Sei sulla pagina 1di 120

ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DI BOLOGNA

SCUOLA DI LETTERE E BENI CULTURALI

Corso di Laurea in Italianistica, Culture Letterarie Europee


e Scienze Linguistiche

PARTENZE E RITORNI: LA PERCEZIONE DELL’ENTROTERRA NELLA PROSA


ITALIANA DEL NOVECENTO E DI OGGI

Tesi di laurea in
Prosa e generi narrativi del Novecento

Relatore: Prof. Stefano Colangelo

Correlatore: Prof. Alberto Bertoni

Presentata da: Daniele Costantini

Sessione
terza

Anno accademico
2019-2020
Indice

Introduzione ..................................................................................................................................................... 5
1. Spazio, ambiente, paesaggio: dai non-luoghi delle città contemporanee alla riscoperta
dell’entroterra ................................................................................................................................................ 12
1.1. Il mondo demo-etno-antropologico e le teorie di Marc Augé .............................................................. 12
1.2. Movimento e spostamenti: ieri e oggi .................................................................................................. 15
1.3. L’individuo moderno e la città: tra solitudine e socialità ..................................................................... 19
1.4. Un primo sguardo sull’entroterra: il poeta Ives Bonnefoy ................................................................... 23
1.5. Raffaele Milani ed Eugenio Turri, per una definizione di “paesaggio” ............................................... 25
1.6. L’entroterra come “iperluogo”?............................................................................................................ 28
2. L’entroterra come luogo di partenza, ritorno e sacrificio nella scrittura di Cesare Pavese ............... 33
2.1. Un primo sguardo sulla prosa di Pavese: Paesi tuoi e Feria d’agosto ................................................. 33
2.2 Etnologia e linguaggio in Paesi tuoi e Feria d’agosto .......................................................................... 35
2.3. Il mondo esterno e l’infanzia: salto e altrove nella poetica di Pavese .................................................. 38
2.3.1. Feria d’agosto ............................................................................................................................... 42
2.4. L’estate, una stagione perenne.............................................................................................................. 48
2.5. La luna e i falò: appartenenza ed estraneità nell’opera finale di Pavese .............................................. 49
2.6 Introduzione al mito nell’opera di Pavese ............................................................................................. 58
2.6.1. Mito e sacrificio: la festa ............................................................................................................... 60
2.6.2. Mito e sacrificio: terra, acqua e fuoco .......................................................................................... 62
2.6.3. Entroterra luogo del sacrificio? .................................................................................................... 67
3. Italo Calvino e Giorgio Manganelli, per una lettura incrociata del rapporto con l’entroterra ......... 70
3.1. Calvino e i suoi padri ............................................................................................................................ 70
3.2. Manganelli in Abruzzo: l’entroterra come luogo-tempo ...................................................................... 78
3.3. Un caso aggiuntivo: Flaiano come esempio di una simbiosi mancata ................................................. 85
4. Il panorama contemporaneo: Di Pietrantonio e Durastanti .................................................................. 89
4.1. L’arrivo dei barbari............................................................................................................................... 89
4.2. Donatella Di Pietrantonio: un racconto moderno dell’entroterra ......................................................... 90
4.2.1. I movimenti da e verso l’entroterra ............................................................................................... 92
4.2.2. Restare ........................................................................................................................................... 93
4.2.3. Partire............................................................................................................................................ 95
4.2.4. Tornare .......................................................................................................................................... 98
4.3. La ritornante per antonomasia: L’Arminuta ......................................................................................... 98
2
4.3.1. Il mancato ritorno........................................................................................................................ 100
4.4. Nuovi linguaggi .................................................................................................................................. 103
4.5. Tra appartenenza ed estraneità: La straniera di Claudia Durastanti .................................................. 106
Conclusioni ................................................................................................................................................... 112
Bibliografia................................................................................................................................................... 114
Sitografia ...................................................................................................................................................... 118
Ringraziamenti ............................................................................................................................................ 119

3
C’era in quel crepitìo un silenzio mortale, di
luogo chiuso e deserto, che schiudeva nel
cielo lontano una promessa di vita ignota,
impervia e seducente come le colline.

Cesare Pavese, Il campo di granturco


Introduzione

Da sempre l’uomo si muove. Viaggia, si sposta, parte e spesso


ritorna. Da ogni luogo verso ogni luogo; non esiste probabilmente
superficie che non sia stata punto di avvio o di approdo nel costante
movimento dell’essere umano. Ci sono però luoghi privilegiati rispetto
ad altri, luoghi così intimi e importanti che tendono a preservarsi, più o
meno intatti, nella memoria e tra i bisogni di uomini e donne. Questo
perché con il raggiungimento dell’età adulta subentra, molto spesso,
una presa di coscienza di sé e di quello che si percepisce come il proprio
luogo. Serve, infatti, essere usciti dall’infanzia e dalla prima giovinezza
per acquisire gli strumenti utili ai fini di una non facile decodifica. Ciò
che attraverso questa tesi si intende fare è soffermarsi su una certa
tipologia di luoghi e indagarne l’essenza agli occhi di chi, nel corso del
Novecento, ne ha parlato in letteratura. L’attenzione maggiore è
riservata agli autori italiani che, da autoctoni o da viaggiatori, hanno
indagato il proprio rapporto con realtà tra loro distanti eppure simili.
Il punto fermo da tenere in considerazione da qui in avanti è
Giovanni Verga: la sua esistenza e la sua produzione, entrambe
conclusesi quando gli autori di cui si parla vivranno e scriveranno,
saranno da questo punto in poi date per scontate, per la semplice
motivazione che un esaustivo preambolo sulla produzione verghiana
avrebbe portato via del tempo, che si è invece preferito dedicare
all’analisi di lavori letterari successivi, che hanno portato avanti (in
maniera più o meno diretta ed evidente) una riflessione sull’entroterra
e sulla periferia, sul legame che gli abitanti instaurano con certi luoghi
e sulla loro condizione, spesso di ultimi e umili. L’attenzione si pone
però anche su coloro i quali hanno deciso spontaneamente, non
appartenendo ad alcun entroterra, ma anzi a luoghi in qualche maniera
opposti (grandi città, nuovi quartieri proletari, aree altamente
industrializzate), di ricercare una propria dimensione e un senso di
appartenenza lontano dalla dominante globalizzazione del mondo
contemporaneo. Scrittori, poeti e filosofi che, sentendosi estranei nel
proprio contesto d’origine, stretti in uno spazio giudicato angusto, o
addirittura definendosi apolidi, senza nazionalità né il minimo legame
emotivo nei confronti di un paesaggio o di uno scorcio, si sono fatti
adottare da un luogo prima cercato, consciamente o meno, e infine
scelto come punto di arrivo – fisico o anche solo spirituale – del proprio
peregrinare. L’entroterra ancestrale, l’entroterra difficile e ostile,
controverso e violento, ma anche genuino, sanguigno e meraviglioso,
ha assunto per personalità come il poeta francese Ives Bonnefoy – o
come Cesare Pavese – le caratteristiche di un porto da cui salpare e in
cui tornare e attraccare in ogni momento della vita.

5
L’entroterra è una dimensione in grado di fornire radici e ali: questa
è la tesi che il presente lavoro intende sostenere. Lo si fa a partire
dall’analisi – nel primo capitolo – delle scienze che studiano le relazioni
degli umani con gli spazi della natura che abitano, le cosiddette scienze
demo-etno-antropologiche, i cui massimi esponenti sono oggi Zygmunt
Bauman e Marc Augé, ma che hanno ricevuto contributi importanti
anche dalla scena italiana, specialmente grazie a Eugenio Turri, grande
indagatore del concetto di “paesaggio”.
Da Marc Augé si prende in prestito il concetto di “non-luogo” (da
non-lieux), nonché il neologismo con il quale l’antropologo ha reso
celebre la sua teoria sui luoghi disumanizzati: “surmodernità” (da
surmodernité), sondandone la solidità (non mancano le antitesi, come
quella presentata dal geografo Michel Lussault) e tentando di erigere il
concetto di entroterra a “iperluogo”, in accordo con la base logica di
Augé e in netta opposizione alle caratteristiche della sua creatura (il
non-luogo, per l’appunto). Da Bauman si mutuano invece i concetti di
“modernità liquida” e “società liquida”, per capire meglio come e in
cosa sia mutato il movimento dell’essere umano all’interno degli spazi
che egli poi trasforma in “luoghi antropologici”. Sul tipo di movimento
dell’era post-moderna si insiste particolarmente, in quanto concetto
profondamente legato all’evoluzione della percezione della natura e
dell’esperienza quotidiana, nella vita e nell’arte, da parte dell’uomo
comune. Non a caso si cita (seppur nell’ultimo capitolo, al momento di
tirare le somme del discorso) anche il saggio di Alessandro Baricco, I
Barbari, in cui l’autore propone un’attenta analisi dei comportamenti e
delle percezioni delle nuove generazioni umane, sempre più votate a un
movimento orizzontale e sempre meno a quello verticale. Oggi infatti,
in piena era digitale, i “barbari” si muovono rapidi e a pelo d’acqua:
hanno sacrificato l’atto del sondare abissi di senso per privilegiare una
rapidità di movimento che garantisce loro massima copertura della
superficie. Nel primo capitolo si prende inoltre in considerazione lo
studio condotto dal sociologo americano Richard Sennett sui contesti
urbani attuali, tenendo presente in particolare uno dei suoi ultimi lavori,
tradotto in italiano con il titolo Costruire e abitare; un libro utile anche
nell’indagine dei fenomeni migratori, di partenza e di ritorno, che
continuano ad interessare i singoli individui e le comunità.
Dopo aver costruito una base teorica riguardo etnografia, etnologia,
antropologia e sociologia, si passa all’indagine letteraria del panorama
italiano della seconda metà del Novecento, in particolare di alcune
opere scelte per la loro profonda immersione nel rapporto uomo-natura
e uomo-luogo. Alcune di esse sono interamente o parzialmente
autobiografiche. Si è infatti voluto concedere un certo spazio alla
valenza autobiografica di alcune esperienze raccontate in letteratura; lo
si è fatto nel caso di Pavese e di Calvino portando avanti il doppio

6
binario opera-vita, ma lo si è fatto anche in casi in cui l’esperienza di
vita è messa in primo piano (il desiderio di fuga di Giacomo Leopardi,
nell’ultimo capitolo). In linea generale, comunque, si è cercato sempre
di non intendere l’opera di uno scrittore come un mero reportage di
esperienze di vita, ma di scandagliare le profondità che ogni romanzo o
racconto di volta in volta poneva davanti.
Il secondo capitolo è interamente dedicato alla produzione letteraria
di Cesare Pavese, prendendo in esame la quasi totalità delle sue opere
in prosa (da Paesi tuoi, la prima, a La luna e i falò, l’ultima). Si è
ritenuto opportuno leggere in maniera quanto più attenta possibile
anche i racconti, spesso sottovalutati, specchio di un’evoluzione sia nel
modo di scrivere che in quello di percepire la realtà circostante.
L’autore infatti, nelle sue storie, ha più volte riproposto uno schema
preciso: un protagonista, giovane o adulto, sente improvvisa e
insopprimibile l’esigenza di partire, indipendentemente dall’entità dello
spostamento (può trattarsi di un trasferimento dalla campagna alla città
più vicina o della partenza per l’America, il “Nuovo Mondo” per
eccellenza), per scoprire cosa l’orizzonte nasconda alla sua vista oltre
prati e colline. Gli esiti sono poi vari e tra loro diversi, così come varie
sono le declinazioni date al rapporto campagna-città e personaggio
campagnolo-personaggio cittadino. È come un mazzo di carte
continuamente rimescolato e sparso sul tavolo: gli elementi sono
sempre gli stessi, si impara a conoscerli e a riconoscerli, ma le
combinazioni sono numerosissime, per cui ogni volta il risultato sarà
differente. È stato interessante, nello specifico, approfondire anche un
altro grande tema pavesiano: il dualismo tra mito e realtà, lì dove il mito
racchiude l’età antica del genere umano e quella infantile del singolo
uomo, e dove la realtà è qualcosa di sfuggente e inafferrabile (ben più
del mito) che può essere esperito solo attraverso un’autentica presa di
contatto, a tutti i livelli, con se stessi. Dei romanzi e dei racconti
pavesiani si è presa in esame anche la lingua utilizzata che, come
osservato da illustri critici nel corso degli anni, contribuisce a rimarcare
la distanza sociale e culturale tra campagna e città. Alcuni protagonisti
di Pavese infatti, come il Berto di Paesi tuoi, sono cittadini ritrovatisi
in campagna, in un mondo ai loro occhi estraneo e incomprensibile, in
cui soggetti che sembrano provenire da un’altra dimensione temporale
(come se il tempo lì si fosse fermato) compiono atti intrisi di animalità
e selvatichezza. Altri personaggi invece, nati e cresciuti in campagna,
presentano caratteristiche di ambiguità ma anche di profonda umanità,
un’umanità talvolta segnata dall’ignoranza, ma comunque spontanea (si
pensi, in questo caso, a Nuto, l’amico che Anguilla ritrova quando fa
ritorno nelle langhe piemontesi). L’indagine linguistica torna poi nel
finale, quando ci si occupa della scrittura di Donatella Di Pietrantonio
che ha, probabilmente, assorbito alcune qualità della lingua ibrida di

7
Pavese (fatta di italiano e dialetto o, più precisamente, di un italiano
minuziosamente dialettizzato) tentando di proporne una sua personale
versione, forse però troppo influenzata dai filoni emulativi
contemporanei che tendono ad insistere su tematiche ben precise,
sottraendo profondità alla ricerca (linguistica o tematica) e rischiando
di scadere nella banalità.
Un discorso che non si è reso al contrario necessario per Calvino: nel
suo caso non è stata indagata la lingua perché non presentava gli aspetti
sperimentali legati a dialetto e oralità. Il linguaggio calviniano è
limpido, l’unica ricerca che porta avanti è quella dell’esattezza. Dello
scrittore ligure, che apre il terzo capitolo, si è scelto di affrontare un
unico racconto, piuttosto breve, che contiene la storia di un ragazzo
insofferente durante gli anni trascorsi nella campagna sanremese, e
finalmente libero una volta spiccato il volo verso l’altrove (nel suo caso
incarnato da città come Torino e Parigi). Il racconto in questione è La
strada di San Giovanni, in cui l’autore si abbandona a una rimembranza
dolce ma inquieta dei suoi anni di adolescente, in quella casa paterna a
metà tra campagna e città (la città è Sanremo) che rappresentava per lui
l’àncora che tratteneva i suoi sogni di letterato. Viene fuori, dalle stesse
pagine, un ritratto di suo padre e del loro rapporto controverso e
reticente (scriverà, Calvino, di una profonda distanza tra lo stile di vita
del padre e quello che lui avrebbe voluto adottare, e soprattutto
dell’incomunicabilità che impediva loro di guardare e vivere la natura,
in cui erano quotidianamente immersi, allo stesso modo). Suo padre,
agronomo e fiero proprietario di un florido podere (lungo la strada di
San Giovanni, appunto), viveva una specie di simbiosi con quella terra,
preferendo la zona interna del territorio sanremese a quella cittadina,
caotica e movimentata, che tanto affascinava suo figlio. È sembrato
opportuno porre l’attenzione su questo dualismo familiare per mettere
in risalto anche la differenza generazionale che spesso separa padri e
figli e che in questo caso specifico si è manifestata attraverso la
divergenza percettiva del proprio luogo natìo. Si è portato avanti,
insomma, seguendo l’esperienza di Calvino, il discorso avviato con
Pavese e i suoi personaggi, riguardante la dicotomia restare/partire nelle
opere – e nelle vite – dei più grandi narratori dell’entroterra del
Novecento. Non a caso è inserita nello stesso capitolo La favola
pitagorica di Giorgio Manganelli, un reportage di viaggio in alcune aree
interne dell’Italia, tra cui Umbria e Abruzzo. L’Abruzzo è stato trattato
con maggior attenzione perché il viaggio di Manganelli (non da turista
ma da viaggiatore-osservatore) anticipa le narrazioni totalmente
abruzzesi di Di Pietrantonio, e anche per questo si è deciso di introdurre
quel che potrebbe definirsi un “filone abruzzese” con una breve
digressione su Ignazio Silone, narratore delle campagne, delle zone
rurali e dei loro abitanti, gente umile e ingenua continuamente

8
soggiogata da un potere che, in maniera emblematica, ha sede in città.
Tornando a Manganelli, poi, si vede come egli indaghi, con minuziosa
perizia di osservatore, due elementi ben precisi che quella terra brulla e
verde, selvatica e ospitale gli presenta: il freddo e il silenzio. La sua
pare diventare, da un certo punto in poi, l’immersione in un mondo
mitico e ancestrale, che dissolve completamente ogni immaginario
cittadino e globalizzato, rivendicando con slancio poetico la forza e la
saggezza intrinseche alla natura. Con lo slancio fornito dalla favola
realistica di Manganelli si è citato, più come omaggio che come caso di
studio, un altro abruzzese: Ennio Flaiano. Lui, pescarese di nascita e
romano d’adozione, funge da raccordo, attraverso il breve cenno alla
sua esperienza personale, tra due capitoli; l’accento è messo infatti sulla
sua identità di emigrato, non pentito ma nostalgico, che ha trovato a
Roma un habitat più congeniale alla sua persona ma che si è sempre
portato dentro una sorta di rimorso per non essersi mai dedicato con
tempo e attenzione alla scoperta della regione che gli aveva dato i natali
(accudendo, in questo modo, un irrisolto personale, psicologico ed
emotivo).
Il quarto capitolo, infine, è una panoramica sulla letteratura italiana
contemporanea. Si rimane nell’ottica della simbiosi uomo-natura e del
dualismo città-campagna, presentando prima le dinamiche
maggiormente coinvolte in tale dualismo: il restare (quello che fa Mario
Calvino), il partire (sintetizzato nel caso biografico di Leopardi) e il
tornare (tipico di Pavese e dei suoi personaggi, l’Anguilla de La luna e
i falò su tutti, e della protagonista de L’Arminuta, qui definita
“ritornante per eccellenza”); senza tralasciare però i movimenti
mancanti, altrettanto determinanti: mancata partenza e mancato ritorno.
Due nomi nello scenario contemporaneo sono sembrati maggiormente
pertinenti: Donatella di Pietrantonio, già citata, e Claudia Durastanti.
La prima, autrice di Mia madre è un fiume, Bella mia, L’Arminuta e
Borgo Sud, è stata la scelta più ovvia per dare continuità alle descrizioni
manganelliane del territorio abruzzese; lei infatti, autoctona, dedica alla
regione nella quale ha deciso di restare a vivere non soltanto
l’attenzione all’interno dei romanzi ma anche la sua attività di scrittrice
extra-romanziera, come si riscontra nel caso di un editoriale scritto per
“L’Espresso” in cui affronta una questione sentita dalla sua comunità,
quella cioè del progressivo smembramento della struttura ospedaliera
di Penne (in provincia di Pescara), baricentro fondamentale per diversi
paesi del circondario. Si sottolinea poi l’importanza che il tema della
maternità ricopre nelle sue opere, tutte segnate da un complesso
rapporto madre-figlia o madre-figlio, di cui forse si ha la massima
espressione in Bella mia, romanzo che porta in scena le difficoltà di
un’appartenenza messa in crisi dalla tragedia: una città, L’Aquila,
madre dei suoi abitanti, gravemente ferita dal terremoto del 2009, alle

9
prese con il lento e doloroso processo di ricostruzione, e la storia
parallela di una giovane donna che si ritrova improvvisamente ad
accudire il nipote adolescente dopo la morte di sua sorella, madre del
ragazzo. L’autrice intesse una doppia trama potenzialmente
interessante, che si perde però tra le effimere vie della letteratura di
consumo, non riuscendo a reggere il peso di tanto dolore e optando, alla
fine, per una narrazione aneddotica e semplicistica. Va forse anticipato
fin da ora, nonostante la premessa che apre l’ultimo capitolo, che i nomi
contemporanei scelti sono stati trattati con la chiara consapevolezza
dell’abisso intercorso tra gli autori del Novecento e loro. Anche per
questo si è fatto ricorso alla guida fornita da Gianluigi Simonetti con il
volume La letteratura circostante, per delineare un quadro veritiero del
panorama letterario attuale, inesorabilmente afflitto da logiche di
mercato e da filoni letterari che, assieme alla velocità di cui scrive
Baricco, favoriscono il proliferare di “best-seller”, andando a
impoverire sempre più quella nicchia di letteratura di qualità. Donatella
Di Pietrantonio è stata però utile ai fini di questo lavoro come voce
attuale convinta che l’entroterra può oggi essere scelto; si può, cioè,
scegliere di restare, di non partire, di rimanere a vivere la propria intera
vita nel paese o nel piccolo borgo in cui si è nati, per evitare e
combattere il pericoloso e impetuoso processo di abbandono e
spopolamento di aree interne, rurali e pedemontane. L’autrice infatti ha
scelto di restare tra il comune di Arsita e quello di Penne, e di scrivere
da lì, rinunciando alla quotidianità negli ambienti letterari delle grandi
città.
Claudia Durastanti, autrice de La straniera, incarna al contrario,
come aveva fatto Calvino prima di lei, la voglia di partire, muoversi e
spostarsi, alla ricerca di qualcosa che i luoghi d’origine (nel suo caso
più di uno) non avevano saputo darle. Il romanzo è, seppur
parzialmente, la storia della sua vita, essendo la protagonista nata in
America e trasferitasi da bambina in Basilicata, regione aspra e arretrata
rispetto al mondo che aveva conosciuto nei primi anni di vita. Solo che
lei, la protagonista del libro, non si adatterà mai fino in fondo a quella
terra, non riuscirà a penetrarvi, così come quella terra non riuscirà ad
accoglierla, e resterà, insieme a sua madre, in un limbo di appartenenza
ambigua, come due apolidi e allo stesso tempo due cittadine del mondo,
di ogni dove e ogni altrove. Una condizione rara, in passato, ma sempre
più comune oggi, in un tempo in cui i confini vanno continuamente
assottigliandosi e in cui è possibile, grazie a una nuova logica di
movimento assecondata perfettamente dalle evolute tecnologie dei
mezzi di trasporto e dai viaggi rapidi, raggiungere qualunque parte del
mondo senza grandi ostacoli. La globalità è ormai una realtà, e ciò non
può non dar vita a dinamiche sempre nuove e innovative, veicolo tanto
di prospettive future incoraggianti legate al progresso, quanto di

10
alienazione e abbandono; si potrebbe dire che si passa, in molti casi, dal
rapporto con il paesaggio a quello con lo spaesamento. E se Pavese
cercava un perché al suo paese, Durastanti cerca un perché al suo essere
in un paese, al suo abitare un luogo piuttosto che un altro, al suo
continuo e inarrestabile moto alla ricerca di un senso d’appartenenza,
ponendo in risalto le tante difficoltà del cambiamento e
dell’adattamento.
Ecco, questo lavoro vuole, in definitiva, rappresentare modi diversi
di percepire il mondo e il proprio sé nel mondo. Partendo dalle nuove
megalopoli, passando per le colline di Santo Stefano Belbo, le langhe
piemontesi e la campagna ligure, per arrivare nel freddo e silenzioso
Abruzzo e nella schiva Basilicata: diverse esperienze di vita, diverse
trame, diversi rapporti con la natura circostante. Eppure, una cosa in
comune questi casi forse ce l’hanno: l’entroterra rappresenta, sempre,
una dimensione autentica e viscerale, fuori dal tempo e dal mondo:
rappresenta, cioè, l’inconscio umano. Per questo può essere definito
“iperluogo”, perché è tutto ciò che un non-luogo non è. È la
trasposizione esterna della parte più nascosta, primitiva e misteriosa
dell’animo umano, quella che tiene conto della propria identità, della
propria solitudine ma anche dell’inevitabilità del relazionarsi con i suoi
simili, in modo diretto, tangibile, memorabile (creatore cioè di ricordi).
E a prescindere dal fatto che poi i vari personaggi delle varie storie e gli
autori e le autrici delle storie stesse decidano di restare, partire, tornare
o fuggire via per sempre, mai nessuno di loro riuscirà ad evitare il
confronto con ciò che è, nel presente, con ciò che è stato, nel passato, e
con ciò che vorrebbe essere.

