni e i referenti: «se l'universo è tutto Segno, Segno
e Natura, Arte e Natura coincidono». Ibidem, p. 173.
213 M. Boselli, “Ti con zero” o la precarietà del progetto, cit., p. 134.

122
può essere consultata come se lo fosse.214 È il proposito dello scrittore in Eremita a
Parigi, prosa autobiografica del 1974:

Potrei dire allora che Parigi, ecco cos'è Parigi, è una gigantesca
opera di consultazione, è una città che si consulta come
un'enciclopedia: ad apertura di pagina ti dà tutta una serie
d'informazioni, d'una ricchezza come nessun'altra città.
Prendiamo i negozi, che costituiscono il discorso più aperto, più
comunicativo che una città esprime: tutti noi leggiamo una città,
una via, un tratto di marciapiede seguendo la fila dei negozi. Ci
sono negozi che sono capitoli d'un trattato, negozi che sono voci
d'una enciclopedia, negozi che sono pagine di giornale. (RR III, p.
107).

Ogni lettura avviene «sempre un po' dal di fuori» perché permane uno spazio fra
l'occhio e la pagina del mondo. Per questo durante ogni consultazione è necessario
«distaccar[si] d'un passo». (RR III, p. 106).
«A Parigi – racconta il narratore autobiografico – ci sono negozi di formaggi dove
vengono esposti centinaia di formaggi tutti diversi […] una specie di museo, di
Louvre di tutti i formaggi». (RR III, p. 107). Anche il signor Palomar si trova di
fronte a una teca di latticini e dichiara: «questo negozio è un dizionario; la lingua è
il sistema di formaggi nel suo insieme». (RR II, p. 935). Ancora una volta un
segmento della realtà è considerato come un fenomeno linguistico; la
compenetrazione fra i sistemi di oggetti e i sistemi di nomi genera l'ambiguità –
peculiare in Calvino – fra l'astrazione e la concretezza:

una lingua la cui morfologia registra declinazioni e coniugazioni


in innumerevoli varianti, e il cui lessico presenta una ricchezza
inesauribile di sinonimi, usi idiomatici, connotazioni e sfumature
di significato, come tutte le lingue nutrite dall'apporto di cento

214 L'impiego del «come» – esito di un rapporto di ordine analogico e rappresentativo – è


fondamentale per non cadere nell'errore di individuare in Calvino una indifferenza fra il mondo
naturale e la pagina scritta. Si tratta dell'errore che compie Belpoliti, quando afferma che «foglio e
mondo sono una cosa sola». M. Belpoliti, L'occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996, p. 67.

123
dialetti. È una lingua fatta di cose; la nomenclatura ne è solo un
aspetto esteriore, strumentale; ma per il signor Palomar impararsi
un po' di nomenclatura resta sempre la prima misura da prendere
se vuole fermare un momento le cose che scorrono davanti ai suoi
occhi. (RR II, p. 935).

Vedere significa leggere il divenire attraverso il filtro di una grammatica, ovvero un


complesso formale di regole. Di conseguenza la lettura e la scrittura sono
operazioni determinate a distendere e ordinare su un piano – lo schermo della
visione, la superficie della pagina – le varie possibilità consentite da un sistema
grammaticale. Il protagonista de L'avventura di un fotografo è folgorato dalla
passione per la fotografia e nel corso del suo apprendistato sperimenta le estetiche
che hanno costellato più di un secolo di storia, dai ritratti dell'Ottocento, alla foto
surrealista, fino all'iperrealismo del Dopoguerra. L'ossessione del protagonista è
quella di allargare su un album tutte le forme di visione possibili: «è una questione
di metodo. […] La fotografia ha un senso solo se esaurisce tutte le immagini
possibili». (RR II, p. 1107). La «sola via» che gli resta è quella di «fotografare le
fotografie», ovvero di distendere in sequenza tutti gli stili possibili concessi dal
mezzo.215 Il desiderio del fotografo ricorda quello di uno scrittore che progetta un
romanzo capace di contenere tutti gli incipit romanzeschi immaginabili, oppure
quello di un uomo che per «imparare ad essere morto» s'impone di «descrivere
ogni istante della sua vita, e finché non li avrà descritti tutti non penserà d'essere
morto». (RR II, p. 979).216
La grammatica fantastica più articolata e riuscita s'ispira al complesso urbano. La
città è un archetipo217 da cui si possono generare innumerevoli occorrenze da
adagiare su un atlante o sul pavimento di maiolica nella reggia dell'imperatore in

215 Sul valore fondamentale dell'esaustione nel pensiero di Calvino si veda la prima parte, paragrafo
7.
216 Sulle avventure del fotografo e sulla sua analogia con la figura di Palomar si veda il saggio di
Lucia Re, e in particolare il finale: L. Re, Calvino e l'enigma della fotografia, in F. Bizzoni e M.
Lamberti, Italo Calvino y la cultura de Italia, ed. Franca Bizzoni, Catédra Extraordinaria Italo Calvino,
Ciudad de México 2007, pp 115-128.
217 Sulla città come archetipo si veda la ricezione di Frye da parte di Calvino studiata nella prima
parte, paragrafo 3.

124
modo da organizzare un «rigoroso e chiuso caleidoscopio di combinazioni
“finite”».218 Fra le città invisibili appare Irene:

Irene è la città che si vede a sporgersi dal ciglio dell'altipiano


nell'ora che le luci s'accendono e per l'aria limpida si distingue
laggiù in fondo la rosa dell'abitato: dove è più densa di finestre,
dove si dirada in viottoli appena illuminati, dove ammassa ombre
di giardini, dove innalza torri con i fuochi dei segnali; e se la sera
è brumosa uno sfumato chiarore si gonfia come una spugna
lattiginosa al piede dei calanchi. (RR II, p. 463).

La città in basso infonde un senso di pace – «il vento porta a volte una musica di
grancasse e trombe» – anche se a volte s'ode «l'esplosione d'una polveriera nel
cielo giallo degli incendi appiccati dalla guerra civile». Lo sguardo dall'alto su una
città in guerra è un residuo che viene da un altro tempo. In La stessa cosa del
sangue, racconto dalle tinte autobiografiche contenuto in Ultimo viene il corvo,
appare una visione molto simile sebbene sia ambientata ai tempi del conflitto
partigiano: «la città si stendeva sotto di lui sul mare, la sua città ora a lui proibita,
con odore di morte per lui nel giro dei suoi viali. E nel cuore della città sua madre
prigioniera». (R I, p. 226). Irene rievoca San Remo e per il narratore essa ha un
valore prezioso: «forse di Irene ho già parlato sotto altri nomi; forse non ho parlato
che di Irene». Il paesaggio di San Remo, la prima veduta colta dal balcone della casa
d'infanzia, è una matrice di figure, fondamento della grammatica che regola ogni
permutazione de Le città invisibili. E Marco Polo avverte come ogni matrice
sistematica s'origini da una distanza: «tutti guardano in basso e parlano di Irene»;
per questo la vicinanza non è consentita: «a questo punto Kublai Kan s'aspetta che
Marco parli d'Irene com'è vista da dentro. E Marco non può farlo». (RR II, pp. 463-
464). Solo la distanza fra il soggetto e il paesaggio consente di tracciare in
proiezione le forme ipotetiche dell'universo. Irene, tuttavia, è anche un'immagine
ricordata: la sua distanza ha una connotazione temporale.

218 P. V. Mengaldo, L'arco e le pietre, cit., p. 435.

125
Capitolo III

Ricordo di una battaglia.


Paesaggio e distanza temporale
1. Lo scrittore e il viandante.

La rievocazione dell'infanzia trascorsa a San Giovanni s'avvia ormai alla fine e il


narratore avanza un primo bilancio: «di fronte alla natura restavo indifferente,
riservato, a tratti ostile». Il padre invece «voleva stabilire» un intenso «rapporto
con la natura» e ogni mattina si dedicava ai lavori nei campi, affrontava la
campagna «sentendola sotto viva e intera». La relazione fra il padre e l'ambiente
s'ispira a un aspro confronto, e ravvicinato, fra il corpo e la terra. Eppure agli occhi
del bambino la schietta passione del genitore risulta incomprensibile: «cos'era la
natura? Erbe, piante, luoghi verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo essere
altrove».219 Il mondo naturale s'affaccia sulla pagina in un elenco di termini
generici, categorie senza vita e sfumature. Il narratore intravede un'altra, possibile
via per stabilire con il mondo d'allora «un rapporto, forse più fortunato di quello di
mio padre»: «un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo
significato a tutto, e d'un tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e tangibile e
possedibile e perfetta, ogni cosa del mondo ormai perduto». Allora la scrittura
diviene densa e precisa, il tempo si concentra in un presente dove tutto è
immediato, il dialetto attiva una tensione interna alla lingua 220 e l'intensità del
linguaggio si protende a un'immagine vivida e definitiva:

Dove grida mio padre di portare la manica e dar l'acqua, che c'è
tutto secco? Da una fascia viene il suono del bidente del vecchio

219 I. Calvino, La strada di San Giovanni, RR III, p. 25.


220 Sul rapporto fra presente dei verbi e dialetto è interessante un'intervista del 1982: «nessuno usa
il passato remoto nell'Italia del Nord, anche se parla un perfetto italiano. Allora il primo romanzo
che io ho scritto l'ho scritto tutto al presente per aggirare quest'ostacolo. Perché se cominciavo a
dire “andò”, “fece”, facevo del toscanismo; facevo una cosa che era in contrasto con quella che allora
era la mia prima rudimentale poetica. In seguito però non è che ho seguito questa linea, anche
perché poco a poco ho perso questo radicamento regionale». I. Calvino, Sono nato in America, cit., p.
511. Per un approfondimento sull'uso dei tempi verbali si veda il penultimo paragrafo di questa
sezione.

127
Sciaguato che batte e ribatte nella terra. Qualcosa si muove su
quegli alberi: la figlia di Mumina s'è arrampicata per riempire un
cesto di ciliege. Io accorro con la gomma arrotolata sulla spalla,
ma non vedo mio padre tra i filari e sbaglio fascia. Devo portare il
gancio per piegare i rami del ciliegio, la macchina del solfato, il
nastro adesivo per gli innesti, ma non conosco la mia terra, mi
perdo. (RR III, p. 26).

Ritorna l'eco del «mondo ormai perduto», risuonano i rumori della campagna e i
nomi propri di allora, ma l'anamnesi sfocia in un nuovo stato di confusione. Le
parole sfiorano appena la pienezza sensibile del passato e nel momento di massima
vicinanza afferrano solo la desolante condizione di smarrimento del bambino. Poi
una parentesi interrompe la rievocazione e riporta il lettore al presente in cui si
dispiega la scrittura: «(ora sì, dall'alto degli anni, vedo ogni fascia, ogni sentiero,
ora potrei indicare la strada a me che corro tra i filari, ma è tardi, ormai tutti se ne
sono andati)». (RR III, p. 26). L'orientamento è possibile solo decenni dopo, quando
lo scrittore riesce a ricostruire nella memoria i tratti di un paesaggio che non c'è
più, un luogo dove i legami sono ormai disfatti, cancellati dalla macina del tempo:
quel che resta è il guscio cavo dell'esperienza d'infanzia. Sembra impossibile
un'armonica corrispondenza fra la visione d'insieme del passato e il ritrovamento
della vita che vi palpitava.
«Ora sì dall'alto degli anni vedo...»: la contemplazione del paesaggio richiede
ancora una posizione sopraelevata, a distanza. Il presente della scrittura proietta
un'immagine nitida ma eterea dell'esperienza vissuta nel passato. Fra le due epoche
è svanito ogni contatto e i legami sono ormai infranti: «tutti se ne sono andati».
Dalla frattura fra le due temporalità discende il dualismo fra il narratore impegnato
nella redazione delle sue memorie e il personaggio gettato nel turbine degli
accadimenti mondani: il primo è immobile e ricostruisce nella camera della sua
memoria i gesti, le sensazioni e i movimenti del secondo, silhouette eterea a due
dimensioni.
La dissociazione fra narratore-scrivente e personaggio-vivente non attraversa
soltanto le pagine de La strada di San Giovanni, ma scorre come un fiume

128
sotterraneo lungo l'intera opera di Calvino. 221 Biagio, il fratello sedentario e
riflessivo di Cosimo di Rondò, verga il suo memoriale nel chiuso della stanza del
palazzo d'Ombrosa. Egli sa che la dimora boschiva di Cosimo appartiene a un'era
distante che precede l'avanzata del progresso:

Ai tempi miei di luoghi così fitti d'alberi c'era solo il golfo


d'Ombrosa da un capo all'altro e la sua valle fin sulle creste dei
monti; e per questo i nostri posti erano nominati dappertutto. 222

Verso la fine del manoscritto Biagio annota che «ogni tanto scrivendo
m'interrompo e vado alla finestra». (RR I, p. 776). Egli vede il vuoto lasciato dalle
scuri napoleoniche e immagina il verde «frastaglio di rami» e le gesta del fratello
che saltava «da un albero all'altro […] senza mai toccare terra». La finestra che dà
sul paesaggio d'Ombrosa è anche un diaframma temporale: oltre la stanza s'apre il
passato abbandonato, ispirazione lirica che presiede alla narrazione delle avventure.
Un contrasto analogo fa capolino dalla cornice de Le città invisibili. Durante i
colloqui nel palazzo imperiale il Gran Kan intuisce la disposizione di Marco Polo,
mercante viaggiatore e avventuriero amante delle polverose strade del mondo: «il
mio sguardo è quello di chi sta assorto e medita, lo ammetto. Ma il tuo? Tu
attraversi arcipelaghi, tundre, catene di montagne».223 L'imperatore assiso al trono
deduce le forme possibili delle città e affida a Marco il compito di girovagare e
verificarne l'esistenza: «mettiti in viaggio, esplora tutte le coste e cerca questa città,
– dice il Kan a Marco. – Poi torna a dirmi se il mio sogno corrisponde al vero». 224
«Costitutiva della poetica di Calvino», secondo Mengaldo, è la «divaricazione fra

221 In un'intervista del 1985 in “Contemporary Literature” Calvino riconosce che con i racconti degli
antenati ha impiegato una «prima persona che non è quella di un protagonista ma quella di un
personaggio laterale che ha il ruolo di narratore». E più avanti – in riferimento a Brecht e allo
«spirito critico» – riconosce che il suo procedimento è finalizzato a «creare la distanza». (I. Calvino,
Sono nato in America, cit., pp. 569-572). D'altra parte già lo sguardo di Pin, sebbene sia aderente al
mondo e interno agli eventi, risente di un procedimento di straniamento. Sullo straniamento in
Calvino si veda L. Re, Calvino and the Age of Neorealism: Fables of Estrangement, Stanford
University Press, Stanford 1990.
222 I. Calvino, Il Barone rampante, RR I, p. 577.
223 I. Calvino, Le città invisibili, RR II, p. 377.
224 E ancora: «d'ora in avanti sarò io a descrivere la città […]. Tu nei tuoi viaggi verificherai se
esistono». (RR II, p. 415). E altrove: «tu verificherai se esistono e se sono come io le ho pensate». (RR
II, p. 391).

129
conoscenza e azione, fra distacco contemplativo e attiva partecipazione». 225 Il Gran
Kan conserva una carta generale dell'impero per avere cognizione del cosmo senza
mai muovere un passo: «un atlante dove tutte le città dell'impero e dei reami
circonvicini sono disegnate palazzo per palazzo e strada per strada, con le mura, i
fiumi, i ponti, i porti, le scogliere». (RR II, p. 473). Non a caso la mappa dispiega una
grafia dove il punto di vista raggiunge il massimo di altezza e di distanza. 226
Le radici del rapporto fra Marco e Kublai affondano nel soffocante destino di
Dantès e Faria,227 protagonisti de Il conte di Montecristo:

Ogni mia ipotesi di fuga, cerco di immaginarla con Faria come


protagonista. Non che io intenda identificarmi con lui: Faria è un
personaggio necessario perché io possa rappresentare alla mia
mente l'evasione in una luce obiettiva, come non riuscirei a fare
vivendola: dico, sognandola in prima persona. Ormai non so più
se quello che sento scavare come una talpa è il vero Faria che apre
brecce nelle mura della vera fortezza d'If o è l'ipotesi di un Faria
alle prese d'una fortezza ipotetica. […] il mio sforzo è inteso a
vederla con distacco, in una rappresentazione senza angoscia. (RR
II, pp. 348-349).

Forse anche Faria è un'ipotesi immaginata dallo scrivano: un trucco della mente per
verificare l'attendibilità dei calcoli sulla fortezza. Lo scrittore e il camminatore
225 P. V. Mengaldo, L'arco e le pietre, cit., p. 432.
226 Per una corrispondenza fra la visione cartografica e l'andamento della fabulazione in Calvino si
vedano le note ammiccanti e giocose di suor Teodora, narratrice de Il cavaliere inesistente: «ma come
andare avanti nella storia, se mi metto a maciullare così le pagine bianche, a scavarci dentro valli e
anfratti, a farvi scorrere grinze e scalfiture, leggendo in esse le cavalcate dei paladini? Meglio
sarebbe, per aiutarmi a narrare, se mi disegnassi una carta dei luoghi, con il dolce paese di Francia, e
la fiera Bretagna, ed il canale d'Inghilterra colmo di neri flutti, e lassù l'alta Scozia, e quaggiù gli
aspri Pirenei, e la Spagna ancora in mano infedele, e l'Africa madre di serpenti. Poi, con frecce e con
crocette e con numeri potrei segnare il cammino di questo o quell'eroe. Ecco che già posso con una
linea rapida nonostante alcune giravolte, far approdare in Inghilterra Agilulfo e farlo dirigere verso
il monastero dove da quindici anni è ritirata Sofronia». I. Calvino, Il cavaliere inesistente, RR I, p.
1038.
227 La stessa relazione fra i due personaggi è colta bene da Milanini: «ma chi sono Marco Polo e
Kublai Kan, chi e che cosa raffigurano? Incarnano innanzi tutto due diversi approcci cognitivi alla
realtà, principalmente empirico e induttivo nel caso di Marco, fondamentalmente deduttivo nel caso
di Kublai. Due posizioni conoscitive,come già quelle impersonate dall'Abate Faria e da Edmond
Dantès nell'ultimo racconto di Ti con zero». C. Milanini, Altrove altravolta altrimenti: postille sulle
Città invisibili, Bolettino di italianistica, anno 2013, n. 1, p. 39.

130
appaiono come emblemi di una teoria della conoscenza, ma sono anche le figure
d'una contrapposizione che abita le fondamenta della creatività di Calvino. Nella
conclusione della lezione americana sulla rapidità lo scrittore evoca un dio a lui
caro: Mercurio «con le ali ai piedi, leggero e aereo, abile e agile e adattabile e
disinvolto», il dio delle mediazioni, delle connessioni e degli spostamenti. Ma a
Hermes si oppone Vulcano dio «che non spazia nei cieli ma si rintana nel fondo dei
crateri, chiuso nella sua fucina dove fabbrica instancabilmente oggetti rifiniti in
ogni particolare», Vulcano dio della «focalità, ossia la concentrazione costruttiva».
Lo scrittore è l'artigiano concentrato nella chiusa fucina, colui che immagina e
proietta voli leggeri di figure esili, nervose e mercuriali:

La concentrazione e la craftsmanship di Vulcano sono le


condizioni necessarie per scrivere le avventure e le metamorfosi
di Mercurio. La mobilità e la sveltezza di Mercurio sono le
condizioni necessarie perché le fatiche interminabili di Vulcano
diventino portatrici di significato, e dalla ganga minerale informe
prendano forma gli attributi degli dèi, cetre o tridenti, lance o
diademi. Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi:
il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio
d'immediatezza ottenuto a forza d'aggiustamenti pazienti e
meticolosi; un'intuizione istantanea che appena formulata assume
la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il
tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti
e i pensieri si sedimentino, maturino, si distacchino da ogni
impazienza e da ogni contingenza effimera.228

Il dualismo fra Mercurio e Vulcano esprime un particolare senso del tempo: le


svelte movenze della vita possono apparire grazie alla mediazione di un lavorio
distaccato. Dai ricordi di San Giovanni e dai fogli di diario di Biagio emerge la
medesima tensione: spesso un lasso di tempo distanzia l'uomo della contemplazione
dal personaggio in movimento. Così negli scritti sulla Resistenza un narratore
interno al racconto segue incuriosito le avventure d'un giovane alter ego disperso
228 I. Calvino, Lezioni americane, S, p. 676.

131
nel fondo del paesaggio ligure. La distanza come forma della temporalità investe le
immagini della memoria.

2. La luce e l'oscurità del ricordo.

«Sto cercando di riportare alla superficie una giornata, una mattina, un'ora tra il
buio e la luce all'aprirsi di quella giornata». 229 Negli anni Settanta – in occasione
della ricorrenza di fine aprile – Calvino scrive un breve racconto, Ricordo di una
battaglia, su una mattinata di spostamenti e scontri a fuoco durante la Resistenza. Il
narratore nel presente del 1974 si confronta con un'esperienza del passato: «adesso
che, passati quasi trent'anni, ho finalmente deciso di tirare a riva le reti dei ricordi e
vedere cosa c'è dentro, eccomi qui ad annaspare nel buio, come se il mattino non
volesse più cominciare». (RR III, p. 50). Il ricordo è «mezzo cancellato», oscuro
come quel mattino immerso fra le brume montane che avvolgono la discesa della
colonna partigiana giù per il fondovalle: «il distaccamento di Olmo era in marcia
giù per il bosco nel buio, quasi di corsa per scorciatoie che non vedi dove metti il
piede». In una «notte senza luna e stelle» i partigiani avanzano come formiche
cieche, oppressi da una materia tangibile e gravosa: «ricordi del corpo franato nel
buio, con la mezza gavetta di castagne nello stomaco […] con il peso della cassetta
delle munizioni che mi sbatte sulle spalle» (RR III, p. 51); è vivida ancora «la
sensazione del terreno sotto la pianta dei piedi, le fitte dei ricci di castagne e dei
cardi selvatici». (RR III, p. 54). Sono avvolti da confusi intrecci di suoni: «le
imprecazioni mie e di quelli che mi vengono dietro si smorzano in uno scoppiettio
sottovoce» (RR III, p.51); «spari, tutti i tipi di scoppi e di raffiche, un groviglio
sonoro impossibile da decifrare». (RR III, p. 55). Lo smarrimento fra sensazioni
tattili e uditive è una condizione simile a quella del bambino disperso nella
campagna di San Giovanni quando coglie «il suono del bidente del vecchio
Sciaguato che batte e ribatte nella terra» ma non vede il padre e vaga disorientato
tra i filari. La visibilità è quasi del tutto impedita ai partigiani immersi nell'opaco
versante montano: «non vediamo il paese» (RR III, p. 54); «noi appostati in quel

229 I. Calvino, Ricordo di una battaglia, RR III, p. 50.

132
fondovalle da cui non si vede un bel niente». (RR III, p. 55).
Anche Il sentiero dei nidi di ragno segue – a partire dal punto di vista del giovane
Pin – gli spostamenti di un distaccamento nascosto nelle valli liguri. L'oscurità pare
la medesima: «il passo nella penombra della notte nuvolosa appare come un prato
concavo dai contorni svaniti, tra due elevamenti di roccia circondati da anelli di
nebbia».230 La notte e la nebbia suggeriscono un senso di pesantezza, di densità,
mentre l'umidità dei boschi penetra nei corpi dei personaggi: «Pin cammina solo
per il buio, con una paura che gli entra nelle ossa come l'umido della nebbia. Segue
la striscia di prato per i costoni della montagna, e ormai ha perduto di vista il
bagliore del fuoco alla porta del casolare» (RR I, p. 79). Le fonti luminose si
affievoliscono e scompaiono e tutto è perso di vista. Il Sentiero dei nidi di ragno è un
romanzo che cammina al buio: «alle volte camminando nella notte le nebbie degli
animi di condensano intorno, come le nebbie dell'aria» (RR I, p. 111); ogni
movimento è un'immersione nell'oscurità dei boschi e delle notti e permane una
«tensione inappagata dello sguardo». 231 I partigiani riposano nascosti durante il
giorno e attendono «fin quando non sarà abbastanza buio o nebbioso per
riprendere la marcia» (RR I, p. 131). Senza visibilità il paesaggio scompare:

Pin è seduto sulla cresta della montagna, solo: rocce pelose


d'arbusti scendono a picco ai suoi piedi, e s'aprono vallate, fin già
nel fondo dove scorrono neri fiumi. Lunghe nuvole salgono per i
versanti e cancellano i paesi spersi e gli alberi. (RR I, p. 139).

Le ragioni della cancellazione possono essere ricercate nella struttura narrativa del
romanzo. Ne Il sentiero dei nidi di ragno tutto pare avvenire in un presente
immediato, senza distanza, e non emerge ancora la netta polarità fra uno scrittore e
i personaggi in movimento: lo sguardo del narratore sfiora da vicino il cupo
ambiente boschivo. Da questa particolare condizione formale dipendono i toni
brumosi che avvolgono un romanzo povero di luminosi sprazzi paesaggistici .
Nel Ricordo di una battaglia, invece, si distingue la voce di un narratore impegnato

230 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, RR I, p. 125.


231 C. Milanini, L'utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Garzanti, Milano 1990, p. 15.

133
a tracciare i ricordi, a dare loro forma in una giusta luce. Anch'egli, come il
protagonista adulto ne La strada di San Giovanni, si pone a una certa distanza. Dalle
memorie resistenziali, però, trapela una cauta insicurezza:

Continuo a scrutare nel fondovalle della memoria. E la mia paura


di adesso è che appena si profila un ricordo, subito prenda una
luce sbagliata, di maniera, sentimentale come sempre la guerra e
la giovinezza, diventi un pezzo di racconto con lo stile di allora,
che non può dirci come erano davvero le cose ma solo come
credevamo di vederle e di dirle. (RR III, p. 55).

Nonostante la titubanza il narratore conserva ancora il desiderio di «scrutare» per


dare forma al groviglio oscuro delle sensazioni passate, dar loro ordine in una
teoria di impressioni grafiche. La scrittura come rimembranza equivale a «riportare
in superficie» gli oscuri resti dell'esperienza vissuta, così da tradurre le schegge
avvolte nell'opacità del sottobosco in frammenti baluginanti di paesaggio.

3. Il recesso della memoria.

Il narratore del Ricordo di una battaglia intende recuperare i ricordi sommersi nelle
«pozze» fangose della memoria. Sembra che le immagini dei tempi andati si
conservino in un luogo recondito, profondo, e lo scrittore debba smuovere
volontariamente il fondo stratificato dove riposa il passato: «ero sicuro che in
qualsiasi momento mi bastava rimestare nell'acqua per veder affiorare [i ricordi]
con un colpo di coda. Al di più avrei dovuto sollevare qualcuno dei grossi sassi che
fanno da argine fra il presente e il passato, per scoprire le piccole caverne dove
s'acquattano le cose dimenticate» (RR III, p. 50).
La ricerca nella memoria ha una movenza analoga alla discesa della colonna
partigiana: «il distaccamento di Olmo era in marcia giù per il bosco nel buio, […]
qui siamo ancora all'inizio della marcia di avvicinamento, così come ora è una
marcia di avvicinamento nella memoria che sto cercando di compiere sulla traccia
di franati ricordi» (RR III, p. 51). I combattenti sono appostati «in quel fondovalle

134
da cui non si vede un bel niente» e il narratore continua «a scrutare nel fondovalle
della memoria» (RR III, p. 55). Così il bosco ligure è il luogo del ricordo (è lo scenario
nel quale si muovono i personaggi, come a San Giovanni e ad Ombrosa) ed è anche
il luogo del ricordare (è il recesso della mente che accoglie le immagini). La valle del
Ricordo è il residuo di un mondo trascorso e svanito, il fantasma di un distante
spazio delle avventure, ma è anche un luogo interno alla mente di chi scrive, un
ricettacolo dove si nascondono le tracce dell'esperienza. Il fondovalle, tuttavia, non
è l'unica figura impiegata per descrivere il recesso della facoltà rimembrante. Nel
corso del racconto diverse metafore designano la memoria come un luogo interiore
dove si raccolgono le immagini del passato: «i ricordi […] nascosti nel grigio
gomitolo della memoria», «umido letto di sabbia che si deposita nel fondo del
torrente dei pensieri» (RR III, p. 50), «la rete bucata della memoria trattiene certe
cose e non altre» (RR III, p. 54). La memoria è un meandro interno della mente, un
luogo opaco che appartiene all'individuo, una collezione delle percezioni passate.
Esiste un'antica tradizione nel pensiero occidentale che individua nella memoria un
recesso intimo e personale: in questo racconto di Calvino alcuni echi risuonano
nitidi dalle Confessioni di Agostino. Nel decimo libro Agostino evoca i «campi e [i]
vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori delle innumerevoli immagini di
ogni sorta di cose, introdotte dalle percezioni» e sostiene che la memoria è un
deposito dove «tutto ciò che fu messo al riparo» attende di essere rievocato:
«quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio» (Libro X, 8, 12) 232. Il
luogo interiore della memoria è un grembo (sinus) dove l'intelletto può muoversi e
ricercare i ricordi in forma d'immagine: «tutte queste cose la memoria accoglie
nella sua vasta caverna, nelle sue, come dire, pieghe segrete e ineffabili (secreti
atque ineffabiles sinus eius), per richiamarle e rivederle all'occorrenza» (Libro X, 8,
13). I ricordi sono parvenze da richiamare grazie allo sforzo della volontà,
procedimento di rammemorazione che riporti i resti in superficie: «se mai qualcosa,
ad esempio un qualsiasi oggetto visibile, scompare ai nostri occhi, ma non dalla
nostra memoria, la sua immagine si conserva dentro di noi, e noi cerchiamo finché
non sia restituito alla nostra vista» (Libro X, 18, 27). Conserviamo quindi

232 Agostino, Le confessioni, a cura di M. Bettetini, Einaudi, Torino 2000.

135
l'immagine degli oggetti e non gli oggetti in sé, perché le sensazioni «entrano
ciascuna per la sua porta, e vi [nella memoria] vengono riposte. Non le cose in sé,
naturalmente, vi entrano; ma lì stanno, pronte al richiamo del pensiero che le
ricordi, le immagini delle cose percepite (rerum sensarum imagines) ». (X, 8, 13).
La memoria del Ricordo descritta come fondale limaccioso sembra dunque una
filiazione delle riflessioni agostiniane. Come ne La spirale 233 gli organi della visione
si originano per accogliere nell'interno della mente gli stimoli delle immagini sparse
nel mondo esterno, così anche i ricordi partigiani sono parvenze raccolte e
depositate nel grembo della facoltà intellettuale. La percezione e la
rammemorazione stimolano un movimento analogo: una transizione dall'opacità
del mondo senza forma e delle memorie sedimentate alla superficie luminosa della
coscienza. Il lavoro cosciente si protrae «finché quel che cerco si snebbia e avanza
dalle segrete al mio sguardo» (X, 8, 12).
La mente è dunque un «immane grembo (sinus) popolato di tante immagini di tante
cose» (X, 8, 14). La stessa idea riecheggia dieci anni dopo nelle Lezioni americane,
all'interno dell'intricato tessuto di rimandi imbastito nella lezione sulla visibilità.
«Poi piovve dentro l'alta fantasia», un verso del Purgatorio (XVII, 25) apre la quarta
lezione. «Siamo nel girone degli iracondi – ricorda Calvino – e Dante sta
contemplando delle immagini che si formano direttamente nella sua mente». Le
prime annotazioni di Calvino lasciano intuire come con “visibilità” non intenda la
sensazione ottica del mondo esterno, ma l'interiore facoltà immaginativa: «l'alta
fantasia» è la «parte più elevata dell'immaginazione» e «Dante sta parlando delle
visioni che si presentano a lui (al personaggio Dante) quasi come proiezioni
cinematografiche o ricezioni televisive su uno schermo separato da quella che per
lui è la realtà oggettiva del suo viaggio ultraterreno». 234 La fantasia – «cinema
mentale dell'immaginazione» – abita la nostra «vista interiore» e può stimolare la
speculazione intellettuale come aveva ben intuito Loyola negli Esercizi spirituali: il
gesuita «prescrive la composizione visiva del luogo» con il fine di «vedere con la
233 Per una analisi del racconto si veda il secondo capitolo, paragrafo 3.
234 I. Calvino, Visibilità in Id., Lezioni americane, Mondadori, Milano 1993, pp. 91-92. Come nel
commento alla poesia di Montale (Eugenio Montale. Forse un mattino andando, S, pp. 1179-1189),
Calvino propone la metafora del cinema per immaginare lo schermo su cui si proiettano le
immagini. Di nuovo, al di là del valore critico dell'analogia, è rilevante il riferimento allo schermo
interiore della mente, superficie separata dove si accampano le immagini.

136
vista dell'immaginazione il luogo fisico dove si trova la cosa che voglio
contemplare». La genesi interiore dei loci, in questo caso, dipende dalla meditazione
del credente: «il fedele viene chiamato a dipingere lui stesso sulle pareti della
mente degli affreschi gremiti di figure».235
Per delineare una storia del concetto di immaginazione Calvino cita un breve
saggio di Jean Starobinski contenuto ne La relation critique.236 Secondo il critico
francese l'immaginazione è «un pouvoir d’écart grâce auquel nous nous
représentons les choses distantes et nous nous distançons de réalités présentés». Vi
è una distanza fra la percezione del mondo e le immagini interiori. Queste ultime
possono coadiuvare l'azione pratica designando «la configuration du réalisable
avant qu'il ne soit réalisé», oppure possono dare forma ai sogni, ai giochi fuori dal
tempo e dallo spazio e indurre l'individuo cosciente all'abbandono di sé e
all'identificazione con l'anima del mondo. 237 L'immaginazione, quindi, è stata intesa
sia come strumento conoscitivo, sia come rêverie priva di intenzioni pratiche. Nella
prima parte della lezione americana Calvino pondera i due sensi
dell'immaginazione, ne valuta i vantaggi e i difetti e, sebbene sia più orientato a
privilegiare la via razionale di una “immaginazione logica”, individua una terza
possibilità:

c'è un'altra definizione in cui mi riconosco pienamente ed è


l'immaginazione come repertorio del potenziale, dell'ipotetico, di
ciò che non è né è stato né forse sarà, ma che avrebbe potuto
essere. Nella trattazione di Starobinski questo aspetto è presente
là dove viene ricordata la concezione di Giordano Bruno. Lo
spiritus phantasticus secondo Giordano Bruno è «mundus quidem
et sinus inexplebilis formarum et specierum» (un mondo o un
golfo, mai saturabile, di forme e immagini). Ecco, io credo che
attingere a questo golfo della molteplicità potenziale sia
indispensabile per ogni forma di conoscenza. 238

235 I. Calvino, Visibilità, cit., pp. 94-96.


236 J. Starobinski, Jalons pour une histoire du concept d'imagination, in Id., La relation critique,
Gallimard, Paris 1970, pp. 173-195.
237 Ibidem, p. 174.
238 I. Calvino, Visibilità, cit., p. 102.

137
L'immaginazione di Calvino, tesa fra coscienza razionale e anima mundi, è legata a
doppio filo con la topologia: le immagini si accampano in loci composti
nell'interiorità della riflessione e la facoltà fantasticante assume la forma di un
luogo, sinus della mente, su cui si proiettano le apparenze delle cose. 239
Il sinus è uno snodo semantico che collega le riflessioni di Agostino, i trattati di
Giordano Bruno e gli scritti di Calvino; e proprio questa nuova apparizione del
sinus permette di ritornare al problema della memoria. Calvino ha tradotto il “sinus”
di Bruno con “golfo” e non, ad esempio, con “grembo”: lo spazio dell'immaginazione
assume così le sembianze di un tratto costiero. E non è forse un golfo a connettere,
in Dall'opaco, il ricordo dell'infanzia con la figurazione intellettuale del modello
generale del mondo? Lo scenario della riviera, come il sinus di Bruno, è
un'immagine interiore composta da linee e forme archiviate nella mente di chi sta
scrivendo.240 L'impressione del paesaggio d'origine è dunque indelebile, come già
aveva notato Montale in Dov'era il tennis...: «è curioso pensare che ognuno di noi
ha un paese come questo, e sia pur diversissimo, che dovrà restare il suo paesaggio,
immutabile; è curioso che l'ordine fisico sia così lento a filtrare in noi e poi così
impossibile a scancellarsi».241
Il rapporto fra il paesaggio dell'infanzia e lo spirito fantastico ritorna ancora in uno
scritto autobiografico ambientato in Francia, Eremita a Parigi. Calvino afferma che
«gli scenari dei primi anni della nostra vita […] danno forma al nostro mondo

239 Calvino rimugina sul rapporto fra il luogo e il ragionamento interiore anche nel 1982 in un testo
scritto in occasione di una mostra parigina dedicata a De Chirico: «ora sto cercando di ricordare
quello che diceva un filosofo...Je pense, donc...il pensiero bisogna bene che sia da qualche parte, che
occupi un luogo, il pensiero deve avere una residenza spaziosa, una città...Si pensa, dunque esiste
una città del pensiero. […] il pensiero ha bisogno di luoghi su cui posarsi». S, p. 400.
240 A proposito delle immagini interiori e della memoria è il caso di richiamare ancora un passo
delle Confessioni di Agostino che grazie a Petrarca diverrà fondamentale per la concezione moderna
del paesaggio: «eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le
correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano
se stessi. Non li meraviglia ch'io parlassi di tutte queste cose senza vederle con gli occhi; eppure non
avrei potuto parlare senza vedere i monti e le onde e i fiumi e gli astri che vidi e l'Oceano di cui
sentii parlare, dentro di me, nella memoria tanto estesi come se li vedessi fuori di me. Eppure non li
inghiottii vedendoli, quando li vidi con gli occhi, né sono in me queste cose reali,ma le loro
immagini, e so da quale senso del corpo ognuna fu impressa in me». (X, 8, 15).
241 E. Montale, Dov'era il tennis..., in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1990, p. 223. Il
riferimento a «il suo paesaggio» sarà recuperato da Calvino nella Prefazione del 1964 a Il sentiero dei
nidi di ragno: «il mio paesaggio era qualcosa di gelosamente mio». (RR I, p. 1188).

138
immaginario, non i luoghi della maturità. Dirò meglio: bisogna che un luogo diventi
un paesaggio interiore, perché la immaginazione prenda ad abitare quel luogo, a
farne il suo teatro».242 L'apparizione del paesaggio ligure diventa di nuovo il trait
d'union fra lo «scenario» dell'infanzia e lo spiritus phantasticus, fra il ricordo
impresso nel cervello e la «macchina elettronica» della fantasia responsabile di dare
una forma all'universo.
A rafforzare questa rete di rimandi interviene un'altra metafora topologica che fa
capolino nello scritto parigino: il teatro, luogo dove si dispone e si organizza
l'immaginazione. In Dall'opaco, infatti, «vedo ciò che il mondo contiene disporsi alla
destra e alla sinistra a diverse distanze, su altri balconi o palchi di teatro soprastanti
o sottostanti, d'un teatro il cui proscenio s'apre sul vuoto, sulla striscia di mare alta
contro il cielo attraversato dai venti e dalle nuvole» (RR III, p. 89). La relazione fra
la metafora teatrale e la forma del mondo concepita dalla vista interiore ha una
tradizione secolare negli studi di mnemotecnica. Esiste un trattato di retorica della
prima metà del Cinquecento redatto da Giulio Camillo Delminio, umanista friulano:
L'idea del Theatro.243 L'autore immagina di osservare dalla ribalta la disposizione di
sette file di tribune, o «sette salite»: la più importante è la tribuna inferiore vicina
al proscenio, poi verso l'alto seguono le altre «perché gli antichi teatri erano
talmente ordinati che sopra i gradi allo spettaculo più vicini sedevano i più onorati,
poi di mano in mano sedevano ne' gradi ascendenti quelli che erano di menor
dignità».244 Alla base dell'architettura sono disposte le sette figure dei pianeti che
individuano sette corsie intersecanti le file delle tribune: «essendo il proceder
nostro così ragionevole, come mostrato abbiamo, […] di prender nella fabrica
nostra ad imitazion della celeste il numero settenario». 245 In basso si dispongono i
principi primi del cosmo e gradualmente, dalla base verso l'apice, seguono,
incastonati nelle nicchie, gli emblemi delle altre componenti: elementi naturali,
esseri del creato, disposizioni d'animo, tecniche, sostanze accidentali. Il teatro è così
un locus della memoria architettato per tenere insieme e ordinare per gradi gli enti

242 I. Calvino, Eremita a Parigi, RR III, p. 102.


243 G. Camillo, L'idea del teatro e altri scritti di retorica, Res, Milano 1990.
244 Ibidem, p. 65.
245 Ibidem, p. 64.

139
del cosmo: l'ars memoriae formalizzata nei trattati di retorica classica 246 diviene
figura sintetica dell'universo, o «forma del mondo». 247 Come ricorda lo stesso
umanista, «se gli antichi oratori, volendo collocar di giorno in giorno le parti delle
orazioni che avevano a recitare, le affidavano a luoghi caduchi, come cose caduche,
ragione è, che volendo noi raccomandar eternalmente gli eterni di tutte le cose che
posson esser vestiti di orazione con gli eterni di essa orazione, che troviamo a loro
luoghi eterni.»248 Nel suo studio sulle arti della memoria Frances Yates sostiene con
una certa enfasi che «it is because he believes in the divinity of man that the divine
Camillo makes his stupendous claim of being able to remember the universe by
looking down upon it from above, from first causes, as though he were God. In this
atmosphere, the relationship between man, the microcosm, and the world, the
macrocosm, takes on a new significance. The microcosm can fully understand and
fully remember the macrocosm, can hold it within his divine mens or memory».249
L'anfiteatro di Camillo, in modo articolato e un poco ridondante, figura un sogno
comune al Rinascimento: tenere a mente lo schema generale del cosmo, conferire
all'arte della memoria il compito di organizzare le conoscenze dell'uomo e i rapporti
fra gli enti.250 Da questo punto di vista diventa più chiaro perché un luogo inscritto

246 Per un chiaro bilancio delle opere di mnemotecnica durante l'antichità classica (con particolare
riferimento al De Oratore di Cicerone, alla Rhetorica ad Herennium e al trattato di Quintiliano) si veda
il saggio di Aleida Assman: Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna
2002.
247 Scrive lo storico della filosofia Paolo Rossi in un fondamentale saggio sulle arti mnemotecniche
e combinatorie della prima modernità: «sostituendo i tradizionali luoghi della mnemotecnica
ciceroniana dei “luoghi eterni” atti ad esprimere “gli eterni di tutte le cose” Camillo giungeva
dunque alla costruzione di un sistema mnemonico su basi astrologico-cabalistiche. […] La ricerca dei
caratteri planetari […] trasformava un trattato di arte della memoria in una costruzione cosmologica
e metafisica». P. Rossi, Clavis universalis, Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz ,
Il Mulino, Bologna 1983, p. 121.
248 G. Camillo, L'idea del teatro, cit., p. 62.
249 F. Yates, The Art of Memory, University of Chicago Press, Chicago 1966, pp. 147-148. Riferendosi
al generale panorama intellettuale dei trattati di ars memoriae del Cinquecento, scrive P. Rossi:
«l'uomo, come microcosmo, riassume in sé le proprietà dell'universo, è la vivente immagine di Dio».
P. Rossi, Clavis universalis, cit., p. 73.
250 Sempre secondo Yates, il teatro di Camillo «is the first great landmark in the story of
transformation of the art of memory through the Hermetic and Cabalist influences implicit in
Renaissance Neoplatonism». F. Yates, The Art of Memory, cit, p. 162. Sui rapporti fra arte della
memoria e metafisica nel Rinascimento si veda di Yates, oltre al saggio già menzionato, lo studio
sulla diffusione dell'ermetismo: F. Yates, Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, Routledge,
London 1964. Si veda anche il saggio citato di P. Rossi, Clavis universalis, Arti della memoria e logica
combinatoria da Lullo a Leibniz. Sul rapporto medievale fra memoria, cosmologia e metafisica si veda
il saggio di Harald Weinrich dedicato al ricordo e all'oblio, in particolare: «la memoria è il luogo in
cui Dio, memore del patto stretto con l'uomo, ha preso dimora, anche nel peccatore, per attendervi,

140
nella memoria è assunto, in Dall'opaco, a modello immaginario per orientarsi nel
cosmo. Lo stesso legame fra lo scenario di un ricordo e l'immagine topologica di
una facoltà intellettuale, inoltre, si ripropone nel «fondovalle» del Ricordo di una
battaglia.
Il progetto di Camillo trova nelle opere mnemotecniche di Bruno la sintesi più
articolata e affascinante: «chi giunge a concepire con la mente un simile ordine
insieme ai gradi che lo scandiscono – scrive il filosofo nolano nel De umbris
idearum – potrà contrarre una similitudine del macrocosmo diversa da quella che
naturalmente possiede in sé. Senza difficoltà dunque, quasi agendo attraverso la
natura, egli percorrerà tutte le realtà dell'universo (sine difficultate peraget
universa)»251. Nel sinus interiore le immagini ricordate divengono configurazioni
sistematiche che ordinano le facoltà cogitative, fantastiche e mnemoniche della
mente. Per questo l'interiorità in Calvino tende a perdere le connotazioni
intimistiche e biografiche per assumere un valore più generale, di ordine
“trascendentale”.252 Sebbene il trasporto teoretico dell'osservatore in Calvino non
senza essere per intero (non omni modo) raggiungibile dall'oblio del peccatore, il giorno in cui
questi, convertendosi, ritroverà la strada che conduce a lui. Dal profondo della memoria Dio manda
anche dei segnali, con l'aiuto dei quali l'uomo riuscirà a uscire dagli errori dell'oblio. Sono le idee
eterne, che Dio ha piantato nella memoria di tutti gli uomini anche senza che questi lo sappiano e lo
vogliano. Esse sono presenti dapprima solo a uno stato “latente”, ma, con sforzi appropriati, possono
essere richiamate alla coscienza e mostrare così la strada della fede». H. Weinrich, Lete. Arte e critica
dell'oblio, Il Mulino, Bologna 1999, p. 38. Dante, così importante per il discorso di Calvino
sull'immaginazione, è anch'egli «uomo di memoria»: «se Dante […] attraversa l'aldilà secondo tutte
le regole dell'arte retorica come paesaggio mnemonico, vuol dire che indaga con la sua memoria
umana, in maniera poetica, la memoria di Dio». Ibidem, p. 42.
251 G. Bruno, De umbris idearum, 55, 11-14, in G. Bruno, Opere mnemotecniche, Tomo I, edizione
diretta da M. Ciliberto a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano 2004, p. 89.
Notano i curatori nel Commento: «è necessario, sottolinea dunque Bruno, costruire nell'intimo
dell'animo un'immagine generale dell'universo». Ibidem, p. 432. E ribadisce Yates a proposito delle
opere magiche e mnemotecniche di Bruno: «the possessor of this system thus rose above time and
reflected the whole universe of nature and of man in his mind». F. Yates, Giordano Bruno and the
Hermetic Tradition, cit., p. 199. Le immagini interiori – come avviene nel De umbris idearum –
possono prendere la forma delle costellazioni: «one of the chief way of operating […] with the
celestial world is through the magic or talismanic images of the stars. Bruno is transferring such
operations within, applying them to memory by using the celestial images as memory images, as it
were harnessing the inner world of the imagination to the stars, or reproducing the celestial world
within». F. Yates, The Art of Memory, cit., p. 215.
252 Non si può pertanto concordare con Nocentini che, in un saggio tutto dedicato al paesaggio
dell'infanzia in Calvino, individua nell'«inner landscape» dello scrittore ligure «a place of reflection,
a place where the ego withdraws to meditate upon itself». Anziché enfatizzare una «introspective
quality» e una «autobiographical vein» del paesaggio, è necessario dimostrare come il paesaggio
interiore sia un dispositivo per conoscere quanto sussiste fuori dall'io. (C. Nocentini, Italo Calvino
and the Landscape of Childhood, Northern Universities Press, Leeds 2000, pp. 5-6). Dall'opaco in
questo senso non è una descrizione della mente, ma una descrizione del funzionamento della mente

141
aneli più, come avviene nei trattati del Cinquecento, al cielo delle idee, né
presupponga un «macrocosmo» trascendente da cui discendono le ombre della
materia, ispira ancora un desiderio di conoscenza: tenere a mente, grazie al
supporto di un'immagine, la mappa generale dell'universo.

4. La mnemotecnica e i loci della memoria.

Il De umbris idearum è il primo trattato di mnemotecnica di Giordano Bruno ed è


diviso in due sezioni principali. La seconda – la Ars memoriae Iordani Bruni – è un
compendio pratico volto a definire le tecniche di apprendimento mnemonico. La
prima sezione, invece, è più teorica e dopo un dialogo introduttivo si divide in due
parti: le Triginta intentiones umbrarum e il De triginta idearum conceptibus. La
prima parte discute le intenzioni dell'intelletto umano che «non sperimenta altro
che l'ombra» e desidera raggiungere la verità trascendente; la seconda invece
riguarda i concetti puri afferenti al luminoso mondo delle idee, infinito e al
contempo unico. Se le Intentiones si concludono sull'immagine di un globo terrestre
che proietta un cono d'ombra con al fianco la didascalia “Typus umbrarum”, il De
triginta idearum conceptibus presenta nell'ultima pagina l'immagine di un sole che
spande i suoi raggi tutt'intorno. Una spiegazione esaustiva del rapporto fra l'ombra
e la luce è contenuta nell'ultima Intentio, dove s'intravvede il sistema complessivo
della metafisica di Bruno:

Realtà metafisiche, fisiche e logiche – ovvero quanto precede la


natura, quanto è nella natura e quanto appartiene alla ragione –
mostrano infatti una sorta di relazione analogica (analogiam enim
quandam admittunt), come vero, immagine e ombra. È del resto
vero che nella mente divina sussiste l'idea in un atto al tempo
stesso totale ed unico; nelle intelligenze separate sussistono idee
secondo atti distinti; le idee sussistono poi nel cielo in quanto
potenza attiva molteplice e secondo successione; nella natura a
modo di vestigio e quasi come impronte di sigilli; nel contenuto

intenta a ordinare una cognizione del mondo esterno.

142
intellettuale e nella ragione al modo di ombre (per umbrae
modum).253

Si delinea uno schema tripartito dove al mondo trascendente afferiscono le idee


luminose, a quello naturale le vestigia o impressioni e alla dimensione individuale
le molteplici e varie ombre dell'intelletto. Poiché la corrispondenza fra i diversi
gradi di luce e di ombra è assicurata dal principio di analogia fra i livelli, anche le
ombre della mente, in quanto emanazioni delle idee, mantengono una connessione
con la verità cosmica. Tale impostazione rimane invariata nelle sue linee generali
fino all'ultima opera mnemotecnica, il De imaginum, signorum et idearum
compositione.254 Per organizzare le idee umbratili, moltiplicare le immagini da
memorizzare e aprire la mente alla cognizione del versante luminoso, esiste una
disciplina dotata di leggi e di tecniche codificate dallo stesso Bruno: una ars
memoriae. «Crediamo – dichiara Bruno – che l'arte dimori sotto l'ombra delle idee
allorché precedendola incita una natura torpida, o la dirige e la guida quando devia
ed eccede, o la rafforza e la sostiene quando è stanca o mutila, o la corregge quando
erra, o allorché segue la natura perfetta e ne emula la provvida operosità». 255 In
questo modo «innestata nell'ombra, l'ars memoriae diventa emula della natura
contribuendo alla comunicazione inesauribile che si attua fra natura, uomini e
dei».256
L'arte di Bruno dispone nella fantasia una sostrato (subiectum) che corrisponde al
locus dei trattati classici e accoglie le icone da memorizzare. Sopra il sostrato

253 G. Bruno, De umbris idearum, 52, 12-18, in Id., Opere mnemotecniche, cit., p. 81.
254 Scrive Bruno nell'introdurre il De imaginum compositione: «le idee sono causa delle cose prima
delle cose; le tracce delle idee sono le cose stesse o ciò che è nelle cose; le ombre delle idee sono ciò
che discende dalle cose o è posteriore alle cose e il cui essere, si dice, è tanto meno perfetto di quello
delle realtà che discendono dal grembo della natura, quanto meno perfette sono le cose naturali
stesse rispetto alla mente, all'idea e al principio effettivo soprannaturale, sostantifico,
superessenziale». G. Bruno, De imaginum compositione, 6, 17-22, in Id., Opere mnemotecniche, Tomo
II, edizione diretta da M. Ciliberto a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, Adelphi, Milano
2009, p. 493. Le ombre, allora, sono le icone, o i segni, che ciascuno dispone nella sua mente e la
disposizione combinatoria di tali segni iconici permette di ordinare le conoscenze e raggiungere un
grado più elevato di sapere. Così Yates: «the concord between higher and lower things is the golden
chain from earth to heaven; as descent can be made from heaven to earth, so ascent may be madr
through this order from hearth to heaven». F. Yates, The Art of Memory, cit., p.226.
255 G. Bruno, De umbris idearum, 87, 4-8, in Id., Opere mnemotecniche, Tomo I, cit., p. 123.
256 M. Ciliberto, Umbra profunda. Studi su Giordano Bruno, Edizioni di storia e letteratura, Roma
1999, p. 112.

143
dell'immaginazione si muovono le figure e si combinano l'una con l'altra in modo
da rimandare alle parole o alle idee che si desidera significare: «il primo sostrato
(primum subiectum) – scrive nel De umbris idearum – è dunque una estensione
artificiale, ovvero un seno predisposto nella facoltà fantastica (sive sinus in
phantastica facultate ordinatus), occupato dalle figure dei ricettacoli confluite a
partire dalle finestre dell'anima, distinto secondo parti diverse, capace di recepire
tutte le realtà viste e udite secondo il loro ordine e di trattenerle secondo la volontà
dell'anima».257 Il medesimo sinus della fantasia ricompare nel De imaginum
compositione:

È questo un mondo e un grembo in certo modo insaziabile di


forme e di specie (hic est mundus quidam et sinus quodammodo
inexplebilis formarum et specierum), il quale non solo contiene le
figure delle cose concepite esternamente secondo la loro reale
grandezza e numero, ma per virtù dell'immaginazione aggiunge
altresì grandezza a grandezza, numero a numero. Ancora, come
per natura da pochi elementi si compongono e germinano specie
innumerevoli, così ad opera di questo principio efficiente
intrinseco le forme delle specie naturali non solo vengono
custodite in questo amplissimo grembo (in isto amplissimo sinu),
ma potranno poi essere moltiplicate oltre ogni proporzione
secondo la moltiplicazione delle immagini innumerevoli che si
possono concepire, come quando ci raffiguriamo centauri alati,
animali razionali alati, muovendo dalle immagini dell'uomo e del
cervo, dell'uomo, del cavallo e dell'uccello; con una simile
commistione possiamo ricavare infinite combinazioni da
innumerabili elementi […].258

Non a caso Calvino cita questo brano nelle Lezioni americane. Il congegno mentale
non ha come fine principale la ritenzione dei dati e dei discorsi, ma, attraverso il

257 G. Bruno, De umbris idearum, 105, 3-7, in Id., Opere mnemotecniche, Tomo I, cit., p. 149.
258 G. Bruno, De imaginum compostione, 35, 1-16, in Id., Opere mnemotecniche, Tomo II, cit., p. 539-
541. Dunque è più chiaro il contesto teorico da cui Calvino trae la citazione di Bruno nelle Lezioni
americane.

144
dinamismo di molteplici permutazioni, ambisce a concepire l'unità e la coesione
dell'infinito: «l'arte della memoria cui mira Bruno, dunque, è ben altro che un
semplice strumento pratico: si situa nel dinamismo profondo che si esplica
nell'universo, e di qui trae il suo fondamento e la sua legittimità». 259 Questo aspetto
richiama l'attenzione di Calvino, ispira le sue riflessioni sulla fantasia, le arti
combinatorie e la «molteplicità potenziale», stimola le congetture avanzate dallo
spettatore in Dall'opaco.
Tuttavia l'accordo fra le intuizioni del filosofo e la traduzione simbolica dello
scrittore non è perfetto e in questo senso la valutazione critica delle differenze
permette una definizione più esatta dei problemi in questione. Poiché la luce, in
Bruno, è consustanziale alla verità ultima, il versante aprico dei concetti gode di
un'esistenza più pura e nobile rispetto al mondo umbratile, emanazione imperfetta
trattenuta dalla mente. In Dall'opaco cambia il valore simbolico dell'opposizione fra
luce e ombra: l'opacità avvolge la materia in sé ed esiste prima di ogni attribuzione
di senso, mentre la luminosità e la chiarezza pervadono gli assiomi elaborati
dall'intelligenza. Nel De umbris idearum, inoltre, la corrispondenza fra il mondo
luminoso e quello in ombra è assicurata da un criterio analogico, mentre nello
scritto di Calvino la relazione fra i due lati dell'universo dipende da un criterio
rappresentativo. In Bruno un unico principio infinito sostiene l'universo e il lume
dei concetti impregna, seppur flebile, anche le parvenze terrestri; in Dall'opaco,
invece, la mappa geometrica è una convenzione che significa un aspetto specifico
del mondo reale e ne rappresenta l'articolazione. La scrittura menzionata
nell'ultimo paragrafo («io scrivo») non è una signatura rerum, ovvero non
compenetra la sostanza delle cose, ma istituisce un modello del mondo a partire da
un codice di segni arbitrari, una grammatica concertata da una comunità di
parlanti.260 A differenza del sistema di Giordano Bruno, dove non vi è alcuna netta
separazione fra mondo umbratile e cielo delle idee, per Calvino il diaframma fra il
mondo non scritto e il mondo scritto, per quanto possa essere instabile e non del
tutto definito, è ineliminabile.

259 M. Ciliberto, Umbra profunda, cit., p. 111.


260 Per la differenza fra rapporto analogico e rapporto rappresentativo si veda M. Foucault, Les mots
et les choses, Gallimard, Paris 1966.

145
Non si può pertanto concordare con Pierpaolo Antonello quando – in un articolo
denso di suggestioni dedicato ai paesaggi della mente di Calvino – individua una
«corrispondenza» fra la scrittura e il mondo a causa della quale «l’uomo parla come
cosa fra le cose, natura naturata, continuità della materia». Antonello, a cui va
riconosciuto il merito di aver indicato per primo la possibile influenza di Bruno nel
tessuto di Dall'opaco, rischia di attribuire allo scrittore ligure un'impostazione
epistemologica troppo vicina a quella del filosofo nolano: «in termini cognitivisti
Calvino dovrebbe essere considerato un monista, non prevedendo separazione fra
res cogitans e res extensa. Ovviamente Calvino non è interessato a una formulazione
di questo genere, ma alla risultanza poetica e narrativa di questa continuità: le
dualità cartesiane vengono sostituite con l’aprico e con l’opaco del mondo, con i
due lati delle palpebre (sottile sipario fra l’occhio-cervello e il mondo) che separano
il giardino pensile del Gran Kahn dal mondo, dove non si sa cosa sia reale e cosa sia
immaginario».261 Per quanto possa essere sottile e incerto, il sipario sussiste e
traccia la distanza fra la scrittura e il silenzio, fra i modelli di comprensione e la
materia inerte e informe. Lo scarto fra i segni e la realtà è così una nota peculiare
delle riflessioni di Calvino e dei suoi personaggi e risuona in modo particolarmente
intenso proprio nei dialoghi fra Marco Polo e l'imperatore dei tartari: nelle Città
invisibili la dialettica fra i ricordi come tracce oscure dell'esperienza e la memoria
come archivio sistematico si dispiega nell'emblema della metropoli.

5. L'archivio della memoria e l'emergenza del ricordo.

Il porto di Eufemia è gremito di navi cariche di mercanzie. I vascelli giungono con


le stive stipate di «zenzero e bambagia» e ripartono dopo aver imbarcato «pistacchi
e semi di papavero». Ma a ben vedere le mercanzie sono sempre «le stesse che

261 P. Antonello, Paesaggi della mente. Su Italo Calvino, Forum Italicum: A Journal of Italian Studies
March, 1998 n. 32: 108-131. Nel passo citato Antonello rafforza la sua tesi chiamando in causa una
considerazione di Asor Rosa: «si potrebbe arrivare a scoprire che non si sa più dove sia la realtà, –
se ci sia una realtà. Tra la pretesa realtà esterna e il nostro cervello c'è la palpebra del nostro occhio,
che s'apre e si chiude, e determina il gioco illusorio della conoscenza umana». A. Asor Rosa, Stile
Calvino, Einaudi, Torino 2001, p. 149. Antonello porta alle estreme conseguenze il disfacimento del
diaframma e giunge a negare la sussistenza di ogni dualismo. A questo proposito si vedano anche le
note dedicate ad Antonello nella prima parte.

146
ritrovi in tutti i bazar dentro e fuori l'impero […] sulle stesse stuoie gialle, all'ombra
delle stesse tende scacciamosche». Dunque un'altra ragione, induce tanti mercanti
ad approdare in città. A Eufemia, la notte, i viaggiatori si scambiano parole e
racconti: «a ogni parola che uno dice – come “lupo”, “sorella”, “tesoro nascosto”,
“battaglia”, “scabbia”, “amanti”– gli altri raccontano ognuno una storia di lupi, di
sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie». Le parole – come le merci nei
mercati – possono circolare di storia in storia. Le combinazioni sono innumerevoli
e ogni elemento, se accostato ad altri in un montaggio significante, scatena nuove
fabulazioni riscaldate dal fuoco del caravanserraglio:

E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare
sveglio al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a
ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà
diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua
battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si
scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio. (RR II,
p.385)

A Eufemia la memoria è descritta come un sistema di relazioni fra le parole, un


contenitore di immagini intercambiabili. Se si percorre la cornice delle Città
invisibili si nota che anche presso la corte dell'imperatore mongolo le forme urbane
sono la principale matrice fantastica, primo supporto della memoria. Kublai Kan
durante i resoconti del veneziano s'accorge che «le città […] s'assomigliavano, come
se il passaggio dall'una all'altra non implicasse un viaggio ma uno scambio
d'elementi. Adesso, da ogni città che Marco gli descriveva, la mente del Gran Kan
partiva per suo conto, e smontata la città pezzo per pezzo, la ricostruiva in un altro
modo, sostituendo ingredienti, spostandoli, invertendoli» (RR II, p. 391). Come per i
racconti di Eufemia ogni città è l'esito di una combinatoria: l'imperatore ipotizza
che sia sufficiente modificare la disposizione degli elementi per poter pensare città
diverse. È dunque possibile figurare una città-sistema che trattenga in sé tutte le
tipologie urbanistiche realizzabili: una città come emblema del calcolo
combinatorio. Afferma con un certo orgoglio Kublai:

147
Eppure io ho costruito nella mia mente un modello di città da cui
dedurre tutte le città possibili. Esso racchiude tutto quello che
risponde alla norma. Siccome le città che esistono s'allontanano in
vario modo dalla norma, mi basta prevedere le eccezioni alla
norma e calcolarne le combinazioni più probabili. (RR II, p. 415).

La città è dunque un archetipo che contiene affastellati al suo interno tutte le forme
possibili, tutte le relazioni fra gli oggetti e le funzioni immaginabili. 262 Eutropia è
una città costituita da molte aree urbane, tutte di uguale grandezza e disposte sul
medesimo altopiano. Una sola città, però, è abitata, le altre sono deserte. Fra le sue
mura ogni abitante svolge un lavoro, vive in una determinata via, ha un gruppo di
amici e fa parte di un nucleo famigliare ben circoscritto. Ma dopo un certo tempo
tutti traslocano in una nuova area e si scambiano i compiti e le funzioni. Dunque
ogni nuovo insediamento è la ripetizione ciclica del precedente: «la città ripete la
sua vita uguale spostandosi in su e in giù nella sua scacchiera vuota. Gli abitanti
tornano a recitare le stesse scene con attori cambiati; ridicono le stesse battute con
accenti variamente combinati; spalancano bocche alternate in uguali sbadigli». (RR
II, p. 410). La città, come la memoria, è il ricettacolo interiore dove combinare tutte
le soluzioni possibili, fino all'esaurimento.
Zirma è il luogo dove il gioco interiore fra memoria e città diviene esplicito: «la
città è ridondante: si ripete perché qualcosa arrivi a fissarsi nella mente». La
relazione è transitiva: «la memoria è ridondante: ripete i segni perché la città
cominci a esistere». (RR II, p. 371). Nel passaggio da una sentenza all'altra s'intuisce
come la memoria e la città coincidano, come se la seconda fosse la forma simbolica
della prima. Nella mente del sovrano «l'impero si rifletteva in un deserto di dati
labili e intercambiabili come grani di sabbia da cui emergevano per ogni città e
provincia le figure evocate dai logogrifi del veneziano». Kublai ipotizza allora che
l'impero «non è altro che uno zodiaco di fantasmi della mente». (RR II, p. 374).
Come nei trattati di Giordano Bruno la memoria è una tecnica di conoscenza
262 «Nelle Città invisibili la fantasia calviniana muove invece dall'uno al molteplice, s'affissa su un
simbolo-chiave (il simbolo città) per poi aggregare intorno ad esso un gran numero di esperienze
riflessioni congetture». C. Milanini, L'utopia pulviscolare, cit., p. 142.

148
cosmica: una memoria-archivio dove l'esperienza vissuta sembra non avere alcun
peso.
Ma è proprio vero che non si dà esperienza? Da dove vengono i materiali che
costituiscono la matrice di ogni deduzione? Al sorgere dell'alba sui cieli d'oriente
Marco arresta la sua voce, stanco ormai di raccontare: «sire, ormai ti ho parlato di
tutte le città che conosco». Ma il Kan gli ricorda che «ne resta ancora una», e
questa è Venezia, città originaria. «Ogni volta che descrivo una città – sostiene il
mercante – dico qualcosa di Venezia» perché «per distinguere le qualità delle altre,
devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia». (RR II, p.
432). Forse al principio di tutto è ancora possibile ritrovare i resti del vissuto, anche
se le ultime parole di Polo adombrano una certa disillusa nostalgia: «Venezia ho
paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho
già perduta a poco a poco». (RR II, p. 432). Dalla confessione di Marco traspare il
timore che l'esplorazione sistematica dell'archivio comporti l'oblio dell'esperienza
carica di affetti.
La tensione fra l'ambizione cosmica della mnemotecnica e la dimenticanza del
vissuto è esperita dal viandante che giunge a Zora, una città «che chi l'ha vista una
volta non può più dimenticare. Zora ha la proprietà di restare nella memoria punto
per punto, nella successione delle vie, e delle case lungo le vie, e delle porte e delle
finestre nelle case». Zora è la struttura stessa della memoria come tecnica di
contenimento e organizzazione delle informazioni: «questa città che non si cancella
dalla mente è come un'armatura o reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le
cose che vuole ricordare: nomi di uomini illustri, virtù, numeri, classificazioni
vegetali e minerali, date di battaglie, costellazioni, parti del discorso». (RR II, p.
369). Dietro la possibilità di esaustione offerta dalla mnemotecnica si cela il vuoto
dell'oblio: «obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio
ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La Terra l'ha dimenticata». Il delirio
del controllo e il terrore dell'oblio abitano le preoccupazioni più recondite
dell'imperatore. Il Kan chiede a Marco se «il giorno in cui conoscerò tutti gli
emblemi riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?». Risponde il veneziano
che quel giorno il condottiero non sarà che «emblema fra gli emblemi». (RR II, p.

149
374). Calvino pondera ancora la tensione fra il desiderio di esaurire l'intero novero
delle occorrenze e il rischio di smarrirsi nel vuoto della cancellazione. La scacchiera
di Kublai, tuttavia, insegna che fra la totalità e il nulla del legno piallato può
emergere ancora una singolarità inattesa.
Di Zaira, afferma Marco Polo, non basta la descrizione: la città non può essere
ridotta al catalogo dei suoi oggetti. Zaira è composta da «relazioni tra le misure del
suo spazio e gli avvenimenti del suo passato». Tali avvenimenti sussistono ancora
come tracce da leggere nel corpo dell'abitato:

la città non dice il suo passato, lo contiene come come le linee di


una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle
finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei
parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua
volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole. (RR II, p. 365).

I ricordi sono come intagli nella scacchiera, devono essere percorsi dallo sguardo
per prendere vita. Qual è, allora, il rapporto fra gli indizi inscritti fra le vie e l'ordine
del sistema? Forse le singolarità materiali compromettono la tenuta dello schema
mnemonico? Esiste nelle Città invisibili un equilibrio più complesso: le singolarità
possono emergere solo attraverso le maglie di una struttura reticolare perché ogni
infrazione è discernibile grazie al contrasto con un'impalcatura di fondo. 263 Subito
dopo, nel momento in cui una smagliatura accede alla coscienza, un nuovo ordine
di senso, più articolato e comprensivo, comincia a prendere forma. A Zaira l'occhio
percorre l'esile tessuto delle reti da pesca rammendate da tre pescatori che «si
raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera dell'usurpatore, che si
dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo»: le
loro voci annodano gli eventi singolari ed elaborano la configurazione degli oggetti

263 Il concetto è ribadito da Calvino ne Il ricordo è bendato, testo scritto per il catalogo del pittore
Leonardo Cremonini. Non esiste la possibilità del ricordo senza una struttura solida: «la mia
memoria deve subito essere dunque fissata a impalcature, a sostegni». Ed è vano sperare di
trascendere l'impalcatura: «è inutile che cerchi di risalire nella memoria sperando di ritrovare un
momento in cui il ricordo mi si presenti in piena vista, senza cornici, né quinte, né schemi. […]
Insomma, se è dalla gabbia d'un reticolo geometrico che devo estrarre il ricordo, non c'è ragione che
vada a cercarne gli antecedenti in un prima o in un fuori che sarà ugualmente ingabbiato». (RR III,
pp. 432-433).

150
e dei loro rapporti (RR II, 365). La fabulazione integra l'infrazione dello schema in
una nuova configurazione: emerge così alla percezione un'immagine cristallizzata
in forma di scrittura. Finché un altro graffio, intaglio imprevisto, non costringa a
riprendere da capo la tessitura ordinatrice del disordine. I mediatori di questo
processo sono il paesaggio ligure e la città: matrici di immagini o archetipi
attraverso cui baluginano i frammenti di senso che provengono dal versante opaco
del silenzio. Così fra gli interstizi della memoria sistematica affiorano le tracce
intermittenti dei ricordi: i resti dell'infanzia

6. Il rovello fra storia e natura.

Che cosa significa per Calvino, il suo paesaggio? Esso è sia la matrice figurale di
uno schema mentale, sia la traccia di un'esperienza primaria. Da questa ambiguità
del paesaggio – locus della tecnica memoriale e al contempo naturale rimanenza
affettiva – s'origina il percorso critico seguito sin qui. Poco tempo prima di morire
Calvino concede un'intervista a Maria Corti. Una domanda sugli «ambienti naturali
e culturali» conosciuti dallo scrittore richiama le relazioni che legano il paesaggio
d'infanzia alla fantasia e alla scrittura:

Come ambiente naturale quello che non si può respingere o


nascondere è il paesaggio natale e familiare; San Remo continua a
saltar fuori nei miei libri; nei più vari scorci e prospettive,
soprattutto vista dall'alto, ed è soprattutto presente in molte delle
Città invisibili. Naturalmente parlo di San Remo qual'era fino a
trenta o trentacinque anni fa, e soprattutto di com'era cinquanta e
sessant'anni fa, quando ero bambino. Ogni indagine non può che
partire da quel nucleo da cui si sviluppano l'immaginazione, la
psicologia, il linguaggio; questa persistenza in me è forte quanto
era stata forte in gioventù la spinta centripeta la quale presto si
rivelò senza ritorno, perché rapidamente i luoghi hanno cessato di
esistere. (S, p. 2926).

151
Il paesaggio natale rimanda a un rapporto intimo con la natura, un'origine che
«salta fuori» ancora nei processi immaginativi, sebbene i luoghi famigliari si siano
disfatti nel tempo e il distacco sia ormai irreversibile. Un senso di armonica
corrispondenza fra il bambino e la natura appare spesso nei primi racconti di
Calvino. In Ultimo viene il corvo il protagonista di Un pomeriggio, Adamo, il
giardiniere Libereso, è un giovane così in sintonia con l'ambiente da giocare con i
rospi, raccogliere le cetonie e acchiappare in velocità un ramarro 264; in Un
bastimento carico di granchi compare una banda di bambini-granchio che saltano
nudi da uno scoglio all'altro e guerreggiano contro un gruppo di bambini-pesce che
«passavano in acqua le giornate»265; Costanzina in Uomo nei gerbidi è una fanciulla
dalle sembianze vegetali perché ha «la faccia a forma di oliva, gli occhi, la bocca, le
narici a forma di oliva […]. Anche i seni a oliva doveva avere, tutta d'uno stile […]
selvatica come una capra».266 E Pin del Sentiero è l'unico a orientarsi davvero in
campagna, tanto da conoscere la strada che porta al posto speciale dove i ragni
fanno il loro nido. Prima di diventare adulti, prima di scrivere e di contemplare il
paesaggio come emblema inscritto nella memoria, gli uomini sono immersi
nell'avventura, confusi nel mondo naturale delle origini.
Calvino riconosce nella Prefazione scritta nel 1964 al Sentiero che «la Resistenza
rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il romanzo che altrimenti mai sarei
riuscito a scrivere, è qui».267 I partigiani sono integrati nell'ambiente, sono una
continuazione del mondo naturale. In un'intervista concessa a Camon nel 1973
Calvino ricorda le sue esperienze di guerra e si sofferma sulla «simbiosi partigiano-
rododendro»: i combattenti dovevano stare accosti alle piante, dovevano
sprofondare nel cuore della terra per trovare protezione dal fuoco tedesco. Lo
scrittore si sofferma su «un certo rapporto con l'ambiente vegetale, i cespugli,
l'attesa della crescita dei cespugli in primavera come condizione di sopravvivenza
per il partigiano, per la sua possibilità di fare azioni in terreno aperto» e ricorda
come con la primavera tutti attendessero la crescita degli arbusti, «custi si

264 I. Calvino, Romanzi e racconti, RR I, pp. 151-161. Il riferimento ad Adamo, nel titolo, richiama
non a caso il valore simbolico che assume il giardino d'infanzia a San Remo.
265 Ibidem, p. 165.
266 Ibidem, p. 189.
267 I. Calvino, Prefazione 1964, RR I, p. 1188.

152
chiamano nel mio dialetto, la fitta coltre verde che avrebbe coperto le vallate
rendendoci invisibili». (S, p. 2778). Il tentativo di nascondersi nella «coltre verde»
del paesaggio ricorda quella discesa a fondo del distaccamento nel Ricordo e
richiama di nuovo la disposizione sensoriale dei protagonisti del Sentiero: i
partigiani restano al buio, non vedono e si augurano di non essere visti, tastano il
bosco e ascoltano ogni rumore, diventano un'estensione delle Prealpi liguri. 268 Il
paesaggio delle narrazioni resistenziali è un groppo opaco di materia a stretto
contatto con i corpi dei protagonisti, una vicinanza così immediata che quasi
scompare la differenza fra il sé e il mondo fuori di sé.
Il destino degli uomini di natura, tuttavia, pare minacciato dal progresso storico
contemporaneo. Già prima della guerra era iniziata la disgregazione del tratto
costiero: «io ero della Riviera di Ponente; dal paesaggio della mia città – San Remo
– cancellavo polemicamente tutto il litorale turistico – lungomare con palmizi,
casinò, alberghi, ville – quasi vergognandomene». (RR I, p. 68). Dalle propaggini
della costa avanza la speculazione che nel corso dei decenni lambisce i primi colli e
minaccia l'integrità della campagna. Sin dalle prime pagine de La strada di San
Giovanni risuona un senso di perdita. La riviera di Ponente, così com'era negli anni
fra le due guerre, non esiste più, lo sviluppo economico ha trasformato il suo volto:
tratti di campagna sono svaniti e «ora […] al posto di tutto questo si estende
squallida geometrica e feroce una piantagione di garofani con i muri squadrati»
(RIII, p. 24).
L'avanzata del progresso aggredisce la riviera ligure modificando le frontiere
disegnate dalla topografia affettiva de La strada di San Giovanni: «una spiegazione
generale del mondo e della storia deve innanzitutto tenere conto di com'era situata
casa nostra, nella regione un tempo detta “punta di Francia”, a mezza costa sotto la
collina di San Pietro, come a frontiera fra due continenti. In giù […] cominciava la
città […]; in su […] subito si era in campagna» (RR III, p. 7). Il «giù» è il mondo

268 È opportuno aggiungere in nota ancora uno spunto tratto dal Sentiero per documentare meglio
la dimensione sensoriale e la fusione fra uomo e natura: «Per terra, sotto gli alberi del bosco, ci sono
prati ispidi di ricci e stagni secchi pieni di foglie dure. A sera lame di nebbia si infiltrano tra i tronchi
dei castagni e ne ammuffiscono i dorsi con le barbe rossicce dei muschi e i disegni celesti dei licheni.
[…] Ogni sera gli uomini si acculano intorno alle pietre del focolare acceso al coperto perché non lo
vedano i nemici, e s'accavallano gli uni sopra gli altri, con Pin in mezzo illuminato dai riverberi che
canta a gola spiegata come nell'osteria del vicolo» (RR I, p. 68).

153
della storia dove le biglietterie dei cinema attendono gli spettatori e le navi
attraccano e poi ripartono, dove si distende una civiltà ricca di segni da decifrare e
colma di locandine ammiccanti: fascinose attrazioni per un bambino che aspira a
divenire «cittadino delle città e della storia». Il «su», invece, è l'universo naturale
prediletto dal padre, regno dove le strade sono tortuose e acciottolate. Sul fondo
incidentato dei sentieri, fra gli ombrosi recessi dei boschi prealpini camminano gli
uomini di natura, i partigiani-rododendro, il padre amante della campagna. Ma
l'avanzata del progresso – responsabile di speculazioni, geometrie e uniformità
estensiva delle colture – si muove dal basso verso l'alto: è la storia nella sua
espansione progressiva a minacciare la tradizionale armonia che lega l'uomo alla
natura.
La tradizione filosofica e letteraria che nel corso di tre secoli ha ragionato sul
dissidio fra la natura e la civiltà, fra l'infanzia e l'età adulta, è ben presente a
Calvino. Fra le pagine dello Zibaldone ricorre il nesso fra la corruzione del felice
stato primitivo269 e l'instaurarsi della società civile: «l'esser l'uomo buono per
natura, e guastarsi necessariamente nella società, può servir a prova a questo
sistema, e il veder che le bestie non hanno tra loro altra società che per certi
bisogni, del resto vivono insieme senza pensar una all'altra, e che l'istinto si vien
perdendo a proporzione che la natura è alterata dall'arte onde è grande nelle bestie
e nei fanciulli, piccolo negli uomini fatti» (Zib., 56). Nel medesimo frammento
Leopardi cita270 il Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les
hommes di Rousseau, riferimento fondamentale insieme al Discours sur le sciences et
les arts per comprendere questa frattura. Il disgraziato allontanamento dallo stato di
natura risuona in tutto il primo Discours: «on ne peut réfléchir sur le mœurs, qu'on
ne se plaise à se rappeler l'image de la simplicité des premières temps. C'est un beau
rivage, paré de seules mains de la nature, vers lequel on tourne incessamment les

269 Per una narrazione mitografica del decadimento umano si veda la Storia del genere umano in G.
Leopardi, Operette morali, edizione a cura di G. Ficara, Mondadori, Milano 1988, pp. 35-50.
270 Scrive Leopardi: «tout homme qui pense est un être corrompu, dice il Rousseau, e noi siamo già
tali» G. Leopardi, Zibaldone, 56-57. E così Rousseau: «l'homme qui médite est un animal dépravé» J.
J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, in Id., Oeuvres
philosophiques et politiques: de l’Émile aux derniers écrits politiques, 1762-1772, présentation, notes et
dictionnaire politique et philosophique de Rousseau par Michel Launay Seuil, Paris 1971, p. 216.

154
yeux, et dont on se sent éloigner à regret». 271 Le «lumières funestes de l'homme
civil» hanno soffocato una felicità «non consistente in altro che in uno stato di
natura» (Zib., 2251) risalente al tempo in cui l'uomo non si riuniva in «società
strette» e vagava solitario per boschi e foreste: «concluons qu'errant dans les forets,
sans industrie, sans parole, sans domicile, sans guerre et sans liaisons, sans nul
besoin de ses semblables comme sans nul désir de leur nuire, peut-être même sans
jamais en reconnaître aucun individuellement, l'homme sauvage, sujet à peu de
passions, et se suffisant à lui-même, n'avait que les sentiments et les lumières
propres a cet état».272 È una condizione condivisa dalla figura paterna ne La strada
di San Giovanni: «ogni selvaggina ed ogni pista era buona pur di fare chilometri a
piedi fuori dalle strade, battendo vallata per vallata la montagna giorni e notti, […]
senza mai uscire dal bosco, aprendosi la strada, quella strada segreta che lui solo
sapeva e che passava attraverso tutti i boschi, che univa ogni bosco in un bosco
solo, ogni bosco del mondo in un bosco al di là di tutti i boschi» (RR III, pp. 10-11).
Egli, all'avvicinarsi di San Giovanni, «già non era più l'uomo dei campi ma l'uomo
dei boschi, il cacciatore, perché questa era la sua passione […] in questo bosco
selvatico, nell'universo non antropomorfo, in faccia al quale (e soltanto lì) l'uomo

271 J. J. Rousseau, Discours sur le sciences et les arts, in Id., Oeuvres philosophiques et politiques: de
l’Émile aux derniers écrits politiques, 1762-1772, présentation, notes et dictionnaire politique et
philosophique de Rousseau par Michel Launay Seuil, Paris 1971, p. 61. Ma cosa comporta la
nostalgia di Rousseau ? Riferendosi direttamente all'uomo il ginevrino scrive: «mécontent de ton
état présent par des raisons qui annoncent à ta postérité malheureuse de plus grands
mécontentements encore, peut-être voudrais-tu pouvoir rétrograder; et ce sentiment doit faire
l'éloge de tes premiers aïeux, la critique de tes contemporains, et l'effroi de ceux qui auront le
malheur de vivre après toi». J. J. Rousseau, Discours sur l'inégalité, cit., p. 212. Leopardi, invece, in
alcuni frammenti pare assumere una posizione più complessa: «Non è dubbio che l'uomo civile è più
vicino alla natura che l'uomo selvaggio e sociale. Che vuol dire questo? La società è corruzione. In
processo di tempo e di circostanze e di lumi l'uomo cerca di ravvicinarsi a quella natura onde s'è
allontanato, e certo non per altra forza e via che della società. Quindi la civiltà è un ravvicinamento
alla natura». Se lo stato primitivo – autenticamente naturale – è smarrito in modo irrimediabile,
all'uomo non resta che riavvicinarsi alla natura attraverso la civiltà. (Si veda anche Ficara in Il punto
di vista della natura, il melangolo, Genova 1996). Certo, anche la posizione di Rousseau è più
articolata di quanto di solito non si affermi, in particolare in relazione alla non coincidenza –
espressa anche da Leopardi nel passo citato – fra uomo selvaggio e uomo di natura. Per la
concezione dei selvaggi nel pensiero della prima modernità è fondamentale il lavoro da poco
ristampato di S. Landucci (I filosofi e i selvaggi, Einaudi, Torino 2014), con particolare riferimento al
quinto capitolo: “La natura e la cultura”, dove il filosofo dedica importanti pagine a Rousseau. Il
tema del selvaggio e della natura selvaggia è di capitale importanza per una comprensione delle
forme del paesaggio nate oltreoceano nel XIX secolo. Altrettanto fondamentale capire – e lo si sta
facendo in queste pagine – come Calvino recepisca la nostalgia della condizione selvaggia.
272 J. J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, in Id.,
Oeuvres philosophiques et politiques: de l’Émile aux derniers écrits politiques, 1762-1772, cit., p. 226.