11
1. Spazio, ambiente, paesaggio: dai non-luoghi delle città
contemporanee alla riscoperta dell’entroterra

1.1. Il mondo demo-etno-antropologico e le teorie di Marc Augé

Fino a qualche anno fa, l’etnografia era intesa come lo studio delle
pratiche e delle credenze di gruppi umani non occidentali, nonché come
enumerazione delle diverse società cosiddette “primitive”. Oggi,
invece, viene fatta combaciare con lo studio antropologico, compiuto
direttamente sul campo, dei comportamenti sociali e culturali di un
qualsiasi aggregato umano, preventivamente definito in base agli
interessi dell’osservatore. Da disciplina indissolubilmente legata
all’indagine concreta e diretta, è spesso contrapposta all’etnologia, lo
studio cioè delle culture umane, delle loro forme e dei loro processi di
trasformazione, che viaggia principalmente su binari teorici. Per il
discorso che ci si appresta a cominciare è importante avere ben chiara
l’importanza di discipline come le due citate, ma anche di materie più
ampie come l’antropologia. Claude Lévi-Strauss in Antropologia
strutturale del 1958 aveva addirittura proposto di concepire etnografia,
etnologia e antropologia come componenti di un unico procedimento
analitico, esemplificando in questo modo l’eterogeneità e insieme
l’unità della disciplina antropologica 1 . Includendo, nel processo di
studio di aspetti legati all’esistenza umana, l’importanza cruciale della
sociologia (che ha per oggetto i fenomeni sociali indagati nelle loro
cause e manifestazioni, nei loro processi ed effetti, nei loro rapporti
reciproci e con altri fenomeni), non si può non riconoscere ai pensatori
francesi il merito di aver apportato determinanti innovazioni in
quest’ambito. Senza andare troppo indietro nel tempo, vanno ricordati
almeno, a partire dall’Ottocento, Auguste Comte (1798 – 1857),
coniatore del termine “sociologia”, Émile Durkheim (1858 – 1917), il
citato Lévi-Strauss (1908 – 2009), Michel de Certeau (1925 – 1986) e
il contemporaneo Marc Augé (1935). Il contributo di tali studiosi a
quelle che vengono oggi definitive scienze demo-etno-antropologiche
giustificherà almeno in parte lo spazio riservato a nomi francesi nel
corso di questo primo capitolo.

Marc Augé, antropologo ed etnologo (francese, per l’appunto) si è


dedicato, a partire dagli anni Settanta del Novecento, all’osservazione
della società metropolitana contemporanea, soffermandosi nel corso dei
suoi studi su un concetto di luogo ben preciso, delineato e plasmato

1
cfr. C. Lévi-Strauss, Anthropologie structurale, Plon, Paris 1960, trad. it. P. Caruso, Antropologia strutturale, Il
Saggiatore, Milano 2015
12
attraverso i casi di volta in volta osservati (come l’incremento della
solitudine individuale nonostante la nascita e il massiccio sviluppo dei
mezzi di comunicazione, o la relazione tra io e altro nel contesto
europeo di fine millennio), che ha identificato con un neologismo, non-
lieux, tradotto in italiano sia con “non-luogo” che, più comunemente,
con “nonluogo”. Il nonluogo è, secondo Augé, il frutto della modernità,
o meglio della postmodernità, un luogo anonimo e stereotipato, privo
di storicità e frequentato da gruppi di persone freneticamente in transito,
che non si relazionano tra loro se non per finalità strettamente pratiche
e con la massima superficialità di contatto. Per questo motivo sono
definiti nonluoghi ambienti come: centri commerciali, alberghi,
aeroporti, autostrade, stazioni di servizio. Secondo l’antropologo, la
qualità principale di un luogo “classico”, infatti, sta nella capacità di
creare connessioni non meccaniche tra chi lo attraversa o lo abita; esso
è perciò uno spazio in cui è possibile decifrare le relazioni sociali che
vi si inscrivono, i simboli che uniscono gli individui e la storia che
condividono (il che significa che i luoghi tendono a creare legami e
momenti di condivisione tra soggetti che vivono un certo spazio nello
stesso momento). Per Augé uno spazio diventa luogo, e più
precisamente luogo antropologico, quando è: identitario, relazionale e
storico. Il nonluogo, al contrario, non dà vita né a tentativi né a
fenomeni compiuti di socialità vera, essendo formato di spazi
estranianti e “deculturalizzati” che giacciono concettualmente
all'estremo opposto del luogo antropologico, come ha spiegato anche
Richard Sennett facendo un esempio: «In autostrada, fate un viaggio,
ma non imparate nulla sugli altri. Vi muovete nello spazio e non fate
l’esperienza del luogo»2. Augé precisa subito però, nell’opera in cui
presenta la sua teoria, Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de
la surmodernité, che il dualismo non determina la creazione di un
positivo e un negativo, non è cioè una contrapposizione dicotomica che
vede il luogo come entità positiva e benefica e il suo opposto come una
nemesi dannosa, ma che si tratta piuttosto di un dato nato
dall’osservazione di determinati fenomeni sociali e antropologici. Anzi,
gli aspetti negativi si nascondono anche in quei luoghi fatti di socialità,
perché la società osserva e spesso giudica, e di conseguenza può
escludere, soffocare o imprigionare. Per questo ai legami e al senso di
comunità non è raro che si tenti di sfuggire, sentendo forte l’esigenza di
cercare e imporre la propria individualità in una realtà sempre più iper-
connessa e agglomerante. Per fare chiarezza: il nonluogo si oppone al
luogo come significato, in quanto orfano di tutti gli elementi che
caratterizzano quest’ultimo, ma sono entrambe realtà non oggettive, che
non esistono cioè mai in forma pura. Sono piuttosto due polarità

2
R. Sennett, Building and Dwelling. Ehtics for the city, Farrar, Straus and Giroux, New York 2018, trad. it. C.
Spinoglio, Costruire e abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018, p. 186
13
sfuggenti: l’uno non è mai totalmente cancellato e superato, l’altro non
si compie mai completamente: nella realtà non esistono in senso
assoluto, la contrapposizione luogo/nonluogo è uno strumento di
misura del grado di socialità e di simbolizzazione di uno spazio. Per
spiegare meglio la sua teoria, l’autore francese si è servito di un altro
neologismo: “surmodernité” (in italiano surmodernità o
sovramodernità). Con questo termine ha voluto indicare una fase di
ulteriore sviluppo sociale, culturale e antropologico seguita alla
postmodernità, che assume il ruolo fondamentale di produttrice,
attraverso l’eccesso, di nonluoghi antropologici. Nell’ottica di Augé,
infatti, a caratterizzare il periodo storico attualmente in atto è proprio
l’eccesso, che si manifesta in tre diverse forme:

1. eccesso di tempo: la difficoltà cioè di pensare il tempo a causa della


sovrabbondanza di avvenimenti che accadono nel mondo e che
all’istante si conoscono;
2. eccesso di spazio: la conquista da parte dell’uomo di tutto lo spazio
terrestre a sua disposizione ha determinato il restringimento del
pianeta, fornendo la nuova possibilità di raggiungere ogni punto di
una carta geografica velocemente e comodamente grazie ai mezzi
di trasporto rapido;
3. eccesso di ego: ogni individuo si propone di interpretare da sé e per
sé le informazioni che gli vengono date, considerandosi un mondo
a sé stante, e questo porta ad una individualizzazione dei riferimenti.

Tutto ciò induce a considerare il concetto di luogo e quello di spazio


e a ribadire la differenza che li separa: lo spazio è libero, il luogo è
antropologico. Augé fa un esempio:

Quando un aereo delle linee internazionali sorvola l’Arabia


Saudita, la hostess annuncia che il consumo di alcool è proibito.
L’intrusione del territorio nello spazio è così significata.
Terra=società=nazione=cultura=religione: l’equazione del luogo
antropologico si ripropone fuggevolmente nello spazio.
Ritrovare, poco più tardi, il nonluogo dello spazio, sfuggendo al
vincolo totalitario del luogo, è un po’ come ritrovare qualcosa
che somiglia alla libertà3.

Lo spazio è quindi un nonluogo, perché in linea teorica non soggetto


ad alcuna legge, giurisdizione o rivendicazione di possesso; il luogo
nasce invece nel momento in cui qualcuno (un popolo, una comunità,
un individuo) stabilisce un contratto sociale con i suoi simili per

3
M. Augé, Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Éditions du Seuil, Paris 1992, trad. it.
Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 2008, p. 103
14
assicurarsi il controllo di una determinata area, o la conquista con la
forza, o la ottiene sulla base di altre dinamiche. Nel momento in cui un
luogo esiste, e in esso è rintracciabile una presenza umana, esso diviene
luogo antropologico. E se lo spazio è un nonluogo, ribaltando la visione,
si può affermare che i nonluoghi sono spazi anonimi, sempre più
numerosi e frequentati da individui simili e soli, che rappresentano
l’epoca in corso, ne sono specchio e riassunto attraverso alcuni elementi
principali: velocità d’interazione, rapidità di movimento, svuotamento
di senso, consumismo.

1.2. Movimento e spostamenti: ieri e oggi

Se è vero che l’epoca “sovramoderna” è contraddistinta da una


mobilizzazione infinita, che porta uomini e donne a spostarsi
continuamente e a mettersi in movimento – grazie soprattutto a un
assottigliamento dei confini – è anche vero che costoro sembrano fare
sempre più fatica nel trovare un luogo che possano sentire come casa.
La globalità e il cosmopolitismo del mondo moderno hanno da una
parte reso più accessibili i movimenti verso ogni tipo di altrove,
dall’altra hanno confuso ancor di più le idee riguardo cosa possa esser
considerato luogo proprio e cosa altrove, cosa si cerchi e dove sia
possibile trovarlo. E se Foucault parlando di «eterotopie» 4 (luoghi
aperti su altri luoghi, comunicazione tra spazi) ha dato vita a teorie
ancor oggi discusse riguardo la totale apertura (quasi fusione) tra spazi
fisici e realtà metafisiche differenti, sembra invece certo come l’essere
ormai, potenzialmente, tutti cittadini del mondo abbia messo in
discussione il concetto di altrove. A questo proposito, il filosofo Paolo
Quintili nel breve saggio Lo spazio della felicità, che fa da introduzione
all’edizione italiana dell’opera di Marc Augé Piccole felicità. Malgrado
tutto…, definendo l’altrove come un’alterità, ha scritto di come la
surmodernità abbia superato la velocità di movimento della modernità
(«Per noi non c’è mobilità se non nei termini della velocità, della
rapidità, dell’istantaneità»5) ma anche di come le due epoche che tuttora
sembrano vivere accavallate siano profondamente segnate dalla ricerca
di un altrove, cioè dal mettersi in moto, non restando fermi in punto.
Quintili crede che l’essere umano sia, sempre e da sempre, collocato in
un altrove – definibile come tutto ciò che è altro da sé – e che questo

4
Per un adeguato approfondimento sul concetto di eterotopia elaborato da Foucault si rimanda al volume, ricco di lucidi
interventi da parte di diversi studiosi, curato da Tiziana Villani (direttore, tra l’altro, delle Edizioni Eterotopia France):
Eterotopia. Luoghi e non-luoghi metropolitani, Mimesis, Milano 1994
5
P. Quintili, Lo spazio della felicità, introduzione a M. Augé, Piccole felicità. Malgrado tutto…, Castelvecchi (Lit
Edizioni), Roma 2020, p. 13 s.
15
altro-altrove sia naturalmente legato all’atto di spostarsi, partire,
migrare (a prescindere che si tratti di partenza volontaria e
programmata, decisione ponderata, ricerca di un maggior benessere o
fuga). Certamente il modo in cui ci si sposta è profondamente mutato;
basti pensare a quello che scriveva Rousseau nel 1782 in Le
fantasticherie del passeggiatore solitario a proposito del movimento,
che nel suo caso doveva essere, e poteva esserlo, rigorosamente lento,
per avere il tempo di fissare lo sguardo in modo adeguato sulle cose
osservate; il viaggio in carrozza era un abominio, un’aggressione alla
riflessività: passeggiare a piedi, lentamente, gli permetteva di ascoltare
e guardare davvero. Che è, in fondo, il concetto espresso da Ennio
Flaiano in una lettera inviata all’amico Pasquale Scarpitti quasi due
secoli dopo le passeggiate del filosofo svizzero, quando, parlando del
suo rapporto con la regione che gli aveva dato i natali, l’Abruzzo,
confessa di conoscere poco quella terra, avendola abbandonata presto
ed essendoci sempre tornato di fretta, e avendo così solo di sfuggita
visto il paese d’origine di sua madre, Montepagano, guardato sempre
dal finestrino di un’automobile come fanno i «poveri viaggiatori
d’oggi»6.
L’atto di spostarsi ha sempre avuto una dimensione sentimentale,
autentica, perché intima e riflessiva, tipica della figura del flaneur, il
passeggiatore svagato e a momenti curioso già descritto da Rousseau,
che sarà poi reso celebre nell’Ottocento da Charles Baudelaire e in
seguito ripreso da numerosi autori impegnati nell’indagine sociologica
e urbanistica dei luoghi nel corso delle epoche, come ad esempio Pier
Paolo Pasolini, che negli anni Cinquanta del Novecento, come ha notato
Mario Sechi, «cammina per quartieri poveri e borghesi e nota le
differenze e il modo in cui il paesaggio urbano divide due mondi»7. Lo
sguardo del passeggiatore tranquillo ma attento, che anzi riesce ad
essere attento proprio perché tranquillo, offre secondo il sociologo
Richard Sennett «un’informazione visiva liminale maggiore»8, quella
cioè del movimento lento, che si contrappone a uno sguardo meccanico,
forzato e distratto, più vuoto di senso, incarnato dal movimento rapido
che porta, tra le altre cose e sempre a detta di Sennett, a essere meno
consapevoli dei dettagli dell’ambiente (egli ha definito quello che si
diffonderà in senso fisico e urbanistico alla fine del 1800 il «problema
della circolazione motorizzata, che annienta la consapevolezza
dell’ambiente e cancella l’incanto dei singoli luoghi, mentre ci si muove
nello spazio a folle velocità»9). Nel suo ultimo libro, uscito in Italia nel
2018, il sociologo e urbanista statunitense ha avanzato ipotesi molto

6
P. Scarpitti, Discanto, Sarus, Teramo 1972, p. 50
7
M. Sechi, Centri e periferie di città in Pasolini e Volponi, in “Urbanistica”, 125, settembre-dicembre 2004, pp. 90-96
8
R. Sennett, Costruire e abitare, cit., p. 49
9
Ibid.
16
interessanti, concentrandosi principalmente sull’aspetto fisico e
progettistico degli spazi e dei luoghi contemporanei (città, metropoli,
megalopoli), partendo proprio dal concetto di velocità. Nel primo
capitolo scrive:

Anche oggi, con sconvolgenti esplosioni urbane come quella


di Pechino, i progettisti, sulla scia di Haussmann, impiegano
somme di denaro stratosferiche per le strade a percorrenza
veloce. L’esperienza della velocità stradale implica una certa
visione di modernità: la rapidità incarna la libertà, la lentezza la
sua mancanza. Spostarsi come e dove si vuole, veloci come si
desidera: con questo motto, perde pregnanza il senso dell’abitare
in un luogo e di conoscerlo profondamente; non si fa che
attraversarlo10.

Dello stesso avviso era già nel 2004, portando avanti una riflessione
avviata circa trent’anni prima, Eugenio Turri, grande paesaggista
italiano, quando ne Il paesaggio e il silenzio scriveva «[de]gli effetti
della mobilità attuale, che consente il viaggiare e il muoversi dell’uomo,
ponendo in stretta comunicazione le culture, alimentando nell’uomo la
sua autoreferenzialità di una continua eteroreferenzialità
(alloreferenzialità) per usare la terminologia di Luhmann» 11 . Anche
Turri si rifà a Rousseau, sottolineando come le impressioni di un
viaggiatore siano prevalentemente visive se viaggia in treno o in aereo
– o comunque su un mezzo di locomozione – e al contrario più totali e
vissute con tutti i sensi se si muove a piedi. C’è differenza, usando le
sue parole, «tra questi due modi di viaggiare, differenza di approccio
alle cose, di modi di appropriazione […]»; e più avanti: «Così il
viaggiare guardando dal finestrino di un treno, di un’auto o di un aereo,
ci mostra il mondo come organizzazione di segni o come spettacolo,
dato che – in certa misura – siamo avulsi, estranei ad esso»12.

Tutti gli indizi portano dunque a pensare che oggi a prevalere sia lo
spostamento rapido, il che sarebbe dovuto, secondo Quintili ma anche,
come si vedrà più avanti, Alessandro Baricco, all’elemento che la
surmodernità ha inflazionato riguardo il moto dell’essere umano: la
velocità, appunto, che domina sempre più l’epoca contemporanea.
Ovviamente, il movimento non è e non è mai stato solo fisico. Lo stesso
Rousseau parlava già dell’altro movimento che ogni partenza implica:
quello interiore compiuto attraverso la memoria. Per questo si può
pensare al movimento come a un’operazione bipartita che coinvolge
l’esterno (il mondo), e l’interno (l’animo, l’inconscio), e che di

10
Ivi, p. 50
11
E. Turri, Il paesaggio e il silenzio, Marsilio Editori, Venezia 2004, p. 129
12
Ivi, p. 120
17
conseguenza travalica i confini della geocritica e anche quelli
dell’antropologia, approdando alla psicologia. Ne Lo spazio della
felicità Quintili osserva:

Tutto è legato alla logica della kynesis, in questo contesto del


rapporto tra spazio e felicità: c’è lo spazio esterno del mondo,
come c’è anche lo spazio interno della memoria, dell’interiorità,
che sono complementari e paralleli, ma entrambi giocano un
ruolo fondamentale nella costituzione dell’uomo
contemporaneo. Un movimento veloce, nel caso nostro, di
uomini “surmoderni”, abituati all’istantaneità delle relazioni e
delle comunicazioni, che avvengono tramite gli oggetti
tecnologici; è l’uomo moderno precontemporaneo, dell’epoca di
Rouseeau, che ha scoperto per la prima volta la propria libertà
individuale, che si muove invece a velocità ridotta. Questa logica
del movimento è quanto c’è di più interessante nella sintesi che
ci ha proposto Marc Augé, una logica che va da un luogo a un
altro, ma anche da un momento a un altro della nostra esistenza,
a una diversa velocità13.

E questo si collega direttamente a un’altra importante teoria di Augé,


quella che sostiene una connessione tra felicità e luoghi. Il movimento,
infatti, o l’ebrezza dell’avventura, sono a tutti gli effetti forme di felicità
potenziali, alimentate dalle idee-miraggio a cui l’uomo dà vita
apprestandosi a muoversi, affidando a ciò che troverà nei luoghi fisici
che sceglie come mete la speranza di essere felice. Anzi, è proprio la
ricerca che può trasformare uno spazio in un luogo, un’idea che l’autore
sintetizza così: «Una promessa di possibile felicità: è forse questa
l’essenza del movimento romantico che spinge molte persone a mettersi
in viaggio»14.
C’è poi, ovviamente, movimento e movimento, ma forse è possibile
rintracciare una matrice comune tra la fuga del giovane nato in
campagna o in periferia, l’emigrante costretto a partire da fame e guerre
e il cavaliere errante dell’epica cavalleresca: sono tutte partenze al buio,
magari ragionate e ponderate, ma che in fondo sono innescate dal
desiderio di muoversi, spostarsi, vedere, sentire, conoscere, scoprire,
alla speranzosa ricerca di ciò che Horace Walpole nel 1754 chiamò
“serendipità”, termine che allude a un “incidente favorevole”,
intendendo tutte quelle circostanze in cui gli uomini «facevano scoperte
per caso e grazie alla loro sagacia, da cose che non stavano affatto
cercando»15. Nel caso del migrante, probabilmente, prima ancora che
ricerca del benessere s’impone la fuga dalla sventura, e il rischio

13
P. Quintili, Lo spazio della felicità, cit., p. 15
14
Ivi, p. 31
15
R. Sennett, Costruire e abitare, cit., p. 292
18
maggiore nel suo caso non è tanto, paradossalmente, il viaggio in sé,
quanto la possibilità di non essere accettato da quella che Augé chiama
«felicità insediata» 16, la comunità che risiede nel luogo d’arrivo che
potrebbe rifiutare e chiudersi, per ignoranza o paura. Secondo il
sociologo Alberto Melucci infatti l’incontro con l’alterità è
un’esperienza che ci mette alla prova: da essa nasce la tentazione di
eliminare le differenze usando la forza, ma da essa può anche generarsi
la sfida della comunicazione, come sforzo che si rinnova
costantemente 17 . Il giovane di campagna invece, che è la figura più
simile a quelle che si prenderanno in esame, ha voglia di vedere com’è
il mondo esterno, quello altro, al di là delle campagne, delle colline o
della linea d’orizzonte del mare, ascoltare il rumore del traffico e
respirare i fumi del catrame con cui la città ripara le proprie strade.
Avverte la necessità di immergersi nel rischio di potersi perdere, senza
i filari di alberi a fargli da mappa, rivendica il suo diritto ad estraniarsi,
a farsi altro da ciò che è stato fino a quel momento, altro da come il suo
luogo natìo (in questo caso l’entroterra, la provincia) lo ha plasmato. E
se per raggiungere una qualche forma di felicità la partenza spesso
appare necessaria, il diritto alla fuga è, o dovrebbe sempre essere, un
diritto sacro e inalienabile come lo è il diritto di ogni individuo a essere
felice. Certamente Herzen (il russo Aleksandr Ivanovič Gercen) teneva
conto di tutto ciò quando parlava di migranti ed esiliati come soggetti
privilegiati, destinati all’acquisizione della consapevolezza del qui e
ora che mancava a chi non aveva mai lasciato la propria casa, definendo
perciò quello di patria un desiderio nomade, che accompagna e spesso
assilla l’emigrante o l’esiliato ma che non gli impedisce di viaggiare.
Sentimenti che connotavano tra gli altri anche i padri fondatori che,
spostandosi dal territorio d’origine – o da quello nel quale erano a loro
volta approdati tempi addietro – cercavano un luogo più adatto alla
fondazione di una patria vera, o nuova. Fuga e movimento sono,
insomma, mezzi per l’autodeterminazione.

1.3. L’individuo moderno e la città: tra solitudine e socialità

Tutto ciò conduce all’individuazione di due poli opposti e dipendenti


l’uno dall’altro: individualità e socialità. La surmodernità è ormai
caratterizzata da una crescente emancipazione dell’individuo, ma è
sempre la combinazione di identità personale e alterità (interna ed
esterna) a conferire all’individuo l’impressione appagante di una piena

16
M. Augé, Piccole felicità, cit., p. 33
17
cfr. A. Melucci, The Playing Self: Person and Meaning in the Planetary Society, Cambridge University Press,
Cambridge 1966
19
esistenza nel mondo, e di una totale presenza a se stesso, e a
condizionare e determinare quella che può essere definita “capacità di
felicità”.
C’è, però, un rovescio della medaglia, che vedrebbe nella fuga e nel
movimento anche dei mezzi per l’integrazione, per non restare cioè
esclusi da un sistema che per diversi aspetti può sembrare spietato.
Zygmunt Bauman ha scritto che «gli effetti indotti dalla nuova
condizione creano radicali disuguaglianze» e che «essere locali in un
mondo globalizzato è un segno di inferiorità e di degradazione»18. Nel
suo libro del ’98, Dentro la globalizzazione, Bauman si è infatti
soffermato sugli aspetti spaventosi e potenzialmente dannosi della
partenza, dell’atto cioè di abbandono del proprio luogo, del «vicino»,
per mettersi alla ricerca dell’altro, il «lontano». Egli definisce così
queste due dimensioni e il rapporto che gli individui hanno con esse:

«Vicino» è lo spazio all’interno del quale ci si può sentire a


casa propria, uno spazio nel quale di rado, se non quasi mai, ci si
trova sperduti, a corto di parole o incerti sul da farsi. «Molto
lontano», invece, è lo spazio nel quale si entra assai di rado, se
non mai, nel quale accadono cose imprevedibili o
incomprensibili, alle quali non si sa come reagire; uno spazio che
racchiude cose sconosciute, dalle quali non sappiamo cosa
aspettarci e per le quali non sentiamo il dovere di preoccuparci.
Trovarsi in uno spazio «molto lontano» è un’esperienza difficile;
avventurarsi in esso vuol dire travalicare il proprio habitat, il
proprio elemento, stare fuori posto, dove si temono difficoltà,
problemi, danni19.

Al binomio luogo natìo/altrove si aggiunge quindi quello di


vicino/lontano che Bauman traduce in «certezza e incertezza,
consapevolezza e titubanza». Come sostiene anche Sennett, in accordo
con il sociologo polacco, la città può sia rendere liberi, sia distruggere.
Partendo dall’epoca medievale, quando la città comincia a essere vista
come punto di arrivo possibile e salvifico per chi fino a quel momento
era stato costretto ad accettare la propria condizione e il proprio luogo
natìo con rassegnazione, Sennett porta l’esempio dell’orafo e scultore
Benvenuto Cellini, scrivendo: «La sua vita era molto più aperta e piena
di possibilità di quanto non sarebbe successo se fosse rimasto in un
villaggio, perché la città lo affrancava da un’unica identità ben stabilita
per permettergli di diventare ciò che voleva essere»20. D’altra parte la

18
Z. Bauman, Globalization. The Human Consequences, Polity Press-Blackwell Publishers Ltd., Cambridge-Oxford
1998, trad. it. O. Pesce, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Editori Laterza, Roma-Bari 1998, p. 4
s.
19
Ivi, p. 17
20
R. Sennett, Costruire e abitare, cit., p. 19
20
città poteva, e tuttora può, rivelarsi nociva per chi vi giunge, per via
dell’industrializzazione sfrenata, causa di diversi disagi come quelli
abitativi (la separazione spesso nettissima tra centro città borghese e
quartieri popolari e proletari abbandonati alla loro sorte), e della
pressoché assenza di limiti morali e divieti (un discorso, questo, che
acquista maggior senso se ci si riferisce agli esempi portati da Sennett,
e cioè le vite dei personaggi di romanzi come Illusioni perdute e Papà
Goriot di Balzac o Il rosso e il nero di Stendhal). La città moderna, o
surmoderna, ha in sé molte insidie. I luoghi della contemporaneità,
ipertecnologici, iperconnessi e rapidissimi, sono infestati dalla presenza
invisibile ma incombente di alcuni pericoli: estraneità, alienazione,
disumanizzazione, solitudine.
La città porta spesso, oltre che alla lotta per la conquista dello spazio,
anche all’interruzione, o all’evoluzione (anch’essa più rapida ma più
superficiale) della comunicazione: nella città moderna gli estranei
comunicano tra loro con lo sguardo e non con le parole. La modernità
liquida di cui ha scritto Baumann si manifesta proprio attraverso questi
elementi: la comunicazione tra individui diventa difficoltosa, e per
aggirare la difficoltà si sottraggono strati di profondità al processo
comunicativo e si sale in superficie, rendendo l’atto più immediato ma
effimero; inoltre, l’individuo tende a sviluppare la propria individualità
non in maniera positiva ma come compensazione di una sempre
maggiore perdita di contatto con un gruppo o una comunità di cui
sentirsi parte e da cui essere accettato e supportato. Sennett scrive a
questo proposito che il carattere inquieto della vita urbana costituisce
forse la definizione più eloquente della modernità in sé, e porta un altro
esempio che può tornare utile: Il manifesto del partito comunista scritto
da Friedrich Engels e Karl Marx, in cui si legge che «Tutti i rapporti
prestabiliti e cristallizzati […] sono spazzati via, quelli appena formati
diventano antiquati prima ancora di solidificarsi. Tutto ciò che è solido
si liquefà a contatto con l’aria […]»21. Marx infatti, come Rousseau
prima di lui e come Martin Heidegger dopo (del filosofo si parlerà
successivamente), sosteneva l’importanza del rapporto tra uomo e
natura, mostrandosi preoccupato per il progressivo abbandono delle
campagne in epoca industriale, dopo che già nel Grundrisse aveva
dimostrato come la natura venisse ormai eccessivamente sfruttata
dall’uomo. Scriveva: «la Natura diventa […] un semplice oggetto per
gli uomini, qualcosa di utile, e non può essere considerato come un
potere che funziona da solo […] gli uomini assoggettano la natura al
soddisfacimento dei loro bisogni, che si tratti di un articolo di consumo
o di un mezzo di produzione»22.

21
Ivi, p. 42
22
K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, trad. it. Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica, a cura di G. Backhaus, Pgreco, Roma 2012, p. 233
21
Modernità liquida e surmodernità vanno perciò di pari passo. Sono
anzi, in sostanza, la stessa cosa: il binomio società solida/società liquida
elaborato da Bauman e quello di modernità/sovramodernità di Augé
condividono un’unica matrice ideologica, e declinano visioni del
mondo e della società complementari. Entrambi gli sguardi, inoltre,
indagano il moderno concetto di “spazio urbano”, sempre più
strutturato sulla base di idee e previsioni che puntano alla perfezione: la
ville (lo spazio fisico e urbano della città) e la cité (lo spazio sociale del
vivere collettivo a cui una città dà vita) di cui parla Sennett (che estrae
i due termini dalla lingua francese perché essa fornisce la possibilità di
differenziare nettamente le due entità dal punto di vista lessicale)
dovrebbero convivere in un rapporto di mutuo scambio e totale
simbiosi; la perfezione sarebbe raggiunta lì dove la ville riuscisse a
rispondere di volta in volta e in maniera efficace alle esigenze della cité.
Étienne-Gabriel Morelly, già nel 1755 in Code de la Nature, ou le
véritable esprit de ses lois de tout temps négligé ou méconnu23, scriveva
che il numero e le dimensioni delle costruzioni sarebbero state in futuro
dettate dalle esigenze della città, esprimendo di fatto quella che si
sarebbe successivamente affermata come la più grande utopia della
modernità per urbanisti, architetti, progettisti e pensatori degli spazi
cittadini. I moderni sguardi infatti s’infrangono su quella che pare
essere la realtà attuale: quasi mai la città viene costruita seguendo
logiche di risposta a bisogni e urgenze. La comunità autoctona o quella
che arriva devono continuamente adattarsi a uno spazio sempre più
chiuso, che esclude dal processo di sviluppo del tessuto urbano le
dinamiche spontanee e naturali di evoluzione e adattamento che da
sempre caratterizzano il rapporto tra essere umano e luogo. Uno spazio
chiuso che può arrivare ad assumere le sembianze del Panopticon
descritto da Foucault, una struttura cioè di controllo in cui i supervisori
nascosti nell’ombra possono guardare senza essere visti, e di
conseguenza esercitare un controllo diretto sulle vite delle persone
ospitate nella struttura restando invisibili, determinando così la
convivenza nello stesso spazio di due categorie che occupano in realtà
posizioni diametralmente opposte.
Tutto ciò, a ben vedere, non accade o accade molto meno e con
processi meno forzati in altre tipologie di spazio: le aree interne, le
campagne, le montagne. Lì dove da sempre, e ancora oggi, la
cementificazione selvaggia e la globalizzazione arrivano sensibilmente
in ritardo e con forze d’impatto smorzate, tende a sopravvivere una
logica di spontaneità che altrove va scomparendo. Forse è esistito un
tempo-limbo in cui l’entroterra rappresentava più che mai l’alternativa
e l’alterità, quel periodo storico in cui le tecnologie di comunicazione e

23
E. G. Morelly, Code de la Nature, ou le véritable esprit de ses lois de tout temps négligé ou méconnu, èdition critique
S. Roza, La ville brûle, Montreuil 2011
22
condivisione non erano ancora arrivate, o erano troppo poco accessibili.
In quel periodo l’entroterra-campagna, in opposizione al centro-città,
era meno globalizzato, meno raggiungibile. Oggi è interconnesso come
qualunque altro luogo, eppure tende a conservare una sua intimità, la
sua primitiva natura appartata e selvatica, con più margine per un
atteggiamento solitario e individualistico o di sana aggregazione, forse
ancora esente da spersonalizzazione. Le zone rurali che, a partire dalla
rivoluzione industriale, cominciarono ad esser viste come luoghi di
arretratezza sociale ed economica (quando i contadini venivano attirati
in città con la promessa di una vita da cittadini venendo poi accolti in
quartieri nati appositamente per escluderli, in una bolla di illusione che
li rendeva di fatto ancora più sfruttati e frustrati, ma assuefatti dal
desiderio di città) stanno oggi tornano ad essere destinazioni di fughe a
ritroso, migrazioni al contrario e ritorni al passato. E anche se oggi,
come dice lo stesso Augé, i ragazzi delle campagne francesi si danno
appuntamento nei centri commerciali che stanno a metà tra un piccolo
centro abitato e l’altro (segno che la differenziazione netta tra luoghi e
non-luoghi è impossibile), e che la globalizzazione ha invaso,
contaminato e condizionato anche le realtà interne e i territori più
lontani, resta vero il fatto che la campagna e le zone pedemontane
rappresentano insieme una riappropriazione presente e un avamposto in
previsione futura, forse unica via di fuga dalla nevrosi urbana e
dall’evoluzione alienante del capitalismo cittadino. Ciò accade perché
tutte queste zone, definibili con il termine unico di “entroterra”,
custodiscono delle particolarità, delle caratteristiche e dei legami che
sembrano rispondere perfettamente al bisogno di fuga di molti, e
all’esigenza di un contatto autentico con la natura di altri. In alcuni casi
l’entroterra è addirittura investito di un senso ulteriore: metafisico,
onirico e mitico.

1.4. Un primo sguardo sull’entroterra: il poeta Ives Bonnefoy

Il poeta francese Ives Bonnefoy (Tours, 1923 – Parigi, 2016), nella


sua opera più conosciuta in Italia (che dell’Italia parla), L’entroterra,
pubblicata da Donzelli Editore e curata da Gabriella Caramore, si lascia
andare a una riflessione che più volte nel corso di questo lavoro verrà
ripresa e articolata seguendo fili diversi, quella cioè su una possibile
netta contrapposizione fra città, centro nevralgico di un certo tipo di
vita, e campagna, periferia di matrice differente, più autentica e
incredibilmente più complessa.
Il poeta vede la sua terra come un’entità scissa in due: da una parte
c’è Tours, sua città natale, dall’altra Toirac, località di vacanza immersa

23
nelle verdi campagne francesi, che sin da piccolo lo attira e lo affascina
con la sua continua festa di colori e con un’aria più fresca e pulita di
quella cittadina. Come ha scritto il poeta Franco Marcoaldi su “la
Repubblica”: «Da un lato dunque una realtà sfilacciata e negativa, dall'
altro il paese della pienezza intemporale, la terra di sogno dove sembra
si possa evitare di fare i conti con la morte, il luogo della promessa
senza fine che aprirà alle successive fantasticherie su L' entroterra»24.
Nasce subito la contrapposizione tra “qui”, la civiltà dove il poeta vive,
e “laggiù”, l’entroterra, misterioso e ancestrale. Ad un certo punto della
sua vita, poi, Bonnefoy comincia a individuare una dimensione
potenzialmente perfetta nell’entroterra italiano (specialmente tra
Toscana, Umbria e Marche), grazie all’osservazione del quale riesce a
dar vita a una «indefinibile scrittura di confine, sempre sospesa tra il
saggio e la poesia»25. Egli, come la sua stessa scrittura ha tramandato,
arriverà infine a leggere quelle nicchie spazio-temporali come
dimensioni mitiche e di sogno, custodi di poteri e verità forse
inaccessibili: «‘Laggiù’, grazie alla forma più evidente di una valle,
grazie al fulmine, rimasto un giorno sospeso nel cielo, oppure, chissà, a
causa di una lingua più sfumata, di una tradizione salvata, di un
sentimento che non abbiamo (non posso né voglio scegliere), esiste un
popolo che, in un luogo a sua somiglianza, regna segretamente sul
mondo»26. C’è il disegno, al termine delle sue riflessioni, di un “laggiù”
mitico e inconoscibile, che forse neppure esiste, ma che proprio per
questo racchiude ogni slancio dell’uomo verso un altrove mitico,
incastrato nel passato e protettore di profondità abissali di senso e di
rapporti: «se anche l’entroterra è rimasto per me inaccessibile – e se
anche, lo so bene, l’ho sempre saputo, non esiste – non per questo è del
tutto insituabile, basta solo rinunciare alle leggi di continuità della
geografia comune e al principio del tempo escluso»27.
Se si è scelto di partire da Bonnefoy è perché egli proviene
direttamente dalle visioni di Rousseau, incarnando in epoca
novecentesca la figura del flaneur, perché ha scritto di un rapporto
veramente intimo tra uomo e natura misteriosa e perché ha fornito una
lettura esterna dell’entroterra italiano che d’ora in avanti si tenterà di
esplorare dall’interno, prendendo le mosse dalla viva voce di alcuni dei
più grandi autori italiani del secolo scorso.

24
F. Marcoaldi, La terra ideale del poeta Bonnefoy, su «la Repubblica», 22 marzo 2005
25
Ibid.
26
Y. Bonnefoy, L’entroterra, a cura di G. Caramore, Donzelli Editore, Roma 2004, p. 31
27
Ibid.
24
1.5. Raffaele Milani ed Eugenio Turri, per una definizione di
“paesaggio”

Prima di addentrarsi nella letteratura, è opportuno soffermarsi un


attimo su alcune osservazioni riguardo il paesaggio. Non sembra infatti
possibile affrontare un discorso credibile sull’entroterra senza partire
dalla nozione di “paesaggio”. Secondo la semiologa francese Jeanne
Martinet, e altri studiosi giunti alla medesima conclusione, la parola
paysage sarebbe composta da pays (dal latino pagensis, che sta ad
indicare l’abitante di un pagus, un villaggio, parola che a sua volta
affonda le radici nel verbo pango, cioè “delimitare un’area conficcando
dei paletti nel terreno”) e dal suffisso -age, che potrebbe fornire al
termine la funzione del verbo “fare”; perciò il termine paysage
significherebbe, letteralmente, “fare paese”, ovvero, come ha scritto
Alberto Cagnato, «l’esprimere un luogo, il rendere e rappresentare la
specificità del rapporto tra una comunità e il proprio habitat» 28 . A
questo proposito si prestano perfettamente le parole di Raffaele Milani
che nel libro L’arte del paesaggio scrive:

Gli effetti di questi vari elementi mescolati insieme mostrano


chiaramente la relazione tra architettura e natura che ha d’altra
parte il suo suggello nella nozione stessa di paesaggio con la sua
derivazione originale da pagus, villaggio. La parola paesaggio
illustra bene la presenza dell’uomo, porta i segni
dell’antropizzazione della terra; e ciò fa intuire l’importanza
della veduta e quindi della rappresentazione di un’area vasta del
territorio cui si attribuisce un valore estetico. Osservare il
paesaggio fa parte dell’esperienza estetica perché, attraverso la
sua conoscenza e la contemplazione, s’impara a sentire e
interagire con l’ambiente29.

Dopo aver parlato della parola in sé, Milani continua spiegando


cos’è e cosa non è, davvero, il paesaggio:

Il paesaggio non è lo spazio, non è lo spazio verde organizzato


per le città di questi ultimi decenni, non è la delimitazione,
l’abitare un campo ristretto tra limiti definibili. Non è lo spazio
geografico, non è il luogo neutro dove poter collocare oggetti,
corpi, strutture […].
Spazio e paesaggio, come riferisce E. Turri [1974] si
configurano diversamente, sia sul piano disciplinare che
operativo, anche se l’uno non può prescindere dall’altro. Il

28
A. Cagnato, Le origini del paesaggio, in «Labsus», consultato il 28 ottobre 2020, <
https://www.labsus.org/2018/05/le-origini-del-paesaggio/>
29
R. Milani, L’arte del paesaggio, il Mulino, Bologna 2001, p. 27
25
paesaggio è parziale e soggettivo, non è funzionale
all’organizzazione dello spazio. Il paesaggio non richiede tanto
una progettazione, mentre la richiede lo spazio che è intervento
più diretto, semplice, utilitario: “il paesaggio si lascia vivere, lo
spazio si lascia progettare”30.