155
era uomo» (RR III, p. 10). I movimenti inesausti dell'uomo dei boschi ritornano
anche in Dall'opaco: «il cacciatore che risale la mulattiera nel gerbido, s'addentra
nel bosco, scavalca il dosso del monte, costeggia una conca al riparo, fa rotolare le
pietre nei cespugli sperando d'alzare un volo di starne, corre giù per i prati» (RR III,
p. 100).
Tuttavia per Calvino la condizione moderna è «senza ritorno» e pertanto non si dà
alcuna possibilità di regressione allo stato naturale, o all'infanzia. 273 L'io che scrive –
il narratore de La strada di San Giovanni, il prefatore del 1964 a Il sentiero dei nidi di
ragno – può figurare il paesaggio solo «dall'alto degli anni», ovvero dal momento in
cui la natura è ormai un ricordo del passato. Finché vige l'armonia con l'ambiente
l'uomo non ha bisogno di contemplare la natura: per la comunità di Ombrosa degli
anni felici «questo era l'universo di linfa entro il quale noi vivevamo […] senza
quasi accorgercene» (R I, p. 578) La distanza storica è invece necessaria affinché la
coscienza individuale abbia piena contezza della natura perduta, come testimoniano
le vicende di El Conde ne Il barone rampante. Il nobile spagnolo esiliato dal re e
costretto a vivere sugli alberi prova nostalgia per la terra natale e scruta l'orizzonte
alla ricerca di un paesaggio: «questo gesto di scostare il ramo come aspettandosi di
veder apparire un'altra terra, quest'inoltrare pian piano lo sguardo nella distesa
ondulata come sperando di non incontrare mai l'orizzonte, di riuscire a scorgere un
paese ahi quanto lontano, era il primo segno vero d'esilio che Cosimo vedeva» (R I,
p. 683). Anche il narratore Biagio si sente esiliato dal suo paesaggio originario e
così, alla fine delle sue memorie, s'allontana per un attimo dai suoi fogli e si affaccia
alla finestra: «il cielo è vuoto, e a noi vecchi d'Ombrosa, abituati a vivere sotto
quelle verdi cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi non hanno
retto, dopo che mio fratello se n'è andato, o che gli uomini sono stati presi dalla
furia della scure. […] Ombrosa non c'è più» (RR I, p. 776). 274 Il paesaggio – la verde

273 Ammette Calvino in Perché leggere i classici: «tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa
mi sta a cuore, ma tutto m'ispira un'incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con
lui. C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non avrei da
leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei autori. Dirò dunque: Il «tuo»
classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari
in contrasto con lui» (S, p. 1821).
274 La scrittura è espressione del distacco, i segni sono intrisi di storia come già la visione di San
Remo testimoniava durante l'infanzia: il rapporto con le parole riguarda il versante della città. Per
una riflessione sull'armonia e l'accordo con il mondo, la sua perdita e il conseguente riflesso sulle

156
distesa d'alberi che era laggiù – esiste solo nell'archivio della memoria, è
un'immagine che emerge alla coscienza a distanza di tempo, una ferita tracciata sul
territorio dall'avanzare della modernità. 275
Se non si dà ritorno dell'infanzia, la natura è definitivamente perduta e il dissidio
insanabile. Eppure la contemplazione dell'immagine in forma di paesaggio non si
riduce alla sola nostlagia.276 Scrive Calvino nell'Almanacco Letterario Bompiani 1959
alla voce “Natura”: «Sono disperato? Io? Non ci penso nemmeno. Siccome non
poteva andare che così, ogni malinconia è fuor di luogo». Con acuta intelligenza lo
scrittore non si accontenta del rimpianto:

A ben pensarci, quand'è cominciata, la natura, per noi? Saranno


nemmeno un paio di secoli che le si sta dietro. Il gusto della
natura degli antichi era un'altra cosa: la cultura classica vedeva
nella natura uno specchio dell'uomo o uno strumento degli dèi; la
cultura medievale un'allegoria divina, un dizionario di significati
spirituali. È dal Settecento che si muove questo senso e bisogno
d'un mondo pre-umano e autonomo, materiato d'altre bellezze e
altre ragioni che le nostre. Prima i pochi, e poi – pian piano – i
molti ebbero il tempo e l'agio di saziarsi di selve ed alpi e flutti.
Adesso il gioco è fatto. Basta far rientrare tutto nella storia dello
spirito e quel che s'è avuto s'è avuto; a che giova ripeterci?
Troveremo altre vie, altri confronti. (S, p. 2685)

Il tono va colto nella sua nota ironica. Se la natura fosse solo un'invenzione, un
semantiche delle lingue europee si veda: L. Spitzer, L'armonia del mondo. Storia semantica di un'idea,
Il Mulino, Bologna 1967.
275 Secondo questo paradigma Cosimo, uomo dei boschi, non dovrebbe contemplare il paesaggio,
poiché è l'unico ad aver trovato il modo di tornare alla natura. Invero il rapporto di Cosimo con il
mondo naturale è più articolato. Afferma Biagio che «per quante doti egli assorbisse dalla
comunanza con le piante e dalla lotta con gli animali, sempre mi fu chiaro che il suo posto era di
qua, era dalla parte nostra» (RR I, p. 628). Quello di Cosimo è il medesimo atteggiamento assunto dal
padre: rispettare la natura, capirla, e al contempo governarla; restare immersi in essa senza mai
dimenticare di essere uomini, animali razionali. La complessa figura del protagonista lascia
intendere come Calvino non si lasci irretire dalla nostalgia e dai sogni di una felice e passata
condizione naturale, ma ricerchi sempre di attivare un movimento dialettico.
276 Così Milanini nell'introduzione al terzo volume dei Romanzi e racconti: «Calvino rifiuta ogni
mito agreste, rifugge da atteggiamenti nostalgici, valuta come un fattore di progresso la
moltiplicazione e l'intensificazione dei rapporti interpersonali che ha luogo in questa nostra difficile
epoca». C. Milanini, Introduzione, RR III, p. XXV.

157
trucco prospettico senza referente, che ne sarebbe dei partigiani disorientati fra pini
e ricci di castagno, e di Cosimo, e del «rosario di immagini» di San Giovanni?
Sarebbero vane illusioni, fantasmi della scrittura. Eppure le rare e vivide immagini
che traspaiono dai racconti ambientati nel paesaggio ligure e dalle pagine
autobiografiche non consentono di prediligere la soluzione scettica. Permane così
una contraddizione fra l'inesorabile incedere della storia e la persistenza della
natura come immagine fugace del passato, ricordo tratto dall'opaco, possibilità
intravista da una certa distanza. Ancora una volta il commento non può
cristallizzarsi in una definizione, ma deve seguire le movenze e i salti che
increspano il tessuto della pagina e cogliere i movimenti indotti da tale tensione.
Ne La strada di San Giovanni si sperimenta la mossa forse più radicale: nulla è più
recuperabile perché nulla è stato davvero smarrito. Già durante l'infanzia il
protagonista s'era distaccato dal padre e dal suo mondo naturale:

credevo mettendomi a descrivere le ceste di toccare il punto


culminante del mio rimpianto, invece niente, ne è uscito un
elenco freddo e imprevisto: invano cerco di accendergli dietro un
alone di commozione con queste frasi di commento: tutto rimane
come allora, quelle ceste erano già morte allora e lo sapevo,
parvenza di una concretezza che non esisteva già più, e io ero già
quello che sono, un cittadino delle città e della storia […] un
consumatore […] è già le sorti, tutte le sorti erano decise, le nostre
e quelle generali, però cos'era questo rovello mattutino di allora, il
rovello che ancora continua in queste pagine non completamente
sincere? (RR III, p. 23)

Nonostante la letteratura sia insincera e nonostante la morte della natura sia


sancita già al tempo dell'infanzia, permane ancora qualcosa, un resto d'energia che
corre dal passato e raggiunge il presente: è il rovello, «questo rovello di allora ». Il
dissidio irrisolto fra la storia e la natura è un ponte gettato sul divario temporale
che separa le due epoche: fin dall'infanzia l'epoca moderna si presenta
all'esperienza individuale come tempo della crisi. Il «rosario di immagini» non è

158
dunque una compensazione, ma una sequenza problematica di apparizioni adagiata
lungo la linea della storia: «la marcia mattutina verso San Giovanni continua
ancora, con il suo dissidio». (RR III, p. 13).
Anche La speculazione edilizia dà forma narrativa allo stesso dissidio. Quinto, il
protagonista, è un intellettuale progressista che da anni vive lontano dalla Liguria,
sua terra natale. Nel giro di pochi decenni la Riviera è invasa da «un sovrapporsi
geometrico di parallelepipedi e poliedri, spigoli e lati di case, di qua e di là, tetti,
finestre, muri ciechi per servitù contigue con solo i finestrini smerigliati dei
gabinetti uno sopra l'altro». Eppure Quinto ritiene «inutili le lamentele contro il
moto della storia» perché «egli era uomo storicista, rifiutante malinconie». 277 Per
questo decide di vivere appieno l'incalzare della storia e convince sua madre a
costruire un nuovo fabbricato nel vasto cortile di fronte alla villa della famiglia. Nel
corso del romanzo Quinto è costretto a fare i conti con la sua «falsa coscienza» ed
esperisce infine il dissidio fra la volontà progressiva e il raro affiorare di un «bel
ricordo, pieno di nostalgia» (RR I, p. 800). La speculazione edilizia è il racconto di
uno spregiudicato esperimento mentale che trascina nella sconfitta un protagonista
incapace di gestire l'impresa cui ha aderito. 278 Dopo essersi scagliato «contro il
parere di tutti i benpensanti» Quinto comprende come il suo progetto, il «termine
di un'antitesi, che facesse parte d'un processo in movimento», ha preso la desolante
forma d'un mondo di cemento senza salvazione: domina il «tutto uniforme e
grigio» delle palazzine. Nell'agnizione finale la speculazione è intesa come parte di
una realtà «che bisognava negare o accettare. E lui Quinto non voleva accettarla!»
(RR I, p. 887). Il romanzo è intriso della stessa ironia della nota alla “Natura”
nell'Almanacco Bompiani: la fede incondizionata nella storia non dischiude infine
alcun processo dialettico e lascia trapelare il «sospetto d'aver sbagliato strada» (S,
p. 2685). L'autentico dissidio permane nell'aspro contrasto fra il progresso della
storia e la natura offesa.

277 I. Calvino, La speculazione edilizia, RR I, pp. 782-783.


278 Così l'autore in un'intervista del 1959 pubblicata su “Il Giorno”: «per dare il senso di come il
nostro tempo si muove e avere una coscienza completa di ogni processo degenerativo, sento il
bisogno di un atteggiamento che definirei “mimesi attiva della negatività”: cioè trasportarci
violentemente dalla parte d'ogni fenomeno, ogni modo di pensare che giudichiamo negativo, entrare
nella sua logica interna portandola alle ultime conseguenze, vivere insomma la negatività al “grado
eroico”». I. Calvino, Sono nato in America, cit., p. 44.

159
Forse La giornata di uno scrutatore è il romanzo che affronta il rovello fra la storia e
la natura nel modo più complesso e tormentato. Amerigo Ormea, comunista, è
inviato dal partito a svolgere il ruolo di scrutatore nelle sezioni elettorali del
Cottolengo. Là il partito di governo organizza le votazioni dei malati e dei deformi,
spesso senza tener conto della loro volontà o della effettiva capacità di intendere.
L'intellettuale di formazione storicista è costretto così a ponderare il senso della
storia alla luce terribile della negatività naturale. Come agire se «dal fondo di
questa condizione, la politica, il progresso, la storia, forse non erano nemmeno
concepibili»? Hanno forse ragione coloro che amministrano il mondo non in nome
dell'uomo, ma di Dio? «Quest'accolta di gente menomata non poteva essere
chiamata in causa, nella politica, che per testimoniare contro l'ambizione delle forze
umane. Questo voleva dire il prete: qui ogni forma del fare […] si modellava sulla
preghiera, ogni opera che si compiva qui […] aveva solo il significato di variante
dell'unica attitudine possibile: la preghiera, ossia il farsi parte di Dio, ossia […]
l'accettare la pochezza umana». E se questo è vero, «progresso, libertà, giustizia
erano soltanto idee dei sani» (RR II, pp. 40-41). Oppure no, al contrario «tutto è
storia, il “Cottolengo”, queste monache che vanno a cambiare le lenzuola. (Storia
magari rimasta ferma in un punto del suo corso, incagliata, stravolta contro se
stessa)» (RR II, pp. 41-42). La scrittura pare muoversi seguendo il ritmo tortuoso del
pensiero, e solo accogliendo questa inquietudine è possibile percepire il lascito
denso di senso del racconto. Amerigo guarda dalla finestra: giù nel cortile si erge
un dirigente del partito della maggioranza, giunto al Cottolengo per contemplare il
lento e infallibile ingranaggio della macchina elettorale. Ma da un altro davanzale
appare «una testa che non riusciva a sporgere più su del suo naso, una grossa
scatola cranica coperta di peluria: un nano» (RR II, p. 46). Il nano fissa l'onorevole,
batte contro il vetro per attirare la sua attenzione, ma l'uomo non risponde ai
richiami. «Amerigo pensò: “Si è accorto che è uno che non può votare”. E pensò:
“Non lo vede nemmeno, non lo degna d'uno sguardo”. E pensò anche: “Ecco, io e
l'onorevole siamo da una parte, e il nano dall'altra”». Ma il nano, la natura senza
ragione, batte ancora e «i suoi occhi erano solo occhi, senza pensiero dietro». La
natura vuole comunicare con l'umano dal «suo mondo senza parole» e Amerigo è

160
riafferrato dal «senso della vanità della storia umana» perché «il regno del nano
soverchiava il regno dell'onorevole, e Amerigo adesso si sentiva dalla parte del
nano». Amerigo abbraccia la storia, poi accoglie le obiezioni della natura; in seguito
il lavorio del pensiero non s'arresta e confluisce in una terza possibilità dialettica:
«il negare valore ai poteri umani implica l'accettazione (ossia la scelta) del potere
peggiore: il regno del nano, dimostrata la sua superiorità sul regno dell'onorevole,
lo annetteva, lo faceva proprio. Ecco che il nano e l'onorevole confermavano
d'essere dalla stessa parte, e Amerigo adesso non poteva starci, era fuori...» (RR II,
p. 47). Rimane la debolezza tenace d'una ragione che valuta e compara il senso della
storia umana, della salvazione, della natura: il dubbio è accompagnato dalla
coscienza d'un rovello permanente. 279 Nella variazione dei punti di vista e nella
ponderazione del loro valore entro lo spazio del linguaggio persiste la ricerca di una
distanza critica che medi l'esperienza percettiva. Amerigo si dice «comunista»
perché «si vedeva – un po' ironicamente e un po' sul serio – nella parte d'un ultimo
anonimo erede del razionalismo settecentesco» (RR II, p. 9).
L'eventualità di una alternativa, se esiste, sorge dunque nel dissidio interno allo
sviluppo storico. Marcovaldo è disperso nella metropoli industriale fra «fila di
macchine parcheggiate», smarrito nell'«ingorgo ai crocevia» e fra il «flusso di
folla». Eppure «lo sguardo di Marcovaldo scrutava intorno cercando l'affiorare
d'una città diversa, una città di cortecce e squame e grumi e nervature sotto la città
di vernice e catrame e vetro e intonaco». Ed ecco emergere «la staccionata d'un
cantiere d'assi di pino ancora fresco con nodi che parevano gemme; sull'insegna del
grande negozio di tessuti riposava una schiera di farfalline di tarme,
addormentate».280 Ma sono solo attimi intermittenti e poco dopo «agli occhi di
Marcovaldo, accecato e stordito, la città di tutti i giorni aveva ripreso il posto di
un'altra intravista solo per un momento, o forse solamente sognata». Il baluginare
dell'immagine si libera negli anfratti del presente oppure emerge dai ricordi
dell'infanzia e dell'adolescenza partigiana: sono infrazioni che disconnettono
l'omogeneo scorrere rettilineo della storia prima di essere ricompresi in un nuovo
279 Asor Rosa descrive bene «la serie, fittissima e interminabile, di contraddizioni» ne La giornata
di uno scrutatore. Tuttavia il procedimento per opposizioni e negazioni non pare «dialettico» come
vorrebbe il critico. A. Asor Rosa, Stile Calvino, cit., p. 32.
280 I. Calvino, Marcovaldo ovvero le stagioni in città, R I, p. 1160.

161
ordine. Non sono interruzioni del corso progressivo, né regressioni all'indietro, ma
segnali di speranza che prendono forma poco dopo la loro apparizione: cenni
sospesi inducono a credere che sia possibile deviare il corso della storia in altra
direzione. Ogni discontinuità intravista da una certa distanza, da Marcovaldo alle
Città invisibili, è un esercizio del ricordo e dello sguardo che scaturisce da
«attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa in
mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio» (RR II, p. 498). O,
meglio ancora: «anche l'ultima città dell'imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò
lo scrutatore, l'ora, l'attimo, in cui in ogni città c'è la Città» (RR II, p. 78).

7. La prospettiva della storia.

Dopo la rievocazione della morte d'un compagno il narratore del Ricordo di una
battaglia ritiene conclusa la sua anamnesi e avanza un ultimo bilancio: «tutto
quello che ho scritto fin qui mi serve a capire che di quella mattina non ricordo più
quasi niente, e ancora più pagine mi resterebbe da scrivere per dire la sera, la notte.
La notte del morto del paese vicino […] la notte di me che cerco nella montagna i
compagni […]. La distanza che separa quella notte di allora da questa notte in cui
scrivo» (RR III, pp. 57-58). E su questa inesorabile distanza s'arresta la scrittura.
Nella conclusione del Ricordo di una battaglia s'intravede il punto d'incontro dei
due sentieri d'indagine seguiti finora: il senso della storia, il lavorio della memoria.
Ancora nell'aprile 1985 Calvino scrive su La Repubblica una riflessione sui tempi di
guerra, Tante storie che abbiamo dimenticato. Domina ancora la distanza temporale:
«era una primavera piuttosto fredda. Solo il ricordo del clima ci può avvicinare
questo aprile a quello di cui ora si celebra il quarantennio. Tutto il resto è talmente
diverso da risultare impensabile; […]. quello che ci è difficile fare è collegare quei
giorni del passato col nostro presente d'adesso». 281 La dimenticanza e le variazioni
imposte dal progredire della storia rendono opaco il passato «nonostante la
continuità ininterrotta che ci lega a quella data di quarant'anni fa, un'onda lunga
della storia della quale facciamo tutti parte». (S, p. 2912). Ogni ricordo evoca uno

281 I. Calvino, Tante storie che abbiamo dimenticato, S, p. 2912.

162
snodo temporale disposto sul piano continuo e omogeneo della storia.
La stessa forma del tempo appare in Ti con zero, il racconto da cui prende il nome la
seconda raccolta di racconti cosmicomici. La voce di un cacciatore sgorga da un
momento singolare e puntuale – un tempo zero – e descrive l'immagine immobile
di una freccia sospesa a mezz'aria e diretta verso un leone che ha spiccato il suo
balzo. Nell'attimo di tensione il protagonista espone alcune congetture sull'origine,
il corso e la fine dell'universo. Dalla sua posizione in t 0 si domanda se sia possibile
avere cognizione della «configurazione oggettiva» del suo attimo e conclude che
«la si può cogliere non dall'interno di t0 ma solo osservandola da un altro istante-
universo, per esempio da t1 o da t2, e non da tutta la loro estensione
contemporaneamente ma adottando decisamente un punto di vista». (RR II, p. 319).
L'immaginazione dell'arciere distende dietro di sé – e anche davanti a sé – l'ipotesi
di un tempo lineare e divisibile in parti uguali. Dunque il presente t 0 è un punto
indipendente dagli altri, ma al contempo è collegato a essi come l'anello a una
catena. È così possibile osservare oggettivamente un momento peculiare del corso
del tempo solo a condizione di stabilire una giusta distanza. La possibilità di
intendere la storia come un processo rettilineo costituito da momenti distinti e
dislocati in successione sembra dipendere dalla visione prospettica: ricordare
significa configurare a distanza un'immagine del passato. Si può finalmente
avanzare un'ipotesi che tenga insieme i percorsi critici di questo capitolo: la
tensione fra lo schema o riquadro della memoria e l'affioramento dei ricordi
coinvolge una temporalità lineare dove il presente e il passato sono punti disposti
su una medesima retta. Un soggetto nel presente osserva in prospettiva il passato
nella speranza che una nuova occorrenza emerga dall'opacità per inscriversi sulla
superficie visibile della coscienza. Il principio della distanza, pertanto, è la
mediazione di due discordanze: quella fra l'archivio interiore della memoria e i
ricordi singolari; quella fra il modello lineare della storia e le parvenze della natura
intraviste solo per un momento.
In una intervista del 1984 Calvino ha affermato che «in Ti con zero cerco di vedere il
tempo con la concretezza con cui si vede lo spazio». 282 Ti con zero è stato scritto nel

282 I. Calvino, Sono nato in America, cit., p. 597.

163
1966, otto anni prima la redazione del Ricordo di una battaglia. Nel frattempo, fra il
1968 e il 1972, Calvino si è dedicato alla progettazione della rivista letteraria
pensata con Celati, Guido Neri e Carlo Ginzburg. 283 Lo stesso Ginzburg ha studiato
in più occasioni284 il rapporto fra gli eventi del passato (res gesta) e i relativi
resoconti redatti dallo storico di professione (historia rerum gestarum). Le sue
ricerche possono essere uno stimolo fecondo per intuire meglio quale fosse
l'atmosfera intellettuale che abbracciava il circolo di amici e collaboratori riuniti
intorno a Calvino, in particolare in merito all'intreccio fra la visione e il senso della
temporalità.
Nel saggio Distanza e prospettiva. Due metafore Ginzburg concentra i risultati di
almeno tre decenni di ricerca.285 Lo storico intende tracciare l'origine della distanza
storica fra presente e passato scandagliando la tradizione occidentale dalla tarda
antichità fino all'epoca moderna. Innanzitutto Ginzburg intende dimostrare come il
senso storico che lega il presente della storiografia agli accadimenti ormai distanti
deriva «da una tradizione che non era né ebraica né greca». 286 L'origine della
tensione fra passato e presente riposa nel pensiero cristiano dei primordi e in
particolare discende dalla necessità dei padri della chiesa di leggere l'Antico
Testamento dal punto di vista del Nuovo, ovvero secondo un metodo figurale: gli
eventi precedenti all'avvento di Cristo devono essere intesi alla luce della
rivelazione.287 Ma la svolta decisiva che fonda il senso occidentale della storia
sarebbe da attribuire ad Agostino che «segnalò gli eccessi di un'interpretazione
della Bibbia in chiave figurata. Dobbiamo guardarci, ammonì, dal proiettare nella
Bibbia le consuetudini del tempo e del luogo in cui noi, lettori, viviamo». Per questo
Agostino intende relativizzare ogni evento e ogni comportamento secondo le
circostanze in cui si è verificato: «dobbiamo leggere la Bibbia sia in maniera
283 Sul progetto della rivista si veda l'introduzione e il primo capitolo, paragrafo 8.
284 La data post quem si riferisce al saggio Da A. Warburg a E. Gombrich. Note su un problema di
metodo, pubblicato in “Studi medievali” nel 1966 e poi raccolto in C. Ginzburg, Miti emblemi spie.
Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986, pp. Il saggio è dedicato a una riflessione metodologica
riguardo al contributo che la tradizione warburghiana può fornire alla storiografia.
285 C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Einaudi, Torino 1998. È degno di
nota che il libro sia interamente dedicato al problema della distanza:
286 Ibidem, p. 174.
287 In merito al concetto di figura e al senso storico del pensiero cristiano Ginzburg si rivolge al
magistrale lavoro di Auerbach sulla “figura”: E. Auerbach, “Figura”, in Id., Scenes from the Drama of
European Literature, New York 1959, pp. 11-76, 229-237.

164
letterale sia in maniera figurata, perché da allora le consuetudini sono mutate». 288
«Né i greci né gli ebrei – insiste Ginzburg – ebbero mai una nozione, che ci è
familiare, di prospettiva storica. Soltanto un cristiano come Agostino, riflettendo
sul rapporto fatale tra cristiani ed ebrei, tra Vecchio e Nuovo Testamento, poté
formulare l'idea che, attraverso il concetto hegeliano di Aufhebung, diventò un
elemento cruciale della coscienza storica: e cioè che il passato dev'essere compreso
sia nei propri termini sia in quanto anello di una catena che in ultima analisi arriva
fino a noi».289
Il tempo di Agostino, tuttavia, è analogo al fluire della melodia musicale ed è
un'immagine a noi estranea perché «siamo invece irresistibilmente indotti a
tradurre le metafore acustiche di Agostino in metafore visive, imperniante su
distanza e prospettiva».290 Ginzburg risale il corso del tempo e richiama a sé gli
scritti di Machiavelli, Leonardo, Cartesio e Leibniz con l'intento di dimostrare come
a partire dal Rinascimento la tecnica prospettica si leghi alla rappresentazione del
mondo, al metodo critico e infine alla distanza temporale esperita da un osservatore
posto nel presente. Pertanto «il nocciolo del paradigma storiografico corrente è una
versione secolarizzata del modello dell'adattamento [di Agostino], combinata con
dosi diverse di conflitto [teorizzato da Machiavelli] e di molteplicità [secondo la
filosofia leibniziana]. Metafore come prospettiva, punto di vista e così via
esprimono vividamente questo atteggiamento verso il passato». 291 L'ipotesi di una
288 C. Ginzburg, Occhiacci di legno, cit., p. 176. Lo storico cita ampiamente dal De doctrina
Christiana: III, X, 15; III, XII, 19; III, XII, 20; III, XIV, 21.
289 Ibidem, p. 179.
290 Ibidem, p. 180.
291 Ginzburg, p. 185. A proposito della «moderna teoria prospettica della storia» Ginzburg cita
l'importante studio di Reinhart Koselleck: Punto di vista e temporalità. Contributo all'esplorazione
storiografica del mondo storico in R. Koselleck, Futuro e passato, Marietti, Genova 1986, pp. 151-177.
Secondo lo storico tedesco nella modernità «ogni conoscenza storica è condizionata dalla sua
posizione, e in questo senso relativa. Questa conoscenza permette di trattare la storia criticamente e
empaticamente, e ciò porta a asserzioni vere sul suo conto». È un movimento, quest'ultimo, che
fonda il senso stesso del processo storico: «ciò che distingue la storia (Geschichte) più recente dalle
storie (Geschichten) precedenti, è in primo luogo la comparsa, attraverso la riflessione degli
illuministi, di una “storia in sé e per sé”, senza oggetto. La storia diventa concetto autoriflessivo. Le
condizioni dei processi storici e le condizioni dell'agire storico e della sua conoscenza sono riferite le
une alle altre, a partire dall'Illuminismo. Ma, senza la determinazione di un punto di vista all'interno
del movimento storico, ciò non sarebbe possibile». E così «gli sguardi degli storici e la loro direzione
si spezzettano come in un caleidoscopio». Importante anche il riferimento avanzato da Ginzburg al
saggio di Guillén sulla metafora prospettica nella filosofia, nella letteratura e nell'arte occidentale: C.
Guillén, On the Concept of Metaphor and Perspective, in Id., Literature as System. Essays toward the
Theory of Literary History, Princeton University Press, Princeton 1971, pp. 283-371. In particolare sul

165
stretta correlazione fra la proiezione lineare nello spazio e la disposizione
temporale della storia è tratta, come dichiara lo stesso Ginzburg, da un appunto di
Panofsky contenuto in un saggio del periodo statunitense e dedicato al recupero
della tradizione classica durante il Rinascimento. Scriveva lo storico tedesco:

the Renaissance attitude towards antiquity was different from the


mediaeval one in that the Renaissance had become aware of the
"historical distance" separating the Greeks and Romans from the
contemporary world . This realization of the intellectual distance
between the present and the past is comparable to the realization
of the visual distance between the eye and the object, so that a
parallel may be drawn between the discovery of the modern
"historical system” which was mentioned in the first paragraph of
this article, and the invention of modern perspective, both of
which were achieved by the Renaissance.292

Non è irrilevante notare che Ginzburg aveva citato lo stesso passo nel saggio Da A.
Warburg a E. Gombrich. Note su un problema di metodo pubblicato nel 1966, due
anni prima l'inizio delle riunioni sul progetto di rivista. 293 Inoltre alcuni riferimenti

rapporto fra storia e prospettiva: «Later on, with the growth of a sense of history, this metaphorical
usage – “seeing in perspective”, “needing perspective” – will refer not only to psychological but to
historical time». Ibidem, p. 313.
292 E. Panofsky, Classical Mythology in Mediaeval Art, Metropolitan Museum Studies, Vol. 4, No. 2
(Mar., 1933), p. 274. Sul rapporto fra invenzione della prospettiva e senso moderno della storia sono
fondamentali alcune note di Christine Smith, docente di Storia dell'Architettura ad Harvard. La
proiezione lineare per rappresentare gli edifici elaborata da Leon Battista Alberti deriva dalla
convinzione del Quattrocento «che nulla si possa realmente conoscere se non ciò che si vede». Ma
questa visione avviene con gli occhi della mente, ovvero grazie ad una astrazione. Questo permette
ad Alberti di immaginare e proiettare sulle pareti della mente (e dei suoi fogli) le immagini degli
edifici antichi nella loro forma originale risalente al tempo di Roma. Lo stesso procedimento
immaginativo consente anche di disegnare modelli architettonici di edifici non ancora esistenti:
«egli fu il primo nel suo trattato De re aedificatoria a esortare gli architetti a preparare disegni e
modelli delle opere che intendevano edificare». Pertanto, conclude Smith, passato, presente e futuro
sono «tre distinte realtà che gli uomini del XV secolo bramavano conoscere attraverso la vista.
Partendo dalla propria realtà, proiettandosi in avanti verso quella a venire e volgendosi indietro
verso quella che aveva fissato le tradizioni e gran parte dell'identità del presente, la
rappresentazione per immagini diventava strumento di conoscenza». Assolutamente rilevante che
Alberti scelse come emblema rappresentativo di sé stesso un occhio alato che gravita sopra un
paesaggio. C Smith, L'occhio alato: Leon Battista Alberti e la rappresentazione di passato, presente e
futuro, in H. Millon e V. Magnago Lampugnani (a cura di), Rinascimento da Brunelleschi a
Michelangelo. La rappresentazione dell'architettura, Bompiani, Milano 1994, pp. 453-461.
293 L'atmosfera fra i collaboratori all'idea di rivista non era non certo armoniosa, ma pregna di

166
di Panofsky al rapporto fra la distanza storica e la scoperta della prospettiva
comparvero già ne Il significato delle arti visive, pubblicato da Einaudi nel 1962. 294
Quest'ultima divagazione permette di notare come la distanza storica fra il passato
e il presente e il conseguente dualismo fra il narratore e il suo alter ego partigiano
non derivano soltanto dagli interrogativi sulle condizioni di possibilità della
memoria resistenziale, ma abbracciano problematicamente l'intera tradizione della
modernità e i suoi reconditi schemi di comprensione del mondo. La distanza di
Calvino non è dunque solo un sintomo, un esito inconscio della sua predilezione
per una specifica tradizione intellettuale, ma è anche una scelta suggerita dalle
letture e dalle discussioni di quegli anni, il fondamento di una strategia narrativa e
stilistica corroborata dalle ricerche di ordine storico-filosofico condotte nel cuore
del secondo Novecento. La visione pregna di tempo situata «dall'alto degli anni»
adottata dai narratori autobiografici di Calvino trattiene in sé il lascito di una
conflitti. Le riflessioni sulla distanza interessavano probabilmente tutti i membri del gruppo, ma con
diversi gradi di partecipazione. Celati propose negli stessi anni un modello opposto di storia (per un
riferimento più preciso si veda il quarto capitolo, paragrafo 10). Lo stesso Ginzburg sembra
assumere posizioni di varia natura: la storia indiziaria presentata in Miti emblemi e spie si fonda su
un terreno epistemologico diverso dal paradigma della distanza. In Occhiacci di legno il
prospettivismo è lo strumento più congeniale per confutare il relativismo epistemologico della
storiografia scettica e gli eccessi della storiografia positivista: «per motivi diversi, anzi opposti, i
fondamentalisti e i neoscettici respingono o ignorano ciò che in passato ha fatto della prospettiva
una metafora cognitiva così potente: la tensione tra il punto di vista soggettivo e verità oggettive e
verificabili, garantite dalla realtà (come in Machiavelli) o da Dio (come in Leibniz). Se questa
tensione sarà tenuta aperta, la nozione di prospettiva smetterà di costituire un ostacolo tra scienziati
e scienziati sociali, per diventare invece un luogo d'incontro, una piazza in cui conversare, discutere,
dissentire». C. Ginzburg, Occhacci di legno, cit., p. 186.
294 Nel saggio introduttivo di Meaning in the Visual Arts Panofsky si sofferma sul significato
dell'umanesimo nel corso del Quattrocento. In merito al rapporto con la tradizione adottato dagli
umanisti, Panofsky sostiene che essi guardarono al passato in modo obiettivo e critico, «in altre
parole storico». Al contrario «il Medioevo accettava e sviluppava, piuttosto che studiare e
restaurare, l'eredità del passato». Per spiegare meglio questa differenza lo storico dell'arte aggiunge
in nota: «certi storici sembrano incapaci di ammettere i rapporti di continuità e nello stesso tempo le
distinzioni. È innegabile che l'Umanesimo, e tutto il movimento rinascimentale, non sono usciti
come Atena dal cervello di Giove. Ma il fatto che Lupus di Ferrières emendasse testi classici, che
Hildebert di Lavardin fosse profondamente sensibile alle rovine romane, che i dotti francesi e inglesi
del secolo XII riscoprissero la filosofia e la mitologia classiche, e che Marbodo di Rennes scrivesse un
bel poema pastorale sul suo piccolo possesso di campagna non significa che la loro concezione di
fondo fosse la stessa di quella del Petrarca, per non dire del Ficino o di Erasmo. L'uomo medievale
non sapeva concepire la civiltà del mondo antico come un fenomeno in sé conchiuso e staccato
storicamente dal mondo in cui viveva; per quanto ne so, il latino medievale non ha termini
equivalenti a quelli umanistici di antiquitas o sacrosanta vetustas. E come fu impossibile per il
Medioevo elaborare un sistema prospettico fondato sulla realizzazione di una distanza fissa tra
l'occhio e l'oggetto, così fu impossibile per quest'epoca sviluppare un concetto di discipline storiche
fondate sulla realizzazione di una distanza fissa tra il presente e il passato classico ». E. Panofsky, La
storia dell'arte come disciplina umanistica, in Id., Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1962,
pp. 7-8.

167
secolare norma epistemologica. Tale norma condivide il medesimo paradigma che
dà forma alla rappresentazione dello spazio in Calvino: la prospettiva. Lo sguardo a
distanza, dunque, origina il paesaggio come immagine spaziale e temporale.
L'immagine, tuttavia, ha perso la solida e fiduciosa consistenza rinascimentale: è
una proiezione labile sulla superficie del foglio, un'ipotesi sospesa sull'abisso della
notte dove affonda il tempo trascorso. La tradizione moderna della distanza
prospettica e del razionalismo permane in forma congetturale, frammentaria ed
estenuata: un tentativo estremo per cogliere l'eventualità di un'apparizione che
screzi la superficie della proiezione.

8. I giochi narrativi: distanza e avvicinamento.

«Sto cercando di riportare alla superficie una giornata, una mattina, un'ora tra il
buio e la luce...»; «ho finalmente deciso di tirare a riva le reti dei ricordi...»: lo
scrittore vive l'anamnesi come un atto di volontà e non come un incontro casuale
con il tempo perduto. Il ricordo è il frutto prezioso di uno sforzo, esito della
pulsione ad attraversare il tempo e recuperare le impressioni del passato. Le radici
di tale concezione affondano nella cultura occidentale fino a raggiungere le
riflessioni di Aristotele.
Nel De memoria et reminiscentia295 Aristotele sostiene che «la memoria è del
passato» (449 b, 15), e questo la distingue dall'opinione e dalla speranza (che si
proiettano nel futuro) e dalla sensazione (che è legata al presente): «quindi la
memoria non è sensazione né pensiero, ma abito o affezione di una di tali cose,
quando sia trascorso del tempo. […] quindi ogni memoria implica il tempo» (449 b,
22-28). Il trattato di Aristotele – immediatamente successivo per interesse

295 Per il testo originale e il commento ho fatto riferimento alla recente edizione critica di D. Bloch:
Aristotle on Memory and recollection. Text, Translation, Interpretation and Reception in Western
Scholasticism, Leiden, Boston 2007. Per la traduzione italiana ho considerato il lavoro di Medda
svolto per la tesi specialistica presso l'Università di Cagliari. Sempre di Medda ho tenuto conto del
commento critico redatto presso l'Università di Durham: R. Medda, Aristotle's On Memory and
Recollection: Concepts, Sources, and Innovations of Aristotle's Account of Mnemonic Capacities and
Activities, Durham theses, Durham University, 2009. Particolarmente importante – non solo per
Aristotele, ma per tutto il capitolo dedicato alla memoria – il saggio di Ricoœur, che fonda le sue
premesse proprio sul contenuto temporale della memoria: P. Ricoœur, La mémoire, l'histoire, l'oubli,
Seuil, Paris 2000.

168
speculativo al De anima – spiega fin dall'inizio come la memoria sia dipendente
dalla dimensione temporale e, quindi, dall'esperienza vissuta. La memoria è
un'affezione (πάθος) deputata a registrare le sensazioni: «bisogna pensare che tale
affezione si verifichi […] allo stesso modo di una sorta di raffigurazione di cui
abbiamo detto che la memoria è l'abito. Infatti il movimento che ne deriva imprime
una certa impronta del percepito, come coloro che imprimono un sigillo con gli
anelli» (450 a, 27-32). La memoria è correlata all'immaginazione, perché le impronte
si presentano all'animo in forma d'immagine: «la memoria non si dà senza
immagine» (450 a, 12-13). Tale impostazione suggerisce alcune domande che
tendono a un medesimo problema: «ma se tale è davvero ciò che accade riguardo
alla memoria, si ha memoria dell'affezione o di ciò da cui è stata generata?» (450 b,
11-13). E, se vale la seconda ipotesi, «in che modo […] ricordiamo la cosa assente, di
cui non abbiamo percezione?» (450 b, 14-15). La terza domanda interroga con
maggior precisione l'ambiguità, propria del dato mnestico, oscillante fra la presenza
e un senso d'assenza: «come dunque si ricorderà ciò che non è presente?» (450 b,
18-19). Conclude il filosofo: l'immagine conservata nella memoria va considerata
come una copia e non come una cosa in sé (ὡς εἰκόνα καί μή ὡς καθ'αὑτό) e quindi
rimembrare significa avere presente un'immagine che è copia di qualcosa che non
c'è, ma che è stato (451 a, 14-17). La seconda parte del trattato si sofferma sulla
reminiscenza, o anamnesi, ovvero sul procedimento di scrutinio, selezione e
recupero delle immagini impresse nella memoria affettiva. L'anamnesi è un'attività
cosciente e richiede un movimento volontario, una vera e propria ricerca (ζήτησις)
nella memoria: «il richiamare alla memoria è come un ragionamento» (453 a, 10).
Il riferimento ad Aristotele – ma lo stesso vale per le precedenti ricognizioni in
Agostino e Giordano Bruno – è fecondo per tracciare una genealogia della
cognizione di memoria e di reminiscenza che è trattenuta nel Ricordo di una
battaglia.296 Tuttavia ogni recupero delle fonti e delle influenze si rivela uno sterile

296 Nel saggio del 1965 Mythe et pensée chez les Grecs (tradotto presso Einaudi nel 1970) Vernant
studia le evoluzioni delle strutture spaziali e temporali durante lo sviluppo culturale dell'antica
Grecia. A proposito della memoria secondo Aristotele scrive: «chez Aristote, par exemple, la
mémoire, μνήμη, et la réminiscence, ανάμνησις, sont differenciés, la première étant le simple
pouvoir de conservation du passé, la seconde son rappel volontaire effectif. Mais l'une et l'autre
apparaissent nécessairement liées au passé; elle impliquent une distance temporelle, la distinction
d'un antérieur et d'un postérieur». La distanza fra la produzione dell'immagine e l'evento cui si

169
esercizio di erudizione se non sfocia in un'interpretazione degli esiti compositivi e
tematici dell'opera esaminata: l'autentico lascito dello scrittore riguarda il
contenuto letterario e non il sistema di teorie, idee, impostazioni epistemologiche
da cui può aver tratto spunto. In questa circostanza l'attenzione critica deve
rivolgersi all'analisi degli andamenti narrativi che scaturiscono dal rapporto fra
memoria ed esperienza descritto in queste pagine e illuminato dal recupero di
Aristotele.
Quando il racconto rievoca gli eventi del passato, i rapporti temporali fra i verbi ne
risentono. L'ultimo segmento del resoconto di Biagio, ad esempio, è un commento
riferito a uno stato di cose contemporaneo all'atto della scrittura («Ombrosa non c'è
più»), ma nelle affermazioni più ricorrenti del romanzo il discorso del narratore si
proietta indietro nel tempo e impiega il passato remoto per riferire le avventure di
Cosimo: presente dell'atto narrativo (il presente della rappresentazione) e passato
degli eventi narrati (il passato della vita vissuta) sono le due temporalità che, tenute
insieme, costituiscono il romanzo. Una tensione latente fra il tempo in cui si scrive
e il tempo di cui si scrive attiva così un gioco di distanze fra temporalità differenti:
proprio negli scarti fra presente e passato è possibile studiare il rapporto fra
l'immagine sulla pagina e le esperienze vissute.
Gli strumenti interpretativi più raffinati per fondare la ricerca sono quelli proposti
da Paul Ricoœur nella sua opera monumentale dedicata al tempo della narrazione:
Temps et récit.297 A partire dagli studi nel campo della linguistica e della poetica di
area tedesca condotti da Günter Müller e da Harald Weinrich 298 e dagli esiti della
narratologia di Genette, Ricoœur propone un modello ermeneutico per
comprendere «i giochi del tempo» nelle forme narrative moderne. La distinzione da

riferisce è la congiunzione più salda fra la teoria aristotelica e l'anamnesi partigiana. J. P. Vernant,
Mythe et pensée chez le Grecs. Études de psychologie historique, François Maspero, Paris 1965, pp. 77-
78.
297 Si terrà conto della sezione “I giochi con il tempo” contenuta nel secondo volume di Tempo e
racconto: P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol. 2, La configurazione del racconto di finzione, Jaca Book,
Como 2008. Non è certo un caso che il filosofo francese si sia occupato anche di memoria e oblio nel
saggio cui già si è fatto riferimento, La mémoire, l'histoire, l'oubli. In Ricoœur come in questo studio
la temporalità narrativa e la memoria sono due volti dello stesso problema. Non irrilevante notare
che l'impostazione filosofica del filosofo francese riguardo al tempo confluisca nella tradizione
tracciata da Aristotele e Agostino.
298 Per i riferimenti a Müller si segue il testo di Ricoœur, per Harald Weinrich si è anche consultato:
H. Weinrich, Tempus. Le funzioni dei tempi nel testo, il Mulino, Bologna 2004.

170
cui partire è quella fra tempo del raccontare e tempo raccontato: il primo è il tempo
dell'enunciazione, ovvero il tempo convenzionale impiegato per leggere o
pronunciare un testo; il secondo è il tempo dell'enunciato, ovvero il tempo
dell'azione narrativa nella quale sono immersi i personaggi. Il tempo del raccontare
segue la linearità del testo e l'ordine sintagmatico delle frasi (e si conta in ore di
lettura, o in pagine), mentre il tempo raccontato può essere spezzato da prolessi e
analessi, può essere rallentato o accelerato da salti, scarti e pause (e può
attraversare mesi, anni, decenni: la storia dei personaggi coinvolti). Il tempo del
raccontare – per seguire l'esempio del Barone rampante – equivale al tempo di
lettura o al numero di pagine dell'intero romanzo, mentre il tempo raccontato
ricopre approssimativamente la vita di Cosimo, dall'infanzia fino alla morte.
Ricoœur complica il dualismo fra enunciazione ed enunciato e ricerca una terza e
più articolata temporalità – una «esperienza di finzione del tempo» – che mette in
relazione l'atto del narrare con gli eventi narrati, la posizione del narratore con
quella dei personaggi. Il filosofo francese, nel tentativo di costruire un modello
teorico adatto a definire tale «congiunzione/disgiunzione tra tempo usato per
raccontare e tempo raccontato», si sofferma sulle nozione di voce narrativa. La voce
«risponde alla domanda: chi parla qui?» e individua un narratore che dal presente
della fabulazione si protende verso il passato degli eventi narrati: «la nozione di
voce ci è particolarmente cara proprio in ragione delle sue importanti connotazioni
temporali. In quanto autore di discorsi, il narratore determina, in effetti, un presente
– il presente della narrazione – altrettanto fittizio quanto lo è l'istanza di discorso
costitutiva dell'enunciazione narrativa». 299 Ogni racconto trattiene in sé una
tensione fra il passato degli avvenimenti e il presente dell'enunciazione e sebbene
quest'ultimo possa essere occultato, come accade per la terza persona onnisciente,
la temporalità della narrazione ne è sempre condizionata: «l'attribuzione di un
presente di narrazione alla voce narrativa permette di risolvere il problema […]
della posizione del passato come tempo base della narrazione». 300 Il lettore, a sua
299 P. Ricoœur, Tempo e racconto, cit., p. 163. Fondamentale ricordare che la proposta teorica di
Ricoœur discute i tempi dei racconti di finzione, mentre in questo studio si trattano opere sia
finzionali, sia autobiografiche. Sebbene cambi il patto con il lettore e il valore referenziale delle
affermazioni, i rapporti verbali implicati dalla narrazione sono gli stessi; a questo proposito si può
pensare alla costante presenza del passato nelle opere storiografiche.
300 Ibidem, p. 164.

171
volta, interpreta l'esperienza di finzione del tempo attraverso la comprensione del
divario fra le temporalità differenti: «non si può forse dire che il passato mantiene
la sua forma grammaticale e il suo privilegio perché il presente di narrazione è
compreso dal lettore come posteriore rispetto alla storia raccontata, e che quindi la
storia raccontata è il passato della voce narrativa?». 301 La voce è quindi una
funzione sia interna che esterna alla configurazione del racconto: si origina entro i
confini del testo e tende a varcarne le frontiere per rivolgersi al lettore,
all'ascoltatore, coinvolgendo la dimensione pragmatica della comunicazione
letteraria.
Il presente della narrazione istituisce dunque un'immagine che a distanza di tempo
rievoca un'esperienza vissuta, ormai trascorsa. Allora l'ambivalenza del paesaggio
ricordato – presenza mnestica di un aspetto del mondo ormai assente – può essere
interrogata con profitto dal punto di vista della narratologia. Sebbene la voce
narrativa – la voce che afferma: “io scrivo” – comprenda insieme l'immagine del
paesaggio e l'esperienza nel paesaggio, nel Ricordo di una battaglia tale unione non
è sempre armonica, come non sempre la distanza fra il presente e il passato
permane stabile.
All'inizio del racconto, come già si è notato, il narratore propone un'analogia fra il
paesaggio-ricordo dove si svolse la battaglia e il paesaggio-memoria che dà forma al
grembo interiore, archivio di tutte le rimembranze. Ma a poco a poco le due identità
– quella del narratore che sprofonda nella memoria e quella del partigiano che
discende a valle – si confondono fino a diventare una sola: «forse di tutta la discesa
sono rimaste nella memoria solo queste cadute […]. I risvegli per andare in azione
si somigliano tutti, io sono uno dei portamunizioni […]. Tutti i battaglioni della
brigata di Gino traboccano dalla vallata […]» (RR III, p. 51, corsivi aggiunti). La
distanza temporale si annulla, scompare il passato narrativo e la voce del narratore
coincide con il ricordo, come se gli avvenimenti accadessero in presa diretta. La
stessa strategia è adottata quando il bambino vaga per la campagna di San Giovanni
e appare anche nell'articolo Tante storie che abbiamo dimenticato nel momento in
cui lo scrittore ormai anziano e il giovane partigiano si incontrano nel presente

301 Ibidem, p. 164.

172
della scrittura: «no, è alla radio che tendo l'orecchio, nel rifugio sotterraneo dove
l'abbiamo nascosta […]. E io cerco di cogliere in quegli scarni comunicati un segno
che le linee si stanno muovendo […]. di nuovo il tempo si ferma con la guerra di
posizione sulla Linea gotica: parlo del tempo loro, della Storia con la esse
maiuscola, non di quello delle nostre microstorie per cui ogni giorno può essere
l'ultimo. Il tempo si è fermato anche sul fronte francese e noi che lo abbiamo a
pochi chilometri sentiamo il cannone tuonare...». Poi la normale scansione
temporale si ristabilisce e il narratore riprende coscienza del tempo che accoglie le
sue rimembranze: «il filo del ricordo m'ha portato a mettere in primo piano...» (S, p.
2916, corsivi aggiunti). Il presente è di nuovo riferito al 1985, quattro decenni dopo
gli avvenimenti.
Un'analisi dello stesso tenore merita il primo romanzo di Calvino, il Sentiero dei
nidi di ragno. Il discorso è tenuto sempre al presente e gli avvenimenti si dipanano
come se fossero contemporanei al flusso della parola narrativa: «è vicino il mattino.
La brigata ha ancora molte ore di marcia davanti a sé, ma i comandanti, giudicando
che dopo la levata del sole una tale sfilata di uomini per vie scoperte renderebbe
subito noto il loro spostamento, decidono di attendere la notte seguente per
continuare il cammino con tutta segretezza». 302 Al senso d'immediatezza303 conferito
dal presente corrisponde il peso materico di un mondo immerso nel buio, quasi
soffocato dalle nebbie.
La riduzione della distanza narrativa non influisce solo sul tempo dei racconti e
sulla forma del ricordo, ma coinvolge anche il paesaggio. Se lo sguardo diventa
immediato, interno alla natura e agli accadimenti, si può ancora parlare di
paesaggio? Si è già fatto cenno alla fusione fra ambiente naturale e partigiani

302 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, RR I, p. 131.


303 Sull'immediatezza de Il sentiero dei nidi di ragno si è espresso in modo esplicito lo stesso Calvino
nella Prefazione del 1964: «l'essere usciti da un'esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva
risparmiato nessuno, stabiliva un'immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico»
(RR I, p. 1185). E ancora quando descrive un racconto «di rappresentazione immediata, oggettiva,
come linguaggio e come immagini» (R I, p. 1189). A proposito de Il sentiero dei nidi di ragno, Testa si
sofferma su «l'uso di ecco ». Esso «oltre ad aprire spesso le battute dei personaggi […], consente di
collocare, grazie al suo valore ostensivo, i dati del racconto in una sorta di “tempo fisso”, in un
presente enunciativo in cui la fictio del narrare come “dire” va di pari passo con il tendenziale
avvicinamento alla figura del lettore». Nonostante questo senso di immediatezza, tuttavia, permane
nel linguaggio del narratore una traccia letteraria che testimonia della presenza un poco discosta
dell'autore. E. Testa, Lo stile semplice, cit., p. 239.

173
descritta nella Prefazione al Sentiero del 1964, così come sono stati citati i partigiani-
rododendro che compaiono nell'intervista di Camon: i combattenti che aderiscono
al mondo naturale non contemplano mai gli spazi aperti e spesso brancolano al
buio. Lo stesso avviene nel Ricordo quando i personaggi annaspano nel buio e il
narratore-partigiano confessa: «non vediamo il paese»; e così anche nel Sentiero:
«Pin cammina solo per il buio […] e ormai ha perduto di vista il bagliore del fuoco
alla porta del casolare». Nell'assenza di distanza si acuisce la sensibilità tattile e
uditiva, ma la visione è quasi del tutto impedita.
La possibilità di una coincidenza immediata con il passato, tuttavia, è fugace ed
effimera. Calvino rischia per brevi tratti la discesa nel fondo della memoria fino
raggiungere un tempo puntuale e privo di scarti, ma alla fine la scrittura ristabilisce
il divario originario fra i segni e la vita vissuta, fra l'immagine della memoria e il
passato dell'esperienza vissuta. Solo grazie alla restaurazione di una distanza
pregna di inquietudine – la «distanza che separa quella notte di allora da questa
notte in cui scrivo» – le proiezioni del passato, i paesaggi della strada di San
Giovanni e i frammenti mnestici del Ricordo si rapprendono visibili sulla pagina.
Queste fugaci visioni sono l'esito di una scrittura che s'avvicina all'esperienza e poi
s'allontana: le parole esplorano lo spazio e il tempo protraendosi fino ai limiti del
conoscibile, là dove la distanza è così breve da sfiorare un effetto d'invisibilità: «il
senso di tutto […] appare e scompare». (RR III, p. 58). Il metodo di Calvino è un
raffinato procedimento di messa a fuoco operata da un soggetto che si avvicina e
s'allontana dall'oggetto. Nell'ultimo scritto resistenziale Calvino svela come questa
strategia narrativa sia impiegata con consapevolezza: «lo schema che vorrei seguire
sarebbe quello di accentuare in un primo momento la distanza dell'allora dall'oggi
per poi ritrovare una vicinanza; è bene che dichiari subito questa intenzione perché
non so se riuscirò a mantenerla, e quali immagini mi porterà a far affiorare» (S, p.
2912). Il movimento di contrazione e distensione dei tempi verbali è dunque un
raffinato espediente tecnico per dare vita al rovello che abita il pensiero e la
scrittura di Calvino: una armonia che trascenda il conflitto è lungi dal
concretizzarsi.

174
9. L'oblio e la crisi dell'esperienza.

Il narratore del Ricordo di una battaglia confessa: «da anni non ho più smosso
questi ricordi, rintanati come anguille nelle pozze della memoria. Ero sicuro che in
qualsiasi momento mi bastava rimestare nell'acqua bassa per vederli affiorare con
un colpo di coda» (RR III, p. 50). Eppure «risvegliare i ricordi» è un'operazione
rischiosa perché porta con sé il timore di «ricoprirli con la crosta sedimentata del
dopo» e di ordinarli «secondo la logica della storia passata». Per questo il narratore
si affida ai particolari microscopici raccolti dai sensi e non agli avvenimenti più
eclatanti: «il sollievo a slacciarsi gli scarponi induriti, la sensazione del terreno
sotto la pianta dei piedi, le fitte dei ricci di castagne e dei cardi selvatici». L'esile
tessuto narrativo che tiene insieme gli stimoli sensoriali equivale alla lisa lana dei
calzettoni: «pensavo che mi sarebbe bastato ricordarmi questo momento e tutto il
resto sarebbe venuto dietro come lo sgomitolarsi di un filo, come il disfarsi di quei
calzettoni sfondati sugli alluci e sui calcagni». Il particolare della rimembranza non
s'oppone soltanto alla memoria ufficiale, ma anche alla dimenticanza: «se mi
concentro su questo dettaglio ingrandito è per non accorgermi di quanti strappi ci
sono nella mia memoria», una memoria che «trattiene certe cose e non altre» (RR
III, p. 54).
Ma come definire l'oblio? Le metafore citate – gli strappi, le smagliature nella rete –
descrivono la dimenticanza come un vuoto della memoria, una forma dell'assenza.
Tuttavia il racconto accenna a un'ulteriore, più complessa, riflessione sull'oblio: «la
mia paura di adesso è che appena si profila un ricordo, subito prenda una luce
sbagliata, di maniera, sentimentale come sempre la guerra e la giovinezza, diventi
un pezzo di racconto con lo stile di allora, che non può dirci come erano davvero le
cose ma solo come credevamo di vederle e di dirle». La manipolazione letteraria e
un'atmosfera nostalgica possono diluire l'autenticità del ricordo e sopprimerne la
vitalità: «non so se sto distruggendo il passato o salvandolo» (RR III, p. 55). L'oblio
presenta una natura passiva: è un vuoto di memoria, una assenza; ma può anche
derivare da un'azione, da un uso pervertito della reminiscenza. Come la memoria
aristotelica anche l'oblio presenta il duplice volto dell'affezione passiva e dell'atto

175
deliberato e volontario.304
Un testo in prosa risalente al primo Dopoguerra ispira il racconto di Calvino e ne
influenza la riflessione sulla dimenticanza. Si tratta di una breve prosa montaliana,
Il bello viene dopo, raccolta nella Farfalla di Dinard.305 Un uomo e una donna siedono
al tavolo d'un ristorante, lei ordina un «manzanillo». Stimolata dalla curiosità del
compagno, la donna afferma che «l'albero del manzanillo fa morire chi ci dorme
sotto. La sua ombra è micidiale». Su un cartello pubblicitario appare l'immagine di
alcuni uomini e donne in abito da sera e piacevolmente distesi all'ombra, «armati
come di bombe a mano» di tante bottigliette di manzanillo e «tutti sorridenti,
felici». È la bevanda della dimenticanza: il succo di manzanillo «non fa morire,
porta via il ricordo di tutto», dice la signora. L'uomo nel frattempo scorre il menu e
il suo sguardo incontra un «capitone alla livornese»:

Ah ah! No, non mi tenta; ma mi fa ricordare il nostro botro


melmoso che passava accanto alla mia casa. Chissà ce c'è più.
Serpeggiava, forse si insinua ancora fra rocce e canneti e non si
può costeggiarlo che in pochi tratti. Sì e no, se è piovuto molto,
c'è qualche ristagno d'acqua, intorno al quale si affollano le
lavandaie. Ma ci sono le anguille, le migliori del mondo. Rare,
piccole anguille giallognole che è difficile vedere sotto la
superficie grassa del sapone che intorbida l'acqua. Per prenderne
una bisognava cintare e arginare una di quelle pozzanghere con
pezzi d'ardesia ben conficcati nel fango, poi svuotar l'acqua col
cavo delle mani e infine, prima che l'acqua rifiltrasse dentro,
mettersi a piedi scalzi nel fosso e frugare tra i ciottoli e l'erba
marcia del fondo. Se l'anguilla appariva e noi avevamo una
forchetta, la cosa era quasi sicura; un colpo, e l'anguilla trafitta e
sanguinante era sollevata in alto e gettata poi sullo scrimolo, dove
si torceva ancora per poco.

304 Calvino ritorna sull'avanzata dell'oblio anche in occasione del trentennio dalla Liberazione, ma
questa volta si concentra sullo sguardo che i partigiani di allora dedicavano ai tempi a venire: «non
avremmo mai immaginato un futuro che avrebbe fatto sbiadire lentamente questi ricordi come è
avvenuto in questi trent'anni». Il mio 25 aprile 1945, in Id., Saggi 1945-1985, cit., p. 2813.
305 E. Montale, Il bello viene dopo, in Id., Farfalla di Dinard, Leonardo, Milano 1994, pp. 48-51.

176
La donna provoca il suo interlocutore: «ma tu vuoi restarci dentro nel fosso; a
pescarci le anguille del tuo passato». L'anguilla-reminiscenza rintanata nelle pozze
della memoria del Ricordo di una battaglia è strettissima parente dell'animale
serpeggiante di Montale. L'oblio può essere un vuoto, una carenza di spirito e di
attenzione – come accade ai bevitori di manzanillo, ai mangiatori di loto – ma può
anche essere il frutto di un trattamento scorretto delle immagini impresse nella
mente: forse i ricordi sono resti troppo caduchi per essere estirpati dal loro
ambiente. Come le anguille estratte all'improvviso dalla pozzanghera hanno la forza
di palpitare solo per pochi istanti prima di abbandonarsi immobili come cadaveri,
così le parole hanno la terribile facoltà di strappare un'immagine dal grembo della
memoria e inchiodarla senza vita sulla pagina.
Nella Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno Calvino si sofferma di nuovo
sul complicato rapporto fra la letteratura e i ricordi. La guerra di liberazione ha
lasciato nei partigiani un patrimonio di memorie ed esperienze comuni: uno «stato
d'animo collettivo» apparteneva a tutti e precedeva ogni «roba scritta» (RR I, p.
1186). Chi negli anni successivi ha ceduto alle lusinghe della scrittura non ha
intuito che «il primo libro diventa subito un diaframma fra [se] e l'esperienza» e
«brucia il tesoro di memoria – quello che sarebbe diventato un tesoro se avess[e]
avuto la pazienza di custodirlo, se non avess[e] avuto tanta fretta di spenderlo, di
scialacquarlo, […] insomma d'istituire di prepotenza un'altra memoria, una
memoria trasfigurata al posto della memoria globale coi suoi confini sfumati» (R I,
p. 1203). Le «immagini privilegiate» si dissolvono «bruciate dalla precoce
promozione a motivi letterari», mentre quelle tenute in serbo nell'interiorità
deperiscono «perché tagliate fuori dall'integrità naturale della memoria fluida e
vivente». La «proiezione letteraria» che cristallizza e immobilizza i movimenti della
vita «ha fatto sbiadire, ha schiacciato la vegetazione dei ricordi in cui la vita
dell'albero e quella del filo d'erba si condizionano a vicenda». Di nuovo il golfo
interiore della memoria assume le sembianze d'un paesaggio, sebbene qui la sua
composizione sia «fluida» e non schematica: un mobile reticolo pregno di
temporalità e di insegnamenti che hanno il peso dell'esperienza. Infilzare l'anguilla

177
nella sua pozza equivale alla compromissione dell'ecosistema.
L'esperienza, che secondo Calvino è «la memoria […] più il cambiamento che ha
lasciato in te e ti ha fatto diverso», si prosciuga:

l'esperienza primo nutrimento anche dell'opera letteraria (ma non


solo di quella), ricchezza vera dello scrittore (ma non solo di lui),
ecco che appena ha dato forma a un'opera letteraria insecchisce,
si distrugge. Lo scrittore si ritrova ad essere il più povero degli
uomini. (RR I, p. 1203).306

Sopravviene un senso di desolazione e privazione: il narratore-partigiano teme di


ritrovarsi isolato in un deserto di rinsecchiti e polverosi reperti da museo, oppure di
smarrire tutto nella notte della dimenticanza. Egli resta così sospeso fra due abissi:
da una parte s'apre il delirio di una memoria che desidera controllare e scrivere
tutto, dall'altra parte s'allarga la voragine buia dell'oblio come poverissimo nulla.
Ma non sono forse i due versanti d'un medesimo rovello? Come suggerisce Marco
Polo all'imperatore dei mongoli, il controllo totale dell'impero corrisponde alla
vuota desolazione.
Dove rinvenire, allora, un'esile speranza? Solo il movimento della scrittura può
cogliere possibilità frammentarie, vive e instabili. L'osservatore deve modulare di
volta in volta la giusta distanza adatta a tracciare una lieve forma-ricordo che abbia
la forza d'emergere dal continuum della storia: una forma capace di sottrarsi agli
schemi razionali della totalità come alla notte nera dell'oblio e della materia
indifferenziata. Dal movimento dello sguardo emerge un «quasi niente» labile
quanto provvisorio, un apparenza sullo sfondo di una certa distanza,
un'intermittenza fra due nulla:

tutto quello che ho scritto fin qui mi serve a capire che di quella
mattina non ricordo più quasi niente, e ancora più pagine mi
resterebbe da scrivere per dire la sera, la notte. La notte del morto

306 E anche nel capitolo più teorico di Se una notte d'inverno un viaggiatore sostiene Silas Flannery:
«Il libro della mia memoria? No, la memoria è vera fino a che non la si fissa, finché non la si chiude
in una forma». I. Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, RR II, p. 789.

178
del paese vicino […] la notte di me che cerco nella montagna i
compagni […]. La distanza che separa quella notte di allora da
questa notte in cui scrivo.

179
Capitolo IV

Verso la foce.
La lontananza nel paesaggio
1. Una filosofia della descrizione.

Il 30 giugno 1985 Calvino pubblica una breve biografia poetica di Gianni Celati.
Nell'articolo richiama gli esordi comici e gli interventi di teoria letteraria dell'amico,
poi risale gli anni fino a raggiungere il presente: «dopo vari anni di silenzio, Celati
ritorna ora con un libro che ha al centro la rappresentazione del mondo visibile […]
e più ancora un'accettazione interiore del paesaggio quotidiano in ciò che meno
sembrerebbe stimolare la nostra immaginazione – anche qui si potrà forse
riconoscere una continuità col principio di ripartire sempre da un “grado zero”, ma
soprattutto quel rovesciamento dall'interno sull'esterno che mi sembra il
movimento più caratterizzante degli anni Ottanta». 307 Calvino si riferisce a
Narratori delle pianure, opera edita nello stesso anno: una raccolta di fabulazioni e
novelle recuperate e trascritte da Celati durante le esplorazioni lungo il corso del
Po.
Fra i racconti di Narratori delle pianure spicca Il ritorno del viaggiatore, un aggregato
di note estemporanee in forma di diario redatto da un camminatore che vaga lungo
la pianura alla ricerca del paese della madre: «in treno nell'alba verso Polesella, ho
cominciato il viaggio alla ricerca del paese dove è nata mia madre senza saper bene
dove andavo».308 Per approccio percettivo, ritmo sintattico e stile Il ritorno del
viaggiatore prefigura il libro successivo, Verso la foce, una composizione di
impressioni e appunti messi insieme durante quattro viaggi attraverso la pianura
padana fra il 1983 e il 1986. Con buona probabilità Calvino ha presente anche i
primi materiali di Verso la foce quando descrive la “svolta” paesaggistica di Celati
nell'articolo citato. Ne è prova una affermazione di Celati del 1986, di poco
posteriore alla morte dell'amico: «Italo ha letto una parte di questo diario [il
307 I. Calvino, Da Buster Keaton a Peter Handke, in “L'espresso”, 30 giugno 1985, ora in M. Belpoliti e
M. Sironi (a cura di), Gianni Celati, Riga 28, Marcos y marcos, Milano 2008.
308 G. Celati, Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano 1985, p. 105. I riferimenti a quest'opera
saranno indicati con NP.

181
riferimento è ai materiali preparatori di Verso la foce], e credo l'abbia interessato.
Ma c'era anche in me la sensazione di dover andare avanti da solo per questa
strada. Questa strada consiste nella possibilità di riprendere contatto con un luogo
che ispira, e l'apertura della foce costituiva già un richiamo del genere». 309 Da
questa testimonianza traspare come l'interesse di Calvino si sia soffermato su una
«strada» poetica divergente, intrapresa in solitaria, come se Celati avesse deciso di
sperimentare una nuova linea poetica per allontanarsi dall'insegnamento
dell'amico.
La scelta di trovare un «contatto» con i luoghi, in verità, non è stata intrapresa in
completa solitudine. L'attenzione per i paesaggi padani è nata in occasione di una
collaborazione con Luigi Ghirri e un nutrito gruppo di fotografi che all'inizio degli
anni Ottanta errano fra le campagne padane alla ricerca di un nuovo sguardo sul
paesaggio, diverso sia dalle visioni liberate dal «romanticismo turistico dei “bei
paesaggi”» che dalle «mitologie della documentazione sociale». 310 Nel 1984 esce il
catalogo Viaggio in Italia che presenta foto, fra gli altri, di Ghirri e Basilico, nonché
la prima stesura di Verso la foce. L'allontanamento di Celati da Calvino, iniziato nel
cuore degli anni Settanta con il fallimento del progetto di rivista, giunge forse a
maturazione proprio in occasione delle erranze padane.
Cosa intende Calvino per «rovesciamento dell'interno sull'esterno»? Per averne
contezza è necessario richiamare il movimento inverso: l'accesso delle forme del
mondo esterno entro una coscienza soggettiva interiore e individuale. Si tratta di
una impostazione poetica e conoscitiva cara a Calvino e affermata già nel racconto
cosmicomico La spirale e poi ribadita ne La spada del sole, la terza avventura
marittima del signor Palomar. Secondo il mollusco primordiale Qfwfq le immagini
esterne degli enti precedono la percezione ottica: «l'importante era costruire delle
immagini visuali, e poi gli occhi sarebbero venuti di conseguenza». Una
conclusione simile è ipotizzata dal signor Palomar durante le sue riflessioni sul
valore di esistenza da attribuire al riflesso marino del sole: «si è convinto che la
spada esisterà anche senza di lui: finalmente s'asciuga con un telo di spugna e torna
309 G. Celati in B. Cottafavi e M. Magri (a cura di), Narratori dell'invisibile. Simposio in onore di Italo
Calvino, Palazzo Ducale, 21-23 febbraio 1986, Mucchi, Modena 1987, p. 166.
310 G. Celati, Viaggio in Italia con 20 fotografi, 20 anni dopo, in M. Belpoliti e M. Sironi (a cura di),
Gianni Celati, cit., p. 126.

182
a casa».311 Le immagini del mondo attendono nello spazio esterno, ma hanno
bisogno di uno sguardo senziente – un «congegno di cui il mondo dispone per
sapere se c'è» – per accedere alla riflessione autocosciente e interiore. Il movimento
delle immagini in Calvino è un rovesciamento dell'esterno sull'interno.
Una considerazione del personaggio camminante di Verso la foce sembra citare lo
scrittore ligure: «le cose sono là che navigano nella luce, escono dal vuoto per aver
luogo ai nostri occhi. Noi siamo implicati nel loro apparire e scomparire, quasi che
fossimo qui proprio per questo. Il mondo esterno ha bisogno che lo osserviamo e
raccontiamo, per avere esistenza».312 In verità è proprio la questione ontologica a
essere rovesciata: per Palomar la spada sussiste «anche senza di lui» e dunque la
percezione è la registrazione di ciò che esiste; per lo scrittore disperso nella
pianura, al contrario, l'esistenza dipende dalla percezione.
In un saggio dedicato alla figurazione degli spazi in letteratura – Collezione di spazi,
uscito su “il verri” nel 2003 – Celati si sofferma su due tipologie del rapporto fra
l'uomo e il mondo. La prima ha dominato «i tempi moderni» e comporta un «modo
astratto di comprensione dello spazio». È l'approccio di un soggetto che si astrae
dalle cose in una condizione di separazione: «il nostro senso di isolamento come
individui ha appunto questo aspetto: d'uno spazio vuoto che ci separa da tutto il
resto, d'una discontinuità tra il noi e il fuori di noi, tra noi e altri, tra l'altrove e il
qui dove siamo – incapsulati con i nostri pensieri di individui che si suppongono
autonomi da tutto il resto».313 La discontinuità fra il soggetto e le entità che
compongono il mondo determina lo spazio come dimensione dell'oggettività,
ovvero «ordine che viene prima d'ogni percezione, definito dalle cose che lo
occupano e dalle distanze misurabili tra i corpi». 314 La spazialità oggettiva
dell'esterno si proietta nella mente ordinatrice d'un soggetto distaccato: la mente è
un dispositivo che riflette o ricostruisce la forma dell'essere.
La seconda tipologia non prevede una distanza fra il corpo cosciente di sé e il
cosmo che gli sta attorno. Il soggetto è in balia delle apparenze e non concepisce

311 Per la discussione approfondita della questione si veda il secondo capitolo, paragrafo 3.
312G. Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989, p. 127. D'ora in poi il riferimento al testo sarà
indicato con VF.
313 G. Celati, Collezione di spazi, il verri, n. 21, gennaio 2003, p. 60.
314 Ibidem, p. 62.

183
più un «mondo esterno» indipendente dalla percezione. S'avanza così «un'idea
nuova e sconvolgente: che gli spazi esterni prendano forma nel pensiero di chi li
guarda, secondo come appaiono a chi li guarda, secondo lo stato d'animo di chi li
guarda; e che neppure esisterebbero come entità definite se nessuno li
guardasse».315 Si tratta di uno spazio che scaturisce dal «lancinante desiderio di
sciogliere la barriera che isola il soggetto da ciò che è fuori di lui» così da «far
parte» del mondo, e attraversarlo. Il «rovesciamento dall'interno sull'esterno»
evocato da Calvino non descrive un dualismo capovolto e dunque non va
interpretato come l'avvenuta conversione del paesaggio oggettivo in proiezione
sentimentale soggettiva. Al contrario il «rovesciamento» tende a eliminare la
frontiera fra soggetto e oggetto consentendo all'interiorità percettiva di uscire da sé
e di ritrovarsi a contatto diretto con l'aperto mondo fenomenico: «tutto è dentro
un'unica profondità animata, un'unica convulsione naturale, dove niente resta
fuori». Non vi è più una distanza fra il soggetto e il mondo, ma piuttosto prende
consistenza il sentimento d'una appartenenza affettiva allo spazio. Se «l'essere e
l'apparire [fanno] tutt'uno nella coscienza», ecco che «il soggetto va fuori di sé,
nello smarrimento o nel dolore; solo allora l'individuo si ritrova a essere quello che
è nello spazio, nel suo essere proprio: un animale esposto all'aria che tira». 316 Così
annota il camminatore di Verso la foce: «non si è mai estranei a niente di ciò che
accade intorno, e quando si è soli ancora meno. Il corpo è un organo per affondare
nell'esterno, come pietra, lichene, foglia». (VF, p. 97). 317 La vista non domina più
315 Ibidem, p. 64. Lo studio di Celati si conclude sulle sculture di Giacometti. L'artista svizzero s'è
soffermato in più occasioni sulla sua ossessione di scolpire ciò che appare agli occhi: «que je
travaille ou non, je ne vois qu'en apparence. Il n'y a a pas de distinction. À un tel point que le
paysage que je vois, les arbres que je vois en allant chez moi au café sont tous les jours un peu
différents […]. L'art, ce n'est qu'un moyen de voir». A. Giacometti, Écrits. Articles, notes et entretiens,
Hermann, Paris 2008, pp. 246-247.
316 G. Celati, Collezione di spazi, cit., p. 66.
317 In un intervento su “il verri” del 1976 Celati propone uno studio sui movimenti del corpo comico
nello spazio, distinguendo l'atto di mostrare dall'atto di afferrare. «Nel primo caso il mio corpo è il
mezzo espressivo d'un pensiero spaziale e di riconoscimento delle leggi oggettive d'uno spazio, nel
secondo caso è strumento di occupazione dello spazio». L'indicare crea uno spazio di virtualità e
distanza, l'afferrare invece stimola il contatto concreto con il mondo: «in ciò si può vedere anche un
modello di decifrazione non solo dei comportamenti comici, ma in genere dei comportamenti
espressivi (letteratura, teatro)». Per quanto riguarda il teatro l'atto di mostrare corrisponde alla
recitazione di un attore che indica «qualcosa a distanza» mentre lo spettatore rimane «lucido e
distaccato»; al contrario «il teatro nomadico, dalla commedia dell'arte al music hall, al burlesque o
vaudeville americano, e poi il teatro secondo Artaud, è tutta una faccenda basata su comportamenti
reali, non virtuali». Il narratore che s'aggira per le pianure è di conseguenza molto più in sintonia

184
sugli altri organi e le percezioni uditive e tattili impregnano l'esperienza dal
momento che «l'ultraspazio da cui giungono quegli echi, non è discontinuo rispetto
al soggetto, ma una sua continuazione, col tramite delle risonanze che arrivano ai
sensi».318
L'abbandono del sé ai fenomeni esterni comporta una variazione sostanziale
dell'ambizione conoscitiva affidata alla scrittura letteraria. In una raccolta di saggi
su Calvino e Celati – dal titolo significativo: Il geografo e il viaggiatore – Massimo
Rizzante ha confrontato le conseguenze epistemologiche dei due approcci e
sostiene che «il problema che ci si trova a rilevare è quello di una diversa filosofia
della descrizione». Celati propende per un atteggiamento perplesso e stupefatto di
fronte al mondo, disposto a «superare» il «deficit di ispirazione [della] cultura
razionalistica»319, mentre Calvino persegue una impostazione «capace di non
arrendersi al caos».320 Calvino accetta la sfida della complessità e inventa modelli
simbolici e paradigmi epistemici sempre più articolati e raffinati: «in Calvino infatti
si ha la sensazione che agisca una paura del vuoto a cui è necessario far fronte
mediante la creazione o meglio l'invenzione di griglie operative che si presentino a
soluzioni limite infinite». Al contrario «Celati non ritiene affatto indispensabile
dominare le discontinuità della Storia, costruendo opere letterarie simili a cristalli
per arbitrarietà di ordito e consequenzialità di comportamento deduttivo». 321 Poiché
l'opera non è più abitata dall'ambizione di resistere al disfacimento del cosmo
formulandone uno schema astratto, lo scrittore s'abbandona al divenire come
soggetto disattento a contatto con l'aperto mondo. In una tavola rotonda del 1986
tenuta a Sassuolo e dedicata a Calvino, Celati racconta dell'allontanamento
dall'amico:

il punto di distacco da cui sono partito (e direi con il suo


consenso), molti anni fa, sta proprio nel problema della
con un «uso del corpo come strumento di occupazione dello spazio», piuttosto che con un'attività
corporea fondata su «separazione e interpretazione a distanza dello spazio». G. Celati, Il corpo
comico nello spazio, in M. Belpoliti e M. Sironi (a cura di), Gianni Celati, cit., pp. 106-111.
318 G. Celati, Collezione di spazi, cit, p. 73.
319 M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore. Variazioni su I. Calvino e G. Celati, Metauro,
Fossombrone, 1993, p. 20.
320 Ibidem, p. 31.
321 Ibidem, p. 17.

185
consapevolezza e dell'incoscienza. Insomma sta nel fatto che per
tutta la cultura di sinistra uno dei più grossi spauracchi era quello
di certe parole, come “ispirazione”, “contemplazione”, etc. sempre
sinonimi di perdita di coscienza. […] Ma io credo che l'ispirazione
sia […] la possibilità di tirare il fiato. […] In Calvino c'era poi
sempre anche il problema, assillante, direi, di dove trovare
l'ispirazione, standosene chiuso in casa. […] Ecco dunque
qualcosa su cui sono venuto staccandomi da Calvino, e che io
direi il problema dell'effusione. Ecco che il mio testo è un tentativo
di avviarmi verso l'effusione, se così posso dire. L'effusione è
quella della madre verso il figlio. L'effusione è quella di Leopardi
verso la luna. […] La questione essenziale del mio abbandono, non
della via intrapresa da Calvino, ma di certi presupposti della
cultura che aveva alle spalle, sta qui.322

Celati, insiste Rizzante, lascia i «territori della consapevolezza» e si volge


«all'incoscienza, [a] ciò che altrimenti si può chiamare ispirazione o, se si vuole,
nudità»; ne risulta «un abbandono consapevole dell'io cogito a favore dell'io
sento»323, un congedo dalla discontinuità fra res cogitans ed extensa a favore di una
continuità affettiva. Lo spazio, quindi, è un «campo fenomenico» dove lo spettatore
è «gettato lì insieme alle cose» 324: «lo spazio non è più un'estensione precisamente
misurabile, con certe cose da piazzare di qua e di là per il suo arredo; diventa un
campo di affezioni, un campo magnetico da cui si resta affetti». 325 Annota il
viaggiatore sul suo diario: «poi l'impressione che in tutte queste strade e stradine
322 G. Celati in B. Cottafavi e M. Magri (a cura di), Narratori dell'invisibile. Simposio in onore di Italo
Calvino, cit., pp. 165-166.
323 M. Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit., p. 46.
324 Afferma lo scrittore vicino alla foce del Po: «il corpo è un organo per affondare nell'esterno,
come pietra, lichene, foglia». (VF, p. 97).
325 G. Celati, Collezione di spazi, cit., p. 81. Sostiene Rizzante in uno scritto più recente: «è una
scienza del “fiducioso ritrovarsi nelle cose”, del sollecito aprirsi a ciò che appare e che ci tocca e che
toccandoci ci permette di immaginare, di fantasticare (verbo caro a Celati), ovvero di raccontarci, di
farci domande (domande che producono altre immagini e fantasticazioni) sul nostro comune essere
qui, non tanto come individui in possesso di un sapere, quanto come esseri sofferenti e sensibili che
condividono con gli altri esseri la vita in cui tutto è collegato e animato. L'uomo, per Celati, è un
essere soprattutto “affettivo”, cioè mosso da “attrazioni”, “intensità”, “umori”, “estri” che cammina
nelle nebbie del presente: è, inoltre, affecté, ovvero naturalmente condizionato dall'orizzonte
esterno». M. Rizzante, Camminare nell'aperto incanto del sentito dire. Due riflessioni su Verso la foce
di Gianni Celati, in M. Belpoliti e M. Sironi (a cura di), Gianni Celati, cit., p. 305.

186
devianti, la numerazione delle case e la nominazione municipale delle strade
debbano essere arrivate come idee incomprensibili, in un luogo che va tenuto a
mente in altro modo: l'immaginazione del corpo che si muove in uno spazio
d'affezione» (VF, p. 39).326
Il soggetto dismette i panni del ragionatore intento a comprendere dall'alto le
ragioni del mondo e a classificarle in categorie: «tutto mi colpiva in quel campo di
calcio e non sapevo più cosa farne di me; bastava che guardassi qualcosa e
cominciavo a emozionarmi». (VF, p. 135). Nell'aperto della pianura 327 i ragionamenti
non descrivono il mondo, ma nascono a contatto con le cose, in situazione; non
possono essere controllati in vista di un fine progettuale, ma si lasciano andare in
una disattenta appartenenza effusiva alle cose: «noi non siamo padroni dei nostri
pensieri, semmai sono loro che accampano dei diritti su di noi secondo le situazioni
in cui sorgono; e poi diventano anche presuntuosi. Bisogna portarli a spasso questi
presuntuosi, che prendano aria». (VF, p. 61). Il paesaggio pertanto non è la forma
interiore di un ragionamento, non è un segmento di natura proiettata nel chiuso
della mente e nemmeno uno schema intellettuale grazie a cui ordinare il pensiero; il
paesaggio di Celati è il luogo concreto dove circolano tutt'intorno folate di vento,
elucubrazioni, fantasticherie, voci e rumori di passi. «Anche l'intimità che portiamo
con noi fa parte del paesaggio, il suo tono è dato dallo spazio che si apre là fuori ad
ogni occhiata; ed anche i pensieri sono fenomeni esterni in cui ci si imbatte, come
un taglio di luce su un muro, o l'ombra delle nuvole». (VF, p. 93). L'intimità come
parte del paesaggio è un rovesciamento dell'interno verso l'esterno.