È proprio Milani a chiamare in causa l’altro nome fondamentale


nella riflessione sul paesaggio, quello del precedentemente citato
geografo e paesaggista Eugenio Turri, un uomo che ha speso la sua vita
a viaggiare e a studiare l’atto dello spostamento, diventando non a caso,
oltre che uno dei massimi conoscitori dei paesaggi italiani, uno dei più
esperti osservatori dei fenomeni migratori delle comunità nomadi,
specialmente di quelle delle zone desertiche dell’Asia.
Le definizioni che ha dato di “paesaggio” e “luogo” in Antropologia
del paesaggio31 possono essere utili a chiarire dei concetti fondamentali
in questo contesto: il paesaggio non è definito dalla geografia, e non è
definibile solo attraverso essa; è necessario che entrino in gioco la
storia, l’antropologia, la psicologia, l’estetica. Non c’è visione
oggettiva, ma osservazione e percezione, atti che presuppongono
un’attività intima di memoria, immaginazione e coscienza. Quello di
paesaggio è un concetto soggettivo: di fronte allo stesso scenario,
individui diversi possono percepire paesaggi diversi. La definizione di
un paesaggio è perciò legata all’esperienza personale del soggetto
osservante e alla sua storia biografica e culturale, nonché al contesto nel
quale è nato e cresciuto e in cui ha appreso gli strumenti per una propria
decifrazione dello spazio naturale attorno a sé. Il paesaggio non è perciò
un concetto tecnico, freddo e asettico, ma piuttosto il risultato di fattori
più intimi, instabili e relativi. Esso è, infine, dinamico: muta in relazione
agli uomini, alle loro azioni, ai periodi storici.
L’interrelazione che lega uomo e paesaggio si fonda su un equilibrio
soggetto a cambiamenti. Per Turri il paesaggio è la rappresentazione del
concreto spazio di vita, del territorio che l’essere umano ha costruito e
modellato in quanto sua dimora, e ad esso si connette l’ambiente, la cui
tutela significa assicurare agli uomini un habitat sano e vivibile.
L’uomo-abitante è infatti chiamato a essere contemporaneamente
attore 32 e spettatore di fronte al mondo, deve cioè far intervenire,
durante l’atto di costruzione, sia l’esigenza produttiva e la funzionalità
bio-ecologica, sia quella poetica, affettiva, simbolica ed emotiva che
sempre, necessariamente, lega uomo e paesaggio (senza la sfera più

30
Ivi, p. 32 s.
31
cfr. E. Turri, Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano 1974
32
Per un discorso più approfondito sul ruolo di attore che l’uomo svolge all’interno di un contesto territoriale e sociale
si rimanda all’opera di E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio
Editori, Venezia 2001
26
intima ed emotiva esisterebbero solo spazio, terra o luogo indefiniti, o
non-luoghi).
“Luogo” è, per l’appunto, il secondo termine da analizzare. Esso sta
a indicare la condizione di partenza, fondamentalmente neutra, della
natura, prima che gli uomini diano il via a un processo di interscambio
e simbiosi con il luogo (che diviene a quel punto spazio delimitato,
territorio, ambiente). Turri passa poi alla disamina di una
trasformazione in atto, che vede il paesaggio sempre più minacciato, e
quasi del tutto rimpiazzato, dal concetto di territorio. Oggi infatti le cose
stanno diversamente:

L’evoluzione del pensiero geografico […] non fa che


rispondere alla profonda evoluzione dei rapporti tra uomo e
ambiente terrestre intervenuta nel secolo appena trascorso con il
passaggio da una condizione di vita di tipo rurale-urbana ad una
ormai totalmente urbana […]. Il paesaggio di ieri mostrava il
segno umano dentro spazi agricoli e naturali che facevano
emergere con forza le corrispondenze tra azione antropica e
condizioni naturali, […] oggi, nel dominio della complessità
post-industriale, l’azione antropica sembra sommergere o
escludere ogni condizione naturale, […] talché l’uomo si direbbe
incamminato verso l’atopia, verso un mondo senza luoghi, senza
legami topografici33.

Lo scenario disegnato dal geografo italiano riprende e anticipa teorie


simili indicate con nomi diversi da altri pensatori. Nel suo caso
“antropia” sta a indicare il processo di scollamento tra uomo e luogo, e
addirittura tra costruzioni artificiali ad opera dell’uomo – l’ambiente
che egli ha edificato in base a progetti ed esigenze – e il territorio
naturale, la natura in senso largo che fa da sfondo e che accoglie ogni
gesto e ogni aspetto della sua esistenza. Colpevole di ciò, del rischio
cioè di una perdita di contatto, è anche per Turri il mondo moderno,
selvaggiamente urbanizzato, de-sentimentalizzato (riferendosi
principalmente, in questo caso, agli ambienti cittadini, alle metropoli e
ai complessi industriali, rumorosi e creatori di differenze sociali).
Davanti ai paesaggi della postmodernità, in effetti, quelli
«dell’urbanesimo dilagante, della mobilità continua, della
Megamacchina assordante» 34 , si avverte tutta la disperazione senza
scampo dell’uomo che tenta di costruirsi un paesaggio sempre più su
misura, per essere poi ogni volta insoddisfatto del risultato ottenuto,
dando vita a un circolo vizioso e a un loop infinito che assumono i tratti
di una guerra alla Don Chisciotte contro paesaggi naturali che appaiono
ostili e inadatti alla sua idea di vita. L’uomo moderno, l’uomo di città,

33
E. Turri, Il paesaggio e il silenzio, cit., p. 135
34
Ivi, p. 37
27
si muove e pretende che tutto sia in movimento per affogare nel rumore
la propria disperazione. Va perdendosi, in altri termini, l’attitudine al
silenzio e alla lentezza dei secoli passati, privi di potentissimi mezzi
tecnologici con i quali velocizzare ogni processo umano, oltreché
l’industria, gli spostamenti, la quotidianità. Appare necessaria, in un
tale contesto di saturazione fisica e di progressiva perdita di identità,
contatto e profondità, una valida alternativa.
Inutile riprendere la tematica sopra esposta attraverso Sennett; ci si
limita a sottolineare come anche il panorama italiano abbia affrontano
nel corso della seconda metà del Novecento e nei primi anni del nuovo
millennio l’intricata questione dei luoghi e dei non-luoghi nell’era
contemporanea. È il caso ora di passare al fulcro del presente lavoro:
l’entroterra, inquadrato da una prospettiva ben precisa e indagato, a
partire dal prossimo capitolo, nell’ambito della letteratura italiana
novecentesca e di oggi.

1.6. L’entroterra come “iperluogo”?

La domanda che ora ci si deve porre è: può l’entroterra, alla luce di


quanto osservato, essere incarnazione della dimensione opposta a
quella delle realtà sovraffollate e rumorose e a quella del nonluogo? Può
cioè superare il non- ed ergersi a iper-luogo, un luogo che non solo sia
identitario, relazionale e storico ma anche mitico, sentimentale e
metafisico? Può, insomma, rappresentare la miglior versione possibile,
ancora adesso, di ciò che è stato definito “paesaggio”?
La definizione che qui si tenterà di dare dell’entroterra è proprio
quella di “iperluogo”, ma a tal proposito è necessaria una precisazione:
il termine “iper-luogo” è stato utilizzato dal geografo francese Michel
Lussault non in opposizione al termine “non-luogo” di Augé bensì con
l’intento di negarlo, inglobarlo e superarlo. Lussault, nel suo libro del
2019 Hyper-lieux. Les nouvelles géographies de la mondialisation,
sostiene che luoghi come aeroporti, autostrade, grandi magazzini e
autogrill siano in realtà i luoghi per eccellenza, veri, reali, dove le
interazioni umane che Augé nega trovino invece la massima
espressione, riportando in termini particolari e visibili i meccanismi
universali della globalizzazione. Secondo il geografo, questi luoghi
iper- mantengono tutte le caratteristiche dei classici luoghi ma le
esasperano per effetto della globalizzazione: al centro di queste realtà
c’è infatti il passaggio (sono tutti luoghi di passaggio), ed essendo oggi
la figura del passante più importante di quella del residente, ciò
permette di studiare la globalità tramite l’osservazione di queste
dimensioni di transito. Il passaggio crea il luogo. In un’intervista

28
rilasciata a Simone Paliaga su “Avvenire”, il geografo spiega meglio
cosa la sua teoria contesti a quella dei nonluoghi:

Marc Augé esprimeva la sua inquietudine davanti alla


uniformizzazione di spazi come aeroporti e centri commerciali
che avrebbe alienato il rapporto dell'uomo con le cose, con la
verità del luogo. Ma non ho mai davvero capito il concetto di
non-luogo. Non appena guardiamo le pratiche spaziali degli
individui, le loro interazioni, vediamo che tutto lo spazio è
coabitabile, anche il peggiore, il più standardizzato. Esistono
relazioni locali, individuali e collettive, con i luoghi. La
caratteristica del mondo contemporaneo è quella di produrre
nuovi tipi di luoghi, tra cui l'iper-luogo […].
Nella maggior parte delle società, ci sono luoghi particolari in
cui le sfide della globalizzazione convergono in modo
drammatico. Ecco gli iper-luoghi. Riconosciamo un iper-luogo
per il fatto che funziona al contempo e in modo intensivo su tutte
le scale spaziali, dal locale al globale35.

Non molti condividono la teoria di Lussault, giudicata fallace da chi,


come l’architetto e docente Paolo Giardiello, sostiene che esiste oggi
una coincidenza precisa tra luoghi virtuali e reali, tra loro diversi e ben
delineabili, luoghi atopici caratterizzati dalla solitudine annunciata da
Augé, dallo spaesamento, dallo sradicamento dal contesto. Luoghi che
rappresentano e producono ulteriori livelli di relazioni guidate,
controllate, filtrate e che, in definitiva, assolvono moralmente
dall’isolamento in cui si rischia di permanere producendo, come
placebo, istinti relazionali preconfezionati.
Ai fini della diversa teoria che qui si tenterà di elaborare,
l’anteposizione del prefisso iper- al vocabolo “luogo”, inteso
nell’accezione comune e riconosciuta tanto nelle teorie di Augé quanto
in quelle di Lussault, ha funzione accrescitiva, e lo scopo di stabilire un
significato rafforzato per riferirsi a quei luoghi dove le relazioni tra
autoctoni, e tra individui e natura, raggiungono profondità e intimità
estranee a quelle dei luoghi “classici” o “normali” (con i quali si
intendono, prevalentemente, gli spazi creati da postmodernità e
sovramodernità). Per questo, il senso che da qui in avanti si darà al
vocabolo “iperluogo” (che si indicherà con grafia unita per distinguerlo
da quello lussaultiano e uniformarlo alla scelta più comune di
traduzione italiana “nonluogo” invece di “non-luogo”), è quello di una
possibile, per quanto non scontata, simbiosi vera tra l’essere umano e
quello spazio che si fa prima luogo antropologico e poi luogo
dell’anima, di vita, di ricordi.

35
S. Paliaga, Lussault e la sapienza politica degli iper-luoghi, in “Avvenire”, 16 gennaio 2020
29
Nell’entroterra il legame sociale è intricato e totalizzante per via dei
rapporti familiari, di vicinato, di appartenenza religiosa (fondamentale
è sempre stata la presenza della religione che unisce la comunità
fornendo un punto centrale, comune, immancabile e irrinunciabile); in
esso è sempre possibile, o lo è stato fino ad un certo punto, rintracciare
i fondamentali necessari per l’esistenza di una comunità umana
organizzata in una società fatta di rapporti diretti, mutuo scambio o, se
non altro, interazione fisica proiettata nel tempo. Nell’entroterra, le
persone fanno i luoghi. Lì i luoghi esistono a prescindere da chi li abiti,
esisterebbero anche se la comunità umana dovesse migrare o
estinguersi; in città no, perché essa è interamente artificiale, tutti gli
spazi sono costruiti, raramente l’attività umana si limita ad assecondare
la natura, quasi sempre invece interviene in maniera invasiva edificando
ex novo. Nascono così luoghi studiati ad hoc per la vita di una specifica
comunità, con architetture orientate da un gusto, un movimento o una
moda, con progetti finalizzati a uno specifico uso, tenendo conto
dell’impatto estetico finale e del più efficiente funzionamento. Nelle
città sono le città stesse, con le loro strutture, a creare spazi, e a
coinvolgere di conseguenza i cittadini nel nuovo ambiente nato. Le città
in questo modo sembrano tutte uguali ma non si assomigliano. I luoghi
d’entroterra si assomigliano tra loro molto più di quanto facciano le
città.
Le campagne, le radure di periferia, le aree pedemontane, hanno una
caratteristica in comune e in netta opposizione ai luoghi della
surmodernità: il silenzio. Un elemento oggi molto malvisto
dall’individuo medio contemporaneo, non più abituato alla
meditazione, alla lentezza dei momenti di riflessione né alla noia. Il che
risponde a un grosso fraintendimento perché, come sostenuto da Turri:

Coltivare il silenzio non significa staccarsi dal mondo.


Significa, caso mai, viverlo in modo più profondo, più esaltato,
più musicale. Del resto, anche fisiologicamente parlando, il
silenzio non vuol dire annullare il proprio rapporto con il mondo,
ma semplicemente viverlo in altro modo, così come il buio – per
richiamare un’altra delle grandi perdite dell’uomo d’oggi, che
vive senza più le notti buie e silenziose di un tempo nelle città
illuminate o nelle case rischiarate da luci artificiali anche al
sopravvenire della notte – non significa assenza nei confronti del
mondo stesso36.

Egli solleva qui anche un altro aspetto della città moderna e


postmoderna, un aspetto in parte sconosciuto fino a non molto tempo fa
e che ha acquisito enorme peso con incredibile velocità: l’inquinamento

36
E. Turri, Il paesaggio e il silenzio, cit., p. 36 s.
30
luminoso. Luce e rumore sono infatti due fenomeni simili che
rispecchiano un’unica mutazione: la sempre più strutturata paura per
tutto ciò che dia, anche solo lontanamente, l’impressione di una perdita
di tempo, dell’impossibilità di agire in maniera efficace ottenendo da
quell’azione un risultato diretto o immediato. Buio e silenzio
spaventano perché pongono l’osservatore-uditore in una condizione di
apparente impotenza, lo detronizzano all’interno dell’immaginario che
lo vede come dominatore – soggetto attivo che piega gli elementi
attorno a sé al suo volere – rendendolo impotente, o meno forte,
riportandolo su un piano di uguaglianza con la natura che lo circonda.
E dove è possibile, con maggior probabilità, trovare spazi ancora
custodi di buio e silenzio? Nell’entroterra, inteso come luogo (neutro e
indipendente) e come paesaggio (luogo antropologico). Prototipo di
luogo che, come lo definirà perfettamente Giorgio Manganelli
(riferendosi nello specifico all’Abruzzo) è grande produttore di
silenzio. Allo stesso modo Rousseau, Heidegger, Leopardi, nomi di cui
ci si è occupati o di cui ci si occuperà più avanti, cercheranno, ognuno
a modo proprio, di recuperare o instaurare un rapporto intimo e fatto di
silenzio con la natura.

Per quel che riguarda la letteratura, invece, la tradizione italiana del


Novecento, affondando le radici nel terreno verghiano (circa un secolo
prima Verga aveva affrontato il legame fra uomini e natura, la
condizione di contadini e pastori e il controverso rapporto con il
progresso economico e tecnologico che contribuiva, secondo lui, ad
arricchire i ricchi e a impoverire i poveri), ha dato voce a punti di vista
differenti nell’ambito della lotta tra passato e presente, e tra pre-
modernità e post-modernità. E si è spinta anzi oltre, scendendo nelle
profondità emotive e sentimentali che si aprono nell’animo umano a
contatto con la natura (dell’entroterra piemontese, ligure e abruzzese,
nei casi che si tratteranno) e con i luoghi artificiali delle città; un
contatto che determina una lettura intima del proprio legame con la terra
natìa e, fondamentalmente, con se stessi, con il proprio io presente
attraverso la rilettura del passato. Senza dimenticare la dimensione che
i grandi scrittori-osservatori riescono a tratteggiare e delineare, fino ad
arrivare ad abitarla – interiorizzandola e restituendola –, quella cioè del
mito.
Fisico e metafisico vanno infatti di pari passo nella percezione di un
luogo, se ci si stacca dal piano strettamente urbanistico e paesaggistico
e se si passa da una concezione tecnica e principalmente analitica (come
quella di studiosi quali Richard Sennett, ad esempio) a una poetica. Ci
si trova di fronte, nel caso di una simile transizione, a un universo ancor
più complesso e sfaccettato, fatto di ricordi, sogni e riflessioni, che
prende più che mai in considerazione ogni dimensione temporale
(passata, presente, sospesa) e ogni variazione nella conformazione
31
fisica di un terreno o di un territorio, e lo fa interiorizzando questi
processi, perché coincidono con i processi interiori che nel corso di una
vita interessano l’animo umano, costituito di continui spostamenti e
slittamenti di senso, nascita di nuovi paradigmi e trasformazioni certe
ma imprevedibili.
Ci si sposterà perciò ora sul commento di alcuni, pochi, testi
selezionati, per condurre un’analisi sulle interpretazioni, nel corso del
secolo scorso e in quello corrente – attraverso strascichi autentici e
tentativi forzati –, fornite da autori e autrici a proposito di luoghi, di
spazi e di paesaggi a loro (e ai loro personaggi) cari o fatali.

32
2. L’entroterra come luogo di partenza, ritorno e
sacrificio nella scrittura di Cesare Pavese

2.1. Un primo sguardo sulla prosa di Pavese: Paesi tuoi e Feria


d’agosto

Nell’introduzione all’edizione Einaudi del 2015 di Paesi tuoi,


ripresa da un testo precedentemente comparso nel volume del 2000,
Tutti i romanzi 1 , dedicato a Cesare Pavese, Laura Nay e Giuseppe
Zaccaria riportano alcuni stralci della conversazione epistolare
intrattenuta da Pavese con Tullio Pinelli, suo caro amico, riguardante la
prima opera in prosa pubblicata dallo scrittore. Al centro dello scambio
di lettere c’è, oltre alla discussione sul linguaggio e le impressioni di
Pinelli riguardo l’opera nel suo complesso, la questione della
contrapposizione città-campagna, un grande tema pavesiano. Una
contrapposizione che, secondo Pinelli, pecca di forza in quanto
«l’opposizione tra i due mondi manca»2. Ma Pavese non è dello stesso
avviso, e in una lettera di risposta afferma di aver condotto l’intero
romanzo proprio su quella contrapposizione, «e non importa se
l’ambiente cittadino è rimasto nella penna, basta ci sia il cittadino sottile
(convinto di questa sua sottigliezza) che si vede continuamente far fesso
da un rustico tonto (e noto a tutti per tonto)»3. Per Pavese, quindi, la
contrapposizione non deve emergere dalla descrizione e dal confronto
diretto fra i due mondi, quanto piuttosto da quella gara di furbizie che
viene a crearsi tra i personaggi della storia, nello specifico tra il
protagonista di città, per l’appunto, e quello di campagna: Berto e
Talino. I personaggi, al pari dell’ambiente, si fanno a detta dello stesso
Pavese «mezzo» alla narrazione: scelta, questa, che con ogni probabilità
s’inserisce nella ricerca di una nuova legge da parte del romanzo
moderno in un periodo di pieno rinnovamento.4
Una contrapposizione città-campagna che, insomma, non tiene conto
di due poli nitidi e ben distinti, ma che s’incunea in un racconto
realistico e geograficamente situabile che si inoltra, da un certo punto
in poi, in una dimensione sconosciuta e misteriosa, seguendo in questa
sua ventata di novità le proprie stesse orme già lasciate nell’esperienza
poetica: come era avvenuto per Lavorare stanca – impostosi sul
panorama poetico italiano come qualcosa che non era ermetismo, non
era sperimentalismo e che semplicemente fino a quel momento non

1
Cesare Pavese. Tutti i romanzi, a cura di M. Guglielminetti, Einaudi, Torino 2000
2
L. Nay e G. Zaccaria, Nota introduttiva a C. Pavese, Paesi tuoi, Einaudi, Torino 2015, p. XIV
3
Ivi, p. XIV s.
4
Ivi, p. XV
33
c’era – così accade per Paesi tuoi, una prosa che certamente affonda le
radici nel verismo verghiano e nel naturalismo zoliano (a questo
proposito non mancano, come si vedrà, gli interventi di critici quali
Luigi Vigliani, Emilio Cecchi e Carlo De Matteis) ma che si arricchisce
della dimensione propriamente mitica e inclassificabile della scrittura
di Pavese.
Già Lavorare stanca lasciava intravedere molti dei tratti che
caratterizzeranno le opere in prosa, essendo un abbozzo di forme
espressive che si sarebbero nel tempo evolute. Salvatore Rosati, per
esempio, aveva notato nel 1941 come «alcune delle poesie del Pavese
accennavano già a un gusto di narrazione e di parlato spinto verso il
dialetto» 5 ; era cioè evidente la propensione della scrittura di Pavese
verso la narrativa, una narrativa per di più forgiata nello stampo di una
lingua orale lavorata attraverso la scrittura. Paesi tuoi è, poi, il primo e
perfetto esempio di totale fusione tra vita e letteratura nella dimensione
pavesiana, un’opera che presenta quell’irrisolto tipico della vita vera.
L’attitudine alla poesia certo resta, la prosa sperimentata da Pavese
contiene degli esempi pregiati di lirismo e poeticità: «Mentre
camminavo sotto le piante e saltavo dei fossi, sentivo lontano qualcuno
cantare, voci di collina che sembrano sperse e ramenghe fra il cielo e la
terra, come una banda che suona nelle sere di vento»6, come sarà poi
anche in Feria d’agosto: «C’era in quel crepito un silenzio mortale, di
luogo chiuso e deserto, che schiudeva nel cielo lontano una promessa
di vita ignota, impervia e seducente come le colline» 7. Da notare di
quest’ultimo periodo la disposizione quasi a chiasmo degli elementi
morte/vita («silenzio mortale» e «promessa di vita»), chiusura/apertura
(«luogo chiuso» e «schiudeva»), altrove/entroterra (deserto e colline).
Si può affermare senza rischio di errore che Paesi tuoi, alla stregua
di Feria d’agosto, sia stato un primo tentativo di ricerca di uno stile
narrativo, un serbatoio dal quale attingere per la futura stesura delle
opere successive, e più mature, del Pavese narratore. Questo non induca
però a considerare le prime come opere minori. Sono state fin troppo
sottovalutate da una parte della critica, o considerate delle promesse non
mantenute, come nel caso di Oreste del Buono sulle pagine di
“Costume” nel febbraio 1946, per poter continuare ancora oggi a
vederle come buoni propositi non supportati da una altrettanto buona
scrittura. Lo stesso Pavese è sempre apparso lucido e premonitore
riguardo le proprie opere, non a caso considerava La luna e i falò il libro
che più si portava dentro e che più aveva goduto a scrivere, che lo aveva
talmente svuotato da fargli pensare che non avrebbe più scritto altro (e
infatti fu la sua ultima pubblicazione); non a caso porterà con sé in

5
S. Rosati, in “L’Italia che scrive”, XIX, 1941, n. 7-8
6
C. Pavese, Paesi tuoi, Einaudi, Torino 2015, p. 65
7
C. Pavese, Feria d’agosto, Einaudi, Torino 2017, p. 13
34
quella stanza dell’Hotel Roma di Torino, il 26 agosto del 1950, una
copia dei Dialoghi con Leucò, certamente libro-testamento, sintesi e
manifesto della sua lettura del sacrificio umano; non a caso, infine, in
una lettera indirizzata a Massimo Mila del 10 ottobre 1945 scrive: «Ti
raccomando la mia Feria d’agosto che più il tempo passa più mi pare
un gran libro»8.

2.2 Etnologia e linguaggio in Paesi tuoi e Feria d’agosto

È lo stesso autore, sempre in una lettera a Pinelli del 1939, a fornire


una prima definizione della lingua usata: «tutt’altra cosa da un
impressionismo naturalistico»9.
In effetti la lingua di Paesi tuoi ha – pur manifestando in maniera
trasparente l’influenza di certe ricerche linguistiche precedenti – un
carattere di unicità con punti di forza e altri di debolezza. L’opera
sembra esser stata concepita in piemontese, per poi essere adattata in un
italiano comunque imperfetto, contaminato e in assestamento,
volutamente instabile, dagli improvvisi cambi di registro ai tempi
verbali in costante oscillazione tra presente e passato: «Talino non si
sedeva e tira fuori il suo foglio. Poi viene un milite e si conoscevano e
si mettono a discorrere, e quello mi guarda. Io fumavo e prendevo
dell’aria [corsivi miei]»10. L’impressione è che si abbia di fronte una
traduzione, il che non stupisce se si pensa alla vocazione di traduttore
dell’autore (altra intensa attività della sua vita, con le mani sempre in
pasta nella letteratura angloamericana), eppure non può non
destabilizzare il fatto che i personaggi si esprimano in dialetto senza
però usare mai un termine dialettale: un dialetto artefatto, rarefatto e
italianizzato; o che al contrario personaggi rozzi come Vinverra (padre
dell’animalesco Talino) si esprimano nei confronti delle donne con un
fin troppo romanzato: «Donne!» 11 per richiamare la loro attenzione,
piuttosto che con un verso o uno strillo. Il discorso, che sia diretto o
indiretto, è palesemente impreciso, a tratti sgrammaticato, cesellato da
sbavature ed espressioni tipiche dell’oralità quotidiana di quei luoghi
(«Quante botte, madonna, se fossi stato io Rico, quante botte» 12 ),
eppure non abbandona mai l’italiano d’uso comune, reso da Pavese
lingua povera e immediata, cangiante ma sempre uguale a se stessa. Si
trovano così a convivere le formule imprecise del parlato e le traduzioni
dal dialetto all’italiano compiute dal narratore nell’atto di raccontare,

8
C. Pavese, Lettere 1945-1950, Einaudi, Torino 1966, p. 36
9
L. Nay e G. Zaccaria, Nota introduttiva, cit., p. XIII
10
C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 20
11
Ivi, p. 22
12
Ivi, p. 82
35
intervenendo direttamente sulla natura originaria delle espressioni, a
vantaggio forse di un ipotetico lettore non appartenente alle Langhe o a
un qualsiasi altro mondo di campagna. Se si assume questo punto di
vista sulla questione, anche la padronanza del congiuntivo da parte di
Vinverra durante l’impartizione degli ordini ai membri della famiglia
appare meno assurdo («Voglio che Nando vada domani a cuocere,
perché sono le pagnotte che tengono dritti [corsivo mio]»)13.
Luigi Vigliani osservava a questo proposito su “Leonardo” come
forse per la prima volta «il dialetto piemontese viene risolutamente
posto sul medesimo piano della lingua nazionale, secondo il
procedimento attuato dal Verga col dialetto siciliano»14. Si è già parlato
di influenza di certe precedenti ricerche linguistiche, prima fra tutte
proprio quella di Verga. Vigliani non è l’unico a esserne convinto;
Emilio Cecchi, parlando del romanzo di Pavese su “Nuova Antologia”,
ha scritto:

Nel tentativo di rifarsi una lingua più immediata e mordente


il Pavese non ha introdotto, o assai scarsamente, termini
vernacoli, e di ciò gli va lode. Ha invece ricalcato la sintassi sulle
forme parlate della sua provincia; in molti punti con belli effetti;
in altri punti, con innegabili durezze e oscurità. Ma non fu
qualche cosa di molto simile, il vecchio procedimento del Verga
all’epoca della sua rinnovazione?15

Cecchi poi continua la sua indagine linguistica toccando l’altro


punto, qui già introdotto, della lingua italiana che traduce l’americano
di certi grandi autori. Infatti, prosegue: «Il Pavese ha preso lo slancio
dall’America; si è fatto dell’America il suo trampolino. È stata
un’occasione come un’altra; anzi, meno felice d’altre, perché l’ha
introdotto, come altri nostri scrittori giovani, a veri e propri imprestiti
ed imitazioni. Egli ha fatto, figuratamente, il giro del mondo, per
ritornare a casa sua».16
Ecco dunque messi a fuoco i due fulcri della lingua pavesiana,
ancora in gestazione in questo primo romanzo e sempre più strutturata
e vitale nelle opere successive: la ricerca di un equilibrio tra italiano e
dialetto (Verga) e la transizione da oralità a scrittura (letteratura
americana). Come testimoniato anche da Cecchi: «La lingua è
l’incontro fra l’operazione avviata da Verga e l’esempio degli autori
americani. Pavese con questi modelli si pone il problema di una lingua
che sappia aderire alla vita reale e rendere i sapori più intrinseci» 17.

13
Ivi, p. 86
14
L. Vigliani, in “Leonardo”, XII, 1941, pp. 216-18
15
E. Cecchi, in “Nuova Antologia”, 1942, n. 1679, pp. 66-67
16
Ibid.
17
Ibid.
36
Questo paragone con Verga e gli americani però ha spesso indotto
buona parte della critica a vedere quello di Pavese come un percorso
emulativo, portando molti a etichettarlo come scrittore neorealistico.
L’equivoco – comunque comprensibile per l’epoca, specialmente se si
considerano gli ambienti rusticani da romanzo verista richiamati da
Pavese – fu dovuto secondo De Matteis «a un’esigenza culturale
operativa: quella di valorizzare un esemplare di letteratura alternativo
rispetto a quelli in auge nel tempo, per l’impegno di una scrittura
angolosa e sgraziata, per la proposta di temi sconcertanti e crudelmente
realistici nel loro primitivo espressionismo, con tutti i risvolti politici
che una letteratura così aspramente contestatrice presentava». Lo stesso
De Matteis chiarisce l’equivoco parlando di «inadeguatezza di una
lettura realistica di Paesi tuoi» dimostrata «dalla critica degli anni ’60
che ha ravvisato invece, al di sotto della scorza naturalistica, un tessuto
simbolico e metaforico fittamente costruito, dietro al quale opera
l’influsso di conoscenze etnologiche»18.
Proprio le conoscenze etnologiche di cui parla De Matteis
assumono rilevanza vitale ai fini del discorso: etnologia e linguaggio,
in Paesi tuoi quanto in Feria d’agosto, disegnano paesaggi più forti dei
personaggi che li abitano, paesaggi rivissuti – scrive Calvino -
«attraverso una rozza sensualità di immagini»19. È ancora Calvino a
parlare di due mondi che non si compenetrano: quello urbano, troppo
lontano dal senso della natura, e quello contadino, troppo imbevuto di
ignoranza, dove l’uomo è sempre più bestia e sempre meno uomo. Ben
lontano, tutto ciò, dalle derive della letteratura americana a cui Pavese
si ispira, aggiungendo un personalissimo simbolismo di sangue e
carnalità. La «purezza grezza d’espressione» (di nuovo Calvino)
percorre i contorni già tracciati con le precedenti poesie di stampo
narrativo, e porta in scena personaggi che sono maschere prese
dall’esperienza autobiografica dello scrittore, personaggi-
personificazione delle due realtà indagate (città e campagna) e allo
stesso tempo specchio della scissione della personalità dell’autore, che
si frantuma appunto come uno specchio, affidando a ogni frammento
una parte del sé.
Compenetrazione tra i due mondi mancata anche in racconti di Feria
d’agosto come La città, dove il solito io dei monologhi interiori
racconta stancamente la propria migrazione-mutazione dalla campagna
alla città. Il protagonista è una di quelle varie forme che Pavese assume,
ragazzo in bilico sulla voragine dell’età adulta, nato e cresciuto in
campagna, che un giorno decide che se bisogna trascorrere una vita di
solitudine tanto vale essere soli in città, almeno lì si può uscire la sera e
fare l’alba, essere padroni dei propri orari e degli spostamenti, bere con

18
C. De Matteis, in “Studi Novecenteschi”, IV, 1975, n. 11
19
I. Calvino, in “Agorà”, II, 1946, pp. 8-10
37
gli amici e annoiarsi ogni giorno lungo una strada o in un parco diversi.
In città, cioè, si può scegliere quando e come essere soli («Divenne
bello, in compagnia, pensare che la notte o l’indomani sarei stato solo
volendo; o, quando rientravo solo, che mi bastava uscir di casa per far
comitiva» 20 ). L’ambiente cittadino offre la possibilità di tante noie
diverse: solitudine, comitive, donne. Forse offre anche qualcosa in più,
qualcosa che né l’autore né il protagonista sanno, o che non vogliono
dire; ma in questo contesto l’accento va messo sull’atto del
trasferimento, la decisione di cambiare. Gallo, l’amico carismatico e
campagnolo pure lui, è uno dei tanti personaggi che portano la
campagna dentro, viva e tangibile, profumata di vita e animalità, e che
non a caso compie il percorso inverso: stabilitosi inizialmente in pianta
stabile in città, subito dopo la laurea torna in campagna, perché la
famiglia ha bisogno di braccia e in fondo la vita di città non vale lo
sforzo continuo di resistere all’attrazione magnetica della realtà
contadina, con le sue dinamiche fagocitanti e rassicuranti: «noialtri di
campagna siamo così: ci piace guardare di là dalla siepe, ma non
scavalcarla»21.

2.3. Il mondo esterno e l’infanzia: salto e altrove nella poetica di


Pavese

Quasi tutte le storie di Pavese raccontano un salto, quel salto oltre il


famoso Salto della Valle di Belbo, luogo natìo che sempre l’autore si
porterà dentro come un’infezione e una benedizione: il salto fisico,
concreto, dal mondo campagnolo a quello cittadino (da lui compiuto
trasferendosi a Torino), e quello allegorico dall’infanzia-adolescenza
all’età adulta. Due percorsi che andranno sempre di pari passo, non
potendo l’uno realizzarsi senza l’altro, perché crescere vuol dire partire,
lasciare il nido – il paese, piccola realtà – e andare a vedere l’altro
mondo (spesso davvero altro, tanto appare diverso in ogni suo tratto,
abitudine o meccanismo). Diventare adulto significa mettersi
fisicamente alla ricerca d’una compiutezza, da ricercarsi in prima
battuta negli ambienti, nel mondo, lasciandosi alle spalle in ogni senso
possibile la realtà passata. Per poi, scoperta l’età adulta nel mondo
“vero”, carpirne finalmente il segreto (l’indicibile segreto del mito),
quello che si disvela tramite fulminee rivelazioni istantanee e
improvvise epifanie su luoghi da sempre conosciuti ma che mai si erano
davvero saputi. L’approdo al mondo esterno porta in dote la scoperta
che niente si vede per la prima volta, perché tutto si è già visto e

20
C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. 119
21
Ivi, p. 120
38
conosciuto nelle storie sentite da bambini, nei suoni, nei racconti
fantastici e lontani, nei primi sguardi rimossi eppure archiviati,
indistruttibili, nel cassetto più segreto della memoria («Bisogna sapere
che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la
seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo»22). La visione
d’ogni cosa è sempre una ri-visione, uno sguardo secondo, o terzo, o
quarto. Uno sguardo che, si spera, possa essere (se non più vergine e
inedito) finalmente pronto, pronto a cogliere la necessità del movimento
e della distanza al fine di una reale e profonda presa di consapevolezza.
Lasciare un paese fa sì che, attraverso il ricordo e un’indagine interiore
che mai si sarebbe condotta restando, si possa conoscere davvero quel
paese: le sue dinamiche, la sua essenza, la sua verità. Allo stesso modo,
superare l’adolescenza entrando nell’età adulta rende possibile e
necessario – spesso dolorosamente, a volte con estasi – il
riconoscimento della propria vita, del proprio rapporto con la natura e
gli oggetti, con gli altri e con se stessi.
Feria d’agosto è lo studio meticoloso di come «il passaggio dalla
considerazione della campagna come violenza e sangue, da
“conquistare” nel nome della “città” (Lavorare stanca e Paesi tuoi), alla
campagna-infanzia, da esplorare come ricco deposito delle personali
mitologie, è totalmente realizzato»23. Lo studio del «confine che divide
due mondi, quello dell’infanzia, del paese, della natura, dell’istinto,
dell’intemporalità e quello della vita adulta, della città, della cultura,
della ragione, della storia» 24 . Luogo proprio e altrove debbono
necessariamente trovarsi a coesistere, negandosi a vicenda, per
innescare quel corto circuito spazio-temporale dal quale trarre
finalmente la visione rivelatrice del rapporto uomo-luogo. L’altrove
nasce lì dove ci sono distacco, distanza e abbandono: «Io non mi sposai.
Capii subito che se mi fossi portata dietro in città una di quelle ragazze,
anche la più sveglia, avrei avuto il mio paese in casa e non avrei mai
più potuto ricordarmelo come adesso me n’era tornato il gusto»25. A
parlare in questo caso è il protagonista del racconto La langa, prototipo
del futuro Anguilla che, come lui, ha lasciato il paese per emigrare
lontano e poi è tornato, perché quella vita passata, troppo autentica per
essere ignorata, si stava sfocando e rischiava di dissolversi. Qui però il
protagonista, a differenza del discendente Anguilla, non torna per
restare ma solo per fare scorta di immagini, per rinvigorire la realtà di
quei luoghi che gli vivono nel petto e nei ricordi:

22
Ivi, p. 156
23
E. Gioanola, Introduzione a C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. VII
24
Ivi, p. VIII
25
C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. 16
39
Ripresi dunque a viaggiare, promettendo in paese che sarei
tornato presto. Nei primi tempi lo credevo, tanto le colline e il
dialetto mi stavano nitidi nel cervello. Non avevo bisogno di
contrapporli con nostalgia ai miei ambienti consueti. Sapevo
ch’erano lì, e soprattutto sapevo ch’io venivo di là, che tutto ciò
che di quella terra contava era chiuso nel mio corpo e nella mia
coscienza. Ma ormai sono passati degli anni e ho tanto rimandato
il mio ritorno che quasi non oso più prendere quel treno. In mia
presenza i compaesani capirebbero che li ho giocati, che li ho
lasciati discorrere delle virtù della mia terra soltanto per
ritrovarla e portarmela via. Capirebbero adesso tutta l’ambizione
del ragazzo che avevano dimenticato26.

Fusione e scissione. Per realizzare la prima è necessaria la seconda;


per avere ben chiara la propria appartenenza al mondo, a un paese, a
una vallata, e per sentirli parte di sé, come fibre del proprio corpo e
parte della propria identità, bisogna separarsene. È come il «vezzo
piuttosto banale» di cui Pavese parla in Vocazione, l’abitudine cioè «di
cercare il chiuso per goder[s]i l’istante di liberazione quando mett[e]
fuori il naso»27.
Su questo corto circuito sono costruiti tutti gli scritti di Feria
d’agosto, e sempre su questa base si ergeranno i Dialoghi con Leucò e
soprattutto La luna e i falò: un’altra indagine conclusa, come si vedrà,
sull’altrove. Primo fra tutti gli altrove è, comunque, l’infanzia;
consapevolezza che, una volta raggiunta, può essere esperita solo
attraverso l’attività poetica. Pavese ha capito una cosa semplice e
decisiva: l’infanzia, per chi abbia deciso di essere prima di ogni cosa
poeta, è tutto: una scoperta esaltante, per il ritrovamento di un tesoro
custodito dentro di sé, e terribile, per la smentita al programma
racchiuso nel motto «la maturità è tutto». I depositi infantili, ritenuti
causa di un deficit esistenziale immodificabile, costituiscono invece
l’autentica risorsa dell’originalità poetica a cui Pavese si aggrappa o si
arrende. La vigna è forse il racconto-saggio più esplicativo in questo
senso, una parte circoscritta all’interno della raccolta nella quale però
l’autore analizza con efficacia il contatto tra l’uomo in carne e ossa,
giunto ormai a una certa maturità, e il ragazzo che in lui alberga. Già
l’incipit suggerisce la cornice magica entro la quale la rivelazione si
compirà: «Una vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel
cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e
profonde appaiono una porta magica» 28 . La «porta magica»
rappresentata dai filari è l’accesso a quella dimensione di cortocircuito
fra presente e passato: «sono passati gli anni, ma davanti alla vigna

26
Ivi, p. 17
27
Ivi, p. 109
28
Ibid.
40
l’uomo adulto contemplandola ritrova il ragazzo»29. L’uomo adulto, al
cospetto della visione della vigna e di quella porta magica, torna
ragazzo; viene integralmente sostituito, rimpiazzato con effetto
cinematografico dall’altro sé, in una scena onirica a cavallo fra sogno e
flashback:

Il ragazzo saliva per questi sentieri, vi saliva e non pensava a


ricordare; non sapeva che l’attimo sarebbe durato come un germe
e che un’ansia di afferrarlo e conoscerlo a fondo l’avrebbe in
avvenire dilatato oltre il tempo. Forse quest’attimo era fatto di
nulla, ma stava proprio in questo il suo avvenire. Un semplice e
profondo nulla, non ricordato perché non ne valeva la pena,
disteso nei giorni e poi perduto, riaffiora davanti al sentiero, alla
vigna, e si scopre infantile, di là dalle cose e del tempo, com’era
allora che il tempo per il ragazzo non esisteva. E allora qualcosa
è davvero accaduto. È accaduto un istante fa, è l’istante stesso:
l’uomo e il ragazzo s’incontrano e sanno e si dicono che il tempo
è sfumato30.

Tutto ciò si palesa all’uomo alla vista della vigna, portale


spaziotemporale piazzato lì, nel bel mezzo di una campagna, che lo
trasforma letteralmente: «Davanti al sentiero che sale all’orizzonte,
l’uomo non ritorna ragazzo: è ragazzo»31.
Qui si va oltre il contatto diretto, si entra in un vortice di
riconoscimento e sostituzione che dà vertigini. Eppure, non accade
nulla, perché nulla può accadere di più potente e rivelatore della presa
di coscienza di esser sempre presenti a se stessi, pur essendo ogni volta
assenti. Filosofia, questa, declinata in passi di assoluta bellezza nelle
pagine immediatamente successive di Mal di mestiere, dove Pavese
sembra fare un passo indietro rispetto alla simbiosi appena descritta, ma
dove in realtà ribadisce il concetto esponendolo a tutta la sua
molteplicità:

Fermo davanti a una campagna, smemorato, a un cielo chiaro,


a un corso d’acqua, a un bosco, mi sorprende la rabbia
improvvisa di non esser più io, di farmi quel campo, quel cielo,
quel bosco, di cercar la parola che lo traduca tutto quanto fino ai
fili dell’erba, fino al sentore, fino al vuoto. Io non esisto; esiste il
campo, esiste il cielo. Esistono i miei sensi, spalancati come
bocche a divorare l’oggetto32.

29
Ibid.
30
Ibid.
31
Ibid.
32
Ivi, p. 168
41
Per ribadire, subito dopo, come «il più sicuro vivaio di simboli sia
quello dell’infanzia: sensazioni remote che si sono spogliate,
macerandosi a lungo, di ogni materia, e hanno assunto nella memoria la
trasparenza dello spirito»33. Aprire gli occhi a ciò che è stato e che si è
stati è il punto spirituale più alto che un uomo in età adulta possa
raggiungere. Rileggere, in una visione potenziata e completa, ciò che
sin da bambini si era saputo pur non avendone coscienza – cioè che
dall’infanzia in poi la vita è un percorso pieno di strappi e sussulti che
sradicano l’individuo dal reale trascinandolo alla deriva, una deriva di
superficialità e distacco – equivale a rileggere il proprio legame con la
natura. Il finale di Mal di mestiere è un capolavoro, oltreché di
letteratura, anche di filosofia, e merita di essere riportato:

Ciò che è prezioso in fondo a noi sarà dunque questa


concordia discorde d’incontri, di scoperte, di sviluppo. La
tentazione di riattingere con amplesso innaturale l’universo
preinfantile delle cose, è il peccato. Se mai, ci tocca esercitarci
nell’opposto: respingere quella naturalità che ci fosse rimasta
intorno, respingerla per poterla possedere. Ma ben poco la vita
adulta può aggiungere al tesoro infantile di scoperte. Si può bensì
riportare alla luce quelle forme primigenie e contemplarne la
fresca salute, come di radici che il terriccio dei giorni ha
continuato a nutrire. Poi da cosa nasce cosa, e anche i giorni
futuri germoglieranno su questi ceppi34.

Appare a questo punto necessario sapere qualcosa in più su Feria


d’agosto e sulla sua importanza nell’economia della letteratura
pavesiana.