326 Un «villaggio per ricchi svizzeri», poi, è tutto ripartito in «spazi identici e numerati, parcheggi
numerati per auto, moli numerati per imbarcazioni, baracche numerate per docce». Un «posto difeso
dall'incertezza lagunare con piloni di cemento e colate d'asfalto» (VF, p. 123).
327 Esistono dense note di Rilke sul paesaggio. Sono state scritte in occasione della sua
frequentazione con i pittori che dipinsero le campagne di Worpswede, non lontano da Brema. «Il
mondo è vasto», scrive Rilke rievocando Constable. I pittori non si stupiscono più dinanzi ai
«castelli» e ai «burroni» perché hanno scoperto la vastità laddove «i nostri padri passavano in
vetture chiuse, impazienti e tormentati dalla noia». Si tratta delle pianure: «noi viviamo sotto il
segno della pianura e del cielo. […] La pianura è il sentimento in cui cresciamo. Noi la
comprendiamo, ed essa ha per noi qualche cosa di esemplare: in essa tutto è significativo: il grande
arco dell'orizzonte, e le poche cose che si levano semplici ed essenziali davanti al cielo». R. M. Rilke,
Worpswede, in Id., Del paesaggio e altri scritti, Cederna, Milano 1949, pp. 49-51.

187
2. La poetica dell'empatia.

La «filosofia della descrizione» cagiona una poetica dell'osservazione. È soprattutto


lo sguardo di Luigi Ghirri, un «modo particolare di pensare-immaginare il mondo»,
a ispirare e orientare la scrittura di Celati negli anni Ottanta. Secondo Celati nelle
fotografie dell'amico s'annida un «pensare-immaginare l'esterno: è come la scoperta
che noi riusciamo stranamente a capire quello che succede all'esterno, perché il
nostro pensare è già all'esterno, già parte del mondo e dell'esistente. Qui non c'è più
un'interiorità che immagina il mondo come una cosa tutta diversa da sé». Il
pensiero-immaginazione del fotografo fa parte del cosmo circostante perché «siamo
già da sempre e per sempre nella rappresentazione». 328 La visione di Ghirri entra in
contatto con i luoghi grazie a un sentimento di adesione empatica al semplice
essere lì delle cose:

la revisione di un modo di guardare il paesaggio italiano doveva


tenere conto del fatto che non si dà mai percezione pura, non
esiste un'esperienza del vedere che non sia interpretazione di
quello che si vede, e non sia un movimento immaginativo basato
su leggi della simpatia. Usata così la fotografia diventa un mezzo
per creare degli atlanti, o alfabeti del vedere, o cataloghi di
abitudini percettive – dove tutto il visibile esterno non è più
qualcosa che esisterebbe di per sé anche se nessuno lo osservasse,
bensì è un “mondo osservato”, abitato e raccontato, con alfabeti
che sono anche i nostri. […] Tutto il capire e il conoscere non
hanno senso, se non sono mediati dalla simpatia e dalle proiezioni
empatiche.329

Le «carezze al mondo» di Ghirri risuonano inconfondibili in Verso la foce: «in


questi viali d'ingresso secondario ai paesi viene l'impressione di poter percepire,
grazie al silenzio diffuso, una simultaneità di gesti abituali ripetuti dagli abitanti

328 G. Celati, Finzioni a cui credere, in M. Sironi, Geografie del narrare. Insistenza sui luoghi di Luigi
Ghirri e Gianni Celati, Diabasis, Reggio Emilia 2004, p. 176.
329 G. Celati, Viaggio in Italia con 20 fotografi, 20 anni dopo, cit., p. 134.

188
d'un luogo; come entrare in casa d'altri e sentire un andamento benefico delle
abitudini». (VF, p. 56). Con la disposizione ad accogliere il «niente di speciale» di
usanze e pratiche inscritte nel paesaggio, le visioni evitano l'ansia e la velocità
dell'informazione per soffermarsi sulla vita d'ogni giorno: «qualche pescatore ha già
acceso la sua lampada a petrolio, dentro un cespuglio di salici c'è solo ombra
indistinta e la calma astratta di quest'ora del giorno». (VF, p. 98).
Nella campagna di Codigoro «c'è piuttosto il senso che le cose stiano così e basta, e
non ci sia una gran differenza tra quella ripetizione perpetua e lo spuntar d'arbusti
a caso lungo una strada». (VF, p. 95). La stessa aura si diffonde nelle descrizioni di
Celati e nelle immagini di Ghirri: «le cose sono rimaste lì sotto il cielo, pregne dei
loro colori, né belle né brutte, ma finalmente guardabili senza prevenzioni. Cos'è
quel bagliore all'orizzonte, visto attraverso lo scorcio d'una casetta scalcinata nei
campi? E quella casa geometrile immobile, squadrata in maniera standard, accanto
ad una vecchia chiesa anch'essa di scorcio? E cosa ci fanno in giro tutte queste
Madonne? Il paesaggio sembra una specie di magazzino delle rimanenze, dove tutto
continua ad avere un senso anche se non ha nessun uso». 330 Ghirri osserva gli
oggetti cogliendo «un modo di guardare già previsto, o guidato, dalla cosa che si
guarda», come se il mondo fosse pregno di atteggiamenti collettivi che riposano
nell'interno delle cose: «lui cerca di aderire al modo in cui le cose prevedono di
essere guardate, ma questo modo appartiene in qualche misura alle abitudini degli
abitanti d'un luogo. Diceva che non gli interessa certo smascherare l'ovvietà,
quanto piuttosto trovare comuni elementi affettivi. Del resto, aggiungo io, il mondo
osservato non è quello che appare attraverso il punto di vista d'un individuo
singolo. È quello che, prima di lui, è già comune alle varie osservazioni e
rappresentazioni, perché appartiene ad una forma di vita». 331 E la lezione del
fotografo si riflette in Verso la foce accompagnata da un sentimento di
smarrimento332 nel vasto: «gli unici paesaggi a cui si va incontro sono andamenti di

330 G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, cit.,
p. 185.
331 Ibidem, p. 186.
332 Il viandante spesso si sente spaesato e sembra ritrovare negli abitanti delle pianure una
condizione perduta: «Si conoscono e si salutano, si parlano da un capo all'altro della strada, si
chiamano dai bar. Non sembrano sentire questa necessità che abbiamo noi di spostarci sempre nel
grande spazio, tentando così (invano) di risolvere la nostra inadeguatezza alla vita. Questi abitano il

189
abitudini, circostanze secondo le ore, luci e colori e rumori che cambiano. Tutto
questo svanire da cui nascono i racconti, la nostra piccolezza dispersa vicino a un
fiume». (VF, p. 82). Andando alla ricerca di un equilibrio lo sguardo trova una
misura nel ritmo del mondo circostante: «nei momenti in cui riesco ad essere
calmo, la praticità dell'esterno mi colpisce sempre: niente mi sembra un movimento
a vuoto, tutto mi appare ingranato in un andamento cerimoniale che coinvolge ogni
aspetto del mondo, ogni ora e momento del giorno, ogni frase pronunciata secondo
le circostanze». (VF, pp. 120-121). Lo scrittore si ritrova nel luogo, disarmato
nell'ovvietà, senza l'impulso di dispiegare il ragionamento critico come attrito e
resistenza nei confronti del mondo.
«Sono qui alle foci del Po». (VF, 134), scrive il viandante. Il «qui» è indice 333 di una
scrittura che avviene in presenza del paesaggio: «per scrivere (per aver voglia di
scrivere, per scrivere senza l'obbligo editoriale di pubblicare un libro all'anno, ma
scrivere come una disciplina), ho necessità d'un punto d'innesto in qualche corpo
più vasto che può essere un popolo o un paesaggio, e insomma un insieme da cui
proviene la mia ispirazione».334 La composizione tende a rinunciare alla dimensione
individuale per entrare in sintonia con le cadenze dei luoghi vissuti collettivamente.
È come se lo scrittore non cercasse più un distacco critico e non opponesse più
«resistenza al tempo che passa», ma cercasse il punto dove la sua interiorità possa
toccare empaticamente il flusso di eventi quotidiani. Alla luce di questi presupposti
sarebbe impossibile scrivere al chiuso della propria stanza protetti dalle pareti e

luogo, il piccolo spazio, e non sono dei domiciliati che potrebbero essere dovunque, come noi che
non abbiamo un luogo d'appartenenza: si vede da come si muovono per strada». (VF, p. 64).
333 Nella tavola rotonda di Sassuolo Celati menziona l'uso deittico della lingua. Il “qui” dello
scrivere testimonia dell'inevitabile implicazione del soggetto nel mondo e nella discussione che “ora”
sta avvenendo; in altri termini ogni deittico rimanda all'immersione del parlante nell'ovvietà del
quotidiano e delle circostanze. Tuttavia Calvino era «una persona che si negava all'ovvietà»
cercando di «sfuggirla guardandola dall'alto, e scomponendola in discontinuità, per mezzo della
formalizzazione». Da qui deriva la genesi di uno spazio della scrittura a distanza dal mondo, e
astratto. Nelle riflessioni di Celati sull'uso dei deittici si celano le opposte ragioni linguistiche di
Verso la foce: «ciò che distingue le lingue naturali dagli altri linguaggi sono i deittici, e i deittici
servono a dirci che noi in questo momento stiamo compiendo l'operazione di riconoscere quelle
forme per cui siamo predisposti. In ogni tipo di interazione noi non facciamo altro che segnalare il
fatto che siamo lì che parliamo, e che sappiamo parlare e riconoscere le forme del linguaggio. Cioè
non facciamo che citare la nostra appartenenza a un terreno comune, quello del parlare, dei legami
verbali e del sentito dire delle parole in cui siamo immersi». G. Celati in B. Cottafavi e M. Magri (a
cura di), Narratori dell'invisibile. Simposio in onore di Italo Calvino, cit., p. 147.
334 Ibidem, p. 166.

190
dalla biblioteca: «quando viaggiavo a piedi per scrivere i diari di Verso la foce, –
racconta Celati in un'intervista – mi sono accorto che c'è una differenza tra
prendere appunti sul momento e sul posto in cui sei, e scriverne a distanza. Quando
scrivi a distanza sei già nella generalità dei discorsi, e tutto prende un aspetto di
completezza del pensiero. Perché a distanza si fa avanti una teoria delle cose che
hai visto, e una teoria tende a colmare i buchi, a sostituire le interrogazioni con
delle risposte. Invece se scrivi per dar conto di quello che vedi e senti sul momento,
non capisci molto, ma le scene hanno ancora il senso d'un limite nella tua
osservazione».335 Il contrasto con Calvino emerge evidente. Per Calvino chi scrive, e
in generale chi comunica in forma simbolica, non può sopprimere la discontinuità
fra il mondo e la pagina, come non può annullare lo scarto fra l'interiorità del
pensiero e lo spazio aperto degli enti naturali. Lo scrittore-cartografo è rinchiuso
nelle stanze della sua mente, eremita consapevole di proiettare su una superficie la
veste luminosa delle cose riflesse nella coscienza. Per il camminatore, invece, gli
avvenimenti sono visitazioni sulla soglia dell'aperto mondo. A volte la scrittura
trattiene le tracce dell'occasione momentanea: «qui sulla riva pioppi cipressini,
pozze di fango, piccole mosche che vengono a posarsi sulle mie dita mentre scrivo»
(VF, p. 70). Il tempo della fabulazione oscilla fra il passato prossimo degli
accadimenti recenti e il presente della registrazione immediata: «adesso bambini in
bicicletta fanno percorsi circolari attorno a me, guardandomi scrivere con la coda
dell'occhio. Li ho salutati ma non hanno risposto, per timidezza scappano via.» (VF,
p. 96). È una temporalità in trasformazione che si concentra e si distende fra
l'adesso e il poco fa: «sempre qui che aspetto nel bar sotto il portico, il mio
compagno di viaggio non si vede. Giovanotti nel bar mi occhieggiavano e
parlottavano, mentre stavo scrivendo; passandomi vicino mi hanno squadrato come
un animale strano (perché scrivevo?), e li ho salutati». (VF, p. 109).
La rinuncia a un atteggiamento critico e distaccato induce all'abbandono graduale

335 G. Celati, Qualche idea suoi luoghi e sul lavoro con Luigi Ghirri. Intervista con Marco Sironi, in M.
Sironi, Geografie del narrare, cit., p. 221. In un'intervista del 1998 Celati rievoca l'esperienza di Verso
la foce e si sofferma sulla scrittura a contatto con il paesaggio: «è un modo di scrivere che parte dal
momento presente, dal luogo dove sei. E ti scarica molto la testa da un'idea di onnipotenza del
pensiero che viene quando lavori a casa, ben protetto dalle tue mura, con tutto stabilito e
programmato.» G. Celati, All'altezza del simulacro, Inchiesta letteratura, gennaio-marzo 1998, p. 78.

191
di sé: «da un'ora cammino in mezzo ai campi, ho seguito un canale che nella mia
cartina militare si chiama Canale Leone. Non passa mai nessuno, non so di preciso
dove sto andando, con la bussola mi oriento all'incirca verso est». (VF, p. 90). Poi,
lungo le foci del Po, il viaggiatore si libera della bussola («su un siepe ho lasciato la
mia piccola bussola») e della mappa («sono arrivato fino al traliccio dell'alta
tensione, dove ho abbandonato le mie cartine militari»). Così l'uomo resta «esposto
alla forma nuda dell'essere», in balia d'uno «spazio sempre più spalancato della
pianura senza punti di riferimento» (VF, p. 82). Nella solitudine la sua voce può
rivolgersi al sé per chiedere e dare consiglio: «tu non sei mica il padrone d'una “più
giusta” visione del mondo, non sei padrone di niente, e non sei l'inespugnabile
fortezza su cui gli eventi non hanno presa. Sei esposto all'aria come le altre bestie, e
le tue parole sono quelle degli altri, emissioni di fiato». (VF, p. 18). Così la presenza
al mondo spesso può echeggiare d'un senso di fragile resa agli eventi: «qui è così
piatto che si è sempre esposti in qualsiasi punto all'orizzonte, non ci si può sottrarre
al funzionamento generale che là fuori continua sempre, come un fischio o una
lunghissima chiacchiera». (VF, pp. 136-137). E il disorientamento può indurre una
fatica nel passo, un affanno del respiro durante lo «sforzo fisico per proseguire»,
quando «ogni momento in avanti è spazio vuoto, tempo vuoto da colmare. Almeno
non ci fossero tutti quei cartelli pubblicitari, un numero sconfinato di parole che mi
dà la depressione». (VF, p. 37). Il contatto con il mondo non suggerisce solo la
contemplazione di uno spazio in stato di quiete ma può incutere un senso di
smarrimento in un paesaggio soffocato dalle industrie e dai gas di scarico: «in
fondo là fuori non c'è niente di speciale da vedere o registrare, c'è solo tempo che
passa. Lo spazio è una specie di grande galera dove si sta ad aspettare qualcosa:
nessuno sa cosa, ci si fa delle idee in una nebulosa di gas depressivo. […] Non avrai
più luogo d'appartenenza» (VF, p. 77). Il paesaggio post-industriale appare, a volte,
come uno spazio non più abitabile dove domina uno sradicamento generale dei
costumi e dei ricordi, origine d'un «potenziale depressivo là fuori» (VF, p. 75).
Emerge allora il timore della perdita inesorabile dei luoghi e delle forme di vita:
«tutti i luoghi faranno la stessa fine, diventeranno solo astrazioni segnaletiche o
progetti tecnici di esperti. Da queste parti creeranno un grande parco turistico, e i

192
turisti verranno in pullman a vedere non so cosa, relitti di vecchie tristezze, cartelli
propagandistici, luoghi che non sono più luoghi». (VF, 132).
Eppure la sensazione stimolata dal «gas depressivo» è un momento necessario per
riconoscere la possibilità di «grazia»: l'immaginazione è feconda a patto di saper
vedere il disastro, senza camuffarlo con il maquillage dello spettacolo e con i
«surrogati rappresentativi». È come se ogni presenza di sé al mondo scaturisse da
un iniziale spaesamento, o estraneità. 336 «[Il deserto] è un emblema non solo della
nostra miseria epocale, ma anche dell'enorme sforzo immaginativo che è richiesto
da ogni attraversamento dello spazio, del vuoto, del deserto. Perché nel vuoto che ci
avvolge, miseria e immaginazione si riconoscono e si danno la mano, non si negano
a vicenda: e avremo allora deserti che sono immagini di pienezza, la grazia della
piccola oasi sullo sfondo di sabbia fino all'orizzonte […].» 337 La tensione poetica è
misurata sulla desolazione del nostro tempo e si effonde nella discesa fra terre
guaste e terrains vagues alla ricerca d'uno stimolo immaginativo. 338 Sussiste ancora
la speranza di incantare il mondo con l'immaginazione: «l'immobilità dell'acqua e il
silenzio completo fanno immaginare un'infinità di movimenti invisibili che si
ripetono senza sosta, sotto le alghe, dentro i cespugli, sotto i sassi, e anche
sottoterra». (VF, p. 133). Ha affermato lo scrittore in una discussione recente:
«Verso la foce mi ha tenuto impegnato per anni nel lavoro di scrivere e riscrivere gli
appunti. Perché quei luoghi, quei paesaggi desolati, abbandonati dalla gioventù,

336 Celati chiarisce questa tensione fra straniamento ed appartenenza nella conversazione già citata
con Sironi: «non credo si possa partire dal sentimento di appartenenza ai luoghi, come se fosse un
fondamento sicuro. Io direi che per capire un po' questa faccenda dell'abitare i luoghi, occorre
straniare quello che vedi, quello che credi di vedere, fino a percepire con gli occhi d'un estraneo o
d'un alieno. È proprio nel momento di massima disambientazione, o straniamento, che ti accorgi di
tutto questo pullulare di apparenze, di fenomeni, che popolano l'esteriorità. Te ne accorgi quando sei
sbandato, quando non c'è più un tuo territorio di appartenenza, quando non puoi più quasi dire che
qualcosa è tuo». G. Celati, Qualche idea suoi luoghi e sul lavoro con Luigi Ghirri. Intervista con Marco
Sironi, in M. Sironi, Geografie del narrare, cit., p. 228.
337 G. Celati, Traversate del deserto, in Id., Conversazioni del vento volatore, Quodlibet, Macerata
2011, p. 14. Nel deserto padano si distinguono parvenze abbandonate a loro stesse, e disabitate: «in
questo viaggio per le campagne abbiamo visto un abbandono generale del mondo esterno: aggregati
di case in cemento con l'aria d'essere appena sorte e subito abbandonate, fattorie dove non si
riconoscono forme di vita, cave di sabbia anch'esse deserte, recinti di roulottes in mezzo ai prati,
tralicci dell'alta tensione con fili che pendono su lunghissime distanze. Il vuoto è riempito da nomi
di località inesistenti, non luoghi ma solo nomi messi sui cartelli stradali da qualche
amministrazione dello spazio esterno». (VF, p. 81).
338 «Bisogna sempre riuscire a immaginare quello che c'è la fuori, altrimenti non si potrebbe fare un
solo passo». (VF, p. 92).

193
chiedevano un lavoro extra delle parole, per segnalare che anche lì c'era un
incantamento.»339 Anche Rizzante nota che «sempre di più, leggendo e rileggendo
Celati, ci si accorge che il suo riannodare i fili di un'esperienza dispersa attraverso
un racconto, sottintende un'estetica del reincanto, una volontà di riappropriazione
della comunicabilità delle esperienze vissute. Un atteggiamento da “riserva”
nell'epoca del disincanto».340 Anche le villette geometrili che si ripetono in greve
uniformità possono essere carezzate da uno sguardo in sognante abbandono: «le
case non sembrano case, piuttosto dimostrazioni di un'idea di casa, da opporre
all'orizzonte pesantissimo pieno di camion e maiali. Sono attratto da queste casette
incantate per qualcosa che non so spiegare, una sospensione, un dismemorarsi di
tutto che mi viene in gola». (VF, p. 30). 341 È «una festa dell'apparire delle cose» (VF,
p. 95), perché «le ere mitiche sono là, nel paesaggio, nelle strade e canali che
attraversano i territori, e in tutto questo uso del mondo che si fa dovunque». (VF, p.
100). Solo chi attraversa le distese di vuoto può rimirare l'apparire d'una fata
morgana. Dunque il deserto e la silhouette di un'oasi sono immagini della medesima
natura, esiti materiali della percezione paesaggistica. In un saggio più recente
Rizzante ribadisce che per Celati «non esiste una vera separazione tra mondo
immaginato e mondo reale».342
Il distacco fra soggettività e oggettività, invece, origina una poetica opposta,
intonata sul disincanto e ordinata in visioni distinte ed esatte. In Collezione di spazi
Celati intende dimostrare come la concezione di uno spazio assoluto e misurabile
s'intreccia con la tradizione rappresentativa della scienza moderna. Lo spazio della
fisica newtoniana già «era la concezione d'un ordine, era una filosofia e un
principio descrittivo, era lo spazio trigonometrico cartesiano, era quello della
geometria proiettiva, ed era la visione dello spazio pittorico nel classicismo». 343 In
339 G. Celati, Letteratura come accumulo di roba sparsa, trovata per strada o sognata di notte , in Id.,
Conversazioni del vento volatore, cit., p. 130.
340 Rizzante, Il geografo e il viaggiatore, cit.,. 34.
341 La “fantasticanza” di Celati è un abbandonarsi alle parvenze così da percepire un mondo abitato
da divinità del luogo e figure peregrine: «dove c'era più buio al centro del fiume, su una passerella
che sembrava isolata, accucciata a pelo d'acqua ci è parso di vedere una figura con cappuccio in
testa. Ci è parso di vederla là immobile per un bel pezzo sotto la pioggia. Ho pensato ad un pazzo
che ascoltava gli oracoli del fiume». (VF, p. 60).
342 M. Rizzante, Camminare nell'aperto incanto del sentito dire. Due riflessioni su Verso la foce di
Gianni Celati, in M. Belpoliti e M. Sironi (a cura di), Gianni Celati, cit., p. 307.
343 G. Celati, Collezione di spazi, cit., p. 60.

194
questo senso il mondo “fuori di noi” si risolve in una superficie oggettiva e piana,
ammantata da un velo di impersonalità su cui si dispongono monti, alberi e uomini:
«ogni veduta è come se non fosse vista da nessuno in particolare, cioè corrisponde
a un impersonale “qui si vede questo”, un'immagine del mondo visto da un Dio
geometra».344 La veduta frontale del “qui si vede questo” è ben espressa, secondo
Celati, dal paesaggio che apre I promessi sposi: «attraverso le snodature sintattiche,
il brano ci guida dalla lontananza dell'orizzonte alla vicinanza delle linee in primo
piano. Non c'è niente che ci confonda; tutto si risolve in una limpida proiezione di
linee che convergono verso un punto preciso: “il punto in cui il lago cessa e l'Adda
ricomincia...”». Il paesaggio è «fissato nella luce ideale del vedere a distanza» di un
narratore estraneo alla scena, e così «il panorama spunta là davanti a noi, […] come
una veduta impersonale». Lo spazio del “qui si vede questo” è uniforme, procede
all'infinito verso il punto di fuga e segue un proporzionale digradare delle distanze,
secondo lo stesso schema messo a punto da «quei disegnatori che tracciavano le
linee seguendo le scansioni ortogonali su un vetro». 345 Tutti gli oggetti sono colti in
stato di immobilità, visioni esatte e commisurate alla superficie nitida della
rappresentazione.
Lo spazio fenomenico e affettivo, invece, suggerisce una «profondità di campo»
dove «tutto appare come uno scintillante insieme di frantumi di apparenze, dal
vicino al lontano». Nella profondità di campo il mondo si rivela malleabile e
cangiante: «come il dentro dell'esistenza individuale sfuma nell'esterno, così sfuma
la fissità del lontano e del vicino».346 La relazione fra il soggetto e i fenomeni
istituisce una soglia percettiva dove ogni parvenza esiste in una costante
ridefinizione di rapporti, forme e colori. L'apparizione delle lontananze nell'attimo
della percezione dischiude la possibilità un nuovo incantamento: l'indefinito del
344 A Colorno lo scrittore di Verso la foce osserva la reggia dei duchi di Parma e intuisce la presenza
di un ordine che non è abitato dall'ossessione per la misurazione fissa: «Ore 12. La facciata della
reggia è in equilibrio tra due torrioni a campanile sui lati, e le statue dall'alto del cornicione
guardano giù come dèi dal cielo. Mi colpisce che la distanza tra le finestre sia dovunque irregolare,
non riconosco uno schema, però sento un ritmo che percorre tutta la facciata. Superbia di
un'eleganza che non ti mostra mai i suoi schemi, perché sa che la perfezione non deve essere
appariscente, e che il ritmo è qualcosa che spunta al di là d'una misura regolare. Niente di più
lontano dalla necessità di squadrare tutto con schemi riconoscibili e misure fisse, che dà forma alle
villette geometrili nelle campagne». (VF, p. 40).
345 G. Celati, Collezione di spazi, cit., p. 62.
346 Ibidem, p.66.

195
laggiù scatena la proliferazione delle «fantasticazioni». In Verso la foce lo scrittore
crede di vedere «la linea azzurra delle montagne», sebbene la gente del luogo
affermi che «qui nessuno ha mai visto le Alpi perché sono troppo lontane». Non
importa che cosa esiste in sé là fuori perché «probabilmente di qui nessuno ha mai
visto le Alpi, ma moltissimi devono averle immaginate come me. Anche
l'immaginazione fa parte del paesaggio». (VF, pp. 102-103). Nella commistione fra
l'apparenza incerta e la fantasticheria in stato di parziale incoscienza s'intravede la
possibilità di «smontare l'idea di uno spazio assoluto fuori di noi, l'idea di una
cosiddetta “realtà” assoluta».347
La rappresentazione assoluta dello spazio richiede una nominazione univoca e
precisa dell'esistente perché ciascun punto della proiezione piana è parte di un
sistema di coordinate: ad ogni intersezione corrisponde una sola, immobile entità.
Lo spazio assoluto funziona secondo la stessa logica della cartografia: «secondo la
mia cartina militare, un cordone di terra che si chiamava Argine dei Borgazzi
separava un tempo la grande Valle del Mezzano a ovest della Valle Pega a est». Ma
le pianure non corrispondono alle carte: «c'è solo acqua, e in mezzo alle valli
d'acqua striscie di fango e di piante palustri piene di uccelli, una delle quali si
chiamava Dosso Mondo Nuovo, un'altra Barena Zavalea, un'altra Dosso del Moro.
Nomi scomparsi assieme a tutto il resto che non conosco, e che immagino con le
parole». (VF, pp. 112-113). Alla logica della rappresentazione si contrappone una
poetica di richiami lanciati nello spazio, echi raccolti nella vastità, evocazioni: «le
parole non servono per rappresentare il mondo esterno con descrizioni più o meno
convincenti (come se il mondo fosse un oggetto naturale inerte, sempre uguale a sé
stesso). Le parole ci servono per chiamare le cose, per immaginarle, per distinguere
il loro uso, per figurarci la loro situazione e il loro tono affettivo». 348 Il poeta è un
ricettore349 attento al «richiamo dello spazio aperto» che «viene da tutto ciò che

347 G. Celati, Viaggio in Italia con 20 fotografi, 20 anni dopo, in M. Belpoliti e M. Sironi (a cura di),
Gianni Celati, Riga 28, cit., p. 128.
348 G. Celati, Qualche idea suoi luoghi e sul lavoro con Luigi Ghirri. Intervista con Marco Sironi, in M.
Sironi, Geografie del narrare, cit., p. 226.
349 Ancora in Collezione di spazi Celati afferma che «la natura non è un'immagine definita e
trasparente; è uno sfondo di fenomeni incontornabili, ma dove c'è qualcosa che risponde dallo
spazio; echi che producono la ricezione anomala della sinestesia: profumi, colori e suoni raccolti in
un'unica sensazione. Si direbbe che il ruolo del poeta o artista non sia più quello del creatore, ma
quello del ricettore». G. Celati, Collezione di spazi, cit., p. 73.

196
appare, cresce o spunta là fuori». (VF, p. 92). Verso la fine – quando ormai si è
vicini alla foce – lo scrittore avanza una considerazione sulle parole e sulle loro
«pretese»: «pretendono di regolare i conti con quello che succede là fuori, di
descriverlo e di definirlo», ma nel mondo tutto scorre confuso e poco ha a che
vedere con le analisi e le definizioni del linguaggio. «Il fiume qui sfocia in una
distesa senza limiti, i colori si mescolano da tutte le parti: come descrivere?» (VF, p.
134). In altri termini: come interpretare una lingua di richiami nel divenire, e non di
nomi dell'essere?

3. La scrittura dell'indefinito e del lontano.

Nella tavola rotonda di Sassuolo Celati si è soffermato sulle ragioni della


descrizione:

Più io cerco di descrivere un luogo più mi accorgo


dell'impossibilità di dirvi come è fatto il mondo. Ecco il risultato
d'una descrizione. Ma da questo impossibile lavoro di descrivere
l'esterno nasce una animazione del mondo, e questa è basata su
un piccolo indice muto, che proclama: “Là c'è”. Questa è la prima
fonte dell'ispirazione. “Là c'è” è il punto essenziale d'una
effusione. Oppure in una narrazione “Là c'era”. Tutta la questione
del visibile e dell'invisibile si colloca qui, ha a che fare con questa
minima indicazione delle possibilità dei deittici. “Là c'è” è già
l'animazione e la meraviglia di qualcosa che mi avvolge.350

350 G. Celati in B. Cottafavi e M. Magri (a cura di), Narratori dell'invisibile. Simposio in onore di Italo
Calvino, cit., p. 167. Celati è del tutto consapevole, e lo si vedrà nel seguito, dell'influenza di Leopardi
riguardo all'idea di un “laggiù” colto in presenza del paesaggio: «l’attrazione delle lontananze e lo
sguardo di chi osserva: sono i poli dell’illimitato e del finito, tra cui si situa ogni visione del sensibile,
non bloccata da astrazioni categoriche. La linea della prosa leopardiana si muove solo seguendo le
attrazioni dei pensieri vaganti, i richiami delle immagini che affiorano, gli umori teoretici e gli stati
di affezione. Non si può estrapolarne un precetto, una definizione fissa da smerciare senza problemi.
Qui ogni citazione corre il rischio dell’inconcludenza, della vaghezza, come un frammento vagante
che non appartiene a nessun sistema concluso. Allora trattando di Leopardi ci troviamo anche noi
nella stessa situazione della sua prosa, privi di protezione, e necessariamente mossi da attrazioni, da
intensità, umori ed estri del momento. Quello che conta alla fine non sono le mete a cui arriviamo,
ma il continuo transito attraverso gli stati di affezione che sorgono, come una mobilità eccitatoria
che è l’anima di questa scrittura, e di ogni modo di scrivere non ancora catturato dalle
“rappresentazioni del reale”». G. Celati, La linea leopardiana della prosa, in Zibaldoni e altre

197
Il «là c'è» è un cenno che libera l'ispirazione e scatena la scrittura, un punto
animato dotato di una misteriosa e vitale autonomia, una parvenza vaga che non
può essere immobilizzata, né definita con esattezza. Nel paesaggio le immagini
appaiono laggiù e scorrono via inafferrabili: «ho camminato tre giorni per
osservare qualcosa, ma già confuso quello che ho osservato, incerto quello che
pensavo, solo incertezza quello che verrà. […] Deperibilità svelta del cosiddetto
“mondo reale”, non si distingue bene da un miraggio. Per forza l'intelligenza arriva
sempre in ritardo: non lo capisce proprio tutto questo passare e perdersi
nell'incerto, la dimenticanza che dovunque ci avvolge e ci porta». (VF, p. 49). Così
sulla superficie dell'acqua non si possono tracciare confini, né afferrare porzioni
limitate di esistente: «come essere in mezzo al mare, non si scorgono i limiti delle
acque». (VF, p. 111).351 I territori fluviali hanno la stessa consistenza dei discorsi
umani: il linguaggio fluisce fra vaghi terreni d'instabilità, non rappresenta il mondo
ma ne imita il cangiamento. «Commento del mio compagno un po' intontito: “Wo
wird aus diesem Wasser Meer?”». (VF, p. 133). Il “wo” riguarda insieme – e non
separatamente – il mondo e il linguaggio: non si capisce dove il fiume divenga il
mare così come è un mistero dove “fiume” divenga “mare”. Rimane un continuum di
sfumature nel variare della luce del giorno: «nel lungo attraversamento di quella
laguna che si chiama Valle Ca' Zullian, la terra e l'acqua non hanno confini
riconoscibili, e nell'ultima estremità delle terre neanche il cielo si distingue bene
dall'acqua». (VF, p. 134).
Ruggieri, ufficiale delle acque, si arrabbiava perché «tutti [trattavano] il fiume
come un oggetto inanimato. E appena poteva, spiegava a tutti che il corso del Po
cambia sempre (come il nostro corpo), a causa della forza centrifuga dell'acqua che
erode le sue sponde concave e dei materiali alluvionali che si depositano sulle
sponde convesse, così che ogni sua ansa è destinata a essere erosa dalla parte
interna, mentre la curva esterna a poco a poco è chiusa da un terrazzo fluviale, e i

meraviglie, http://www.zibaldoni.it/2003/02/28/la-linea-leopardiana-della-prosa/.
351 Il linguaggio non può che esitare in terra di mutamenti: «vicino alle coste frastagliate passa una
barca a motore, sfiorando cespugli di cannella palustre. Quei frastagliamenti sono terreni incerti, e
quanto si vede oggi l'anno prossimo sarà diverso, per alluvioni o mareggiate o bradisismi; quanto si
vede oggi è un'apparizione di grazia, in mezzo a centomila sprofondamenti». (VF, p.122).

198
meandri si raddrizzano e si riformano più a valle col movimento continuo d'una
biscia che avanza, rimodellando sempre la via delle acque fin dalla lontanissima era
del quaternario. Ma adesso che tutti lo prendevano per un oggetto inanimato, il
fiume stava lentamente impazzendo ed era diventato incomprensibile nei suoi
movimenti, anche per via dei due cordoni d'argini pensili quasi ininterrotti sulle sue
rive». (VF, p. 73). I nomi e le griglie della cartografia si riflettono sul territorio e
inducono la costruzione di argini per ridurre le variazioni; i richiami, al contrario,
sono emissioni di voci e di segnali alla ricerca di un'intesa con la vita del fiume.
Una topologia dell'indefinito coglie il mondo nel suo movimento imprevedibile,
campo plastico mai omogeneo dove si dispongono gli avvenimenti: «in treno verso
Cremona: molte industrie e campagne piattissime, qui, mentre il treno passa gli
alberi e i pali della luce sorprendono con la loro verticalità, saltando fuori
all'improvviso da tutta questa piattezza». (VF, p. 22). Allo sguardo immobile che
scruta da un'altura si sostituisce la percezione di un corpo in cammino attraverso le
pianure: «camminando la linea d'orizzonte ti dice sempre che tu sei disperso in un
punto qualsiasi della linea della terra, come le cose che si vedono in distanza.
Bisogna cercare un altro punto con cui fare asse, e immaginare che ci si arriverà
una volta o l'altra». (VF, p. 91). La scrittura, come la camminata, tenta di accordare i
movimenti del corpo con le variazioni del paesaggio; ad ogni passo e ad ogni
periodo lo sfondo dà l'impressione di scomporsi e ricomporsi in una nuova
parvenza. Così avviene lungo «la strada che da Tresigallo va a Jolanda di Savoia, un
rettifilo stretto costeggiato da platani. I campi di grano gialli, quelli di granoturco
ancora verdi, i solchi d'altre colture, hanno tutti linee dritte che sembrano
convergere in prospettiva verso lo stesso punto d'orizzonte, e quel punto si sposta
con me mentre cammino. Case e alberi e campanili che svettano, molto bassi sul
fondo, lontani e dispersi nello spazio». (VF, pp. 88-89). La sensazione della
lontananza scandisce il mutamento dei fenomeni.
La lontananza – a differenza della distanza – individua un rapporto qualitativo e
relazionale fra il corpo immerso nell'ambiente e le apparenze irraggiungibili che
fanno segno dall'orizzonte: «campanili lontani di quel tipo che chiamerei gotico-
lombardo, ma così lontani che fanno asse con me per un bel pezzo mentre

199
cammino, nello spazio immobile di quelle piatte campagne. Come se avanzassi di
pochi centimetri all'ora, formichina senz'ombra. Completa assenza di uccelli
nell'aria.» (VF, p. 27). L'uomo si sente via via sempre più piccolo mentre s'accresce
la vastità circostante, e così lo sguardo non si mantiene più stabile e sicuro: «a
perdita d'occhio lontano casette a colori splendenti, smeraldo, rosa, giallo uovo,
verde prato, sono visioni indistinte». (VF, p. 91). 352 Il senso del lontano sfugge
all'organizzazione percettiva frontale della prospettiva lineare perché non sussiste
più la mediazione della finestra come diaframma fra sé e il mondo. Fuori dalle
stanze della coscienza il soggetto è abbracciato dall'atmosfera che si dispone
«tutt'intorno»:

Superata una cava di sabbia che interrompeva la strada degli


argini. Alta costruzione meccanica con nastri di trasporto dove il
terriccio è stato lasciato lì, in mezzo ad una specie di brughiera
che copre l'argine. Anche i carrelli sono stati lasciati lì mezzi
pieni, e due coni di sabbia sono già coperti di erbe spontanee.
Tutt'intorno è un terreno vago, terra sconvolta da queste cave di
sabbia o di argilla, che poi abbandonata a sé stessa (come succede
sempre) diviene una specie di brughiera. (VF, p. 66).353

Poiché i sensi recepiscono gli stimoli simultaneamente, svanisce anche il privilegio

352 È come se il soggetto perdesse, insieme al controllo dello sguardo, il dominio sul mondo: «oltre
un ponte levatoio tra campi di grano a perdita d'occhio e orizzonti lontanissimi tagliati da barriere di
pioppi, linee dritte di pali della luce attraversano tutto lo spazio da orizzonte a orizzonte. Il cielo è
sereno e un trattore in mezzo alla strada sembra non farcela più». Lo smarrirsi dello sguardo nel
paesaggio è reiterato: «non ancora scomparso questo paesaggio, nella bella luce: linee di campi a
perdita d'occhio, di canali stretti e dritti tra gli argini, di strade con poco traffico in queste
campagne. E una qualità di cielo più fresca, grazie ai venti che circolano senza ostacoli». (VF, p. 126).
353 «Tutt'intorno piatto, campi a conca longitudinale, striscie di grano ancora verdi e lontani
canali». (VF, p. 28). Sul senso di circolarità si veda la conclusione di questo capitolo. L'apertura
dell'immagine al di là dei confini del suo riquadro è una disposizione a vedere vicina a quella di
Ghirri: «c'è un'idea particolare, elaborata da Ghirri, che spiega lo stile fotografico prevalente in quel
libro [Viaggio in Italia]. Secondo questa idea ghirriana, la cosa più importante d'una fotografia non è
ciò che sta dentro all'inquadratura fotografica, ma ciò che sta fuori: perché la fotografia non serve a
rappresentare il mondo, bensì come metro o misura del guardare quello che ci sta attorno nello
spazio». A. Capretti, Intervista a Gianni Celati, in N. Palmieri e P. Schwarz Lausten (a cura di), Il
comico come strategia in Gianni Celati & Co., Nuova Prosa, n. 59, Greco & Greco Editori, Milano
2012, p. 239. Si tratta di infrangere i limiti tabulari dell'immagine per cogliere fantasticando il
tutt'intorno: «guardare quel che è rimasto fuori dall'inquadratura, ossia per immaginare il mondo
com'è». G. Celati, Viaggio in Italia con 20 fotografi, 20 anni dopo, cit., p. 127.

200
della visibilità: «sull'altra sponda lontana si sente il canto del cuculo» (VF, p. 35); «lì
vicino un vecchio cimitero con lapidi tutte crollate, mentre sostavano tra le tombe
si sentiva il suono lontano d'una televisione». (VF, p. 66). Vi è come una tensione
fra la presenza d'una vicinanza e l'improvviso e irraggiungibile baluginio del “là
c'è”: «adesso un grande silenzio, il cielo è già rosso. Lontano oltre i campi coltivati,
il luccicare degli acquitrini». (VF, p. 139). A Pomponesco, città dallo stradario
rinascimentale, «là in fondo l'aperto si presenta dietro un orizzonte, facendo sentire
l'indistinta lontananza che dà un senso alla nostra collocazione spaziale». (VF, p.
46). Qui la lontananza accoglie la relazione fra il «laggiù» inattingibile e il «qui»
della presenza: la sua emergenza percettiva suggerisce una connessione instabile
fra il soggetto e lo sfondo circolare del mondo. Nell'orizzonte cangiante vibrano i
punti di riferimento mobili, segnali per non smarrirsi nel fluire del tempo e delle
cose. In questo senso la lontananza è uno spazio di mediazione dove le cose
appaiono e svaniscono trascinate dalla corrente del divenire – come è evidente a
Ferrara di fronte «al Trittico di Cosmé Tura nel museo del Duomo: nella parte
destra alle spalle della Vergine, ci sono quei vapori di distanza che mi fanno
pensare alla pittura cinese. Avevo nostalgia di questo modo di trattare la
lontananza, di guardare lo spazio che si spalanca sul fondo dove tutto svanisce: non
sguardo all'infinito, ma sguardo su ciò che svanisce». (VF, p. 78). Tutto, come lungo
il Po, ha un'origine nel qui e ora e poi scorre via fino alla foce: il lontano è una
flebile connessione fra il mondo dei vivi e quello dei morti.
L'immersione nel paesaggio e il contatto fra il soggetto e il mondo genera una
scrittura della lontananza e dell'indefinito. Celati rammenta l'origine di tale poetica:
«noi siamo guidati da ciò che ci chiama e capiamo solo quello; lo spazio che
accoglie le cose non possiamo capirlo se non confusamente. Idee che mi sono
portato in viaggio, ricavate da un pensiero di Leopardi (agosto 1821)». Le
esplorazioni di Celati suggeriscono di intraprendere ora una ricerca della
genealogia della lontananza.354
354 Lino Gabellone – saggista, scrittore e critico – collaborò con il gruppo di redattori di Alì Babà.
Un suo apologo – Quello che sta fermo e quello che cammina – è stato inserito da Celati nell'antologia
Narratori delle riserve. Si tratta di un testo complesso, dall'andamento onirico e immaginoso, e di
estremo interesse per questa ricerca. L'apologo racconta di due figure. «Uno sta fermo. Davanti a lui
un tavolo con gli oggetti usuali di chi ha a che fare con la scrittura, più lontano, forse tutt'intorno,
un giardino, fra lui e il giardino una finestra: i vetri non lavati rimandano immagini di mondo che

201
4. «In guisa che la vista non arrivi alla valle».

Nel 1816 è stampato a Roma un trattato sulla pittura di paesaggio, Precetti


elementari sulla pittura de' paesi, ad opera della nobile Marianna Candidi Dionigi. La
scrittrice e pittrice redige un compendio dettagliato delle tecniche pittoriche di
derivazione rinascimentale: «per ben disegnare adunque è necessario in primo
luogo avere presenti le leggi della prospettiva. […] La prospettiva è quella che
determina la misura degli oggetti, ne prescrive la forma e le proporzioni, ne mostra
la disposizione, ne assegna le distanze; essa è in una parola che colla sua magia fa
disparire per dir così la superficie piana della tela, e vi sostituisce boschi, fiumi,
colli, e pianure».355 La superficie piana è il «telaro della prospettiva», principio di
mediazione delle distanze: «i varj oggetti reali posti in diverse distanze dal punto in
cui si riguarda» vanno rappresentati tenendo conto del «situarsi del punto
dell'occhio», per il quale «si usa la regola di non fissarlo più prossimo di due
larghezze della fabbrica che si disegna, o di un'altezza e mezzo della medesima». 356
L'illusione di profondità suggerita dal piano comporta diversi accorgimenti tecnici,
fra cui il trattamento rettilineo dell'orizzonte: «sebbene la linea apparente anzidetta
sembrano vere. È come se le cose si fossero sistemate su cerchi concentrici e distanze diverse, e
stessero lì». Questo personaggio «fermo» in una posizione «nella quale tutto sembrava ormai
giocato» non assomiglia forse a Calvino, o a uno dei suoi narratori intradiegetici? L'uomo che sta
fermo sogna una seconda figura. Si tratta di un'ombra che cammina e lascia l'impressione «d'una
forma, d'un corpo, che si immerge nello spazio, avvolto nella nebbia, come per identificarsi con esso
ed essere puro spazio». Quest'uomo è nominato “quello che cammina”. Il camminatore considera le
parole «come depositi lasciati lì dal tempo nei luoghi dove erano nate: paesi, città, villaggi, rive,
fiumi». Poi l'uomo immobile comprende che il camminatore esplora i luoghi per scoprire le parole in
riposo nel paesaggio: «allora si è detto: questo deve essere il parlare del mondo!». Non vi si
identifica, ma coglie una analogia: «nel suo sforzo di riconoscere un fondo di mondo comune alle
sue parole e a quelle che gli venivano dal sogno, “quello che sta fermo” è arrivato a questa
conclusione, forse vana: qualunque modo di presenza è lì nella totalità delle cose e della natura, sia
esso uno star fermi o un camminare». (L. Gabellone, Quello che sta fermo e quello che cammina, in G.
Celati, Narratori delle riserve, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 139-142). Nelle due ombre immaginate da
Gabellone non si intravedono forse le figure di Italo Calvino e Gianni Celati, di Marco Polo e Kublai
Kan? Non è il loro un diverso rapporto con il paesaggio, eppure accomunato da un «fondo
comune»? Nel breve commento d'introduzione all'apologo scrive Celati: «il suo apologo parla di
cose che ci siamo detti e non detti, comunque scambiato attraverso gli anni. Da una parte c'è il
nostro problema di abitare un luogo, stare fermi, vedere la lontananza senza più nostalgia. Dall'altra
ci servono parole per trovare il senso della differenza e della lontananza – e per questo forse
scriviamo». Ibidem, p. 138.
355 M. Candidi Dionigi, Precetti elementari sulla pittura de' paesi, Stamperia De Romanis, Roma 1816,
p. 4.
356 Ibidem, pp. 13-14.

202
descriva un circolo, in qualunque siasi disegno converrà descrivere una retta,
poiché il nostr'occhio fisso a riguardare il determinato punto di vista, non può
comprenderne il giro».357 A partire dall'orizzonte l'occhio fisso in un punto
prestabilito può spostarsi fino al primo piano, e viceversa: «se il Cielo è sereno,
scorrerà l'occhio […] al più lontano orizzonte, ove la verde pianura suol terminare
con una distinta successione di monti. Il rosaceo terreno dà maggior distinzione alle
poche fabriche pavonazzette che da lontano si scorgono». 358 Il lontano è il limite di
un'immagine nitida, dai contorni netti, e lo sguardo non rischia mai di smarrirsi, né
di confondere le figure: il pittore deve «imitare la natura con esattezza nella sua
semplicità».359
In un passo dello Zibaldone (Zib., 189-190)360 Leopardi si sofferma
sull'«affettazione», «madre dell'uniformità» nella resa artistica. Uno stile affettato,
carico di convenzioni, è «falso» e soprattutto lascia «un senso di monotonia» e non
evoca alcun effetto di «naturalezza». Nel brano Leopardi critica le convenzioni
estetiche troppo marcate, di «maniera», perché palesano eccessivamente il loro
carattere artificiale, costruito. Conclude il poeta: «applicate queste osservaz. anche
alle arti, p. e. ai paesaggi fiamminghi paragonati a quelli del Canaletto veneziano (v.
la Dionigi Pittura de' Paesi), alle stampe di Alberto Duro, dove lo stento e
l'accuratezza manifesta del taglio dà un colore uguale e monotono alla più gran
varietà di oggetti imitati nel resto eccellentemente e variamente». Leopardi,
dunque, dimostra di aver letto il trattato di Candidi Dionigi 361 e di conoscere le
incisioni di Dürer, ma il suo orientamento estetico pare prediligere le immagini
dove è infranta la monotonia di una rappresentazione uniforme e ispirata ai
principi della geometria. Per comprendere meglio le riserve di Leopardi è il caso di

357 Ibidem, p. 7.
358 Ibidem, p. 95. Verso la fine del trattato compare anche la camera oscura, impiegata da Canaletto
per riportare sulla tela le linee del paesaggio accennate dall'immagine riflessa: «fissandosi in alcuno
de' suoi quadri si crede in una camera ottica. Egli non ha composto, ma per così dire ha portate le
più belle vedute di Venezia e della Brenta sui quadri, con artificio sorprendente». Ibidem, p. 136.
359 Ibidem, p. 103.
360 L'edizione dello Zibaldone consultata è: G. Leopardi, Zibaldone, a cura di R. Damiani, Mondadori,
Milano 1997. Nel testo i riferimenti a questa edizione saranno indicati con “Zib.” e il numero del
foglio corrispondente.
361 Leopardi incontra a Roma la nobildonna e il suo giudizio non è positivo: una «schifosissima,
sciocchissima, presuntuosissima vecchia». G. Leopardi, A Paolina Leopardi, [Roma], 19 marzo 1823,
in Id., Lettere, Mondadori, Milano 2006, p. 404.

203
ripercorrere alcune vie di senso interne alle note dello Zibaldone scritte
principalmente fra il 1820 e il 1821. Una teoria estetica, per quanto appena
accennata, emerge in stretta connessione alle riflessioni sul piacere e sulla natura
del desiderio.
Gli esseri viventi anelano a un godimento infinito e illimitato, ma l'esperienza
insegna che ogni piacere ha un limite ed è discontinuo nel tempo e nello spazio: «il
desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione […], la pena
dell'uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione».
(Zib., 169-170). Meglio, dunque, se i limiti si percepiscono confusi, un poco
indefiniti: «la malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così
dolci, perché immergono l'anima in un abisso di pensieri indeterminati de' quali
non sa vedere il fondo né i contorni». (Zib., 170). L'occhio deve dunque «spaziarsi
per quanto è possibile», indugiare su una «molteplicità di sensazioni» senza vedere
i «confini di ciascheduna»: l'indefinito, secondo Leopardi, è una sensazione
dilettevole grazie alla quale i viventi possono sopportare il doloroso paradosso di
un piacere infinito esperibile solo finitamente. L'indefinito, in quanto affezione
dell'animo, è indotto da sensazioni di ordine materiale, ha «cagioni» naturali
riscontrabili nell'esperienza. Tali sensazioni, a loro volta, possono essere destate
dalla poesia tramite determinate strategie della composizione, o effetti poetici.
Leopardi, in particolare, si sofferma sugli effetti di vastità, di varietà, di lontananza.
La vastità, innanzitutto, suggerisce una sensazione indistinta anche qualora i limiti
della scena siano discernibili: «sebbene i confini si vedano, e quanto ad essi non vi
sia indefinito, v'è però in questo, che lo spazio è così ampio che l'anima non
l'abbraccia, e vi si perde; e sebbene distingue gli estremi, non distingue però se non
confusamente lo spazio che corre tra loro. Come allorché vediamo una vasta
campagna, di cui pur da tutte le parti si scuopra l'orizzonte». (Zib., 1430). Lo
smarrimento nello spazio si accompagna a una percezione libera di muoversi
intorno, di vagare «da tutte le parti». L'occhio si perde perché non è ancorato a
punti fissi, né è costretto in riquadri: «una vasta e tutta uguale pianura, dove la luce
si spazi e diffonda senza diversità, né ostacolo; dove l'occhio si perda ec. è pure
piacevolissima, per l'idea indefinita in estensione, che deriva da tal veduta». (Zib.,

204
1746).362
Per contrastare la «monotonia» e l'omogeneità della rappresentazione, inoltre, la
scena deve essere varia: «nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e
dell'incertezza prevale a quello dell'apparente infinità, e dell'immensa uniformità».
Ma che cosa sono «l'apparente infinità» e «l'immensa uniformità» se non momenti
dello spazio infinito e omogeneo della prospettiva lineare? I precetti di Leopardi
sembrano esulare dalle tecniche della proiezione spaziale, scaturigini del nitore e
della definizione dell'immagine. La varietà permette all'occhio di divagare e di
seguire il libero turbinio degli elementi: «e quindi un cielo variamente sparso di
nuvoletti, è forse più piacevole di un cielo affatto puro […]. È piacevolissima
ancora, per le sopraddette cagioni la vista di una moltitudine innumerabile, come
delle stelle, o di persone ec. un moto molteplice, incerto, confuso, irregolare,
disordinato, un ondeggiamento vago ec. che l'animo non possa determinare, né
concepire definitamente e distintamente ec. come quello di una folla, o di un gran
numero di formiche, o del mare agitato ec.» (Zib., 1746-1747). 363
362 Sullo smarrimento nella natura un riferimento caro a Leopardi è il Rousseau de Les rêveries du
promeneur solitaire. Scrive il filosofo francese nella settima «promenade»: «plus un contemplateur a
l’âme sensible plus il se livre aux extases qu'excite en lui cet accord. Une rêverie douce et profonde
s'empare alors de ses sens, et il se perd avec une délicieuse ivresse dans l'immensité de ce beau
système avec lequel il se sent identifié. Alors tous les objets particuliers lui échappent; il ne voit et
ne sent rien que dans le tout». J.-J. Rousseau, Les rêveries du promeneur solitaire, Garnier-
Flammarion, Paris 1964, p. 126.
363 La riflessione sulla varia molteplicità della natura è l'eredità più importante che Calvino trae da
Leopardi. Come si è già osservato a proposito della scacchiera del Kublai Kan, l'infittirsi caotico
dell'esistente complica l'astrazione della griglia ed espone la superficie al variegato brulicare della
materia. Non è dunque un caso che Calvino citi nelle Lezioni americane il medesimo passo dello
Zibaldone (1746-1747). Calvino individua la fondamentale implicazione filosofica: «il problema che
Leopardi affronta è speculativo e metafisico […]: il rapporto tra l'idea d'infinito come spazio assoluto
e tempo assoluto, e la nostra cognizione empirica dello spazio e del tempo. Leopardi dunque parte dal
rigore astratto d'un'idea matematica di spazio e di tempo e la confronta con l'indefinito, vago fluttuare
delle sensazioni.» (I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 72). Quella del confronto serrato fra
l'astrazione matematica e il fluttuare dei sensi e della materia è, però, una via cercata da Calvino, e
poco ha a che vedere con la poetica leopardiana. Poco dopo lo scrittore ligure cita la scacchiera del
Kan e scrive di sé: «la mia scrittura si è trovata di fronte a due strade divergenti che corrispondono a
due diversi tipi di conoscenza: una che si muove nello spazio mentale d'una razionalità scorporata,
dove si possono tracciare linee che congiungono punti, proiezioni, forme astratte, vettori di forze;
l'altra che si muove in uno spazio gremito d'oggetti e cerca di creare un equivalente verbale di quello
spazio riempiendo la pagina di parole, con uno sforzo di adeguamento minuzioso dello scritto al non
scritto, alla totalità del dicibile e del non dicibile. Sono due diverse pulsioni all'esattezza che non
arriveranno mai alla soddisfazione assoluta». (Ibidem, p. 82). Calvino recupera la vaghezza di
Leopardi per complicare la scrittura formale ed astratta. Calvino, quindi, intende mettere alla prova
il modello deduttivo della griglia, ma senza abbandonarlo. In Leopardi, invece, la vaghezza del
molteplice contesta la legittimità dell'astrazione scientifica. Nella terza lezione americana di Calvino
l'astrazione e la varietà sono due strategie opposte ma appartenenti alla medesima «proposta»:

205
Sia la vastità che la varietà stimolano un effetto di vaghezza: «le sensazioni vaghe
ancorché derivino (come spesso) da oggetti materialmente piccolissimi, e compresi
bastantemente all'anima per piccoli, sono sempre vaste, in quanto essendo
indefinite non hanno termini; e le sensazioni vaste, ancorché gli oggetti che le
producono abbiano manifesti termini, sono sempre indefinite, in quanto l'anima
non arriva ad abbracciarle tutte intere». E così si conclude il pensiero: «tutto ciò
può applicarsi alle sensazioni prodotte dalla poesia, o dagli scrittori, ec. al lontano,
all'antico, al futuro, ec. ec.». (Zib., 2054). La lontananza trattiene un senso di
indefinita, sconfinata e varia vastità: «il poetico […] si trova sempre consistere nel
lontano, nell'indefinito, nel vago» (Zib., 4426). Scrive il primo agosto del 1821:

Circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il


mio idillio sull'infinito e richiamar l'idea di una campagna
arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non
arrivi alla valle; e quella di un filare d'alberi, la cui fine si perda di
vista, o per la lunghezza del filare, o perch'esso pure sia posto in
declivio ec. ec. ec. Una fabbrica una torre ec. veduta in modo che
ella paia innalzarsi sola sopra l'orizzonte, e questo non si veda,
produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e
l'indefinito ec. ec. ec. (Zib. 1430-1431).

È il passo a cui si riferisce Celati in Verso la foce. Come nei diari di viaggio padani la
lontananza coinvolge la visione e al contempo altre forme sensoriali: «una voce o
un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o echeggiante con
un'apparenza di vastità ec. ec. È piacevole p. il vago dell'idea ec.». (Zib., 4293). La
vaga lontananza sentita nell'ambiente s'origina da una relazione fra l'io e la natura
che è antitetica all'impostazione delle scienze: «dalla teoria del piacere esposta in
questi pensieri si comprende facilmente quanto e perché la matematica sia
contraria al piacere, e siccome la matematica, così tutte le cose che le rassomigliano
o appartengono, esattezza, secchezza, precisione, definizione, circoscrizione. […]
Perciò la matematica la quale misura quando il piacer nostro non vuol misura,

l'esattezza. Per un tale intento è difficile trovare in Leopardi un alleato.

206
definisce e circoscrive quando il piacere non vuol confini […], analizza, quando il
piacer nostro non vuole analisi né cognizione intima ed esatta della cosa piacevole
[…], la matematica, dico, dev'essere necessariamente l'opposto del piacere». (Zib.,
246-247) Il vago, quindi, si ispira a un'idea di natura irriducibile alla frantumazione
analitica, all'inquadramento e alla proiezione su un piano allestita secondo criteri
misurabili e oggettivi. I precetti estetici – come quelli formulati da Candidi Dionigi
– eredi dei trattati rinascimentali e permeati dall'influenza dei dibattiti sul metodo
scientifico sono l'esito di un manierismo affettato perché non colgono la
naturalezza piena e organica dell'esistente. La natura disposta e sezionata sul tavolo
anatomico, pertanto, è incompatibile con l'effetto poetico generale: «nulla di poetico
si scorge nelle sue parti [le sezioni analitiche tratte dalla natura], separandole l'una
dall'altra, ed esaminandole a una a una col semplice lume della ragione esatta e
geometrica». All'esattezza della scienza, esito di una percezione astratta dal mondo
della materia, si oppone un'immaginazione sensibile a diretto contatto con il
mondo: «la pura ragione e la matematica non hanno sensorio alcuno. Spetta
all'immaginazione e alla sensibilità lo scoprire e l'intendere tutte le sopraddette
cose; ed elle il possono, perocchè noi ne' quali risiedono esse facoltà, siamo pur
parte di questa natura e di questa università che esaminiamo […]». (Zib., 3241-
3242).
Siamo pur parte del cosmo che ci circonda, nonostante i tentativi di astrazione volti
a osservare l'esistente con oggettiva chiarezza. La «bellezza del discorso e della
poesia»364 fluisce dalla sensibilità di un soggetto immerso nel paesaggio, avvolto
dall'abbraccio materiale delle cose, piacevolmente attratto dall'indistinto apparire
delle forme. Così l'io poetico si volge da una parte e dall'altra, contempla i monti
364 Ancora lo Zibaldone, fogli 1234-1236: «l’analisi delle cose è la morte della bellezza o della
grandezza loro, e la morte della poesia. Così l’analisi delle idee, il risolverle nelle loro parti ed
elementi, e il presentare nude e isolate e senza veruno accompagnamento d’idee concomitanti, le
dette parti o elementi d’idee. Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste la differenza
ch’è tra la precisione, e la proprietà delle voci. […] Quindi la secchezza che risulta dall’uso de’
termini, i quali ci destano un’idea quanto più si possa scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove
la bellezza del discorso e della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra
mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso, indeterminato, incircoscritto. Il
che si ottiene colle parole proprie, ch’esprimono un’idea composta di molte parti, e legata con molte
idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole precise o co’ termini (sieno filosofici, politici,
diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture, arti ec. ec.) i quali esprimono un’idea più semplice e
nuda che si possa. Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e
proporzionatamente, colla bella letteratura».

207
lontani e si volge all'orizzonte marino. La natura, in Leopardi, non è osservata entro
un riquadro, né è proiettata su una griglia; la lontananza nel paesaggio dà origine a
un rapporto fra l'individuo e il mondo opposto al paradigma della distanza dal
paesaggio.365

5. Lontananza e «demonicità».

Gianni Carchia in un saggio sulla filosofia del paesaggio 366 propone alcune
riflessioni decisive a proposito della percezione della natura nella tradizione
occidentale. Il filosofo contesta la visione «di discendenza hegeliana o, a vario
titolo, storicistica» secondo cui «il paesaggio, in quanto dimensione estetica,
sarebbe invenzione della modernità». La critica si rivolge, soprattutto, alle tesi di
Simmel e di Ritter. Secondo la tradizione estetica tedesca del Novecento il
paesaggio è un momento del generale processo di frantumazione della natura,
365 Diderot forse scrive una pagina densa e illuminante a proposito delle diverse tipologie della
visione. In occasione dell'esposizione del 1765 presso l'Académie royale de peinture et de sculpture
Diderot pubblica i suoi Essais sur la peinture. Nel quarto capitolo – dopo aver dedicato i primi tre al
disegno, al colore e alle tecniche di chiaroscuro – l'autore si sofferma sulle forme della visione e
sulle tecniche di rappresentazione. Diderot distingue due categorie di «peintures». «L'une qui,
plaçant l’œil tout aussi près du tableau qu'il est possible, sans le priver de sa faculté de voir
distinctement, rend les objets dans tous le détails qu'il aperçoit à cette distance, et rend ces détails
avec autant de scrupule que le formes principales». La visibilità perfetta è possibile solo da una
distanza ottimale; tuttavia se lo spettatore si allontana i dettagli perdono definizione e il nitore del
quadro, via via, tende a disfarsi: «distance où tout est confondu». Basta avvicinarsi di nuovo al
quadro e «les formes commencent à peu à peu à se faire discerner, et successivement les détails à se
recouvrer, jusqu'à ce que l’œil replacé en son premier et moindre éloignement, il voit dans les objets
du tableau les variétés le plus légères et le plus minutieuses. Voilà la belle peinture, voilà la véritable
imitation de la nature». Il chiaro discernimento delle figure dipende dallo spazio che separa lo
sguardo dalla tela. Esiste un'altra «peinture», tuttavia, che non imita meno bene la natura: «elle
n'est, pour ainsi parler, imitatrice que dans un point; c'est celle où le peintre n'a rendu vivement et
fortement que les détails qu'il a aperçus dans les objets du point qu'il a choisi; au delà de ce point, on
ne voit plus rien; c'est pis encore en deçà. Son tableau n'est point un tableau; depuis sa toile jusqu'à
son point de vue on ne sait ce que c'est. Il ne faut pourtant pas blâmer ce genre de peinture; c'est
celui du fameux Rembrandt». ( D. Diderot, Essais sur la peinture, in Id., Œuvres esthétiques, Garnier,
Paris 1959, pp. 692-693). Gli oggetti non sono ben discernibili sul piano, si confondono perché il
pittore dà l'impressione di mettere a fuoco solo un particolare punto d'attenzione e di lasciare il
resto nell'indefinitezza; al di là del punto focale, inoltre, «non si vede più nulla» ed è assente un
criterio di proporzionalità spaziale che connetta gli spazi vicini con quelli più distanti. Se nel primo
caso lo spettatore può misurare con i passi la distanza dal quadro fino a trovare il rapporto corretto
per una visione netta e chiara, nel secondo la cornice e il piano della rappresentazione tendono quasi
a scomparire: il pittore dipinge come se osservasse un'immagine nell'attimo della apparizione sulla
retina, come se fosse immerso nell'ambiente.
366 Gianni Carchia, Per una filosofia del paesaggio, in «Quaderni di estetica e critica», 4-5, 1999-2000,
pp. 13-21. Il saggio è anche raccolto in AA. VV., Estetica e paesaggio, a cura di P. D'Angelo, Il Mulino,
Bologna 2009.

208
divenuta oggetto del controllo razionale di un soggetto sempre più distante.
Sebbene l'individuo moderno abbia smarrito una relazione diretta, immanente alla
natura e si sia emancipato dai legami che lo connettevano all'ambiente circostante,
egli può ritrovare nella contemplazione del paesaggio la corrispondenza perduta
con il cosmo. Lo sguardo seleziona e delimita una porzione di ambiente al cui
interno emerge un «nuovo insieme»: il paesaggio è un segmento del mondo – e in
questo senso appartiene al complessivo processo di disgregazione analitica – dove
le parti si ricompongono in una rinnovata unità. Secondo Simmel è la Stimmung –
l'umore sentimentale, il sentore dell'atmosfera che abita il luogo – a tenere insieme
gli elementi della configurazione paesaggistica: l'unità dell'immagine è l'effetto di
un atto psichico, è una proiezione sentimentale di un'affezione individuale. 367
Qualche decennio dopo Ritter recupera il lascito di Simmel e rivolge l'attenzione
alla funzione «compensativa» del paesaggio: nell'estetico, e solo nell'estetico, è
possibile ritrovare quel senso del tutto che l'epistemologia occidentale ha
abbandonato a favore dell'analisi scientifica e della razionalità utilitaria. 368
Secondo Carchia le teorie di area tedesca «hanno presupposto l'idea che la natura
sia stata definitivamente disincantata; sicché essa può ritornare al massimo come
figura di una coscienza storica»; hanno dunque obliterato una più profonda
concezione del paesaggio: «una lettura “proiettiva” [quella di Simmel] che in fondo
non ammette la possibilità di un confronto con la natura, a prescindere dalla storia,
non ammette cioè quella dimensione dell'alterità radicale della natura rispetto a noi,
che è il presupposto di ogni arte del paesaggio». A «un romanticismo di maniera»
Carchia contrappone il paesaggio percepito da un soggetto capace di «uscire da sé»
di abbandonare sé stesso in balia dei fenomeni, disposto a «provare sconcerto,
meraviglia, [a] vedere la natura come un'intenzionalità che non è diretta al nostro
servizio, come una finalità senza fine». Il paesaggio, quindi, cela «un mistero»,
presenta in sé sempre qualcosa di «invisibile»: la natura stimola una percezione

367 Per una più attenta disamina della Filosofia del paesaggio di Simmel si veda il secondo capitolo,
paragrafo 1.
368 Per il saggio di Simmel si fa riferimento alla versione contenuta nell'antologia di Paolo
D'Angelo: Filosofia del paesaggio, in P. D'Angelo, Estetica e paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009, pp.
39-51. Per la teoria della compensazione si veda J. Ritter, Paesaggio. La funzione dell'estetico nella
società moderna, in P. D'Angelo, Estetica e paesaggio, cit., pp. 65-83.

209
incerta dovuta a «una estraneità, una lontananza». Ma tale lontananza è al
contempo qualcosa di vicino, direttamente a contatto con il corpo: «insieme, nello
stesso tempo, [avvertiamo] il sentimento che questo estraneo è ciò che ci è
massimamente proprio, che questa lontananza è ciò che è massimamente interiore.
Ecco, insomma, il sentimento di un non-umano come di ciò che è più vicino alla
nostra essenza». Il non-umano è presente nell'hic et nunc del paesaggio, indice di
una natura abitata: «non c'è paesaggio che non sia accompagnato dalla
consapevolezza della sua demonicità». I riferimenti di Carchia, oltre all'estetica
kantiana, rimandano alla poesia di Rilke 369 e alla pittura di Carus, al Fedro platonico:
«ciò che conta è la presenza dell'invisibile, data nel silenzio, nel presagio,
nell'accenno, ciò che fa sì che il paesaggio si associ, non già alla storia, ma al mito,
non alla presenza – sia pur passata – dell'uomo, ma a quella nascosta, ma proprio
perciò tanto più evidente, del divino […]. Proprio all'interno della modernità, la
poesia dell'illusione eroica ha sempre colto questa non umanità, questa demonicità
del paesaggio. In Leopardi, questo tema si offre in tutta una serie di variazioni sul
tema della lontananza». Ecco che verso la fine del breve saggio compare una
citazione dallo Zibaldone: «circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi
vedere il mio idillio sull'infinito...». È ancora il medesimo pensiero dell'agosto 1821
citato in Verso la foce: «Leopardi evoca – sostiene Carchia – come spazio estetico
entro cui si dischiude la possibilità del paesaggio […] il contrasto tra il visibile e
l'invisibile: si dà un rinvio del visibile a qualcosa che non dominiamo. Qualcosa che
ci sfugge; si dà dunque un'umiliazione della sensibilità che urta nei limiti del
fenomenico». Carchia, come Leopardi, coglie nella lontananza – smarrimento dello
sguardo nell'invisibile e nell'alterità enigmatica – una possibilità percettiva

369 Anche Rilke, erede dell'estetica romantica, si sofferma sull'enigmaticità misteriosa immanente al
paesaggio: «il paesaggio ci è estraneo, e terribilmente solo è l'uomo in mezzo agli alberi che
fioriscono e ai ruscelli che scorrono: soli con un morto, non si è alla lunga così abbandonati come
soli con degli alberi. Per quanto grande possa essere il mistero della morte, ancora più grande è il
mistero della vita che non è la nostra vita, che non partecipa alla nostra e che, come ignorandoci,
celebra feste alle quali noi guardiamo con un certo imbarazzo, come ospiti sopravvenuti per caso e
che si esprimono con una lingua diversa». R. M. Rilke, Worpswede, in Id., Del paesaggio e altri scritti,
cit., pp. 36-37. E poco più avanti Rilke prosegue così: «[la natura] non sa nulla di noi. Per quanto gli
uomini possano avere conquistato, nessuno è stato mai tanto grande da far sì che la natura
partecipasse al suo dolore, si accordasse alla sua gioia. […] L'uomo comune, che vive in mezzo ai
suoi simili e vede della natura solo quel tanto che lo riguarda, raramente si accorge di questo
enigmatico e inquietante rapporto». Ibidem, p. 38.

210
alternativa alla proiezione a distanza.
Ma qual è il significato del mistero e della presenza demonica nella filosofia di
Carchia? L'intervento citato è l'unico luogo in cui lo studioso interroga il
paesaggio370 e si può ipotizzare che il sentimento della natura sia parte di una
riflessione più ampia. Un orizzonte d'interesse più vasto appare in Estetica ed
erotica, saggio del 1981 dedicato allo statuto dell'immaginazione nell'estetica
occidentale. A partire dalla prima edizione della Critica della ragion pura e dalle
considerazioni contenute nella Critica del giudizio, Carchia – sulla scorta delle
interpretazioni successive di Schopenauer e Heidegger – individua
nell'immaginazione kantiana una «radicale originarietà», esito di una «sintesi pura
e neutra»: l'immaginazione sarebbe una «terra di nessuno», ovvero la matrice
trascendentale «senza immagini» da cui ogni immagine procede, nonché luogo
d'intersezione fra intellezione e sensibilità. 371 L'immaginazione trascendentale
dischiude, secondo Carchia, la possibilità di recuperare la mediazione fra astrazione
e concretezza che la cultura occidentale ha dimenticato ed espunto dai suoi sistemi
di pensiero. L'immaginazione è dunque una soglia dove idea e materia s'incontrano:
«l'immaginazione è il neutro impronunciabile dove l'elemento realistico naturale, se
pensato fino in fondo, trapassa per miracolo nel suo opposto». 372 La tradizione
occidentale ha risolto la tensione immaginativa riconducendola al dualismo fra
spirito e materia: o l'immaginario si risolve in «alta fantasia» (ed è lo «spiritus
phantasticus» che la divinità «ditta dentro»), oppure è inteso come facoltà
psicologica naturale responsabile della produzione di apparenze fantasmatiche.
Così «la mancanza di una sua [dell'immaginazione] autonomia e realtà ontologica –
insiste Carchia – emblematizzata dall'assenza di una connessione con il mondo
angelico-trascendentale, determinante invece nella tradizione orientale, trova il suo

370 L'affermazione non è del tutto esatta. Esiste un altro, breve, riferimento al paesaggio nelle
pagine sull'estetica stoica: «il paesaggio è, in ambito pittorico, la dimensione privilegiata di questo
incontro fra il contingente e l'eterno: luogo ideale di quell'incrocio fra contemplazione ed azione che
definisce lo spazio rappresentativo stoico. C'è un'aniconicità dell'oggetto rappresentativo che si
determina nel paesaggio come punto di delimitazione del nuovo emergere di soggetti naturali
(animali,ecc.) e di soggetti storici (le battaglie di Alessandro)». G. Carchia, Dall'apparenza al mistero.
La nascita del romanzo, in Immagine e verità. Studi sulla tradizione classica, Edizioni di storia e
letteratura, Roma 2003, p. 171. Qui di nuovo il paesaggio si presenta come mediazione degli estremi.
371 G. Carchia. Estetica ed erotica, in Id., Immagine e verità, cit., p. 62.
372 Ibidem, p. 79.

211
risarcimento nella riqualificazione rappresentativa ad essa assegnata. Nel Medioevo
cristiano, l'impossibilità ontologica dell'immaginazione si costituisce così a
fondamento diretto della sua vocazione rappresentativa. La sua vanità in termini di
essere si traduce immediatamente, e così si placa, nell'impotenza della
rappresentazione». In altri termini, il manque di essere attribuito all'immaginazione
consente l'affermazione del «realismo» occidentale: «presupposto del realismo è,
infatti, appunto la compiuta scissione fra il reale ed uno spazio rappresentativo che
lo riesegua entro suoi modi specifici e peculiari». 373 Alla riscoperta
dell'immaginazione trascendentale come campo di mediazione consegue la netta
critica alla rappresentazione, esito estetico della polarità fra spirituale e materiale,
fra divino e mondano. È il romanticismo, soprattutto grazie ai suoi rapporti con le
estetiche orientali, a prendere coscienza che «fra l'ideale e l'empiria c'è bisogno di
una mediazione che non sia né puramente naturale, né puramente storica, ma
prevenga simultaneamente questa stessa alternativa». Goethe avrebbe raggiunto
tale consapevolezza al suo massimo grado, e in particolare nella scena della discesa
faustiana alle Madri: «la connessione anticipante rispetto all'intreccio di ideale e
reale, di mitico e storico, di temporale ed eterno, che dà la misura dell'azione di
Faust e del suo Streben, Goethe l'ha evidenziata come dimensione peculiare
dell'immaginazione poetica proprio nella scena delle Madri». Il Faust permette la
«discesa stessa di Goethe alle sorgenti» della simultaneità di mito e storia, così da
raggiungere «questa contemporanea vicinanza e lontananza dal tempo:
l'immaginazione».374 Dunque l'immaginazione trascendentale, stando alla
ricostruzione di Carchia, comporta una compresenza di vicinanza e lontananza
come alternativa al dualismo che distanzia il versante spirituale da quello materiale.
Dopo la riflessione goethiana il filosofo tenta un nuovo movimento critico e
percorre le estetiche occidentali alla ricerca delle tracce di permanenza di
un'estetica della lontananza, per quanto marginale e minoritaria. Carchia ipotizza
che «l'immaginazione abbia ricevuto il suo spazio trascendentale là dove essa si è
373 Ibidem, p. 89.
374 Ibidem, p. 113. Benjamin ha scritto nell'introduzione al Dramma barocco tedesco: «le idee – nei
termini di Goethe: gli ideali – sono le madri faustiane». W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco,
Einaudi, Torino 1999, p. 10. Si vedrà fra poco il legame fondamentale che avvicina Benjamin al
filosofo italiano. Per una contestualizzazione critica si veda il recente saggio: E. De Vito, L'immagine
occidentale, Quodlibet, Macerata 2015.

212
fatta carico dell'antica nozione mistica del dàimon».375 La riscoperta del paesaggio
demonico in Per una filosofia del paesaggio confluisce così in un'interpretazione
complessiva dell'estetica occidentale: il sentimento d'una natura abitata dall'alterità
afferma la persistenza dell'immaginazione come autonomo spazio di mediazione fra
spirito e materia. Carchia precisa che «la tradizione estetica ha assunto i caratteri
complessivi dell'immaginazione demonica occidentale sotto l'insegna del termine
allegoria, in contrapposizione al simbolo come forma d'arte propria invece della
coscienza estetica mimetico-rappresentativa».376 Il demonismo allegorico –
espressione del sentimento «anti-rappresentativo, anti-umanistico, anti-mimetico»
– assume qui un senso opposto a quello del «figuralismo» di Auerbach. Il filologo
tedesco – e il rovesciamento è volutamente paradossale – sarebbe infatti il
«massimo esegeta della coscienza estetica anti-allegorica», quindi realistica.
Poiché «il demone è, nella terra di nessuno fra il divino e l'umano, ciò che resta
della mediazione mitica», il demonismo dell'immagine allegorica può essere
definito come «presenza – nel seno stesso della significazione, nel seno stesso
dell'umano – di un momento estraneo, spurio e contingente, non comunicativo. È la
presenza di tale elemento extra umano, non risolto nell'integrale autonomia
dell'estetica, ciò che ha scatenato contro l'allegoria l'estetica moderna, procedente
in parallelo con l'umanismo moderno all'integrale secolarizzazione del mondo, alla
sua sdemonizzazione, alla colonizzazione del non umano». 377 Nelle tesi avanzate in
Per una filosofia del paesaggio il demonico è la natura come fine in sé, l'alterità
scevra da proiezioni sentimentali, il lontano inattingibile per quanto vicino possa
apparire. Anche in Estetica ed erotica «l'allegoria è infatti sempre al tempo stesso
lontana e troppo vicina: lontana come espressione, troppo vicina come significato.
Proprio così gli antichi decifravano quegli esseri che sono veri e propri omologhi
delle opere d'arte, le stelle».378 L'opera d'arte – come l'apparizione dell'idea, come
costellazione – non è una rappresentazione del mondo, ma è «una luce, un apparire
dove si congiungono vicinanza e immaterialità».379

375 G. Carchia, Estetica ed erotica, cit., p. 115.


376 Ibidem, p. 115.
377 Ibidem, p. 117.
378 Ibidem, p. 120.
379 Ibidem, p. 121.

213
L'immaginazione come luogo tensivo, grembo di immagini pregne d'un senso di
lontananza, è il fondamento di una sensibilità che eccede l'approccio mimetico-
rappresentativo figlio del dualismo fra il mondo in sé – l'opaco – e la relativa
proiezione simbolica – il versante aprico. Carchia ha dunque individuato una
possibile genealogia del paradigma della lontananza disegnando un percorso
tortuoso fra medioevo, modernità e culture orientali. Si può ipotizzare una possibile
congiunzione fra Carchia e Celati? È probabile che lo scrittore non abbia mai letto il
filosofo e l'anello di congiunzione, se esiste, va rinvenuto in una tradizione estetica
e filosofica precedente: una fonte comune a cui entrambi possono aver attinto.
Leopardi – e in particolare il passo dello Zibaldone sulla lontananza – è un primo,
fondamentale, snodo di riferimento. Inoltre, e in termini più generali, l'estetica
romantica di area tedesca custodisce l'origine moderna della critica alla
rappresentazione. Tuttavia esiste un ulteriore, evidente punto di connessione e
risiede nelle riflessioni di un filosofo fondamentale per la formazione di Carchia e
di Celati. Secondo Carchia in epoca contemporanea è stato Walter Benjamin il più
importante esegeta e studioso della forma allegorica. La stessa definizione di
allegoria avanzata in Estetica ed erotica deriva dal saggio sul dramma barocco
tedesco: «l'universo allegorico non è se non il risvolto estetico della dissoluzione
dell'universo mitico, tutto ciò che resta della critica del mito». 380 Il recupero di
Benjamin e dei suoi accenni agli sguardi della natura è il sentiero più fecondo per
poter tornare al trattamento dello spazio nell'opera di Gianni Celati.

6. Il punto interno dello sguardo.

«Trovare parole per ciò che si ha dinnanzi agli occhi: quanto può essere difficile ».
Sulla “Frankfurter Zeitung” dell'agosto 1929 Benjamin tenta di ricomporre le
sensazioni raccolte durante un suo viaggio a San Gimignano. All'improvviso le
parole giungono ed è «come se battessero con dei piccoli colpi di martello contro la
superficie del reale, sino a sbalzarne, come da una lastra di rame, la forma». Il
linguaggio foggia la visione e «soltanto quando ebbi trovato queste parole, dal

380 Ibidem, p. 116.

214
turbamento delle impressioni immediate emerse, con i suoi precisi rilievi e le sue
ombre profonde, l'immagine». È un'immagine dalla forma instabile, un gioco di
distensioni e contrazioni:

A chi viene da lontano subito il borgo sembra scivolato, di soppiatto


come da una porta, nella campagna. Esso non dà l'impressione che
sia possibile raggiungerlo. Ma se si fa tanto di riuscirvi, allora il suo
grembo ci accoglie e ci si perde nel concerto dei grilli e nel vociare
dei bambini.381

Lo spazio è malleabile, mobile e disomogeneo 382: «nel corso dei secoli […] si sono
sempre più strette fra loro le sue mura». Fra il soggetto e il paesaggio circostante
esiste una relazione plastica: il villaggio fugge via, si stringe e si allarga, cinge il
soggetto in un abbraccio di voci e di suoni.
Un frammento di Strada a senso unico – Cineserie – chiarisce meglio il rapporto fra
la spazialità e le modalità di osservazione: «la forza di una strada (Landstraße) –
sostiene Benjamin – è diversa a seconda che uno la percorra a piedi o la sorvoli in
aeroplano». L'aviatore vede tutto dall'alto senza appartenere al mondo, mentre il
camminatore vi è implicato: «chi vola vede soltanto come la strada si snoda nel
paesaggio, ai suoi occhi essa procede secondo le medesime leggi del terreno
circostante. Solo chi percorre la strada ne avverte il dominio, e come da quella
stessa contrada che per il pilota d'aeroplano è semplicemente una distanza di
terreno (für den Flieger nur die aufgerollte Ebene ist) essa, con ognuna delle sue
svolte, faccia balzar fuori sfondi (Ferne), belvedere, radure e vedute». Alla visione di
una piatta distesa, organizzata in precise leggi spaziali, si contrappongono le visioni
381 W. Benjamin, San Gimignano, in W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino 1971, pp. 65-
67.
382 Si tratta di uno spazio del tutto opposto a quello dispiegato ne Le città invisibili. Irene è una città
vista dall'alto, a una certa distanza, e mostra di sé un'immagine immobile, come se il soggetto
dell'osservazione fosse fermo su un'altura. Non esiste la possibilità di vedere Irene come spazio in
mutazione nel divenire della camminata: «Kublai Kan s'aspetta che Marco parli d'Irene com'è vista
da dentro. E Marco non può farlo: quale sia la città che quelli dell'altipiano chiamano Irene non è
riuscito a saperlo; d'altronde poco importa: a vederla standoci in mezzo sarebbe un'altra città; Irene è
un nome di città da lontano, e se ci si avvicina cambia». (RR II, p. 463). Le visioni di Calvino
propongono sempre un montaggio in sequenza di visioni immobili, mentre una percezione della
lontananza comporta il fluire cangiante dello spazio. Qui si concentra il problema principale di
questa tesi.