2.3.1. Feria d’agosto

Opera della pre-maturità e di gestazione, ma anche di conclusioni


già raggiunte, Feria trattiene in sé quella che si potrebbe definire una
fase intermedia della produzione dell’autore, ma che già portava in
grembo delle soluzioni finali. In essa prendono infatti corpo e forma, a
sprazzi, le tematiche e gli scenari che saranno consacrati dagli ultimi
due importanti libri.
Il libro è una summa, sintetizzatore d’immagini e dinamiche (quelle
prevalenti ci sono tutte: uomo-luogo, infanzia-età adulta, mito e
sacrificio) e insieme un banco di prova per la mutazione formale ed
espressiva che Pavese avvertiva innescarsi nella sua penna. Lo

33
Ivi, p. 169
34
Ivi, p. 170
42
testimonia il fatto che nel 1942, un anno dopo aver pubblicato la prima
opera in prosa, scrive in una lettera a Fernanda Pivano: «Andando per
la strada del salto nel vuoto, capivo appunto che ben altre parole, ben
altri echi, ben altra fantasia sono necessari. Insomma, ci vuole un mito.
Ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo
indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo»35.
È il periodo della stesura dei nuovi racconti, già iniziata nel ’41 e
protrattasi fino al ’44. Il risultato finale, che vedrà la luce della
pubblicazione nel 1946, sarà il nuovo manifesto letterario dell’autore,
già abbozzato in quella lettera di quattro anni prima. Ma all’epoca della
prima pubblicazione, quando Pavese aveva alle spalle un buon esordio
poetico e sulla testa – spada di Damocle e taglia da fuorilegge – una
consacrazione come prosatore ancora da ottenere, Feria d’agosto fu il
lavoro che più di tutti deluse e creò aspettative fra critici e addetti.
Appena uscito, infatti, diede vita a un acceso dibattito, fatto di punti di
vista diversi e spesso opposti.
Oreste del Buono fu duro sulle pagine di “Costume” (del febbraio
1946), parlando di un’inutile «inclinazione al bozzetto» piuttosto che di
racconti. Pur non mancando prove di talento narrativo condensate in
brani efficaci, secondo Del Buono l’autore si era perso in una serie
monotona e noiosa di descrizioni e dettagli, quando invece avrebbe
dovuto essere più fedele a se stesso, in quanto «se il suo movimento è
verso la narrazione, tentare il bozzetto o il capitolo è inutile: è soltanto
una perdita di tempo, una dispersione». La vita descritta da Pavese nei
racconti e nei saggi di Feria è, conclude Del Buono, inutile: troppo
letteraria, vuota di suono e di sangue, una macchia qualsiasi e sfuggente
di colore, di folclore.
Di tutt’altro avviso Nino Badano che pochi mesi dopo (maggio ’46)
su “Il Popolo nuovo” riprende la puntuale definizione data da Pancrazi
a Paesi tuoi per adattarla all’opera che ne era l’erede, la definizione cioè
di «monologo interiore», perfetta per spiegare la convivenza di motivi
drammatico-psicologici e poetici. Anche ora infatti, scrive Badano, «il
racconto è sempre costruito sulla trama delle emozioni interiori; e
sempre nel tono di una confessione recitata a se stesso». Badano
individua con lucidità l’orbita attorno alla quale ruotano immagini e
temi del libro: la contrapposizione ragazzo-uomo (declinata anche
attraverso l’altra onnipresente contrapposizione, città-campagna, come
si vedrà più avanti) che, attraverso un continuo rimando dal presente al
passato e un gioco fitto ed equilibrato di ricordi crea, come dice
Calvino, una «verticalità di memoria tale da darci un brivido» 36. Ad
affascinare Badano, in aperta polemica con Del Buono, è in particolare
«l’incanto delle parole [che] è portato a possibilità quasi estreme».

35
C. Pavese, Lettere 1942-1944, Einaudi, Torino 1966, p. 639
36
I. Calvino, Pavese in tre libri, in Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Mondadori, Milano 1995 vol. I, pp. 1206-8
43
Stessa linea di Badano quella seguita da Lorenzo Mondo che, nel suo
libro Cesare Pavese, esalta la prosa dei racconti parlando di «pagine
calcolatissime, in cui si sfiora talora il clima della prosa d’arte, eppure
di una freschezza e immediatezza poche volte raggiunte»37.
Esempi, questi, di come l’evoluzione di Pavese avesse suscitato
reazioni diverse: Badano analizza con il giusto trasporto emotivo un
linguaggio che appare sempre più esperto di lirismo, Del Buono tuttavia
non pare avere tutti i torti. Certamente Feria, nonostante alcuni racconti
ottimamente riusciti come Primo amore, Il mare, La città e brani
rivelatori come Una certezza, Nudismo e L’adolescenza, non ha la
compiutezza dell’opera matura, e più che come punto di svolta o di
arrivo s’incastra nel percorso di scrittura come tappa d’avvio per
qualcosa di nuovo, pur sempre fedele a se stesso. A dar conferma di ciò
è ancora una volta Calvino, esemplare nell’atto di leggere Pavese
restituendone un’interpretazione solida ed esatta: «Siamo di fronte a
una lavagna vergine su cui i primi segni debbono essere cancellati per
poter scrivere ancora». Lui stesso continua, analizzando la struttura
tripartita:

Possiamo grossolanamente interpretare la divisione di Feria


d’agosto in tre parti, definendo la prima parte Il mare come
memorie infantili, d’una infanzia propria e altrui, come
raggiungimento d’una condizione di verginità della conoscenza;
la seconda La città come memorie d’una giovinezza più adulta,
tentativo di procrastinare ad essa il gioco di scoperte della
precedente stagione; la terza parte infine La vigna come avviso
di questo dramma tra uomo e ragazzo e memorie di una età
assoluta38.

Una struttura all’interno della quale si muovono una lingua


«trasparente, morbida, guardinga» e un complesso di immagini legate a
quella verticalità di memoria tale da dare i brividi che è stata già citata.
Non si è davanti a un momento di transizione, non a un centro; bensì a
un inizio, un esperimento:

Punto d’arrivo, Feria d’agosto? Tutt’altro. Sembra destino di


Pavese, come è destino comune forse di tutta l’attuale
generazione letteraria, di non potersi fermare sui risultati
raggiunti, ma di continuare ad approfondire una problematica che
pare non debba esaurirsi mai. Né noi vorremmo interrompere la

37
L. Mondo, Cesare Pavese, Mursia, Milano 1984, pp. 68-70
38
I. Calvino, Pavese in tre libri, cit., p. 1207
44
sua indagine col chiedergli un’opera che, chiarite le ragioni del
suo narrare, sia non più un esperimento ma soltanto un risultato39.

Il binomio indagato, quello che sorregge l’intera impalcatura e che


qui interessa affrontare, è uno e duplice: città-campagna e uomo-
ragazzo. Un binomio quasi mai calcato e sottolineato in Paesi tuoi,
sempre più sviscerato successivamente, fino alla massima
esasperazione e alla sostanziale negazione di sé nella Luna e i falò.
Più di tutte, viene incontro a quest’analisi quella fatta da Maria De
Las Nieves Muñiz Muñiz che, in Introduzione a Pavese, esplora la
simbologia del viaggio, definendo innanzitutto quello che è il parallelo
più ovvio: «Feria d’agosto potrebbe venire interpretata come il
racconto del mito personale di Pavese, che trova il suo corrispettivo
classico nella parabola ulisseica […]» 40 . Pavese come Ulisse è sì il
paragone più scontato ma anche l’unico imprescindibile dal quale
prendere le mosse: è lo stesso Pavese, sempre nella lettera a Pivano del
’42, a parlare di «ignoto» e «viaggio per mare», alludendo alla vallata
più lontana del suo Santo Stefano Belbo come il suo orizzonte di
conquista, i suoi «mari del sud». Un viaggio che si prefigura da subito
come movimento doppio: partire, dirigendosi verso l’ignoto, per poi
tornare, affrontando il percorso inverso di ritorno a casa. Ritorno, sia
nel caso di Pavese e dei suoi personaggi che in quello di Ulisse, ai
luoghi e al passato, che ininterrottamente si palesa attraverso i ricordi.
Viaggio d’andata per antonomasia è quello de Il mare, racconto dai
chiari (seppur parziali) rimandi autobiografici, di un ragazzino che si
spinge con un suo amico lontano da casa, più lontano di quanto avesse
mai fatto, verso le colline più distanti che accerchiano il paese e
soprattutto verso l’orizzonte che al di là di esse si apre; storia di un
viaggio in mare (che richiama sia I mari del sud, il componimento che
apriva la raccolta poetica di Lavorare stanca, che l’influenza dell’opera
di Melville, da cui deriva una lettura del mare come simbolo
dell’infinito) svolto via terra; un mare metaforico inteso come orizzonte
di misteri e meraviglie da esplorare e, perché no, conquistare. I due
giovani, Gosto e Augusto, sulle orme del nonno di uno dei due, cercano
storie e informazioni, ma sanno bene che anche dalla cima della collina
più alta non scorgeranno mai il mare, e che, per quanta strada possano
fare, non lo raggiungeranno. Poco male comunque, perché quel che
davvero i due cercano è una narrazione, una leggenda, un mito; la loro
fuga non è verso il mare, ma verso un altrove. E se anche alla fine il
mare non sarà né scorto né tantomeno raggiunto, il ragazzo non vivrà
l’esperienza come un fallimento, perché sentirà di essersi appropriato
di un’idea di altrove, di aver riconosciuto dei confini e averli – sia pur

39
Ivi, p. 1208
40
M. de Las Nieves Muñiz Muñiz, Introduzione a Pavese, Laterza, Bari 1992, p. 91
45
solamente con l’immaginazione e la volontà – superati, raggiungendo
il suo mare. L’altrove esiste, dunque, a prescindere dall’esperienza
diretta che se ne faccia, e in quanto esistente può essere sognato e
immaginato, e anche esperito e interiorizzato, nonostante gli ostacoli
che possono frapporsi tra il soggetto e l’oggetto del suo desiderio41.
Un racconto, Il mare, che apparterrebbe secondo lo schema di Maria
de Las Nieves alla prima tipologia di racconti presenti nella raccolta,
quelli di lunghezza media, con un protagonista maschio e giovane che
inizia la sua personale avventura di scoperte quotidiane; la seconda
tipologia ingloberebbe al contrario tutti quei racconti «di dimensioni
molto ridotte, spesso molto più brevi, aventi come protagonista l’uomo
adulto che ritrova il se stesso ragazzo in un istante epifanico (Il campo
di granturco)». Ma non mancano le sfumature: «fra questi due poli v’è
un ampio ventaglio di possibilità intermedie che vanno dallo sviluppo
più realisticamente narrativo dell’incontro fanciullo/adulto (sarà il caso
dell’Eremita, di Primo amore e della Giacchetta di cuoio), alla
concentrazione del periplo viaggio/ritorno in un breve ripensamento
retrospettivo (La Langa) o in una situazione emblematica (Insonnia)»42.
Ogni storia però custodisce una difficoltà. I protagonisti, siano essi
ragazzi o uomini adulti, manifestano prima o poi il medesimo disagio
nell’esplorare luoghi, ambienti e rapporti umani, o nel sognare di farlo.
Emerge, da questo disagio, un senso di nullità, diretta conseguenza della
fine di un’età felice, o della riscoperta di un luogo, di una situazione o
un ricordo, con occhi nuovi, spesso disillusi. Intoppi sulla strada
evanescente per la felicità e mancamenti provocati da improvvise prese
di consapevolezza si affiancano e si oppongono a miracoli epifanici di
disvelate verità. Sono storie di apparizioni e rivelazioni che si indagano
quando vengono ricordate per essere narrate; ogni narrazione diventa
così indagine di tre piani allegorici considerabili separatamente o tra
loro intrecciati e sovrapposti: città-campagna, adulto-ragazzo e civiltà-
primitivo. Importantissima la chiusura dell’autrice spagnola:

La struttura complessiva di Feria d’agosto punta infatti in due


direzioni: da un lato a raccontare il mito del ritorno vedendo in
esso il paradigma della storia umana che, dopo essersi staccata
dalla natura, ritrova il selvaggio primitivo nel cuore della civiltà
allo stesso modo che il bambino “sopravvive e sussulta”
nell’inconscio dell’adulto; dall’altro a fare un racconto del
raccontare, dove l’artista-sacerdote compie il rito
dell’immersione nel gorgo, auto-esaminando
contemporaneamente il meccanismo. Ecco perché Pavese divise

41
Chiara, in questa dimensione, l’influenza del concetto d’infinito leopardiano. Basta leggere Storia segreta per trovare
un chiaro riferimento: «Una siepe di prugnole mi chiudeva l’orizzonte, e l’orizzonte sono nuvole, cose lontane, strade,
che basta sapere che esistono». C. Pavese, Feria d’agosto, cit., pp. 185-202
42
M. de Las Nieves, Introduzione a Pavese, cit., p. 231 s.
46
il libro in tre parti (ciascuna intitolata a un frammento
significativo), l’ultima delle quali (La vigna) è la più
onnicomprensiva e metaletteraria di tutte, mentre le altre due
narrano rispettivamente il mito di un ragazzo che, ricercando
l’ignoto, diventa uomo (Il mare) e quello di un uomo che ritrova
il ragazzo (o l’inconscio) nella città-foresta (La città)43.

I protagonisti di diversi racconti (Il mare, La città, La vigna) sono


due, o al massimo uno più uno (personaggio principale e spalla),
adolescenti o ragazzini che spesso rappresentano l’uno l’opposto
dell’altro. In Paesi tuoi, Berto non è altro che «una sorta di ambigua
proiezione culturalizzata» di Talino, che invece incarna il cieco istinto
animale che muove l’uomo, aggravato dall’ignoranza, e di fatto la
dimensione oscura dell’animo umano abitata da «oscure forze del
profondo» (De Matteis); Berto e Talino non sono individui diversi e
opposti, sono lo stesso individuo declinato negli opposti poli
socioculturali di città e di campagna. Ciò che Berto non capisce, ma il
lettore sì, è che quanto lui silenziosamente giudica (la bestialità dei
contadini) nel profondo gli appartiene: lui è come loro. Se si analizza
l’episodio finale della morte di Gisella, anzi, è possibile intuire come il
suo animo appaia ben più torbido di quello dei contadini che, spinti
dalla paura della fame – oltre che da un’atavica vocazione a un
imperituro lavoro – si rimettono al lavoro poco dopo aver avuto la
conferma della morte della giovane. Berto invece, mentre giudica quel
cieco meccanismo di vita («Che fischiassero pure, e gridassero e
scoppiasse anche la macchina, pensavo vedendone due, rossi e piantati
lassù sopra il grano, nella polvere che bruciava più del fuoco. È a fare
di questi lavori che gli gira la testa e diventano bestie»44), non costretto
né dalla fame né da altro a lavorare, se ne sta in disparte a osservare un
lutto che pare non toccarlo – nonostante l’intimità che lo aveva legato
alla giovane vittima – abbandonato a una sonnolenta insensibilità. Ci si
potrebbe allora chiedere quale dei due meccanismi di vita sia in realtà
il più cieco e meschino, o quantomeno il più apatico.
La caratteristica comune dei personaggi letterari di Pavese sembra
essere in generale quella del doppio: tutti i personaggi sono dei doppi e
ogni personaggio ha un opposto. Per chiarire: ogni personaggio incarna
una complessità di trame biografiche, dinamiche, traumi, istinti e
passioni (oltre che attitudini sadomasochiste e violente), ma solo in
alcuni questa complessità viene a galla o esplode letteralmente verso
l’esterno; in altri personaggi, semplicemente, tutto ciò resta nascosto,
sopito. È proprio questa differenza a determinare le opposizioni fra
prototipi umani che altrimenti sarebbero identici gli uni agli altri.

43
Ivi, p. 233
44
C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 108
47
Questa differenza determina, all’esterno, delle nette contrapposizioni:
Berto e Talino, Anguilla e Nuto, Anguilla e Valino. Ma le nette
contrapposizioni sono tali appunto solo all’esterno, perché in fondo
ogni personaggio è in sé doppio, e incarna e contiene anche le parti che
negli altri sono attive e predominanti. Perciò, nel caso di Berto, quella
di sentirsi distante da un certo meccanismo di vita o da una certa
mentalità è soltanto un’illusione, perché in realtà nel terreno del suo
inconscio nascono le stesse erbacce.

2.4. L’estate, una stagione perenne

La bella estate, Paesi tuoi, Feria d’agosto, La luna e i falò. Non è


un caso forse che ogni storia di Pavese viva e si sviluppi nel periodo
dell’anno in cui la natura è più viva, prolifera, presente, percepibile con
tutti i sensi, tanto da invadere i protagonisti delle storie con odori e
colori, consistenze e suoni. Non è un caso neanche, allora, che questa
natura così presente s’insinui in ogni pagina: il rapporto simbiotico che
nella percezione dell’autore s’instaura fra uomo e luoghi (specialmente
d’entroterra, habitat naturale – letterario e biografico – di Pavese) è
possibile più che mai nella stagione estiva, stagione di vita per
antonomasia (ma anche di morte: era un ventisei di agosto quando si
suicidò) e, verrebbe da dire, unica stagione possibile. Ogni intima
passione e ogni più cieco istinto trovano occasione per concretizzarsi
durante l’estate. I riferimenti all’inverno o alle mezze stagioni sono ben
pochi e appaiono più come cenni ad abitudini altrui, curiosità su regioni
lontane, brevi fuoripista clandestini. L’inverno è raccontato come un
periodo d’attesa: i campi non possono essere lavorati né le bestie portate
al pascolo, e i piccoli lavori d’ordinaria manutenzione sono rimandati
allo sciogliersi della neve. Ci si scalda al camino e si aspetta: «Così
venne l’inverno e cadde molta neve e il Belbo gelò – si stava al caldo
in cucina o nella stalla, c’era soltanto da spalare il cortile davanti al
cancello, si andava a prendere un’altra fascina – o bagnavo i salici per
Cirino, portavo l’acqua, giocavo alle biglie coi ragazzi» 45 . Quella
invernale è la stagione durante la quale vengono meno le condizioni di
contatto diretto tra uomo e terra; contatto che, nelle campagne
pavesiane, avviene o tramite il lavoro o per oziosa e nostalgica curiosità.
La passione istintiva e svogliata tra Berto e Gisella si consuma nei
giorni della vendemmia, come anche la morte della stessa Gisella; il
desiderio e l’invidia di Anguilla verso le due sorelle Silvia e Irene si
condensano nei mesi caldi, quando le ragazze se ne stanno all’aperto,
sul terrazzo o nel giardino della villa, a starnazzare su giovani

45
C. Pavese, La luna e i falò, Einaudi, Torino 2014, p. 63
48
pretendenti mentre lui e i mezzadri adulti, sporchi e cotti dal sole,
lavorano lì vicino. La festa della Madonna dell’Angelo, le feste di
Canelli e dei paesi limitrofi e la tradizione dei falò riempiono le sere e
le notti di agosto, quando anche quella gente povera e disperata
dimentica di essere povera e disperata e scende e risale le valli, coi
vestiti buoni e le voci allegre, bevendo e cantando, ballando e scordando
la morte. Sembra importante per Pavese potersi muovere in scenari
luminosi, in cui le attività di uomini e donne non incontrino ostacoli e
nei quali gli scenari naturali risultino ben visibili, e percepibili, da ogni
punto di vista.
Nel prossimo paragrafo si proseguirà l’analisi sul rapporto con la
natura che la poetica di Pavese contiene e rivela.

2.5. La luna e i falò: appartenenza ed estraneità nell’opera finale


di Pavese

«Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono


buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di
mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri
qualcosa di più che un comune giro di stagione»46. Così scrive Pavese
nella prima pagina del suo ultimo romanzo, La luna e i falò,
esplicitando da subito la vera essenza, il nucleo centrale e il cuore
pulsante della sua opera di congedo. «Tutte le carni sono buone»:
l’uomo è uomo, sempre e ovunque. «Tutte le carni sono buone e si
equivalgono»: nessun uomo è migliore di un altro, ognuno afflitto e
fiaccato dal mondo, ognuno oscuro, disperato. La differenza sta, al
limite, nel grado di evidenza che in ognuno assume questa disperazione;
c’è chi la porta, ben visibile, stampata in fronte o impressa negli occhi,
chi incisa sulla pelle, chi dentro, al riparo da occhiate rapide ma non da
uno sguardo più profondo o da uno studio attento. «Ma è per questo che
uno si stanca e cerca di mettere radici»: uno sta per tutti perché,
appunto, ogni carne si equivale; e tutti sentono ad un certo punto il
bisogno di trovarsi un luogo, e in un luogo trovarsi. Le radici, quindi,
non si hanno, si mettono. Perché per mettere radici da qualche parte,
bisogna prima conoscere, tastare il terreno e girare, «farsi terra e paese».
Non farsi una terra e un paese, acquistare cioè un lotto, chiedere un
mutuo per la casa o prenderne una in affitto. Farsi terra e paese, come
lui stesso, successivamente chiarisce: «sono io il mio paese». «Perché
la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di
stagioni»: resistere, perdurare, non arrendersi alla superficialità

46
Ivi, p. 3
49
dell’abitare e alla vana fuggevolezza dei rapporti. La carne, l’uomo, può
valere qualcosa di più di «un comune giro di stagione».
Pavese, che si muove nel romanzo nelle vesti di Anguilla, è un
orfano di luoghi alla ricerca del «perché un paese è un paese» (Calvino).
Il protagonista è un giovane orfano adottato quando era ancora molto
piccolo da una povera famiglia contadina che lo aveva accolto in casa
più per le cinque lire di rendita mensile elargite alle famiglie adottive
che per spirito cristiano di carità. Un orfano – nessun genitore biologico,
nessun legame di sangue, una discendenza perduta – e anche un apolide
(nessun luogo di nascita, nessun posto sentito come casa), ovunque
estraneo e ovunque servitore. Difatti trascorre l’infanzia e l’adolescenza
lavorando prima per la famiglia adottiva, nella valle del Belbo, poi per
un’altolocata famiglia di possidenti «alla Mora». Sono, quelle che
fanno da sfondo alla vicenda – anche se parlare di sfondo appare
oltremodo riduttivo considerata l’assoluta centralità che i paesi e i
paesaggi ricoprono nel romanzo – tutte località delle valli piemontesi,
uno scenario naturale dai dolci pendii collinari che dalle Langhe e dal
Monferrato declinano nel Basso Piemonte. Fulcro delle vicende è Santo
Stefano Belbo, paese natìo di Pavese, incastonato in una valle vignaiola,
ma frequenti sono i rimandi ad altre località: Alba, Canelli, Calosso,
Gaminella (in Cerrina Monferrato), Cossano Canavese. Pavese
conferma la tecnica delle linee invisibili: ritaglia un perimetro
nell’entroterra piemontese entro il quale le sue storie accadono; i luoghi
sono sempre gli stessi, a prescindere dai nomi e dal taglio che la
narrazione dà loro, gli scenari del Pavese autore sono gli stessi scenari
del Pavese uomo. L’unica soluzione che ha è perciò quella di emigrare,
mettersi in viaggio con la speranza magari di trovare un posto dove
mettere radici. L’America non si rivelerà quel posto e allora, maturo e
disilluso, torna senza un preciso motivo («Ma dove andare? Ero arrivato
in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora
cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne»47), spinto da una
forza spontanea e improvvisa nei luoghi d’infanzia, dove non tutto è
come si aspettava: «ma non mi ero aspettato di non trovare più i
noccioli. Voleva dire ch’era tutto finito. […] Capii lì per lì che cosa
vuol dire non essere nato in un posto, non averlo nel sangue, non starci
già in mezzo sepolto insieme ai vecchi, tanto che un cambiamento di
colture non importi»48.
Il grado di appartenenza a quella realtà rurale e contadina si
manifesta per Anguilla attraverso l’importanza data a un cambio di
coltura: i noccioli che ricordava, quelli che da bambino vedeva tutti i
giorni e che ancora da adulto associava a quella strada, non ci sono più.
E il fatto che non ci siano più è un trauma, una perdita d’equilibrio e

47
Ivi, p. 15
48
Ivi, p. 5
50
certezze. Per i contadini del Belbo, invece, è un fatto assolutamente
normale, una prassi ovvia e di scarsa importanza emotiva. Questa è la
differenza, la distanza percettiva tra chi appartiene ad un luogo e sente
quel luogo appartenergli, e chi soltanto ci crede e ci spera. Una lettura
emotiva è paradossalmente sintomo di estraneità, percezione turistica
della realtà circostante e mancata simbiosi. A confermarlo è lo stesso
Anguilla:

Certamente, di macchie di noccioli ne restavano sulle colline,


potevo ancora ritrovarmici; io stesso, se di quella riva fossi stato
padrone, l’avrei magari roncata e messa a grano, ma intanto
adesso mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta,
si vive un giorno o degli anni, e poi quando si trasloca restano
gusci vuoti, disponibili, morti49.