215
di lontananze (Ferne) dove le forme del territorio e i paesaggi entrano mobili e
fugaci nel campo d'attenzione del soggetto. 383 Ancora una volta l'apparizione del
lontano implica il contatto fra il soggetto e il mondo, generando una tensione
irrisolta fra la vicinanza come presenza e la lontananza come eterea apparenza. Un
altro frammento coglie appieno l'oscillazione in questione: «ciò che rende tanto
straordinaria, e tanto impossibile a rinnovarsi, la primissima visione del borgo, di
una città nel paesaggio è il fatto che in essa lontano e vicino vibrano nel più
rigoroso accordo».384 Si tratta di visioni improvvise e pregne d'incanto nell'attimo in
cui una alterità incomprensibile e irraggiungibile fa capolino nel mondo storico: un
cenno lanciato all'uomo. Per gli antichi era una sensazione connessa alla visione
della volta stellata: «il contatto del mondo classico con il cosmo si compiva […]
nell'ebrezza. E infatti l'ebrezza è l'esperienza che sola ci assicura dell'infinitamente
vicino e dell'infinitamente lontano, e mai dell'uno senza l'altro. Ciò però vuol dire
che comunicare col cosmo nelle forme dell'ebrezza all'uomo è possibile solo
all'interno della comunità».385 La compresenza di vicino e lontano era possibile in
società tenute insieme dalla trasmissione collettiva delle conoscenze e delle
credenze sul mondo. Durante la modernità s'assiste alla frammentazione delle
comunità tradizionali e dunque a un declino dell'importanza attribuita alla
lontananza: «l'aberrazione che minaccia i moderni è di ritenere quest'esperienza
irrilevante, trascurabile, e di lasciarla all'individuo come estatica contemplazione di
una bella notte stellata». È qui in questione il disfacimento dell'aura nell'epoca
moderna.
Il concetto di aura – così importante in Benjamin, e così controverso 386 – coinvolge
proprio l'oscillazione fra il vicino e il lontano. Come testimonia nella Piccola storia
della fotografia la definizione più nota:

Che cos'è, propriamente, l'aura? Un singolare intreccio di spazio e


di tempo: l'apparizione unica di una lontananza, per quanto possa
383 W. Benjamin, Cineserie, in Id., Strada a senso unico, Einaudi, Torino 1983, pp. 8-9. Per una
discussione più approfondita di questo frammento si veda la conclusione.
384 W. Benjamin, Ufficio oggetti smarriti, in Id., Strada a senso unico, cit., p. 41.
385 Al planetario, in W. Benjamin, Strada a senso unico, Einaudi, Torino 1983, pp. 70-72.
386 Per una valutazione approfondita della questione e per il reperimento di una bibliografia
esaustiva si veda M. B. Hansen, Benjamin's Aura, Critical Inquiry 34, Winter 2008, pp. 336-375.

216
essere vicina. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d'estate,
una catena di monti all'orizzonte oppure un ramo che getta la sua
ombra sull'osservatore, fino a quando l'attimo, o l'ora, partecipino
della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l'aura di quei
monti, di quel ramo.387

Il paesaggio – ed è sorprendente – accoglie la definizione di aura e ne esemplifica


l'esperienza: balugina l'apparenza del trascendente nel qui e ora concreto
dell'ambiente naturale, e per poco il mondo è incantato. Eppure questa è
un'esperienza ormai decaduta: la visione a distanza – razionale, demitizzante,
geometrica – e gli effetti di vicinanza e di tangibilità determinati dalle tecnologie e
dai rapporti sociali moderni hanno lentamente prosciugato la lontananza.
Il problema dell'aura, tuttavia non si esaurisce nell'analisi dei mezzi di
riproducibilità tecnica.388 Una valutazione più approfondita permette di cogliere uno
stretto legame fra l'aura e la presenza del dàimon come alterità inscritta nella
natura. Nel saggio su Baudelaire (Di alcuni motivi in Baudelaire), Benjamin osserva
come le prime poesie delle Fleurs du mal celebrino le epoche antiche delle feste,
quando gli uomini esperivano collettivamente il tempo seguendo l'andamento dei
cicli naturali: «se esiste davvero la segreta architettura di questo libro, che è stata
oggetto di tante speculazioni, il ciclo di poesie che inaugura il volume potrebbe
essere dedicato a qualcosa di irrevocabilmente perduto». 389 Le Correspondances
cantano una «preistoria» dove ogni entità era in comunicazione con il resto

387 W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in Id., L'opera d'arte nell'epoca della sua
riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 70.
388 Secondo Hansen il senso che l'aura assume nel saggio sull'opera d'arte è «deliberately
restrictive» perché nell'indagine più complessiva del filosofo l'aura riguarda innanzitutto una
epistemologia della percezione che attraversa e interessa tutte le forme della tecnica: «the aura is
not an inherent property of persons or objects but pertains to the medium of perception, naming a
particular structure of vision (though one not limited to the visual). More precisely, aura is itself a
medium that defines the gaze of the human beings portrayed: “There was an aura about them, a
medium that lent fullness and security to their gaze inasmuch as it penetrated that medium” (SW,
2:515– 17; GS, 2:376). In other words, aura implies a phenomenal structure that enables the
manifestation of the gaze, inevitably refracted and disjunctive, and shapes its potential meanings».
M. B. Hansen, Benjamin's Aura, cit., p. 342. L'aura chiama in causa il soggetto e la sua posizione nei
confronti del mondo storico: «my interest here, however, is in the particular ways in which aura’s
defining elements of disjunctive temporality—its sudden and fleeting disruption of linear time, its
uncanny linkage of past and future—and the concomitant dislocation of the subject are articulated
through, rather than in mere opposition to, the technological media». Ibidem, p. 347.
389 W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 117.

217
dell'universo in un rimando d'echi lontani e confusi: «la Nature est un temple où de
vivants piliers / Laissent parfois sortir des confuses paroles; / L'homme y passe à
travers des forets de symboles / Qui l'observent avec der regards familiers. /
Comme de longs échos qui de loin se confondent / Dans une ténébreuse et
profonde unité, / Vaste comme la nuit et comme la clarté, / Les parfums, les
couleurs et les sons se répondent».390 Quando tutto si tiene in una profonda e
tenebrosa unità, la natura abitata ricambia lo sguardo dell'uomo, risponde ai suoi
cenni. È proprio la corrispondenza degli sguardi, secondo Benjamin, a rivelare
l'auraticità del luogo: «l'esperienza dell'aura riposa quindi sul trasferimento di una
forma di reazione normale nella società umana al rapporto inanimato o della natura
con l'uomo. Chi è guardato o si crede guardato alza gli occhi. Avvertire l'aura di
una cosa significa dotarla della capacità di guardare. Ciò è confermato dai reperti
della mémoire involontaire».391 Benjamin in nota aggiunge che «[l'aura] è una
scaturigine della poesia. Quando l'uomo, l'animale o un oggetto inanimato, dotato
di questa capacità dal poeta, alza gli occhi e lo sguardo, egli è attratto lontano; lo
sguardo della natura risvegliata sogna e trascina nel suo sogno il poeta. Anche le
parole possono avere la loro aura. Come l'ha descritta Karl Kraus: “Quanto più
davvicino si guarda una parola, quanto più lontano essa guarda”». 392 L'aura,
dunque, dischiude una lontananza nella vicinanza: implicato nella natura, il
soggetto percepisce presso di sé uno sguardo lontanissimo e carico di mistero,
un'estraneità remota e pur presente.
Il riferimento alla memoria proustiana non è casuale. Benjamin, sempre nel saggio
su Baudelaire, afferma che è «inutile sottolineare quanto Proust fosse addentro al

390 C. Baudelaire, Les Fleurs du Mal, Gallimard, Paris 1972, p. 40.


391 Ibidem, p. 124.
392 È di estremo interesse notare come l'aura sia un resto o l'accennato ricordo di un'epoca
precedente alla modernità. Poiché l'aura abita anche una veduta «in un mezzogiorno d'estate»,
allora il paesaggio è il luogo dove il soggetto s'immerge nella natura e ne contempla i cenni lontani.
Questo paesaggio quindi – come vuole Carchia – non è una compensazione inventata nel moderno,
ma precede la modernità. Interessante a questo proposito è la critica di Baudelaire alle forme
paesaggistiche dominanti a metà Ottocento: «la plupart [des peintres] tombent dans le défaut que je
signalais au commencement de cette étude: ils prennent le dictionnaire de l'art pour l'art lui-même;
ils copient un mot du dictionnaire, croyant copier un poème. Or un poème ne se copie jamais: il veut
être composé. Ainsi ils ouvrent une fenêtre, et tout l'espace compris dans le carré de la fenêtre,
arbres, ciel et maison, prend pour eux la valeur d'un poème tout fait». C. Baudelaire, Salon de 1859,
Collections Litteratura, p. 36. La traduzione italiana si trova in C. Baudelaire, Salon del 1859, in Id.,
Scritti sull'arte, Einaudi, Torino 1981, p. 258.

218
problema dell'aura». Nell'Infanzia berlinese, raccolta frammentaria delle memorie
d'infanzia, gli sguardi degli oggetti colti dal bambino risuonano nei ricordi
dell'adulto: «nel cortile tutto per me si tramutava in cenno. Innumerevoli erano i
messaggi presenti nel chiacchiericcio provocato dall'alzarsi degli avvolgibili verdi, e
innumerevoli gli infausti annunci, che saggiamente non decifrai, impliciti nel
fragore delle saracinesche quando, verso sera, venivano rumorosamente chiuse». Le
logge del palazzo berlinese di fine Ottocento costituiscono uno spazio abitato da
sguardi carichi di lontananza, è un luogo costituito da punti discontinui dove ogni
oggetto non è un ente inanimato dislocato nello spazio omogeneo, ma una presenza
dotata di sguardo e di interiorità coscienti: «Berlino – anzi il dio stesso della città –
comincia qui. Nelle logge è così presente a sé stesso, che accanto ad esso niente di
effimero riesce ad imporsi. Sotto la sua tutela spazio e tempo ritrovano sé stessi, e
l'uno ritrova l'altro. Entrambi giacciono qui ai suoi piedi. Il bambino invece, che una
volta era stato loro complice, adesso, contornato da questo gruppo, si trattiene nella
sua loggia come in mausoleo destinatogli da molto tempo». 393
Come intendere le riflessioni sullo sguardo della natura e sulla lontananza alla luce
delle dichiarazioni in merito alla decadenza dell'aura? Il senso d'una lontananza è
del tutto svanito? Oppure può ancora persistere in determinate forme? Il pensiero
di Benjamin è così articolato e frammentario che una adeguata trattazione del
dilemma richiederebbe uno studio più ampio 394 e non è questa l'occasione
393 W. Benjamin, Logge, in Id., Infanzia berlinese intorno al millenovecento, Einaudi, Torino 2007,
pp. 5-8.
394 L'aura, proprio in quanto apparizione di una lontananza, era stata recuperata in quegli anni dal
pensiero irrazionale e reazionario diffuso dai membri della cerchia di Stefan George. Si possono
immaginare le conseguenze che tale cultura avrebbe avuto a breve, ed è probabile che Benjamin ne
avesse intuito i rischi. In particolare spiccavano le riflessioni di Klages, autore letto con attenzione da
Benjamin. Klages coglie nella lontananza un'intangibilità radicale, riverbero pregno d'una mistica
cultuale (si veda L. Klages, Dell'eros cosmogonico, Pgreco, Milano 2012). Nel saggio su Baudelaire,
Benjamin definisce l'aura accettando l'impostazione di Klages: «l'essenzialmente lontano è
inaccessibile: e l'inaccessibilità è una qualità essenziale dell'immagine di culto». Non vi è, qui, quella
vibrazione fra lontano e vicino notata altrove: l'auraticità è un mistero mistico. Secondo Benjamin la
lontananza inattingibile decade in una modernità dove tutto si fa più ravvicinato. Sui bus
metropolitani, ad esempio, gli individui sono costretti a sedere a poca distanza gli uni dagli altri e si
fissano negli occhi senza conoscersi, senza scambiare una parola: «lo sguardo inteso a garantirsi
manca dell'abbandono sognante alla lontananza». La nuova esperienza della vicinanza e dello choc è
quindi impiegata per disincantare gli aloni mistici della cultura reazionaria del tempo. In modo ancora
più chiaro è descritto il rapporto fra la lontananza e l'aura nella Piccola storia della fotografia. Il
filosofo è impegnato a dimostrare come il mezzo fotografico sia in grado di cogliere l'attualità in
modo istantaneo e ravvicinato, rendendo ineluttabile il disfacimento dell'aura. Secondo Benjamin il
fotografo di fine ottocento non può che prendere atto del contesto sociale e tecnico nel quale agisce e

219
pertinente per ricostruire tutta la complessità e le sfumature del suo pensiero. È più
fecondo rilevare come nel secondo Novecento diversi approcci eterogenei e
indipendenti fra loro – come la filosofia di Carchia e la scrittura paesaggistica di
Celati – abbiano recuperato un senso del luogo pregno d'una lontananza auratica in
contrapposizione allo spazio omogeneo e proiettivo della visione a distanza.
Collezione di spazi di Celati è uno scritto che merita di essere evocato ancora
perché, oltre a orientare l'interpretazione delle immagini e della scrittura di Verso la
foce, trattiene stimoli critici fecondi per comprendere le qualità di uno spazio
abitato da forme di alterità irriducibili agli schemi di comprensione della razionalità
astratta. Si è già notato come Celati colga nella «profondità di campo» dove lo
«sguardo si inoltra attirato dalle cose» una risoluzione del «dissidio tra mondo
oggettivo e sensibilità oggettiva». 395 La sensibilità del poeta – e Celati cita Rimbaud,
lo stesso Baudelaire, Hopkins, Rilke – estrapola nella profondità una vibrazione
momentanea: «le parole e le immagini valgono per ciò che sorge nell'attimo
d'apparizione […]. Le nuove visioni di spazi non sono più rappresentazioni dentro
un contorno definito, ma tendono a creare uno spazio intorno a sé: si orientano su
un presente, che sarà sempre e soltanto presente, il “qui e ora” d'una vibrazione
d'accordi, in cui le parole trovano impulsi armonici o i colori trovano la risonanza
d'una percezione visiva».396 Questo spazio che sta intorno, indefinito e
momentaneo, è l'esito della visione che si ha «dal di dentro d'un luogo» come se lo
«spazio esterno» fosse percepito «dal suo interno». Qui i termini di Celati
risentono della visione interna di Hopkins – creatore del neologismo “inscape” – e
richiamano quel «rovesciamento dell'interno sull'esterno» che già Calvino aveva
intuito. Lo spazio non è omogeneo e continuo perché la visione interna, oltre a
essere relazionale e mai distaccata, non appartiene soltanto alla coscienza di chi
impegnarsi a «risucchiare l'aura dalla realtà, come l'acqua pompata da una nave che affonda». Se
l'aura è il dominio della lontananza come intangibilità cultuale, allora è doveroso riconoscere la sua
estinzione. Ma questo non significa che si perda del tutto la tensione dialettica dell'aura come
compresenza del vicino e del lontano. Una nota dell'ultimo Benjamin, frammento dei Passages, è
illuminante: «la traccia e l'aura. La traccia è l'apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere
lontano ciò che essa ha lasciato dietro di sé. L'aura è l'apparizione di una lontananza, per quanto possa
essere vicino ciò che essa suscita. Nella traccia noi facciamo nostra la cosa; nell'aura essa si
impadronisce di noi. [M 16a, 4]». W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 2000.
395 G. Celati, Collezione di spazi, cit., p. 72. Sul rapporto fra essere ed apparenza in Celati si vedano i
primi tre paragrafi di questa parte.
396 Ibidem, p. 78.

220
osserva e scrive: «ogni aspetto fenomenico ha una propria visione interna che si
innesta in una forma esterna, e un battito o impulso energetico che rende vibrante
quella forma». Ne consegue che l'esterno è costellato da tanti punti discontinui da
cui sorgono punti di vista altri:

così non c'è più nessuna realtà in generale da rappresentare, non


ci sono più concetti convenzionali per parlarne; la descrizione
raduna l'aperto mondo nel piccolo mondo d'uno spazio
particolare, dove a sua volta ogni cosa che si affaccia è un piccolo
mondo, come quello delle gocce di pioggia che pendono dalle
ringhiere, viste con soltanto l'orlo basso illuminato. […] La
possibilità di esistenza di ogni punto dipende dal fatto che lì vi sia
un interno dello spazio, come una visione che si innesta
nell'esterno. Quello che c'è di davvero nuovo o insolito è il fatto
che lo spazio perde i suoi caratteri di generalità astratta. Non c'è
più uno spazio in generale, ma l'idea di tanti punti che creano uno
spazio attorno a sé, dunque ognuno come un interno di un
esterno; per cui l'esterno è fatto solo di tanti punti con una loro
visione interna […].397

Non è forse, questa, la percezione di uno spazio incantato e abitato da presenze che
da lontano emanano un cenno? Dunque «ciò che colpisce è il sorgere di punti
discontinui, che dentro l'ordine umano lasciano trapelare il movimento di un'altra
vita. Ancora dei punti interni della visione, punti sorprendenti, nella generalità
cupa dell'ordine sociale».398 Lo sguardo del poeta individua uno spazio locale e
affettivo, «sorprendente, variabile, irriducibile a questioni di misure», dove
tutt'intorno baluginano ulteriori punti interni che mandano cenni misteriosi.
Tale visione interiore, matrice d'uno spazio disomogeneo, puntiforme e alternativo
all'estensione delle distanze digradanti e misurabili, dischiude l'esperienza di una
temporalità frammentata, irregolare e difforme dalla storia come «linea omogenea
che va avanti dal passato verso il futuro». Questo sguardo, ribadisce Celati, «ci

397 Ibidem, p. 79.


398 Ibidem, p. 86.

221
porta fuori dalla Storia, eliminando la sua retrospezione» e lascia sorgere il nuovo
poetico come «un ignoto che appare solo a un punto di estenuazione, quando non è
più possibile pensare a un futuro, e spazio e tempo implodono in un “qui” che
sembra la soglia dell'eternità».399 La lontananza, pertanto, non coinvolge solo la
percezione dello spazio, ma anche il sentimento del tempo. Lo stesso Benjamin
nelle note sull'aura si è soffermato sul «particolare intreccio di spazio e di tempo» e
ha accennato al legame che essa intrattiene con la mémoire involontaire di Proust.
La lontananza nel paesaggio potrebbe allora implicare l'apparizione d'un tempo
remoto e puntuale e potrebbe ridefinire il ruolo e il funzionamento della memoria.
Se la memoria di Calvino genera delle proiezioni di immagini colte a distanza, è
possibile rinvenire nelle descrizioni di Celati una forma del ricordo alternativa? Per
rispondere a questa domanda è fecondo tornare a Leopardi, alle ricordanze e al
senso della storia che emerge dalle poesie e dallo Zibaldone.

7. Storia, decadenza e apprendimento.

In un pensiero dell'aprile 1824 400 Leopardi si sofferma sul progresso intellettuale


dell'uomo. Ogni individuo non rimane uguale a sé stesso perché nel corso del
tempo modifica competenze e atteggiamenti: «la coltura dell'intelletto fra l'altre
cose cagiona in una persona stessa a proporzione de' suoi progressi, e coll'andar del
tempo, una variazione singolarmente rapida e singolarmente grande». Le facoltà
intellettuali dell'uomo, qualora siano «coltivate», s'accrescono in via progressiva e
di conseguenza lo stato originario dell'infanzia «conforme alla […] natura» è

399 Ibidem, p. 78.


400 Le pagine che seguiranno attraverseranno il pensiero magmatico e proteiforme dello Zibaldone.
Ha ragione Prete quando ricorda che «una interpretazione di una pagina leopardiana non può
forzare verso il procedimento sistematizzante proprio d'un disegno teorico, se non rischiando di
smarrire respiro frammentario, discontinuo, interrotto dello Zibaldone». A. Prete, Il pensiero
poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1980, p. 14. Le riflessioni di Leopardi non si lasciano
ricondurre a una «teoria» unitaria e resistono alle «facili schedature». Ibidem, p. 127. Pur
concordando con Prete, qui si cercherà di rintracciare una certa coerenza a proposito del rapporto
fra il concetto di assuefazione e quello di memoria e si tenterà di sottolineare come da tale rapporto
consegua lo schizzo di una teoria della storia. Il percorso tracciato non è certo continuo, ma
puntiforme e frammentato nel tempo: i riferimenti temporali citati e menzionati di volta in volta ne
sono la testimonianza. Solo verso la fine dello studio saranno illuminate le contraddizioni e i vuoti
che ostacolano il tentativo di cogliere l'armonia teoretica.

222
gradualmente abbandonato.401 Ogni neonato infatti è simile a un primitivo:
«ciascun individuo quando nasce è precisamente, quanto all'intelletto nello stato
medesimo in cui fu il primo uomo». Qui Leopardi avanza la fortunata analogia fra
lo sviluppo della persona e quello della specie umana: «quegl'individui che
coll'andar del tempo si sono posti al livello delle cognizioni del nostro tempo, sono
necessariamente passati per tutti quegli stati per cui lo spirito umano è passato dal
principio del mondo fino al dì d'oggi».402 La crescita culturale e civile attraverso il
tempo e le sue stagioni evoca il concetto di storia come processo immanente sia alla
filogenesi che alla ontogenesi: «la storia del suo intelletto è quella appunto di tutti
questi secoli ristretta e compresa in venti o trent'anni di tempo». (Zib. 4064-4065).
Per comprendere il senso della storia in Leopardi può essere fecondo concentrare
l'attenzione proprio sull'analogia fra la vita individuale e il percorso d'incivilimento.
Il punto di partenza è lo stato di natura dove non si dà linguaggio, né trasmissione
della conoscenza: «perché i bruti non avendo lingua, non hanno tradizione, cioè
comunicazione di generazioni, perciò il bruto d'oggidì e freschiss. e naturaliss. come
il primo della sua specie uscito dalle mani del Creatore». (Zib. 939). 403 Poi la
formazione progressiva dell'uomo segue un tragitto lineare che scandisce diversi
stadi di sviluppo disposti a distanze proporzionali: «tutti i popoli che non hanno
una lingua perfetta, sono proporzionatamente lontani dall'incivilimento».

401 Così Antonio Prete in un intervento sull'antropologia di Leopardi: «per Leopardi il sapere della
civiltà ha reso opaca la percezione del vivente, della sua singolarità pulsante e desiderante, e ha
sancito un'irrimediabile distanza dal naturale». A. Prete, Sull'antropologia poetica di Leopardi, in C.
Gaiardoni (a cura di), La prospettiva antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi,
Atti del XII Convegno internazionale di studi leopardiani, Recanati 23-26 settembre 2008, Olschki,
Firenze 2010, p. 5.
402 I riferimenti al parallelismo fra ontogenesi e filogenesi sono innumerevoli in Leopardi. Un
esempio tratto dal Discorso intorno alla poesia romantica: «imperocchè quello che furono gli antichi,
siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno,
dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di
quella sterminata operazione della fantasia». G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia
romantica, in Id., Poesie e prose, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 1988, p. 359.
403 Per quanto nel lessico leopardiano le figure del “selvaggio”, del “barbaro” e del “primitivo” si
oppongano all'uomo civile e occidentale, tuttavia non hanno lo stesso valore e spesso assumono
connotazioni del tutto differenti. Il vero uomo di natura è il «primitivo» che viveva «in solitudine»
(Zib. 679), mentre barbaro è colui che ha abbandonato la condizione primitiva: «barbarie è quel solo
che si oppone alla natura primitiva dell'uomo». (Zib. 821). Il selvaggio invece tende a oscillare fra la
barbarie e lo stato di natura: può essere l'abitante felice della California, oppure l'individuo
degenerato e corrotto dedito a guerre e conflitti (Zib. 3790). Per una discussione sull'idea di
selvaggio nella cultura moderna occidentale in generale e in Leopardi in particolare si veda A. Gerbi,
La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica (1750-1900), Adelphi, Milano 2000.

223
L'incivilimento come processo di raffinamento e mutazione dell'umano riguarda,
oltre alle attitudini intellettuali, il controllo delle tecniche: «l'incivilimento, ossia
l'alterazione dell'uomo, fece grandi progressi dopo l'invenzione della scrittura per
cifre, ma però sino a un certo segno, fino all'invenzione della stampa, ch'essendo la
perfezione della tradizione, ha portato al colmo l'incivilimento». Si tratta di
invenzioni «tutte difficilissime» e per questo distanti dallo stato originario, essendo
la natura «lontana dal supporle». (Zib. 939). Al foglio 830 le invenzioni tecniche
comportano delle «comodità che sebbene lontanissime dalla natura, contuttociò si
stimano essenziali e indispensabili all'uomo». Ma sono davvero tali? Se i bisogni
indotti dalla civilizzazione sono essenziali, come hanno fatto gli uomini nello stato
primitivo «a vivere tanto tempo privi di cose indispensabili»? Anche i selvaggi non
sono «assuefatti a tali cose pretese indispensabili» (Zib. 830): forse l'uomo civile
ritiene essenziale e naturale quanto, in realtà, è acquisito.
Secondo Leopardi le abitudini assunte dagli uomini civili nei secoli ingenerano una
seconda natura diversa dall'originaria: «siccome l'abitudine è una seconda natura,
così noi crediamo primitivo quel bisogno che deriva dalla nostra corruzione». (Zib.
831). Infatti molti bisogni considerati necessari dall'uomo incivilito sono tali per
«l'assuefazione» e «per l'indebolimento e l'alterazione formale delle generazioni
umane, divenute oggidì bisognose di certi aiuti, soggette a certi inconvenienti, e
quindi necessitose di certi rimedi, che non avevano alcun luogo nella umanità
primitiva». Proprio l'abbandono dello stato di natura è responsabile del costante
peggioramento delle condizioni di vita: «la civiltà rende l'uomo inetto a mille
fatiche e sofferenze che egli avrebbe dovuto e potuto tollerare in natura, e
suscettibilissimo d'esser danneggiato da quelle fatiche e patimenti che, o per natura
generale o per circostanze particolari, egli è obbligato a sostenere, e che nello stato
naturale avrebbe sostenuto senza verun detrimento, e, almeno in parte, senza
incomodo». Così «i progressi della civiltà portano seco e producono
inevitabilmente il successivo deterioramento del suo fisico, deterioramento sempre
crescente in proporzione d'essa civiltà». (Zib. 3181-3182). La civiltà dell'uomo
abbandona il corso teleologico della natura e come alterazione – o seconda natura –
si tramuta in storia, ovvero in avanzata inconsapevole verso il disfacimento fisico e

224
morale. Anche nel 1823 la «civilizzazione» è «affine alla corruzione». (Zib. 3412). 404
Inoltre alla corruzione s'accompagna una condizione di infelicità e contro
«l'opinione comune» riguardo alla «infinita perfettibilità dell'uomo» Leopardi
sostiene che «l'uomo essendo perfetto in natura, quanto più s'allontana da lei, più
cresce l'infelicità sua». (Zib. 1097). Dunque il progressivo allontanamento
dall'origine è una inevitabile «corruzione», una «alterazione» (Zib. 939) della vita
naturale: l'uomo non migliora nel tempo la sua costituzione e le sue condizioni
morali, al contrario generazione dopo generazione si rivela sempre più debole.
Il senso della storia come decadimento e allontanamento dalla natura 405 si riflette
nelle Operette morali quando Porfirio espone a Plotino il significato della
«trasformazione», o «mutazion di vita»: «quella natura primitiva degli uomini
antichi, e delle genti selvagge e incolte, non è più la natura nostra: ma
l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi un'altra natura; la quale noi abbiamo,
ed avremo sempre, in luogo di quella prima». 406 Il principio di «assuefazione»
ricorre con insistenza nelle prose e merita un'attenta valutazione critica, in modo da
allargare l'orizzonte d'indagine e interpretare il sentimento della storia alla luce
delle teorie antropologiche di Leopardi. Il luogo forse più celebre dove la
concezione dell'umano si tinge dei colori del mito è la prima delle Operette morali.
Nella Storia del genere umano «narrasi che tutti gli uomini che da principio
popolarono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesimo tempo, e tutti
bambini, e fossero nutricati dalle api, dalle capre e dalle colombe». Allora il mondo

404 La storia come decadimento successivo a una condizione primigenia felice è una consapevole
rielaborazione dell'abbandono dell'Eden avvenuto dopo aver assaporato il frutto della conoscenza. I
fogli compresi fra 393 e 420 dello Zibaldone sono dedicati alle affinità fra il sistema filosofico
leopardiano e il senso della storia cristiano: «dunque il decadimento dell'uomo, non consistè nel
decadimento della ragione, anzi nell'incremento». (Zib. 398). Ma il sistema di Leopardi funziona
anche senza la redenzione, dunque esula dalla metafisica cristiana: «il mio sistema non si fonda sul
Cristianesimo, ma si accorda con lui, sicchè tutto il fin qui detto suppone essenzialmente la verità
reale del Cristianesimo: ma tolta questa supposizione il mio sistema resta intatto». (Zib. 416). Se non
si dà salvazione spirituale la storia si trasforma in una decadenza orfana di speranza, in ciclo di
negativa distruzione? Oppure esiste ancora una possibilità entro il dominio della natura? Sono
domande fondamentali cui si tenterà di rispondere più avanti.
405 «Il principale insegnamento del mio sistema, è appunto la detta degenerazione. Tutte, per tanto,
le dette osservazioni e prove generali o particolari, ch'io adduco per dimostrare come l'uomo fosse
fatto primitivamente alla felicità, come il suo stato perfettamente naturale (che non si trova mai nel
fatto) fosse per lui il solo perfetto, come quanto più ci allontaniamo dalla natura, tanto più
diveniamo infelici ec. ec.: tutte queste, dico, sono altrettante prove dirette di uno dei dogmi
principali del Cristianesimo, e possiamo dire, della verità dello stesso Cristianesimo». (Zib. 1004).
406 G. Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, in Id., Poesie e prose, cit., pp. 202-203.

225
era più piccolo, i territori quasi tutti piani e «il cielo senza stelle». Nondimeno gli
uomini contemplavano il creato pieni di stupore, «pascendosi oltre a ciò di
lietissime speranze, e traendo da ciascun sentimento della loro vita incredibili
diletti, crescevano con molto contento, e con poco meno che opinione di felicità». 407
Ma superata l'adolescenza dell'umanità, gli abitanti di questo primo mondo
«incominciarono a provare alcuna mutazione»: l'aspetto delle cose naturali era
sempre meno dilettevole e grato «o per l'assuefazione o per essere diminuita nei
loro animi quella prima vivacità». Per aumentare la felicità degli uomini Giove
decise di «propagare i termini del creato, e di maggiormente adornarlo e
distinguerlo», così che i confini fossero più indistinti e agli uomini potesse giovare
la sensazione di infinita estensione. In seguito creò i sogni, le liete parvenze e
nascose l'eco nelle valli e indusse le cime degli alberi ad ondeggiare con vaghezza
cosicché l'immaginazione potesse trarne giovamento. 408 «Ma in progresso di
tempo» si sentì di nuovo una certa mancanza di novità e ritornò opprimente il tedio
della vita. Per ovviare ancora a tale condizione Giove introdusse nel mondo i morbi
e altri generi di sventure affinché gli uomini potessero meglio apprezzare l'assenza
di affanni. Nonostante tanti stratagemmi per variare l'esistenza s'impose ancora la
noia del mondo a causa di «lunga consuetudine» e l'insoddisfazione dominò gli
animi. La storia come progressivo decadimento in uno stato di tedio e infelicità è
dunque avviata e favorita dall'assuefazione e dall'abitudine alle azioni e alle entità
che compongono la vita degli umani.409
Nello Zibaldone l'assuefazione410 sembra quasi disegnare i confini dell'umano: «tutto
in somma nell'uomo è assuefazione» (Zib. 1371). Per corroborare l'assunto non
mancano gli esempi tratti dall'esperienza quotidiana: «come tutto sia assuefazione
nei viventi, si può anche vedere negli effetti della lettura. Un uomo diviene
eloquente a forza di legger libri eloquenti; inventivo, originale, pensatore,

407 G. Leopardi, Storia del genere umano, in Id. Poesie e prose, cit., p. 5.
408 Ibidem, pp. 7-8.
409 «Guardare l'assuefazione esclusivamente come “seconda natura” significa individuare in essa il
momento indeterminabile che segna l'ingresso dell'uomo nel tempo storico». A. Malagamba, La
teoria leopardiana dell'assuefazione, in C. Gaiardoni (a cura di), La prospettiva antropologica nel
pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, cit., p. 316.
410 Per uno studio lessicografico del termine in Leopardi: A. Malagamba, Assuefazione/Assuefabilità,
in N. Bellucci, F. D'Intino, S. Gensini (a cura di), Lessico leopardiano, Sapienza Università Editrice,
Roma 2014, pp. 29-36.

226
matematico, ragionatore, poeta, a forza ec.» (Zib. 1540-1541). Dunque l'assuefazione
è un processo d'apprendimento derivante dall'applicazione e dalla ripetizione:
«tutto è esercizio nell'uomo. Ed è ordinario il veder uomini studiosi non saper
parlare, appunto perché avvezzi allo studio, non sono abituati a parlare ma a tacere;
oltre ch'essi contraggono sovente e per questa e per altre ragioni un carattere di
taciturnità, parimente acquisito» (Zib. 1610-1611). L'acquisizione dei caratteri e
delle abilità tramite l'educazione dell'individuo trae spunto dalla tradizione di
pensiero ostile all'innatismo e attinge in particolare al sensismo del Settecento
francese.411 «Osservate – suggerisce in un pensiero del novembre 1821 – le
incredibili abilità che acquistano i ciechi nella musica, e in altro, i sordi
nell'intendere per segni ec. e la tanto maggiore facilità e prontezza, con cui essi,
sebbene siano d'intelletto tardissimo, arrivano a quello a cui con molto maggior
fatica e tempo arrivano, o anche non arrivano i sani, sebbene di grande ingegno. E
poi ditemi in cosa consista il talento, s'esso dipenda o no dalle circostanze, se esso
sia altro che una conformabilità, ed assuefabilità, maggiore o minore, ma comune a
tutti, e determinata ne' suoi effetti, o nell'uso e applicazione di essa, dalle pure
circostanze accidentali» (Zib. 2151). L'uomo è dunque un animale in grado di
adattarsi al molteplice variare delle condizioni materiali e possiede la multiforme
abilità di conformarsi all'ambiente circostante: «la stessa adattabilità e
conformabilità che ho detto esser singolare nell'uomo, non è propriamente innata
ma acquisita. Essa è il frutto dell'assuefazione generale, che lo rende appoco appoco
più o meno adattabile ed assuefabile». (Zib. 1683). In quanto proprietà generale
l'assuefazione governa tutti i processi di adattamento, fino a coinvolgere la stessa
capacità di assuefarsi: «a forza di assuefarsi si piglia la facilità ad assuefarsi, non
solo dentro lo stesso genere di cose, ma in ogni genere». (Zib. 1370). Poiché «la
stessa assuefabilità deriva in gran parte dall'assuefazione» (Zib. 1828), si può

411 Per un riferimento alle fonti più rilevanti che hanno ispirato le riflessioni sull'apprendimento si
veda il lessico di Malagamba: «il ragionamento leopardiano […] affonda le sue radici in una
tradizione assai antica, facente capo da un lato alla filosofia agostiniana (De Musica, libro IV, cap. 19;
Confessiones, libro VI, capp. 12 e 15), dall'altro al De anima e all'Etica Nicomachea […], e ai loro
moltissimi riverberi sul pensiero gnoseologico sei-settecentesco (Locke, Saggio sull'intelletto umano,
libro II, cap. XXII, § 10; Hume, Ricerche sull'intelletto umano e sui principi della morale, cap. IV § 24,
cap. V § 36, cap. VII § 61; E. Bonnot de Condillac, Saggio sull'origine delle conoscenze umane, libro
V)». A. Malagamba, Assuefazione/Assuefabilità, in N. Bellucci, F. D'Intino, S. Gensini (a cura di),
Lessico leopardiano,cit., pp. 32-33.

227
concludere che lo sviluppo dell'uomo dipende in ultima istanza dalla sua
propensione ad assuefarsi.
Nel «sistema» dell'antropologia leopardiana, tuttavia, non tutto si riduce al circolo
dell'apprendimento per assuefazione. Sebbene l'acquisizione delle tecniche e delle
abilità avvenga «mediante l'esercizio» e «secondo le circostanze», esiste anche una
base naturale come condizione di partenza: «la nostra mente in origine non ha altro
che maggiore o minor delicatezza e suscettibilità di organi, cioè facilità di essere in
diversi modi affetta, capacità, e adattabilità, o a tutti o a qualche determinato
genere di apprensioni, di assuefazioni, concezioni, attenzioni. Questa non è
propriamente facoltà, ma semplice disposizione» (Zib. 1662). Dunque l'assuefazione
non è propriamente «tutto» perché esiste una base di disposizioni naturali:

in molti luoghi di questi pensieri ho dimostrato come l'uomo


debba quasi tutto alle circostanze, all'assuefazione, all'esercizio
[…]. Io però non intendo con ciò negare che non abbiano diversità
naturali fra i vari talenti, le varie facoltà, i vari primitivi caratteri
degli uomini; ma solamente affermo e dimostro che tali diversità
assolutam. naturali, innate, e primitive sono molto minori di
quello altri ordinariamente pensa. Del resto che gli intelletti, gli
spiriti, insomma gli animi degli uomini differiscano naturalmente
e primitivamente gli uni dagli altri, con minute differenze bensì,
ma pur vere ed effettive e notabili differenze; e che varie sieno le
loro naturali disposizioni, maggiori in altri, in altri minori, ed
ordinate in quelli a certi oggetti, in questi a certi altri, è cosa,
come da tutti e sempre creduta, così vera e reale, e dimostrata da
molte osservazioni. (Zib. 3197-3198).

Le disposizioni sono i materiali di partenza disponibili ad essere modellati


dall'assuefazione412: «si sviluppano gli organi dell'uomo e dell'animale, e cogli
412 Tale possibilità sospesa fra le disposizioni potenziali e l'attualizzazione dell'apprendimento deve
molto al binomio aristotelico fra potenza e atto: «i muti hanno essi la facoltà della favella? No certo.
Eppur quanto alla favella n'hanno tutta la disposizione naturale quanta n'ha il miglior parlatore del
mondo. Ma questa non è altro che possibilità, la quale il muto non riduce mai all'atto e non adopera
in verun modo, perché non avendo udito, non impara dagli altri (cioè non si avvezza) a farlo, e
coll'assuefazione, di cui non ha il mezzo, non acquista la facoltà». (Zib. 2391). Sul ruolo della

228
organi, naturalmente, le loro naturali disposizioni o qualità che li rendono […]
capaci di acquistare con l'assuefaz. questa o quella facoltà, in maggior o minor
grado, numero, ec. Ma l'assuefazione ha tanta forza di modificare gli organi
(specialmente umani, più conformabili di altri) che una sola qualità o disposizione
di essi è suscettibile d'infinite e diversissime facoltà, e in diversissimi gradi» (Zib.
1803). L'assuefazione è un processo, una transizione che dalle disposizioni naturali
porta al consolidamento di facoltà specifiche 413 che sono potenzialmente
«acquistabili tutte da tutti, benché più o meno facilmente, con più lunga o più corta
assuefazione». (Zib. 2163).
Se gli organi umani sono «più conformabili di altri», ne consegue che l'uomo ha
una particolare propensione all'adattamento: «anche fra gli animali i diversi
individui di una medesima specie sono suscettibili di diversissime assuefazioni,
come lo sono gli stessi individui di variare assuefazione, il tutto secondo le
circostanze. Qual è dunque la nostra superiorità sugli animali fuorché un maggior
grado di assuefabilità e conformabilità, come fra le diverse specie di animali altre
hanno queste qualità in maggiore altre in minor grado; alcune come le scimie poco
meno dell'uomo? Dimostrato che tutte le facoltà umane ec. ec. ec. non sono altro
che assuefazione, è dimostrato che la natura dell'animo umano, come quella del
corpo, è la stessa che quella dell'animo dei bruti. Solamente varia nella specie,
ovvero nel grado delle qualità, come pure variano in questo i diversi animi delle
diverse specie di bruti». (Zib. 1762). Questa differenza «di specie» 414 istituisce gradi
molteplici di accrescimento e specializzazione delle disposizioni originarie:

Notate. L'uomo in assoluto stato di natura, il bambino, non

possibilità si veda il prosieguo di questa sezione.


413 Sulla natura processuale dell'assuefazione è utile la ricerca di Malagamba: «il termine
assuefazione […] risponde a un'idea di dinamismo, designando il processo che occupa lo spazio
mentale che intercorre tra: (i) l'assenza e la presenza di un determinato abito; (ii) diversi gradi di
abitudine; (iii) un abito ed uno diverso o contrario – processo di “dissuefazione”». A. Malagamba,
Assuefazione/Assuefabilità, cit., p. 31.
414 In un appunto del 1823 Leopardi scrive: «gli animali sono naturalmente meno conformabili
dell'uomo; […] essi per le loro naturali disposizioni, non solo non debbono acquistare altre qualità
che le destinate loro dalla natura, il che è proprio anche dell'uomo, ma non possono acquistarne
molto diverse da queste, come l'uomo può […]. Ond'è che gli animali non acquistino quasi altre
qualità che le destinate loro dalla natura, non divengano se non quali la natura gli ha voluti, quali
ella intese che divenissero nel dar loro quelle disposizioni. Il che vuol dire ch'ei si mantengono nello
stato naturale» (Zib. 3377).

229
differisce dagli animali (massime di quelli che nella catena del
genere umano sono più vicini alla specie umana), se non per un
menomo grado ch'egli ha di maggior disposizione di assuefarsi. La
differenza è dunque veram. menoma, e perfettamente gradata, fra
l'uomo in natura, e l'animale il più intelligente, come fra questo e
l'altro un po' meno intelligente ec. Ma di menoma, diventa
somma, coll'essere coltivata, cioè col porre in atto e in esercizio
quella alquanto maggiore disposizione che l'uomo ha ad
assuefarsi. […] Ecco che l'uomo viene acquistando mediante le
sole assuefazioni la facoltà di assuefarsi. La quale da una
piccolissima disposizione naturale, quasi dal grano di senapa,
cresce sempre gradatamente, ma con proporzioni sempre
crescenti, in modo che a forza di assuefazioni acquistate, e della
facoltà di assuefarsi, l'uomo arriva a differenziarsi infinitamente
da qualunque animale e dall'intera natura. E similmente col
progresso delle generazioni arriva colla stessa proporzione
crescente, a sempre più differenziarsi dal suo stato naturale, dagli
uomini primitivi, dagli antichi ec. ec. (Zib. 1923-1924).

Qui si può finalmente intravedere come la teoria antropologica dell'assuefazione si


rifletta in un'idea di storia come progressivo allontanamento dallo stato naturale. Le
riflessioni sull'apprendimento umano si concentrano soprattutto negli appunti del
1821: «chi vuol vedere come le facoltà umane siano tutte acquisite, e la differenza
che passa fra l'acquisito e il naturale o innato, osservi che tutte le facoltà di cui
l'uomo è capace, sono maggiori assai nell'uomo maturo (e civile ec.) che nel
fanciullo, se pur questi non ne manca affatto, e crescono insieme coll'uomo:
laddove le inclinazioni che sono ingenite, e ben diverse dalle facoltà generalmente
parlando, […] sono tanto maggiori, più vive, notabili, numerose ec. quanto l'uomo è
più vicino allo stato di natura, cioè o fanciullo, o primitivo, o selvaggio, o ignorante
ec.». (Zib. 2046). Come sottolineato all'inizio, la storia dell'individuo 415 è specchio
415 Sulla variazione dei caratteri individuali esiste una nota carica di una certa atmosfera
autobiografica: «rivedete dopo lungo tempo una persona che non avevate veduta se non da
fanciulla. In questi riconoscimenti, rarissimo è che si trovino corrispondenti, non solo la fisionomia,
ma l'indole ec. di tali persone, con l'idea che se ne aveva, formata sulle qualità che vi si osservavano
nell'infanzia. […] Tanto è piccola cosa nell'uomo quel che si chiama il naturale; e tanto è piccola la

230
della storia della specie: un lento e progressivo cammino di apprendimento
culturale e tecnico che modifica e altera le prime disposizioni naturali.
«Oggidì l'assuefazione […] è una seconda natura» (Zib. 1408) 416, o «mutazion di
vita» secondo le parole di Porfirio. «L'uomo quale oggi noi lo conosciamo» vive «in
società» ed è «infinitamente alterato dalle assuefazioni. Le quali essendo una
seconda natura, fanno che tutto dì si pigli per naturale, quello che non è se non loro
effetto, e bene spesso contrario onninamente a natura, o da lei diversissimo». (Zib.
3804). L'assuefazione e l'alterazione dell'uomo istituiscono società via via più
numerose e raffinate, civiltà complesse dove aumenta la specializzazione tecnica e
la differenziazione delle funzioni. Come avviene nella Storia del genere umano il
progresso può essere letto come decadimento verso uno stato via via sempre più
infelice: «non chiamerò in mio favore la setta cinica, e l'esempio e l'istituto loro,
diretto a mostrare col fatto, di quanto poco, e di quante poche invenzioni e
sottigliezze abbisogni la vita naturale dell'uomo. Non ripeterò che, siccome
l'abitudine è una seconda natura, così noi crediamo primitivo quel bisogno che
deriva dalla nostra corruzione» (Zib., 831). E pochi mesi dopo ritorna la medesima
concezione di decadenza:

non è maraviglia dunque se ogni cosa umana ci desta sempre


l'idea dell'imperfezione, e ci lascia scontenti, e se si grida che
l'uomo è imperfetto. Tale è veramente oggidì, e tale non lascerà
mai di essere, da che egli è sortito da quella perfezione che
portava con se, consistente nello stato naturale della sua specie, e
nell'uso naturale delle sue naturali disposizioni; e perdendo di
vista il tipo che aveva sotto gli occhi, e che era egli stesso, o sia la
sua stessa specie, è andato dietro a un'immagine di perfezione

parte che hanno le qualità naturali nella formazione del carattere ec. di un individuo» (Zib. 1829-
1830).
416 In una nota dello Zibaldone traspare la dimensione storica – individuale e relativa alla specie –
nella quale si inscrive la seconda natura: «noi siamo di tutt'altra natura da quella ch'eravamo.
Paragoniamoci colle nazioni naturali, e vediamo se quegli uomini si possono stimare d'una stessa
razza con noi. Paragoniamoci con noi medesimi fanciulli, e avremo lo stesso risultato. L'assuefazione
è una seconda natura, massime l'assuefazione così radicata, così lunga, e cominciata in sì tenera età,
com'è quell'assuefazione (composta d'assuefazioni infinite e diversisssime) che ci fa esser tutt'altri
che uomini naturali, o conformi alla prima natura dell'uomo, e alla natura generale degli esseri
terrestri». (Zib. 2403).

231
assoluta ed universale, che non ha né può avere nessun tipo,
giacchè questo non potrebb'essere se non anteriore all'esistenza, e
quindi per sua stessa natura non esistente, e vano; giacchè la
perfezione assoluta, (o il tipo di essa) e l'esistenza, sono termini
contradittorii. (Zib. 1910-1911).

Che cosa pertiene alla natura, cosa alle scelte dell'uomo? Il progresso è inevitabile
oppure è solo una via fra altre possibili? Un'eco di queste interrogazioni risuona
nelle riflessioni dell'autunno 1823. Se è vero, riflette Leopardi, che «la natura non
ingenera nell'uomo quasi altro che disposizioni», bisogna distinguere fra due
disposizioni: «altre sono disposizioni a poter essere, altre ad essere». Le prime
riguardano il possibile, le seconde l'inevitabile e il necessario: «per quelle l'uomo
può divenir tale o tale; può, dico, e non più. Per queste l'uomo, naturalmente
vivendo, e tenendosi lontano dall'arte, indubitamente diviene quale la natura ha
voluto ch'ei sia, bench'ella non l'abbia fatto, ma disposto solamente a divenir tale».
(Zib. 3374). Le disposizioni potenziali sono attivate dall'assuefazione alle circostanze
e possono sfociare in varie e molteplici facoltà, mentre le disposizioni naturali sono
proprie degli esseri che non subiscono alcuna alterazione e mantengono uno stato
di natura «lontano dall'arte» come gli animali sotto diversi aspetti e gradi, i
fanciulli, i primitivi. Ne consegue che la natura, donando all'uomo la disposizione a
conformarsi e ad assuefarsi, «non ha fatto altro che lasciare all'uomo la possibilità
di divenir tale o tale; né quelle sono altro che possibilità». (Zib. 3375). Attenersi alla
natura significa scegliere il suo dover essere: «una stessa disposizione è ad essere e
a poter essere. In quanto ella è ad essere, l'uomo seguendo le inclinazioni naturali, e
non influito da circostanze non naturali, non acquista che le qualità destinategli
dalla natura, e diviene quale ei dev'essere, cioè quale la natura ebbe intenzione ch'ei
divenisse, quando pose in lui quella disposizione». L'acquisizione di una seconda
natura e lo scadimento in uno stato di tedio e infelicità sono invece l'esito del libero
arbitrio che la natura ha offerto all'uomo: «in quanto ella è disposizione a poter
essere, l'uomo influito da varie circostanze non naturali, siano intrinseche siano
estrinseche, acquista molte qualità non destinategli dalla natura, molte qualità
contrarie eziandio all'intenzione della natura, e diviene quale ei non dev'essere, cioè

232
quale la natura non intese ch'ei divenisse, nell'ingeneragli quella disposizione».
(Zib. 3375). La libertà di scelta è l'unica imputazione che l'uomo può attribuire alla
natura: «s'egli non avesse avuto naturalmente questa disposizione [a poter essere],
egli non sarebbe potuto divenir tale [edotto e assuefatto]. Questa è tutta la parte
che ha la natura in ciò che tale ei sia divenuto». 417 Il destino dell'uomo avrebbe
potuto essere diverso, se egli non si fosse deliberatamente allontanato dallo stato
primitivo.418 Appare così, nel cuore del pensiero antropologico di Leopardi,
l'emergere della possibilità: un'alternativa immaginaria – l'uomo avrebbe potuto
scegliere di non apprendere per rimanere puro e ingenuo – ipotizza una condizione
che eccede la storia come processo di graduale acculturazione. 419

417 Ma sei anni dopo – il 2 gennaio 1829 – Leopardi attribuisce ben altre responsabilità alla natura:
«la mia filosofia fa rea di ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o
se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi». (Zib. 4428). Sia
questa un'ulteriore testimonianza dell'impossibilità di ricondurre all'unità il sistema leopardiano, e
non solo perché esso è esposto al divenire d'un pensiero in formazione. I campi di interesse sono
così vari, i punti di vista sul mondo così molteplici, che è impossibile rinvenire una coerenza
complessiva. In queste pagine si è ricostruita la riflessione antropologica dello Zibaldone e
dall'ultima citazione si può notare come essa possa entrare in conflitto con una teodicea cosmica.
418 Nella scelta originaria dell'uomo si riflette la mitologia biblica del Genesi: l'uomo vive in uno
stato di infelicità dopo la libagione proibita del frutto della conoscenza. Il decadimento dell'uomo e
la sua esistenza scevra da illusioni appartengono a «un principio di interpretazione della storia della
civiltà occidentale, intesa come un processo inarrestabile di decadenza destinato a manifestarsi
definitivamente in futuro». (P. Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall'Apologetica al Nichilismo,
Quodlibet, Macerata 2009, p. 189). In questo senso la condizione storica dell'uomo sarebbe affine al
modello lineare del tempo di ascendenza cristiana. Un decadimento storico immerso in un
materialismo privo di trascendenza conduce così a una visione disperata del cosmo: non a caso
Petruzzi tende a ricondurre tutto il pensiero e la poesia di Leopardi al nichilismo. Forse, tuttavia, non
esiste solo una storia lineare e la disperazione non è invincibile in Leopardi, sebbene il suo
materialismo sia incontrovertibile. Per una riflessione più complessa sarebbe forse il caso di studiare
a fondo il rapporto fra il mito di Adamo e il pensiero leopardiano. A questo proposito si rimanda al
medesimo saggio di Petruzzi (e in particolare alle pagine sugli scritti giovanili di Leopardi) e a A.
Campana, La figura di Adamo nell'opera leopardiana, in C. Gaiardoni (a cura di), La prospettiva
antropologica nel pensiero e nella poesia di Giacomo Leopardi, cit., pp. 323-335. Fecondo di possibili
scoperte potrebbe essere lo studio delle letture bibliche di Leopardi, e in particolare del Genesi e dei
relativi commenti. Per una ricerca sulle fonti si veda P. Rota, La “Biblioteca Sacra” in casa Leopardi,
Studi e problemi di critica testuale, 46, aprile 1993, pp. 143-157. Non bisogna dimenticare che
Leopardi lesse il Genesi anche in ebraico e sarebbe opportuno soffermarsi sulle differenti
interpretazioni del peccato originale nate fra ebraismo e cristianesimo. Sulla conoscenza della lingua
ebraica di Leopardi si vedano: F. Israel, Lo studio dell'ebraico in Giacomo Leopardi, Giornale storico
della letteratura italiana, 1973, pp. 334-349; F. Luciani, Giacomo Leopardi e l'ebraico. Testimonianze
edite e documenti inediti, Aevum, 5-6, 1977, pp. 525-540. Infine per un approfondimento degli studi
leopardiani dedicati alla lingua e alla cultura ebraica e all'influenza del Genesi nel pensiero del poeta
si veda P. Rota, Leopardi e la Bibbia. Sulla soglia d'“alti Eldoradi”, il Mulino, Bologna 1998; e G.
Sciloni, Leopardi e l'ebraico, in Aa. vv., Lingua e stile di Giacomo Leopardi, Atti dell'VIII convegno
internazionale di studi leopardiani, Recanati 30 settembre – 5 ottobre 1991, Olschki, Firenze 1994,
pp. 459-465.
419 Questa opposizione fra disposizione come dover essere e disposizione come poter essere
attraversa tutto il sistema della natura. Man mano che si discende l'ordine dell'esistente ci si

233
8. Memoria, poesia e paesaggio in Leopardi.

L'assuefazione si combina con l'attività di un'ulteriore, fondamentale facoltà


intellettuale: la memoria. «La memoria non è altro che una facoltà che l'intelletto
ha di assuefarsi alle concezioni, diversa dalla facoltà di concepire o d'intendere».
(Zib. 1453). Da questo appunto del 1821 traspare come la memoria sia una facoltà
cognitiva deputata a trattenere l'esperienza per consolidare l'abitudine: «la
memoria si può generalmente considerare come la facoltà di assuefazione che ha
l'intelletto. La qual facoltà è il tutto nell'uomo». (Zib. 1509). Ma la memoria è anche
un prodotto delle assuefazioni singolari e dell'assuefazione generale 420, poiché
«dipendendo dalle assuefazioni particolari, e dalla generale, e quasi non esistendo
(come si vede ne' fanciulli) senza queste, può considerarsi come facoltà presso a
poco acquisita» (Zib. 1631). Il pensiero di Leopardi non disegna nessi di
consecuzione causale fra assuefazione e memoria, ma complessi rapporti di
reciprocità: ciascuna influenza e determina l'altra. Questa relazione transitiva è
descritta ancora nei fogli 1523 e 1524, risalenti ancora all'estate del 1821: «la facoltà
di assuefarsi, in che consiste la memoria, e l'assuefazione ad assuefarsi in che

allontana dalla possibilità concessa all'uomo: «passando ai vegetabili, e quindi scendendo per tutta la
catena degli esseri, troverete che le naturali disposizioni sono di mano in mano sempre
maggiormente ad essere che a poter essere, cioè si restringono, finchè gradatamente si arrivi a
quegli enti ne' quali la natura non ha posto disposizioni né ad essere né a poter essere, ma solo
qualità». Così il «globo tutto insieme considerato» e il sistema e l'universo dispongono di qualità,
attribuzioni necessitanti scevre dalla possibilità: «ne' quali e ne' moti loro, e per dir così, nella vita, e
nell'esistenza rispettiva degli uni agli altri, niun disordine si può trovare, niuna irregolarità, niun
morbo, niuna ingiuria, niun accidente, successo o effetto che sia contro né fuori delle intenzioni
avute dalla natura nel porre in essi le qualità che ci ha posto» (Zib. 3378). Nelle riflessioni successive
Leopardi definisce ancora l'incivilimento come una possibilità insita nell'ordine delle cose, pur non
essendo un'intenzione della natura: «per quanto il fenomeno dell'incivilimento dell'uomo sia
possibile ad accadere; per quanto, considerate le disposizioni e le qualità poste in noi dalla natura e
costituenti l'esser nostro, esso fenomeno possa parer facile, inevitabile; per quanto sia comune; noi
non abbiamo il diritto di giudicarlo naturale, voluto intenzionalmente dalla natura. Grandissimi e
vastissimi avvenimenti, fecondi di conseguenze sommamente molteplici, importantissime, possono
aver luogo a mal grado, per così dire, della natura». Zib. 4462. L'uomo è dunque l'essere della
possibilità e da tale condizione potrebbe in ultimo derivare la sua infelicità (o la sua dannazione: non
ha forse scelto di abbandonare l'origine scegliendo di conoscere e di apprendere?). Per una
riflessione più articolata sul «campo aperto della possibilità» in Leopardi si veda G. Ficara, Il punto
di vista della natura. Saggio su Leopardi, il melangolo, Genova 1996.
420 La distinzione fra generale e particolare riguarda, nel «sistema» leopardiano, la differenza fra il
funzionamento complessivo dell'assuefazione e le forme di assuefazione specifiche che riguardano
ogni singolo organo o attitudine.

234
consiste quasi interamente la detta facoltà, fanno che la memoria possa anche
assuefarsi […] a ritenere un'impressione una sola volta». In seguito – 4 novembre
1821 – la memoria sembra abbracciare tutte le abitudini e non soltanto quelle
intellettuali: «la memoria è la generale conservatrice delle abitudini. O piuttosto
(giacchè vediamo che, perduto quello che si chiama memoria, pur si conservano le
abitudini) siccome la memoria, in quanto facoltà, è una pura abitudine, così ciascun
altra abitudine è una memoria». (Zib. 2047-2048). Essa coinvolge anche le attività
pragmatiche: «di memoria son provveduti tutti i sensi, tutti gli organi, tutte le parti
fisiche o morali dell'uomo, che sono capaci di avvezzarsi, e di abilitarsi, e di
acquistare qualunque facoltà» (Zib. 2048). La memoria, infine, non è soltanto
un'abitudine acquisita, ma anche una disposizione: «la memoria è da principio una
disposizione, poi una facoltà di assuefarsi che ha l'intelletto; l'assuefabilità, e le
assuefazioni delle altre parti dell'uomo, sono disposizioni e facoltà di ricordarsi, di
ritenere, che hanno esse parti». (Zib. 2048). La memoria abbraccia l'intero sistema
antropologico di Leopardi perché come disposizione e facoltà ad assuefarsi influisce
sull'apprendimento, contribuisce a determinare l'alterazione dell'uomo naturale e il
suo progressivo allontanamento dall'origine. Sembra allora che dalla memoria come
«generale conservatrice delle abitudini» scaturisca la condizione storica dell'uomo e
il suo stato di infelicità.421
La memoria, tuttavia, non si esaurisce nel legame con l'assuefazione. Un secondo
concetto di memoria appare in un pensiero dedicato al significato di «attenzione».
«Non v'è memoria senza attenzione» annota Leopardi al foglio 1733. Leopardi
definisce due tipologie dell'attenzione: «una volontaria, ed una involontaria; o
piuttosto una spirituale, un'altra materiale». La prima forma di attenzione dipende
da «l'assuefazione (e quindi facoltà) di attendere. E perciò gli uomini riflessivi e
generalmente gl'ingegni o grandi, o applicati, hanno ordinariamente buona

421 Una possibilità di fuga dalla memoria come assuefazione e dalla conseguente infelicità è uno
stato di oblio, o perdita della coscienza di sé: «gli stati d'animo meno sviluppato, e quindi di minor
vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani». (Zib. 4186). Simile
condizione di perdita del sé risuona nell'ignota spoglia del cadavere nel Bruto minore. La possibilità
della felicità come assenza di tedio e dimenticanza di sé suggerisce a Nietzsche l'apertura della
seconda delle considerazioni inattuali: Sull'utilità e il danno della storia per la vita. «Osserva il gregge
che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia... ». F. Nietzsche,
Sull'utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano 1973, p.6.

235
memoria, e si distinguono assai dal comune degli uomini nella facoltà di ricordarsi
anche delle minuzie, perché sono assuefatti ad attendere» (Zib. 1734). La memoria
come assuefazione è dunque volontaria e spirituale e attiva il primo tipo di
attenzione. Le attenzioni della seconda specie non derivano dall'assuefazione ma
«da forza e vivacità delle sensazioni, le quali colla loro impressione costringono
l'anima ad un'attenzione in certo modo materiale». Oltre all'assuefazione, dunque,
vi è una sensibilità spontanea, forse un residuo dello stato di natura: «perciò gli
spiriti suscettibili, e immaginosi, ancorchè non abbiano grande ingegno, o almeno
non abbiano l'assuefazione di molto attendere, cosa naturale in questi tali, sono
sempre d'ottima memoria, perché tutto fa in loro proporzionatamente maggiore
impressione che negli altri (E questo è forse il più ordinariamente tutto ciò che si
considera per dono NATURALE di buona e squisita memoria. Vedete com'ella sia nulla
per se stessa, e dipendente, anzi quasi tutt'uno con le altre facoltà mentali.)» (Zib.
1734-1735, il corsivo e l'enfasi grafica sono di Leopardi). Dall'attenzione materiale
deriva quindi una memoria materiale, e involontaria: «il dono della memoria pare
ad essi [agli spiriti suscettibili] ed agli altri [agli spiriti immaginosi] naturale, ed
innato precisamente, in loro, perché senza l'assuefazione di attendere, essi
attendono spontaneamente a causa della forza in certo modo materiale delle
impressioni. Quindi in gran parte deriva la durevolezza delle ricordanze di ciò che
appartiene alla fanciullezza, dove tutte le impressioni, siccome straordinarie, sono
vivissime, e quindi l'attenzione è grande benché il fanciullo non ne abbia l'abito»
(Zib. 1735). La memoria sensibile è analoga per spontaneità e assenza di
assuefazione alla sensibilità e all'immaginazione dei fanciulli e pertanto è la
disposizione più idonea al recupero delle rimembranze cariche di «meraviglia» e
«novità» legate all'infanzia. Così anche gli adulti possono ritrovare attraverso la
rimembranza le sensazioni esperite durante i primi anni di vita:

osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni


indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto
della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza,
si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un
influsso e una conseguenza di lei; o in genere, o anche in ispecie;

236
vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere ec.
perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa
sensaz. immagine ec. provata da fanciulli, e come la provammo in
quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non
deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli
oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una
ripetizione, una ripercussione o riflesso dell'immagine antica.
(Zib. 515).

La «ripercussione» è una riscoperta del passato nell'attimo d'una percezione


sensibile: una riemersione di un'immagine, parvenza che rievoca l'infanzia. 422
Emerge qui evidente il materialismo sensista di Leopardi. La rappresentazione «alla
fantasia» non ha nulla di spirituale o immateriale perché ogni ripetizione
immaginaria è un atto della sensazione, impressione vivissima inscritta nella
fisiologia del corpo. Le impressioni scatenate dai ricordi, inoltre, sono stimolate da
due ordini di esperienze materiali: il ritrovamento delle tracce appartenenti al
passato e il ritorno nei luoghi conosciuti e vissuti in epoche precedenti.
L'affioramento del passato come traccia è l'occasione che ispira il canto dedicato ad
Angelo Mai: «Italo ardito, a che giammai non posi / Di svegliar dalle tombe / I
nostri padri? ed a parlar gli meni / A questo secol morto, al quale incombe / Tanta
nebbia di tedio? E come or vieni / Sì forte a' nostri orecchi e sì frequente, / Voce
antica de' nostri, / Muta sì lunga etade? e perché tanti / Risorgimenti? In un balen
feconde / Venner le carte; alla stagion presente / I polverosi chiostri / serbaro
422 «Certe idee,certe immagini di cose supremam. vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci
dilettano sommam., o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perché ci richiamano le
rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e
credenze ci erano familiari e ordinarie» (Zib. 4513). E poco dopo: «molte immagini, letture ec. ci
fanno un'impressione ed un piacer sommo, non p. se, ma perché ci rinnuovano impressioni e piaceri
fattici da quelle stesse o da analoghe immagini e letture in altri tempi, e massimam. nella
fanciullezza o nella prima gioventù. Questa cosa è frequentiss.: ardisco a dire che quasi tutte le
impressioni poetiche che noi proviamo ora, sono di questo genere, benchè noi non ce ne
accorgiamo, perchè non vi riflettiamo, e le prendiamo p. impressioni primitive, dirette e non
riflesse» (Zib. 4514). Chiosa Antonio Prete: «la “rimembranza della fanciullezza” è una riserva di
immagini produttive di altre immagini: l'attenzione “volontaria” di noi adulti, “assuefatta” ad un
esercizio che sceglie “ciò che ci preme” e scorda “ciò che c'importa”, è soltanto uno stimolo, casuale
e avventuroso, che può aprire il varco perché l'altra attenzione, quella “involontaria” del fanciullo,
restituisca immagini a lungo coltivate, e in questa restituzione disegni uno dei “piaceri possibili”, il
piacere della ricordanza». A. Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano 1980, p.
43.

237
occulti i generosi santi / Detti degli avi». Nella poesia scritta nel gennaio del 1820 e
dedicata ad Angelo Mai, filologo scopritore della Repubblica di Cicerone, il poeta
elogia il risorgimento dall'oblio delle tracce antiche, segni sommersi nella
dimenticanza che in un «baleno» il filologo-archeologo riporta in vita. La
«ripercussione» del passato nella percezione presente disvela un procedimento
conoscitivo alternativo all'apprendimento per assuefazione, quasi una rottura del
«tedio» dominante nel «secol morto». Un approccio simile affiora nel Discorso di
un italiano intorno alla poesia romantica del 1818 a proposito del confronto fra
antichi e moderni in merito alle possibilità di modulazione poetica:

ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente
si comprende che la poesia dovette essere agli antichi oltremisura
più facile e spontanea che non può essere presentemente a
nessuno, e che a' tempi nostri per imitare poetando la natura
vergine e primitiva, e parlare il linguaggio della natura (lo dirò
con dolore della condizione nostra, con disprezzo delle risa dei
romantici) è pressoché necessario lo studio lungo e profondo de'
poeti antichi. Imperocché non basta ora al poeta che sappia imitar
la natura; bisogna che la sappia trovare, non solamente aguzzando
gli occhi per iscorgere quello che mentre abbiamo tuttora
presente, non sogliamo vedere, impediti dall'uso, la quale è
sempre stata necessarissima opera del poeta, ma rimuovendo gli
oggetti che la occultano, e scoprendola, e disseppelendo e
spastando e nettando dalla mota dell'incivilimento e della
corruzione umana quei celesti esemplari che si assume di ritrarre.
A noi l'immaginazione è […] rimessa nello stato primitivo o in
tale che non sia discosto dal primitivo, rifatta capace dei diletti
soprumani della natura, dal poeta.423

Qui lo scavo nella storia non riguarda più il filologo, ma il poeta: egli rievoca, grazie
a uno studio faticoso e una ostinata applicazione, la natura come vestigia emersa
dallo scavo, segno ritrovato d'una condizione primitiva che riposa forse ancora nel

423 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 386.

238
profondo. Da questa ipotesi d'una persistenza naturale discende il canto dedicato
alla primavera: «Vivi tu, vivi, o santa / Natura? Vivi e il dissueto orecchio / Della
materna voce il suono accoglie? / Già di candide ninfe i rivi albergo, / Placido
albergo e specchio / Furo i liquidi fonti».424 Il ritrovamento, tuttavia, non si dà
pienamente425 e il canto vibra fra l'immaginazione del tempo che fu e la coscienza
del presente. In forma meno ipotetica e dubitosa Plotino nelle Operette morali
sostiene che «quantunque sia grande l'alterazione nostra, e diminuita in noi la
potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e
innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte dell'uomo antico». 426
Nonostante tutto si conserva ancora un residuo di natura.
La possibilità d'una persistenza appare concreta anche negli appunti giovanili
redatti nel 1819 per un progetto di biografia che non vedrà mai la luce. Là, nel
magma della scrittura, emergono alcune intuizioni sorprendenti: «passeggiare su e
giù disinvoltamente in mezzo alla gente e mie considerazioni sul perdere questo
stesso che fanno gli uomini e poi cercar con tutti i modi di tornare là onde erano
partiti e quello stesso che già avevano per natura cioè la disinvoltura ec.

424 Secondo Prete l'eventualità del ritrovamento è possibile solo entro i confini del linguaggio
poetico: «la natura è fuori dallo spazio umano: se di essa restano tracce, solo l'interrogazione dei
poeti, della scrittura poetica, può forse dirlo». A. Prete, Il pensiero poetante, cit., p. 117. La traccia è
fondamentale nell'interpretazione di Prete e oscilla fra la parvenza ipotetica ( «pura congettura
produttiva di critica» ) e la possibilità concreta della voce poetica («memoria di ciò che è perduto)».
Cogliere nella traccia un pertugio per indebolire l'ineluttabilità della storia progressiva e vedere in
essa un elemento minimo di scaturigine del poetico: sono suggestioni affascinanti per
l'interpretazione di Leopardi. Secondo Prete solo «alla poesia riesce – almeno per quanto è lungo il
canto – l'impossibile agli uomini». S. Natoli e A. Prete, Dialogo su Leopardi. Natura, poesia, filosofia,
Bruno Mondadori, Milano 1998, p. 51.
425 Galimberti sostiene che «la mitologia gaia commemorata nella canzone Alla primavera è ormai
un meraviglioso fantasma, che si è per sempre sottratto alla vista dei mortali; tentare di richiamarla
in vita è impossibile, com'è impossibile far rinascere la poesia d'immaginazione, sola autentica
poesia ma irreparabilmente perduta». (C. Galimberti, Cose che non son cose. Saggi su Leopardi,
Marsilio, Venezia 2001, p. 42). Il critico tuttavia riconosce anche che il «nichilismo» di Alla
primavera è «ammaliato dalla memoria della bellezza vivente come Totalità e dal lampeggiare delle
sue superstiti tracce; e, dal rimpianto per quella Totalità e dalla commozione dinanzi a queste tracce,
non solo testimonianza ma canto appassionato, non meno ricco di nuova, vivente bellezza nel gioco
delle immagini e dei ritmi». Ibidem, p. 47.
426 G. Leopardi, Dialogo di Plotino e di Porfirio, cit., p. 206. E così nel Discorso intorno alla poesia
romantica: il poeta «per tanto deve coll'arte sua quasi trasportarci in quei primi tempi, e quella
natura che ci è sparita dagli occhi, ricondurcela avanti, o più tosto svelarcela ancora presente e bella
come in principio». (G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 365).

239
Osservazioni applicabili anche alle arti». 427 La riscoperta428 dell'origine ispira una
«applicazione» poetica: è una via d'ispirazione al canto. I versi, così, traggono forza
dalla rievocazione del perduto: «Quando le rupi e le deserte valli / Precipite l'alpina
onda feria / D'inudito fragor; quando gli ameni / Futuri seggi di lodate genti / E di
cittade romorose, ignota / Pace regnava; e gl'inarati colli / Solo e muto ascendea
l'aprico raggio / Di febo e l'aurea luna».429 Il tempo precedente alla storia ritorna
come immagine poetica e vibra nel contrasto con le età presenti.
La stessa tensione scaturisce dal confronto fra le speranze dell'infanzia e la
condizione adulta dal momento che la rimembranza è un recupero della speranza
antica («A voi ripenso, o mie speranze antiche») al tempo della desolazione
moderna. All'epoca della disillusione e della conoscenza del vero le speranze
ritornano ammantate da una veste di malinconia: «O speranze, speranze; ameni
inganni». Quando in A Silvia430 il poeta accoglie la rimembranza degli anni della
427 G. Leopardi, Ricordi d'infanzia e di adolescenza, in Id., Poesie e prose, cit., p. 1198. L'anelito a
ritrovare la «condizione primitiva degli uomini» abita anche le pagine giovanili del Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica: «è necessario che, non la natura a noi, ma noi ci adattiamo alla
natura. […] E questo adattarsi degli uomini alla natura, consiste in rimetterci coll'immaginazione
come meglio possiamo nello stato primitivo de' nostri maggiori, la qual cosa ci fa fare senza fatica il
poeta padrone delle fantasie». (Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 357).
Questa «inclinazione al primitivo» può emergere dalle cose stesse: «qualora ci imbattiamo in oggetti
non tocchi dall'incivilimento, quivi e in ogni reliquia e in ogni ombra della prima naturalezza, quasi
soprastando, giocondissimamente ci compiacciamo con indistinto desiderio». Ibidem, p. 358.
428 Di vero e proprio «ritorno», dopo gli anni giovanili, non si potrà più parlare. Natoli è categorico:
«nessuna forma di ritorno è possibile». S. Natoli e A. Prete, Dialogo su Leopardi, cit., p. 44. Questo è
senz'altro vero, ma la ripercussione, più che un ritorno indietro, è un ritrovamento, una riscoperta
dell'origine entro lo scorrere del presente. Il tornare indietro prevede ancora un modello lineare di
storia, oppure circolare; il ritrovamento, forse, assume una puntualità che permette di trascendere il
corso progressivo ordinato sullo spostamento in avanti e indietro.
429 «Il ricordo di quella beatitudine divina e il desiderio di farla rinascere nella storia, è il sogno
della poesia: all'età dell'oro segue la poesia […] e all'età primitiva segue la civiltà ». G. Ficara, Il punto
di vista della natura, cit., p. 12. Il canto, certo, inizia dentro alla storia e non v'è possibilità di
regredire. Ma come interpretare la forza della rievocazione? Il ricordo, nell'attimo del suo
pronunciamento desiderante, corrobora ancora il valore della storia progressiva, oppure ne corrode
la tenuta?
430 Sulla attesa di futuro ritrovata nel passato sono pertinenti le osservazioni di Getto: «il tempo
positivo della poesia leopardiana è il passato e il futuro. […] Ma poi lo stesso futuro sembra
rifugiarsi nel passato, avere cioè una possibilità di vita poetica soltanto come speranza sorta nel
passato, come memoria di una speranza, come ricordo di una attesa. A Silvia è impostata per
l'appunto su questo particolare sentimento del tempo: un tempo custodito dalla memoria, il
ritrovamento di un passato che è stato traboccante di speranza». G. Getto, «A Silvia», in Id., Saggi
leopardiani, Vallecchi Editore, Firenze 1966, pp. 194-195. Secondo Getto, Silvia risorge dal tempo
lontano «come una visione luminosa, in un tempo di splendore», quasi che la speranza del passato si
irradiasse per un attimo nel presente, estinguendosi in nostalgia malinconica. Il ritrovamento del
futuro nel passato non è forse uno sconvolgimento del tempo omogeneo della storia lineare?
Potrebbe dunque essere, questa, una strategia per rompere il corso progressivo di disfacimento e
ritrovare nel presente il riverbero lontano della speranza? Anche nella poesia dedicata ad Angelo

240
gioventù, il ritrovamento dei sentimenti di allora trascorre in dolore per lo stato
presente: «Quando sovviemmi di cotanta speme, / Un affetto mi preme / Acerbo e
sconsolato, / E tornami a doler di mia sventura». La poesia s'innalza quando la
sensazione passata irrompe nel poeta e tange il presente della rimembranza: il
remoto tempo dell'infanzia s'imbatte nella vicinanza del tempo appena esperito e la
poesia si nutre della conflagrazione fra il passato ritrovato e il presente sconsolante.
L'incontro fra temporalità differenti avviene alla presenza concreta dei luoghi, e
non solo grazie all'emersione delle tracce. Ne Le ricordanze il poeta pronuncia i
versi dal luogo natale in cui un tempo soleva contemplare le stelle: «Vaghe stelle
dell'Orsa, io non credea / Tornar ancor per uso a contemplarvi / Sul paterno
giardino scintillanti, / E ragionar con voi dalle finestre / Di questo albergo ove
abitai fanciullo, / e delle gioie mie vidi la fine». Nello stesso luogo, e al ritornare
delle stesse stelle, si ripercuote la sensazione passata, seppur pregna dell'infelice
disillusione assaporata nel presente. La memoria involontaria – a differenza di
quella spirituale, facoltà interiore dell'intelletto – prende vita nel mondo esterno e
nell'attimo in cui il soggetto si ritrova immerso nel suo paesaggio, e da esso
circondato. Scrive Leopardi nel dicembre 1828, lo stesso anno delle Ricordanze e di
A Silvia: «un oggetto qualunque, p. e. un luogo, un sito, una campagna, p. bella che
sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla. La medesima,
ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo
a rimembrarlo». (Zib. 4426). Il «poetico» si dà nel rinvenimento di esperienze
trascorse ma connesse ancora ai luoghi presenti, come se fossero conservate fra le
colline e il mare: il risveglio del passato avviene nel ritrovamento concreto del
paesaggio dell'infanzia.431 In un frammento dell'anno precedente Leopardi rimembra
una particolare condizione vissuta negli anni precedenti, quando non aveva una
dimora stabile: «m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro,

Mai torna la speranza passata, quella degli antenati riposta nella generazioni successive: «Di noi
serbate, o gloriosi, ancora / Qualche speranza?».
431 «Questi ricordi sono sempre ricordi “inquadrati”, inseparabili cioè da un contesto, da
un’atmosfera o da uno stato d’animo che costituisce la loro particolare colorazione. Per questo, la
memoria involontaria, sebbene “sia nulla per se stessa”, considerata cioè indipendentemente rispetto
allo sviluppo, mediante assuefazione, delle altre facoltà mentali, è tuttavia la sede dei ricordi più
vividi e duraturi». A. Aloisi, Memoria e attenzione volontaria nello Zibaldone, Rivista internazionale
di studi leopardiani, 7, 2011, p. 91.

241
mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, fintantoché io non
aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava,
alle vie, alle case che io frequentava». Solo dopo aver ridestato «copia di ricordanze
annesse ai luoghi abitati da me», il poeta può affermare: «qui fui tanto tempo fa;
qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii tal cosa» (Zib., 4286). Una riflessione altrettanto
significativa è conservata nel tredicesimo aforisma dei Pensieri: «come trovandoci
in luoghi dove siano accadute cose o per se stesse o verso di noi memorabili, e
dicendo, qui avvenne questo, e qui questo, ci reputiamo, per modo di dire, più vicini
a quegli avvenimenti, che quando ci troviamo altrove; così quando diciamo oggi è
l'anno, o tanti anni, accadde la tal cosa, ovvero la tale, questa ci pare, per dir così,
più presente, o meno passata, che negli altri giorni».432 La rimembranza è risvegliata
«in quelle stesse circostanze», è stimolata dal «qui» e ora esposti al mondo aperto,
e non prende forma nel chiuso della coscienza individuale. Sussiste in questa
concezione un «legame tra lontananza e prossimità, tra oltretempo stellare e
condizione umana».433
Nell'appunto del 1828 del foglio 4426 Leopardi conclude che «la rimembranza è
essenziale e principale nel sentimento poetico, non p. altro, se non perché il
presente, qual ch'egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo,
si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago» (Zib., 4426). Il
ricordo, dunque, evoca una lontananza, produce la «sensazione presente» di
un'entità remota e irraggiungibile: «così sempre nel presente ci piace e par bello
solam. il lontano, e tutti i piaceri che chiamerò poetici, consistono in percezion di
somiglianze e di rapporti, e in rimembranze» (Zib. 4495).434 Leopardi in questi
432 G. Leopardi, Pensieri, in Id., Poesie e prose, cit., p. 291. Il ricordo delle ricorrenze deriva dalla
memoria viva delle tradizioni nazionali e delle feste. Così Leopardi a proposito della cultura ebraica:
«le feste del popolo Ebreo furono tutte religiose. Ma presso tutti i popoli antichi, massimamente
però presso gli ebrei, la religione era strettissimamente legata colla storia della nazione. […] Tutte le
feste del Pentateuco richiamano e consacrano e perpetuano la memoria di qualche grande
avvenimento degli antenati, di qualche antico benefizio di Dio verso la nazione, ec e son tutte feste
nazionali e patriottiche, appartenendo o ai fatti de' loro Eroi considerati non meno come nazionali
che come santi, o delle opere di Dio, considerato da loro quasi capo della nazione, e quasi principe
de' loro Eroi, guida, condottiero, maestro de' loro antenati, ed origine immediata della loro stessa
razza». (Zib. 1441-1442).
433 A. Prete, Sull'antropologia poetica di Leopardi, cit., p. 3.
434 Rilevante anche l'incipit del frammento: «ci piace e par bella una pittura di paese, perché ci
richiama una veduta reale; un paese reale, perché ci par da dipingerci, perché ci richiama le pitture.
Il simile di tutte le imitazioni (pensiero notabile)» (Zib. 4495, corsivo dell'autore). È da notare che
l'imitazione è un concetto importante nelle riflessioni leopardiane, tanto da apparire in rapporto alla

242
spunti non percepisce il passato a distanza secondo la prospettiva dello storicismo,
ma lascia che il tempo remoto appaia come emersione nel qui e ora del presente:
«per tua man presenti / Paion que' giorni» confessa il poeta alla figura dell'Angelo
Mai evocata dal canto. Quando all'improvviso diviene sensibile la lontananza del
tempo, il passato appare come un'eco o lieve baluginio; in questo intreccio di spazio
e tempo s'origina la possibilità del canto.
Come conciliare la ripercussione della lontananza con il corso di decadimento
storico? Nei canti dedicati alla natura originaria e alle ricordanze si riflette un senso
della storia che s'oppone al processo graduale e omogeneo di decadenza: la
possibilità d'un ritorno in forma di concreta immagine poetica – indotto dal
ritrovamento delle tracce e dal contatto con il paesaggio – indebolisce un poco la
necessità della storia come costante allontanamento dall'origine. 435 Qui riposa forse
l'enigma più affascinante del pensiero e della poesia di Leopardi: non è più concesso
il ripristino assoluto dello stato originario, 436 eppure sembra ancora esistere la
possibilità di recuperare grazie alla poesia la traccia del naturale abbandonato, i
resti dell'infanzia perduta.437 Un'intermittenza increspa il disfacimento progressivo e

memoria e all'assuefazione: «la memoria non è quasi altro che virtù imitativa, giacchè ciascuna
reminiscenza è quasi un'imitazione che la memoria, cioè gli organi suoi propri, fanno delle
sensazioni passate, (ripetendole, rifacendole, e quasi contraffacendole); e acquistano l'abilità di farla,
mediante un'apposita e particolare assuefazione, diversa dalla generale, o esercizio della memoria
[…]. Così dico delle altre imitazioni, e assuefazioni, che sono quasi imitazioni ec. Tanto più che quasi
ogni assuefazione e quindi ogni attitudine abituale acquisita della mente, dipende in gran parte dalla
memoria ec» (Zib. 1383, corsivi dell'autore). Forse qui Leopardi riconduce l'assuefazione particolare
all'attività che discende dall'attenzione materiale? Più avanti l'imitazione è associata in maniera più
generale all'assuefazione: «la facoltà di imitazione non è che facoltà di assuefazione» (Zib. 3941)
435 A proposito della sensibilità e dell'attenzione materiale scrive Malagamba in merito al lessema
“attenzione”: «sembra porre l'individuo in diretto contatto con sensazioni esterne non ancora
incardinate nel sistema dei processi assuefattivi». A. Malagamba, Attenzione, in N. Bellucci, F.
D'Intino, S. Gensini (a cura di), Lessico leopardiano, cit., p. 40.
436 «Da questo stato di corruzione, l'esperienza prova che l'uomo non può tornare indietro senza un
miracolo». (Zib. 403).
437 Così Prete nel suo saggio sulle favole antiche: «in questa gelida terra d'un sapere del male, in
questo deserto dove il vento ha il nome del nulla, in questo paesaggio dove la natura è morente, la
nostalgia dell'origine cerca ancora un ritmo: non un ritorno, né una resa, ma la possibilità che quel
confine – di silenzio e di assenza, quel confine dove la poesia prende la sua parola – dia al pensiero
un frammento del suo stupore e della sua trasparenza, forse il tremito, o l'illusione, o il sogno, d'una
svolta». A. Prete, Favola antica, in S. Natoli e A . Prete, Dialogo su Leopardi, cit., p. 77. E altrove: «il
tempo, irreversibile per sua natura, sempre già stato, il tempo che mai non ritorna, osservato nel
caldo specchio della lingua poetica, dove, sebbene in forma di parvenza trasognata e fuggitiva, quel
tempo concluso e fatto cenere prende un nuovo ritmo, sicché quel che da sempre è perduto ritrova
un suo improvviso palpito, e nel vuoto della mancanza risuona la musica del verso». E si dischiude
così un'anteriorità, dimensione dell'«antico, del primitivo, del fanciullo». A. Prete, Sull'antropologia
poetica di Leopardi, cit., p. 3.

243
la dolcezza ispirata dalla ripercussione si mesce con la coscienza dolorosa del
presente storico: si tratta forse di un'estrema illusione poetica, avanzata contro e
nonostante la consapevolezza dei moderni? La domanda deve restare sospesa, ma
può essere accompagnata da una valutazione critica: il ricordo materiale e sensibile
è un ritrovamento immediato di un'altra temporalità, riflesso immaginario e
concreto al contempo, estraneo sia al decadimento progressivo sia all'anelito di
regressione, quasi uno spostamento laterale, un momentaneo abbandono della
linearità storica.438
Il ritrovamento d'una lontananza temporale è forse un cenno lieve che emerge dagli
oggetti e dal paesaggio, così effimero da tramutarsi in rimpianto. In questo senso la
poesia «è il luogo dove si fa esperienza di quella capacità d'ascolto propria del
fanciullo e dell'antico. È il luogo dove la ricordanza lambisce la terra della favola
antica, il ritmo porta nel cuore della parola lo stupore dell'origine, le immagini
danno al lontano la confidenza della prossimità».439 Come conciliare, allora, il
ritrovamento – momentaneo, effimero, forse solo l'esito d'un riflesso – della
naturalezza originaria e l'inevitabile appartenenza al corso della storia civile? Esiste
forse una contraddizione fra l'impossibilità di uscire dalla condizione della
modernità e il tentativo di recuperare il perduto come traccia della lontananza? Di
certo il dissidio non è del tutto risolvibile: l'attrito stesso è fonte della tensione
poetica. Ma insieme alla contraddizione sussiste un'ipotesi ulteriore: è forse
438 Non si può pertanto concordare del tutto con la lettura progressiva di Leopardi proposta da
Luporini nel primo Dopoguerra. Lo studioso ritiene che «egli non solo crede al progresso di
elementi particolari del mondo umano, come scienza, tecniche, filosofia, linguaggi, ecc., ma crede a
un generale progresso dell'incivilimento». C. Luporini, Leopardi progressivo, Editori Riuniti, Roma
1980, p. 61. Sebbene Luporini abbia ragione a sottolineare le istanze moderne in Leopardi e a
contestare le interpretazioni votate a difendere una pulsione regressiva e anelante al passato, non
coglie la possibilità di trascendere il modello di storia come percorso lineare. Il ritrovamento
dell'origine come rifrazione o risorgimento nel presente è un evento che non riguarda né il
movimento in avanti, né quello all'indietro. Non è dunque casuale che Luporini tenda a neutralizzare
il primitivo definendolo un «punto di riferimento puramente mentale». Mancano nel saggio i
riferimenti alla memoria e alla corrispondenza fra sviluppo filogenetico e sviluppo ontogenetico.
439 A. Prete, Dialogo su Leopardi, cit., p.74. Una certa assonanza emerge anche dallo studio di Folin:
A. Folin, La natura leopardiana da vicino e da lontano, “aut aut”, 258, 1993, 51-67. E in particolare: «la
natura non è semplice “idea” lontana immaginata dal soggetto, e vivente in un mondo allòtrios, ma
un apparire che si rivela esattamente nel rapporto tra vicino e lontano, in un'immagine vera che è,
ad un tempo e congiuntamente, vicina e lontana (nel tempo e nello spazio)». Ibidem, p. 60. E poco
oltre: «questa apparizione è però possibile solo se il lontano entra in violento contatto con il vicino,
determinando un contraccolpo dove tra idea e corpo si stabilisce istantaneamente quell'unione
simbolica che era patrimonio dell'immaginazione antica, ma che la ratio moderna ha
irreversibilmente infranto». Ibidem, p. 62.

244
possibile ritrovare la natura e l'infanzia passando attraverso la civiltà, la storia e il
linguaggio.

Non è dubbio che l'uomo civile è più vicino alla natura che l'uomo
selvaggio e sociale. Che vuol dire questo? La società è corruzione.
In processo di tempo e di circostanze e di lumi l'uomo cerca di
riavvicinarsi a quella natura onde s'è allontanato, e certo non per
altra forza e via che della società. Quindi la civiltà è un
riavvicinamento alla natura. Or questo non prova che lo stato
assolutamente primitivo, ed anteriore alla società ch'è l'unica
causa di quella corruzione dell'uomo, a cui la civiltà proccura p.
natura sua di rimediare, è il solo naturale e quindi vero, perfetto,
felice e proprio dell'uomo? Come mai quello stato ch'è prodotto
dal rimedio si dee, non solo comparare, ma preferire a quello ch'è
anteriore alla malattia? Il quale già nel nostro caso, voglio dir lo
stato veramente primitivo e naturale, non è mai più recuperabile
all'uomo una volta corrotto (non da altro che dalla società), e lo
stato civile (socialissimo anch'esso, anzi sommam. sociale) n'è ben
diverso. Bensì egli è preferibile al corrotto stato selvaggio: questa
preferenza è ben ragionevole, e segue ed è secondo il nostro e il
sano discorso: ma non al vero primitivo ec. (Zib. 3802).

Solo attraverso la civiltà440 e la storia è possibile riavvicinarsi all'origine, coglierne


le tracce e i bagliori puntuali pur senza mai ritrovare pienamente la felicità perduta.
Un simile movimento di attraversamento concerne anche la scrittura e la ricerca
stilistica. Nel Discorso intorno alla poesia romantica Leopardi sostiene che per gli
antichi la poesia era un'imitazione «delle cose naturali» effettuata con «divina

440 Un ragionamento analogo è avanzato da Giulio Ferroni, sebbene il campo d'indagine non sia
propriamente la poesia e la civiltà, ma la filosofia: «la filosofia come medicina dei mali umani giunge
a scoprire in se stessa la motivazione del male: ma nel conclusivo proposito di rimediare a se stessa
possiamo leggere ormai non soltanto una cancellazione della stessa filosofia, ma il primo
suggerimento di una filosofia del rimedio, di un impegno della civiltà e della ragione a correggere i
propri eccessi, recuperando, pur entro lo svelamento della verità della condizione umana, un
orizzonte di idealità comuni, di solidarietà di fronte al dolore». G. Ferroni, Rimediare alla civiltà:
antropologia ed ecologia, in C. Gaiardoni (a cura di), La prospettiva antropologica nel pensiero e nella
poesia di Giacomo Leopardi, cit., p. 163.

245
sprezzatura»: per loro era naturale essere ingenui e sensibili, così da cantare la
natura senza pensiero. I romantici moderni, invece, imitano «snaturatissimamente»
e il loro stile è greve di artificiosa affettazione. 441 Come scrivere, allora, se «la molta
scienza ci toglie la naturalezza e l'imitare non da filosofi ma da poeti, come
facevano gli antichi»? «Schivare» l'artificio «è difficilissimo, non impossibile: ben
ci bisogna grandissimo studio di quei poeti che di scienza più scarsa fecero
quell'uso, senza del quale è inutile ai poeti moderni la scienza più larga».442 Lo
«studio lungo e profondo de' poeti antichi» è una ricerca consapevole – e non certo
spontanea – volta al ritrovamento della semplicità originaria. Il poeta moderno
riscopre così il sentimento della natura «saputamente e volutamente, e non quasi
per ventura come d'ordinario gli antichi».443 Il lavorio poetico deve essere tanto
intenso da realizzare uno stile in cui risuoni di nuovo la «divina sprezzatura»; così
l'artificio diviene impercettibile e oltre la parola s'intravede il naturale originario. 444
Nello Zibaldone si legge: «quell'inaffettato, quel dipingere al vivo le cose o i
sentimenti, le passioni ec. e far grandissimo effetto quasi non volendo, è bellezza
eterna perch'è naturale, ed è il solo vero modo d'imitar la natura, anche imitandola
vivissimamente, e l'imitazione più esatta può essere anzi è per lo più la meno
naturale, e quindi la meno imitazione» (Zib. 1414, corsivo dell'autore). «La poesia è
civiltà o non è nulla»: la poesia è l'estremo limite della civiltà, la soglia dove è forse
ancor possibile riscoprire la natura.445

441 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 399.
442 Ibidem, p. 403.
443 G. Leopardi, Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, cit., p. 394.
444 Influisce qui la teoria della sprezzatura esposta da Castiglione nel Cortegiano. Il brano è raccolto
dallo stesso Leopardi nella Crestomazia: «fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e
pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nuova parola, usar in ogni cosa una certa
sprezzatura, che nasconda l'arte,e dimostri, ciò che si fa e dice, venir fatto senza fatica, e quasi senza
pensarvi». Castiglione, Cortegiano, libro I, in G. Leopardi, Crestomazia italiana. La prosa, cit., p. 521.
445 G. Ficara, Il punto di vista della natura, cit., p. 13.

246
Si può allora concludere che grazie all'attenzione materiale 446 e allo studio faticoso447
è possibile rinvenire nella civiltà la parvenza o la traccia di quanto s'è smarrito. Nel
cuore del vivere civile s'apre l'eventualità d'un recupero della lontananza che
appare nella storia: «il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento;
consiste ancora, in gran parte, in recuperare il perduto. (18 Sett. 1827)». (Zib. 4289).
E questo ritrovamento non implica un ritorno indietro, ma è un balzo improvviso
fuori dal disfacimento portato dal progresso.

9. Memoria epica e lontananza.

Nell'aprile del 1829 Leopardi riprende la riflessione sulla lontananza del ricordo:

Chi ha viaggiato, gode questo vantaggio, che le rimembranze che


le sue sensazioni gli destano, sono spessis. di cose lontane, e però
tanto più vaghe, suscettibili di fare illusione, e poetiche. Chi non
si è mai mosso, avrà rimembr. di cose lontane di tempo, ma non
mai di luogo. Quanto al luogo (che monta pur tanto, che è più
assai che nel teatro la scena), le sue rimembr. saranno sempre di

446 Se l'attenzione volontaria e spirituale, legata all'assuefazione, è responsabile dell'incivilimento e


dell'allontanamento dalla natura, l'attenzione materiale sembra essere l'attitudine intellettuale adatta
a ritrovare la natura nel corso della storia: «mentre l’attenzione volontaria o spirituale ci permette di
ricordare ciò che avevamo effettivamente intenzione di memorizzare, l’attenzione involontaria o
materiale ci consente, tutto al contrario, di ricordare solo ciò di cui si è fatto esperienza in uno stato
di estrema distrazione. “Distrazione”, in questo caso, non vuol dire – come precisa Leopardi –
“disattenzione”, ma dispersione dell’attenzione in una molteplicità di oggetti che, con la forza
materiale della loro impressione, trascinano spontaneamente la nostra attenzione ora da una parte
ora dall’altra, impedendole di concentrarsi su un oggetto determinato. Di questo tipo è appunto la
distrazione che di solito si attribuisce ai bambini, che sono “tanto più distratti, quanto più suscettibili
di sensazioni vive e profonde”, di sensazioni che, con la forza materiale della loro impressione,
determinano un rilancio o un “rimbalzo continuo” dell’attenzione. La distrazione quindi non è
dovuta a una mancanza, bensì a un eccesso di attenzione, o più precisamente a un eccesso di
attenzione involontaria o materiale, che riduce necessariamente quella volontaria o spirituale». A.
Aloisi, Memoria e attenzione volontaria nello Zibaldone, cit., pp. 85-86.
447 Anche Galiberti rileva che «il metodo negativo del filosofare ultimo dovrebbe poter condurre a
qualcosa di simile alla totale ignoranza del bambino e del selvaggio “più vergine”, soli sapientissimi
e non esclusi dalla felicità; al riparo, almeno, dalla ossessione del male e della morte». (C. Galimberti,
Cose che non son cose, cit., p. 163). Così si dischiude «l'ipotesi di un ritrovamento […] di una
condizione conoscitiva e vitale incontaminata». (Ibidem, p. 169). Tuttavia Galimberti affievolisce le
possibilità di un ritrovamento e propende infine per l'interpretazione d'una poesia e d'un pensiero
intrisi di gnosticismo: «a un nulla patito come disvalore e sofferenza intrinseci al vivere [Leopardi]
oppone in definitiva il nulla come sola dimensione sovranamente libera da limiti, punto a cui tende
nel suo ciclico moto Ogni creata cosa ». (Ibidem, p. 187).

247
cose, p. così dir, presenti; però tanto men vaghe, men capaci
d'illusione, men soggette all'immaginaz. e men dilettevoli. (Zib.
4485).

Più è intenso l'effetto della lontananza, più si effonde dal ricordo un alone di
vaghezza, stimolo del piacere, della poesia e dell'abbandono all'immaginazione. La
lontananza in questo frammento media fra la dimensione spaziotemporale
dell'esperienza vissuta e le circostanze in cui si sprigiona il ricordo. La riflessione
torna nei Pensieri:

Chi viaggia molto, ha questo vantaggio dagli altri, che i soggetti


delle sue rimembranze presto divengono remoti; di maniera che
esse acquistano in breve quel vago e quel poetico, che negli altri
non è dato loro se non dal tempo. Chi non ha viaggiato punto, ha
questo svantaggio, che tutte le sue rimembranze sono di cose in
qualche parte presenti, poiché presenti sono i luoghi ai quali ogni
sua memoria si riferisce.448

Leopardi è fra coloro che non han viaggiato molto; nei Canti la poesia delle
rimembranze è ispirata dai luoghi «presenti» che durante l'infanzia accolsero tante
speranze e desideri. Esiste una traduzione tedesca degli anni Venti dello stesso
pensiero che insiste con maggiore nettezza sul legame fra i luoghi e i contenuti
mnestici.

War viel reist, hat anderen gegenüber den Vorteil, daß die
Gegenstände, an denen seine Erinnerung haftet, sich schnell von
ihm entfernen, so daß sie in kurzer Zeit etwas Unbestimmtes und
Poetisches bekommen, was anderen die Zeit verliehen wird. Wer
garnicht gereist ist, hat den Nachteil, daß alle seine Erinnerungen
in gewissem Sinne gegenwärtig sind, da ja alle Stätten, an die sich
sein Gedächtnis heftet, gegenwärtig sind. 449
448 G. Leopardi, Pensieri, cit., p. 332.
449 G. Leopardi, Gedanken, Deutsch von Dr. R. Peters, Fackelreiter-Verlag, Hamburg-Bergedorf
1928, pp. 67-68.

248
In tedesco il verbo “heften” significa “attaccare, fissare qualcosa”. La traduzione
suona dunque così: «gli oggetti a cui si attacca il suo ricordo, si allontanano veloci
da lui»; e alla fine: «tutti i luoghi, a cui si attacca la memoria, sono presenti».
Spicca – al di là delle effettive intenzioni del traduttore – un aspetto che già è
emerso dalle note dello Zibaldone: la sensazione ricordata intrattiene un legame
materiale con il luogo dell'esperienza, ne è quasi avvinta, e non è solo un'iscrizione
interiore e soggettiva.
Nel 1928 Walter Benjamin recensisce la traduzione tedesca dei Pensieri e nel breve
intervento si sofferma sulle analogie che accomunano il poeta di Recanati e
Hölderlin: «è più che naturale che la vita della giovinezza, a cui essi hanno dato
forma, sia rimasta interamente inaccessibile alla sensibilità del XIX secolo, e l'abbia
indotta a usare l'arma prediletta dello slogan con un'ostinazione del tutto
particolare. Nel caso di Hölderlin, parla di “idealismo” […]. A Leopardi rende lo
stesso servizio la sigla del “pessimismo”, che trasforma parimenti il suo creare in
qualcosa di astratto». 450
Dunque Benjamin aveva letto i Pensieri, e con una certa
attenzione critica.
Un riflesso delle considerazioni leopardiane raggiunge il saggio di Benjamin su
Leskov e il tramontare della narrazione.

«Chi viaggia, ha molto da raccontare», dice il detto popolare, e


concepisce il narratore come quello che viene da lontano (der von
weiter kommt). Ma altrettanto volentieri si ascolta colui che,
vivendo onestamente, è rimasto nella sua terra, e ne conosce le
storie e le tradizioni. Chi si voglia rappresentare questi due gruppi
nei loro esponenti arcaici, troverà l'uno incarnato nell'agricoltore
sedentario, e l'altro nel mercante navigatore. […] Se contadini e
marinai furono i primi maestri del racconto, la sua scuola
superiore è stato l'artigianato. Dove la conoscenza di paesi lontani
(die Kunde von der Ferne) acquisita da chi ha molto viaggiato si

450 W. Benjamin, Giacomo Leopardi, Pensieri, in Id., Opere complete 3. Scritti 1928-1929, Einaudi,
Torino 2010, pp. 71-72.

249
univa a quella del passato, che appartiene piuttosto ai residenti. 451

Il narratore è colui che giunge da lontani paesi e nella sua voce risuona l'eco di
notizie dalla lontananza (Kunde von der Ferne). Ma è un narratore anche colui che è
rimasto nel proprio Land e conserva le storie (Geschichten) locali. Dal passo di
Benjamin la lontananza pare assumere un senso esclusivamente spaziale, mentre il
tempo sembra coinvolgere la trasmissione della tradizione. Tuttavia subito dopo si
legge: «Leskov è a suo agio nella lontananza dello spazio come in quella del tempo»
(Lesskow ist in der Ferne des Raumes wie der Zeit zu Hause).452 Nel lontano
s'intrecciano ancora spazio e tempo.
L'arte del narratore volge al tramonto perché ormai è quasi compiuto il lento
processo di disfacimento della tradizione orale: «si vede subito che ciò che trova ora
più facilmente ascolto non è più la notizia che viene da lontano, ma l'informazione
che offre un aggancio immediato. La notizia che veniva di lontano – che fosse la
distanza spaziale di paesi stranieri o quella temporale della tradizione –, godeva di
un prestigio che le assicurava validità anche se non era sottoposta a controllo». È
proficuo seguire anche la versione originale in tedesco: «Das stellt mit einem
Schlage klar, daß nun nicht mehr die Kunde, die von fernher kommt, sondern die
Information, die einen Anhaltspunkt für das Nächste liefert, am liebsten Gehör
findet. Die Kunde, die aus der Ferne kam – sei es die räumliche fremder Länder, sei
es die zeitliche der Überlieferung – , verfügte über eine Autorität, die ihr Geltung
verschaffte, auch wo sie nicht der Kontrolle zugeführt wurde». L'inciso,
nell'originale tedesco, non menziona alcuna «distanza» e letteralmente recita: «la
notizia che veniva di lontano – fosse una lontananza spaziale di paesi stranieri,
fosse una lontananza temporale della tradizione –, godeva di un prestigio...». La
vicinanza e la simultaneità dell'informazione scancellano poco a poco la vaghezza
poetica delle cronache.
Con l'eclissarsi della narrazione anche «la capacità di scambiare esperienze» tende
a svanire. Le trasformazioni sociali ed economiche di lungo periodo hanno

451 W. Benjamin, Il narratore: considerazioni sull'opera di Nicola Leskov, in Id., Angelus novus, cit., pp.
248-249.
452 Ibidem, p. 249.

250
lentamente vanificato il compito e l'arte del narratore mediatore del consiglio,
custode delle tradizioni e della sapienza trasmesse «di bocca in bocca» attraverso i
racconti. La modernità intensifica la portata del collasso:

Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che


da allora non si è più arrestato. Non si era visto, alla fine della
guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca,
ma più povera di esperienza (Erfahrung) comunicabile? Ciò che
poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di
guerra, era stato tutto fuorché esperienza passata di bocca in
bocca. E ciò non stupisce. Poiché mai esperienze furono più
radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di
posizione, di quelle economiche dall'inflazione, di quelle fisiche
dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori di
potere.453

La possibilità di trasmettere l'esperienza dipende dalla memoria e «la memoria


(Gedächtnis) è la facoltà epica per eccellenza». Nel cuore del saggio sul narratore
Benjamin schizza una storia naturale del ricordo e della narrazione descrivendo lo
sviluppo di due serie genetiche: una relativa all'epica, una alla memoria. In
entrambe le serie è posto un principio generale da cui discendono generi particolari
distinti per differenze interne. Il principio generale della prima linea genetica è la
stessa epica: essa racchiude tutte le pratiche orali e scritte funzionali alla
trasmissione dell'esperienza. Fra queste si distingue la storiografia
(Geschichtsschreibung), «il punto di indifferenza creativa di tutte le forme dell'epica.
In questo caso la storia scritta starebbe alle forme epiche come la luce bianca ai
colori dell'iride». Nell'accezione benjaminiana la storiografia abbraccia le cronache
antiche che registravano in sequenza i fatti del «corso del mondo», ovvero le
trascrizioni di eventi disposti uno dopo l'altro, senza spiegazione e privi di nessi
causali. Dall'indistinto della cronaca sorge la prima e più antica forma dell'epica:
l'epos. Esso «racchiude in sé, in stato per così dire d'indifferenza, la narrazione e il

453 Ibidem, p. 248.

251
romanzo». La narrazione, «sottospecie musale dell'epico», discende dal lavorio del
narratore, colui che «crea la rete che tutte le storie finiscono per formare fra loro».
Leskov ne è il rappresentante crepuscolare. L'ultima forma apparsa – il romanzo – è
rimasta a lungo indistinta, embricata com'era nel grembo della narrazione.
Il processo generativo delle facoltà memoriali è analogo e parallelo a quello dei
generi. E così il ricordo (Erinnerung) fonda la «catena della tradizione che tramanda
l'accaduto di generazione in generazione» ed è «l'elemento musale dell'epica in
senso lato». La memoria epica (episches Gedächtnis) è invece «l'elemento musale del
racconto», la facoltà di Leskov e dei suoi predecessori. Da essa discende «l'elemento
musale del romanzo», «la reminiscenza o ricordo interiore»:

la sua presenza si lascia intuire a volte nell'epos. Così soprattutto


in luoghi solenni dei poemi omerici, come le invocazioni della
musa all'inizio. Ciò che si annuncia in questi luoghi, è la memoria
eternante del romanziere rispetto a quella dilettevole del
narratore. La prima è dedicata a un solo eroe, a una sola traversia
o a una solo lotta; la seconda ai molti fatti dispersi. È, in altre
parole, la reminiscenza o ricordo interiore (Eigendenken), che,
come elemento musale del romanzo, si affianca alla memoria
(Gedachtnis), elemento musale del racconto, una volta scissa, nella
dissoluzione dell'epos, l'unità della loro origine nel ricordo
(Erinnerung).454

La memoria epica, figlia del ricordo, appartiene ancora alla tradizione ed è inscritta
nel tessuto collettivo della società. Il narratore ha il compito di ravvivare, racconto
dopo racconto, la fiamma dell'esperienza perché il ricordo è un eredità comune,
circola nei luoghi e s'incarna – attraverso segni, rituali, feste 455 – negli spazi vissuti
da una determinata comunità. Oppure, dopo aver tanto viaggiato, il narratore lascia
che la memoria emerga dalla sua voce viva quando condivide in pubblico le
esperienze acquisite. La reminiscenza del romanziere, invece, sembra appartenere
454 Ibidem, pp. 262-263.
455 Per il rapporto con le feste e la tradizione si veda la considerazione dello Zibaldone alla cultura
ebraica citata nella nota 116. Il senso d'una vicina lontananza dipende da un tessuto sociale specifico,
come già si è notato sul frammento di Strada a senso unico dedicato alla visione delle costellazioni.

252
alla privata interiorità dell'individuo singolo e assume una dimensione più
spirituale e immateriale.
In un breve frammento dei primi anni Trenta – Scavare e ricordare – Benjamin
compara il lavorio della memoria allo scavo archeologico: «la memoria non è uno
strumento, bensì il medium stesso, per la ricognizione del passato. È il medium di
ciò che si è esperito, allo stesso modo in cui la terra è il medium in cui sono sepolte
le città antiche. Chi cerca di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi
come un individuo che scava». Le immagini estratte sono dei «gioielli in abiti
sobri», ma è fondamentale che l'attenzione dell'archeologo non si rivolga solo al
reperto ritrovato:

s'inganna sui lati migliori chi fa solo l'inventario degli oggetti


ritrovati e non sa indicare nel terreno attuale esattamente il luogo
in cui era conservato l'antico. Così i ricordi veri devono non tanto
procedere riferendo, quanto piuttosto designare esattamente il
luogo nel quale colui che ricerca si è impadronito di loro. In
maniera epica e rapsodica nel senso più stretto del termine, il
ricordo reale deve dunque offrire anche un'immagine di colui che
si sovviene, allo stesso modo in cui un buon resoconto
archeologico non deve limitarsi a indicare gli strati da cui
provengono i propri reperti, ma anche e soprattutto quelli che è
stato necessario attraversare in precedenza.456

Il ricordo non è un'entità indipendente, né è un dato assoluto conservato in un


archivio, ma appartiene alle vive circostanze del suo ritrovamento. Il narratore che
scava nella memoria è autenticamente epico solo se i suoi racconti vibrano fra
un'epoca remota e il presente della rimembranza. Solo così, «in maniera rapsodica»,
egli evoca a sé e tramanda l'esperienza alla collettività.
Allora il ricordo è un'emersione immediata e localizzata di una lontananza: un
baluginio nell'aperto paesaggio o un'insorgenza fra le pieghe della tradizione
modulata dalla memoria sociale. Questa forma di memoria ha una fisionomia

456 W. Benjamin, Scavare e ricordare, in Id., Opere complete V, Einaudi, Torino 2003, p. 112.

253
nettamente differente dal paradigma della distanza elaborato da Calvino. A questo
proposito le riflessioni avanzate nella Prefazione del 1964 a Il sentiero dei nidi di
ragno sono degne di essere recuperate ancora una volta. Nella Prefazione Calvino
dedica ampio spazio alla violenza che la letteratura può infliggere ai ricordi figurati
come anguille catturate ed estratte dagli stagni della memoria. 457 Dopo aver vissuto
un tratto di storia ricco di eventi e di insegnamenti come la guerra partigiana, chi si
dedica alla scrittura ancora non sa che «il primo libro diventa subito un diaframma
fra [se] e l'esperienza» e «brucia il tesoro di memoria – quello che sarebbe
diventato un tesoro se avess[e] avuto la pazienza di custodirlo, se non avess[e]
avuto tanta fretta di spenderlo, di scialacquarlo, […] insomma d'istituire di
prepotenza un'altra memoria, una memoria trasfigurata al posto della memoria
globale coi suoi confini sfumati» (R I, p. 1203). Le «immagini privilegiate» restano
«bruciate dalla precoce promozione a motivi letterari», mentre quelle non ancora
scritte e tenute in serbo deperiscono «perché tagliate fuori dall'integrità naturale
della memoria fluida e vivente». La «proiezione letteraria» che cristallizza i
movimenti della vita «ha fatto sbiadire, ha schiacciato la vegetazione dei ricordi in
cui la vita dell'albero e quella del filo d'erba si condizionano a vicenda». Così
l'esperienza, che secondo Calvino è «la memoria […] più il cambiamento che ha
lasciato in te e ti ha fatto diverso», si prosciuga e «lo scrittore si ritrova ad essere il
più povero degli uomini». (RR I, p. 1203).458
Sono frasi scritte soltanto due anni dopo la prima edizione di Angelus novus ed è
probabile che Calvino avesse presente sin dai primi anni Sessanta il saggio sul
narratore. Sebbene l'ordine dei problemi sia il medesimo (il ritorno dalla guerra, la
povertà dell'esperienza, il ruolo del narratore), Calvino rovescia le tesi del filosofo
tedesco. Se per Benjamin la crisi dell'Erfharung è un esito delle trasformazioni
sociali in corso nel Novecento e il tramonto della narrazione ne è l'effetto più
rilevante, per lo scrittore ligure è il racconto a distruggere l'esperienza piena e
autentica acquisita durante un «tratto di storia ricco di eventi». La differenza è
rilevante perché coinvolge il senso da attribuire a «esperienza» e «ricordo». Nella
457 Sulla metafora dei ricordi come anguille si veda la terza parte, paragrafo 9.
458 E anche nel capitolo più teorico di Se una notte d'inverno un viaggiatore sostiene Silas Flannery:
«Il libro della mia memoria? No, la memoria è vera fino a che non la si fissa, finché non la si chiude
in una forma». (RR II, p. 789).

254
definizione di esperienza («l'esperienza è la memoria più la ferita che ti ha lasciato,
più il cambiamento che ha lasciato in te e ti ha fatto diverso»), si nota come l'autore
ligure propenda per un ripiegamento nella dimensione individuale: il patrimonio
estratto dalla vita vissuta non appartiene più alla collettività, ma assume una
connotazione privata, sebbene mai riveli sfumature intimistiche. La trasformazione
della memoria tradizionale e collettiva (Gedachtnis) in ricordo interiore
(Eigendecken), «tesoro» appartenente a un soggetto singolare, pare compiuta. Il
paesaggio non è più il luogo da cui appare una lontananza, ma è un'immagine
interiore che trattiene una «vegetazione di ricordi». Non luogo da attraversare, ma
un grembo di immagini proiettate a una certa distanza.

10. Il punto di vista degli archeologi.

Nelle Tesi di filosofia della storia Benjamin afferma che «la vera immagine del
passato passa solo di sfuggita. Solo nell'immagine che balena una volta per tutte
nell'attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato».459 L'apparizione
immediata del passato non configura un'immagine oggettiva osservata in
prospettiva: «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come
propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena
nell'istante di un pericolo».460 Nel suo saggio su Benjamin, Carchia nota che questa
emergenza del ricordo avviene sulla soglia che separa il sonno dalla veglia: «il
risveglio è un punto di fluttuazione, di transizione: solo nel ricordo esso è capace di
trovare il materiale della conoscenza». Il risveglio consente una «rottura col tempo
vuoto della storia inaugurato dalla modernità»461 e infrange per un attimo la
continuità lineare della storia. Tale discontinuità non è una regressione nella
preistoria, ma un ritrovamento immediato d'una lontananza entro il corso
omogeneo della «storia temporalizzata»: «la forza rammemorante dell'anima può
insediarsi solo nella mancanza e nella perdita introdotte dall'accelerazione storica

459 W.Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus novus, cit., p. 77.
460 Ibidem, pp. 77-78. Tale metodo permette di rinvenire la speranza conservata nel passato: il
redentore della storia «ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza» Una possibilità
apparsa anche nell'Angelo Mai: «Di noi serbate, o gloriosi, ancora / Qualche speranza?».
461 G. Carchia, Nome e immagine. Saggio su Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata 2009, p. 135.

255
del tempo che attacca al passato l'insegna dell'irrevocabilità».462 La possibilità di
un'alternativa, quindi, si dà nel tempo storico della civiltà moderna e non nella fuga
da esso: «solo la storia temporalizzata […] apre nel contempo lo spazio anche di
quel ricordo che per sempre ne trattiene l'apparenza».463
Anche Celati nel suo saggio sull'archeologia come «storia critica» – Il bazar
archeologico – trae una conclusione analoga: «da tracce di zone dimenticate, [i testi
e i documenti marginali] divengono memorie e recupero di un'altra verità che la
storia non può conoscere perché ha rimosso. Ma la loro verità sta proprio nella
verità della loro rimozione, ossia nella verità della Storia. La loro verità deriva dalla
Storia». Questo, secondo Celati, è il «paradosso» della sua archeologia: «dobbiamo
sempre riferirci a qualche grammatica, altrimenti cadrebbe ogni differenza tra
esempi monumentali ed emergenze diverse. Se la Storia è questa grande
grammatica dell'agire umano che la nostra civiltà non ha mai smesso di proporre,
anche dicendo che questa non è che una macchina di rimozione, dobbiamo partire
da lì per parlare di ciò che la storia ha rimosso».464
Il saggio di Celati è un crocevia fondamentale perché accoglie le riflessioni sulla
storia esaminate sin qui e indica il punto di confluenza fra queste e l'indagine
generale sul paesaggio. A questo proposito è necessario recuperare il contesto che
ha ispirato l'intervento. Il bazar archeologico è stato scritto fra il 1970 e il 1972 in
occasione del progetto di rivista elaborato insieme a Calvino, Carlo Ginzburg, Enzo
Melandri e Guido Neri. Oltre a essere una descrizione dei metodi e degli orizzonti
della rivista, il saggio dialoga con l'intervento parallelo di Calvino, Lo sguardo
dell'archeologo. I due testi appartengono alla seconda fase della progettazione,
quando gli interessi dei redattori si concentrano sulla dispersione e sulla
frammentazione dei reperti culturali. In particolare la letteratura appare loro non
più come discorso universale o come un corpus articolato delle conoscenze sul
cosmo, ma si presenta come un cumulo disordinato e disfatto di oggetti
disseppelliti. Secondo Calvino «lo sguardo dell'archeologo» si posa «sul passato
come su questo spaccato stratigrafico che è il nostro presente, disseminato di

462 Ibidem, p. 143.


463 Ibidem, p. 147.
464 G. Celati, Il bazar archeologico, in Id., Finzioni occidentali, cit., p. 213.

256
produzioni umane frammentarie e mal classificabili: industrie metalliche, megaliti,
veneri steatopigie, scheletri di ecatombi, feticci». (S, p. 325). Così anche per Celati
l'archeologo del contemporaneo deve far fronte a «un mucchio di immagini
frante», cumulo di detriti dove ogni oggetto dimenticato «emerge come scarto o
detrito di un contesto inabissatosi, e di cui non si può raccontare la storia; perché la
storia, ogni storia, deve affidarsi al “c'era una volta” di tutte le epiche, ossia
presuppone un'identificazione col passato».465 La frammentazione dell'esistente,
secondo Celati, corrode la possibilità di formulare configurazioni narrative
armoniche e stabili: la letteratura diventa il campo d'indagine di reperti dispersi
privi d'una dimensione teleologica.466 Meno radicale la posizione di Calvino: «ci è
ugualmente estraneo il compiacimento dell'inesplicabile: teleonomico anch'esso,
anche se il Soggetto cui rimanda è incognito. Al contrario: il rifiuto a usare noi oggi
qui come spiegazione delle cose obbligherà alla fine le cose a spiegare noi oggi qui.
(Molto alla lunga; ogni percorso d'avvicinamento deve includere il punto più
lontano; sempre il levante si buscherà per il ponente)». (S, p. 326). Calvino avanza
ancora la pretesa di ritrovare un «senso», «disegnare la mappa della prigione» o
addirittura rinvenire «la grammatica generale di ciò che esiste». (S, p. 327). Per
Celati invece la storia è solo lo sfondo negativo su cui si staglia l'emergere di
oggetti privi di «motivazioni interne», restii a ogni interpretazione, avvolti da una
densità enigmatica: «la poetica archeologica per questo non può fare a meno
dell'effetto letterario che si chiama straniamento, come segnalazione di qualcosa in
cui non mi posso identificare perché rifiuta di essere il mio specchio diretto».467 Il
confronto con «l'altro che non conosco» comporta un'archeologia del «silenzio»,
«d'una emergenza che essendo muta obbliga chi la deve classificare e spiegare ad
un farneticante vagheggiamento».468 Dall'impossibilità d'una riconfigurazione
coerente dell'esistente dipende la critica al concetto di storia: «la reliquia, l'oggetto-

465 Ibidem, pp. 198-199.


466 Così in Verso la foce appaiono i detriti trascinati dalle acque: «Per terra rena fine sull'asfalto, e
qui deve esserci stata l'acqua fino ad epoche molto recenti. Ere in cui c'erano solo pescatori di valle
che non parlavano l'italiano, considerati come zingari dalle popolazioni dell'interno (da mio padre,
ad esempio), e intorno cumuli di detriti portati dal fiume, smantellati dall'aria e dall'acqua, depositati
sulle piccole strisce di fango in queste valli ora prosciugate. Oggetti buttati via nei cespugli attorno a
cui si accumula la rena fine, e questa strada non porta da nessuna parte». (VF, pp 111-112).
467 G. Celati, Il bazar archeologico, cit., p. 208.
468 Ibidem, p. 211.

257
ricordo che Benjamin pone in primo piano, svolge la funzione di rendere
impossibile l'identificazione con un evento del passato, a partire da quella
continuità omogenea e totalizzante che viene chiamata la storia». Benjamin segna
dunque un passaggio obbligato per la critica della storia progressiva.469
Calvino rimane fedele alla lineare polarità fra regresso e progresso: «non si va
avanti se non rimettendo in gioco qualcosa che già si credeva punto d'arrivo,
acquisto consolidato, certezza. Ma con questa avvertenza: altro è essere pronti a
retrocedere per meglio saltare, altro è idoleggiare (ideologizzare) la regressione;
anche nel giorno in cui meno siamo sicuri (sperimentalmente) di che cosa sia
progresso, la regressione resta il nome d'un pericolo preciso (sperimentato)». (S, p.
325).470 Celati invece tenta di destituire dal suo interno il modello lineare. A questo
proposito è decisiva la differenza nei presupposti e nelle forme dello sguardo
attivati dalla storia e dall'archeologia:

l'archeologia […] ha una vocazione discenditiva, o catagogica: non


fornisce all'insieme molare degli avvenimenti alcun punto di
agnizione […]. Essa mima o compie una regressione, e perciò le
469 Oltre alle Tesi di filosofia della storia Celati menziona il saggio Eduard Fuchs, il collezionista e lo
storico, ora in W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit. Per un
bilancio delle riflessioni archeologiche svolte all'inizio degli anni Settanta si veda l'Introduzione di
Lino Gabellone a L. Gabellone, L'oggetto surrealista. Il testo, la città, l'oggetto in Breton, Einaudi,
Torino 1977. Di particolare interesse è la critica alla storia progressiva intesa come procedimento di
rimozione dell'estraneo: «la storia (come storiografia) è sempre storia di una appropriazione
dell'oggetto, al prezzo dell'esclusione di altri oggetti; appropriazione che significa trattamento
dell'oggetto per sottrarlo alla sua estraneità – o alla sua indifferenza –, spogliarlo dei suoi connotati
propri e renderlo familiare grazie a certi meccanismi proiettivi o a investimenti narcisistici.
L'oggetto mi parlerà allora di un altrove, che io potrò metaforicamente identificare al qui, di una
differenza che potrò ridurre a somiglianza, di un ignoto che potrò ricondurre al noto, di un altro che
potrò assimilare a me stesso e in cui potrò specchiarmi. Vista in questa prospettiva, la storia è
innanzitutto una razionalizzazione che segue un modello lineare di rimozione». (Ibidem, pp. 3-4).
L'archeologia si oppone alla storia come regressione verso l'origine: «per poter capire come la
rimozione s'è prodotta, e a che punto invece il divorzio non s'è ancora compiuto». (Ibidem, p.11).
Non si tratta dunque di un ristabilimento di una immaginaria età dell'oro, ma di una «storia critica»
determinata a decostruire la teleologia della storia. Non un ritorno al passato, dunque, ma una
interrogazione genealogica delle rimozioni operate dalla storia. L'archeologia di Gabellone e quella
di Celati sono dirette discendenti dell'archeologia teorizzata da Enzo Melandri in E. Melandri, La
linea e il circolo, cit.
470 Quasi dieci anni dopo, in un articolo del 1980, Calvino espone i risultati degli scavi archeologici
della villa romana di Settefinestre, vicino a Orbetello. La visita è l'occasione per riflettere sul metodo
archeologico e sulla validità dei suoi risultati. Sorprende come la conclusione sia una netta
riaffermazione della storia lineare, quasi una palinodia delle riflessioni elaborate con Celati: «la pala
e la cazzuola dell'archeologo cercano di ricostruire la continuità della storia attraverso i lunghi
intervalli oscuri». (S, p. 497).

258
manca la veduta d'insieme. Perché la regressione, come discesa
nel tutto pieno del tempo, fa sì che a livello molecolare i punti
focali o punti d'agnizione si moltiplichino sproporzionatamente,
richiedendo un perpetuo aggiornamento del punto di vista. Così
nel campo delle metafore ottiche, se è la visione prospettica la
metafora propria dello storicismo, l'eidetismo è quello proprio
dell'archeologia. 471

Ancora una volta il paradigma della visione ispira una concezione del tempo
analoga a quella dello spazio: la prospettiva ordina gli eventi a partire da un punto
di vista immobile e li dispone su una linea a distanze proporzionali dall'osservatore;
l'apparizione enigmatica d'una lontananza suggerisce invece la costituzione fugace
di uno spazio-tempo puntiforme e disomogeneo. Qui si chiariscono i fondamenti
teoretici delle diverse scritture paesaggistiche.

11. La memoria collettiva.

In Verso la foce lo scrittore si espone all'aria aperta, attende che le immagini lo


raggiungano e si lascia trasportare dal suono delle voci: «ascoltare una voce che
racconta fa bene, ti toglie dall'astrattezza di quando stai in casa credendo di aver
capito qualcosa “in generale”. Si segue una voce, ed è come seguire gli argini d'un
fiume dove scorre qualcosa che non può essere capito astrattamente».472 Da questa
disponibilità all'aperto e alla ricezione dell'imprevisto s'origina Narratori delle
pianure. Afferma lo scrittore in un'intervista: «nell'81-82-83 ho girato lungo il Po e
sul delta del Po, annotando racconti e voci che sentivo». Dispersi nella pianura i

471 G. Celati, Il bazar archeologico, cit., p. 210. Come si è già notato, in Collezione di spazi Celati
individua il legame fra il distanziamento prospettico e il senso della storia nei Promessi sposi,
romanzo dove «tutto preludeva a una ambientazione dei fatti nell'orizzonte assoluto della Storia».
La descrizione che apre il primo capitolo sarebbe così funzionale all'ideologia dell'opera: «è la Musa
della Storia che porta con sé la necessità di un distanziamento del vedere […]. La Storia è per forza
una veduta a distanza, perché spiega tutti gli avvenimenti mettendoli retrospettivamente in una
griglia di date e di fatti catalogati». G. Celati, Collezione di spazi, cit., pp. 69-70. Al di là della
valutazione critica, è interessante notare come sia ben chiara a Celati l'analogia fra spazio
prospettico e tempo della storia. Anche i «punti focali o punti d'agnizione» qui citati sono analoghi
ai punti di visione interna che torneranno quasi tre decenni dopo in Collezione di spazi.
472 G. Celati, Verso la foce, cit., p. 57.

259
narratori scambiano ancora resti di esperienza, liberano parole e gesti che
incrociano il campo di attenzione dello scrittore: «una sorella di mia madre mi ha
ripetuto per tre volte il racconto, a distanza di tempo, con le stesse parole dette in
dialetto dai doganieri, che lei ricorda come una formula». (NP, p. 90). I racconti
recuperati durante le camminate nel paesaggio padano sono modellati dal lavorio di
uno scrittore che «non [ha] quasi niente da dire, tranne quel poco che ti pare di
aver sentito come echi dispersi. Importante è che un racconto faccia immaginare
qualcosa, anche solo barbagli di immagini».473 Gli echi collettivi viaggiano di bocca
in bocca perché, in fondo, «noi viviamo dentro al “sentito dire” collettivo, ossia che
tutto il mondo per noi sia foderato di “sentito dire”».474 La dimensione individuale si
dissolve in un sentire corale, s'aprono zone di comunicazione dove linguaggi,
pensieri, conoscenze circolano intorno. Tale visione del mondo è ancora in sintonia
con le ricerche di Luigi Ghirri. Sostiene lo scrittore:

[la fotografia] è un metro di misura per immaginare e per capire


quello che è fuori dalla cornice del visibile, fuori di noi – ma
soprattutto per capire i modi percettivi delle cose qualsiasi che
rimangono per lo più inconsci. Per cui io direi che ogni cosa
fotografata è come il reperto d'un inconscio esterno, formato da
tutto quello che è fuori di noi: da ciò che vediamo per terra, dagli
oggetti qualsiasi o i gesti della gente, dall'apertura dello spazio in
un luogo alle rughe d'un vecchio.475

La dimensione del «fuori di noi» si oppone polemicamente alla forma di vita di un


«individuo moderno chiuso nel proprio guscio». Per superare la separazione fra le
singole menti serrate nella loro autonomia, Celati crede «sia utile una ripresa di
un'idea di intellezione collettiva» perché «essere al mondo vuol dire essere con gli
altri dall'inizio alla fine. Anche se sono su un'isola deserta, gli altri sono sempre con
me in una trama che determina i miei gesti, i miei atteggiamenti, quello che voglio
473 G. Celati, Elogio della novella, in Id., Conversazioni del vento volatore, cit., p. 42.
474 G. Celati, Sulla fantasia, in Id., Conversazioni del vento volatore, cit., p. 75.
475 G. Celati, Sui luoghi e il lavoro con Luigi Ghirri, in Id., Conversazioni del vento volatore, cit., p. 68.
Indubbiamente l'idea di un «inconscio esterno» è figlia delle riflessioni sull'inconscio ottico nella
Piccola storia della fotografia di Benjamin.

260
e non voglio».476 L'organo più importante per entrare in comunicazione con il
mondo e con gli altri è la fantasia che consente l'invenzione e lo scambio collettivo
di immagini e storie: «volevo fare una raccolta di racconti quotidiani. Il
presupposto era quello che ho detto: l'uomo come essere fantasticante, sempre in
stati di incantamento per effetto del sentito dire».477
Nel breve intervento Sulla fantasia Celati menziona il De anima di Aristotele e si
sofferma sul significato di phantasma perché «queste immagini della mente, dice
Aristotele, sono una combinazione di ciò che abbiamo percepito attraverso i sensi e
ciò che opiniamo con l'intelletto». Grazie alla mediazione di Aristotele
l'immaginazione confluisce nella memoria: «nel trattato sulla memoria [Aristotele]
dice che la memoria è un portato dell'immaginazione; dunque immaginazione e
memoria non sono separabili. Ricordare vuol dire in qualche modo immaginare la
cosa ricordata, ripensarla fantasticamente. È anche l'idea di Gianbattista Vico, il
quale diceva che “la memoria è l'istesso della fantasia”».478 Secondo Vico, d'altra
parte, «la fantasia non è qualcosa di soggettivo, ma una vasta memoria collettiva
che ci collega al passato e anche a ciò che è lontano da noi, fino ai limiti
dell'umano».479 La teoria vichiana permette a Celati di portare ancora una volta la
memoria e l'immaginazione fuori dai confini del privato individuo, 480 in un campo

476 G. Celati, Sulla fantasia, cit., pp. 76-77.


477 G. Celati, Letteratura come accumulo di roba sparsa..., in Id, Conversazioni del vento volatore, cit.,
p. 126. Scrive bene Rizzante: «chi cammina e si inoltra nel flusso di ciò che lo circonda […] si rende
ben presto conto che l'incanto di quanto osserva, accoglie e raccoglie, non è dato affatto dalla sua
veridicità, dal suo paralizzante e nudo potere di evento avvenuto una volta per sempre, quanto
piuttosto dalla sua infinita ripetizione: un fatto, di “sentito dire” in “sentito dire”, ci si fa incontro in
tutta la sua memorabilità, in quanto carico di tutti gli innumerevoli spazi immaginativi che, “in un
modo o nell'altro”, ha attraversato per giungere a noi». M. Rizzante, “Camminare nell'aperto incanto
del sentito dire”, in M. Belpoliti, M, Sironi (a cura di), Riga 28. Gianni Celati, cit., pp. 304-309.
478 G. Celati, Sulla fantasia, cit., pp. 71-72. Ma davvero in Aristotele memoria e immaginazione sono
equivalenti? Secondo Ricœur ciò che distingue la memoria dall'immaginario è la temporalità, ovvero
il legame referenziale che le immagini mnestiche intrattengono con un passato. L'immaginazione,
invece, può sconfinare nei regni del sogno, dell'irrealtà, della finzione. Afferma Ricœur: «la notion
de distance temporelle est inhérente à l'essence de la mémoire et assure la distinction de principe
entre mémoire et imagination». P. Ricœur, La mémoire, l'histoire, l'oubli, Seuil, Paris 2000, p 23. Non
è importante, in questo contesto, verificare l'acribia filologica di Celati, quanto dimostrare come due
letture alternative di Aristotele implichino differenti impostazioni epistemologiche. La comparsa
della “distance” nella argomentazione del filosofo francese, in questo senso, non è affatto casuale ed
è indizio rilevante della tensioni che questo lavoro cerca di portare alla luce.
479 G. Celati, Sulla fantasia, cit., p. 73.
480 Ancora Rizzante: «l'io dell'esperienza, per quanto solo e separato, è con gli altri, sempre». M.
Rizzante, Camminare nell'aperto incanto del sentito dire, cit., p. 309.

261
di collegamenti nel quale la «memoria collettiva»481 trattiene un legame con la
lontananza temporale.482
C'è un racconto in Narratori delle pianure, Fantasmi a Borgoforte, che descrive
l'apparizione di un fantasma nel paesaggio mantovano «lungo il fiume avvolto da
banchi di nebbia». In una sera di pioggia due donne in macchina incontrano un
bambino fermo sul ciglio della strada e gli danno un passaggio. Una prima anomalia
riguarda l'identità del bambino: le due signore abitano da anni in quelle zone e mai
lo hanno visto, né hanno sentito parlare di lui, dei suoi genitori; la seconda
stranezza, poi, è ancora più inquietante: quando il bambino è uscito dall'auto ed è
scomparso nella nebbia le due tastano il sedile, ma «per quanto toccassero, non
hanno trovato tracce di bagnato» (NP, pp. 60-61). Secondo un libraio di Mantova, a
cui le donne chiedono consiglio, esistono «strade o percorsi di immagini» zone in
cui viaggiano e si incontrano «molte immagini quotidiane, o immagini d'altri tempi
che chissà perché era capitato loro di vedere, come quella del bambino». Secondo il
libraio, il fantasma è un revenant che appare nel paesaggio di tutti i giorni: «un
pezzo di tempo che torna, in una spirale di ripetizioni, a cui nessuno fa caso perché
riconosce solo le proprie immagini, perché crede ciecamente alla propria esistenza»
(NP, p. 63). Le emergenze del tempo si presentano a una sensibilità capace di
perdersi là fuori: «dalla finestra del soggiorno riuscivano a vedere un ristorante
481 Nel Novecento la riflessione più importante in merito alla memoria collettiva è nata in campo
sociologico dagli studi del francese Halbwachs. Alcuni spunti tratti dai suoi appunti sulla memoria
collettiva possono aiutare a inquadrare meglio il problema. In opposizione alla teoria secondo cui il
passato dimora nella memoria individuale, Halbwachs sostiene che «ce qui subsiste, ce n'est pas,
dans quelque galerie souterraine de notre pensée, des images toutes faites, mais c'est, dans la société,
toutes les indications nécessaires pour reconstruire telle part de notre passé que nous nous
représentons de façon incomplète ou indistincte, ou que, même, nous croyons entièrement sorties de
notre mémoire». M. Halbwachs, La mémoire collective, édition critique établie par Gérard Namer,
Albin Michel, Paris 1997, p. 126. Un'impostazione, anche questa, orientata verso l'esterno, e non
verso l'interno: «le souvenir est là, hors de nous, éparpillé peut-être entre plusieurs milieux».
Ibidem, p. 84. Non sorprende la relazione fra il ritorno dei ricordi e il luogo circostante : «nous
pouvons admettre que, si nous n'avons jamais retrouvé ce souvenir, c'est que nous ne sommes
jamais revenus en cet endroit. En d'autre termes, la condition nécessaire pour y repenser nous paraît
être une suite de perceptions par lesquelles nous ne pourrions repasser qu'en faisant à nouveau le
même chemin, de façon à nous retrouver en présence de mémés maisons, du même rocher». Ibidem,
p. 78.
482 L'immaginazione, secondo questi accenni, potrebbe non essere semplicemente un'affezione
accidentale e individuale, ma una dimensione dotata di una sua ontologia autonoma. Ecco apparire
un nuovo, possibile legame con le riflessioni di Carchia in Estetica ed erotica, dove il filosofo ricerca
l'immaginazione trascendentale in Kant, Schopenauer, Benjamin, e discende fino alla mistica
orientale: il suo intento è quello di individuare una facoltà grazie a cui superare il dualismo della
rappresentazione. G. Carchia, Estetica ed erotica, cit., p. 113.

262
sulla discesa, […] sulla strada un viavai di macchine e motorini fino a notte tarda.
Oltre la finestra un piccolo orto con fiori coltivato dal padrone di casa. Non riesco
neanche a immaginare cosa possano aver provato le donne una sera, quando,
voltandosi verso la finestra, oltre i vetri hanno visto quel bambino che le
guardava». (NP, p. 64). Nel mondo naturale persistono margini incantati dove le
parvenze rispondono allo sguardo, lontananze enigmatiche per quanto vicine esse
possano apparire.
Ci sono luoghi, tuttavia, dove il passato non si rivela più e dove prevalgono il
mutismo delle cose e il silenzio degli spazi. Ne Il ritorno del viaggiatore lo scrittore
si mette in marcia per ricercare il paese dove nacque la madre e dopo una lunga
traversata di un paesaggio «seminato di pali della luce che portavano l'occhio
all'infinito» e contraddistinto da «case abbandonate col tetto sfondato», «case
moderne», «terreni devastati» e «grigi capannoni industriali», giunge a Sandolo, la
sua meta. Ma lo sguardo non incontra alcuna corrispondenza, l'immaginazione
rimembrante rimane arida:

ho cercato di immaginare qualcosa, ma avevo solo immagini


generiche, di fienili, corriere d'altri tempi, strade con
l'acciottolato. Ho avuto la visione di una chiesetta con la facciata
di cotto. Al di là del bivio non vedevo niente, solo campagne
vuote e qualche campanile molto basso; non riuscivo a
immaginare niente d'altri tempi e d'altre situazioni. Da una casa
sulla strada è uscita una ragazza che allungava il collo, per vedere
cosa stavo facendo seduto sul pilastrino. Allora sono tornato
indietro vero Ostellato (NP, p. 111).

Il paesaggio industriale oppone una resistenza al ricordo, come se i ritorni, le


ripercussioni, fossero soffocati. In Verso la foce il viaggiatore arriva a Colorno e
incontra sul cammino la reggia dei duchi di Parma, entra nel cortile e cerca di
«immaginare come sarà questo palazzo quando l'avranno tutto ridipinto con colori
industriali, gli unici in commercio. Sarà più vicino alle villette che ho visto, la sua
facciata sarà appiattita e regolarizzata dai moderni colori uniformi (come nel

263
campionario di un rappresentante), e meno superbo della sua eleganza che
sembrava aver retto al tempo». (VF, pp. 40-41). Così i luoghi scompaiono avvolti in
una «nebulosa di gas depressivo, soffocante» che proviene «da laggiù, dove i
quattrini hanno fatto intorno a sé la terra bruciata. Più niente da salvare, famiglia
nella tomba e amen. Non avrai più un luogo di appartenenza». (VF, p. 77)
Alla dimenticanza dispersa nel paesaggio si aggiunge una memoria volontaria
affetta dall'ideologia e dalla retorica, come quando lo scrittore telefona al
conoscente Masotti e «lui al telefono s'è messo a farmi una lezione sull'architettura
contadina nelle zone: la scomparsa dei vecchi casoni e case col tetto di paglia dei
pescatori, la costruzione di case della bonifica, e poi la riforma agraria del 1951, il
nuovo isolamento sociale delle campagne. Ho dovuto pregarlo di smettere, non ne
potevo più di quella telefonata da comunista che deve sempre spiegarti “le ragioni”
del mondo». (VF, p. 115). La comprensione razionale del mondo e lo sforzo di
progettare modelli conoscitivi sono tensioni intellettuali che – come il marasma di
costruzioni e di oggetti che invade la pianura – cancellano ogni traccia del tempo e
neutralizzano la facoltà immaginativa.
«La dimenticanza […] dovunque ci avvolge e ci porta» (VF, p. 49) e alla foce del Po
si raggiunge la coscienza della disparizione nell'oblio: «il buco dove tutto scompare
è qui dove sono, ingorgato dal sentimento di tutti quelli che se ne sono andati
prima di me. Sono qui alle foci del Po e penso a loro» (VF, p. 134). Eppure proprio
in questa lenta e inevitabile sommersione delle cose nel profondo dell'ombra
persiste un pensiero rivolto agli assenti. La dimenticanza in Celati non è soltanto
un effetto della desolazione industriale, ma anche il naturale destino delle cose:
tutto scorre via fino alla foce del Po dove le memorie s'ingorgano. Chi riconosce il
lento lavorio dell'oblio può ritrovare i ricordi materiali, chi sa dimenticare ha la
forza di vanificare le registrazioni pregne di astratte «ragioni del mondo», di
dileguare le memorie edificate sul progresso e sul tempo omogeneo della storia.
Forse la ricerca di Verso la foce intende ritrovare un'arte del ricordare e del
dimenticare abile a eludere sia la memoria ufficiale dello storicismo, sia la
disaffezione e la dimenticanza secrete dal deserto industriale. 483
483 «Per ogni agire ci vuole oblio», sostiene Nietzsche in Sull'utilità e il danno della storia per la vita,
cit., p.8. Il discorso di Nietzsche, d'altra parte, è fondamentale nella formazione intellettuale di Celati,

264
Per colui che sa osservare le immagini baluginano nelle zone di margine e una
memoria puntiforme può ancora manifestarsi alla coscienza, come presso l'antico
Albergo del Bersagliere a Boretto, rimasto intatto e «ora frequentato da camionisti
che alla sera mangiando fanno racconti da un tavolo all'altro». (VF, p. 44). Anche in
certi agglomerati rinascimentali soffia il senso di una lontananza: «Pomponesco è
fatto di strade dritte a intersezione ortogonale, come Guastalla e Ferrara, stradario
rinascimentale che riprende il modello del campo fortificato romano. Pochi abitanti,
e certe volte alla domenica mattina, in quelle strade dritte e silenziose, viene l'idea
d'essere in un lontano stanziamento di frontiera». (VF, p. 46). Lo sguardo, disattento
e incantato, è educato a cogliere un'apparizione, come a Codigoro:

Le case su questo canale, sulle due sponde, tutte costruzioni d'altri


tempi abbellite dai semplici ritmi delle finestre, aprono lo spazio
in una specie di larghissima ansa e formano davvero un luogo.
Niente d'astratto e progettato, laggiù si vede che il tempo è
diventato forma dello spazio, un aspetto è cresciuto a poco a poco
uno sull'altro, come le rughe della nostra pelle. (VF, p. 96)

In un articolo sull'esperienza del tempo in Celati, Anna Langhorn sostiene che «lì,
dove tempo e spazio si incontrano, sorgono nell'opera letteraria immagini ed
episodi dove il tempo diventa visibile nello spazio dell'esperienza e dello
svolgimento come tracce di possibilità, determinazione o simile. […] L'esperienza
del tempo sospeso nella trilogia padana deriva dalla congiunzione tra il flusso
costante del tempo che passa e la contingenza dell'attimo».484
Il tempo esperito come forma dello spazio si concede a chi s'abbandona al

come traspare nelle critiche allo storicismo avanzate in Finzioni occidentali.


484 A. Langhorn, Il tempo sospeso. L'esperienza del tempo nella trilogia padana di Gianni Celati, in M.
Belpoliti, M, Sironi (a cura di), Riga 28. Gianni Celati, cit., pp. 286-292. La menzione della trilogia si
riferisce ai tre film realizzati da Celati fra gli anni Novanta e l'inizio del decennio successivo: Strada
provinciale delle anime; Il mondo di Luigi Ghirri; Case sparse. Visioni di case che crollano. Scrive Celati
su Ghirri (e in un certo senso anche su sé stesso): «la ricerca di Ghirri, mentre accentua al massimo
il carattere contingente della fotografia, ne fa anche un mezzo per ottenere un tempo sospeso fuori
dalle coordinate storiche, come quello delle fiabe. Ma si può dire anche che è un tempo sospeso
quello che passa via ogni giorno con noi, come le nuvole che navigano alterando i loro contorni in
una strana sospensione». G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi,
Geografie del narrare, cit., p. 183.

265
paesaggio, fino a farne parte: «io sono questo tizio piantato qui, che in questo
momento sta scrivendo, non sa neanche lui di preciso perché. Non c'è nessuna meta
in vista, ma una strada sempre in divenire. La testa può andare a far giri di
esplorazione o sentire delle voci, che sono poi come l'aldilà di Dante, oppure come
un manicomio personale che mi porto dietro».485 Quando si abita lo spazio
circostante «le parole non servono a rappresentare il mondo esterno», ovvero non
sono una proiezione astratta ma gesti a diretto contatto con gli oggetti e le forme di
vita, «ci servono per chiamare le cose, per distinguere il loro uso».486 Così la parola
emessa nel paesaggio è anche un richiamo del tempo lontano, affinché ritorni e
resti un poco con noi, remoto ed estraneo.

D'un tratto risuonano richiami di gabbiani, uno chiama e altri


rispondono. Anche le parole sono richiami, non definiscono
niente, chiamano qualcosa perché resti con noi. E quello che
possiamo fare è chiamare le cose, invocarle perché vengano a noi
con i loro racconti: chiamarle perché non diventino tanto estranee
da partire ognuna per conto suo in una diversa direzione del
cosmo, lasciandoci qui incapaci di riconoscere una traccia per
orientarci. (VF, p. 134).

Il paesaggio è il luogo della dispersione e del disorientamento. Al suo interno un


soggetto cammina ed evoca l'eco di immagini d'un tempo remoto, tracce vicine
d'una lontananza. Il passato è una sedimentazione del paesaggio, un'inscrizione
nell'aperto mondo e la sua dimensione non è privata, ma collettiva. Nel contatto
affettivo è ancora possibile condividere un'esperienza in forma di fabulazione.

12. Tutt'intorno, l'atmosfera.

Il poeta rievoca i giorni in cui abbandonava per poco lo studio faticoso e si


affacciava dai balconi della casa paterna; da lì udiva la voce di Silvia, il rumore del

485 G. Celati, Elogio della novella, cit., p. 43.


486 G. Celati, Sui luoghi e il lavoro con Luigi Ghirri, cit., p. 68.

266
telaio percorso dalla sua mano. Insieme alle sensazioni uditive ritorna alla memoria
la percezione del paesaggio: «Mirava il ciel sereno, / Le vie dorate e gli orti, / E
quinci il mar da lungi, e quindi il monte». (A Silvia, vv. 23-25). Dall'alto del balcone
lo sguardo indugia sull'azzurro, dai giardini scorre sul mare lontano, a oriente, poi
si sposta verso le alture.
Ne Le ricordanze il poeta rammenta che tempo addietro sedeva «in verde zolla»,
osservava il cielo intorno a sé, ascoltava «il canto della rana», mentre il vento
portava fin lassù l'odore dei viali. «E che pensieri immensi, / Che dolci sogni mi
spirò la vista / Di quel lontano mar, quei monti azzurri, / Che di qua scopro, e che
varcare un giorno / Io mi pensava, arcani mondi, arcana / Felicità fingendo al viver
mio!» (Le ricordanze, vv. 19-24). Nella rimembranza lo sguardo dal mare si sposta a
occidente, verso i monti: ancora il medesimo movimento – il lieve spostamento del
collo – abbraccia il mondo circostante. Le visioni dal balcone e dalla collina si
perdono nella lontananza: il mare («lontano», osservato «da lungi») continua fino
all'orizzonte, i monti si disfano nell'azzurro. È una danza di movimenti circolari
perché anche le «vaghe stelle dell'Orsa» ritornano in cielo dopo una rivoluzione
completa. Forse l'accordo dell'uomo con il cosmo è possibile nella circolarità.
L'orizzonte, nel Canto notturno, è il limite fra terra e cielo, e sopra sta sospesa la
luna: «Spesso quando io ti miro / Star così muta in sul deserto piano, / Che, in suo
giro lontano, al ciel confina; / […] Dico fra me pensando: / A che tante facelle? /»
(Canto notturno, vv. 79-86). La linea curva dell'orizzonte suggerisce uno spazio così
vasto che l'occhio si perde in una lontananza indefinita. Il pastore solo nel deserto
vaga con il pensiero fino a sfiorare gli spazi cosmici: «Che fa l'aria infinita, e quel
profondo / Infinito seren? Che vuol dire questa / Solitudine immensa? Ed io che
sono?» (vv. 87-89).
Anche lo sguardo dell'osservatore durante l'eruzione del Vesuvio si muove
dall'entroterra alle distese marine: «e sulla mesta landa / In purissimo azzurro /
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, / Cui di lontan fa specchio / Il mare, e tutto di
scintille in giro / per lo vóto seren brillare il mondo». (La ginestra, vv. 161-166). Il
lucore delle stelle si propaga intorno e abbraccia il vasto mare, il cielo stellato.
Mentre lo sguardo – interno al mondo, immerso nel paesaggio – si muove e si

267
perde nei riflessi lontani, l'io poetico, sgomento, sembra quasi scomparire al
pensiero di un globo («terra e mare») osservato dalle nebulose dell'altro capo della
galassia: «Che sembri allora, o prole / dell'uomo?» (vv. 184-185).
Il punto di vista non appartiene più all'uomo ma ad entità cosmiche, naturali: «Voi,
collinette e piagge, / Caduto lo splendor che all'occidente / inargentava della notte il
velo, / Orfane ancor gran tempo / Non resterete; che dall'altra parte / Tosto vedrete
il cielo / Imbiancar nuovamente, e sorger l'alba: / Alla qual poscia seguitando il sole,
/ E folgorando intorno / Con sue fiamme possenti, / Di lucidi torrenti / Inonderà
con voi gli eterei campi». (Il tramonto della luna, vv. 51-61). La luna tramonta a
occidente («Dietro Appennino») e dal mare sorge il sole; come accadeva in A Silvia
e ne Le ricordanze, il movimento dello sguardo coinvolge il mare e le montagne in
un moto percettivo circolare.
Una certa connessione sembra sussistere fra la visione del paesaggio, il movimento
avvolgente della percezione visiva e la lontananza: lo sguardo gira intorno, coglie il
mare, poi i monti, segue il corso degli astri, e infine si perde all'orizzonte. Colui che
si sente immerso nel paesaggio e coglie una tensione fra il vicino e il lontano ha la
possibilità di voltare lo sguardo tutt'intorno e di percepire il cerchio dell'esistente
come continuità naturale. Questo, forse, è l'esito più rilevante che sorge da una
genealogia poetica della lontananza.
Ghirri diceva di voler «dislocare lo sguardo, aprire il paesaggio». Secondo Celati da
questa disposizione si generano «quegli orizzonti lontani e appena percepibili, sotto
cieli foschi. Sono foto al limite del possibile, che aprono generosamente la visione.
La sottraggono all'idea del “qualcosa da vedere”, e la riportano ad un movimento
d'animazione che fa spalancare gli occhi. Come molte altre foto di Ghirri,
semplicemente dislocano lo sguardo verso l'aperto e ci fanno riprendere contatto
con l'orizzonte. Riconducono tutto ad una visione atmosferica, ad un racconto dei
fenomeni che ci avvolgono».487 La ricerca di un nuovo incantamento, le pratiche
immaginative, l'affezione ai luoghi sembrano confluire nel complessivo
ritrovamento di una visione atmosferica. Ghirri scrive nelle sue Lezioni di
fotografia: «mi piace utilizzare l'atmosfera che impedisce di vedere lo sfondo. In
487 G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in M. Sironi, Geografie del narrare, cit.,
p. 184.

268
questo modo vedi il fondo, però lo vedi lontano, c'è l'effetto di lontananza». 488 E
ricorda Celati nella sua nota biografica redatta in memoria dell'amico: «le
campagne erano per lui l'ultimo luogo dove si possono avere delle visioni...dove si
può immaginare l'immensità dello spazio, attraverso l'orizzonte che ci avvolge. È
un'idea leopardiana. Ma è anche l'idea che abbiamo del mondo quando siamo
bambini...quando immaginiamo tutto il mondo attraverso il giardino, o lo spazio
aperto che abbiamo davanti».489 A una poetica di linee e superfici risponde una
sensibilità circolare, sferica: «il circolo della visione è questo: vedere ed essere
visti».490 Verso la foce è forse la possibilità di dare un linguaggio alla curvatura dello
spazio: «la linea di un campo verde lascia spuntare più lontano la curvatura d'un
campo quasi giallo, tagliato da un declivio color delle argille. Così l'occhio non è
lasciato allo sbaraglio».

488 L. Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, Macerata 2010, p. 197.


489 G. Celati, Ricordo di Luigi, fotografia e amicizia, in L. Ghirri, Lezioni di fotografia, cit., p. 263.
490 G. Celati, Qualche idea suoi luoghi e sul lavoro con Luigi Ghirri. Intervista con Marco Sironi, in M.
Sironi, Geografie del narrare, cit., p. 222.

269
Capitolo V

L'angelo di Avrigue.
Alla ricerca del romanzo-paesaggio
1. Calvino teorico del romanzo.

Scrive Calvino a proposito del romanzo d'esordio di Francesco Biamonti: «ci sono
romanzi-paesaggio così come ci sono romanzi-ritratto. Questo vive, pagina per
pagina, ora per ora, della luce del paesaggio aspro e scosceso dell'entroterra ligure,
nell'estremo suo lembo di Ponente, al confine con la Francia». Sin qui l'indagine
critica si è soffermata sulla forma e il significato del paesaggio nell'opera di
Calvino, ma nessuna attenzione è stata ancora dedicata al secondo termine. Cosa
intende Calvino per “romanzo”?
Una conferenza tenuta nel 1958 poi raccolta in Una pietra sopra con il titolo Natura
e storia nel romanzo è l'occasione più feconda per avviare questa ricerca. Lo
scrittore traccia una «ricapitolazione dell'orizzonte letterario della mia formazione»
e si sofferma in particolare sugli esiti del grande romanzo dell'Ottocento (da Tolstoj
a Manzoni, da Balzac a Flaubert) per individuarne i tratti comuni, i possibili punti di
contatto, e per seguirne le evoluzioni nella tradizione del Novecento «nelle sue
forme più convulse e spigolose». La tesi di fondo sulla forma del romanzo emerge
nitida già nelle prime pagine: «individuo, natura, storia: nel rapporto tra questi tre
elementi consiste quella che possiamo chiamare epica moderna». (S, p. 30). La
scommessa euristica intende sfidare «una limitazione di giudizio critica molto
diffusa oggi», secondo cui la narrativa ottocentesca sarebbe tout-court «romanzo
sociale», mentre il rapporto io-natura «resterebbe il grande tema della poesia
lirica». Nel discorso di Calvino i generi letterari incrociano i temi: l'epico, il
romanzesco, il lirico si intrecciano con le connotazioni storico-sociali, la formazione
dell'individuo e l'influenza del cosmo naturale. Per mitigare una separazione netta
fra storia e natura, lirica e romanzo, Calvino rilancia:

Un'istintiva inclinazione m'ha sempre spinto verso gli scrittori di

271
ieri e di oggi in cui i termini di natura e storia (o società che dir si
voglia) appaiono compresenti. Ma non è solo una scelta di gusto:
io credo che il termine natura è sempre presente in ogni grande
narratore. (S, p. 34).491

L'intervento avanza a ritmo serrato e sfiora i passaggi obbligati della formazione


letteraria di Calvino: Nievo, Stevenson, Conrad, Hemingway e Pavese; ciascuno, a
modo suo, avrebbe affrontato le tensioni profonde fra la coscienza individuale, la
dimensione della storia sociale e la presenza dell'universo naturale. 492 A Pavese, e ai
due protagonisti di Prima che il gallo canti, sono dedicate le ultime pagine: nelle
narrazioni dello scrittore piemontese «c'è sempre un paesaggio, un dorso di colline,
un colore di campagna che si lega nella memoria alle prime scoperte dell'infanzia, e
rappresenta il momento perfetto, fuori dal tempo e dalla storia, il mito». Ma accanto
al paesaggio-origine compare un «atto di sangue», emerge il dato storico. Nella
veduta delle colline si insinuano «gli sfollati che salgono la sera, mentre gli aerei
bombardano Torino» e così «la natura che era per lui fuga dalla storia è ora storia e
sangue» e anche la sua esistenza individuale e chiusa in sé stessa si scopre storia
«con le sue responsabilità e le sue colpe». (S, p. 48).
Nei ragionamenti sul romanzo risuonano le voci di un consulente dell'Einaudi, di
uno scrittore ormai affermato, d'un intellettuale alla ricerca di una letteratura che
trattenga in sé un'idea di civiltà. Si tratta di un intervento formulato in un momento
peculiare e certo si rivolge a un contesto politico e culturale in mutazione. Nel
corso dell'evoluzione di ipotesi e scommesse critiche avanzate fra il Dopoguerra e i
decenni successivi, tuttavia, permangono alcune costanti. Nel 1948 Calvino dedica a
Prima che il gallo canti di Pavese una recensione sulle colonne de L'Unità. La prima
parte dell'intervento si sofferma sulla letteratura italiana degli anni Trenta, la cui
491 La stessa Parigi di Balzac è una «città-giungla» e lo scrittore scopre una «vitalità naturale» nella
metropoli. (E anni dopo, nel 1973, Calvino tornerà sulla Parigi di Ferragus e conierà il termine di
«città-romanzo», esito dello sforzo di Balzac di «far diventare romanzo una città»).“La città-
romanzo in Balzac” (S, p. 775): il trattino di collegamento fra il genere romanzesco e una forma
spaziale pare una costante una costante nel pensiero dello scrittore.
492 Nello stesso anno Calvino scrive in una lettera a Cesare Cases: «a me interessa soprattutto il
modo di considerare la natura, che è molto più importante di tutti i capitalismi e altri transeunti
epifenomeni; ma la natura ai nostri occhi si presenta come specchio della storia. In essa troviamo la
stessa realtà crudele mostruosa che è del tempo in cui viviamo […]». I. Calvino, Lettere 1940-1985,
cit., p. 575.

272
essenza «potremmo comprendere sotto il nome generico di ermetismo». Secondo
Calvino l'«ermetismo» ricerca «un'estrema riduzione degli interessi di vita» per
ritrovare una possibile libertà individuale nell'osservazione attenta delle immagini e
nella contemplazione del dato naturale: una via intrapresa per cogliere «nonostante
tutto» l'eventualità di «una maglia rotta nella rete». (S, p. 1213). 493 Montale avrebbe
dunque lasciato in eredità una forma di resistenza lirica e individuale. 494 Nella
seconda parte dell'articolo Calvino avvicina lo stesso Pavese all'ermetismo: «parlare
d'ermetismo a proposito di Pavese può sembrare un paradosso. […] Eppure non si
sfugge alla storia, né all'anagrafe. Che Pavese non sia altri che uno dei più
intelligenti poeti della tradizione “ermetica”, ce lo ricorda il suo nuovo volume […]:
Prima che il gallo canti». (S, p. 1214). Un altro paradosso si nasconde
nell'argomentazione: come è possibile che l'«uomo ermetico», il «poeta», faccia
capolino nella prosa dei due romanzi? Qui si cela il dato critico più interessante:
Calvino sostiene che una tradizione poetica (lirica, soggettiva, protesa verso la
natura) sia confluita nel romanzo, e lo abbia abitato. Nel modello romanzesco
sperimentato da Pavese la «tradizione ermetica» avrebbe acquisito una maggiore
autocoscienza e avrebbe avuto modo di fare i conti con i propri limiti 495 e di
scontrarsi con gli eventi storici e i drammi sociali. Il paesaggio de La casa in collina
è già un esempio emblematico: sulle colline l'individuo e la natura della tradizione
lirica novecentesca si confrontano con la guerra, con l'accadere storico. 496 Come
493 È importante ricordare che questi interventi non hanno come prima finalità la precisa
correttezza critica e filologica. Calvino tenta in questi anni di tracciare un progetto di letteratura ed
è importante seguire, più che la precisione critica degli enunciati, gli intenti che tracciano la
prospettiva dello scrittore.
494 Calvino avrà modo di ribadire anni dopo: «il poeta della nostra giovinezza è stato Eugenio
Montale: le sue poesie chiuse, dure, difficili, senza alcun appiglio a una storia se non individuale e
interiore, erano il nostro punto di partenza». (Tre correnti del romanzo italiano d'oggi, S, p. 64).
495 Il personaggio di Pavese, secondo Calvino, «ha la coscienza (gusto e rimorso insieme) di essere»
un «uomo ermetico»: nel romanzo, quindi, supera la sua condizione di contemplatore puro. (S,
1214). In merito al rapporto di Calvino con la tradizione lirica italiana, lo scrittore afferma in una
intervista del 1982 di appartenere «a una letteratura italiana che ha la sua spina dorsale nella poesia
più che nella prosa». I. Calvino, Sono nato in America. Interviste 1951-1985, a cura di L. Baranelli,
Mondadori, Milano 2013, p. 507. E soprattutto: «la nostra letteratura ha sempre avuto come suo asse
la poesia. Non ha avuto lo sviluppo del romanzo che hanno avuto altre letterature. […] Pavese […]
ha elaborato una linea nella poesia in versi che era collegata al romanzo, alla prosa, soprattutto alla
letteratura americana contemporanea. Ma nello stesso tempo i suoi romanzi sono scritti come
poesie, cioè quello che conta è la frase col suo ritmo, la sua invenzione verbale, la sua sinteticità
folgorante». Ibidem, p. 620.
496 L'intuizione che vi possa essere un romanzo intriso della tradizione lirica italiana era già
presente si è affacciata già nel 1953 in una densa nota aggiunta a un intervento sulla Mancata

273
nella conferenza del 1958 Calvino individua una interrelazione fra i generi (lirico e
romanzesco) e i temi portanti (il rapporto fra la storia e la natura).
Ancora un anno dopo la conferenza del 1958, in Tre correnti del romanzo italiano
d'oggi, Calvino argomenta che il romanzo contemporaneo ha dietro di sé due
orizzonti a cui mirare: «l'ermetismo» e il «neorealismo», due «etichette» per
intendere da una parte una tradizione lirica scarna e rigorosa, dall'altra un «clima
letterario» più sbilanciato verso la rappresentazione della società. (S, p. 62).
Secondo Calvino è ancora Pavese a cogliere una «tensione mitica tutta interiore, di
sofferenza intima, segreta» e a tradurla nelle «vicende della vita cittadina di tutti i
giorni». (S, p. 66). In occasione di un saggio commemorativo a dieci anni dalla sua
scomparsa, Calvino ribadisce che il merito dello scrittore piemontese consiste nel
«trasformare il fuoco d'una tensione esistenziale in un operare storico, fare della
sofferenza o della felicità privata […] degli elementi di comunicazione e
metamorfosi, cioè delle forze di vita». (Pavese: essere e fare, S, p. 80).
Il nucleo di una teoria del romanzo italiano era già ben formato nel 1953 dove in
Mancata fortuna del romanzo italiano Calvino tratteggia una fisionomia del
romanzo degli anni Quaranta:

Così rinasce il romanzo, da questa confluenza d'una vena lirica e


intellettuale col bisogno di specchiarsi nelle storie umane. Questo
primo momento, durato fino a dopo la guerra, oggi è superato:
romanzo [sic] d'ambiente popolare col protagonista lirico-
intellettuale non se ne scrivono più: ma purtroppo si ritorna da
una parte alla tranche-de-vie naturalistica, dall'altra ai lirismi puri.
Il problema d'oggi invece è non rinunciare a nessuna delle due
componenti – quella lirico intellettuale e quella oggettiva – ma di
fonderle in un tutto unitario. (S, p. 1510)

Il romanzo sembra essere il solo luogo dove sia possibile realizzare la «confluenza»
di lirismo e oggettività sociale. Eppure in Mancata fortuna del romanzo italiano
fortuna del romanzo italiano. Calvino accenna a un «Leopardi romanziere», un Leopardi nascosto fra
gli spunti filosofici e i componimenti poetici: «è soprattutto di Leopardi il racchiudere nel giro d'un
luogo noto, d'un paese, d'un ambiente, il senso del mondo». (Mancata fortuna del romanzo italiano,
S, p. 1508).