Se fosse stato il padrone della riva, lui stesso avrebbe sostituito la


coltura di noccioli con un’altra, quantomeno per una necessaria
rotazione benefica per la terra, eppure da estraneo, da americano di
ritorno, si sente privato di una parte di passato, di un ricordo e di
un’immagine cara, e vive l’accaduto come si vive l’abbandono di un
appartamento abitato per qualche tempo: familiarità mai divenuta
essenza simbiotica. Per questo, destabilizzato da una tale sensazione di
estraneità, il protagonista si chiede: «Possibile che a quarant’anni, e con
tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio
paese?»50, e presenta, fin da subito (in chiusura del primo capitolo),
quella che è l’altra parte di sé (del sé Anguilla e del sé Pavese) e della
vita che ha condotto: Nuto, il ragazzotto che invece da quei posti non
se n’è mai andato e ha imparato a viverci (due atti complementari
perché, per farcela a vivere in quella valle, non bisogna mai uscirne).
Nuto è il primo a parlare di destino, di quella forza motrice che
muove il caso e gli eventi, che salva vite o le condanna, secondo un
criterio preciso e rigoroso ma inaccessibile. È per questo che, sostiene,
molta gente alla Mora sta male ma rimane: «È perché c’è un destino»51.
Nel caso di Nuto qualcosa sembra davvero scritto, lo sa lui e sembra
riconoscerlo in qualche modo anche Anguilla quando afferma:

È un destino così, dice Nuto – che in confronto con me non si


è mosso. Lui non è andato per il mondo, non ha fatto fortuna.
Poteva succedergli come succede in questa valle a tanti – di venir
su come una pianta, d’invecchiare come una donna o un caprone,
senza sapere che cosa succede di là dalla Bormida, senza uscire
dal giro della casa, della vendemmia, delle fiere. Ma anche a lui

49
Ibid.
50
Ivi, p. 6
51
Ivi, p. 17
51
che non si è mosso è toccato qualcosa, un destino – quella sua
idea che le cose bisogna capirle, aggiustarle, che il mondo è mal
fatto e che a tutti interessa cambiarlo52.

Lui invece, Anguilla, sì che doveva uscire, andarsene, perché come


gli dice l’amico: «Tu a Genova, in America, va’ a sapere, dovevi far
qualcosa, capire qualcosa che ti sarebbe toccato»53.
Si apre il dualismo che percorrerà l’intera opera fino alla sua
conclusione, contrapposizione tra un’idea di destino solida,
puntualmente riaffermata, e un rifiuto disincantato di quest’idea. Ogni
qualvolta un nuovo personaggio entrerà in scena sarà sottoposto
all’esame del destino, per capire se ciò che gli accade era previsto e
prevedibile, o totalmente inaspettato. E ogni volta che l’autore
indugerà, soffermandosi sulla storia o sulla descrizione di un
personaggio, riaprirà la questione. Come accade per Valino, il povero
mezzadro segnato dalle fatiche della terra e da una profonda
disperazione – affrontata con cieca virile violenza –, mai uscito dalla
valle del Belbo. Il suo ingresso in scena porta Anguilla a interrogarsi su
quale sarebbe stata la sua vita se fosse anche lui rimasto: probabilmente
sarebbe diventato come quell’ometto scontroso e disperato. Anguilla
nega, e lo farà sempre, l’idea di destino sostenuta da Nuto, e lo fa in
questo caso paragonando la sua storia a quella di Valino: «[…] se
vent’anni prima non fossi scappato, quello era pure il mio destino.
Eppure, io per il mondo, lui per quelle colline, avevamo girato girato,
senza mai poter dire: “Questi sono i miei beni. Su questa trave
invecchierò. Morirò in questa stanza”» 54 . L’ipotetico scenario della
non-partenza lo avrebbe condannato alla stessa sorte del povero
contadino, eppure la partenza, con tutta la distanza geografica e
culturale messa tra sé e quei luoghi, non lo avevano salvato proprio da
nulla. Ecco il paradosso che tenta di risolvere Pavese nella sua opera di
commiato. Questo è quel che sembra aver capito Anguilla fin dal
momento in cui ha deciso di tornare: nulla lo ha salvato, nulla potrebbe
salvarlo, ma quei luoghi sono cosa sua, gli appartengono in qualche
modo. La fortuna che sperava di trovare, senza darle un volto né una
forma precisa, non esiste, e l’America non è stata più casa di quanto lo
fosse la Mora o la valle del Belbo, e allora sì che la Mora e la valle del
Belbo assumono la fisionomia di casa, perché lì almeno ci aveva
passato una vita vera: l’infanzia.

Ci sono poveri disgraziati che per quanto si affannino semplicemente


non appartengono ad alcun luogo, questo Anguilla lo sa già, ma prima
di convincersene definitivamente ha bisogno di reimmergersi in quei
52
Ivi, p. 33
53
Ivi, p. 17
54
Ivi, p. 21
52
luoghi passati, scenario d’infanzia e di lunghi anni di vita, luoghi che
più di altri si avvicinano a un’idea di casa, a un concetto di
appartenenza. Ha bisogno, cioè, di riprendere contatto col passato
attraverso il presente, non per vivere di ricordi ma per capire se quella
realtà sia la sua realtà. Elio Gioanola ha letto il ritorno pavesiano
escludendo nettamente il ritorno fascinoso ai ricordi e la mera nostalgia
di passato:

Al paese Anguilla ritorna non per tuffarsi nel ricordo,


compiendo un viaggio dalla realtà alla memoria, nel tentativo di
recuperare il tempo favoloso dell’infanzia: il reduce anzi conduce
la sua esplorazione con l’attenzione sempre desta sull’«adesso»,
opponendo all’attrattiva dell’«una volta» la chiara
consapevolezza delle sedimentazioni apportate dal tempo sul
nucleo della consistenza originaria. Si attua in questo libro in
maniera compiuta la saldatura di memoria e realtà a cui tutta la
ricerca di Pavese converge: la persuasione teorica che per
ritrovare la condizione dell’«infanzia» più che sforzo
mnemonico si richiede «scavo nella realtà attuale» si realizza qui
con estremo rigore, mettendo fine alle opposizioni vistosamente
simboleggiate dal contrasto città-campagna55.

Sulla questione città-campagna si tornerà più avanti. Qui interessa


sottolineare come Gioanola neghi con convinzione la lettura del ritorno
come ritorno al passato e ai ricordi. È innegabile infatti l’attenzione del
protagonista rivolta all’«adesso», l’osservazione condotta con perizia
quasi scientifica di tutto ciò che è o non è cambiato – luoghi, persone,
usanze, incontri, tradizioni –, ma proprio questa perizia di osservatore
apre a un’inevitabile operazione di confronto col passato. Non sarebbe
stato possibile scrivere questo romanzo – o sarebbe stato un romanzo
completamente diverso – senza l’imprescindibile premessa del passato;
un passato che il personaggio principale si porta dentro, che confronta
con il nuovo presente che gli si apre sotto il naso, un passato da cui
fugge e col quale aspira a riconciliarsi. Il passato, perciò, appare
totalizzante almeno quanto il presente. E non solo come termine di
paragone: si respira tra le pagine il meraviglioso agrodolce del ricordo
nostalgico, mai retorico, sempre lirico. Il lirismo di quest’opera, da
molti elogiato, risiede in due fulcri contingenti di energia: il paesaggio
e il ricordo. Sono queste le forze che forniscono costante energia alla
storia, che in termini di pura trama pare non dirigersi da nessuna parte
e che invece si muove a zig-zag tra luoghi diversi, cristallizzati nella
loro dimensione di città o campagna, nonluoghi lontani come le remote

55
E. Gioanola, Cesare Pavese. La poetica dell’essere, Marzorati, Milano 1971, p. 357
53
stazioni di servizio americane, e mondi familiari, costantemente in
bilico fra presente e passato.

2.5.1. I tre volti del movimento di Pavese: Anguilla, Nuto, Cinto

Il protagonista è quindi Anguilla, personaggio maggiormente


strutturato e completo rispetto al Berto di Paesi tuoi (cinico e
insensibile, dietro il quale l’autore si era completamente barricato e
nascosto) – che aveva estremizzato alcuni aspetti del carattere di
Pavese, omettendone totalmente altri –, ma è anche Nuto, incarnazione
di ciò che l’autore non è mai stato: colui che è rimasto. Franco Fortini
ha scritto a proposito: «[…] un amico rimasto, un altro se stesso che
non è partito, che in sé porta volontà di intendere e cambiare il mondo
e senso di un fato, di una realtà irrazionale […]» 56 , per poi parlare
invece dell’amico, l’uomo che è partito come figurazione di Pavese ma
anche immagine di una situazione storica degli italiani di quegli anni.
Una doppia situazione rappresentata con chiarezza e lucidità dal
disegno realistico e verosimile di due personaggi: chi emigra nel grande
mondo e chi è costretto a rimanere a vivere tra le contraddizioni di una
società sviluppatasi in maniera imperfetta fra incoerenze e coesistenza
di mondi tra loro remoti, all’interno della lacerazione tra realtà e mito,
città e campagna, progresso e immobilità, ricchezza e miseria.
Nell’analisi di Fortini, il ritorno dell’orfano, dell’uomo solo-Anguilla,
è guidato niente più che dall’assenza di ogni speranza (un ritorno perciò
in parte anomalo, essendo i ritorni spesso guidati da motivi pratici o
affettivi, come nel caso di Conversazione in Sicilia di Vittorini). Chi si
salva davvero, secondo Fortini, è proprio Nuto, personaggio complesso
e tra i più felici di Pavese, ma non solo: anche Cinto, il ragazzo storpio,
si affaccia su buone probabilità di salvezza, grazie all’intercessione
dello stesso Anguilla, empatico verso il ragazzino e intenerito
dall’incredibile somiglianza riscontrata con il se stesso fanciullo; sarà
lui a insistere per estrarre Cinto da quella vita nei campi e salvarlo dagli
stenti che suo padre (Valino) aveva patito e fatto patire alla sua famiglia
fino alla tragedia conclusiva.
Cinto è la terza parte della proiezione di sé che Pavese frantuma e
affida a diversi alter ego letterari. Cinto, tipica figura verista, ragazzo
selvatico e schivo, sempre pronto alla fuga (impaurito dalle botte del
padre), vive in ascolto di ciò che gli si muove attorno, con la perenne
missione di nascondersi e mettersi in salvo. Un Rosso Malpelo
circospetto e inafferrabile, i cui primi aggressori e carnefici sono i suoi
familiari e le persone a lui più vicine, quelle che lo chiamano per nome,

56
F. Fortini, in “Comunità”, n.9, 1950, p. 66
54
gli danno ordini e lo vedono come il povero storpio con un pessimo
carattere. Ma Cinto ha, a ben vedere, tutte le caratteristiche necessarie
per far scattare la dinamica dell’empatia da parte dell’americano tornato
tra boschi e vigne: Anguilla vede nella vita del ragazzo la sua stessa
vita, quella che aveva condotto per tutta l’infanzia, da garzone di
campagna sfruttato e poco stimato, alle dipendenze delle famiglie che
se lo passavano come un ferro del mestiere; una vita all’ombra delle
ville luccicanti abitate dai padroni e dalle loro figlie, vita dalla quale
aveva deciso di fuggire, prima sfruttando il periodo di leva militare, poi
cogliendo l’opportunità di fuga imbarcandosi verso il Nuovo Mondo.
Per questo quando Anguilla conosce Cinto, nonostante si senta ormai
irreversibilmente diverso da lui («Venivo da troppo lontano – non ero
più di quella casa, non ero più come Cinto, il mondo mi aveva
cambiato»57), decide di salvarlo. Nuto, fedele alla sua idea di destino,
sembra non capire l’interesse dell’amico riguardo la sorte del ragazzo;
lui si sarebbe affidato semplicemente al fato, alla speranza in un
cambiamento dello stato delle cose, convinto che mettergli in testa idee
sull’America, sul mondo, sulla fuga, lo avrebbe solo confuso, o peggio,
illuso di poter aspirare a un salto sociale e a una vita più che dignitosa.
«“Cosa gli metti delle voglie? Tanto se le cose non cambiano sarà
sempre un disgraziato…”», dice infatti Nuto, e poco dopo: «“Ma è
inutile mandarlo in America. L’America è già qui. Sono qui i milionari
e i morti di fame”»58. Ma Nuto, non essendo orfano, né “bastardo” né
storpio, non può capire cosa significhi essere dei reietti, gli ultimi senza
patria, poveri servitori alle dipendenze di altri. È così che infine, dopo
la sciagura occorsa alla sua famiglia, Cinto verrà salvato dalla collisione
di due diverse visioni del destino, quella fatalistico-progressista di Nuto
(che si affida a un ordine scritto con la chiara volontà però di contribuire
a quel cambiamento per il quale prima o poi sarà il momento) e quella
negazionista (che nega l’esistenza stessa del destino e sostiene in forma
stilizzata la teoria dell’ homo faber ipsius fortunae) di Anguilla.

Appare più chiaro, a questo punto, il perché della decisione del


protagonista di lasciare tutto e cercare fortuna lontano. Primo: l’assenza
di legami tanto forti da trattenerlo (si è accennato alla sua condizione di
orfano che inevitabilmente ne aveva condizionato l’infanzia,
cristallizzandolo in un limbo sociale dal quale, al pari di taluni soggetti-
reietti delle società medioevali, non sarebbe mai potuto venir fuori).
Secondo: la necessità di capire se quei luoghi erano davvero i suoi
luoghi. Per capirlo, si rendeva necessario emigrare, abbandonare quella
vita alla ricerca di occhi nuovi, distaccati, di un punto di vista differente,
che il tempo e la distanza geografica avrebbero reso estraneo.

57
C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 60
58
Ivi, p. 40
55
Abitare per sempre lo stesso luogo significa per Pavese sentire quel
luogo parte di sé, quindi darlo per scontato e in fondo non vederlo. Per
capire davvero un luogo bisogna esserci stati a lungo, nati e cresciuti,
per poi averlo abbandonato, così da maturare uno sguardo inedito, mai
sperimentato prima, e dare così vita a una consapevolezza nuova.
Quando si torna, poi, lo si fa con sensazioni vibranti e ricordi
stranamente freschi e nitidi, ma con la consapevolezza di essere ormai
irrimediabilmente estranei. La consapevolezza nasce dall’abbandono:

Invece il figlio non l’avevo, la moglie non parliamone – che


cos’è questa valle per una famiglia che venga dal mare, che non
sappia niente della luna e dei falò? Bisogna averci fatto le ossa,
averla nelle ossa come il vino e la polenta, allora la conosci senza
bisogno di parlarne, e tutto quello che per tanti anni ti sei portato
dentro senza saperlo si sveglia adesso al tintinnìo di una
martinicca, a una voce che senti sulla piazza di notte. Il fatto è
che Cinto – come me da ragazzo – queste cose non le sapeva, e
nessuno nel paese le sapeva, se non forse qualcuno che se n’era
andato59.

È necessario, in sostanza, un atto volontario di


“depersonalizzazione”. Produrre attraverso l’abbandono della terra –
quella che scorre nel sangue, che si ha nelle ossa «come il vino e la
polenta» – una percezione distaccata del proprio corpo-luogo. Anche
Sergio Givone sembra sostenere questa tesi nell’introduzione ai
Dialoghi con Leucò dell’edizione Einaudi del 1999, dove scrive:
«Quanto alle radici o ai luoghi dell’infanzia: solo chi sfugge alla loro
fascinazione dopo esserci stato può sperare in una sia pur improbabile
salvezza»60. Givone individua anzi in questo il vero grande tema di tutta
l’opera pavesiana, portato all’apice dello sviluppo e della chiarezza
nell’ultimo romanzo:

Con La luna e i falò Pavese ripropone con piena coerenza di


sviluppo, magari in un quadro finalmente e definitivamente
messo a fuoco grazie all’incursione nella grecità, il suo vero,
unico tema: quello, odisseico, del ritorno sui luoghi che da
sempre sono i nostri e nei quali tuttavia non possiamo sostare
dovendo invece lasciarli, allontanarci, fuggire61.

Si diceva nel primo capitolo di come la creazione di un altrove sia il


risultato del movimento dell’uomo finalizzato alla felicità, in questo
caso rendere un luogo un altrove pare essere la maniera più ovvia per

59
Ivi, p. 43
60
S. Givone, Introduzione a C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino2014, p. III
61
Ivi, p. XII
56
mitizzarlo e interiorizzarlo. È quello che accade in Feria d’agosto con
il mare: nonostante la prima sezione e un racconto s’intitolino Il mare,
questo non viene mai direttamente presentato. È sempre ricordato o
immaginato. Il perché di questo meccanismo è lo stesso Pavese a
spiegarlo: «Vivere in un ambiente è bello quando l’anima è altrove. In
città quando si sogna la campagna, in campagna quando si sogna la
città. Dappertutto quando si sogna il mare»62.
Accade sostanzialmente ciò che è stato poi teorizzato da Marc Augé:
il ricordo, che nasce nel momento in cui si rientra in contatto con un
luogo sentito come proprio, chiude un cerchio, quello della partenza e
dell’evasione, che tornano ad essere condizioni interiori fondendosi al
luogo antropologico delle radici. La vera essenza di un movimento è
tutta nel ritorno dopo l’abbandono: è con la consapevolezza del bisogno
di questa sorta di esperienza corporea ed extracorporea, territoriale ed
extraterritoriale, che Pavese disegna il suo protagonista, un uomo che
torna nelle Langhe per rivedere qualcosa che aveva già visto e che
conosceva bene («Potevo spiegare a qualcuno che quel che cercavo era
soltanto di vedere qualcosa che avevo già visto?»63); per vivere, infine,
una doppia esperienza: riappropriarsi di una visione intima, familiare,
di scenari e oggetti ibernati in una condizione eterna (le cose e i discorsi,
le fiere, le facce) e viverla in maniera inedita, nuova, irripetibile. E
quando Nuto, sempre in attesa di un fantomatico cambiamento, lo
accusa di essere passivo e accondiscendente nei confronti
dell’immobilità di quella realtà, lui non capisce, non condivide la
preoccupazione per un mondo immutato e apparentemente immutabile,
né la paura per un tempo che sembra cristallizzato e dove ogni cosa
resta uguale a se stessa. La mancanza di stravolgimenti garantisce ad
Anguilla il perdurare dell’illusione dell’appartenenza perché, lui più di
chiunque altro, ha un gran bisogno di appartenere.

62
C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 2014, p. 299
63
C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 44
57
2.6 Introduzione al mito nell’opera di Pavese

Che la produzione di Pavese sia profondamente segnata dal mito è


ormai chiaro da tempo, grazie ad attente e accurate letture che hanno
affiancato al motivo del mito quelli, altrettanto importanti, di simbolo e
sacrificio. Ma per un corretto approccio al mito pavesiano si rende
necessaria la presa in considerazione di tre piani, individuati da
Calvino, sui quali la ricerca di Pavese si basa: «piano della memoria,
piano della storia, piano dell’etnologia»64. Infatti, come Calvino scrive
in Saggi italiani 1945-1985: «Collegare l’etnologia e la mitologia
greco-romana alla sua autobiografia esistenziale e alla sua costruzione
letteraria era stato il costante programma di Pavese»65. Dell’importanza
del ricordo si è già detto parlando dell’impossibilità della prima visione
(conosciamo ogni cosa e prendiamo coscienza della sua esistenza
sempre attraverso un secondo sguardo), ma non basta:

In alcune pagine di Feria d’agosto e in un gruppo di saggi


Cesare Pavese espose con un certo impegno di teorico le sue
convinzioni sul mito e in particolare sui rapporti tra mito e poesia.
Sono pagine di sintesi che riflettono con qualche chiarezza le
letture di testi di storia delle religioni e d’etnologia – in senso
lato: a cominciare da Erodoto e dal Vico – fatte da Pavese, e
poiché si riferiscono esplicitamente al suo “mestiere di poeta” ci
sembrano un opportuno punto di partenza per un’indagine sulla
parte avuta dalle conoscenze etnologiche nella sua vicenda
artistica66.