274
appare una nota di impotenza e di crisi («ma purtroppo si ritorna...») che negli
interventi citati sin qui è rimasta celata. Ne Il midollo del leone uscito sul Menabò
nel 1955 Calvino avverte come «la narrativa italiana contemporanea è nata […]
sotto il segno di una integrazione mancata: da una parte il protagonista lirico-
intellettuale-autobiografico; dall'altra, la realtà sociale popolare o borghese,
metropolitana o agricolo-ancestrale». (S, p. 12). In Tre correnti del romanzo italiano
d'oggi è proprio la mancanza di un equilibrio fra storia, natura e individuo a essere
responsabile della debolezza del romanzo italiano. Tre sono i possibili fallimenti che
costellano il panorama letterario degli anni Cinquanta: il regionalismo dialettale
determinato a recuperare la «tensione esistenziale e storica da cui abbiamo preso le
mosse» (S, p. 70); il romanzo come «ripiegamento […] nell'elegia, ossia
nell'approfondimento sentimentale e psicologico in chiave di malinconia» (S, p. 66);
lo smarrimento nel «mare dell'oggettività» dove la parola letteraria non genera più
un attrito razionale e volontaristico a contatto con il fluire della natura, ma vi si
arrende.497 La tranche-de-vie realistica, l'elegia sentimentale e la mimesi del
continuum materico sono tre scadimenti del romanzo e ciascuno discende dalla
rilevanza assoluta di uno soltanto dei tre elementi portanti: la storia, l'individuo, la
natura.
Il romanzo secondo Calvino è una «integrazione» di tonalità lirica e tensione
sociale, una forma unitaria dove l'uomo si confronta con un milieu storico e un
ambiente naturale al contempo. Non è un caso allora se nella quarta di copertina de
L'angelo di Avrigue Calvino nota una «propensione per i toni lirici e sospesi» che
s'accompagna a una storica «spinta di autodistruzione che si sente nell'aria». 498 Il
romanzo di Biamonti potrebbe davvero essere la concretizzazione tardiva di un'idea
di letteratura covata più di due decenni prima: sin dalle origini della riflessione
critico-letteraria di Calvino il romanzo è un “romanzo-paesaggio”.

497 Il timore compare ne Il mare dell'oggettività (S, pp. 52-60) e anche alla fine di Natura e storia nel
romanzo: «una resa dell'individualità, e volontà umana di fronte al mare dell'oggettività, al magma
indifferenziato dell'essere non può non corrispondere a una rinuncia dell'uomo a condurre il corso
della storia, a una supina accettazione del mondo». (S, p. 51).
498 Le citazioni sono tratte dalla medesima quarta di copertina dove appare la formula di “romanzo-
paesaggio”.

275
2. Il fallimento della forma romanzesca.

Le valutazioni critiche di Calvino appartengono a un periodo creativo costellato da


diversi tentativi di romanzo. Durante l'ultimo segmento degli anni Quaranta e fino
alla metà del decennio successivo lo scrittore si propone di scrivere un romanzo che
rappresenti problematicamente la vita al tempo del Dopoguerra e della ripresa
economica, un'opera narrativa pregna delle tensioni sociali che attraversano la
società italiana. Nel 1949 progetta un romanzo sulla borsa nera, Il bianco veliero,499
ma l'opera non vedrà mai la stampa in volume. La medesima sorte tocca a I giovani
del Po – scritto fra il 1950 e il 1951 – e a La collana della regina, le cui bozze
risalgono al periodo fra il 1952 e il 1954, due esperimenti narrativi ambientati in
una città industriale del nord e focalizzati sulle vicende degli operai specializzati. I
tre tentativi di forgiare un organismo narrativo capace d'accogliere le forze sociali
emergenti nell'Italia del Dopoguerra sono interrotti e abbandonati prima di essere
conclusi.500 Nel frattempo Calvino sperimenta con successo generi eterogenei: il
racconto fantastico con il ciclo degli antenati, la raccolta di novelle con Marcovaldo
e i racconti «difficili» poi riuniti in volume – prove felici che eludono il «disagio»
del romanzo.
Il fallimento di un romanzo in particolare, I giovani del Po, è uno snodo fecondo per
comprendere le ragioni dell'impasse creativa in rapporto alla riflessione critica
coeva. Lo stesso Calvino pubblicò una parte cospicua del romanzo fra il 1957 e il
1958 sulla rivista di Pasolini Officina, inserendo a margine una breve nota
introduttiva: «“Officina” si rivolge a chi ha interesse alla letteratura come ricerca e
come problema, perciò accettando l'invito, pubblico qui a puntate questo mio breve
romanzo […]. Con esso volevo finalmente esprimere in forma narrativa anche
quella parte di interessi e d'esperienza che sono finora riuscito solo a far vivere in

499 De Il bianco veliero rimangono diverse pagine dattiloscritte e un racconto divenuto autonomo,
Va' così che vai bene. Per le informazioni relative a questo e agli altri romanzi non terminati si
vedano le note e i contributi aggiuntivi contenuti nel terzo volume dei Romanzi e racconti.
500 Scrive Calvino a Dario Puccini nel 1954: «È tutta una cosa di testa, fredda, costretta in simboli
inadeguati. È un saggio su una problematica che riconosco come mia, ma espressa in formule
narrative che non sono mie, e in cui io mi muovo a disagio». A Dario Puccini, in I. Calvino, Lettere
1940-1985, cit., p. 398.

276
qualche pagina di carattere saggistico: cioè la città, la civiltà industriale, gli operai;
e insieme a quella parte della realtà e dei miei interessi (da cui invece m'è sempre
stato più facile trarre simboli narrativi) che è natura, ardua ricerca di una felicità
naturale oggi».501
Nino, il protagonista del romanzo, è un giovane ligure che ha abbandonato il mare
e le sue terre per emigrare in una città industriale del nord e trovare lavoro come
operaio specializzato: la distanza fra il luogo nativo e la vocazione produttiva della
città generano quindi una prima opposizione simbolica. Ma la frattura fra la natura
e l'industrializzazione coinvolge anche la topografia urbana perché il fiume, sinuoso
nastro che scorre fra l'agglomerato di case popolari e cemento, si contrappone ai
ritmi di lavoro e alle forme geometriche della società industriale. In una lettera
Nino scrive che «in fondo non diceva sbagliato quel Bodrero [suo collega in catena
di montaggio]: il fiume è un'evasione. Ormai in fabbrica tutti venivano con le
mutandine da bagno sotto i pantaloni, e appena finito il turno andavano al fiume».
(RR III, p. 1017). Il giovane tuttavia matura nel tempo una sensibilità diversa e più
complessa perché desidera cogliere nel fiume non una mera compensazione ma una
possibile integrazione: immagina il Po come il luogo dove ciascuno possa percepire
sé stesso «in armonia con tutto il resto». (RR III, p. 1019).
In un sabato di svago sul fiume Nino incontra per la prima volta Giovanna,
studentessa liceale di estrazione borghese. Fra i due nasce una storia d'amore e il
loro incontri notturni si svolgono in mezzo alle frasche della riva, mentre l'acqua
scorre placida: «il fiottare della corrente assorbiva ogni rumore, non più per
sovrapposizione di suoni ma per sommessa imposizione del suo ritmo, ed era il
fiume a dare un'andatura continua e ansiosa a ogni moto naturale: al respiro della
ragazza, al battito del cuore di Nino». (RR III, p. 1104). Il fiume suona al ritmo del
cuore e del respiro, nell'armonia degli accordi la natura risponde al sentimento dei
giovani. Nel generale schema simbolico del romanzo Giovanna è un correlativo del
corso d'acqua: «lei vuol dire l'acqua, il verde», scrive Nino in una lettera indirizzata
a un amico. (RR III, p. 1115). Vivendo al contempo l'esperienza sentimentale e il
lavoro da operaio, Nino si sente finalmente inserito nell'ambiente urbano e ha

501 La Nota a I giovani del Po è riportata in RR III, p. 1342.

277
l'impressione di poter coniugare il mondo delle polveri sottili con le fughe dei
giorni felici ai margini dell'acqua: «adesso comincio a vedere che c'è tutto un
legame tra la città e il fiume e lei e il mio lavoro in fabbrica e nelle riunioni; e sono
più tranquillo e deciso». (RR III, p. 1075). Con l'arrivo dell'inverno, però, Nino
comprende come la stagione del fiume e dell'amore sia stata solo una
compensazione passeggera e non abbia dato origine a una solida integrazione fra la
dimensione dell'industria e l'esperienza sentimentale della natura. Così il suo
mondo torna a disfarsi: «io non riesco ad avere una vita che non sia fatta a pezzi: al
paese mi mancava la classe operaia, qui mi manca il mare e il bosco; con la ragazza
mi mancano quei rapporti ragionati, esatti, che ho con i compagni; coi compagni mi
manca quel restare ogni tanto a bocca aperta come con la ragazza». (RR III, p. 1118).
Il rapporto con Giovanna si conclude tragicamente e nell'ultima pagina dello
stralcio pubblicato Nino ha il tempo di affermare che si tratta di «una storia
sbagliata: cominciata storta e finita che non ci si può più nemmeno pensare». (RR
III, p. 1126). La considerazione del personaggio dà l'impressione di trascendere gli
eventi narrati e di riferirsi anche alla forma complessiva del romanzo: il tentativo di
Calvino non sta insieme, non riesce a trattenere una accanto all'altra le concrezioni
simboliche che lottano al di sotto del tessuto linguistico; la vita al tempo
dell'industria è «fatta a pezzi» e non si lascia ricomporre in unità. Scrive infatti
nella nota su Officina: «miravo a dare un'immagine di integrazione umana; invece
mi venne un libro insolitamente grigio, in cui la pienezza della vita, benché molto
se ne parli, si sente poco: perciò non ho mai voluto pubblicarlo in volume». (RR III,
p. 1342). La riuscita della forma romanzo, quindi, sembra dipendere da una piena e
articolata integrazione fra il fiume e la fabbrica, fra la storia e la natura, o almeno
da una connessione problematica e ricca di tensioni, certo diversa dall'esito freddo e
«grigio» dei tentativi degli anni Cinquanta: «un tema che non faccio che prenderci
delle testate, da dieci anni». (RR III, p. 1342). 502 La conferenza sul romanzo del 1958,

502 La rappresentazione della realtà industriale è un tema caro a Calvino, tanto da esulare – come si
vedrà poco più avanti – dai confini del romanzo. In particolare lo scrittore ha studiato il modo di
dare una forma letteraria alla città che abitava allora, Torino. Nel numero monografico del Menabò
sulla tematica industriale Calvino afferma: «non c'è città industriale e operaia rappresentata da un
romanziere che sia più completa, come immagine anche lirico-evocativa di uno stile morale, della
Torino degli scritti di Gobetti». (S, p. 1765). Esiste un articolo del 1923 dove Gobetti descrive il
percorso fra il centro della città e la FIAT: «La Fiat è alla periferia estrema di Torino: ci si va sempre

278
da questa prospettiva, disegna una storia del romanzo europeo in cui si riflette la
serie di fallimenti individuali. La compresenza dialettica degli opposti pare un
ostacolo insuperabile, almeno per la forma del romanzo. Come configurare allora la
frammentazione?
Durante l'estate del 1958 – a sette anni dallo scacco de I giovani del Po e solo pochi
mesi dopo le considerazioni sul romanzo – Calvino scrive La nuvola di smog, un
racconto lungo ambientato ancora in una città industriale del nord. Il protagonista,
un intellettuale visitato da un lieve stato depressivo, ha ottenuto un lavoro come
redattore del periodico “La purificazione”. Il giornale è un organo dell'EPAUCI, un
ente istituito per fronteggiare i problemi ambientali. All'inizio la città appare come
l'esterno di «una stazione» dove uno «gira gira e si ritrova in vie sempre più
squallide, tra rimesse, magazzini di spedizionieri, caffè col banco di zinco, camion
che gli soffiano in faccia getti puzzolenti». (RR I, p. 893). Il suo sguardo è attratto da
pallide forme di vita industriale e gravato da uno stato d'animo fragile e cupo: tutto
quello che vede «è nervoso, frantumato». Affitta una «camera qualsiasi» perché
«doveva esser tutto provvisorio e volevo che questo apparisse chiaro anche a me
stesso». (RR I, p. 894). Per raggiungere la sede dell'ente egli si reca in un quartiere
«signorile, verdeggiante» e la sua voce si concede una elevazione in un'aria lirica:
«era autunno; qualche albero era d'oro». (RR I, p. 895). Sin dalle prime pagine,
dunque, la scrittura è increspata da un certo divario stilistico. Così l'erranza fra vie
anonime e figure generiche («m'ero abituato a considerare i passanti ombre senza

con un tram che attraversa tutta la città, senza passar nel centro, sempre per vie fuori mano, che per
trovarle bisogna andarci apposta. Si passa il Valentino tra la nebbia, anche a mattina inoltrata;
itinerario nordico senza il bel sole italico, senza indulgenza di paesaggio. Clima eretico: uomini
intirizziti, che non han tempo di sonnecchiare e che il freddo rende acuti e quasi goffamente
frettolosi, come nel paese in cui Pinocchio trova la sua fata laboriosa. Il Valentino offrirebbe
consolazioni romane, ma solo di pomeriggio, col sole, quando le bambinaie vi conducono i
marmocchi e stanno ad ascoltare gli ingannevoli e dilettosi idilli di studenti e di ufficialetti a spasso,
imparando quanto siano irresistibili Minerva e Marte, se vi aggiungi le seduzioni di artificiali
boschetti e il canto monotono del fiume che scorre là dietro gli alberi. Gli operai ci passan di
mattino, gli occhi intenti sul giornale che ancora odora di grassi inchiostri da rotativa: quando
escono dopo otto ore di fatica nessuna lusinga li concilierebbe con il mondo. C'è un'altra poesia nei
loro cuori, che sdegnano i trepidi sorrisi e gli incanti dei giardini artificiali. La loro psicologia è
dettata dalla macchina e dalla vita in fabbrica». (P. Gobetti, “Visita alla Fiat”, Il lavoro, 15 dicembre
1923, ora in Id., Scritti politici, Einaudi, Torino 1997, pp. 553-554). Da notare come compaia la
medesima opposizione fra l'ambiente di fabbrica e l'idillio naturale, quest'ultimo localizzato proprio
nel parco che costeggia il fiume Po. A differenza di Calvino, Gobetti non sente l'esigenza di
un'integrazione fra industria e natura.

279
faccia e me pure un'ombra senza faccia tra le tante») è interrotta dall'emergenza
d'immagini nitide come quelle collezionate all'interno della birreria “Urbano
Rattazzi”, «un mondo «pieno di forme solide, […] superfici dai colori brillanti, il
rosso d'un prosciutto che affettavano al banco, […] l'oro della birra». (RR I, p. 922).
Quando in città giunge Claudia, la sua donna, egli la conduce sulle verdi colline che
cingono la distesa urbana. Ad un tratto i due ammirano dall'alto «i colori della
campagna [che] volgevano all'oro», lo stile richiama i toni rarefatti 503 e sospesi
impiegati per le apparizioni degli alberi toccati dalla luce solare. Poco dopo, però, il
protagonista sposta lo sguardo dalle azzurre montagne in lontananza verso la città
in basso. Appare allora il grigiore vischioso delle emissioni industriali, la nuvola di
smog:

Dalle altre nuvole o nebbie che a seconda di come l'umidità


s'addensa negli strati più freddi dell'aria sono grige o azzurrastre
o bianchicce oppure nere, questa non era poi tanto diversa, se non
per il colore incerto, non so se più sul marrone o sul bituminoso,
o meglio: per un'ombra di questo colore che pareva farsi più
carica ora ai margini ora in mezzo, ed era insomma un'ombra di
sporco che la insudiciava tutta e ne mutava – anche in questo essa
era diversa dalle altre nuvole – pure la consistenza, perché era
greve, non ben spiccicata dalla terra, dalla distesa screziata della
città sulla quale pure scorreva lentamente, a poco a poco
cancellandola da una parte e dall'altra riscoprendola, ma
lasciandosi dietro uno strascico come di filacce un po' sudice, che
non finivano mai. (RR I, p. 926).504

503 Nella discussione fra Calvino e Boselli su La nuvola di smog – già citata nella prima parte – lo
scrittore avverte come alcuni brani siano vergati a lettere ampie e «sono quelle che tendono alla
rarefazione verbale. Per esempio dei paesaggi brevissimi, quasi dei versi: Era autunno, qualche
albero era d'oro». (RR I, p. 1356).
504 A rafforzare le corrispondenze fra La nuvola di smog e I giovani del Po contribuisce la presenza
di una scena molto simile nel tentativo di romanzo. «Presero una via di collina e al volante andò
Nino, che con quelle salite e quelle curve ci sapeva fare meglio. Era primo pomeriggio […]. Giù
s'apriva la città irriconoscibile, rossa dai tetti e grigia di fumo e asfalto e vetri, solcata dai viali dritti,
cinta dal nastro lucido del fiume, la città che pochi mesi prima Nino girava spaesato, e che adesso
era sua». (RR III, p. 1116). Nonostante un senso d'appartenenza, non si dà alcuna integrazione:
«Nino guardava con un occhio lei, con l'altro la città giù a valle». Non esiste uno sguardo capace di
tenere insieme i due simboli. La ragazza desidera un bacio, ma «Nino aveva le labbra fredde come
pietra». (RR III, p. 1117). Per l'importanza delle visioni dall'alto si veda il primo paragrafo del

280
Da una certa distanza lo sguardo indugia sull'invasione inquietante dello smog,
minaccia che scivola come una promessa di cancellazione. La nube, tuttavia, non
abbraccia la totalità dell'esistente e nel prosieguo del racconto il protagonista –
ridisceso nel ventre della società industriale – registra nuove impressioni, e di varia
composizione. Contempla con un poco d'apprensione l'immagine patinata di
Claudia su una copertina di rotocalco («Claudia in costume da bagno […] faceva
un'evoluzione sugli sci d'acqua»); percepisce da oltre un vetro i lavoratori della
fabbrica («vedevamo gli operai del turno uscire dai cancelli coi manubri delle
biciclette per mano»); descrive la «fosca caligine» d'un cielo greve di timori destati
dal pericolo nucleare («la nube di smog ora appariva rimpicciolita, una nuvoletta
appena, un cirro, a paragone della sovrastante nube atomica»); percorre con lo
sguardo fotografie di operai provenienti dall'altra parte del mondo, là dove vive un
«popolo asiatico («c'erano due, sempre col berrettino di pelliccia, che manovravano
un tornio»). Infine il racconto si chiude sull'apparizione d'un sobborgo di lavandai
fuori città dove alcune donne dalle vesti variopinte e con le maniche rimboccate
lavano i panni sulle sponde di un lavatoio, mentre gli uomini «con i cappelli di
paglia» scaricano le ceste dei capi sporchi: «E là in fondo, oltre i pioppi, vidi un
prato veleggiante di bianco: roba stesa». (RR I, p. 951). Appaiono così gli aspetti
plurimi di una società industriale discontinua e in evoluzione, senza che una
visione prevalga su un'altra: le forme e movimenti di uomini e oggetti si rifrangono
sulla retina ossessionata dell'attonito osservatore. Durante lo scrutinio inesausto
egli ricerca «una nuova immagine del mondo che [dia] senso a questo grigiore e
[valga] tutta la bellezza che si [perde], salvandola... – Una nuova faccia del mondo».
(RR I, p. 943). Tuttavia nella conclusione l'intellettuale ammette che non esiste
l'immagine definitiva, ma solo una sequenza di apparizioni discrete e parziali: «non
cercavo altro che immagini da tenere negli occhi». Le impressioni ottiche sono
varie e contraddittorie, aggregate in una teoria d'apparizioni discontinua e
reversibile: La nuvola di smog è una narrazione che tiene insieme «blocchi di
immagini» giustapposti, quasi un mosaico disgregato della civiltà industriale. 505
secondo capitolo.
505 Per il prevalere dell'immagine sulla narrazione si veda il primo capitolo, paragrafo 3. Sulla

281
Lungo la catena di immagini si possono individuare contrasti e somiglianze di
ordine tematico, rappresentativo, simbolico e stilistico. Se nella prima parte del
racconto tutte le visioni avvengono ad occhio nudo, nella seconda parte l'attenzione
del narratore si sofferma spesso su immagini riprodotte tecnicamente (fotografie
sui giornali, testimonianze esotiche, copertine di riviste), sintomi di una società
industriale avanzata. Anche il cielo nelle ultime pagine assume un tono irreale, o
iperreale: «il cielo era luminoso […] però a scrutarlo bene ci vedevo come
un'ombra, una sbavatura come su una vecchia fotografia ingiallita». (RR I, p. 945).
La dominanza della luce o dell'ombra abbraccia tutte le raffigurazioni del racconto:
la città appare grigia e i suoi abitanti sono «sagome», silhouettes senza volto né
spessore, ma all'improvviso il protagonista scorge gli ori delle bevande da
consumare, il nitore dei rotocalchi, il verde acceso degli alberi su cui si posa il
tramonto. Uno scarto evidente nella tonalità luminosa abita la scena in cui il
protagonista e Claudia desinano in un ristorante di lusso lungo il fiume. Fuori
appare un paesaggio stilizzato e variopinto: «guardavamo le rive e le piante che
componevano col colore dell'aria un quadro di vecchia eleganza» (RR I, p. 939), ma
poco dopo il lungofiume è come capovolto nel suo corrispettivo opaco: «i prati, i
tronchi erano fasciati di quel velo che si levava fitto dal fiume, umido, qui ancora
un fatto di natura». (RR I, p. 940). Le luci e le ombre non si compenetrano, né si
fondono, ma generano serie di immagini separate. La menzione del fiume richiama
il dissidio simbolico evocato ne I giovani del Po. I valori ne La nuvola di smog
rimangono i medesimi: la natura – simbolizzata dalla leggerezza sorvolante della
donna, dalle colline circostanti, dal fiume – s'oppone a una storia carica di
emissioni industriali e condannata dalla mestizia di volti vaganti fra strade
irrespirabili. Anche lo stile tende a conformarsi ai toni grigi, dimessi della civiltà
industriale e s'aggruma sulla pagina un linguaggio che imita i toni sciatti e incolori
del mondo506: «io invece di motivi ideali non ne avevo né volevo averne; volevo solo
fargli un articolo come piaceva a lui, per conservare quel posto, né migliore né

scrittura per sequenze giustapposte si veda invece il secondo capitolo, paragrafo 7.


506 Come si sta cercando di dimostrare, la scelta stilistica non pare per nulla ingenua, ma deriva da
un progetto ben cosciente: «in un linguaggio grigio e squallido non si possono usare le parole grigio
e squallido, perché allora si tratta di un linguaggio che valuta dal di fuori il grigiore e lo squallore».
(RR I, p. 1357).

282
peggiore di un altro, e continuare quella vita, né migliore né peggiore di tutte le
altre vite possibili». (RR I, p. 908). Poi si solleva un'aria lirica evocata dall'inattesa
dominanza della luce, dei colori accesi che tingono il mondo naturale: «si saliva per
la verdeggiante spalliera di collina che cinge la città a levante». (RR I, p. 924).
Tali elementi – i temi di una società industriale e spettacolare, i toni della
raffigurazione, i simboli e gli stili – sono scomposti, modulati e aggregati in singole
occorrenze percettive, così da moltiplicare le possibilità di visione e arricchire la
variazione di immagini.507 Non tutte le soluzioni stilistiche, tuttavia, si limitano a
imbastire un linguaggio coerente con la realtà rappresentata e non sempre la
scrittura tende ad adeguarsi al grigiore della vita industriale, o al lucore della viva
natura. Le ossessioni del protagonista miste a un senso di spaesamento consentono
la tessitura di periodi caratterizzati da una precisione grottesca e allucinata, come
nel caso della prima descrizione del presidente dell'ente: «l'ingegnere, sollevando i
fogli, cercava di dar loro una sbattutina, ma appena appena, come non volesse
ammettere che erano impolverati, e ci soffiava a fior di labbra. Stava attento a non
mettere le dita sulla prima pagina d'ogni relazione, ma bastava che la sfiorasse con
la punta d'un'unghia perché un serpentello bianco rimanesse tracciato su quello che
ora appariva un fondo grigio, ricoperto com'era d'un velo minutissimo di polvere»
(RR I, p. 897). Nel gioco di trasfigurazioni gli uomini paiono assumere connotati
entomologici: «così stavamo tutti e due, muovendo i polpastrelli a mezz'aria e
passandoci quelle relazioni»; e manifestano una gestualità inquietante: «intanto
continuavamo a sorridere, a sorridere, ad annuire, compiaciuti». (RR I, p. 897). Tale
modulazione stilistica è rivendicata dallo stesso protagonista: «esagerai […] lo
squallore del luogo, per buttare l'avventura tutta sul grottesco». (RR I, p. 928). Si
susseguono così, in spazi verbali ravvicinati, salti da uno stile mimetico a una
intensificazione verbale intrisa d'ironia e straniamento perturbante. 508

507 Ancora Calvino nella discussione con Boselli: «abbiamo dunque non tanto un racconto vero e
proprio […] quanto una narrazione lirico-simbolica del rapporto d'un uomo con una realtà (storico-
sociale-esistenziale etc.) che culmina nell'immagine della nuvola di smog […], e insieme una
casistica di altri tipi di rapporto possibili: l'ingegnere, l'amica, l'affittacamere, il sindacalista. (Anche
per questa struttura potrai trovare una serie di riferimenti in altre narrazioni mie che sono costruite
così: con al centro una relazione a x data come esemplare, e intorno una raggiera o casistica di
relazioni b x, c x, d x, etc.)». (RR I, p. 1358).
508 Calvino richiama un procedimento analogo in Mondo scritto e mondo non scritto: «ma sarà
proprio la mimesi la via giusta? […] La vera sfida per uno scrittore è parlare dell'intricato groviglio

283
Nella descrizione della nuvola di smog i toni raggiungono l'apice dell'allucinazione,
la scrittura è così intensa da vibrare di nitore e precisione. 509 Poiché l'immagine
della nube segue i toni sospesi, rarefatti e lirici dedicati al viaggio in collina, l'esito
felice della raffigurazione trae forza dallo scarto inatteso di impressioni
contrastanti. Un effetto stilistico analogo emerge durante l'episodio della cena
solitaria nella birreria “Urbano Rattazzi”. Pressato contro il bancone l'intellettuale
ragiona e oppone alla luminosità del locale l'oscurità dimessa della sua camera: «in
trasparenza tra le linee e i colori di questa parte del mondo andavo distinguendo
l'aspetto del suo rovescio, del quale soltanto io mi sentivo abitatore. Ma forse il vero
rovescio era questo, illuminato e pieno d'occhi aperti, mentre invece l'unico lato che
contasse era quello in ombra». (RR I, p. 923). Sembra quasi che il narratore
disponga sul piano della pagina una sequenza di figure. Quando la transizione da
un'immagine all'altra è brusca e inattesa la scrittura sgorga compatta e densa,
evocando un effetto di allucinazione. Il rovesciamento di un'immagine e la
consecutiva apparizione della successiva, dunque, compongono la strategia decisiva
de La nuvola di smog, sono espedienti per giustapporre le visioni una contro l'altra
e imprimere loro una forza icastica che scaturisce dal contrasto e dal
capovolgimento delle figure.510 Così la civiltà industriale è resa come aggregato
frammentario e disomogeneo di visioni cariche di tensione.
L'impossibilità di una sintesi emerge dalla sommaria descrizione di un articolo di
fondo redatto dal narratore: «per due terzi tracciai un quadro tetro delle città
d'Europa divorate dallo smog, per un terzo invece contrapposi l'immagine di una
città esemplare, la nostra, linda, ricca d'ossigeno, dove una concentrazione
razionale delle istanze produttive non andava disgiunta...eccetera». (RR I, p. 910).
Gli elementi polari non si compenetrano perché il discorso non integra, ma
disgiunge. Tuttavia l'ingegner Cordà desidera una sintesi dei contrari: «siamo una

della nostra situazione usando un linguaggio che sembri tanto trasparente da creare un senso di
allucinazione, come è riuscito a fare Kafka». (S, p. 1872).
509 Scrive Calvino a Boselli in merito alle scene quali l'apparizione della nuvola: «nell'esame di
questi punti vedrai che come densità verbale, sforzo di precisione lessicale, etc., etc. siano più che
mai lontani dalla definizione etc. etc. E tutta questa minuziosità etc. etc. tende a configurare […] non
tanto delle immagini, quanto delle specie di visioni astratte o meglio etc. etc.». (RR I, p. 1356).
510 Confessa il narratore: «mi bastava capovolgere il mio stato d'animo (cosa che non m'era difficile
perché era come un accanirmi contro me stesso) per ottenere lo slancio necessario a un articolo di
fondo ispirato dal presidente». (RR I, p. 908).

284
delle città in cui la situazione atmosferica è più grave, ma nello stesso tempo la città
in cui si fa di più per essere all'altezza della situazione! Nello stesso tempo, lei
capisce?». Le dichiarazioni dell'ingegnere sono accompagnate da un inserto quasi
saggistico del narratore: «tutto quello che per me era sostanza d'una miseria
generale, per gli uomini come lui doveva essere segno di ricchezza, supremazia e
potenza, e insieme di pericolo distruzione e tragedia, un modo per sentirsi investiti,
e stare lì sospesi, d'una grandezza eroica». (RR I, p. 911). Non è un caso che il
presidente dell'ente ambientalista sia al contempo l'amministratore delegato della
principale industria: «era l'ingegner Cordà il padrone dello smog, era lui che lo
soffiava ininterrottamente sulla città, e l'EPAUCI era una creatura dello smog, nata
dal bisogno di dare a chi lavorava per lo smog la speranza d'una vita che non fosse
solo di smog, ma nello stesso tempo per celebrarne la potenza». (RR I, p. 933).
Sull'altro fronte del mondo capitalistico anche il delegato sindacale desidera
adottare un procedimento dialettico: «non cercava di sfuggire a tutto il grigio
fumoso che c'era intorno, ma di trasformarlo in un valore morale, in un norma
interiore». (RR I, p. 937). A differenza dei capitalisti e degli operai, l'intellettuale
non riesce a comporre un pensiero che tenga insieme contemporaneamente i
frammenti e le contraddizioni. Così si limita ad accostare le immagini una contro
l'altra come fossero carte dei tarocchi disposte in sequenza, osservando gli effetti
che scaturiscono dagli scarti e dai capovolgimenti.511
I giovani del Po è stato il tentativo di integrare i dissidi della società capitalistica in
una forma artistica unitaria e complessa: il romanzo. Fallito l'anelito
all'«integrazione», Calvino riunisce i medesimi elementi in una nuova forma,
differente da quella romanzesca: un racconto lungo – La nuvola di smog – dove le
visioni del protagonista sono accostate l'una all'altra, ma senza alcuna speranza di
sintesi. Lo spazio vuoto e bianco che vibra fra l'immagine della nube e la
«verdeggiante spalliera di colline» del paesaggio naturale esprime in forma

511 Nella sua disamina de Il barone rampante, Testa rileva nell'impiego della lingua una tendenza
catalogatrice non dissimile da quella qui descritta: «il romanzo può infatti leggersi come una sorta di
compendio enciclopedico dei vari moduli, più ironico-giocosi che mimetici, di riproduzione
dell'oralità quali si propagginano per i rami della tradizione». L'autore ripercorre «il repertorio delle
formule e degli stilemi» lasciato dalla tradizione e passa in rassegna «vari tópoi e soluzioni
linguistiche» per cercare nell'eterogeneità un equilibrio della lingua. E. Testa, Lo stile semplice, cit.,
pp. 284-285.

285
letteraria il «rovello» che oppone la storia alla natura. 512 La narrazione di Calvino è
ancora un procedimento di giustapposizione di immagini in una serie discontinua.

3. I sentieri si separano a San Giovanni.

Anche il paesaggio, come il romanzo, richiede un'inesausta ricerca della forma


come argine alla dissoluzione e alla frammentazione. In un'avventura di Palomar
non raccolta nel volume omonimo (“Nei boschi degli indiani”, Corriere della Sera, 18
aprile 1976) il protagonista passeggia nei dintorni di un centro universitario nel
Massachusetts e osserva alcune abitazioni del Settecento: «le case più antiche, in
gran parte dell'epoca coloniale, e quasi tutte abitate ancor oggi, sono in un villaggio
qua sopra […]. Guardando le case più antiche, la prima cosa che il signor Palomar
nota è che non ce n'è una uguale a un'altra». Nonostante le differenze persiste una
«omogeneità stilistica» che si articola in una «inesauribile varietà di soluzioni
formali». (S, p. 2697). Queste abitazioni originano pertanto un «tipo di paesaggio»
che sussiste sebbene una «soverchiate storia di distruzioni» sommerga «l'esile
storia» delle forme compiute: «l'immagine d'armonia tranquilla di questi villaggi
non deve ingannare: c'è sempre dietro una storia dura, come dappertutto in
America». Il paesaggio assicura una permanenza delle forme nonostante il fluire
disordinato dell'universo: «il signor Palomar viene da una nazione della vecchia
Europa dove tutto avviene troppo tardi e ogni distacco dall'immobilità assume il
carattere d'una frana che nessuno sa padroneggiare e dirigere. Per questo è
particolarmente attratto dalle forme che persistono attraverso i cambiamenti, dai
contrassegni minimi d'una civiltà, dalle tracce d'una storia come continuità d'un
progetto che affiorano in mezzo alla frana universale della storia come saccheggio e
massacro». (S, 2699).
Il rovescio del sublime è un articolo raccolto nella sezione “La forma del tempo” di
Collezione di sabbia e prende spunto dalla contemplazione del giardino delle ville
imperiali di Kyoto. Il visitatore si aggira in un «paesaggio autunnale giapponese» e
512 Lo stesso dissidio fra storia e natura origina gli altri due racconti lunghi scritti nello stesso
periodo: La speculazione edilizia e La giornata di uno scrutatore. Come si è dimostrato nel terzo
capitolo, la frattura fra storia e natura non coinvolge solo le forme dei generi letterari, ma deriva
anche da una determinata impostazione ideologica.

286
sofferma lo sguardo sulla «leggerezza delle foglie stellate», sulle «infinite foglioline
a forma di ventaglio» e sulle «montuosità, rocce e declivi» che moltiplicano le
vedute. La mente può riposarsi e indulgere nella riflessione perché forse è possibile
trovare nel paesaggio un «riparo dalla storia catastrofica e incongrua», liberandosi
«da ogni passione e nevrosi». Uno studente giapponese si avvicina e lo scrittore
domanda se è davvero così piacevole l'ambiente circostante: «io non posso fare a
meno – risponde lo studente – di pensare che questa perfezione e armonia è costata
tanta miseria a milioni di persone, per secoli». Il rovescio del sublime è il negativo
delle abitazioni nel Massachusetts: il peso insopportabile della miseria e
dell'ingiustizia vanifica forse la «forma del tempo» racchiusa in un paesaggio dove
risulta arduo fronteggiare il «saccheggio e [il] massacro» originari e sperare nella
costituzione di uno «spazio d'un'altra storia». Così i ciottoli levigati nel torrente
nascondono la visione della «fila dei contadini curvi sotto i pacchi di pietre che si
snoda per i ponticelli e i vialetti». (S, pp. 573-579). Forse l'apparizione di un
paesaggio non è che un'oscillazione fra un'aggregazione di senso effimera e
l'inesorabile lavorio della distruzione e dell'ingiustizia, un'immagine dove lo spazio
si concede per un istante come armonica forma del tempo prima di disfarsi sotto il
peso di nuove obiezioni.
Il paesaggio è una configurazione dove le parvenze di un ordine storico e di un
armonia naturale s'incontrano e trovano un equilibrio precario. L'accostamento fra
romanzo e paesaggio non è dunque casuale, ma è un'ipotesi letteraria complessa
dove la fragile forma del paesaggio si interseca con una forma narrativa altrettanto
labile. L'esito più evidente di tale incontro concerne una particolare commistione
fra lo spazio e il tempo: la veduta cristallizzata in un attimo di contemplazione è
attraversata dal divenire di eventi distesi nel procedere di un racconto. All'interno
di un volume collettaneo pubblicato nel 1986 513 è conservato un breve intervento –
Ipotesi di descrizione di un paesaggio – dedicato al rapporto fra la scrittura e la
visione paesaggistica. Secondo Calvino uno scrittore deve decidere se descrivere
«stando fermo, come di solito stanno i pittori», oppure spostandosi «da un punto
all'altro entro questo pezzo di spazio in modo da poter dire quello che vede da punti
513 Aa. vv., Esplorazioni sulla Via Emilia. Scritture nel paesaggio, Feltrinelli, Milano 1986, pp. 11-12.
Ora in Saggi, cit., pp. 2693-2694.

287
diversi, cioè moltiplicando i punti di vista all'interno di uno spazio
tridimensionale». La riflessione indugia solo sulla seconda possibilità, più consona
a trattare uno spazio tanto ampio che un solo sguardo non può abbracciare. Anche
in questa occasione la scrittura sorge da uno stato di immobilità, ma lo sguardo
interiore si muove nella memoria per ricostruire il ricordo di un'esperienza: «anche
se adesso che sono seduto qui a scrivere sembro fermo, sono gli occhi a muoversi
[…], gli occhi interiori corrono avanti e indietro tra le cose sparpagliate nella
memoria, e cercano di dare loro una successione, di tracciare una linea tra punti
discontinui che la memoria conserva isolati». Pertanto è inevitabile che «una
descrizione scritta sia un'operazione che distende lo spazio nel tempo». 514 Poi
Calvino nota come lo scrutinio mentale di un paesaggio tracciato «come risulta dai
diversi punti dello spazio» concerne anche il tempo interno ai processi naturali:
«descrivo il paesaggio come risulta nei diversi momenti del tempo che impiego
spostandomi». Alla luce di queste considerazioni Calvino conclude:

una descrizione di paesaggio, essendo carica di temporalità, è


sempre racconto: c'è un io in movimento che descrive un
paesaggio in movimento, e ogni elemento del paesaggio è carico
di una sua temporalità cioè della possibilità d'essere descritto in
un altro momento presente o futuro... (S, p. 2694).

A differenza di quanto avviene in Dall'opaco Calvino prevede il movimento di un


osservatore attraverso lo spazio. L'impostazione teorica, tuttavia, rimane invariata:
l'«io scrivo» mantiene l'immobilità necessaria alla realizzazione del suo atto, scinde
il mondo in «punti discontinui» e sezioni isolate e ricompone all'interno della sua
mente un movimento che non è fluido, ma procede a salti. Il paesaggio narrato si
presenta ancora come una sequenza di prospettive e di momenti disposti in
disgiunzione lungo la linea d'un racconto. Un'impostazione analoga emerge ne I

514 In una intervista del 1980 Calvino ribadisce che la fondazione della narrazione risiede nella sua
distensione temporale: «la poesia è sull'essere, ed è al presente (naturalmente io parlo della poesia
lirica, perché credo nell'essenza lirica della poesia, che altrimenti può essere anche narrazione). C'è
una dimensione presente del rapporto individuo-linguaggio, o individuo-società, che è quella della
poesia; e c'è una dimensione nel tempo di questo rapporto, che è quella della narrazione». I. Calvino,
Sono nato in America, cit., p. 402.

288
mille giardini, scritto sul Giappone raccolto ancora nella sezione “La forma del
tempo” di Collezione di sabbia. Lo scrittore descrive il giardino imperiale di Katsura
e nota come i sassi che segnano il sentiero diano una cadenza al passo e allo
sguardo:

Se c'è una corrispondenza tra i punti di vista e i passi, se ogni


volta che s'avanza il piede destro o sinistro sulla pietra successiva
s'apre una prospettiva stabilita da chi progettò il giardino, allora
l'infinità dei punti di vista si restringe a un numero finito di
vedute, ognuna staccata da quella che la precede e da quella che la
segue, caratterizzata da elementi che la contraddistinguono dalle
altre, una serie di modelli precisi che rispondono ognuno a una
necessità e a una intenzione. Ecco cos'è il sentiero: un congegno
per moltiplicare il giardino, certamente, ma anche per sottrarlo
alla vertigine dell'infinito. (S, p. 585).

Il sentiero plasma una struttura narrativa concepita per moltiplicare e giustapporre


tutte le immagini possibili, così da contenere l'universo in un sistema finito di
vedute. La narrazione, pur intrecciando la dimensione del tempo con quella dello
spazio, non produce un continuum in divenire ma una teoria di proiezioni discoste
l'una dall'altra. Il movimento sulla forma-sentiero risente del principio della
distanza, origine di ogni dissezione analitica del tempo e dello spazio.
Ne La strada di San Giovanni il protagonista colleziona le vedute in un «rosario
d'immagini» durante la camminata, ma i paesaggi rimangono ancora separati l'uno
dall'altro perché l'apparizione delle valli nell'entroterra esclude la possibilità di
scorgere la linea costiera. San Giovanni è il territorio originario dove i frammenti
non si integrano, ma rimangono parziali aggregati dotati di una forma. La
separazione inscritta nella topografia della Liguria – il mondo «in su» è la
campagna lontana dal progresso e prediletta dal padre, quello «in giù» è l'universo
urbano denso di segni anelato dal figlio – richiama il dissidio fra il processo storico
e la persistenza della natura. La distanza fra storia e natura ne La strada di San

289
Giovanni è anche un sintomo del fallimento della forma romanzesca.515
Alcuni indizi permettono di corroborare l'ultima ipotesi. L'esistenza di due universi
separati e orientati in relazione alla casa dell'infanzia non è nuova alla letteratura
occidentale. Barenghi nota acutamente come i due versanti osservati dalla villa dei
Calvino siano «due côtés»516 simili a quelli che aprono À la recherche du temps
perdu.517 Anche nel primo volume della Recherche il sentiero che conduce alla parte
di Méséglise non comunica con il cammino della parte dei Guermantes, sebbene
entrambe le vie abbiano in comune il punto di partenza, l'uscio della casa di
Combray:

cette démarcation était rendue plus absolue encore parce que


cette habitude que nous avions de n'aller jamais vers les deux
côtés un même jour, dans une seule promenade, mais une fois du
côté de Méséglise, un fois du côté de Guermantes, les enfermait
pour ainsi dire loin l'un de l'autre, inconnaissables l'un à l'autre,
dans le vases clos et sans communication entre eux, d'après-midi

515 Esiste uno scritto di Calvino dove lo scrittore tenta di intravedere nel paesaggio un'integrazione
fra la storia e la natura. Nel 1974 esce Ferro rosso, terra verde, l'ultimo volume della collana che
«l'Italsider ha, nel corso degli anni, dedicato alle realtà che ospitano i suoi stabilimenti». (Ferro rosso,
terra verde, Italsider. Genova 1974, p. 3). Il libro raccoglie le foto e i testi di diversi autori, fra cui
Gabriele Basilico, Mario Soldati e Italo Calvino. Il contributo dello scrittore ligure ha un titolo
significativo: Savona: storia e natura. La «forma» di un luogo, secondo Calvino, è attraversata «dalla
dimensione del tempo»: «la vera descrizione d'un paesaggio finisce per contenere la storia di quel
paesaggio, dell'insieme dei fatti che hanno lentamente contribuito a determinare la forma con cui
esso si presenta ai nostri occhi, l'equilibrio che si manifesta in ogni suo momento tra le forze che lo
tengono insieme e le forze che tendono a disgregarlo». (S, p. 2390). Nel tentativo di osservare il
paesaggio come intersezione di natura e storia, Calvino immagina una verticale che attraversa la
Liguria seguendo un orientamento diverso da quello dominante in Dall'opaco: «occorre dire che la
Liguria d'un tempo – e d'un tempo che non è molto lontano – non si definiva come una linea
stradale litoranea, quale ormai siamo abituati a considerarla. Era in senso perpendicolare alla costa
che si usava vederla: o dai naviganti che ancor oggi s'orientano sui suoi campanili per stabilire la
rotta verso i porti; o dai viandanti che percorrevano le strade lungo le valli che collegavano la costa
ai centri dell'Italia padana, scavalcando i gioghi delle montagne». (S, 2400). La variazione dello
sguardo e lo sforzo di integrazione sono aspetti notevoli se raffrontati agli altri scritti liguri.
L'approccio di fondo al paesaggio – lo sguardo dall'alto, a distanza – tuttavia non cambia: lo scrittore
osserva il mondo dalla terrazza della fortezza del Priamar e nell'ultimo paragrafo chiarisce: «sto
seguendo linee che s'intersecano su questa mappa attraverso lo spazio e il tempo». (S, p. 2402).
516 M. Barenghi, Italo Calvino. Le linee e i margini, cit., p. 95.
517 Lo sguardo proustiano sui luoghi dell'infanzia era già stato impiegato da Calvino in una lettera
del 1950 a Isa Bezzera: «ti scrivo dalla casa paterna, seduto alla scrivania sulla quale facevo i compiti
da ragazzo. […] risento i rumori di sempre, […] i vecchi del Ricovero che salgono per la strada di San
Pietro, […]. La “ricerca del tempo perduto” è uno sport a buon mercato; basta averci una casa e un
paese natale, abitare lontani e tornarci ogni tanto.» I. Calvino, Lettere 1940-1985, cit., p. 285.

290
différents.518

I due côtés generano due ordini simbolici «assoluti»: «alors, “prendre par
Guermantes” pour aller à Méséglise, ou le contraire, m’eût semblé une expression
aussi dénuée de sens que prendre par l'est pour aller à ouest».519 Il significato
dell'espressione «prendre par l'est pour aller à ouest» è nullo solo in riferimento a
un mondo disteso su una superficie piana, ridotto a proiezione cartografica. Così il
narratore attribuisce all'intelligenza analitica la responsabilità della frattura:
«surtout je mettais entre eux, bien plus que leurs distances kilométriques la
distance qu'il y avait entre les deux parties de mon cerveau où je pensais à eux, une
de ces distances dans l'esprit qui ne font pas qu'éloigner, qui séparent et mettent
dans une autre plan».520 La parte di Méséglise e quella dei Guermantes occupano
due sezioni distinte della mente e disegnano una «separazione» simile alla frattura
fra versante aprico e opaco ipotizzata dal soggetto trascendentale in Dall'opaco.
Solo alla fine dell'ultimo volume il protagonista individua la congiunzione che
riunisce i due mondi. Marcel si reca a una matinée dai Guermantes e fra gli ospiti
incontra la figlia di Gilberte Swann e di Saint-Loup, marchese discendente dei
Guermantes. La bambina simboleggia l'intersezione dei cammini, i «carrefours où
viennent converger des routes venues» e così «venaient aboutir à elle les deux
grands “côtés” où j'avais fait tant de promenades et de rêves – par son père Robert
de Sait-Loup le côté de Guermantes, par Gilberte sa mère le côté de Méséglise qui
était le “côté de chez Swann”».521 L'agnizione finale conclude la ricerca:
l'intersezione delle due vie lascia intravedere la trama dei «fils mystérieux» d'una
intera esistenza e finalmente l'opera da scrivere si presenta completa e definita
all'immaginazione di Marcel. La possibilità del romanzo discende dunque, secondo
Proust, dalla riunione dei due mondi in un unico cosmo sferico dove tutto si tiene
in una sintesi delle discordanze. Ma a San Giovanni Calvino esclude
consapevolmente questa possibilità e persegue con coerenza un'estetica della
distanza dove le camminate e gli spostamenti consentono soltanto un accostamento
518 M. Proust, Du côté de chez Swann, LGF, Paris, 1992, p. 180.
519 Ibidem, p. 180.
520 Ibidem, p. 180.
521 M. Proust, Le Temps retrouvé, Gallimard, Paris 1989, p. 334.

291
seriale di paesaggi discontinui. La storia e la natura, il mondo «in giù» e il mondo
«in su» rimarranno fino alla fine vasi senza comunicazione, e per questo il
romanzo-paesaggio resta un'ipotesi impossibile a realizzarsi.

4. Terra e mare.

Dopo la lettura delle bozze de L'angelo di Avrigue Italo Calvino scrisse a Biamonti
una lettera di commento. Un periodo in particolare è una nitida testimonianza del
filo critico che lega la definizione di «romanzo-paesaggio» con le riflessioni sul
romanzo avanzate nei decenni precedenti :

Quello che il Suo romanzo è riuscito a rappresentare, credo per la


prima volta, è un'immagine della Liguria che comprende insieme
la vita agricola dell'entroterra, dura e aspra e povera, e il modello
della vita facile della Riviera che ora prende l'aspetto tragico della
droga come consumo di massa.522

L'angelo di Avrigue523 finalmente «comprende insieme» la frantumazione naturale e


storica della Liguria di Ponente. Il romanzo d'esordio di Biamonti è così il punto
estremo da cui osservare il problema del paesaggio in Italo Calvino.
Gregorio, il protagonista, è un marinaio originario di Avrigue, un paese arroccato
nell'entroterra a ridosso del confine franco-italiano. 524 Da poco è tornato in patria
per trovar sollievo dal malessere della navigazione, eppure sa che presto dovrà

522 A Francesco Biamonti, San Biagio della Cima (Imperia), in I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di
L. Baranelli, Mondadori, Milano 2000, p. 1457.
523 F. Biamonti, L'angelo di Avrigue, Einaudi, Torino 1983. D'ora in poi nei riferimenti bibliografici il
romanzo sarà AA.
524 Il nome del paese non è per nulla irrilevante ai fini di questa indagine. In uno studio sulla
toponomastica nei romanzi di Biamonti, Fenzi nota che «il paese di Avrigue è con ogni evidenza lo
stesso che Apricale, l'antico paese della Val Nervia, dopo Dolceacqua e dietro il colle di Perinaldo,
che nel dialetto del luogo suona Avrigà. Il latino apricum, “esposto al sole”, dà infatti avrigu / abrigu
(c'è anche un Costa Abrigo sopra Seborga), così come opacum dà ubagu, donde il toponimo diffuso
in quella regione: Ubago, appena sotto Pigna, e il Bosco dell'Ubago, la Fascia d'Ubago, Rio Ubaghi,
ecc.». E. Fenzi, Toponomastica e antroponomastica in Biamonti, in Il nome nel testo, 2000-2001, p.61.
La forma nel romanzo è francesizzata e anche la collocazione è immaginaria, molto più a ridosso del
confine di quanto non sia il modello “toponomastico” Apricale. Tali variazioni, come si vedrà, non
sono per nulla casuali.

292
ritornare sul mare. Un mattino il cadavere di Jean-Pierre, suo giovane amico
francese, è trovato sul fondo d'una rupe non lontana da Avrigue. Gregorio decide di
spendere il suo tempo a terra avviando un'indagine solitaria per scoprire le cause
della morte. Intorno si consuma un inverno temperato e il mistero rimane sospeso.
La ricerca di Gregorio è una tessitura di camminate pensose fra il paese in
decadenza, un bar frequentato da giovani drogati e la piccola abitazione del
protagonista isolata su un versante esposto a oriente. Brevi tratti della vicenda si
svolgono fra le vie notturne di una città di confine innominata e lungo la costa
francese fra Montecarlo e Nizza, ma sono parentesi effimere che solo per poco
distolgono l'attenzione dai costoni di Avrigue. La comprensione del territorio ligure
in un'immagine sintetica è l'esito di movimenti creativi più profondi, e non soltanto
una manifestazione della trama.
Una mattina di «rauca di brezza» Gregorio si sveglia e decide di raggiungere a piedi
il bar costruito su uno sperone da cui si vede il mare. Esce di casa e intraprende il
cammino lungo uliveti «ripidi e serrati dal cielo», quando a un tratto il paesaggio si
compone in un'apparizione: «il crinale vibrò nel sole, come un maroso artigliato dal
vento». Poco dopo ancora la voluta minerale assume una sembianza marina:
«ferma lassù, piena di luce» appare ancora «l'onda di roccia». (AA, p. 19). Tali
composizioni metaforiche permettono di vedere la terra come fosse un mare,
individuando una analogia poetica fra i due elementi. Nella passeggiata conclusiva
si compone una figura più articolata: «emergeva all'estremità di quel dosso, su una
marea di costoni, un serro come un veliero di rocce bianche, rocce e calanchi.
Rifletteva il sole e pareva vibrare e quasi fluttuare». (AA, pp. 112-113). Il serro pare
affiorare nell'attimo della percezione, colto in una metamorfosi che suggerisce la
movenza palpitante di un paesaggio screziato dalla rifrazione dei raggi luminosi. Il
linguaggio di Biamonti è intessuto da tropi – a differenza di quanto accade di
norma nelle pagine di Calvino525 – e in particolare ritornano le metafore di una
terra «che non era diversa dal mare» (AA, p. 8): «il golfo di ulivi era grigio come un
austero approdo» (p. 9); «un altro mare, d'ombra, scendeva dalle catene rocciose»
525 In uno studio sulla lingua di Biamonti Zublena nota come vi sia nei romanzi un alto «tasso di
figuralità», dato contrapposto proprio allo scarso uso di metafore in Calvino. P. Zublena, Un
malinconico paesaggio di parole. La lingua di Francesco Biamonti, in Aa. vv., Francesco Biamonti le
parole il silenzio, il melangolo, Genova 2005, p. 135.

293
(AA, p. 55). Anche il mare assume fattezze terrestri quando Gregorio sostiene che
navigare è «come andare per deserti» (AA, p. 39).
Queste trasfigurazioni ricordano alcune immagini elaborate da Proust in À l'ombre
des jeunes filles en fleurs. Durante i mesi di villeggiatura sul litorale normanno di
Balbec il giovane protagonista posa uno sguardo sul mare «cirque éblouissant et
montagneux» e sulle onde «sommets neigeux […] en pierre d'émeraude». Visibili
dalla vetrata dell'albergo dove Marcel alloggia con la nonna s'alzano le «collines de
la mer» per distendersi in «prairies alpestres». La luce è la responsabile delle
trasformazioni perché «c'est elle qui déplace et situe les vallonements de la mer». 526
Tale andamento metaforico, lungi dall'essere un gioco fine a sé stesso, riceve una
giustificazione estetica in occasione dell'incontro con Elstir, pittore di marine:

les rares moments où l'on voit la nature telle qu'elle est,


poétiquement, c'était de ceux-là qu'était faite l’œuvre d'Elstir. Une
de ses métaphores les plus fréquentes dans les marines qu'il avait
près de lui en ce moment était justement celle qui comparant la
terre à la mer, supprimait entre elle toute démarcation. C'était
cette comparaison, tacitement et inlassablement répétée dans une
même toile qui y introduisait cette multiforme et puissante unité,
cause, parfois non clairement aperçue par eux, de l'enthousiasme
qu'excitait chez certains amateurs la peinture d'Elstir.527

La «démarcation» fra il mare e la terra dipende dal lavorio dell'intelligenza che


«rétablissait entre les éléments la séparation que mon impression avait abolie»528,
ma la visione metaforica liberata dai paesaggi di Elstir consente di «habituer les
yeux à ne pas reconnaître de frontière fixe».529 Così la disgiunzione fra il mare e
l'entroterra liguri è trascesa «poeticamente» anche da Biamonti.
Il lavorio del linguaggio metaforico, tuttavia, non investe solo il rapporto fra le
distese d'acqua e quelle di terra. Gregorio si trova all'aperto insieme a Maria, una

526 M. Proust, À l'ombre des jeunes filles en fleurs, Gallimard, Paris 1988, p. 241.
527 Ibidem, p. 400.
528 Ibidem, p. 399.
529 Ibidem, p. 400.

294
vedova giunta sin dalla Polonia alla ricerca del suo passato. Sopra di loro il sole
scalda i boschi di roveri, «anzi, di roverelle, che trattengono ai rami le foglie secche
e da lontano sembrano grano maturato nel cielo». (AA, p. 45). Un altro
avvicinamento fra terra e cielo è immaginato da Gregorio nel corso di una
esplorazione notturna in un borgo abbandonato da decenni: «si vedeva un cielo
ostruito da picchi e dirupi, stelle spezzate da spigoli, altre sorrette dalle pietre» (AA,
p. 59); o nel corso di una camminata alla luce del giorno appaiono in alto «solchi
nell'azzurro, sentieri tracciati dal freddo in arrivo». (AA, p. 50). La percezione
poetica del mondo, per quanto breve possa essere, è l'occasione di tenere insieme
gli elementi della natura: «le piaceva quel posto con il fuoco, gli ulivi e la valle
squarciata dal mare» (AA, p. 79); «un vento di miraggi batteva mare e rocce in
lunghe folate!» (AA, p. 18). Nell'ultima citazione il vento avvicina il mare alla terra,
ma la medesima mediazione può essere assolta anche dalla luce: «assediava le
colline il bagliore turchese del mare» (AA, p. 20); «dai ghiacci del Clapier alla costa
falcata c'era il sole steso» (AA, p. 21). I nessi comunicanti fra le cose disperse in un
cosmo di separazioni sono svelati da un impegno poetico che spesso cela una
movenza etica. In un articolo sulla Liguria scritto poco prima della morte Biamonti
si sofferma sulla devastazione edilizia e la trasfigura in linguaggio letterario:

Un muro di cemento e di obbrobri separa il mare dalla terra;


tuttavia un fantasma d'azzurro pervade ancora l'aria, su una terra
che tende a divenire una sorta di carcassa. […] Ma la sera si
ammanta di grazia. Dal mare sale un viola arioso, un altro mare,
d'ombre, scende dalle montagne, una linea luminosa si increspa
sulle colline mediane e gli ulivi, quasi relitti, si accordano al
cosmo come sogni di pietra.530

La resistenza alla speculazione costiera s'origina da un «tuttavia» e da un «ma»,


spunti avversativi che introducono a visioni di sogno, forse fantasmi
dell'immaginazione. Ancora, come in Proust, la visione poetica cancella per poco i
muri e i confini fra le cose: «si tratta di modulare più che di modellare, di

530 F. Biamonti, La Liguria di Ponente, in Id., Scritti e parlati, Einaudi, Torino 2008, pp. 146-147.

295
raccogliere, come diceva Cézanne, le mani erranti della natura». 531 Nell'Angelo di
Avrigue un pastore errante dalla parlata provenzale annuncia che ogni forma
d'esistenza è parte del cosmo, esposta agli elementi: «il pastore domandò […] se
c'era erba laggiù negli uliveti, “dins lou terrain oundado”. […] Aveva camminato
tutta la notte per abbassarsi, per fuggire l'aria di neve (l'auro de nèu) […]. Si dolse
dell'erba lì intorno tutta dura e secca. Non erano venute le nubi dall'alto mare (dis
auti mar) in autunno, e adesso subentrava il gelo all'arsura. […] Ma a chi parlava?
Agli angeli stessi o a se stesso sembrava parlare quell'uomo». (AA, p. 53). Il
viandante sente d'essere sempre soggetto al mescolarsi discorde e armonico di
terra, aria, acqua e luce.
Un giorno Gregorio si alza tardi «col sole disteso» e sale su su un crinale dove «vi
affiorava la roccia e non vi cresceva altro che quel rigido arbusto [le calcytome
spinose]». Fra le spine nota il cadavere di «un gabbiano con le ali larghe», dalle
palpebre «incartapecorite, orlate di piume gialle di pianto», le zampe sono irrigidite
dalla morte e «il becco aperto in uno dei suoi gridi gutturali e soffocati». Il
gabbiano, essere di cielo e di mare, piomba al suolo e si lega alla terra: il destino di
una creatura illumina i rapporti fra gli elementi della natura 532, è un'immagine
sintetica degli stati di transizione del cosmo. Ma l'uccello è anche un simbolo carico
di reminiscenze letterarie, diretto discendente del cygne di Baudelaire: «Un cygne
qui s'était évadé de sa cage, / Et, de ses pieds palmés frottant le pavé sec, / Sur le sol
raboteux traînait son blanc plumage. / Près d'un ruisseau sans eau la bête ouvrant le

531 F. Biamonti, Scritti e parlati, p. 29. Afferma Cézanne nei dialoghi ricostruiti da Gasquet: «alors je
joins ses mains errantes...Je prends, à droite, à gauche, ici, là, partout, ses tons, ses couleurs, ses
nuances, je les fixe, je les rapproche...». J. Gasquet, Cézanne, encre marine, Paris 2002, p. 149.
532 A proposito della trasfigurazione simbolica dei quattro elementi potrebbe essere fecondo
individuare una fonte diretta negli studi di Bachelard. In un articolo su Rigoni Stern egli cita la
Psychologie [sic] du feu del filosofo francese. (F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 102). Un riferimento
alla «psicanalisi oggettiva» di Bachelard ritorna in un intervento dedicato al pittore Morlotti. (F.
Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 189). Sul rapporto fra gli elementi naturali e i romanzi di Biamonti è
fondamentale una nota di Claudio Panella: «L'angelo di Avrigue (1983) è un romanzo interamente
minerale – così come Vento largo (1991) sarà scritto sul vento e Attesa sul mare (1994) sull'acqua».
(C. Panella, Francesco Biamonti: del «donner à voir» sul confine tra l'immagine pittorica e la parola,
Between, I.1 (2011), p. 3). A questo si può aggiungere che il quarto e ultimo romanzo – Le parole e la
notte – è modulato sulla luce. Ogni elemento, come si tenta di dimostrare qui, non va concepito
come assoluto, ma nelle sue connessioni con il cosmo, frante o nascenti che siano. Un romanzo
minerale, dunque, è un romanzo del divenire terrestre degli elementi, del farsi terra della scrittura,
del decadere al suolo di figure simboliche come il gabbiano. Da questa prospettiva i quattro romanzi
di Biamonti appaiono come un poema unitario sul cosmo: ciascuno affronta il problema dei legami
naturali a partire da un elemento specifico.

296
bec / Baignait nerveusement ses ailes dans la poudre, / Et disait, le cœur plein de
son beau lac natal: / “Eau, quand donc pleuvras-tu? quand tonneras-tu, foudre?” / Je
vois ce malheureux, mythe étrange et fatal, / Vers le ciel quelquefois, comme
l'homme d'Ovide, / Vers le ciel ironique et cruellement bleu, / Sur son cou convulsif
tendant sa tête avide, / Comme il s'adressait des reproches à Dieu!».533 Il conflitto
interno alla poetica di Biamonti spicca nitido nella sofferenza del gabbiano: come
«riunire le mani della natura» se il mondo è decaduto e abbandonato dagli dei? E
che cos'è la terra che accoglie gli uomini? Il grembo dove l'acqua, il cielo e la luce
s'incontrano in una nuova origine, oppure tomba che accoglie il disfacimento?
Afferma Biamonti in una conferenza italo-francese del 1999:

Il faut se river à cette terre comme à une proie, comme à la seule


consolation possible, avec sa dureté et malgré la fatal séparation.
Il n'est pas d'autre destinée que la réalité et le rêve. Mais le rêve
doit correspondre à la réalité de la terre, il ne doit pas être évasif.
Ces temps sont durs car le monde est dans un perpétuelle
transformation et l'ange de la destruction est passé sur l'Europe.
Déjà, Baudelaire l'avait pressenti dans l'un des Tableaux parisiens
qui commence par «Adromaque, je pense à vous!...», aux
civilisations disparues, aux grandes ruines de l'histoire; il voit un
cygne qui cherche son beau lac natal mais ne trouve que du
goudron à peine jeté, il regarde tristement le ciel qui est d'un azur
féroce, d'un azur cruel et dit: «Le vieux Paris n'est plus (la forme
d'une ville / change plus vite, helas!, que le cœur d'un mortel)».
Benjamin fait la même réflexion dans la quatrième théorie du
matérialisme historique à propos de l'ange de Klee. 534

Secondo Biamonti chi scrive, chi sogna, ha la possibilità di cogliere un'insorgenza di


vita «malgré la fatale séparation», una frattura immanente al percorso di

533 C. Baudelaire, Les Fleurs du Mal, Gallimard, Paris 1972, p. 126.


534 F. Biamonti, Le percept de nature dans la poétique contemporaine à partir des «correspondances»
baudelairiennes, in J.-P. Manganaro, G. Passerone, C. Bobas, A. Marino, N. Gailius (a cura di),
Réalités et temps quotidien. Matériaux de la culture italienne contemporaine, L'Harmattan, Paris 2001,
p. 19.

297
distruzione evocato da Benjamin. Non si tratta della quarta, ma della nona delle
Tesi di filosofia della storia: «c'è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi
si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo
sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia
deve avere questo aspetto».535 E la storia appare come una «catena di eventi»
progressiva che lascia dietro di sé «rovine su rovine». Così il gabbiano di Biamonti
è l'angelo della storia con le ali spalancate e gli occhi sbarrati, il mediatore che
testimonia al contempo della caduta e della speranza, della morte per disgregazione
e della genesi per unione: «egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
ricomporre l'infranto».
Anche Jean-Pierre è trascinato a terra, giù nel dirupo: «aveva la fronte intatta.
Un'elitra di libellula lo accarezzava ad ogni spiro del vento». (AA, p. 6) Il giovane
francese mostra il volto all'osservatore, un'ala di libellula è segno dell'ascendenza
celeste e sua madre non ha la forza di chiudere «gli occhi velati», «gli occhi
vetrati» rimasti spalancati sull'orrore (AA, p. 7). Jean-Pierre è un angelo di Klee
immanente al paesaggio ligure. L'indagine sulla morte di un angelo – l'angelo di
Avrigue536 – è un'interrogazione sulla condizione dei viventi interna alla storia e al

535 W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, cit., p. 80.


536 Jean-Pierre è dunque un essere di mezzo, figura di transizione rimasta impigliata nel mondo
terragno. Ma anche Gregorio è una figura del passaggio fra i mondi. Nella pagina finale Gregorio e
l'anziano amico Edoardo incontrano di nuovo il pastore conoscitore dei venti. Egli li saluta con una
preghiera: «Pregatz per nos, – ritmò, – que Dieu nos faga bons crestians e que nos aduga, nos,
pastre, nauchié e gent de mas, a bona fin». Marinaio e nocchiero di anime, Gregorio è colui che si
prende cura del transitare dei vivi nella morte. Da un punto di vista sociale Fenzi nota come i
personaggi dei romanzi di Biamonti si dividano fra i «locali» (i contadini, gli uomini legati alla terra
e alla tradizione del luogo) e i «déracinés» (gli stranieri in cerca di un buen retiro, i migranti, i
trafficanti). Il protagonista – in questo caso Gregorio – è un uomo «in forte crisi nella sua doppia
identità e proprio per questo personaggio privilegiato [che] fa parte, separatamente, dei due gruppi.
È un “locale” che frequenta i “forestieri”». (E. Fenzi, Toponomastica e antroponomastica in Biamonti,
cit., p. 68). Gregorio è dunque un passeur, un mediatore di mondi: un demone. Questo aspetto
potrebbe essere approfondito per dare nuova linfa al dibattito sul “romanzesco” in Biamonti. Nella
Teoria del romanzo Lukacs sostiene che il romanzo è il genere dei tempi in cui s'è smarrita la «patria
trascendentale»: «il romanzo è l'epopea del mondo abbandonato dagli dèi; la psicologia dell'eroe da
romanzo è il demonico». Se l'accesso alla trascendenza è ormai chiuso «gli dèi discacciati e gli dèi
che ancora non abbiano raggiunto la signoria diventano demoni»; per questo i demoni abitano da
protagonisti il romanzo, forma narrativa d'un mondo in cui il senso perduto può essere cercato solo
nella storia, nell'immanenza delle cose, e non altrove. (G. Lukacs, Teoria del romanzo, Pratiche,
Parma 1994, pp. 114-115). La teoria demonica circolerà ancora in area tedesca, e in particolare negli
studi di storia della religione: «questo carattere enigmatico, questo tono di chiaroscuro, di
indeterminato, di incompiuto, sono elementi propri del romanzo. Il suo mondo è demonico». F.
Altheim, Romanzo e decadenza, Settimo Sigillo, Roma 1995, p. 42. Nelle sue considerazioni
sull'origine del romanzo Gianni Carchia attribuisce il carattere demonico non solo ai personaggi, ma

298
contempo nonostante la storia.

5. Personaggi in cammino nello spazio-tempo.

I moti di transizione del cosmo coinvolgono sia il linguaggio (è il caso delle


trasformazioni metaforiche), sia i personaggi e le figure simboliche (il gabbiano
cambia il suo stato e così anche l'angelo Jean-Pierre cade a terra). La stessa
narrazione – scarna, pausata – si sorregge sugli spostamenti di Gregorio e degli
abitanti di Avrigue, lievi passaggi sui sentieri: «quanto aveva camminato per la
morte di quel ragazzo!» (AA, p. 121). La prima camminata coinvolge il prete di
Avrigue e Gregorio fino alla rupe su cui s'è abbandonato il corpo di Jean-Pierre: « –
Andiamo piano, – disse il prete, – tanto non c'è rimedio». Il sentiero sale in alto
dove «il vento scuote ulivi e pini» e il prete «andava piano. Un'ora per arrivare
all'Annunciata». (AA, p. 6). Sempre il passo segue una dolce lentezza: «tornò
indietro, verso la chiesa tagliata di sbieco dalla luce sull'intonaco e sulle vecchie
pietre. Andava piano, pianissimo» (AA, pp. 107-108); «riprese ad andare adagio
adagio». (AA, p. 109). Un sogno d'armonia appare ancora nell'andatura del pastore
che «andava lento ma sicuro come gli antichi portatori di sale, e forse per lo stesso
sentiero. Era seguito e preceduto da capre e pecore a frotte. Andava lento, ma
andava, in mezzo a tutto quel sangue di dio la cui vita si muove». (AA, p. 54).
La lentezza del corpo in movimento accompagna una transizione sfumata nel

alla forma del romanzo tout court: «il carattere non adempiuto della costituzione formale, la sua
“porosità” fanno del romanzo un medium ambiguo fra l'arte e la vita […]. È questa sua irresolutezza
ciò che lo costituisce anche ad espressione per eccellenza […] del “demonico” ovvero anche di un
regno dell'anima intermedio, oscillante fra la luce dello spirito e le ombre della vita». (G. Carchia,
Dall'apparenza al mistero. La nascita del romanzo, in Id., Immagine e verità. Studi sulla tradizione
classica, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2003, p. 223). Sorprende notare che nello stesso saggio
Carchia si sofferma sul paesaggio come luogo di mediazione: «il paesaggio è, in ambito pittorico, la
dimensione privilegiata di questo incontro fra il contingente e l'eterno: luogo ideale di quell'incrocio
fra contemplazione ed azione che definisce lo spazio rappresentativo stoico». (Ibidem, p. 171). E il
paesaggio non era il luogo di mediazione abitato dai demoni nel breve saggio sul paesaggio citato
nelle riflessioni sulla lontananza? (G. Carchia, Per una filosofia del paesaggio, in «Quaderni di
estetica e critica», 4-5, 1999-2000, pp. 13-21). Esiste la possibilità di ricostruire una filosofia del
paesaggio-romanzo a partire dalle riflessioni di Carchia. Possibilità affascinante che tuttavia esula
dai confini di questo lavoro. Rimanga almeno questa intuizione: il demonico appartiene alla
transizione fra i mondi e si muove fra frontiere mobili e porose. Se è vero che il romanzo è un
genere della transizione, una configurazione di passaggi e non di confini lineari e netti, forse esso
non può accogliere in sé come principio fondante l'analisi, origine di ogni dualismo: non può esserci
romanzo a partire dal pensiero della distanza.

299
mondo che appare. Quando Gregorio incontra nel paese Maria, la vedova polacca, i
due «passarono due carrugi in penombra e si ritrovarono nel chiarore della
campagna». (AA, p. 43). Le variazioni di ombra e di luce sono passaggi graduali
senza separazioni o scarti; lungo le frontiere indistinte è possibile intravedere la
compresenza degli opposti: «lassù un eccesso di azzurro, che nel suo eccesso era
cupo: de luz a sombra, soleva dire un marinaio spagnolo». (AA, p. 43). Così il
paesaggio si compone alla vista durante la marcia fra mare e montagne:

Egli camminò per la gariga assolata, fra rocce calcaree distese


nella luce. Saliva allontanandosi dalla marina che il grecale
increspava.
Saliva e girava la rupe. Si vedeva ancora il mare, ma era
scomparso il bar dell'olandese. (AA, p. 52).

Mentre Gregorio aggira la rupe le apparenze non sono montate lungo una catena di
frammenti discontinui, ma tradiscono un divenire fluido e continuo: il bar si
nasconde alla vista e piano piano la piega del sentiero lascia scorgere il mare
sempre più lontano. La visione circolare compone una sintesi visiva perché i
sentieri sono occasioni per connettere gli elementi della natura in una continuità
percettiva: «dall'Annunciata per inveterata abitudine tornò a guardare la costa,
terra e mare in una impressione di vuoto tremolante in una sorta di vento». (AA, p.
61). Il giorno di San Sebastiano, festa patronale di Avrigue, il santo è accompagnato
sulle strade. «Adesso il santo attraversava l'ombra del portico e usciva sui dirupi,
andava a vedere dalla parte delle montagne, poi lo avrebbero portato ad affacciarsi
al mare». (AA, p. 74). La statua è un corpo in cammino, si gira intorno, vede il mare
e le montagne in un attraversamento di condizioni ambientali e sensazioni
immaginarie: la processione pare quasi un correlativo dell'andamento narrativo de
L'angelo di Avrigue.
Il movimento degli uomini può arrestarsi per dischiudere una contemplazione
sospesa, ma l'indugio dell'osservatore non si astrae dalle cose e non compone una
distanza fra la coscienza e il paesaggio. Dice Biamonti che «l'uomo è un fenomeno
tra i fenomeni […]», dunque il suo pensiero sorge dal luogo in cui si trova: «lo

300
stesso pensiero su un marciapiede di Roma cambia tono in un bosco del Montello o
su una roccia della Liguria: la relatività delle cose umane è anche data dalla
cosmicità della situazione».537 La visione è interna al mondo e risente
dell'interazione fra stimoli percettivi e sentimenti: «gli sembrava di procedere nella
luce di un grande regno, una luce spenta dal vento, e in una minima parca felicità di
esistere». (AA, p. 95). Il paesaggio accoglie le marce di Gregorio e al tempo stesso
appare cangiante ai suoi sensi: non esiste un confine netto fra il soggetto e
l'oggetto, ma una frontiera porosa ai trapassi. 538 Biamonti è riuscito a «comprendere
insieme» la frammentazione della Liguria perché lo spazio non è una proiezione
interiore alla coscienza, piuttosto è un'apparizione occasionata dal movimento di un
corpo senziente.
In una breve nota autobiografica Biamonti si chiede: «il paesaggio?», poi riflette: «è
destino umano abitare un mondo». Ma l'abitare il qui e l'ora di una situazione lascia
intravedere anche la parvenza dell'irraggiungibile, forse sogno chimerico o erranza
di una immaginazione materiale. «L'uomo è l'essere delle lontananze» 539 e il
paesaggio di Biamonti vive della tensione fra la vicinanza e la lontananza:

537 F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 228. Sono riflessioni ispirate, in parte, dalle letture
esistenzialistiche: «una delle cose che ho imparato da ragazzo è “l'uomo è in situazione”
dell'esistenzialismo: non esiste una condizione umana eterna, fissa; esiste una situazione umana. E
l'uomo in situazione può mutare punto di vista. L'importante è che si renda sempre conto dei limiti
esistenziali del suo pensare. Il pensiero è anche in funzione dell'esistenzialità immediata». Ibidem, p.
237.
538 Le stesse visioni lasciano intravedere il lavorio di mobili frontiere: «una zona rugosa e chiara ha
morsicati confini che si sciolgono e si ripristinano in un richiamo interminabile». (AA, p. 11).
L'interpretazione di Giorgio Bertone è del tutto opposta. Per il critico il paesaggio de L'angelo di
Avrigue è «un paesaggio pittoricamente agonistico, preferibilmente decomposto, decostruito, a volte
divelto» dove «rapidi spostamenti del discorso, figure retoriche» convergono per «separare un
elemento […] in modo da far risaltare il singolo elemento fenomenico nella sua assoluta
autonomia». G. Bertone, Letteratura e paesaggio. Liguri e no. Montale, Caproni, Calvino, Ortese,
Biamonti, Primo Levi, Yehoshua, Manni, Lecce 2001, pp. 201-202. «Frontiera o confine?», si domanda
Bertone. E la risposta sorprende: «nonostante la frequentazione della cultura francese, nonostante
Cézanne, nonostante le incursioni geografiche che avvengono dentro e fuori il romanzo, sospetto
che anche la forma mentis dell'autore sia plasmata meno dal primo termine antropologico che dal
secondo». Ibidem, p. 206. Per rafforzare la sua tesi Bertone cita un passo da L'angelo di Avrigue: «si
ricordò che sul mare talvolta gli era parso di vedere il crepaccio del mondo – malinconia, oh solo
malinconie senz'altro – il crepaccio entro cui il mondo spariva. L'onda di roccia invece proteggeva:
ferma lassù, piena di luci». E commenta Bertone: «la prima linea di demarcazione è fra il mare e la
terra». (Ibidem, pp. 206-207). Come, dunque, può non accorgersi della metafora, emergenza della
trasfigurazione e accenno di comunicazione fra gli opposti? Una dimenticanza che si perpetua nel
corso di ulteriori analisi testuali, sempre dirette a confermare che «le divisioni spaziali dei domini
sono nette». Ibidem, p. 207.
539 F. Baimonti, Scritti e parlati ,cit., p. 17.

301
Andare un po' lontano per tornare su sé stessi...È una poetica che
è venuta fuori dopo L'étranger di Baudelaire: «J'aime les
nuages...les nuages qui passent...là-bas...là-bas...les merveilleux
nuages!». Bisogna avere un arco sentimentale e visivo che va
lontano e allo stesso tempo un'ancora gettata profonda, perché
sennò manca il senso della lontananza.540

La lontananza è un baluginio colto da un soggetto esposto all'aperto mondo:


«camminavano piano e Laurence guardava una roccia porosa e lontana (la luna nel
cielo diurno) calare dietro un ulivo». Laurence è un'amica della madre di Jean-
Pierre, forse in passato ebbe una relazione con il ragazzo. Così la morte scava in chi
resta un dolore della lontananza, una nostalgia che appare nel paesaggio come un
«varco» forse illusorio: «la sera, il tramonto solenne, sulla “Baia degli angeli”, le
fece di nuovo sognare la terra di nessuno dove i morti e i vivi si potevano
incontrare, dove Jean-Pierre poteva comparire». (AA, p. 87). Può accadere che i
colori e le forme delle apparenze si confondano con il desiderio: laggiù «si vedeva
la marina sino a Tolone».541 (AA, p. 77). Il paesaggio qui è una tensione che oscilla
fra la condizione presente è il sogno dell'altrove: «l'uomo è in situazione, l'uomo è
condizionato ed è incrociato da sentimenti contraddittori: è abbarbicato alla sua
terra e nello stesso tempo ha la nostalgia di mondi lontani, perché se è destino
umano abitare un mondo e [sic] anche destino umano sognarne un altro. Il paese
più bello è quello in cui non si è, è quello che è più in là».542
La lontananza coinvolge anche la cognizione del passato stimolando toni spesso
540 Ibidem, p. 236.
541 Nota Fenzi che vi è una pulsione desiderante verso la Francia. Lo stesso nome Avrigue ha un
tono francofono nel finale. Inoltre nel corso del romanzo Gregorio si sposta nella «val Creuse» (AA,
p. 81), trasformazione francesizzante della Val Crosia. I nomi «sono una geografia del cuore prima
che del territorio», «custodi di una dimensione affettiva». Da qui Fenzi individua una chiave etico-
politica di interpretazione: le visioni di Tolone e dell'Esterel come le nominazioni in francese danno
«corpo a un grande mito», ovvero «il mito della Francia». (E. Fenzi, Toponomastica e
antroponomastica in Biamonti, cit.). Il sogno della Francia è spesso la lontananza immaginata nel
paesaggio. E in un dialogo con Simeone Biamonti affermò che «la grande aventure, c'est ce décalage
entre la vie et moi, dans la projection de l'ombre sur le mur du désir. L'ombre devient l’être des
lointains». (B. Simeone, Des cris, mais sous forme de rêves. Entretien Francesco Biamonti / Bernard
Simeone. Villa Gillet, novembre 1995, in F. Biamonti, Le silence, Verdier, Lagrasse 2005, p. 46).
542 F. Biamonti, “La casta semplicità”. Francesco Biamonti all'Auditorium Monturbano di Savona, in
Per Francesco Biamonti, Resine, n. 141-142, 2014, p. 86.

302
opachi di malinconia. Un marinaio lituano prima di morire rimpiangeva «i suoi
boschi lituani» e «da ubriaco recitava versi: “Vous le savez déjà madame, c'est une
triste histoire / Ils dorment dispersés dans les pays lointains». (AA, p. 82). Gregorio,
tuttavia, sembra rifuggire i ricordi, «il suo passato era deserto e mare diaccio.
Deserto il tempo che precedeva il primo imbarco: corvi lo sorvolavano. E gabbiani –
gabbiani d'avorio dell'Artide – erano i ricordi più recenti». (AA, p. 8). Maria, la
donna polacca, ha perso il marito negli anni insanguinati dell'Europa mentre
attraversavano insieme il confine fra Italia e Francia. Chiede a Gregorio di
accompagnarla sul posto della tragedia, di passeggiare fino al cancello dove cadde
l'uomo per ritrovare un paesaggio luttuoso e commemorare una scomparsa.
Gregorio sostiene l'inutilità dell'intento: «ha tanta premura per quattro aculei
contro il cielo, quattro sbarre?» (AA, p. 40), evita la camminata verso il passato. Poi,
tardivamente, si pente:

Tanto valeva aiutare lei sul cammino della memoria, nel suo triste
appuntamento con un ricordo.
A lui non erano mai venuti quei rimpianti – ecco perché non ne
aveva visto l'importanza – non gli si erano mai affacciati neppure
sul mare nei momenti vuoti, sul mare culla e sepolcro del sole per
lunghe settimane.
Anzi il passato egli lo fuggiva. (AA, p. 65)

Per Gregorio il passato è «una sorta d'oppio» (AA, p. 23), una chimera carica di
ossessioni che tormenta i marinai. Quando ritorna con il pensiero ai ricordi che
precedono la guerra, le sue visioni paiono vane e gravose: «affondavano sempre in
un mondo tetro i suoi ricordi». (AA, p. 98). L'Angelo di Avrigue è un'interrogazione
sulle possibilità del ricordo in un mondo assediato dalla dimenticanza, dalla
malinconia e dall'oblio sognante indotto dalla droga. Eppure verso la fine – è
l'ultimo giorno di congedo prima del nuovo imbarco – Edoardo, amico ormai
anziano di Gregorio, invita il marinaio a passeggiare lungo i crinali di confine.
Mentre seguono un sentiero «su una gola stretta» Gregorio, incalzato dalle
domande del vecchio, si dimostra ancora refrattario ai ricordi: «domandò se

303
ricordava qualcosa della guerra. E Gregorio disse che non ne aveva un gran ricordo,
solo la sensazione penosa d'essere stati abbandonati da dio e dagli uomini, e
sottoposti a una propaganda forsennata». (AA, p. 113). Edoardo invece è alla ricerca
di un'esperienza sedimentata nel suo passato: «c'è un ricordo col quale sono
divenuto vecchio e che non ha fatto altro che crescere: un vero, impressionate,
ricordo, un segreto che ti vorrei confidare». Intanto avanzano i due lungo un
«sentiero [che] correva in cima e sovrastava scalinate dirupate. Dovevano essere
anni che non vi passava nessuno e il sentiero s'andava perdendo». (AA, p. 112).
Poiché le strade, come i ricordi, si stanno dissolvendo, il ritrovamento del cammino
prepara una nuova agnizione. Il passato può riaffiorare solo in condizioni
particolari: «ti ho portato qui, dove è avvenuto». Un altro ragazzo – un giovane
chasseur des alpes francese come Jean-Pierre – cadde disarmato durante la guerra,
colpito dai proiettili di un ufficiale italiano: «quel tenente maledetto, quel fanatico,
sparò proprio a un ragazzo ch'era uscito fra i cespugli a gridare: “Italiens ne tirez
pas”». (AA, p. 114). Come nel finale de La luna e i falò543 la passeggiata è la via
d'accesso al ritrovamento d'una tragedia della storia: «quell'episodio si staccava
nettamente dal campo di polvere in cui il passato si livellava». (AA, pp. 114-115). Il
ricordo si deposita nel mondo, è un'iscrizione nei cristalli delle rocce di confine e
attende una coscienza umana capace di risvegliare nel presente fenomenico
l'energia nascosta delle lontananze. Biamonti richiama consapevolmente una
tradizione:

L'uomo non coglie che il presente: il passato resuscita e torna


presente. È la teoria del continuo del vissuto, che poi è la base del
proustismo; anche in Henri Bergson. Io mi avvalgo di flash
improvvisi, non di lunghe intermittenze. La memoria affettiva,
involontaria, solo lei, presentifica. Non c'è nessuna differenza tra

543 «Ci fermammo in cò d'una vigna, in una conca riparata di gaggíe. C'era una casa diroccata, nera.
Nuto disse in fretta: – Ci sono stati i partigiani. La cascina l'hanno bruciata i tedeschi. – Sono venuti
due ragazzi a prendermi al Salto una sera, armati, li conoscevo. Abbiamo fatta questa strada di oggi.
Camminammo che era già notte, non sapevano dirmi che cosa Baracca volesse.» E, di seguito,
continua il ricordo intriso di sangue di Nuto. C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2005, pp.
163-173. Suggerisce Biamonti in una intervista che «Ci sono poi questi giochi tra ricordi e realtà che
si ripresenta una volta tornati. Un po' come ne La luna e i falò di Pavese». Scritti e parlati, p. 236.

304
passato e presente.544

Il paesaggio è un grembo di memorie, racchiude in sé allo stesso tempo il ciclo


sempiterno delle stagioni e le tracce degli eventi umani. 545 Così il romanzo,
cammino attraverso il paesaggio, si conclude nel riconoscimento di una dolorosa
composizione di storia e di natura.

6. Afflato lirico e immanenza fenomenica.

Il «romanzo-paesaggio» è la definizione sintetica di un ritrovamento. Calvino


riconosce ne L'angelo di Avrigue la realizzazione della sua ipotesi di romanzo:
un'integrazione di storia e natura dove il tono lirico e l'oggettività romanzesca
raggiungono un equilibrio. Da questo punto di vista la prima opera di Biamonti
rivela una forma capace di vincere gli ostacoli che avevano vanificato, decenni
addietro, i tentativi di Calvino. Perché Biamonti riesce dove Calvino ha fallito?
Forse la soluzione risiede nella forma dello sguardo che compenetra il romanzo. Per
rafforzare questa ipotesi è fecondo sospendere le considerazioni di Calvino e
interrogare l'opera come se la s'incontrasse per la prima volta: che cos'è L'angelo di
Avrigue? Appartiene davvero al genere del romanzo?
Le interpretazioni più convincenti tendono a enfatizzare la vena lirica che vibra
nella scrittura di Biamonti. Giorgio Ficara sostiene di non aver «mai conosciuto un
romanziere così ribelle e lontano dall'idea di romanzo come Francesco Biamonti». 546
Mancano infatti gli elementi che fondano «l'azione romanzesca e il senso generale
del romanzo», come il «disordinato e basso mondo della psiche individuale e
sociale», la «verve» e «l'intreccio avventuroso». I personaggi, inoltre, non godono

544 Scriti e parlati, p. 230. Altrove disse che «la memoria affettiva è quella che involontariamente ci
travolge […] perché un determinato colore evoca un determinato oggetto visto in una determinata
circostanza[...]. questa memoria affettiva […] cioè una memoria fenomenologica». F. Biamonti,
Conferenza tenuta presso la Biblioteca Civica di Ospedaletti, giovedì 23 dicembre 1976, in Per Francesco
Biamonti, Resine, n. 141-142, 2014, p. 65.
545 Non si può dunque concordare con Bertone quando scrive a proposito di Biamonti che «la
grande esclusa, con la forza anche disperata di chi la avverte sempre premere e bussare all'uscio, è la
memoria». G. Bertone, Alle radici della “situazione”. Esistenzialismo e oltre, in Aa. vv., Francesco
Biamonti le parole il silenzio, cit., p. 63.
546 G. Ficara, Francesco e la via difficile, in Id., Stile Novecento, cit., p. 175.

305
della consistenza vitale di un Tom Jones o di un Lucien Leuwen, ma sono
«sottilissimi e diafani»:

la vita intera di un personaggio, priva com'è di drammaticità e


profondità e movimenti intimi, è assottigliata e tutta messa fuori
in uno sguardo, fisso su un solo cielo e una sola distesa di ulivi.
Ma un segmento vertiginoso di vita, una infinitesima porzione di
esperienza, potenzialmente carica di infinità ma non reduplicabile
né articolabile, non potrà costitutivamente mai diventare
rappresentazione dell'esperienza. Per questo motivo, Biamonti è
“lirico”: perché non può narrare e non può nemmeno descrivere
realisticamente un oggetto – un ponte, una casa – come fa o
faceva uno scrittore realistico.547

L'azione romanzesca tende pertanto a diluirsi nell'alta contemplazione lirica


modulata sulla «tradizione ligure poetica (ad esempio Pianissimo di Sbarbaro e
Mediterraneo di Montale)». Lo stesso Biamonti ha in più occasioni confessato il suo
debito verso i poeti mediterranei: «j'ai eu la chance de naître sur un arc qui va du
golfe de Marseille à celui de Gênes, et qui a vu naître deux très grands écrivains de
notre siècle, Paul Valery et Eugenio Montale, tous deux obsédés par la mer, par le
sentiment de l'infini et de la destruction, de la recomposition de la vie dans une
pureté nouvelle».548 E ancora in un commento al suo ultimo romanzo definisce la
sua scrittura come «arida poesia», lirismo ridotto all'osso dell'essenzialità.549
Gian Luca Picconi riflette sulla «tradizione letteraria» conservata dalle “trame
sonore” della prosa di Biamonti e rileva la tendenza a inglobare i moduli lirici come
«gloriose insegne, vessilli posti a puntello formale e tematico della costruzione». Da
questa architettura lirica discende «una sorta di effetto derealizzante», sintomo
della necessità di frapporre un «riparo formale» fra il sé e l'irruzione
dell'oggettività.550 Il lavorio letterario diffonde una «atmosfera sospesa», così densa

547 Ibidem, p. 178.


548 B. Simeone, Des cris, mais sous forme de rêves, cit., pp. 46-47.
549 F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 97.
550 G. L. Picconi, La prosodia del mondo: Vento largo di Francesco Biamonti, in La trama sonora.
Poesia nella prosa, istmi, 19-20, 2007, pp. 51-53.

306
di «compattezza formale» che lo stile si separa dal mondo. 551 A una malinconia
lirica si accompagna così una certa «inibizione a raccontare». 552 In un saggio sullo
stile di Biamonti, Zublena perviene a conclusioni analoghe. Come nelle apparizioni
del paesaggio domina una «funzione consolatoria» che sfocia in una «paralisi
patica, etica ed ontologica»553 del personaggio, così la lingua è attratta da una
«ricerca di bellezza, di armonizzazione (attraverso la letterarietà)» che comporta
«una consolazione elegiaca attraverso una configurazione in superficie del bello». 554
Alla luce di queste analisi si può inferire che l'opera di Biamonti sia più vicina al
poème en prose che al romanzo.
Esistono d'altra parte interpretazioni divergenti, determinate a difendere lo
spessore romanzesco «pur nell'apparenza lirica della sua prosa». 555 Franco Croce
enfatizza gli elementi realistici, e spesso intrisi di attualità nera, che rivelano
«tipiche situazioni romanzesche»: «clandestini [sic]», «passeurs», «borghi
pateticamente abbandonati», «sentieri sperduti», «donne inquiete, avventurieri,
drogati».556 Anche Fenzi avanza una riflessione dello stesso tenore: «per essere,
quella di Biamonti, una prosa lirica e poetica, ci sono un po' troppi morti
ammazzati! Anche l'analisi stilistica dovrebbe tenerne conto...». 557 Un'ulteriore
argomentazione a favore del romanzesco sposta l'attenzione dall'ambito
prettamente tematico all'analisi di genere: la struttura de L'angelo di Avrigue
discenderebbe dalla tradizione del poliziesco. Secondo Croce il «montaggio»
produce «effetti di suspense e poi provocatoriamente e abilmente, non li porta in
fondo, fino cioè a una “mirabile” illuminazione di viluppi misteriosi». 558 La lettura
critica di Jean-Pierre proposta nelle pagine precedenti pare tuttavia confutare le
ultime argomentazioni perché il morto (forse suicida, forse assassinato) è

551 Ibidem, p. 55.


552 Ibidem, p. 67.
553 La «paralisi patica» è il risultato critico di un'indagine di Zublena su Biamonti, la pittura e il
paesaggio: P. Zublena, Lo sguardo malinconico sullo spazio evento: elegia del paesaggio dipinto, in F.
Biamonti, Ennio Morlotti. “Pazienza nell'azzurro”, Ananke, Torino 2006, pp. 83-120. Si tratterà più
avanti delle tesi proprie di questo saggio.
554 P. Zublena, Un malinconico paesaggio di parole. La lingua di Francesco Biamonti, cit., p. 160.
555 F. Croce, Il romanzo-paesaggio in Francesco Biamonti, in Aa. vv., Francesco Biamonti le parole il
silenzio, cit., p. 24.
556 Ibidem, p. 24.
557 E. Fenzi, Toponomastica e antroponomastica in Biamonti, cit., p. 72.
558 F. Croce, Il romanzo-paesaggio in Francesco Biamonti, cit., p. 28.

307
trasformato poeticamente in angelo invischiato nel mondo e l'indagine poliziesca si
sublima in interrogazione esistenziale: il realismo tragico e gli accenni di “romanzo
giallo” sono attratti nella spirale della trasfigurazione simbolica. Se la linea
interpretativa del “lirismo” appare dunque più solida, allora la definizione sintetica
di romanzo-paesaggio – sebbene sia ancora fondamentale per comprendere
l'orizzonte estetico di Calvino – non apporta alcun contributo fecondo a
un'ermeneutica de L'angelo di Avrigue.
Esiste tuttavia un terzo filone interpretativo che esula dalla dicotomia fra lirica e
romanzo e si concentra sulle relazioni fra la scrittura di Biamonti e l'arte figurativa.
Laura Barile si sofferma sul recupero di una «tradizione di sorellanza fra le due arti
della scrittura e della pittura» e sostiene che Biamonti – in sintonia con una linea
pittorica che da Cézanne risale a De Staël e Morlotti – persegue una «modalità che
rasenta l'informale, lo costeggia, ma non abbandona la figurazione, reinventandola
dall'interno».559 La studiosa cita a proposito un'intervista a Biamonti del 1998 dove
lo scrittore afferma che «l'incompiutezza, l'impotenza di Cézanne mi piace. Questo
amore per il lato interno delle cose, pur facendo del realismo assoluto. Cézanne
diceva che bisogna rendere sacro ciò che si vede, […] congiungere le mani erranti
della natura».560 E già nel 1983, nel corso di una presentazione de L'angelo di
Avrigue, Biamonti sostiene di aver «l'esigenza di conciliare questo inabissarsi della
realtà con la luce, cioè fare del Cézanne con una scrittura en abîme, che si inabissa
verso i vortici tipici della desolazione metafisica del nostro tempo». 561 La sacralità di
«ciò che si vede» investe la manifestazione della luce nell'interiorità profonda delle
cose: «la luce – chiosa ancora Barile – penetra sempre più la materia, che ne
guadagna in trasparenza».562 Si tratta di un sacro racchiuso nei limiti del mondano,
come se la manifestazione di un possibile trascendimento fosse un fenomeno
naturale, immanente alle cose. Nonostante «il mondo che muore» e un «paesaggio
sempre più devastato»563 esiste ancora la possibilità di scorgere un'insorgenza: «alla

559 L. Barile, La luce che allucina. Pittura e musica francese nell'opera di Francesco Biamonti, in Aa.
vv., Francesco Biamonti le parole il silenzio, cit., pp. 164-165.
560 Ibidem, p. 165. L'intervista è stata rilasciata a “L'avvenire” il 22 gennaio 1998.
561 F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 73.
562 L. Barile, La luce che allucina. Pittura e musica francese nell'opera di Francesco Biamonti, cit., p.
166.
563 F. Biamonti, Scritti e parlati, cit. p. 31.

308
fine del lungo muro a secco usciva di tra le pietre un esile mandorlo in fiore.
Tremolava nel cielo terso». (AA, p. 109). La vibrazione del mandorlo rimanda alla
manifestazione luminosa delle «orifiamme» durante un tramonto che accarezza il
querceto. Ogni materializzazione della luce, tuttavia, è destinata a scomparire:
«risalì tra gli ulivi e le terrazze verso casa. Le orifiamme se ne andavano». (AA, p.
101). Si tratta allora di dipingere e scrivere il momento transitorio che accede nel
cielo d'una coscienza, «cogliere le cose – scriveva Biamonti – nel loro attimo di
esitazione sulla soglia della coscienza di chi le guarda». 564
Anche Claudio Panella si sofferma sull'influenza di Cézanne sulla scrittura del
romanziere:

Bisogna considerare che Biamonti mette in primo piano,


attraverso la contemplazione della luce, il divenire delle cose sulla
soglia della coscienza […]. Per «donner à voir» nei suoi romanzi
la visione del «lato interno delle cose», e il complesso rapporto
dell'uomo con la natura che glielo fa intravedere, Biamonti si rifà
apertamente a quei grandi pittori che, come Cézanne, hanno
saputo cogliere questo rapporto e sono riusciti a rappresentarlo
comunicandoci «un'emozione vicina ad una verità morale e
metafisica».565

Una ricerca attenta alle modulazioni pittoriche della scrittura di Biamonti obbliga a
rievocare la fenomenologia francese: «al fondo di tutta la poetica di Biamonti c'è
quindi un'idea autenticamente fenomenologica, che vede, come per Merleau-Ponty
e Husserl prima di lui, l'Essere manifestarsi nel vincolo “Natura – Uomo – Dio” […],
vale a dire non al di là degli enti che si manifestano, ma proprio, in primis,
attraverso essi, la nostra relazione con essi, i movimenti di luce che ce li svelano». 566
Anche Laura Barile si richiama alla fenomenologia di Merleau-Ponty e al suo
«pensiero sulla percezione» per spiegare la presenza nella scrittura di Biamonti di

564 Ibidem, p. 31.


565 C. Panella, Francesco Biamonti: del «donner à voir» sul confine tra l'immagine pittorica e la
parola, cit., p. 7.
566 Ibidem, p. 6.

309
una «tensione all'assoluto […] che resta assolutamente laica». L'accostamento fra la
tradizione pittorica inaugurata da Cézanne e l'ascendenza fenomenologica è
pienamente giustificata dalle riflessioni che il filosofo francese ha dedicato al
pittore: «l'oggetto – scrive Merlau-Ponty – è come illuminato solidamente
dall'interno, la luce emana da lui, onde ne risulta un'impressione di solidità e di
materialità. Cézanne non rinuncia d'altronde a far vibrare i colori caldi ed ottiene
questa sensazione colorante con l'impegno del turchino». 567 La predilezione dei
colori a detrimento delle linee del disegno 568 deriva dal desiderio di «non […]
separare le cose fisse che appaiono sotto il nostro sguardo e la loro labile maniera
di apparire», perché Cézanne «vuole dipingere la materia che si sta dando una
forma, l'ordine nascente attraverso una organizzazione spontanea». 569
Il nesso fra la pittura e la fenomenologia è colto dallo stesso Biamonti. Il primo dei
suoi scritti su Morlotti si apre con una citazione tratta dalla Phénoménologie de la
perception dedicata al rapporto fra le dimensioni degli oggetti e la presenza d'un
corpo senziente nello spazio percettivo: «nei quadri di Morlotti – continua
Biamonti – non v'è altra modalità dello spazio all'infuori di quella della passione e
dell'esperienza».570 L'insistenza di Biamonti sul radicamento dell'uomo nel mondo e
sulla sua aderenza agli oggetti e ai luoghi circostanti non deriva soltanto dalla
devozione per l'esistenzialismo francese, 571 ma anche dagli interessi figurativi e
fenomenologici mostrati sin dai brevi saggi degli anni Sessanta: «la sua [di
Morlotti] è, in questo senso, una visione incorporata, una visione “dal di dentro”;
un mondo incrostato alla carne e maturato con essa». 572 Lo sguardo interno rende
impossibile l'astrazione perché «in un mondo in continua incarnazione sono abolite

567 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, in Id., Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, p.
30.
568 E disse Cézanne secondo Gasquet: «la nature n'est pas en surface; elle est en profondeur. Les
couleurs sont l'expression, à cette surface, de cette profondeur. Elles montent des racines du monde.
Elles en sont la vie, la vie des idées. Le dessin, lui, est tout abstraction. Aussi ne faut-il jamais le
séparer de la couleur». J. Gasquet, Cézanne, cit., p. 170.
569 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, cit., p. 32.
570 F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 159.
571 Dice lo scrittore in una intervista tarda: «una delle cose che ho imparato da ragazzo è “l'uomo in
situazione” dell'esistenzialismo: non esiste una condizione umana eterna, fissa; esiste una situazione
umana. E l'uomo in situazione può mutare punto di vista. L'importante è che si renda sempre conto
dei limiti esistenziali del suo pensare. Il pensiero è anche in funzione dell'esistenzialità immediata».
F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 237.
572 F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., pp. 159-160.

310
le distanze».573 Nella pittura di Morlotti sussiste una «contingenza organica», un
senso d'immanenza alla natura che dischiude una lotta fra la dissoluzione e la
genesi, fra «luce e tenebre, oblio e rammemorazione». 574 Così Gregorio vede
l'apparire d'una rosa, rinascimento naturale: «sul pendio carreggiato, sotto il bar,
sbocciava una rosa scempia, una “indica maior”, rasente ad un lentisco». Poco dopo,
però, il cammino conduce a un uliveto «abbandonato, calcescisti e vento avevano
mangiato la terra». (AA, p. 95).
Come coniugare allora la linea lirica con quella pittorico-fenomenologica? Sono
conciliabili, oppure istituiscono una tensione interna così forte da frammentare
l'opera e votarla al disequilibrio? Il saggio di Giorgio Ficara si conclude
sull'influenza fenomenologica: «ma infine: che significa qui esattamente visione?
Un autore molto letto da Biamonti, Maurice Merleau-Ponty, scrive in L’œil et
l'esprit: “Cartesio non sarebbe Cartesio se avesse pensato di eliminare l'enigma della
visione. Non c'è visione senza pensiero. Ma non basta pensare per vedere. La
visione è un pensiero condizionato, nasce “à l'occasion” di ciò che accade nel corpo,
è eccitata a pensare da lui […]”». Per questo il pensiero di Biamonti è «pesante e
mai davvero libero, né volato via: un pensiero che “apporte son corps”». 575 Eppure
questa pesantezza – presenza del corpo nel mondo – non stride con l'essenza
diafana dei personaggi che si sollevano «fuori di sé», «sottilissimi» e protesi «al di
là della stessa vicenda»»? «L'incongruenza» di Francesco Biamonti, la sua «via
573 Ibidem, p. 160.
574 Ogni tanto appare un pittore ad Avrigue, un certo Henri che in passato chiese alla madre di
Jean-Pierre e all'amica «di posare coricate al sole sulla nuda terra, di cui voleva fare una vertebra, un
dosso luccicante o qualcosa del genere». (AA, p. 51). Dopo la morte di Jean-Pierre egli ritorna in
paese «innamorato delle rocce di confine». (AA, p. 90). Il pittore Henri è una reminiscenza della
pittura e delle ricerche di Morlotti, artista alla ricerca di una «riduzione primaria al terragno». In
fondo le donne unite alla terra racchiudono la tensione della «dissoluzione-genesi» individuata da
Biamonti nelle opere dell'amico (F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., pp. 188-189): la terra è così al
contempo grembo materno e tomba che accoglie la caduta degli angeli. Biamonti riferisce questa
tentazione discenditiva alla ricerca faustiana: «la vecchia crosta terrestre ha ripreso vigore nei
quadri di Morlotti, pittore dell' “esperienza viva”. Egli ha scorto, nella pianura sull'Adda, che le
forme del mondo appartenevano al “mondo della vita”: erano operanti, cioè, in relazione interna fra
loro, e rifondentisi nel puro corso del vitale, ove, come nel “regno delle madri”, il solo assoluto è
l'invincibilità del tempo». (Ibidem, p. 180). E altrove: «il verde vegetale ha una carnalità da regno
delle madri». (Ibidem, p. 189). È suggestivo notare come la discesa faustiana al regno delle madri
abbia un valore decisivo in Benjamin come in Carchia; a questo proposito si veda il quinto capitolo
al paragrafo 5. È un moto di ritrovamento dell'origine, laddove non si dà differenza fra trascendenza
e immanenza perché nella compresenza di vicino e lontano la luce abita la materia e da essa
scaturisce.
575 G. Ficara, Francesco e la via difficile, cit., p. 180.

311
difficile», non vive forse di questa tensione fra la «contemplazione» come
sospensione lirica e lo sprofondamento mondano fra i fenomeni?

7. La narrazione come mediazione fra distanza e lontananza.

Zublena ha studiato «quale sia la funzione del paesaggio nella narrativa di


Biamonti» in un saggio dedicato al rapporto fra lo scrittore ligure e Morlotti. Il
critico si sofferma sui tentativi di collegare i «corpi con il paesaggio» e il
«paesaggio con il divenire» secondo la tendenza estetica derivante
dall'insegnamento di Cézanne e dalla mediazione filosofica di Merleau-Ponty. 576 La
pittura infatti risente de «l'originaria apertura del mio essere-nel-mondo, cogliere il
mondo tutto intorno a me, e non di fronte» 577 in modo da trattenere al suo interno
«il divenire dell'evento» in forma di paesaggio. La scrittura avrebbe così
l'ambizione di dipingere l'emergenza vibrante della visione entro i confini del flusso
narrativo. Passando al vaglio le opere di Biamonti, Zublena dimostra come «in
genere» l'agente del «movimento» sia la luce e propone un'accurata lista di
occorrenze dove il paesaggio osservato dal protagonista muta con il percorso del
sole nel cielo. Tuttavia la «malinconia», in quanto «sentimento prevalente nella
rappresentazione del paesaggio»,578 comporta un «solipsismo» di fondo e una
«paralisi» che impedisce al «paesaggio-evento, nonostante la mediazione
fenomenologizzante della visione pittorica cézanniana (e morlottiana) di entrare nel
vortice della vita».579 Il paesaggio infine non è soggetto al divenire, ma è
immobilizzato dalla contemplazione. È così affermata ancora una volta la
prevalenza del «tono elegiaco» sia sulla corrente figurativa e fenomenologica, sia
sulla funzione narrativa: la «difficile» tensione di Biamonti è ancora una volta
risolta a favore del termine lirico.
È opportuno considerare con attenzione i frammenti tratti da L'angelo di Avrigue
che Zublena cita per corroborare la sua tesi. Il secondo, ad esempio, recita: «in

576 P. Zublena, Lo sguardo malinconico sullo spazio evento: elegia del paesaggio dipinto, in F.
Biamonti, Ennio Morlotti. “Pazienza nell'azzurro”, cit., pp. 108-109.
577 Ibidem, p. 110.
578 Ibidem, p. 115.
579 Ibidem, pp. 117-118.

312
fondo al vicolo del fico sopra gli orti brillava un muro di calcina». Tuttavia la
visione contemplativa è seguita da «salirono per carruggi vuoti, sino all'osteria
aperta nella piazza senza vita» (AA, 39): un movimento dei personaggi obliterato da
Zublena. Il sesto frammento citato («riapparve la baia tra i due fari, da lassù: quello
ripido di Villefranche, e quello più lento di Antibes. Qualche palpito di quest'ultimo
vacillava nelle tenebre, quasi invisibile») è introdotto dal percorso compiuto dai due
personaggi: «usciti dal ristorante lasciarono Nizza e tornarono in alto sulla “grande
corniche”» (AA, p. 103). Il frammento dove il serro è paragonato a un «veliero di
rocce bianche» è divelto da Zublena senza precisare che la metafora s'origina da
una passeggiata: «il sentiero si fermava prima, su una gola stretta che divideva il
dosso da quel serro». (AA, pp. 112-113). Anche nella citazione del quarto
frammento il critico dimentica di inserire la frase seguente, un commento alla
mulattiera da cui si coglie la visione: «la strada è veramente appesa e tortuosa»
(AA, p. 72). Delle nove testimonianze avanzate da Zublena cinque sono seguite
immediatamente da precisi riferimenti all'azione del corpo nello spazio. Perché non
tenerne conto? E, più in generale, perché nell'analisi del «divenire» considera solo
il «movimento» della luce e non gli spostamenti dei personaggi nello spazio?
Sebbene Zublena abbia il merito di ipotizzare un legame fra la tradizione pittorico-
fenomenologica e il divenire degli eventi, le sue conclusioni sono parziali perché
non considerano la tessitura delle camminate, cardine della scrittura e dell'impianto
narrativo de L'angelo di Avrigue.
Le pagine dedicate alla «motricité» nella Phénoménologie de la perception sono
feconde per comprendere quale sia la forma dello spazio e del tempo esperita da un
soggetto in movimento. Lo spostamento del corpo coinvolge una temporalità
continua perché «à chaque instant d'un mouvement, l'instant précédent n'est pas
ignoré, mais il est comme emboîté dans le présent et la perception présente consiste
en somme à ressaisir, en s'appuyant sur la position actuelle, la série des position
antérieures, qui s'enveloppent l'une l'autre. Mais la position imminente est elle
aussi enveloppée dans le présent, et par elle toutes celles qui viendront jusqu'au
terme du mouvement».580 Al contempo il movimento articola una tensione spaziale

580 M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945, p. 175.

313
fra l'aderenza al mondo circostante581 e la lontananza intravista all'orizzonte:
«chaque moment du mouvement en embrasse toute l'étendue et, en particulier, le
premier moment, l'initiation cinétique inaugure la liaison d'un ici et d'un là-bas,
d'un maintentant et d'un avenir que les autres moments se borneront à
développer». Il soggetto fenomenologico attribuisce allo spazio e al tempo
un'estensione unitaria che precede l'elaborazione astratta e l'analisi di punti e
porzioni frammentarie: «en tant que j'ai un corps et j'agis à travers lui dans le
monde, l'espace et le temps ne sont pas pour moi une somme de points
juxtaposés».582 La riflessione fenomenologica articola una morfologia
spaziotemporale – continua, fluida, sviluppata in profondità, costantemente in
transizione – coerente con l'esperienza del paesaggio stimolata dalle passeggiate ne
L'angelo di Avrigue. Sia di esempio una delle ultime camminate di Gregorio. Il
marinaio «uscì con il postino […] poi in pochi minuti risalì il paese» e la sua
attenzione sfiora l'assenza «dei soliti vecchi sulla via pianella». Più avanti, alla fine
d'un muro a secco gli appare il mandorlo in fiore e dopo una pausa «riprese pian
piano il cammino». Gregorio procede attraverso la campagna, sensibile ai suoni e
agli stimoli tattili: «la terra negli ubaghi, nei pressi dei ritani, aveva ancora
l'invernenco e i passi risuonavano; ma negli aprichi, già soffici, si andava come sul
velluto». Un'apertura verso il futuro invade i suoi pensieri e il desiderio di un
avvenire ipotetico si mescola ai toni del paesaggio: «oh, se avesse potuto restare
sino a marzo, quando il mistral sembrava diroccare le terrazze ardenti». Poi uno
stimolo sonoro riporta l'attenzione alla vicinanza: «sentì sbattere tra i rami, cammin
facendo». «Dove la strada si biforcava» emerge alla coscienza la visione «lassù
sopra l'ulivo» del «primo abbacchiatore dell'anno». Il deittico «lassù» mostra come
la scrittura risenta della percezione d'un personaggio situato nel mondo. Appare
581 L'appartenenza della coscienza allo spazio e al tempo suggerisce la percezione della circolarità, e
non una suddivisione astratta di vedute incorniciate: «je suis à l'espace et au temps, mon corps
s'applique à eux et les embrasse». M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 175.
582 M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 175. L'epistemologia avanzata qui è
del tutto differente dalla frammentazione del tempo e dello spazio congetturata dal narratore di Ti
con zero: «on ne pourra pas davantage réaliser sous le nom d'images psychiques des vues
perspectives discontinues qui correspondraient aux images rétiniennes successives, ni enfin
introduire une “inspection de l'esprit” qui restitue l'objet par-delà les perspectives déformantes. Il
nous fait concevoir les perspectives et le point de vue comme notre insertion dans le monde-
individu, et la perception, non plus comme une constitution de l'objet vrai, mais comme notre
inhérence aux choses». Ibidem, p. 408.

314
infine una nuova visione, quasi una metafora del camminare, dell'andamento del
racconto, forse della vita intera: «erano esplose le linfe su quelle fronde, dopo
lunghi tormentosi percorsi, avevano ritrovato una loro strada sui vecchi ondulati
passaggi». E Gregorio «riprese ad andare adagio adagio». (AA, p. 109). In Biamonti,
lettore di Merleau-Ponty, la scrittura assume la cadenza del passo, è un divenire
modulato sulla sensibilità di un corpo in movimento.
Da un punto di vista più ampio il reticolo delle camminate e degli spostamenti dei
personaggi – dalla scalata del crinale da dove è caduto Jean-Pierre sino all'ultima
escursione alla ricerca dei ricordi di guerra – costituisce l'intera trama narrativa de
L'angelo di Avrigue. È possibile ricondurre questa tipologia della narrazione al
genere romanzesco? Una risposta affermativa – certo parziale, non definitiva –
emerge da alcune riflessioni di Julien Gracq, scrittore menzionato da Biamonti in
più occasioni.583 Nella sua raccolta di saggi di letteratura Gracq dedica un capitolo al
rapporto fra «paysage et roman». Il cominciamento della riflessione è fondamentale
perché coglie proprio nel «chemin» la giunzione fra paesaggio e romanzo:

Qu'est-ce qui nous parle dans un paysage?


Quand on a le goût surtout des vastes panoramas, il me semble
que c'est d'abord l'étalement dans l'espace – imagé, apéritif – d'un
«chemin de la vie», virtuel et variantable, que son étirement au
long du temps ne permet d'habitude de se représenter que dans
l'abstrait. […] Tout grand paysage est une invitation à le posséder
par la marche; le genre d'enthousiasme qu'il communique est une
ivresse du parcours. Cette zone d'ombre, puis cette nappe de
lumière, puis ce versant à descendre, cette rivière guéable, cette
maison déjà esseulée sur la colline, ce bois noir à traverser auquel
elle s'adosse, et, au fond, tout au fond, cette brume ensoleillé

583 Nel 1996 lo scrittore recensisce per “La Stampa” La finestra sul bosco dello scrittore francese (ora
in Scritti e parlati, cit., p. 59. Nella conferenza francese sulla letteratura italiana Biamonti afferma:
«Au-delà des fois religieuses et des fois politiques, au-delà des idéologies demeure ce caractère
primordial de la terre dans l'aventure humaine. Ce caractère primordial je l'ai également perçu dans
les romans de Julien Gracq: dans Un balcon en forêt et dans Le rivage des Syrtes, il y a ce retour à la
vision d'un homme uni au cosmos comme l'est une pierre et pourtant séparé de tout salut, de toute
consolation». F. Biamonti, Réalités et temps quotidien. Matériaux de la culture italienne
contemporaine, cit., pp. 18-19.

315
comme une gloire qui est indissolublement à la fois le point de
fuite du paysage, l'étape proposée de notre journée, et comme la
perspective obscurément prophétisée de notre vie. 584

Il cammino, certo, è una metafora della vita e della morte. Quando la bara della
madre sovrastata dalla statua dell'angelo muto esce dal paese, Gregorio pensa: «è
un lungo viaggio, madre, per la mulattiera, ma fra terrazze apriche, e ci sono
anch'io con te e c'è anche il Muto». (AA, p. 32). Ma il cammino ha anche un valore
strutturale, è una connessione di sfumate variazioni percepite da un soggetto
immerso nel paesaggio. La narrazione si nutre di quel «poi» enfatizzato da Gracq:
l'ombra, poi la luce, poi il versante da discendere; e le pause contemplative sono
respiri nel passo che s'arresta e riprende. Secondo questa ipotesi la componente
romanzesca de L'angelo di Avrigue non deriverebbe tanto dalla tradizione del
poliziesco, ma si articolerebbe piuttosto sul «cronotopo» del cammino nel
paesaggio.585

584 J. Gracq, En lisant en écrivant, José Corti, Paris 1980, p. 87.


585 Il riferimento al cronotopo è tratto ovviamente dagli studi sul romanzo di Bachtin, in
particolare: M. Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica storica, in Id.,
Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979. Uno studio fondato sulle teorie di Bachtin potrebbe
indirizzare un'indagine più complessa sul romanzesco in Biamonti. A Bachtin si riferisce Giorgio
Ficara quando definisce i personaggi di Biamonti «lontani dall'evidenza polifonica». (G. Ficara,
Francesco e la via difficile, cit., p. 175). Tuttavia in un'intervista Biamonti sostiene che le affermazioni
dei suoi personaggi «non sono mai verità proclamate dall'alto, ma dette come necessità, in un
contesto spazio-temporale preciso. L'ora dopo, i miei personaggi possono pensare in modo diverso,
però questa è la verità del romanzo: una verità polifonica». (F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 238).
E Bachtin individua una caratteristica della polifonia proprio nel radicamento storico di ogni voce:
«l'uomo parlante nel romanzo è sostanzialmente uomo sociale, storicamente concreto e determinato,
e la sua parola è lingua sociale». (M. Bachtin, La parola nel romanzo, in Id., Estetica e romanzo, cit., p.
141). Lo studio della lingua di Biamonti, tuttavia, rivela una certa omogeneità fra la voce narrativa e
quella dei personaggi. Come si vedrà più avanti, la lingua di Gregorio tende ad essere omologa a
quella del narratore e questo aspetto giustifica l'assenza di polifonia individuata da Ficara. Eppure,
sempre stando a Bachtin, le correnti del romanzo europeo seguono due filoni genetici. Il più
importante è quello della parola «bivoca» e «bilingue», ovvero del dialogico, conflittuale
mescolamento interno di più voci. Da questa linea discendono il romanzo picaresco, il romanzo di
prova, quello di formazione e quello satirico. Ma un'altra corrente si diparte dal romanzo sofistico
greco e dà origine al romanzo galante del Medioevo, al romanzo pastorale, al romanzo barocco e a
quello illuministico. Questi romanzi «sono caratterizzati da una netta e sistematica stilizzazione di
tutto il materiale, cioè dalla coerenza puramente monologica dello stile (astratto-idealizzante)». (M.
Bachtin, La parola nel romanzo, cit., p. 180). Essi appartengono ancora al genere romanzesco perché,
sebbene palesino un «monolinguismo» e un «monostilismo», in loro «la pluridiscorsività resta fuori
dal romanzo, ma lo determina come sfondo dialogizzante, col quale sono polemicamente e
apologeticamente correlati la lingua e il mondo del romanzo». (M. Bachtin, La parola nel romanzo,
cit., p. 182). Secondo questo schema le opere di Biamonti apparterebbero al filone monologico-
pastorale, dunque sarebbero romanzi. Non è forse intensa la polemica della lingua letteraria di

316
Lo sviluppo narrativo plasmato dall'attraversamento dei luoghi accoglie le
considerazioni critiche individuate nella linea pittorico-fenomenologica: L'angelo di
Avrigue è un tessuto di percorsi dove i personaggi sono situati fra i fenomeni e
contemplano le immagini emergenti sulla soglia della coscienza. Tuttavia ancora
non si è risolto il quesito di partenza: come spiegare – o addirittura conciliare – la
dicotomia fra i toni lirici e sospesi e l'aderenza concreta a un mondo in divenire?
Per individuare la possibilità di un equilibrio difficile fra la contemplazione e
l'azione è il caso di tornare alla quarta di copertina de L'angelo di Avrigue e
riflettere su un errore commesso da Calvino. «La voce narrante – scrive Calvino – è
quella di un marinaio che non prova nessuna impazienza di un nuovo imbarco […]
ma anche se ama la sua terra più del mare, la gioia che ne trae gli sa sempre
d'amaro». Picconi coglie il passo falso dello scrittore: «L'angelo di Avrigue, come del
resto i successivi romanzi di Biamonti, risulta raccontato in modalità di
focalizzazione esterna, e la voce narrante è eterodiegetica: una neutra terza persona
che ha forse una certa omogeneità con quella del protagonista, ma i cui confini […]
sono sempre perfettamente delimitati». 586 La voce narrante non è quella di un
marinaio, ma di un narratore che non partecipa direttamente agli eventi raccontati.
Tuttavia anche Picconi incorre in una lieve imprecisione perché la «focalizzazione»
non è esterna ma interna: il punto di vista sul mondo non si pone mai dall'alto, mai
è astratto, ma sempre appartiene a un personaggio gettato in situazione. Può
accadere che il punto di vista si sposti da un personaggio all'altro e in alcuni
capitoli le sensazioni di Laurence o di Martine si sostituiscono a quelle,
predominanti, di Gregorio: questi scarti comportano un distacco, un movimento di
elevazione della voce. All'inizio dei capitoli, in particolare, la voce sfiora la massima
distanza dai personaggi: «verso le undici Gregorio andò ad Avrigue» (AA, p. 3);
«quella mattina Gregorio andò ad Avrigue» (AA, p. 64); «Gregorio s'era alzato
tardi, col sole steso» (AA, p. 91). Il nome del personaggio in testa alla pagina
rilascia un effetto di oggettivazione. Ma poco a poco la voce discende e s'avvicina al
mondo del racconto, aderendo allo sguardo e ai pensieri dei protagonisti:

Biamonti nei confronti delle altre lingue – dell'informazione, della letteratura di consumo – che
restano sullo sfondo?
586 G. L. Picconi, La prosodia del mondo: Vento largo di Francesco Biamonti, cit., p.46.

317
«guardava la strada che veniva su al bar e al sentiero della rupe. Aspettava sempre
Martine, sperava che lei salisse. Forse quella donna sapeva come era andata. O
no?». La voce descrive una visione e poi segue i pensieri ispirati da una sensazione,
sprofondando sempre di più nel rimuginare affettivo di una coscienza. Il gioco
dell'avvicinamento può essere così intenso da rivelare una coincidenza fra la voce
del personaggio e quella del narratore, come accade quando Gregorio e il cameriere
del bar discutono a proposito di un cieco in cammino sostenuto da due uomini:

– Non gridi più, – disse Gregorio. – Ognuno al mondo fa ciò che


vuole...Passeggiare fa bene, – aggiunse come tra sé, – l'aria, il
movimento aiutano contro le ossessioni.
– Parla troppo difficile, non capisco.
– Ha ragione, – ammise Gregorio. – Volevo dire che questi
accompagnatori son brava gente che aiuta un malato. Non sono
come quelli che ho visto io nel quaranta. (AA, p. 22).

«L'aria aiuta contro le ossessioni» potrebbe essere una sentenza del narratore che
in brani di acuta empatia o comunanza sentimentale sembra condividere la sua
lingua con il personaggio principale. Forse Calvino è stato tratto in inganno da
questi graduali avvicinamenti e ha dimenticato il movimento di distanziamento
causato dall'elevazione della voce narrativa. Allo stesso tempo, tuttavia, i confini fra
il narratore e il personaggio non sono mai assoluti «perfettamente delimitati», ma
porosi e vibranti.
Sono le movenze fra la voce esterna del narratore e il punto di vista interno dei
personaggi a spiegare la compresenza della sospensione lirica e dell'appartenenza
sensibile al mondo. Biamonti ragiona con acutezza sulla natura e sul valore del suo
lirismo in una lunga risposta durante un dialogo con Simeone. Egli riconosce
innanzitutto che il suo «style» si forma «en soustrayant le langage à son usage
commun». A questo proposito individua una differenza fra «mot» e «parole»,
prediligendo la seconda: «le mot est transitif, la parole intransitive, montrant en
même temps la chose et elle-même».587 Il segno linguistico pare quindi teso «en

587 B. Simeone, Des cris, mais sous forme de rêves, cit., p. 48.

318
même temps» fra il riferimento a sé e quello agli oggetti della storia: «ce lyrisme
doit rester attaché aux choses, mais se développer en spirale sur lui-même».588 In
una frase si concentra l'intero progetto letterario di Biamonti: trovare un'armonia
fra la sospensione d'una lingua difficile, poetica e intransitiva e il legame immediato
con i fenomeni.589 La sensibilità per l'aderenza alla «chose» discende sia dalla linea
pittorica mediata dalla fenomenologia, sia dal legame con i contenuti storici
concreti della tradizione romanzesca. Lo sviluppo in elevazione del linguaggio,
invece, deriva sia dalla sospensione d'un lirismo intransitivo e auto-referente, sia
dalla cadenza oggettivante che risuona nella voce del narratore. Biamonti ha
trovato un'unità formale grazie alla mediazione di una strategia epico-narrativa
antichissima: la distanza della voce «eterodiegetica» del narratore lascia sorgere
uno sguardo immerso nel mondo storico. Finalmente la tensione fra la parola
esterna del narratore e lo sguardo interno dei personaggi consente un'inesausta
transizione fra la lieve elevazione contemplativa e l'azione concreta nello spazio,
realizzando poeticamente il movimento d'una parola avvinghiata alle cose e allo
stesso tempo capace di risalire a spirale su sé stessa. Spesso Biamonti ha citato una
frase attribuita a Camus: «jeter son propre cœur parmi les choses et s'en éloigner
pour mieux les contempler et les objectiver».590
L'angelo di Avrigue è un'opera narrativa così difficile e complessa da configurare in
un'unità formale sia il dissidio fra la storia e la natura, sia la tensione fra la
sospensione contemplativa intrisa di malinconia e l'appartenenza attiva nel mondo.
Il cuore di questo accordo fra discordanze risiede in una narrazione modellata sugli
attraversamenti del paesaggio. Il “poème-paesaggio” o il “romanzo-paesaggio” di
Biamonti origina allora uno sguardo particolarissimo, intriso di un sentimento di
lontananza e al contempo influenzato dalla distanza di una voce che gravita sugli
avvenimenti.
Un equilibrio transitorio fra l'appartenenza al mondo circostante e un
distanziamento graduale, mobile e mai assoluto fu colto forse anche da Cézanne,
588 Ibidem, p. 49.
589 «Dopo l'azzurro c'è bisogno della materia. Ci sono questi estremi entro cui oscilla l'animo
umano. Dopo un eccesso di rarefazione c'è bisogno della materia. La cultura italiana non conosce
questo aspetto. È una cultura più idealistica; quella francese passa dallo spiritualismo al
materialismo, oscilla». F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 236.
590 F. Biamonti, Scritti e parlati, cit., p. 34.

319
pittore esposto al mutamento del giorno. Carezzato dalla luce del sole il pittore
gode d'un senso di appartenenza: «sous cette fine pluie je respire la virginité du
monde. Un sens aigu des nuances me travaille. Je me sens coloré par toutes les
nuances de l'infini. À ce moment-là, je ne fais plus qu'un avec mon tableau. Nous
sommes un chaos irisé». La corrispondenza con il paesaggio e il ritrovamento del
motif inducono un senso di smarrimento: «je m'y perds. Je songe, vague».
Trascorre il giorno e cala la notte, il buio è necessario «pour que je puisse détacher
mes yeux de la terre, de ce coin de terre où je me suis fondu». Al sorgere del sole il
pittore prova un senso di distanza che contrasta con il sentimento d'appartenenza
del giorno precedente:

Un beau matin, le lendemain, lentement les bases géologiques


m'apparaissent, des couches s'établissent, les grands plans de ma
toile, j'en dessine mentalement le squelette pierreux. Je vois
affleurer les roches sous l'eau, peser le ciel. Tout tombe d'aplomb.
Une pale palpitation enveloppe les aspects linéaires. Les terres
rouges sortent d'un abîme. Je commence à me séparer du paysage,
à le voir. Je m'en dégage avec cette première esquisse, ces lignes
géologiques. La géométrie, mesure de la terre.

La separazione è una transizione verso una nuova unità: «une tendre émotion me
prend. Des racines de cette émotion monte la sève, les couleurs. Une sorte de
délivrance. Le rayonnement de l’âme, le regard, le mystère extériorisé, l'échange
entre la terre et le soleil, l'idéal et la réalité, les couleurs!». Oltre le «linee
geologiche» esplodono i colori e scancellano i confini del disegno:

Une logique aérienne, colorée, remplace brusquement la sombre, la


têtue géométrie. Tout s'organise, les arbres, les champs, les
maisons. Je vois. Par taches. L'assise géologique, le travail
préparatoire, le monde du dessin s'enfonce, s'est écroulé comme
dans une catastrophe. Un cataclysme l'a emporté, régénéré. Une
nouvelle période vit. La vraie! Celle où rien m'échappe, où tout est

320
dense et fluide à la fois, naturel. Il n'y a plus que des couleurs, et en
elles de la clarté, l’être qui le pense, cette montée de la terre vers le
soleil, cette exhalaison des profondeurs vers l'amour. Le génie
serait d'immobiliser cette ascension dans une minute d'équilibre, en
suggérant quand même son élan.591

591 J. Gasquet, Cézanne, cit., pp. 154-155. Nelle sue note su Cézanne, Rilke sembra cogliere un
analogo contrasto interno ai dipinti: «cominciava con colori scurissimi e copriva la loro profondità
con una superficie di tono appena superiore e così via, schiarendo colore su colore, fino ad arrivare a
poco a poco a un altro elemento figurativo in contrasto con il primo sul quale egli, partendo da un
altro centro, lavorava allo stesso modo. Penso che i due procedimenti – quello dell'assunzione visiva
e sicura, e quello dell'appropriazione, dell'uso personale di quanto assunto – contrastassero dentro di
lui, forse in seguito a una presa di coscienza, che cominciassero a parlare per così dire nello stesso
tempo, si togliessero di continuo la parola, si scindessero senza tregua». R. M. Rilke, Lettere su
Cézanne, Abscondita, Milano 2011, p. 31.

321
Conclusione
Vorrei, in conclusione, ragionare sui metodi che ho impiegato e ponderare i
risultati della ricerca. Per introdurre le riflessioni che seguiranno desidero tornare
un'ultima volta a Calvino. Ne La sfida al labirinto Calvino interroga la letteratura
«di fronte alla seconda rivoluzione industriale» e individua due linee poetiche
interne all'avanguardia. La prima è la «linea razionalista» dotata di una «carica
morale di non rassegnazione»: in essa la strenua ricerca di una forma è un atto di
resistenza al mero fluire deforme della storia e degli «oggetti della vita quotidiana».
(S, p. 112). La seconda linea invece «non è più razionalista né storicista e tanto
meno ottimista». Si tratta di una «spinta visceral-esistenziale-religiosa» che
«accomuna l'espressionismo, Céline, Artaud, una parte di Joyce, il monologo
interiore, il surrealismo più umido». (S, p. 113). Le due linee perdurano anche nel
secondo Novecento: alla tendenza razionalista votata alla «stilizzazione riduttiva e
matematico-geometrizzante» (S, p. 117) si oppone l'estetica del «mare
dell'oggettività», dove domina l'indistinta indifferenza fra soggetto e oggetto. Il
ragionamento di Calvino, come si è visto nel primo capitolo, procede spesso per
dissociazioni binarie. Tuttavia è possibile ipotizzare una genealogia di questa
opposizione fra lo smarrimento nel caos e l'astrazione.
In Astrazione e empatia592 – uscito per la prima volta a Monaco nel 1908 – il teorico
e storico dell'arte Wilhelm Worringer distingue due tipologie di sensibilità, una
empatica e l'altra astratta. Nel primo caso «godere esteticamente significa godere di
noi stessi in un oggetto sensibile diverso da noi, immedesimandoci in esso». 593 La
condizione empatica appartiene a un soggetto aperto al mondo e libero dai conflitti.
L'artista empatico infonde nella creazione un «sentimento di piacere» che «è
sempre un sentimento di libera attività o autoattivazione». 594 Tuttavia un individuo
può esperire un moto interiore differente: un senso di separazione dalle cose, una

592 W. Worringer, Astrazione e empatia. Un contributo alla psicologia dello stile, Einadi, Torino 2008.
593 Ibidem, p. 7.
594 Ibidem, p. 8.

323
tensione conflittuale che «è al tempo stesso un sentimento di dispiacere per
l'oggetto».595 Da qui si genera un «impulso diametralmente opposto a quello di
empatia, inteso a sopprimere proprio quanto serve ad appagare il bisogno». 596 Si
tratta di un impulso di astrazione, origine di una tendenza estetica importante
quanto la prima. L'empatia predilige l'ordine figurale, la ricerca dei toni naturalistici
e realistici, la resa illusoria dello spazio tridimensionale che accoglie il soggetto e gli
oggetti; l'astrazione, invece, è l'attitudine estetica prescelta da un soggetto turbato
dal disordine intricato del mondo: «la semplice linea e la sua evoluzione in
conformità a leggi puramente geometriche dovevano offrire all'uomo, travagliato
dall'oscurità e dalla confusione dei fenomeni, la massima felicità possibile. Estinto
l'ultimo residuo di nesso con la vita, e di dipendenza da essa, si realizza qui la
suprema forma assoluta, l'astrazione più pura; qui è legge, qui è necessità, mentre
altrove regna ovunque l'arbitrio dell'organico». 597 Da questo punto di vista le linee e
le superfici di Dall'opaco possono essere intese come astratte figurazioni di un
soggetto ossessionato dal «mare dell'oggettività», dal «labirinto» della natura. La
medesima ipotesi vale per le pulsioni ordinatrici di Kublai, per le immagini ricercate
dal protagonista de La nuvola di smog, oppure per l'ultima visione dei «gusci
bianchi di conchiglie puliti dalle onde» apparsa al padre di famiglia ossessionato
dall'invasione delle formiche argentine. Scrive Worringer che la pura astrazione è
«l'unica possibilità di riposo nella confusione e nell'oscurità dell'immagine del
mondo, e crea da sé con necessità istintiva l'astrazione geometrica». 598 Le immagini
frammentarie e prive di profondità di Calvino paiono coincidere con la volontà
artistica di tipo astratto descritta da Worringer: «conseguenza decisiva […] fu da un
lato il trasporsi della rappresentazione su una superficie piana, dall'altro la rigida
soppressione della rappresentazione spaziale e la riproduzione esclusiva della forma
singola».599 I «racconti di superficie» de Le città invisibili non sono forse l'esito di
un lavorio inteso a «trasformare […] le relazioni di profondità in relazioni
piane»?600
595 Ibidem, p. 9.
596 Ibidem, p. 17.
597 Ibidem, p. 23.
598 Ibidem, p. 46.
599 Ibidem, p. 25.
600 Ibidem, p. 42. Forse non è casuale che Celati (G. Celati, Il racconto di superficie, cit.) fondi

324
Non vi è alcuna ragione per ipotizzare un rapporto diretto fra Calvino e il testo di
Worringer: il nome dello studioso tedesco non compare mai nelle dichiarazioni
dello scrittore e la prima traduzione italiana di Astrazione e empatia risale al 1975,
più di dieci anni dopo la stesura de La sfida al labirinto. Il legame, se esiste, è da
rinvenire nella storia della ricezione del saggio di Worringer. Il libro ebbe un
successo considerevole nel primo Novecento, soprattutto fra i gruppi delle
avanguardie; in particolare attirò l'attenzione del Blaue Reiter e di Kandinskij. 601 Il
dualismo fra l'immersione empatica e la distanza astratta abitava la coscienza degli
stessi movimenti artistici, ne influenzava in parte l'orientamento poetico. Non è un
caso che Calvino colga nella storia dei movimenti d'avanguardia i sintomi di un
conflitto che egli estende alla cultura occidentale del Novecento. 602
L'evocazione della teoria di Worringer non ha il solo fine di rafforzare le tesi sulla
poetica di Calvino avanzate nel corso di questo lavoro. L'opposizione categoriale fra
una poetica astratta e una empatica è interessante perché individua due differenti
modi di intendere l'immagine del mondo e gli atteggiamenti percettivi di un
soggetto. La tensione fra astrazione ed empatia consente quindi di interrogare
meglio alcuni modelli di interpretazione rinvenuti durante il percorso di ricerca.
Nel mio lavoro sul paesaggio in Calvino, Celati e Biamonti ho individuato due
l'interpretazione de Le città invisibili sugli scritti di Gilles Deleuze, filosofo francese influenzato
direttamente dalla teoria estetica di Worringer. Bisogna notare però che lo studioso tedesco
riconduce la resa della spazialità e l'interesse per le tre dimensioni alla linea empatica. Le categorie
formali di Worringer propongono una netta opposizione fra l'astrazione superficiale e la proiezione
prospettica, una tesi in netto contrasto con la genealogia della distanza tracciata nel secondo
capitolo.
601 «Chiunque volesse discorrere di arte doveva averlo studiato, come era accaduto per gli scritti di
Georg Simmel […]. Il primo pensiero corre come d'obbligo alla temperie espressionista. “Worringer
lo conoscono tutti”, scrive nel 1916 il critico Hermann Bahr nel suo Expressionismus, uno dei primi
tentativi di rendere teoreticamente conto del movimento […] E il legame con le concezioni
worringeriane è stato innanzitutto individuato nella declinazione “astratta” data dal Blaue Reiter,
che ai primi del Novecento si alimentava degli stimoli culturali offerti da una delle città europee più
vivaci dell'epoca: quella stessa Monaco di Lipps e Worringer». A. Pinotti, Introduzione, in W.
Worringer, Astrazione e empatia, cit., p. XXIX.
602 Per una genealogia del dualismo fra astrazione ed empatia è necessario tenere conto anche delle
riflessioni di Vittorini, direttore del Menabò insieme a Calvino. Alla morte dello scrittore sono stati
raccolti in volume i suoi appunti in E. Vittorini, Le due tensioni. Appunti per una ideologia della
letteratura, Il Saggiatore, Milano 1967. In particolare Vittorini individua due tensioni interne all'atto
letterario: una razionale, l'altra espressiva. Scrive Calvino nella sua nota introduttiva al libro: «la
distinzione da cui il libro parte è tra periodi in cui la letteratura è animata da una tensione razionale
(parallela a quella del pensiero scientifico) e periodi in cui la tensione letteraria è espressivo-affettiva
(volta cioè a rendere naturali, istintive, le acquisizioni del precedente periodo di tensione razionale):
la prima tensione è come il tronco di un albero, la seconda come le fronde che dal tronco
s'espandono».

325
paradigmi che potrebbero presentare una conformazione simile ai modelli generali
di Worringer. La distanza che media la visione paesaggistica potrebbe essere una
formula poetica primaria, responsabile della resa dello spazio, del tempo e del
rapporto fra la soggettività e il mondo esterno. Così la lontananza colta da un
osservatore immerso nel paesaggio potrebbe rivelare un paradigma opposto,
matrice di forme spaziali e temporali alternative. La distanza e la lontananza non
hanno lo stesso significato dell'astrazione e dell'empatia descritte da Worringer,
eppure le due coppie di paradigmi – intese come fondamenti generali
dell'esperienza percettiva e delle scelte espressive – potrebbero presentare alcune
analogie formali. Così mi sono domandato se la distanza e la lontananza abbiano o
meno la medesima natura categoriale dell'astrazione e dell'empatia.
Per formulare una risposta articolata è necessario allargare il campo di indagine. Un
riferimento d'obbligo per gli studi di Worringer è Alois Riegl, storico dell'arte
austriaco appartenente alla generazione precedente. Riegl è stato menzionato nel
secondo capitolo603 a proposito dell'opposizione estetica e conoscitiva fra la
vicinanza tattile e il distacco visivo teorizzata nel saggio Die Stimmung als Inhalt
der modernen Kunst. Tuttavia la sua opera più influente – Industria artistica
tardormana604 – è una monografia dedicata all'arte romana della tarda età imperiale.
Qui Riegl individua alcune attitudini rappresentative universali e in particolare si
sofferma sull'alternativa fra una figurazione tattile e ravvicinata e una invece di
ordine ottico, separata dagli oggetti. Secondo lo studioso la storia dell'arte sarebbe
un processo costellato da conflitti e da mediazioni fra differenti disposizioni
artistiche generali che coinvolgono in ultima istanza il rapporto sensoriale fra il
soggetto cosciente e il mondo. Il più rilevante contributo teorico di Riegl riguarda il
tentativo di spiegare l'origine di queste opposizioni paradigmatiche: la predilezione
per un determinato modo di vedere e figurare il mondo dipenderebbe da un
peculiare Kunstwollen, ovvero da un «principio unitario al quale si possono
riportare le strutture fondamentali dei linguaggi artistici, considerati nel processo
della loro formazione storica».605 Riegl non ha definito con precisione il significato
603 Si veda il secondo capitolo, paragrafo 1.
604 A. Riegl, Industria artistica tardoromana, Sansoni, Firenze 1956.
605 La felice espressione è tratta da S. Bettini, Introduzione, in A. Riegl, Industria artistica
tardoromana, cit., p. XLIV.

326
di Kunstwollen e lo ha sempre impiegato con un certo «alone di incertezza
teoretica».606 In Astrazione e empatia Worringer ne propone una definizione più
netta: il Kunstwollen distingue «l'orientamento del volere» di un artista, «cioè
l'intento utilitario».607 Si tratta dunque di un «volere artistico» che è «indice della
qualità [delle] esigenze psichiche».608 In chiave squisitamente psicologica
Worringer riconduce il Kunstwollen all'intenzione del creatore, libero di optare per
un approccio empatico o per uno astratto.
In un articolo del 1920609 Erwin Panofsky interviene nel dibattito sul senso di
“Kunstwollen” e critica le interpretazioni che hanno privilegiato la dimensione
psicologica. Secondo Panofsky la riduzione dell'atto artistico alle volizioni del
creatore incorre in un circolo vizioso, perché i propositi dell'artista si danno
«soltanto attraverso le opere di cui disponiamo»: sarebbe dunque assurdo
«interpretare l'opera d'arte in base a nozioni che dobbiamo all'opera d'arte stessa».
E qualora, d'altra parte, esistessero precise dichiarazioni dell'artista in merito alle
sue intenzioni, esse non avrebbero valore perché «da esse risulta necessariamente
quanto poco il volere dell'artista intellettualmente formato e cosciente corrisponda
a ciò che ci sembra proporsi come la vera tendenza del suo fare». 610 E quale sarebbe,
dunque, la «vera tendenza» se essa non appartiene a un ordine psicologico e
individuale? Il Kunstwollen – insiste Panofsky – «non deve designare una realtà
psicologica né un concetto specifico attinto per via astrattiva – il volere artistico
non può essere altro che ciò che “sta” (non per noi, bensì obiettivamente) come un
senso ultimo e definitivo del fenomeno artistico». Secondo Panofsky il Kunstwollen
non deriva dal lavorio di una mente individuale, ma abita la configurazione
dell'opera d'arte. Ogni opera va dunque intesa come manifestazione singolare di un
«senso ultimo», ovvero dello spirito peculiare di una determinata epoca storica. La
critica rivolta a un'eccessiva individualizzazione e astrazione delle tendenze
artistiche è connessa con gli interessi storici dello studioso tedesco: se le categorie
sono intese come modelli cognitivi indipendenti dal contesto socio-culturale di
606 Ibidem, p. XLII.
607 W. Woirringer, Astrazione e empatia, cit., p. 12.
608 Ibidem, p. 16.
609 E. Panofsky, Il concetto del “Kunstwollen”, in Id., La prospettiva come “forma simbolica” e altri
scritti, cit.
610 Ibidem, p. 155.

327
un'epoca, la possibilità di una storia dell'arte è vanificata. Pertanto «gli elementi
“formali” e “imitativi […] non hanno bisogno di essere ricondotti a concetti
particolari e a loro volta irriducibili, ma possono venir concepiti come
manifestazioni diverse di una comune tendenza di fondo, di una tendenza che, in
quanto tale, va intesa appunto come il compito dei veri “concetti fondamentali di
storia dell'arte”».611 Una impostazione analoga ritorna sette anni dopo nel saggio
sulla prospettiva: la resa della prospettiva nell'arte classica è «espressione di una
visione del mondo» differente da quella rinascimentale. 612 E ancora, citando
Cassirer, la prospettiva è definita come una «di quelle forme simboliche attraverso
le quali un particolare contenuto spirituale viene connesso a un concreto segno
sensibile e intimamente identificato con questo». 613 La «distanza» della visione
prospettica moderna deriva dunque da un «volere artistico», da un atteggiamento
unitario, ovvero da una particolare visione del mondo che non è limitata alle
intenzioni individuali, ma appartiene a un'epoca storica e ne informa le molteplici
espressioni materiali. Questa impostazione permette a Panofsky in Classical
Mythology in Mediaeval Art di rilevare un'analogia fra la distanza spaziale istituita
dalla tecnica proiettiva del Rinascimento e la distanza temporale con cui il
Cinquecento italiano ha concepito il passato classico e medioevale. In questo senso
la visione a distanza può essere intesa come una attitudine «spirituale» che
impregna le concezioni del tempo e dello spazio e si dirama nelle differenti
espressioni culturali. Si tratta di un'intuizione fondamentale che mi ha permesso di
vedere l'analogia fra la distanza spaziale e la distanza temporale che emerge dalle
impressioni e dalle memorie paesaggistiche di Calvino.
A più di dieci anni dal saggio sulla prospettiva e dopo aver abbandonato l'Europa
per emigrare negli Stati Uniti, Panofsky insiste sul senso generale che «l'opera
lascia trasparire» e lo definisce come «l'atteggiamento di fondo di un popolo, di un
periodo, di una classe, una convinzione religiosa o filosofica». La medesima
affermazione sarà ripresa nell'introduzione agli Studi di iconologia.614 E non è forse
611 Ibidem, p. 160. Le stesse argomentazioni di Panofsky sono state trascritte da Elio Vittorini nei
suoi appunti, ulteriore prova di come queste teorie circolassero nell'ambiente frequentato dallo
scrittore ligure. Il riferimento è a: E. Vittorini, Le due tensioni, cit., p. 242.
612 E. Panofsky, La prospettiva come «forma simbolica», cit., p. 27.
613 Ibidem, p. 27.
614 E. Panofsky, Studi di iconologia. I temi umanistici nell'arte del Rinascimento, Einaudi, Torino 1975,

328
la possibilità di intravedere un «atteggiamento di fondo» analogo in diversi campi
della vita e del pensiero a ispirare il saggio Galileo as a Critic of the Arts: Aesthetic
Attitude and Scientific Thought? Come ho notato nel secondo capitolo della tesi, 615
Panofsky propone una comparazione feconda fra le predilezioni estetiche e
l'approccio scientifico di Galileo, due ordini simbolici che apparterebbero a una
medesima visione del mondo. Queste riflessioni mi hanno indotto a riflettere sul
recupero di Galileo proposto da Calvino e sulle conseguenti omologie fra la
sperimentazione formale e combinatoria tentata dallo scrittore e i modelli di
pensiero adottati dallo scienziato. L'approfondimento della ricerca in questa
direzione mi ha permesso di dimostrare che con buona probabilità Calvino
conosceva il saggio di Panofsky sulle attitudini estetiche di Galileo.
Quest'ultima notazione è di assoluta rilevanza perché evidenzia come le questioni
teoretiche avanzate in queste pagine dipendano da testi e dibattiti noti allo stesso
Calvino e al circolo di scrittori e studiosi a lui vicini. Per rafforzare l'ipotesi di una
convergenza fra gli strumenti di analisi critica impiegati e gli interessi di Calvino e
di Celati ho individuato ulteriori indizi. Come è già emerso nel secondo capitolo, la
prima traduzione italiana de La prospettiva come «forma simbolica» è stata edita nel
1961 a cura di Guido Neri. Insieme al saggio sulla prospettiva vi sono contenuti vari
interventi fra cui quello sul significato di Kunstwollen. Cinque anni dopo, inoltre, è
uscito in «Studi medievali» un lungo articolo di Carlo Ginzburg sulle ricerche del
Warburg Institute in merito alla metodologia storiografica. Ginzburg studia, in
particolare, i procedimenti d'indagine storico-artistica impiegati da Warburg,
Panofsky e Gombrich.616 Ginzburg non abbandona la riflessione su quest'area di
studi e ancora in un intervento del 1995 dedicato al rapporto fra la stilistica e la
storia si sofferma su Panofsky, Riegl e Worringer. 617 Guido Neri e Carlo Ginzburg –
come ho ricordato in più occasioni – hanno immaginato insieme a Gianni Celati e
allo stesso Calvino la nascita di una nuova rivista letteraria. Almeno fra la fine degli

p. 7
615 Si veda il secondo capitolo, paragrafo 5.
616 Il saggio adesso è contenuto in C. Ginzburg, Miti emblemi spie. Morfologia e storia, cit., con il
titolo Da A. Warburg a E. H. Gombrich. Note su un problema di metodo.
617 C. Ginzburg, Stile. Inclusione ed esclusione, in Id., Occhiacci di legno, cit. Gli interessi e gli
interrogativi che hanno indotto lo storico a studiare questi problemi sono assolutamente rilevanti e
verranno recuperati più avanti.

329
anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta sono circolati fra i redattori
suggerimenti, influenze e idee che non sono alieni agli interrogativi e agli strumenti
di indagine evocati in queste pagine. Ne consegue che i paradigmi critici impiegati
nella mia ricerca appartengono, almeno in parte, alla coscienza poetica degli autori
studiati.
La distanza e la lontananza sono dunque due paradigmi o atteggiamenti di fondo
che originano differenti percezioni e configurazioni del paesaggio. Ma qual è la
natura di questi paradigmi? Si tratta di modelli, ovvero di categorie strutturali che
plasmano il testo? Se così fosse, i risultati della ricerca si potrebbero ricondurre a
un'indagine di ordine formale. Distanza e lontananza sarebbero le strutture
fondamentali che giacciono alla base della creazione letteraria. Una più attenta
riflessione sui procedimenti impiegati e sui risultati rinvenuti, tuttavia, lascia
intravedere una maggiore complessità. Le riflessioni di Panofsky hanno permesso
un migliore orientamento anche in questo frangente. Ne Il problema dello stile nelle
arti figurative – un saggio del 1915 raccolto nel volume curato da Guido Neri –
Panofsky si sofferma sulle tesi di Wölfflin. 618 Secondo lo studioso svizzero il
fondamento della rappresentazione risiede nella sensazione ottica e dunque il
«rapporto dell'occhio col mondo» precederebbe ogni altra considerazione di ordine
storico e tematico. «Ma le cose stanno veramente così?» – si domanda Panofsky –
«Possiamo veramente dire che sia soltanto il diverso atteggiamento dell'occhio a
promuovere ora uno stile pittorico, ora uno lineare, ora uno stile subordinante, ora
uno coordinante?».619 Secondo Panofsky non è possibile ricondurre l'origine della
figurazione alla mera fisiologia dell'occhio, ma a un più complesso lavorio
simbolico che coinvolge non solo le forme della visione oculare, ma anche
l'espressione spirituale, la mentalità di un'epoca e i significati iconografici che di
volta in volta sono cristallizzati dalle opere. Lo studioso tedesco tenta di rinvenire
un metodo che trascenda il dualismo fra forma e contenuto: «è certo che la “forma”
(anche la più generale immaginabile) interviene costitutivamente nella sfera del
618 Per una più precisa analisi del rapporto fra Panofsky e Wölfflin si veda l'introduzione di Guido
Neri in La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, e in particolare il secondo paragrafo. G.
Neri, Il problema dello spazio figurativo e la teoria artistica di E. Panofsky, in E. Panofsky, La
prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, cit., pp. 20-28.
619 E. Panofsky, Il problema dello stile nelle arti figurative, in Id., La prospettiva come “forma
simbolica” e altri scritti, cit., p. 143.

330
“contenuto”, e così pure è certo che il suo significato stilistico rientra già tra i valori
“contenutistici”».620 Nel suo saggio introduttivo – Il problema dello spazio figurativo
e la teoria artistica di E. Panofsky – Guido Neri è oltremodo preciso e individua
perfettamente i termini della questione: le opere di Panofsky sono «lontane sia
dall'estetica visibilistica che dalla concezione dell'arte come intuizione individuale»
e «hanno sviluppato un metodo e un tessuto concreto di ricerche sul contenuto
significativo delle forme artistiche, di grande interesse per lo storico e per il teorico
delle arti figurative».621 Il «contenuto significativo delle forme» è una felice sintesi
che ricalca la formula tratta da Cassirer e adottata da Panofsky nel saggio sulla
prospettiva: la proiezione rinascimentale è una forma simbolica. A questo proposito
Neri nota che «la determinazione della concreta forma di realizzazione prospettica
viene considerata come un vero problema di stile, e la resa spaziale che le è
connessa assume un “valore simbolico”, cioè significativo-espressivo». Grazie a
questa integrazione fra aspetto formale e valore contenutistico «Panofsky ha
allargato notevolmente la nostra possibilità di reinterpretare l'intera storia dell'arte
non dal punto di vista soltanto psicologico-individuale, o da quello di una
semplicistica disciplina formale, ma come una serie di incontri storici, in situazioni
determinate, di tradizioni e di strumenti che concorrono sia a costruire che a
significare il mondo umano».622 La predilezione di un metodo sintetico capace di
osservare contemporaneamente gli aspetti formali e quelli tematici ritorna
nell'introduzione agli Studi di iconologia, dove Panofsky tenta di dimostrare come
l'interpretazione degli stili e delle forme sia inscindibile dal riconoscimento dei
valori simbolici.623
Così anche nel mio lavoro la distanza dal paesaggio e la lontananza nel paesaggio
devono essere considerate nel loro duplice aspetto simbolico e formale: 624 le forme
620 Ibidem, p. 148.
621 G. Neri, Il problema dello spazio figurativo e la teoria artistica di E. Panofsky, in E. Panofsky, La
prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, cit., p. 8. Il corsivo è dell'autore.
622 Ibidem, p. 16. Dello stesso tenore l'interpretazione di Ginzburg: «il Panofsky mostrò […] che
nella descrizione,anche la più elementare, di un dipinto, i dati contenutistici e quelli formali si
fondono inestricabilmente». C. Ginzburg, Da A. Warburg a E. H. Gombrich. Note su un problema di
metodo, cit., p. 52.
623 E. Panofsky, Introduzione, in Id., Studi di iconologia, cit., pp. 3-38.
624 Almeno due autori, ampiamente citati in questa tesi, mi hanno influenzato nella ricerca di una
compresenza non dualistica di temi e di forme. Nell'Infanzia berlinese Benjamin ricorda il suo gioco
con i calzini. Quando erano avvolti l'uno nell'altro essi avevano la forma di una «borsa», ma bastava

331
della visione e le strutture spazio-temporali non possono essere separate dal valore
emblematico delle figure, dai contenuti e dai simboli che impregnano i luoghi
osservati o attraversati dalle camminate. Richiamo a questo proposito il paesaggio
de La strada di San Giovanni. Le visioni della valle nella Liguria interna e quella
della costa sono cariche di valori simbolici relativi alla natura e alla società
industriale, al rapporto con il padre, al significato di un'infanzia perduta e ai vaghi
desideri sociali e politici del giovane protagonista. Al tempo stesso, però, il
dualismo fra il paesaggio della campagna e quello costiero coinvolge le modalità
cognitive tramite cui un soggetto percepisce il mondo. Il paradigma della distanza
istituisce una discontinuità nella visione, vanifica la sintesi fra le varie apparenze
del territorio ligure e quindi impedisce una integrazione fra la storia e la natura.
L'oscillazione fra la dimensione formale e quella tematica, inoltre, attraversa tutta la
ricerca su Calvino, e non vale solo per l'interpretazione de La strada di San
Giovanni. Nel secondo capitolo ho dimostrato in che modo la predilezione per la
distanza e l'astrazione influisce sulla forma della scrittura e della rappresentazione:
la sintassi procede per coordinazioni frammentarie, le immagini sono discontinue, i
flussi di lettere e parole tendono a proiettare visioni nitide contro la superficie
bianca della pagina. Eppure la distanza – come ne Il barone rampante – coinvolge
anche il rapporto fra l'individuo e il mondo e illumina il valore etico e politico
implicato dalla scelta del punto di vista. Nel terzo capitolo mi sono soffermato sulla
forma del tempo suggerita da un paesaggio visto a distanza: sono così emersi nuovi
interrogativi sul senso della storia, sulla sparizione dei paesaggi dell'infanzia e sulle
conseguenti possibilità euristiche concesse alla rimembranza. Nel corso dei primi
tre capitoli e all'inizio del quinto ho anche dimostrato come la logica deduttiva –
peculiare di un pensiero separato dal mondo, posto a una certa distanza – sorregga

infilare la mano all'interno per immaginare di estrarre il «regalo». «Lo tiravo sempre più verso di
me, sino a quando lo sconcerto era al colmo: avevo estratto “il regalo”, ma “la borsa” in cui era stato
custodito non c'era più. Ripetevo di continuo la dimostrazione di questo avvenimento. Mi insegnò
che forma e contenuto, custodia e custodito sono la stessa cosa. Mi educò a estrarre la verità dalla
poesia con la stessa cautela con cui la mano infantile estraeva il calzino dalla “borsa”». (W.
Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento, cit., p. 58). L'altro è Michail Bachtin che nel
suo saggio forse più complesso – Il problema del contenuto, del materiale e della forma nella creazione
letteraria – si impegna a dimostrare che «è impossibile staccare dall'opera d'arte un momento reale
che sia un puro contenuto, come, del resto, realiter non c'è neppure la pura forma: contenuto e
forma si compenetrano a vicenda e sono inscindibili». M. Bachtin, Estetica e romanzo, cit., p. 29.

332
particolari strutture narrative e regoli le variazioni delle serie simboliche. La
cornice ne Le città invisibili o ne Il castello dei destini incrociati, ad esempio,
istituisce un originario «livello di realtà» che proietta i racconti e gli emblemi a
distanza, in uno spazio neutro. La nuvola di smog e Se in una notte d'inverno un
viaggiatore presentano sistemi di racconti o di immagini dove il corso degli
avvenimenti è organizzato secondo combinazioni stilistiche e iconografiche
discontinue, montate come tessere d'un mosaico. Si tratta di macchinari simbolici
creati per deduzione: al loro interno si nasconde il sogno di esaurire le possibilità
consentite da un sistema di occorrenze stabilito a priori. Infine nell'ultimo capitolo
ho rilevato come sia l'adozione ostinata del paradigma della distanza a impedire la
realizzazione del romanzo-paesaggio, complessa sintesi formale e tematica tesa a
tenere insieme la visione del mare e della Liguria interna, la storia e la natura.
Anche la lontananza colta da un soggetto immerso nel paesaggio mi ha permesso di
individuare gli intrecci fra le disposizioni visive e le concrezioni dei significati.
L'oscillazione fra la vicinanza e la lontananza da una parte origina l'andamento
circolare e continuo della visione, l'indistinta vaghezza che impregna le immagini, il
sentimento di uno spaziotempo qualitativo, dall'altra dà forma al desiderio e media
il senso da attribuire alla storia e alla facoltà rimembrante. I due paradigmi, inoltre,
nutrono generi letterari peculiari: come la distanza privilegia il racconto breve e
discontinuo inserito in una cornice, così l'immediatezza della scrittura diaristica e la
sensibilità fenomenica delle notazioni di viaggio sono a loro agio nella lontananza.
Nelle pagine dedicate all'Angelo di Avrigue, infine, ho tentato di dimostrare come la
poetica di Biamonti conservi al suo interno una difficilissima modulazione che
coinvolge i due paradigmi: la tensione fra la distanza della voce narrativa e la
lontananza di uno sguardo radicato nel paesaggio dà vita a una nuova allegoria
della Liguria.
Distanza e lontananza, dunque, paiono categorie interne alle opere, immanenti al
linguaggio letterario. Durante il lavorio interpretativo ho estrapolato i paradigmi
dalla concretezza del tessuto linguistico e poi, in un secondo momento, ho
confrontato le occorrenze esaminate per verificare la persistenza di una tipologia
paesaggistica specifica nella poetica di Calvino e in quella di Celati. Non escludo

333
tuttavia la presenza di un secondo procedimento: una volta acquisita la coscienza
critica della distanza e della lontananza, è possibile che abbia notato e registrato
ulteriori aspetti testuali che hanno corroborato le mie tesi. Il secondo metodo
rovescia il primo: l'interpretazione non si regge più sull'induzione, ma procede per
deduzione. Quale procedimento prevale? Forse la scelta fra i due dipende dalla
natura da attribuire ai paradigmi: essi aderiscono al tessuto linguistico, si trovano
all'interno dei testi, oppure sono sospesi al di fuori, in uno spazio neutro e ideale?
Sebbene propenda per la prima soluzione, ritengo opportuno non assumere una
posizione definitiva nel merito. D'altra parte gli stessi interrogativi appartengono al
dibattito critico a cui ho attinto per redigere questa conclusione. A questo proposito
intendo ancora riferirmi alle note di Guido Neri. Nell'introduzione a La prospettiva
come “forma simbolica” e altri scritti lo studioso traccia un profilo intellettuale di
Panofsky: «su di lui, come anche su altri studiosi legati al “Warburg”, l'influenza di
Cassirer fu fortissima in quegli anni, in quanto il filosofo neokantiano,
abbandonando l'orientamento quasi esclusivamente gnoseologico dei suoi maestri
di Marburgo, si era dedicato a un'ampia ricostruzione storica del mondo culturale
moderno, ed aveva anche elaborato una teoria antropologica sul significato di
quelle forme “simboliche” (della sfera mitica, religiosa, del linguaggio dell'arte) che
formano il contenuto della cultura umana».625 Nella metodologia critica di Panofsky
sembrano dunque convivere sia il procedimento micrologico e materialistico della
storia dell'arte di Warburg,626 sia l'interrogazione sui trascendentali derivante dalla
tradizione neokantiana. Scrive infatti Panofsky nel saggio sul Kunstwollen che «il
compito della scienza dell'arte dev'essere anche quello di creare categorie valide a
priori, le quali […] si adattino al fenomeno artistico, quali criteri di determinazione
del suo senso immanente».627 Panofsky studia dunque il fenomeno artistico come
625 G. Neri, Il problema dello spazio figurativo e la teoria artistica di Panofsky, cit., pp. 8-9.
626 Per una riflessione problematica sul metodo di Warburg si veda l'introduzione di Gertrud Bing a
La rinascita del paganesimo antico. In particolare interessa questo passaggio: «trattando del passato,
lo storico si trovava di fronte una realtà tanto ardente e sconcertante per coloro che la vissero, quanto
la nostra realtà è per noi. Lo storico non deve considerare alcuna sfera d'esistenza tanto bassa, tanto
oscura o tanto effimera da non poter fornire testimonianze. I resti privi di vita che sono l'unico
materiale di lavoro dello storico, dovrebbero essere interpretati come residui di reazioni umane, cioè
reazioni di uomini e di donne vivi a quella realtà mutevole ed evanescente». G. Bing, Introduzione, in
A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura, La Nuova Italia,
Firenze 1966, pp. XVIII-XIX.
627 E. Panofsky, La prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, cit., p. 162.

334
dato immanente al contesto materiale in cui è sorto, ma ritiene al contempo che
«esso può essere colto solo a partire da categorie a priori». 628 Neri è ancora una
volta preciso quando scrive che «si può quindi riassumere schematicamente il
pensiero di Panofsky in questo modo […]: nell'ordine della spazialità, concepita
come una forma a priori della conoscenza, si sono succedute, dall'antichità ai giorni
nostri, due concezioni essenzialmente diverse, che hanno condizionato, nelle arti
visive, diverse soluzioni prospettiche». 629 Il dilemma può essere tradotto in questi
termini: in che modo le forme trascendentali si connettono alle occorrenze
materiali? Anche durante la ricerca mi sono domandato in quale maniera i
paradigmi della distanza e della lontananza si rapportino alla materia linguistica dei
testi.630 Neri in conclusione critica l'eccessivo rilievo concesso da Panofsky alle
forme pure:

Se poi il tentativo compiuto positivamente da Panofsky di


elaborare un insieme di categorie a priori non ci soddisfa, e ci
sembra oggi ormai legato alle dispute, così vivaci ma non sempre
altrettanto fruttuose, che caratterizzano la Kunstwissenschaft
tedesca dei primi tre decenni del secolo, non ne dobbiamo
concludere, come è chiaro, contro il rapporto della storia con la
teoria (come anche oggi viene fatto assai spesso, e non solo tra gli
storici dell'arte), e tanto meno possiamo scansare le critiche
mosse da Panofsky alla presunzione di una prassi del tutto
“empirica”. Se mai, l'insufficienza di quelle categorie a valere
come funzioni interpretative, dipende secondo noi dal fatto che
esse, anziché farsi espressione del processo reale del costituirsi di
un mondo storico, e diventare così categorie inerenti alla storia,
che nella storia hanno una nascita e possono trasformarsi e
morire, sono assunte come le forme di un processo ideale.631
628 Ibidem, p. 165.
629 G. Neri, Il problema dello spazio figurativo e la teoria artistica di Panofsky, cit., p. 16.
630 Come noterò più avanti, la mia interrogazione metodologica riguarda il rapporto fra i paradigmi
e l'immanenza del testo letterario. Infatti durante la ricerca ho lasciato in sospeso l'indagine
prettamente storica delle condizioni sociali ed economiche in cui gli scrittori hanno operato. In
questo senso mi discosto nettamente dagli interessi degli storici dell'arte tedeschi, di Ginzburg e
anche di Guido Neri.
631 Ibidem, p. 28. Nota ancora Ginzburg in merito al percorso teorico di Panofsky che «anche nelle

335
Il medesimo ordine di interrogativi abita il saggio di Ginzburg sulla tradizione
teorica warburghiana: Da A. Warburg a E. H. Gombrich. Note su un problema di
metodo. Ragionando sulle affinità e le divergenze fra i vari studiosi del Warburg
Institute, Ginzburg individua due linee di interesse scientifico: da una parte la
scoperta di costanti e analogie stilistiche e iconografiche che accomunano opere
appartenenti a periodi o a luoghi differenti, dall'altra l'interpretazione degli oggetti
artistici in relazione all'epoca storica di produzione e alle precise relazioni materiali
coinvolte. L'ambizione euristica dello storico intende incrociare una linea
d'indagine con l'altra, nella speranza di spiegare la storia grazie alle analogie
morfologiche, e viceversa. Questo ordine di problemi nasce durante la ricerca
storiografica dedicata alle credenze stregonesche diffuse in Friuli nel
Cinquecento.632 La ricostruzione storica delle pratiche rituali e delle narrazioni
tratte dai documenti inquisitoriali lascia intravedere affascinanti analogie con gli
usi magici e le mentalità afferenti a epoche e luoghi lontanissimi. Come giustificare
da un punto di vista storico le somiglianze strutturali afferenti a tradizioni dislocate
in punti spazio-temporali distanti e sconnessi? «Tutto ciò – scrive Ginzburg nella
Prefazione a Miti emblemi spie – presupponeva un allargamento dell'indagine a un
ambito cronologico e spaziale enormemente più vasto del Friuli tra Cinquecento e
Seicento. E il rapporto tra connessioni tipologiche o formali e connessioni storiche
andava affrontato nelle sue implicazioni teoriche». 633 Una notazione, suggerita nel
seguito della Prefazione, è illuminante: «in un senso più immediato il mio modello

formulazioni più mature e aderenti alla ricerca concreta dell'introduzione agli Studies, [permane] una
traccia della filosofia trascendentale dell'arte che permea i saggi teorici del periodo tedesco». C.
Ginzburg, Da A. Warburg a E. H. Gombrich. Note su un problema di metodo, cit., p. 55.
632 C. Ginzburg, I benandanti. Stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino
1966.
633 C. Ginzburg, Miti emblemi spie, cit., p. XIII. Ancora negli anni Novanta il dilemma che oppone la
morfologia alla storia non è risolto. Il saggio Stile. Inclusione ed esclusione è del 1995. Qui Ginzburg
studia lo stile sia come concrezione individuale e relative alle varie circostanze storiche, sia come
costante che attraversa gli individui e le condizioni storiche. La conclusione lascia il problema
apertissimo: «Simone Weil e Adorno insistono (anche se da punti di vista diversi) sulla necessità di
avvicinarsi alle opere d'arte come entità assolute, irrelate. Longhi, così come Vasari prima di lui,
sostiene che le opere d'arte richiedono una prospettiva storica, relazionale, secundum quid. Le due
impostazioni mi paiono entrambe indispensabili, ma reciprocamente incompatibili; non è possibile
sperimentarle contemporaneamente. […] Ma le due prospettive sono unite da un rapporto
asimmetrico. È possibile esprimere la visione “semplice”, diretta, assoluta attraverso il linguaggio
della storia; non viceversa». C. Ginzburg, Stile. Inclusione ed esclusione, cit., p. 161.

336
era ed è Propp, per ragioni sia specifiche sia teoriche. Tra queste ultime, la
distinzione così netta, e così feconda euristicamente (certo non dovuta a pressioni
politiche esterne) tra la Morfologia della fiaba e Le radici storiche dei racconti di fate.
Nelle mie intenzioni, il lavoro di classificazione dovrebbe costruire una fase
preliminare, volta a ricostruire una serie di fenomeni che vorrei analizzare
storicamente». I successi e gli insuccessi assicurati da questo metodo 634 non sono
qui pertinenti; rilevante invece è il riferimento a Propp: come non rimembrare le
ricerche di Calvino sulla fiaba popolare italiana e le successive riflessioni sulla
combinatoria letteraria? E come non ritornare agli scambi d'opinione fra Calvino e
Celati in merito al rapporto fra le strutture mitiche, lo sviluppo dei generi e la storia
sociale? Le discussioni private e gli articoli pubblicati sulle teorie di Frye e
Bachtin635 durante il periodo della progettazione della rivista Alì Babà devono
essere letti alla luce del presente dilemma: quale rapporto sussiste fra i paradigmi
mitografici comuni alle culture dell'uomo e le concrezioni narrative singolari in cui
questi s'incarnano?
Ginzburg è abile a lasciare il problema aperto. Eppure è il caso di ammettere che
questa tesi ha privilegiato un procedimento critico aderente alle opere esaminate: i
paradigmi individuati vorrebbero essere – per parafrasare la bella espressione di
Guido Neri – «categorie inerenti ai testi». La distanza, nel mio lavoro, non è una
categoria pura, e ancora meno può esserlo la lontananza. Ne consegue che la
portata euristica dei paradigmi si limita ai testi esaminati: la distanza e la
lontananza non sono modelli di una morfologia generale, essi non conservano
l'ambizione di essere applicati ad altre tradizioni letterarie. Non è dunque possibile
sulla base di questa ricerca fondare degli strumenti formali da applicare in modo
634 «Nel caso della mia ricerca in corso sul sabba, l'integrazione della morfologia in una
ricostruzione storica è solo un'aspirazione che potrebbe non realizzarsi. Ma il modo in cui Propp
stesso, nelle Radici storiche […] ha colmato i vuoti inevitabili della documentazione con una serie di
luoghi comuni ispirati a un rigido evoluzionismo, fa capire i rischi di un'impresa del genere».
Ibidem, p. XV.
635 Su Anatomy of Criticism di Northrop Frye si veda il già citato articolo di Calvino scritto nel 1969:
La letteratura come proiezione del desiderio raccolto in Una pietra sopra e ora contenuto nel primo
volume Mondadori dei Saggi. In merito agli interventi di Celati sul critico canadese si veda: G.
Celati, Il sogno senza fondo, in Quindici, 1968, n. 9; G. Celati, Anatomie sistematiche letterarie, in
Libri Nuovi, 1969, n. 5. Sulle riflessioni dedicate a Bachtin si deve fare riferimento all'articolo di
Calvino Il mondo alla rovescia, anche questo raccolto in Una pietra sopra. Sulla ricezione di Bachtin
da parte di Celati: G. Celati, Dai giganti buffoni alla coscienza infelice, in Id., Finzioni occidentali.
Fabulazione, comicità e scrittura, cit.

337
deduttivo e schematico ad altre esperienze letterarie. La distanza e la lontananza
sono davvero dei paradigmi specifici, adatti a comprendere le forme e i simboli del
paesaggio in Calvino e in due scrittori a lui strettamente legati. Certo, sia la
distanza dal paesaggio che la lontananza nel paesaggio lasciano trasparire una
genealogia che trascende gli scritti di Calvino, Celati e Biamonti. Eppure ciascuna
genealogia è stata tracciata a partire dalle letture e dagli interessi dei tre scrittori: il
loro lavoro letterario recupera dalla tradizione le forme e i sensi del paesaggio e li
rielabora creativamente. Le diramazioni storico-letterarie dei paradigmi, pertanto,
non derivano da forme a priori, ma sono istituite di volta in volta dall'organismo
poetico delle opere prese in esame. Ho dimostrato, ad esempio, come Calvino abbia
ritrovato l'idea della distanza risalendo le correnti del razionalismo occidentale. La
linea razionalista non è rimasta identica a sé stessa, ma si è evoluta fra il
Rinascimento e la modernità, ha conosciuto diverse fasi, fino ad essere integrata
nell'invenzione poetica dello scrittore ligure. In Calvino permane la separazione fra
l'io e il mondo rappresentato, ma sono svanite le distanze omogenee e misurabili
che sussistevano fra gli enti. L'unità dello spazio raffigurato dai pittori
rinascimentali e poi teorizzato da Galileo e Descartes si dissolve: le proiezioni di
Calvino sono ormai frammenti dispersi, bidimensionali, sempre più astratti, sintomi
di una ragione che ha iniziato a criticare e decostruire sé stessa e le sue illusioni.
L'evoluzione e la mutazione di un paradigma non è forse la migliore prova per
escludere la sua appartenenza al mondo delle forme pure?
L'elaborazione di una genealogia della lontananza ha individuato una linea estetica
e conoscitiva che è alternativa e parallela a quella seguita da Calvino. Nei paesaggi
di Celati ho intravisto una forma dello spazio e del tempo analoga al quella che
emerge nella poetica di Leopardi e nella riflessione filosofica di Benjamin. Queste
analogie mi sono state suggerite dai precisi riferimenti testuali che lo scrittore
padano ha disseminato negli scritti diaristici e nei racconti di pianura. Eppure nel
corso delle mie ricerche – e proprio grazie ai legami intessuti da Celati – ho
dedicato attenzione alle somiglianze che tralucono dalla concezione dello spazio e
del tempo in Benjamin e Leopardi. E così ho ritrovato un breve scritto
benjaminiano dedicato al poeta di Recanati e ho individuato una probabile

338
influenza dei Pensieri sul saggio dedicato a Leskov. Coerente con il metodo descritto
da Ginzburg nella Prefazione a Miti emblemi spie ho rilevato una serie di analogie in
Leopardi e in Benjamin e poi sono andato alla ricerca di una giustificazione storica,
ovvero di un legame diretto e dimostrabile fra i testi.
Il metodo scelto ha dunque privilegiato la visione interna, aderente alle forme e ai
temi letterari, e raramente ha fatto uso di astrazioni. Questa valutazione mi
consente infine di affrontare la questione più complessa di questa riflessione
metodologica. Per chiarire al meglio i suoi presupposti richiamo un testo di
Benjamin già citato nel quarto capitolo. 636 È il frammento sui modi di vedere il
mondo esperiti dall'aviatore e dal camminatore. È il caso, adesso, di citarlo per
intero e di svelarne il senso complessivo:

La forza di una strada è diversa a seconda che uno la percorra a


piedi o la sorvoli in aeroplano. Così anche la forza di un testo è
diversa a seconda che uno lo legga o lo trascriva. Chi vola vede
soltanto come la strada si snoda nel paesaggio, ai suoi occhi essa
procede secondo le medesime leggi del terreno circostante. Solo
chi percorre la strada ne avverte il dominio, e come da quella
stessa contrada che per il pilota d'aeroplano è semplicemente una
distanza di terreno essa, con ognuna delle sue svolte, faccia balzar
fuori sfondi, belvedere, radure e vedute allo stesso modo che il
comando dell'ufficiale fa uscire i soldati dai ranghi. Così, solo il
testo ricopiato comanda all'anima di chi gli si dedica, mentre il
semplice lettore non conoscerà mai nuove vedute del suo spirito
quali il testo, questa strada tracciata nella sempre più fitta
boscaglia interiore, riesce ad aprire: perché il lettore obbedisce al
moto del suo io nel libero spazio aereo delle fantasticherie, e
invece il copista si assoggetta al suo comando. La pratica cinese
del ricopiare i libri era perciò garanzia incomparabile di cultura
letteraria, e la trascrizione una chiave per penetrare gli enigmi
della Cina.637

636 Si veda il quarto capitolo, paragrafo 6.


637 W. Benjamin, Cineserie, in Id., Strada a senso unico, cit., pp. 8-9.

339
La differenza fra le due visioni del paesaggio – una a distanza e dall'alto, l'altra
dall'interno e aperta alla lontananza – corrispondono anche a due modi di intendere
il testo. Il copista, come il camminatore, segue le svolte del linguaggio a diretto
contatto, come se facesse parte del suo flusso. Il lettore invece sorvola dall'alto e la
sua critica avviene a distanza. Questa tesi ha privilegiato la citazione come pratica
di commento interna ai testi, eppure non ha esitato, se necessario, a sorvolare le
pagine per definire meglio i paradigmi ad esse sottesi e ipotizzare comparazioni che
abbracciassero un più vasto territorio letterario. La distanza, tuttavia, non è stata
mai assoluta e per questo i paradigmi individuati non sono delle categorie
trascendentali o delle strutture atemporali. Posso finalmente affermare che la
distinzione fra la distanza e la lontananza non riguarda solo le tipologie dei
paesaggi letterari studiati, ma anche l'approccio critico e metodologico impiegato
durante la ricerca. La distanza dal paesaggio e la lontananza nel paesaggio si sono
riflesse nell'approccio critico generale: i modi di percepire e raffigurare il paesaggio
corrispondono agli approcci critici sviluppati per comprendere le opere. Ancora
una volta si può notare come le forme e i contenuti si rispecchino gli uni nelle altre.
Durante la stesura del capitolo sul paesaggio in Celati ho ritenuto opportuno
intensificare le citazioni affinché il commento aderisse il più possibile al testo. Per
Calvino, al contrario, ho utilizzato spesso analisi di natura formale tendenti a una
maggiore astrazione: l'impiego di opposizioni dualistiche e categoriali, ad esempio,
si è rivelato adatto alla comprensione di Dall'opaco. Ne consegue che l'approccio
critico, in generale, è stato mimetico: ho tentato di adattare gli strumenti critici al
pensiero degli autori analizzati. Tuttavia, come già ho chiarito, mi sono più spesso
comportato come un copista cinese. Da un punto di vista teorico, forse, gli anni
della mia ricerca hanno segnato un lento allontanamento da Calvino. Eppure non
ho mai accettato appieno l'immediatezza di Celati. Credo, in ultima istanza, di aver
cercato un movimento possibile 638 fra la distanza e la lontananza: il modello di
638 Ritengo che la storia intellettuale di Carlo Ginzburg possa essere letta alla luce di un'analoga
oscillazione. Nel saggio sulle spie e sulle tracce egli sostiene di aver riscoperto un «modello
epistemologico» che «può forse aiutare a uscire dalle secche della contrapposizione tra
“razionalismo” e “irrazionalismo”». C. Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, cit., p. 158.
Nel primo capitolo ho notato come questo metodo si opponeva al modello quantitativo e deduttivo
approntato di Galilei. Alla tendenza dello scienziato di leggere «con gli occhi del cervello» Ginzburg

340
questo andamento critico può essere rinvenuto nelle pagine dedicate a L'angelo di
Avrigue di Francesco Biamonti.

oppone lo studio dei «tratti individuali». (Ibidem, p. 177). Ritengo che una sintomatologia della
traccia sia un approccio più vicino al paradigma della lontananza, quindi a un rapporto di
immanenza con il mondo. In un frammento dei Passages scrive Benjamin: «La traccia e l'aura. La
traccia è l'apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere lontano ciò che essa ha lasciato
dietro di sé. L'aura è l'apparizione di una lontananza, per quanto possa essere vicino ciò che essa
suscita. Nella traccia noi facciamo nostra la cosa; nell'aura essa si impadronisce di noi. [M 16a, 4]».
(W. Benjamin, I «passages» di Parigi, Einaudi, Torino 2000, pp. 499-500). In Occhiacci di legno. Nove
riflessioni sulla distanza Ginzburg riflette invece sulla distanza come categoria di analisi storica.
Ovviamente menziona il passo di Panofsky sull'analogia fra distanza storica e prospettiva, ma la sua
indagine non si ferma al Rinascimento. Ginzburg discende sino ad Agostino. Il filosofo di Ippona è il
primo a leggere gli eventi dell'Antico Testamento secondo una prospettiva storica ispirata,
ovviamente, dalla Rivelazione: «un cristiano come Agostino, riflettendo sul rapporto fatale tra
cristiani ed ebrei, tra Vecchio e Nuovo Testamento, poté formulare l'idea che, attraverso il concetto
hegheliano di Aufhebung, diventò un elemento cruciale della coscienza storica: e cioè che il passato
dev'essere compreso sia nei propri termini sia in quanto anello di una catena che in ultima analisi
arriva fino a noi». (C. Ginzburg, Distanza e prospettiva. Due metafore, in Id., Occhiacci di legno, cit., p.
179). La distanza storica deriverebbe dunque dal modello lineare cristiano: «l'insistenza sull'unicità
dell'Incarnazione produsse una nuova percezione della storia umana. Il nocciolo del paradigma
storiografico corrente è una versione secolarizzata del modello dell'adattamento,combinata con dosi
diverse di conflitto e di molteplicità». (Ibidem, p. 185). A questa idea di storia si opporrebbe
l'intendimento storico della cultura ebraica. Secondo gli ebrei storia significa «un'esperienza vissuta
del passato, non una conoscenza distaccata del passato». (Ibidem, p. 173). Qui Ginzburg cita un libro
affascinante di Yerushalmi dove lo storico ebreo si interroga sul peculiare significato di storia nella
sua cultura: «la memoria […] non è più un ricordo, che implicherebbe ancora un senso di distanza,
ma un'attualizzazione». (Ibidem, p. 173; il libro a cui si fa riferimento è: Y. H. Yerushalmi, Zakhor.
Storia ebraica e memoria ebraica, Guntina, Firenze 2011). Tuttavia Ginzburg esclude quest'ultima
dimensione dall'approccio storico perché troppo legata a una «temperie anti-intellettualistica».
(Ibidem, p. 186). Si consuma così un nuovo movimento teorico? Un abbandono della vicina
lontananza suggerita dalla traccia a favore della storia prospettica? Nell'ultima raccolta di saggi
Ginzburg distingue fra la storia e la memoria: la prima è dotata di uno sguardo a distanza e fonda la
disciplina degli studi storici, la seconda è invece legata a un senso di immediatezza e riguarda le
pratiche sociali responsabili della trasmissione della tradizione. Scrive Ginzburg in conclusione a un
saggio dedicato alle immagini di Lord Kitchener affisse in Inghilterra nel 1914 per esortare
all'arruolamento volontario: «per decifrare i messaggi subliminali trasmessi dal manifesto di Lord
Kitchener abbiamo dovuto ricorrere a uno sguardo da lontano, che permettesse una distanza critica.
Senza dubbio questi atteggiamenti sono alimentati dalla memoria; ma vanno in una direzione
diversa». C. Ginzburg, «La patria ha bisogno di te», in Id., Paura reverenza terrore. Cinque saggi di
iconografia politica, Adelphi, Milano 2015, p. 155.

341
Appendice
Note sul paesaggio
Nelle pagine introduttive mi sono soffermato sull'ambiguità del concetto di
paesaggio. Il dilemma del paesaggio attraversa vari ambiti disciplinari e le
differenze fra gli approcci critici e scientifici aumentano la complessità del concetto.
La scommessa conoscitiva del mio lavoro riposa nella difficoltà del paesaggio: le sue
oscillazioni concettuali, se ponderate con attenzione, stimolano un più acuto e
fecondo approccio ermeneutico alle opere letterarie. Non ho l'ambizione di fornire
una bibliografia esaustiva sulle discipline paesaggistiche perché l'immaginaria
biblioteca di saggi, pamphlets e trattati pertinenti è ormai sterminata; piuttosto
intendo chiarire meglio quali riflessioni hanno condizionato il mio approccio, e in
che modo.
Che cos'è, dunque, il paesaggio? È la prima domanda a cui risponde la Convenzione
europea del paesaggio redatta e approvata dagli stati membri dell'Unione Europea
nel 2000. L'articolo 1 recita che «“landscape” means an area, as perceived by people,
whose character is the result of the action and interaction of natural and/or human
factors». Almeno due aspetti sono degni d'attenzione: il paesaggio è una porzione
di territorio individuata dalla percezione umana; il paesaggio è il risultato di fattori
non solo naturali, ma anche antropici. L'articolo 2 definisce la tipologia di territori
che possono essere percepiti come paesaggio: «this Convention applies to the
entire territory of the Parties and covers natural, rural, urban and peri-urban areas.
It includes land, inland water and marine areas. It concerns landscapes that might
be considered outstanding as well as everyday or degraded landscapes». Il
paesaggio è configurato non appena un atto percettivo coinvolge un determinato
territorio, senza distinzioni di ordine geologico o estetico. Un aspetto, questo, che è
ribadito anche nelle implementazioni del 2008: «attention is focused on the
territory as a whole, without distinguishing between the urban, peri-urban, rural
and natural parts, or between parts that may be regarded as outstanding, everyday

343
or degraded».639 Nella Convenzione l'ambiguità del termine tende a decadere perché
ogni territorio – qualora sia oggetto di una percezione – può essere inteso come
paesaggio: il concetto sembra così perdere buona parte della sua problematicità e
quasi si disfa in una possibilità percettiva totale e indifferenziata. 640
Nonostante il tentativo di semplificazione avanzato dalla legislazione europea, le
antinomie del paesaggio permangono e in particolare abitano il dibattito
geografico. Un resoconto articolato della mia esperienza di ricerca è forse la
strategia migliore per osservare i termini del problema. Dall'ottobre del 2014 fino al
febbraio del 2015 ho studiato presso l'Università di Bonn, ospite del Geographisches
Institut. Ho seguito i corsi e i seminari del Professor Winfried Schenk docente di
Historische Geographie, una corrente della geografia umana che coniuga l'analisi
storica con lo studio del territorio. Il paesaggio è uno strumento di indagine
fondamentale in questo ambito perché si presenta alla percezione dello studioso
come un deposito di fonti e di testimonianze materiali: a partire dalla visione
simultanea di un luogo egli ricostruisce la diacronia del processo storico. Per
definire il significato di “Landschaft” Schenk ne evoca la storia semantica: “Land” è
termine giuridico per definire un «Territorium», mentre il suffisso “-schaft” deriva
dal verbo “schaffen”, ovvero “creare”, “produrre”. 641 Il termine è attestato sin dal
nono secolo per significare una regione territoriale sottoposta al controllo umano:
“Landschaft” è originariamente impiegato in un senso politico-giuridico. Scrive
Schenk: «Jedoch beschreibt das erstmals um 830 nachgewiesene ahd. Lantschaft
oder lantscaf(t) einen politisch definierten Landstich im Sinne von territorium und
regio und rekurriert damit auf deren Bewohner».642 Il paesaggio è dunque un

639 Council of Europe, European Landscape Convention and reference documents, Cultural Heritage,
Landscape and Spatial Planning Division Directorate of Culture and Cultural and Natural,
Strasbourg 2008.
640 Per una critica a una concezione totalizzante del paesaggio si vedano le obiezioni di Michael
Jakob all'«omnipaysage». Secondo Jakob «dans notre civilisation ultra-technologique tout semble
désormais n'exister que pour aboutir à une image. […] Il y a d'autre part des milliards d' images-
paysage que nous produisons en voyageant, nos photos-paysage ou films-paysage. L'industrie
touristique mondiale et l'industrie de l'image digitalisée ont aujourd'hui un impact énorme sur notre
façon de découvrir et de mémoriser des paysages». M. Jakob, Le paysage, Infolio, Gollion 2009, p. 12.
641 W. Schenk, Landschaft als zweifache sekundäre Bildung. Historische Aspekte im aktuellen
Gebrauch von Landschaft im deutschsprachigen Raum, namentlich in der Geographie, in Bruns D. e
Kühne O., Landschaften: Theorie, Praxis und internationale Bezüge, Oceano-Verlag, Schwerin 2013,
pp. 23-36.
642 Ibidem, p. 24.

344
territorio abitato da comunità umane specifiche ed è plasmato dagli ordinamenti
politici e dagli interventi tecnici che si susseguono nel corso delle epoche. Il
paesaggio lascia così trasparire le relazioni sussistenti fra le forme di vita dei gruppi
umani e la regione che accoglie gli insediamenti. Lo stesso argomento è impiegato
da Kenneth Olwig per sostenere la tesi secondo cui il paesaggio sia una «polity's
area of activity».643 In questo senso il paesaggio è un tessuto di rapporti concreti
che coinvolge gli uomini e l'ambiente, e non un mero frammento di natura. Questa
sensibilità è accolta dalla recente corrente di geografia storica e politica di area
anglosassone e tedesca, impegnata a leggere nel paesaggio i processi collettivi di
governo e di cura del territorio. 644 La teoria della Historische Geographie pertanto
non tiene conto del valore estetico del paesaggio e ridimensiona il ruolo del
soggetto responsabile della percezione.
L'incontro fra la storia e la geografia ha una tradizione fortunata in Italia grazie agli
studi di Emilio Sereni e Lucio Gambi 645, ed è tuttora attiva e ricca di spunti.
Recentemente è comparso Paesaggi rurali storici,646 un volume dedicato ai paesaggi
agrari italiani che si sono formati nel corso dei secoli e che mantengono tuttora i
loro caratteri peculiari. Il volume è legato alla redazione di un Catalogo nazionale
dei paesaggi agrari, un archivio dei territori rurali arricchito da ricerche di ordine
storico, geografico ed ecologico. Il metodo impiegato si discosta dall'approccio
prevalentemente storico-politico impiegato dalla Historische Geographie tedesca.
Roberta Cevasco, una delle autrici degli studi raccolti in Paesaggi rurali storici,
illumina alla perfezione il paradigma epistemologico dell'opera in occasione di un
intervento tenuto a San Biagio della Cima durante il Seminario-Laboratorio
643 Ricorda infatti Olwig che «the word landscape in the various Germanic languages, as well in
older form of English, designated an area, or region, and meant much the same as country –
Drenthe, one of the Low Countries, was termed a landschap». K. R. Olwig, Landscape, Nature and
the Body Politic. From Britain's Reinassance to America's New World, University of Wisconsin Press,
Madison 2002, p. XXIV.
644 Per una definizione del paesaggio come territorio soggetto al governo politico degli abitanti si
vedano i seguenti contributi: L. Gailing e M. Leibenath, Von der Schwierigkeit, “Landschaft” oder
“Kulturlandschaft” allgemeingültig zu definieren, Raumforschung und Raumordnung, 2012, 70, pp.
95-106; L. Gailing, Kulturlandschaft. Begriff und Debatte, in D. Fürst, L. Gailing, K. Pollerman, A.
Röhring, Kulturlandschaft als Handlungsraum. Institutionen und Governance im Umgang mit dem
regionalen Gemeinschaftsgut Kulturlandschaft, Dortmund 2008, pp. 21-34; D. Ipsen, Landschaft als
Raum nachhaltigen Handelns, Vorgänge Jg. 38, 1999, pp. 109-118.
645 Si vedano in particolare: E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari 1961; L.
Gambi, Una geografia per la storia, Einaudi, Torino 1973.
646 M. Agnoletti (a cura di), Paesaggi rurali storici. Per un catalogo nazionale, Laterza, Bari 2011.

345
internazionale sul paesaggio.647 La sostanza materiale del paesaggio e il «suo
spessore storico» non coinvolgono soltanto la dimensione sociale e politica, ma
anche la «struttura biologica, ecologica» del territorio. La pratiche sociali umane
non possono essere studiate senza tenere conto delle caratteristiche ambientali dei
luoghi: il lavoro secolare degli abitanti di una data regione si adatta alle specificità
ambientali, contribuisce allo sviluppo genetico delle specie animali e vegetali e
favorisce l'incremento della biodiversità. Si tratta di un'impostazione che innesta
sulla tradizione storico-geografica italiana la corrente della Historical ecology
d'oltreoceano: «un programma di ricerca con alla base un'idea radicalmente nuova:
le società umane sin dalla Preistoria hanno per lo più aumentato la ricchezza della
“natura”, promuovendo la biodiversità, la fertilità dei suoli (cambiando il chimismo
e la tessitura), l'eterogeneità delle forme della terra». 648 La ricerca dedicata ai
paesaggi rurali storici mira così a intersecare la storia sociale con i rilevamenti
archeologici, le analisi genetiche e i dati stratigrafici come i diagrammi pollinici
ricavati dal suolo. A supporto delle tesi sul significato da attribuire al paesaggio,
Cevasco menziona un intervento di Maria Luisa Sturani, docente di geografia
presso l'Università di Torino. Anche Sturani tende a privilegiare un approccio
«geo-storico» attento a sottolineare la «materialità dei paesaggi» a partire dallo
studio de «le pratiche e i processi attraverso i quali essi vengono prodotti e
trasformati». Secondo Sturani la concretezza del paesaggio coinvolge i «processi
ecologici» come «le pratiche sociali» e dovrebbe così trascendere il dualismo fra
natura e cultura.649
Nella Historische Geographie di Bonn, invece, il dualismo sarebbe evitato grazie al
privilegio conferito al secondo termine: la Kultur. Il “paesaggio” – “die Landschaft”
– diviene così “paesaggio culturale” – “die Kulturlandschaft”. Poiché non esiste
paesaggio senza la mediazione del lavoro e del governo degli abitanti, esso si
presenta sin dall'origine come area naturale modificata dall'intervento umano:

647 R. Cevasco, Sulla «rugosità» del paesaggio, in Études de lettres, Entre espace et paysage, 1-2, 2013,
pp. 323-344.
648 Ibidem, p. 328. Per una riflessione approfondita sulla Historical ecology si veda: W. Balée e C. L.
Erickson, Time and Complexity and Historical Ecology. Studies in neotropical lowlands, Columbia
University Press, New York 2006.
649 M. L. Sturani, Paesaggio e musei: la prospettiva della geografia, in Rivista Geografica Italiana, 116,
2009, pp. 379-402.

346
«Kulturlandschaft als physischer Ausdruck sozialer Verhältnisse und Interaktionen
gelesen werden kann und zugleich die Basis für soziale Strukturierungen und
Interaktionen bildet. (Kultur-)Landschaft wird hier als Produkt und Medium
sozialer Praxis und damit auch als historisches Produkt konzeptualisiert».650 Perché
si tende a conferire al paesaggio un valore esclusivamente sociale e culturale?
Esistono ragioni ideologiche a sostegno di una scelta epistemologica? Ho
immaginato una risposta possibile durante alcune esplorazioni della Ruhr, la
regione industriale situata a pochi chilometri da Bonn. La Ruhr ha trainato il
processo di industrializzazione della Germania dell'Ottocento grazie alla ricchezza
mineraria e alla conseguente concentrazione di altiforni e acciaierie. Poi, dopo il
secondo conflitto mondiale, è iniziato il lento processo di dismissione dei siti
industriali e le istituzioni hanno immaginato nuove funzioni da affidare alle aree
abbandonate. Oggi buona parte dei siti sono diventati musei a cielo aperto dove le
nuove generazioni possono ritrovare i resti del passato industriale tedesco.
Conservo vivida memoria del Landschaftpark di Duisburg, un immenso parco-
paesaggio che comprende l'antica sede delle acciaierie di August Thyssen. I
visitatori si aggirano fra immensi macchinari ancora intatti, altiforni e corridoi
silenziosi: il parco industriale si concede alla contemplazione come fosse una
foresta di acciaio e lamiere. Come la prima modernità – in seguito
all'emancipazione dalla natura e al progressivo perfezionamento delle tecniche di
valorizzazione e sfruttamento del territorio – ha inventato i paesaggi e poi le aree
naturali protette per compensare i traumi dovuti all'abbandono dell'universo rurale,
così la nostra epoca tarda ha realizzato i parchi industriali per conservare
esteticamente un modo di produzione superato dall'avanzare della storia. Il
paesaggio pare quindi risarcire una perdita: la Kultur dell'epoca industriale è
osservata in forma di Landschaft, secondo una prospettiva analoga a quella
riservata fra Settecento e Ottocento ai boschi e alle foreste. Il modello del
Kulturlandschaft studiato nell'Università di Bonn è pertanto uno strumento
conoscitivo organico alle scelte politiche operate dalla Germania del secondo
Novecento. Queste considerazioni spostano l'attenzione dai reperti materiali oggetto

650 W. Schenk, Landschaft, l'articolo è in corso di pubblicazione.

347
dello studio storico-geografico al modo con cui essi sono osservati: il paesaggio, oltre
a essere un luogo composto da entità tangibili, può essere inteso come una
configurazione simbolica, ovvero come un'invenzione determinata da specifiche
necessità politiche e culturali. Solo grazie alla mediazione di un punto di vista
critico – e dislocato a una certa distanza – è possibile notare che la Historische
Geographie e la Historical ecology concepiscono la cultura come un oggetto di
studio neutro che non influisce sui paradigmi scientifici adottati.
L'approccio storico-geografico, d'altra parte, è cosciente di opporsi agli studî
determinati a svelare il valore simbolico e ideologico del paesaggio. Cevasco
privilegia l'attenzione per la materialità e la «rugosità» del paesaggio a detrimento
del «prevalente interesse percettivo proprio della geografia culturale post-moderna,
alimentato dalle sole tematiche dell'immagine e della rappresentazione». 651 Anche
Sturani critica «una tendenza sempre più pronunciata alla smaterializzazione del
paesaggio come oggetto della ricerca geografica». 652 I sostenitori della tesi secondo
cui «non si dà paesaggio se non come rappresentazione» 653, infatti, avanzano un
certo scetticismo in merito alle possibilità euristiche proprie agli studi storico-
materialistici. Il caposcuola della linea «rappresentativa» della geografia culturale è
Denis Cosgrove, autore nel 1984 di Social formation and symbolic landscape.654
Cosgrove avanza una distinzione fra la figura dell'insider che abita il territorio e ne
ha cura e quella dell'outsider che osserva una regione dall'esterno, a una certa
distanza. Propriamente il paesaggio – un'immagine da contemplare, pregna di
valori simbolici – esiste solo per l'outsider, il soggetto che si è distaccato ormai
dall'ambiente naturale. Chi vive a diretto contatto con il territorio, invece, non ha
alcun bisogno di configurare esteticamente il mondo circostante. 655 Secondo la
651 R. Cevasco, Sulla «rugosità» del paesaggio, cit., p. 323.
652 M. L. Sturani, Paesaggio e musei: la prospettiva della geografia, cit., p. 392.
653 Ibidem, p. 393.
654 D. E. Cosgrove, Social formation and symbolic landscape, Croom Helm, London 1984. Per una più
ampia trattazione del saggio si veda il terzo capitolo della tesi.
655 Così parlava Cézanne: «avec des paysans, tenez, j'ai douté parfois qu'ils sachent ce que c'est
qu'un paysage, un arbre, oui. Ça vous parait bizarre. J'ai fait des promenades parfois, j'ai
accompagné derrière sa charrette un fermier qui allait vendre ses pommes de terre au marché. Il
n'avait jamais vu Sainte-Victoire. Ils savent ce qui est semé, ici, là, le long de la route, le temps qu'il
fera demain, si Sainte-Victoire a son chapeau ou non, ils le flairent à la façon des bêtes, comme un
chien sait qu'est ce morceau de pain, selon leurs besoins, mais que les arbres sont vertes, et que ce
vert est un arbre, que cette terre est rouge et que ces rouges éboulés sont des collines, je ne crois pas
réellement que la plupart le sentent, qu'ils le sachent, en dehors de leur inconscient utilitaire». J.

348
geografia culturale l'origine del concetto di paesaggio non va rinvenuta nelle lingue
anglo-germaniche, ma nella tradizione romanza: “paysage”, “paesaggio” e “paisaje”
nascono nel contesto artistico della pittura del Cinquecento, durante la primavera
della modernità. Il geografo francese Claude Raffestin sostiene che il paesaggio è
un'immagine nostalgica della natura perduta, dunque è una strategia contemplativa
approntata dalla cultura moderna.656 Anche Berque, geografo dell'École des hautes
études en sciences sociales di Parigi, afferma che «le paysage […] est un attribut du
paradigme occidental moderne-classique. Son apparition dans les mentalités
européennes traduisait ou compensait en termes sensibles, ce même retrait du sujet
hors de son milieu qui par ailleurs devait engendrer le point de vue objectif de la
science moderne, ainsi que l'individualisme».657 A differenza della geografia storica,
la geografia culturale «post-moderna» non si concentra sui dati materiali
osservabili, ma critica gli assunti e i metodi che costituiscono un determinato
approccio scientifico e ne traccia la genealogia dimostrandone l'origine ideologica.
Entrambe le discipline risolvono il dualismo fra la soggettività e l'oggettività del
paesaggio eliminando uno dei due poli: la prima non tiene conto del valore
simbolico, mentre la seconda non riconosce la connotazione fisico-materiale.
Si intravede in questo contrasto il problema peculiare del paesaggio: esso è un
frammento di territorio – un'entità oggettiva – oppure è una configurazione
estetica, emanazione di un soggetto individuale o collettivo? Franco Farinelli ha
dedicato un'attenzione costante allo studio e all'interpretazione di questa aporia. La
sua prima mossa critica è acuta: egli non dibatte sull'origine linguistica di
“paesaggio”, ma delinea la storia del concetto entro la scienza geografica. Quando,
si chiede Farinelli, l'idea di paesaggio è stata accolta dalla geografia? Sino al primo
Ottocento il paesaggio era un genere pittorico, oggetto del godimento estetico delle
classi borghesi emergenti. Fu Alexander von Humboldt ad accogliere il paesaggio
fra le strumentazioni del geografo e a trasformarlo «da concetto estetico in concetto

Gasquet, Cézanne, encre marine, Paris 2002, pp. 164-165. Cade però in errore chiunque creda che
Cézanne si arresti a questa concezione di paesaggio. In lui sussiste la pulsione allo spostamento e
all'attraversamento, al ritrovamento di un'aderenza.
656 C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del
paesaggio, Alinea, Firenze 2005.
657 A. Berque, Médiance de milieux en paysage, Belin, Paris 2000, p. 66.

349
scientifico».658 Per adeguare il paesaggio all'indagine geografica Humboldt
«distingue tre stadi della conoscenza, tre tappe della relazione conoscitiva tra
l'uomo e il suo ambiente». Il primo stadio riguarda l'impressione immediata
(Eindruck), ovvero il «sentimento primigenio al cospetto della grandiosità e della
bellezza della natura». Si tratta del momento estetico e romantico da cui scaturisce
il senso di una «totalità, come un tutto predisposto alla rivelazione dell'ordine
nascosto sotto la pelle dei fenomeni».659 Il secondo stadio è quello dell'esame
analitico (Einsicht) dove il soggetto della percezione s'impegna a «disarticolare la
totalità sentimentale e avviarne la traduzione in termini scientifici». Qui la ragione
procede con una razionale «dissezione delle singole componenti» e individua gli
elementi singolari che articolano il paesaggio. Infine il geografo ricostruisce la
complessa interdipendenza di tutti i frammenti nella Zusammenhang, «punto di
totalità costituita dallo stare insieme» dove «in virtù della mediazione costituita
dall'esame analitico, la totalità originaria viene trasformata e ripristinata, non più
sul piano estetico e dell'impressione sentimentale ma su quello scientifico». 660
L'arguzia di Humboldt consente di trasformare la «bruma che in lontananza
avvolge le cose» in progetto di conoscenza. L'ultimo stadio, tuttavia, non cancella il
primo, ma ne conserva il ricordo: «lo sviluppo di ogni conoscenza altro non è, per
Humboldt, che la traduzione in termini finalmente scientifici di un'impressione
aurorale, quella espressa appunto dal paesaggio, che non è assolutamente
scientifica, ma senza la quale tutta la scienza sarebbe impossibile». 661 Così sin dai
suoi esordi geografici il paesaggio è un concetto ambiguo che oscilla fra
l'impressione estetica e il riferimento al territorio tangibile, fra il godimento
artistico e il procedimento scientifico. Questa tensione, in ultima istanza, ha una
giustificazione politica perché è Humboldt, insieme a Carl Ritter, a inaugurare la
geografia critica borghese: «per Humboldt, stratega anzi politico della conoscenza,
[la bruma della lontananza] è la metafora di ogni intenzione progettuale, di ogni
progettualità politico-sociale: sempre all'orizzonte e mai raggiunta, e perciò

658 F. Farinelli, L'arguzia del paesaggio, in Id., I segni del mondo. Immagine cartografica e discorso
geografico in età moderna, Academia Universa Press, 2009, p. 160.
659 F. Farinelli, Geografia,. Un'introduzione ai modelli del mondo, cit., pp. 42-43.
660 Ibidem, p. 43.
661 Ibidem, p. 43.

350
indeterminata nelle sue forme più vicine». 662 Il geografo affida alla nuova classe in
ascesa un concetto al contempo estetico e pratico: il paesaggio è un'immagine, ma
anche uno strumento adatto a interpretare e a modificare la realtà materiale.
Secondo Farinelli, tuttavia, la geografia positivista di fine Ottocento dimentica il
carattere dialettico del paesaggio e le ragioni politiche che ne hanno determinato
l'origine: «bruscamente, e in maniera irriflessa, il paesaggio diventa un semplice
insieme di oggetti – si reifica».663 I geografi si concentrano così solo sulle cose,
ovvero sulla dimensione fisica del paesaggio, e non tengono più in considerazione
l'origine estetica e soggettiva: «da modo di interpretazione esso diventa in tal
maniera un semplice complesso di lineamenti dati in forma oggettiva una volta per
tutte, non più dipendenti insomma, nella loro costruzione, dall'attività ideativa di
un soggetto dotato di una psicologia e di una intenzione, di un progetto. È
l'esistenza di un soggetto, di un soggetto della conoscenza geografica, che con tale
svolta viene a essere negata, e nella forma più risoluta: essa viene bruscamente e
d'un sol tratto abolita».664 Lo studio del paesaggio non mira più a un orizzonte
politico e pragmatico, ma diviene descrizione dell'esistente, ovvero catalogo
tipologico dei biomi naturali.665 Farinelli critica la geografia positivista e al
contempo riesuma l'originaria «ambigua doppiezza» del paesaggio perché «proprio
in forza della sua connaturata e calcolata ambiguità, il paesaggio resta l'unica
immagine del mondo in grado di restituirci qualcosa della strutturale opacità del
reale – dunque il più umano e fedele, anche se il meno scientifico, dei concetti. Per
questo non può esservi crisi (né tantomeno morte) del paesaggio: perché esso è
stato già esattamente pensato per descrivere la crisi, il vacillamento, il tremito del
mondo».666 Dunque il paesaggio non individua solo un segmento di territorio, né si
esaurisce nell'immagine simbolica, ma oscilla in uno stato tensivo e problematico:
«una parola – e il caso è davvero raro, se non unico, nella storia del sapere
scientifico – che serve a designare intenzionalmente la cosa e l'immagine della

662 Ibidem, p. 49.


663 F. Farinelli, L'arguzia del paesaggio, cit., p. 163.
664 F. Farinelli, Geografia, cit., p. 55.
665 Gli obiettivi polemici di Farinelli sono Vidal de la Blanche in Francia e Biasutti in Italia. Di
quest'ultimo si veda almeno l'introduzione in R. Biasutti, Il paesaggio terrestre, Unione tipografico-
editrice torinese, Torino 1962.
666 F. Farinelli, L'arguzia del paesaggio, cit., pp. 164-165.

351
cosa».667
Negli ultimi decenni Farinelli ha svolto un'indagine più ampia sulla «crisi della
ragione cartografica», ovvero dello spazio lineare e omogeneo di matrice
euclidea.668 Questo non è il contesto adatto per ricostruire il complesso di
argomentazioni avanzate dal geografo italiano. Qui è sufficiente ricordare che
secondo Farinelli i modelli geografici vigenti negli ultimi decenni non sono più
fondati sulla tensione fra la rappresentazione cartografica e il mondo, dove la prima
determina la conformazione del secondo. La realtà globale funziona secondo
relazioni simultanee e reticolari e ogni distanza spazio-temporale è abolita. Ne
consegue «l'impossibilità di ogni separazione tra rappresentazione interna ed
esterna, per cui ogni distinzione tra il soggetto e l'oggetto della rappresentazione
viene a cadere».669 Farinelli non si sofferma sul ruolo del paesaggio in un'epoca in
cui non sussiste più differenza fra l'ordine della rappresentazione e quello degli
oggetti: permane ancora una tensione dialettica se s'indeboliscono le categorie di
oggettività e soggettività?
L'ultimo quesito permette di affrontare un'ulteriore possibilità di intendere il

667 Ibidem, p. 165. Per un commento arricchente alle tesi di Farinelli si veda: C. Minca, Humboldt's
compromise, or the forgotten geographies of landscape, Progress in Human Geography, 31, 2007, pp.
179-193; M. Tanca, Geografia e filosofia. Materiali di lavoro, Franco Angeli, Milano 2012. Quella di
Farinelli è un'impostazione aporetica non dissimile dall'approccio avanzato da un altro geografo
italiano, Giuseppe Dematteis. Secondo Dematteis il paesaggio è allo stesso tempo un oggetto fisico e
mentale: G. Dematteis, Una geografia mentale, come il paesaggio, in G. Cusimano (a cura di), Scritture
di paesaggio, Patron, Bologna 2003, pp. 65-74. Un approccio geografico critico e ricco di tensioni è
avanzato anche da Werner Bätzing nel suo saggio sulle Alpi: Le Alpi: una regione unica al centro
dell'Europa, Bollati Boringhieri, Torino 2005. Nell'introduzione Bätzing elenca le diverse prospettive
possibili grazie a cui osservare il territorio alpino: agricola, geografico-morfologica, turistica. A
questo proposito scrive: «qual è ora la “giusta” delimitazione delle Alpi? Tutti i punti di vista – ma
se ne possono immaginare anche altri – hanno una propria legittimazione, ma si escludono a
vicenda. Ciò significa che una definizione delle Alpi oggettiva, naturale, o libera da giudizi di valore,
che si ponga al di sopra di tutti gli interessi, non c'è e non può esserci neppure in via di principio. Le
Alpi evidenziano pertanto con grande chiarezza che uno spazio naturale o un paesaggio vengono
sempre visti e percepiti in una prospettiva umana e che per gli uomini è impossibile assumere un
punto di vista oggettivo, cioè quello della natura». Ibidem, p. 35. Le pagine seguenti del saggio di
Bätzing – ispirate alla definizione di un'area alpina politicamente autonoma, economicamente
sostenibile, dove l'apporto dell'uomo nei secoli di coltura agricola ha comportato un aumento della
biodiversità – descrivono il territorio senza abbandonare la consapevolezza che ogni affermazione
oggettiva deriva da una modulazione dello sguardo. Il paesaggio diventa quindi un'osservazione
normativa volta a descrivere un oggetto. Credo che questo movimento del pensiero derivi dalla
geografia critica di tradizione tedesca, in contrapposizione alle impostazioni di matrice positivistica.
668 Oltre al già citato saggio einaudiano, si veda: F. Farinelli, Crisi della ragione cartografica, Einaudi,
Torino 2009.
669 F. Farinelli, Crisi della ragione cartografica, cit., p. 163.

352
paesaggio come strumento dello studio geografico. Sin qui ho accennato a modelli
di ordine oggettivo (il paesaggio come entità fisica e sociale) e soggettivo (il
paesaggio come proiezione simbolica), poi ho menzionato il modello dialettico
proposto da Farinelli. Rimane la possibilità di intendere il paesaggio come punto di
incontro, stato di transizione dove la frontiera fra l'osservatore e il mondo diviene
vaga e indistinta. Si tratta di una impostazione fenomenologica che difficilmente
può essere accolta in un contesto epistemologico scientifico. Esiste tuttavia un
saggio del 1952 scritto da un geografo francese Eric Dardel: L'homme et la terre.
Dardel propone un approccio geografico determinato a coniugare la distanza
scientifica con una originaria dimensione esistenziale dell'uomo: «la geografia, per
la sua posizione, non può fare a meno di essere contesa dalla conoscenza e
dall'esistenza».670 Così «il geografo che misura e calcola viene in un secondo
momento; prima di lui c'è un uomo a cui il “volto della Terra” si rivela; c'è il
navigatore alla ricerca di nuove terre, l'esploratore nella savana, il pioniere,
l'emigrante, o semplicemente l'uomo colpito da un movimento insolito della Terra,
tempesta, eruzione, straripamento. C'è una visione “prima” della terra che il sapere,
in seguito, viene a completare».671 Dardel tenta di recuperare lo sguardo qualitativo
precedente alla misurazione scientifica e si auspica che la ricerca geografica accolga
anche il sentimento di appartenenza alle cose: «la distanza è percepita dapprima
non come una quantità, ma come una qualità espressa dai termini vicino o lontano.
Ciò che è vicino è ciò di cui si può disporre senza sforzo, mentre ciò che è lontano
esige uno sforzo e, implicitamente, un progetto di avvicinamento. La lontananza di
un luogo, di un villaggio, della montagna, è prima di tutto sentita come un
cammino, penoso o facile: è a tre ore di cammino. La lontananza non dipende
direttamente dalla distanza effettiva».672 Il paesaggio conserva allora una possibilità
conoscitiva ancora memore dell'accordo con il cosmo: «la pianura circonda l'uomo
di silenzio e di malinconia. Il suolo e la vegetazione, il cielo d'inverno, l'aspetto
locale e familiare della Terra con le sue lontananze e le sue direzioni, sono tutti
elementi geografici che il paesaggio unisce. […] Il paesaggio è la geografia

670 E. Dardel, L'uomo e la terra. Natura della realtà geografica, Unicopli, Milano 1986, p. 85.
671 Ibidem, p. 15.
672 Ibidem, pp. 17-18.

353
compresa come ciò che è intorno all'uomo».673 Il paesaggio, come «inserirsi
dell'uomo nel mondo», è «una finestra aperta su possibilità illimitate: un orizzonte.
Non una linea fissa ma un movimento, uno slancio».674
La geografia di Dardel s'intreccia con la riflessione filosofica sino a interrogare
l'esistenza dell'essere umano, il suo posizionamento nell'universo. Queste ultime
riflessioni mi consentono di spostare l'attenzione dalla geografia ai problemi critici
sorti in seno agli studî di estetica, di storia dell'arte e di storia della cultura
occidentale. È difficile scindere nettamente queste discipline perché spesso esse
dialogano fra loro e ibridano i loro strumenti. Ritengo tuttavia che una più attenta
focalizzazione sull'estetica – intesa come indagine sulle forme della percezione e
non solo sulla natura dell'opera d'arte – permetta di illuminare le antinomie del
paesaggio più rilevanti e di coinvolgere in un secondo momento i campi del sapere
contigui.
Paolo D'Angelo ha proposto ultimamente un interessante bilancio del dibattito
estetologico in una serie di saggi critici ora raccolti in Filosofia del paesaggio675;
inoltre ha curato un'antologia di riflessioni e teorie sul paesaggio. 676 D'Angelo
difende in primo luogo l'origine estetica del concetto di paesaggio: «qualunque cosa
il concetto di paesaggio sia divenuto, è difficile […] negare che esso sia sorto e
abbia preso forma come concetto estetico. La storia stessa della parola, nelle
principali lingue europee, sta a dimostrarlo».677 L'enfasi sulla dimensione percettiva,
tuttavia, non abolisce le antinomie: «si produce così quella duplicità del termine

673 Ibidem, p. 33.


674 Ibidem, pp. 34-35. Un ulteriore tentativo di formulare una geografia “fenomenologica” è stato
tentato da Yi-Fu Tuan. Si veda in particolare: Yi-Fu Tuan, Space and place. The perspective of
experience, University of Minnesota Press, Minneapolis 1977. In anni recenti tale impostazione è
stata recuperata da un gruppo di studiosi del mondo anglosassone: P. Howard, I. Thompson, E.
Waterton (edited by), The Routledge Companion to Landscape Studies, Routledge, New York 2013. In
particolare si veda all'interno del volume: J. Wylie, Landscape and phenomenology, pp. 54-65. Gli
studi raccolgono le tendenze della «non-representational theory», ovvero una corrente geografica
contemporanea alternativa alla geografia culturale di Cosgrove. A questo proposito, sempre in
questo volume: E. Waterton, Landscape and non-representational theories, pp. 66-75. In generale
sembra che l'approccio feonomenologico della recente geografia anglosassone sia più un espediente
per polemizzare con la geografia culturale. I contributi non presentano una riflessione profonda
sulla fenomenologia e sono più vicini a una concezione materiale del paesaggio come campo di
relazioni sociali, politiche ed economiche.
675 P. D'Angelo, Filosofia del paesaggio, Quodlibet, Macerata 2010.
676 P. D'Angelo, Estetica e paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009.
677 P. D'Angelo, Filosofia del paesaggio, cit., p. 13.

354
paesaggio che è ben familiare al parlante della nostra lingua, il quale sa
perfettamente che la parola può significare, al tempo stesso, la rappresentazione
(pittorica o fotografica) di una parte del territorio, e il territorio stesso, ma non
nella sua materialità, bensì nella percezione che di esso abbiamo, nel suo aspetto,
nella sua apparenza o nella sua forma». 678 Il dualismo, dunque, coinvolge
l'apparizione del territorio come esito dell'esperienza percettiva e la sua
rappresentazione iconografica. L'oscillazione fra l'apparenza sensibile e la
concrezione figurale è stata già oggetto del fondamentale ragionamento di Simmel
sul paesaggio. Per Simmel l'immagine e la percezione istituiscono un'unione
articolata entro il più vasto problema del rapporto fra l'arte e la vita:

in quanto arte, l'arte può derivare soltanto dalla dinamica


artistica. Non come se avesse inizio con il prodotto artistico finito.
L'arte deriva dalla vita – ma solo perché e in quanto la vita, nel
modo in cui viene vissuta quotidianamente e dovunque, contiene
quelle forze formatrici il cui puro sviluppo, divenuto indipendente
e in grado di determinare di per sé il proprio oggetto, si chiamerà
poi arte. Certamente non interviene alcun concetto di «arte» nei
discorsi quotidiani dell'uomo o nei gesti con cui si esprime, o
quando la nostra visione dà forma ai suoi elementi secondo un
proprio senso ed una propria unità. Ma in questi fenomeni sono
presenti e attivi dei modi di dar forma che, in un certo senso
successivamente, dobbiamo chiamare artistici; se infatti, nella
legalità che è loro propria, formano un oggetto per sé, che è
soltanto il loro prodotto, allora questo è, appunto, un'«opera
d'arte». Solo per quest'ampia via si giustifica la nostra
interpretazione del paesaggio a partire dai fondamenti ultimi della
nostra formazione dell'immagine del mondo. Dove effettivamente
vediamo un paesaggio e non più una somma di singoli oggetti
naturali, abbiamo un'opera d'arte nel momento del suo nascere. 679

678 Ibidem, p. 15.


679 G. Simmel, Filosofia del paesaggio, cit., p. 46.

355
La riflessione di Simmel confligge con quella di chi sostiene che la dimensione
artistica precede e ordina ogni esperienza sensoriale. Secondo Alain Roger, ad
esempio, il paesaggio è l'esito di una mediazione artificiale: senza l'invenzione del
genere pittorico l'uomo moderno – urbanizzato, borghese, esteta – non avrebbe mai
potuto vedere la natura come un paesaggio. Roger individua nella formazione del
paesaggio una «artialisation»: «la natura è indeterminata e riceve le sue
determinazioni soltanto dall'arte». 680 Una tesi analoga è stata sostenuta dal teorico e
storico dell'arte Ernst Gombrich. Secondo Gombrich «il paesaggio così come ci è
noto non si sarebbe mai potuto sviluppare al di fuori delle concezioni artistiche
maturate in seno al Rinascimento italiano».681 Il carattere «più concettuale che
visivo» del paesaggio deriva dagli schemi approntati dalla tradizione: l'occhio non è
libero di vagare sul mondo, ma segue un vocabolario interpretativo già codificato
dall'arte precedente. Per questo, secondo Gombrich, «la scoperta dello scenario
alpino non precede bensì segue la divulgazione di stampe e dipinti raffiguranti
vedute montane».682 Già Baudelaire nel Salon de 1859 aveva difeso l'artificialità del
paesaggio che appare nei diorami: «je désire être ramené vers le dioramas dont la
magie brutale et énorme sait m'imposer un utile illusion. Je préfère contempler
quelques décors de théâtre, où je trouve artistement exprimés et tragiquement
concentrés mes rêves les plus chers: Ces choses, parce qu'elles sont fausses, sont
infiniment plus près du vrai; tandis que la plupart de nos paysagistes sont de
menteurs, justement parce qu'ils ont négligé de mentir». 683 La polemica del poeta
aveva come obiettivo le tendenze realiste e positiviste che permeavano le arti e
soffocavano il libero sfogo immaginativo.
D'Angelo si sofferma anche sulle teorie – sorte soprattutto nel contesto anglo-
americano – volte a enfatizzare l'esperienza sensoriale. «L'esperienza estetica della
natura» è infatti il cuore delle riflessioni della Environmental aesthetics e
dell'Estetica ecologica. Tali direzioni di ricerca mirano alla «sostanziale
riconduzione del paesaggio all'ambiente»: la peculiarità estetica del concetto tende

680 A. Roger, Paesaggio pittorico e paesaggio reale, in P. D'Angelo, Estetica e paesaggio, cit., p.183.
681 E. Gombrich, La teoria dell'arte nel Rinascimento e l'origine del paesaggio, in Id., Mondadori
Electa, Milano 2003, p. 117.
682 Ibidem, p. 128.
683 C. Baudelaire, Salon de 1859, Collections Litteratura, p. 41.

356
a scomparire per dare rilievo ai nessi organici interni al sistema della natura. 684 Se la
linea del “paesaggio-immagine” evidenzia l'origine artefatta del paesaggio e indica
nella distanza fra l'osservatore e il mondo – come a suo tempo aveva notato
Simmel685 – una condizione necessaria, la sensibilità ecologica del “paesaggio-
esperienza” ridimensiona il valore della mediazione soggettiva e si sofferma
piuttosto sui rapporti interni alla natura così come si presentano alla percezione.
Nonostante le differenze relative all'impostazione e alle ambizioni conoscitive,
sembra emergere nel dibattito estetico una frattura teorica analoga a quella rilevata
fra la geografia culturale e la geografia storica ed ecologica.
Forse le esperienze critiche più interessanti sono di nuovo quelle disposte a
saggiare le possibilità di attraversare le antinomie. In ambito puramente estetico è
interessante la proposta di Griffero. Il filosofo si propone di recuperare il concetto
di «atmosfera» e di impiegarlo come campo di mediazione e di incontro fra il
soggetto e l'oggetto: le atmosfere infatti «sono […] né soggetto né oggetto, bensì
delle semi-cose situate nel “tra” che separa e insieme unisce soggetto e oggetto». 686
Dal senso atmosferico deriva una «estetica ontologica del paesaggio» capace di
«cogliere il “carattere” di qualcosa rigorosamente nella sua manifestazione spaziale
e fenomenica, senza illudersi che un nostro stato d'animo possa, anche in assenza di
elementi esterni adatti e predisponenti, trasformare completamente la tonalità
emotiva del mondo esterno».687 Nel complesso la proposta di Griffero ricerca il
punto di mediazione fra immagine ed esperienza: il paesaggio assume una movenza
fluida e contorni sfumati, è un luogo d'incontro, una soglia fra l'esteriorità del
mondo e l'interiorità sentimentale. Tuttavia il tentativo sorge in seno all'ontologia, i
cui strumenti sono forse i meno adatti all'esplorazione delle frontiere mobili del
paesaggio.

684 P. D'Angelo, Filosofia del paesaggio, cit., p. 23.


685 Su Simmel e la distanza del paesaggio si veda il secondo capitolo, paragrafo 1. Nonostante si sia
qui apprezzato lo sforzo di Simmel per rinvenire una mediazione fra la dimensione rappresentativa e
quella esperienziale del paesaggio, la sua teoria rimane in ultima istanza un elaborato tentativo
soggettivistico: «se c'è una soluzione in Simmel, è comunque soggettivistica, in quanto il paesaggio
come “forma spirituale” godrebbe di una sua (relativa) oggettività solo grazie alla soggettività
individualizzante, centrale in ogni apprensione, della Stimmung». T. Griffero, Paesaggi e atmosfere.
Ontologia ed esperienza estetica della natura, Rivista di estetica, 29 (2 / 2005), XLV, p. 22.
686 Ibidem, p. 33.
687 Ibidem, p. 31.

357
Una teoria altrettanto complessa è affidata alle pagine di Paesaggi in movimento,
saggio dell'urbanista Marc Desportes.688 Desportes si occupa dell'evoluzione delle
reti stradali e ferroviarie fra il Settecento e i nostri giorni, ne delinea le funzioni e
ne valuta l'incidenza sulla percezione dei cittadini. Uno studio storico-materiale
sulle reti di comunicazione territoriale si rispecchia così in una analisi delle forme
percettive e rappresentative. Dalle argomentazioni dell'autore si evince come
l'evoluzione della tecnica e le strategie della rappresentazione si influenzino a
vicenda. Secondo Desportes «il paesaggio nasce da una distanza: quella tra
l'osservatore e lo spazio osservato».689 La possibilità di distanziamento sarebbe stata
consentita dalla nuova rete stradale realizzata in Francia nella seconda metà del
Settecento e dalla conseguente evoluzione tecnica delle vetture: le vie erano meglio
percorribili, il viaggio più confortevole e il soggetto aveva il tempo per contemplare
la campagna che attraversava. Così «gli elementi distanti possono costruire il
quadro della strada. Dalla vettura, il viaggiatore volge lo sguardo oltre le vicinanze
immediate, scavalcando fossati, e nota punti particolari, come colline, mulini,
boschetti, file di alberi che seguono il corso del fiume. Si stabilisce un nuovo
rapporto con il quadro della strada, rapporto distanziato poiché non sono più l'urto
dei sassi o la dolcezza del terreno a fornire informazioni sul paese che si attraversa
ma lo sguardo rivolto all'esterno».690 Le successive evoluzioni tecniche – la ferrovia
prima, poi la rete autostradale – rendono il viaggio sempre più confortevole e
veloce: il mondo scorre via fulmineo, il soggetto è sempre più isolato al di qua del
finestrino, l'astrazione dal mondo circostante aumenta insieme a un senso di
smarrimento. Si assiste così a una forma di «spossessamento, una presa di distanza
che allontana dalla realtà».691 Il paesaggio si frantuma sino alla sparizione. Dunque
la veduta paesaggistica non è solo l'esito di un distanziamento, ma scaturisce da
una complessa mediazione fra l'astrazione e un opposto senso di appartenenza al
mondo circostante. Chi viaggiava sulle strade alla fine del Settecento, infatti, aveva
ancora la facoltà di abbracciare i luoghi con lo sguardo e di sentirsi parte della loro
dimensione antropica e naturale. Il paesaggio è di nuovo l'esito di una vibrazione
688 M. Desportes, Paesaggi in movimento, Libri Scheiwiller, Milano 2008.
689 Ibidem, p. 10.
690 Ibidem, p. 62.
691 Ibidem, p. 122.

358
fra la distanza e il sentimento di vicinanza all'ambiente circostante: un «va e vieni
inebriante».692
Un'altra acuta riflessione sulle antinomie del paesaggio è stata avanzata da Michael
Jakob, studioso di estetica e di storia dell'arte. Nell'ultima monografia lo studioso
riconosce che «le paysage est pris dans la transition entre artifice et perception
vécue».693 Tuttavia l'artificio tende a cristallizzarsi in immagini pittoriche o
fotografiche che sempre di più s'allontanano dalla «nature»: «la représentation de
la nature opère en général […] sur le mode du cadrage, du découpage. Elle offre un
bout de nature qui renvoie, au-delà des bords visibles, à la totalité invisible. Le
mécanisme de cadrage oblige l’œil réceptif à occuper la place à partir de laquelle il
créera une représentation (mentale) de la représentation (picturale)».694 Gli stilemi
paesaggistici suggeriscono una ricorsività («représentation de la représentation»)
che favorisce il formarsi del genere pittoresco, espressione di una «esthtétisation
artificielle» dove il territorio diviene «complètement sémiotisé». Rimane tuttavia
possibile l'emersione di nuove esigenze espressive capaci di rompere gli schemi
estetici: «les choses se compliquent considérablement au cours du XVIIIe siècle, où
les deux formes du paysage, la représentation picturale et l'expérience vécue,
commencent à exister l'une à côté de l'autre».695 I pittori escono en plein air alla
ricerca un'immagine instabile che sfugga alle convenzioni. Così «le paysage, la
transformation réussie sur place de la perception d'un bout de nature en image,
participe à la fois à l'immédiateté et à la médiation culturelle».696 Questo conflitto
fra immagine rappresentata e apparenza empirica coinvolge gli artisti più
significativi della modernità: «la tentative de Friedrich, Constable, Monet ou
Cézanne – figures marquées toutes par un “sentiment forte devant la nature” – de
rendre enfin la nature en tant que telle, témoignent de la récupération paradoxale
du paysage par l'art».697 La teoria di Jakob valorizza il paesaggio come movimento
tensivo, matrice di «chocs scopiques», luogo della differenza e dell'indecisione; al di
là dell'immagine pittoresca e spettacolare disponibile al consumo.
692 Ibidem, p. 67.
693 M. Jakob, Le paysage, cit.,p. 41.
694 Ibidem, p. 51.
695 Ibidem, p. 87.
696 Ibidem, p. 101.
697 Ibidem, p. 103.

359
Un'ulteriore antinomia, tuttavia, emerge dalle considerazioni di Jakob. Come forma
della rappresentazione il paesaggio ha una «dimension foncièrement historique» in
quanto esito della moderna emancipazione del soggetto dalla necessità naturale.
Allo stesso tempo il paesaggio è un'esperienza occasionata da un incontro con la
natura e dunque «équivaut à un événement. Le paysage émerge là – et seulement là
– où le sujet rencontre la nature de façon désintéressée, sans concept, sans visée
préalable». In quest'ultimo senso il paesaggio è un «saut», un «surgissement», o
«appel momentané» che appare sul «seuil phénoménologique». 698 Il dilemma del
paesaggio coinvolge la dicotomia fra storicità e fenomenologia, ovvero fra
l'immagine-paesaggio come invenzione immanente al percorso della modernità e il
paesaggio-esperienza che balugina nell'incontro momentaneo fra la coscienza e il
mondo. Così la teoria di Jakob «aboutit donc nécessairement à une critique de
l'expérience du paysage et à une histoire de la conscience du paysage».699 L'indagine
svela qui un nuovo punto di vista da cui osservare la dicotomia: il paesaggio
coinvolge diverse forme di temporalità. Nel saggio Paysage et temps,700 Jakob
approfondisce questo tema e si concentra su due aspetti temporali differenti: uno
palpita nell'«instant esthétique», nel momento fenomenico che scandisce
l'esperienza percettiva; l'altro, invece, è attinente alla genealogia dell'«image-
paysage» e coinvolge il corso della modernità. Sembrano così confrontarsi un
tempo interno al paesaggio e un tempo esterno: il primo riguarda il presente
dell'apparizione visiva, il secondo concerne il processo storico da cui è emersa la
configurazione paesaggistica. Inoltre, come è già emerso nell'impostazione della
geografia storica, si può ipotizzare l'esistenza una terza forma, non contemplata da
Jakob: il tempo conservato nel tessuto materiale del territorio percepito, trattenuto
nelle tracce materiali apparenti.
Le ultime riflessioni sul tempo storico mi consentono di soffermarmi sul rapporto
fra la storia culturale e il concetto di paesaggio. È stato Jacob Burchardt a
inaugurare la tradizione di pensiero secondo cui il paesaggio è «il risultato di un

698 M. Jakob, L'émergence du paysage, Infolio, Gollion 2004, pp. 32-33.


699 Ibidem, p. 37.
700M. Jakob, Paysage et temps. Comment sortir du musée du paysage contemporain, Infolio, Gollion
2007.

360
lungo e complicato processo culturale».701 Anche Simmel ricorda come
«l'individualizzazione delle forme interiori ed esteriori dell'esistenza, la
dissoluzione dei legami originari e delle unioni in entità particolari differenziate,
questa grande formula del mondo successivo al Medioevo ci ha anche fatto vedere
per la prima volta il paesaggio nella natura». 702 Dalla riflessione del filosofo
discende la tesi di Joachim Ritter secondo cui il paesaggio è una compensazione: il
soggetto moderno ritrova nella dimensione estetica quel senso di unità e di
organicità cosmiche che i suoi simili avevano concepito prima della completa
emancipazione dalla natura e dello sfruttamento tecnico dell'ambiente. Nella
contemplazione del paesaggio si respira l'aroma della distanza che separa l'uomo
moderno dalle origini perdute.703 Zumthor, in anni più recenti, afferma che «il faut
dire tout net que le Moyen Age ignore la paysage» e dimostra come la predilezione
per l'approccio storico-culturale intenda il paesaggio come una formazione
artificiale e mediata: «invention moderne, le paysage n'existe pas en lui-même. […]
Le paysage est pour nous un objet construit, mis en forme par une opération
contrôlée de sens».704 Il nesso fra la dimensione simbolica del paesaggio e la
distanza storica è colto anche da Gottfried Bohem, studioso di estetica: «what is
quite new, or so it seems, is a dialectic relating to the very heart of the concept of
landscape: a distance is created, placing viewers outside the situation, transferring
them to an excentric, imaginary point and thereby simultaneously creating a visual
relationship, in which a hitherto proximity of the natural reveals itself».705
L'impostazione della storia culturale presenta una certa analogia con la sensibilità
della geografia culturale: entrambe studiano il consolidamento di una specifica
«formazione simbolica». L'oggetto di queste riflessioni è il tempo esterno alla
rappresentazione: gli studiosi indagano la genesi e le condizioni di possibilità del
paesaggio alla luce del complessivo processo socio-culturale.
La possibilità di una storia interna al paesaggio – una storia delle iscrizioni e delle
tracce che si rapprendono nel corpo materico dei luoghi – è contemplata da Simon
701 J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1984, p. 270.
702 G. Simmel, Filosofia del paesaggio, cit., p. 43.
703 J. Ritter, Paesaggio. La funzione dell'estetico nella società moderna, cit., pp. 65-83.
704 P. Zumthor, La Mesure du monde, Seuil, Paris 1993, pp. 86-88.
705 G. Bohem, Open horizons. About the history of nature's representation in art, in Rivista di estetica,
29 (2 / 2005), XLV, p. 141.

361
Schama in Landscape and memory.706 In apparenza lo storico inglese non si discosta
dalle teorie appena evocate: «even the landscapes that we suppose to be most free
of our culture may turn out, on closer inspection, to be its product».707 Il paesaggio
non può essere costituito di sola «raw matter», ma è una configurazione mediata da
«our shaping perception».708 Schama difende l'idea secondo cui «our entire
landscape tradition is the product of shared culture» perché ogni luogo percepito si
presenta come un «rich deposit of myths, memories, and obsessions».709 Il primo
capitolo è dedicato alla foresta di Białowieża, una antichissima area boschiva che
oggi si estende fra la Polonia e la Bielorussia. Nei secoli la foresta è stata l'oggetto
delle proiezioni simboliche delle popolazioni polacche e lituane:

My subject was landscape myth and memory, and this woodland


wilderness, the puszcza, stretching all the way along the
borderland that Poland shared with Belarus and Lithuania, was
the “native realm” of writers of our time like Czesław Miłosz and
Tadeusz Konwicki; or past time like Adam Mickiewicz.
Generation after generation, such writers had created a
consolatory myth of a sylvan countryside that would endure
uncontaminated whatever disaster befell the Polish state. And
with a swerve of logic that only connoisseurs of Polish history
can appreciate, this sempiternal homeland was celebrated (in
Polish) as “Lithuania”: O Lithuania, my country, thou / Art like
good health, I never knew till now / How precious, till I lost thee. 710

Il paesaggio è così modellato da un intricato tessuto di miti e di identità cangianti,


ma è anche attraversato da drammi e ossessioni oscure: la foresta è stata il teatro
della repressione nazista, ha accolto l'esile resistenza polacca nel 1943 e infine s'è
impregnata del sangue sparso dalle esecuzioni sommarie della polizia segreta di
Stalin. Un paesaggio contiene i simboli, le speranze e il dolore di chi lo ha vissuto:

706 S. Schama, Landscape and Memory, Fontana Press, London 1996.


707 Ibidem, p. 9.
708 Ibidem, p. 10.
709 Ibidem, p.14.
710 Ibidem, p. 24.

362
la memoria collettiva assume «the form of the landscape itself». Nell'estate del 1941
il battaglione 322 dell'esercito tedesco riunì gli ebrei di Białowieża: «the five
hundred and fifty Jews were lined up in the forecourt of the hunting palace, the
women and children separated from men and boys over sixteen. The next day the
males were taken into the deep forest and somewhere amidst the old oaks and
lindens were shot beside their mass grave».711 Le querce e i tigli sono i testimoni
materiali di una tragedia storica.
Per comprendere il lavoro di Schama è fondamentale notare che il suo sguardo non
è astratto, ma aderisce ai luoghi di Białowieża, sin quasi a farne parte. L'indagine
nel paesaggio come memoria, infatti, coinvolge la storia famigliare dell'autore.
Schama confessa che «somewhere, beside a Lithuanian river, with a primeval forest
all about it, stood my great-grandfather Eli's house; itself made on roughly
fashioned timber with a cladding of plaster, surrounded by a stone wall to
announce its social pretensions. My mother, who was born and grew up in the
yeasty clamor of London's Jewish East End, retains just the scraps and shreds of her
father's and uncle's memories of this landscape».712 I brandelli di memoria ebraica
tramandati entro la cerchia famigliare ritrovano il loro paesaggio e si stringono ad
esso: il confine fra la tradizione del ricordo e la natura non è più distinguibile. A
Punsk – il villaggio dove affondano le origini della madre – lo storico cerca il
cimitero ebraico: «beyond the snarling and the smoke of scorched rubber, there it
was: a crumbling gray stone wall attempting to contain an acre or so of trees and
long-unmowed grass. Behind the wall the ground rose in a gentle slope. It was a
burial mound».713 Oltre il muro, tuttavia, non si scorge alcuna pietra tombale:

It was only by crushing the dandelions underfoot that I could feel


something other than soft-packed dirt. I knelt down and parted
the stalks and leaves, brushed away the fuzz of their seedballs.
Two inches of grizzled stones appeared, the Hebrew lettering
virtually obliterated by heavy growths of tawny and mustard-
colored lichen. I could just make out a name, Tet, Bet Yud, Hay,
711 Ibidem, p. 70.
712 Ibidem, p. 27.
713 Ibidem, p. 35.

363
Tevye, Tovye? I sat and swept my arms about in the dandelions
like a child making a snow-angel. Another stone appeared and
another. Digging down a few inches brought another up from the
netherworld. I could have spent a day with a shovel and shears
and exposed an entire world, the subterranean universe of the
Jews of Punsk.714

Lo studioso s'addentra nel paesaggio, ne tasta le iscrizioni, scava per riportare alla
luce ricordi cristallizzati in un «geological layer»: egli decifra i miti e i significati
che gli abitanti hanno affidato ai luoghi, «so Landscape and Memory is constructed
as an excavation below our conventional sight-level to recover the veins of myth
and memory that lie beneath the surface».715 Il paesaggio è modellato dall'azione
dell'uomo e dai suoi racconti, dunque è una formazione culturale; eppure non è una
semplice immagine, né una mera astrazione mentale: i contenuti simbolici, i ricordi,
le concrezioni iconiche e le poesie si iscrivono al suo interno, sono tracce interrate
come le lastre tombali del cimitero ebraico. Qui si svela l'importanza della teoria di
Schama: il paesaggio è una costruzione ideale, ma le idee circolano fra l'erba e gli
alberi come materiali di una coscienza collettiva. L'ambiente e la percezione umana
«are, in fact, indivisible» perché nella memoria del paesaggio si rivela «the
necessary union of culture and nature».716
Da queste mie pagine di resoconto si evince come il paesaggio sia un'entità scissa
dal dualismo. In questa appendice ho evidenziato come le teorie del paesaggio
possano tenere conto di una sola polarità, oppure come possano articolare una
complessa tensione oscillatoria fra il soggetto e l'oggetto, l'immagine e la materia, la
cultura e la natura. Inoltre ho anche evocato alcune esperienze di pensiero
determinate a scongiurare la separazione fra l'idea e la materia: le riflessioni di
Dardel o quelle di Schama tendono a concepire il paesaggio come un punto
d'incontro, come una soglia. A quest'ultima tendenza appartiene anche lo scritto
Per una filosofia del paesaggio di Gianni Carchia, una riflessione fondamentale per

714 Ibidem, p. 36.


715 Ibidem, p. 14.
716 Ibidem, p. 19.

364
la formazione del mio lavoro.717 Secondo Carchia il paesaggio è il luogo di una
alterità demonica, di una lontananza intangibile eppure presente all'osservatore. Il
filosofo torinese sostiene che Rilke è «l'autore novecentesco che sul paesaggio ha
detto probabilmente le cose più persuasive ed esatte». Ha scritto il poeta tedesco:
«dobbiamo pur confessarlo: il paesaggio ci è estraneo, e terribilmente solo è l'uomo
in mezzo agli alberi che fioriscono e ai ruscelli che scorrono; soli con un morto, non
si è alla lunga così abbandonati come soli con degli alberi. Per quanto grande possa
essere il mistero della morte, ancora più grande è il mistero di una vita che non è la
nostra vita, che non partecipa alla nostra e che, come ignorandoci, celebra feste alle
quali noi guardiamo con un certo imbarazzo, come ospiti sopravvenuti per caso e
che si esprimano con una lingua diversa». 718 Il paesaggio emana un'aura di
estraneità, ma avvolge l'osservatore e lo accoglie al suo interno. Nel 1907 Rilke
scrive alla moglie lettere intense su alcuni quadri di Cézanne esposti nel Salon
d'Automne. Le apparenze colte durante le passeggiate parigine e i moduli pittorici
di Cézanne s'incontrano nelle frasi di Rilke: «ecco giorni in cui tutto mi è intorno,
luminoso, leggero, appena accennato nell'aria chiara e pur nitido: quanto è vicino
ha i toni della lontananza, è tolto di mezzo e soltanto indicato, non collocato come
sempre, e quanto ha rapporto con la lontananza: il fiume, lo spazio, le strade lunghe
e le piazze prodighe – tutto questo ha preso la lontananza su di sé, l'appoggia su di
sé, è dipinto su di essa come su seta». 719 L'enigma dell'alterità e il senso d'una
lontananza possono essere tramandate, forse, soltanto dal linguaggio della poesia.

717 G. Carchia, Per una filosofia del paesaggio, in P. D'Angelo, Estetica e paesaggio, cit., pp. 207-218.
718 R. M. Rilke, Del paesaggio e altri scritti, cit., pp. 36-37.
719 R. M. Rilke, Lettere su Cézanne, cit., pp. 36-37.

365
Bibliografia
La redazione di una bibliografia organizzata secondo categorie di pertinenza
sarebbe stata più precisa, perché avrebbe distinto fra la critica letteraria, gli studî
geografici sul paesaggio, la storia e teoria dell'arte. Tuttavia, per consentire una più
semplice consultazione dei riferimenti, si è scelto di dividere la bibliografia soltanto
in due categorie: primaria per le opere oggetto della ricerca e secondaria (con
ordine alfabetico e cronologico all’interno del singolo autore) per i testi citati.
L'appendice sul paesaggio fornisce criteri ragionati per un migliore orientamento
fra i vari campi di interesse scientifico.

Bibliografia primaria.

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Romanzi e racconti, Volume primo, edizione a cura di C. Milanini, Mondadori,
Milano 1991.
Romanzi e racconti, Volume secondo, edizione a cura di C. Milanini, Mondadori,
Milano 1994.
Romanzi e racconti, Volume terzo, edizione a cura di C. Milanini, Mondadori,
Milano 1994.

CELATI, Gianni
Narratori delle pianure, Feltrinelli, Milano 1985.
Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989.

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Bibliografia dei testi citati.

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Le confessioni, a cura di M. Bettetini, Einaudi, Torino 2000.

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Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento olandese, Bollati Boringhieri, Torino
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ALTHEIM, Franz
Romanzo e decadenza, Settimo Sigillo, Roma 1995.

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Ringraziamenti

Ho scoperto Francesco Biamonti durante il mio primo anno di università grazie al consiglio
di Giorgio Ficara: dal suggerimento di allora s'origina il lungo percorso che si conclude qui.
Ringrazio Laura Nay ed Enrico Mattioda per l'attenzione e la disponibilità al dialogo
dimostrate in questi anni. Le discussioni su Calvino avute con Beatrice Manetti hanno
attenuato il senso di isolamento che ci circonda in accademia. Non dimentico Chiara
Fenoglio che mi ha ascoltato per un'intera mattina in un caffè accanto all'università. Le
segnalazioni e i consigli costanti di Claudio Panella sono stati gli stimoli più preziosi.
Iacopo è stato fra i primi lettori; lo ringrazio in attesa di raggiungere Brighton, città dove
gli scrittori s'allontanano. A Mara va il merito dell'apparenza delle lettere qui composte.
La mia ricerca si è svolta in tanti luoghi, e disparati; la biblioteca di geografia di Palazzo
Nuovo è stato il ritrovo più accogliente, finché è rimasta aperta. Il merito è dei lavoratori
che hanno trascorso lì il loro tempo.
Trattengo anche il ricordo della Casa Rosa di Apricale e dei suoi abitanti, spero un giorno
di tracciare il sentiero che dal fiume conduce ai terrazzamenti.
Con l'immaginazione abbandono i luoghi vicini. Ricordo con stima Marcello Tanca che mi
ha introdotto alla geografia del paesaggio. Poi penso a Winfried Schenk e a Jan-Erik
Steinkrüger che mi hanno accolto a Bonn e sono sempre stati disponibili. Infine ringrazio
Marina Spunta e Jacopo Benci che mi hanno ospitato a Leicester e hanno organizzato un
convegno dove sono stato bene.
Se menziono qui Gian Luca Picconi e tutti gli amici di Biamonti non è solo per ringraziarli.
Quando sono con loro sento che Francesco Biamonti ha lasciato dietro di sé un'idea di
comunità, un modo di stare assieme e di far fronte alla disgregazione delle cose.
Ma come ricordare le attenzioni e i privilegi che mi hanno permesso di giungere sin qui?
Senza i due Correttori di Bozze tutto questo non sarebbe esistito.

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