Così comincia il capitolo Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito


del libro Letteratura e mito dello storico e critico Furio Jesi, indagine
multifocale e polifonica sulle origini e sullo sviluppo del mito nella
moderna letteratura, italiana e non. Secondo Jesi le principali influenze
nel caso del mito pavesiano sono da ricercare nella sfera letteraria del
secolo precedente – l’esoterismo di D’Annunzio, Stefan George, Rilke
(che vede il fanciullo come “colui che vede”, “colui che conosce”) – ma
anche in quella scientifica che vedeva protagonisti personaggi come
l’etnologo tedesco Leo Frobenius, gli storici delle religioni e filologi
Walter F. Otto (tedesco) e Károly Kerényi (ungherese), e l’italiano
Raffaele Pettazzoni. Influenze quindi geograficamente disparate,
provenienti da realtà e culture sostanzialmente differenti, ma tra le quali
spicca, secondo Jesi, quella tedesca: nell’ambiente germanico il
linguaggio che veicola il mito pare destinato a diventare sempre più
solenne, più preciso nell’evocazione di simboli, fino ad acquistare col

64
Ivi, p. 164
65
Ivi, p. 163
66
F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi, Torino 2002, p. 131
58
poeta Stefan George «le prerogative di un vero e proprio linguaggio
tecnico del simbolo» 67, portato ad avere potenzialità simboliche mai
esplorate prima; Jesi infatti afferma: «Nell’ambiente di George la
dottrina del simbolo, e del mito come repertorio di simboli, giunse a
precise formulazioni teoriche sia nel campo della poesia […], sia in
quello della storia e della filosofia […]»68. Nel caso specifico di Pavese
scrive:

le sue tendenze, le sue intuizioni sul mito e sul simbolo,


furono confermate dalle letture etnologiche, e giunsero per
questa via a svilupparsi fino a ordinarsi in una teoria abbastanza
rigorosa. Accostandosi ai testi etnologici Pavese acquisì
concezioni che egli forse credette garantite dalla oggettività della
ricerca scientifica specialistica, ma che in realtà erano nate nel
riflesso di quelle elaboratesi nell’ambito della poesia germanica
della fine del secolo69.

I principali punti di contatto tra Pavese e Kerényi sono da


individuare nell’«attimo estatico» come essenza della rivelazione del
mito – l’atto cioè che rivela e contemporaneamente apre alla morte
(essendo l’estasi un atto di annullamento di sé) – e nel tentativo di
ridurre a chiarezza il mito: Kerényi infatti non smentisce mai la
possibilità di accedervi al di fuori della morte (e quindi in vita), e anzi
utilizza i mezzi acquisiti dalla psicoanalisi per esaltare le capacità
terapeutiche del mito, così come Pavese tenta di ridurre i miti a
chiarezza, riconducendo ogni nuova esperienza ai prototipi mitici
infantili in un continuo accavallarsi di senso di vita e senso di morte. Di
qui (e dall’influenza congiunta subita da Thomas Mann) l’intensificarsi
di quella tendenza alla morte che certo già possedeva, e l’elaborazione
del concetto secondo il quale «far poesia significa portare a evidenza e
compiutezza fantastica un germe mitico. Ma significa anche, dando una
corposa figura a questo germe, ridurlo a materia contemplativa,
staccarlo dalla materna penombra della memoria, e in definitiva
abituarsi a non crederci più, come a un mistero che non è più tale»70.
Quest’accavallamento di senso di vita e senso di morte ha origini ben
più lontane. Jesi, sempre nel saggio Pavese, il mito e la scienza del mito,
cita a un certo punto l’Iliade, in particolare il momento in cui Priamo si
reca alla tenda di Achille, nell’accampamento degli Achei, per
supplicarlo di riavere indietro il cadavere di suo figlio. Secondo Jesi il
cadavere di Ettore è il simbolo di quell’elemento di morte che sempre
risiede nell’atto della procreazione. Priamo sta cioè ricercando quella

67
Ivi, p. 133
68
Ibid.
69
Ivi, p. 135
70
C. Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1997, p. 350 s.
59
parte di morte che trasmise al di fuori di sé nell’atto di generare Ettore,
forse per estrapolarlo da quel corpo morto nella vaga speranza di
ridargli la vita, forse per riappropriarsi di quella sua parte mortifera,
volendo egli stesso morire. Qui Jesi costruisce un discorso che
riecheggia un’influenza heideggeriana: «passato e avvenire sono
partecipi della morte: antenati e figli sono i vincoli che l’uomo ha con
la morte. L’uomo muore nei suoi predecessori e nei suoi figli. Ma dai
suoi predecessori l’uomo trae vita, e nei suoi figli l’uomo trasmette la
vita. È quindi quel flusso di vita – nel cui centro sta l’uomo presente –
che è mescolato di morte» 71 . “Essere-nel-mondo” e “Essere-per-la-
morte”: la morte sovrasta l’esserci; morte intesa non come presenza che
si attua, non come mancare ultimo ma come presenza complementare
alla vita stessa72. Allo stesso modo in Pavese vita e morte, presenza e
assenza si compenetrano attraverso il mito e l’attimo estatico che a esso
introduce (i ricordi sono la memoria del mito, del simbolo): «Che i
nostri ricordi nascondano il capo vuol dire appunto che attingono alla
sfera dell’istintivo-irrazionale. In questa sfera – la sfera dell’essere e
dell’estasi – non esiste il prima e il dopo, la seconda volta e la prima,
perché non esiste il tempo. Ciò che in essa è, è: qui l’attimo equivale
all’eterno, all’assoluto» 73 . Attimo come vita, come rivelazione
epifanica di un passato mitico da leggere e decifrare per acquisire una
consapevolezza superiore dell’essere al mondo, che però – scrive
Pavese – equivale all’eterno, all’assoluto, che altro non può essere che
la morte. Si osserva qui portato a compimento – seppur con porte tuttora
spalancate su varie interpretazioni – un processo che accomuna Pavese
ai pensatori tedeschi, precursori del pensiero di simbiosi e conflitto tra
vita e morte, essere e non essere, nonché della visione dell’archetipo
come chiave di lettura per il mito, vero grande mistero pregno di senso
della vita e del mondo.
Nel paragrafo successivo si prenderanno le mosse ancora da Jesi per
introdurre il percorso di avvicinamento a una lettura congiunta di mito
e sacrificio nell’opera di Cesare Pavese.

2.6.1. Mito e sacrificio: la festa

Nella sua introduzione a La bella estate dell’edizione Einaudi 1966,


Furio Jesi passa in rassegna la trilogia (pubblicata per la prima volta nel
1949 e vincitrice del Premio Strega l’anno seguente) composta da Bella
estate, Il diavolo sulle colline e Tra donne sole, analizzando come la

71
F. Jesi, Letteratura e mito, cit., p. 156
72
cfr. M. Heidegger, Sein und zeit, CW Niemeyer Buchwerlage GmbH, Halle 1927, trad. it. A. Marini, Essere e tempo,
Mondadori, Milano 2017
73
F. Jesi, Letteratura e mito, cit., p. 157
60
sostituzione del mito della festa con il mito del sacrificio sia la norma
dinamica della vicenda di Pavese, che si ripresenta in ogni sua opera e
che dunque vale ad inquadrare organicamente ogni creazione nella sua
sorte personale. In effetti, alla luce di quanto detto sin qui – e senza
dover necessariamente prendere in esame anche il trittico de La bella
estate per averne l’evidenza sotto gli occhi – è riscontrabile quello che
si potrebbe definire un percorso unico e comune all’interno delle opere
(e delle storie) di Pavese; un percorso articolato in tre tappe, che sono:
innocenza, peccato, sacrificio.
Si è detto di quanto spazio occupi la dimensione del passaggio
dall’adolescenza all’età adulta, di quanta disillusione e nostalgia porti
con sé questo passaggio e di quanto ognuna delle due età sia soggetta a
una continua scoperta e riscoperta, sempre in bilico tra visioni e ricordi,
slanci alla vita e segnali di morte. Ora è forse opportuno soffermarsi per
un momento su dove risieda, nell’arco di un tale percorso, l’innocenza,
dove il peccato e cosa sia e perché sia necessario il sacrificio.

L’innocenza parrebbe corrispondere alla festa, evento che da Paesi


tuoi a Feria d’agosto, da Dialoghi con Leucò (sotto forma di rituali) a
La luna e i falò torna costantemente, quasi come dolce ossessione. Gli
eroi pavesiani partecipano alle feste di paese di zone interne e contadine
(nella sua iconografia la campagna conserva intatto tutto il repertorio di
immagini che alludono simbolicamente ai misteri della festa) come
partecipassero a dei riti: le feste si caricano di sacralità e divengono
percorso di passaggio dall’innocenza infantile al dovere e al senso di
colpa. Ne La luna e i falò le prime partecipazioni alle feste di paese da
parte di Anguilla aprono la strada al suo cambiamento, alla sua crescita,
segnano l’ingresso nell’età della disillusione e delle tragedie: quando
infatti tornerà dall’America, adulto, e parteciperà di nuovo alle stesse
feste – apparentemente immutabili e immortali come, per l’appunto, dei
rituali sacri – lo farà con la consapevolezza di ciò che è successo dopo
esser partito, dopo cioè aver abbandonato non solo quelle terre ma
anche la propria gioventù. Silvia e Irene, le due sorelle giovani e belle
in cerca di marito e di una vita facile e agiata, sono morte entrambe,
segnate da malattie, maltrattamenti e violenze, così come Santa, la più
piccola, finita addirittura nel gorgo della guerra civile tra fascisti e
partigiani; Nuto si è arreso alla vita adulta, appendendo il clarinetto al
muro e sostituendolo ogni giorno con gli attrezzi da falegname; e a
Cinto, dopo la conversazione avuta proprio con Anguilla riguardo la
tradizione dei falò accessi sulle colline – così mistici e carichi anch’essi
di sacralità – toccherà la stessa sorte del protagonista, trovandosi
scaraventato all’improvviso in una nuova realtà dopo la tragedia messa
in atto da suo padre. La dimensione ancestrale e atavica della festa
evoca «i paradossi mitici e i misteri del sesso e del sangue, della luna e
della morte, che fanno corona al paradosso e al mistero più alto quando
61
la commozione della festa si trasforma in intuizione morale: il sacrificio
umano»74. La festa viene così negata; in questo modo il romanzo perde
contatto con una realtà collettiva di mito, i suoi personaggi rischiano di
diventare figure sconsacrate, prive di verità, e il narratore perde gli
strumenti capaci di attingere ai valori collettivi delle epifanie festive del
reale. Si arriva, in sostanza, alla sostituzione del mito della festa con il
mito del sacrificio.
Ma la festa non è l’unico richiamo al mito, e prima di approfondire
la questione del sacrificio è opportuno analizzare alcuni altri simboli.

2.6.2. Mito e sacrificio: terra, acqua e fuoco

Come si è visto, memoria, storia ed etnologia sono i tre capisaldi sui


quali poggiano l’iconografia e la filosofia mitica pavesiane. Memoria,
storia ed etnologia che confluiscono in alcune immagini ricorrenti.
Prima fra tutte, la collina: «La Luna e i falò testimonia l’avvenuto e
integrale recupero dell’entità mitica delle colline, o la completa
riduzione della campagna da “selvaggio”, e quindi altro-da-sé, a
memoria-infanzia e quindi a fondamento-di-sé»75. Secondo Gioanola
nell’ultimo romanzo trovano più che mai spazio tutti quegli scenari che
compongono un mitico paesaggio naturale; questo sarebbe possibile,
secondo il critico, grazie alla totale assenza della città: Pavese nella sua
ultima opera rinuncia a vedere la campagna con gli occhi della città e
del cittadino, e il suo protagonista, nel quale si è riversato, per la prima
volta accoglie un mondo a cui non appartiene ma che a lui appartiene
totalmente: «La campagna diventa universo e orizzonte, senza per
questo costituirsi come rifugio e semplificazione degli eterni contrasti,
ma inglobando in sé i motivi del conflitto mito-storia, memoria-
presente, essenza-divenire, istinto-ragione e tutto riducendo ai simboli
concreti e vivi di una realtà definitiva»76. Avviene cioè, finalmente, il
recupero e l’assunzione di un ambiente da parte di un io-narrante che
intrattiene con quei luoghi rapporti di totale affinità; Pavese realizza
questo recupero indirizzando il suo «distacco-attrazione per i luoghi»
non verso un rapporto di superiorità – quello dell’uomo di città che
guarda dall’alto in basso una realtà sociale più arretrata e ignorante
rispetto a quella da cui lui proviene – bensì verso la volontà di
riappropriarsi di un’autenticità (per quanto controversa e spesso
spietata) mai più trovata altrove. Anguilla giunge alle più estreme e
complete possibilità di significato della parola e dell’atto del «ritorno»,
tornando altro-da-ciò-che-era, cresciuto e cambiato, lontano da se

74
Ivi, p. 165
75
E. Gioanola, Cesare Pavese, cit., p. 356
76
Ibid.
62
stesso, e pronto a recuperare la vera essenza di sé. È da questa vetta
ultima di significato del ritorno che nasce quella che è poi diventata la
frase più conosciuta del romanzo, e probabilmente la più emblematica:
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un
paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella
terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad
aspettarti»77. Le colline sono per Anguilla, come lo erano per i ragazzini
de Il mare, tutto l’orizzonte possibile. Dopo esser stato in giro per il
mondo, aver oltrepassato l’oceano e visto l’America, al suo ritorno,
oltre le colline, non c’è più nulla per cui valga la pena sperare,
desiderare e partire. Sono le colline lo scenario dei falò, di quella
cerimonia mistica e spirituale che apre l’accesso al passato, all’infanzia,
alla simbiosi estrema con quel luogo, e a una morte sacrificale. La
collina è lo scenario ideale in cui mito e luogo si fondono. Essa infatti
attraversa gran parte delle opere dell’autore, assumendo ogni volta il
ruolo di madre, creatrice e genitrice. Così accade in uno dei Dialoghi,
intitolato L’ospite, dove Litierse ed Eracle affrontano una
conversazione sul sacrificio; il primo dice: «Il corpo che noi laceriamo
deve prima sudare, schiumare nel sole. Per questo ti faremo mietere,
portare i covoni, grondare fatica, e soltanto alla fine, quando il tuo
sangue ferverà vivo e schietto, sarà il momento di aprirti la gola». Ed
Eracle allora risponde: «Se ho ben capito, non è morte ma il ritorno alla
Madre […]»78.
La collina protegge i suoi figli e li nutre: «[…] e davanti la grossa
collina di Gaminella, tutta vigne e macchie di rive. Da quanto tempo
non bevevo di quel vino?»79. De Matteis, riguardo Paesi tuoi, parlando
del rapporto tra il protagonista Berto e il rozzo e animalesco Talino,
giudica l’accondiscendenza del primo verso il secondo come un voler
seguire, più o meno consapevolmente, quella parte di sé impersonificata
da Talino, quella inconscia e primitiva (De Matteis parla di «abbandono
di forze coscienti dell’io a quelle latenti dell’inconscio») verso una
«discesa-ritorno alla madre (o di una regressione all’infanzia)». La
madre, anche qui, è rappresentata dalla terra, e più precisamente dalla
collina, che ricorda una mammella. Dalla terrazza della casa di Talino,
infatti, Berto cerca continuamente la vista rassicurante della collina, che
lo culla e lo accoglie in ogni momento («Ci svegliarono i buoi della
stalla, e prima cosa vedo la collina della Grangia che riempiva tutto il
portico»80; «Quando mi sveglio la collina davanti era in ombra, perché
il sole le calava sul fianco»81), e ogni volta che con lo sguardo vi si
sofferma, torna a quel paragone, portando avanti quella che Charles

77
C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 6
78
C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 89
79
C. Pavese, La luna e i falò, cit., p. 10
80
C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 35
81
Ivi, p. 40
63
Mauron chiamerebbe una «metafora ossessiva» 82 , che rinvia
contemporaneamente alla maternità e al sesso. Il continuo ripresentarsi
di questa immagine, presenza silenziosa e discreta ma anche misteriosa
e fitta di complessi, pone in evidenza l’importanza di una mitologia
personale e biografica dell’autore; può servire ricordare una delle tante
lettere inviate a Fernanda Pivano nella quale si legge:

Mi metto dunque, stamattina, per le strade della mia infanzia


e mi riguardo con cautela le grandi colline – tutte, quella enorme
e ubertosa e come una grande mammella […] … colline assolate
e fiorite, esotiche; […] E allora, stamattina l’ho capito, mi sono
messo per questa strada e ho camminato verso il salto e ho
intravisto le colline remote e ripreso cioè la mia infanzia al punto
in cui l’avevo interrotta83.

L’analisi di De Matteis sul motivo della collina si sposta poi dalla


collina matrice di nutrimento ai frutti di tale nutrimento: la frutta, infatti,
specialmente in Paesi tuoi, appare come il risultato tangibile e più
diretto della fecondità di quella terra-madre che nutre i suoi figli. Berto
«morde la frutta con la stessa incoercibile avidità con cui l’infante
succhia il latte dal seno della madre». Capita anche che la frutta si
presenti insieme a quello che è il secondo grande elemento usato da
Pavese: l’acqua. «A casa c’è quell’acqua che sa di ciliegia, pensavo, se
mi tengo la sete bevo poi tutto in una volta»84, dice fra sé Berto, di
ritorno dal primo e unico fugace incontro amoroso con Gisella
avvenuto, tra l’altro, proprio in riva al fiume. Anche l’acqua, esplicito
elemento di fecondità associato al grembo materno e al nutrimento,
compare in maniera trasversale fra le opere: ne Luna e i falò ad esempio
c’è la scena in cui Irene entra in acqua, pallida e bionda con la veste
sollevata alle ginocchia, e traversa adagio l’acqua per raccogliere dei
fiori gialli mentre Anguilla la spia, nascosto tra gli arbusti. Una scena
che presenta la ragazza come una dea o una ninfa, dalla bellezza
sconvolgente e dalle movenze angeliche, come fosse nata dall’acqua o
come se all’acqua si stesse ricongiungendo immergendovisi con grazia.
Altro modo in cui l’acqua è declinata è il mare, ma di cui si è già detto.

Ultimo degli elementi naturali cari allo scrittore è il fuoco. Nelle


storie di Pavese il fuoco assume forme diverse, ma le due che tornano
più spesso sono il falò e l’incendio. Il falò è per Pavese quel che si
potrebbe definire una cifra stilistica, oltre che un’immagine-repertorio
da evocare e rievocare. Sia la prima opera in prosa che l’ultima della

82
C. Mauron, Des metaphores obsedantes au mythe personnel, Josè Corti, Paris 1964, trad. it. M. Picchi, Dalle
metafore ossessive al mito personale, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 137
83
C. Pavese, Lettere 1924-1944, Einaudi, Torino 1966, p. 637
84
C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 64
64
sua vita custodiscono il motivo del fuoco, declinato nelle sue due
dimensioni. Talino, all’inizio di Paesi tuoi, si trova in carcere – dove fa
la conoscenza del Berto protagonista – per aver incendiato dolosamente
la cascina di una famiglia di quelle campagne; Valino, nel finale de La
Luna, appicca il fuoco alla cascina della sua padrona, quella dove vive
e lavora, con le donne e gli animali dentro. In alcuni casi, come nel caso
dell’acqua e della frutta, le due dimensioni del fuoco si sovrappongono;
è il caso del racconto Il mare, che si conferma antenato e bozza di quello
che sarà l’ultimo romanzo, non solo per lo scenario pressocché identico
e la presenza di Candido (che come Nuto va in giro a suonare il clarino
per le feste) ma anche per quella dei falò e di un incendio. Augusto e
Gosto infatti chiamano a gran voce il falò («“Il falò! Il falò!” gridammo
insieme»85) per poi ritrovarsi nella cenere e tra le macerie di un incendio
che aveva distrutto la casa di due giovani sposi.
I personaggi che appiccano il fuoco nei due casi rivelatori sono
molto simili tra loro: a parte il nome (Talino, Valino) sono entrambi
legati da una tangibile e primitiva animalità. Sono uomini nati dalla
terra, e per questo gretti e rozzi, ma che dalla terra non sono mai venuti
fuori; vi hanno invece affondato completamente il corpo e l’anima,
restando così inevitabilmente ignoranti. Appaiono come segnati da
quella materia ruvida che li ha generati e rassegnati davanti alla crudeltà
della loro esistenza (che diventa la loro stessa crudeltà). Sono
rappresentazioni di istinti e pulsioni che in individui comuni
rimarrebbero sopiti, celati o repressi e che invece in loro deflagrano con
impeto e violenza inaudita. Sono, infine, delle parti di Pavese:
raffigurazioni del suo inconscio, delle sue repressioni (passioni, istinti,
furori) che esplodono sulla pagina incarnati da bruti che si macchiano
di incesti, violenze fisiche, maltrattamenti quotidiani, piccole o grandi
insensibilità. È come se Pavese ponesse ai due poli opposti – che spesso
si avvicinano incredibilmente in una sorta di compressione dell’essere
– sempre una parte di sé, l’incarnazione delle sue due anime. L’uomo
di città (intellettuale o meccanico, poco cambia) che si sente più furbo
e più esperto di vita di quanto poi realmente sia, il borghese dall’animo
inquieto ma dai modi pacati, silenzioso e schivo; e il selvaggio,
l’animale e la bestia, il primitivo guidato solo dagli istinti che riesce a
mettere in atto anche il più scabroso dei pensieri senza il barlume di un
senso di colpa. È, quest’ultimo, l’uomo-bestia che agisce non perché
deve ma perché può e vuole, senza freni, senza regole, senza leggi (ne
è un esempio, oltre al già citato Talino, il Bruno di Primo amore).
Sembra delinearsi un confronto protratto e puntualmente riproposto tra
un animo vittima d’una perenne inadeguatezza (quell’inettitudine alla
vita che molti riconobbero in Pavese, e che lui stesso si attribuiva) e uno
libero da ogni vincolo, anarchico, che vive e agisce senza il timore e il

85
C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. 70
65
bisogno di dare spiegazioni a nessuno (quella dimensione, in pratica,
sempre agognata e mai raggiunta dal Pavese uomo, amico, amante).
Due personaggi, Talino e Valino, che compiono un atto rivelatore:
incendiano una casa, dimora fisica e simbolica dell’uomo. Pavese,
permettendo ai personaggi che incarnano le sue parti più inconsce di
incendiare dimore, permette loro di dar fuoco a se stesso. E perciò, di
conseguenza, è Pavese stesso che si dà fuoco. Si arrende alla parte
oscena e oscura, finendo per auto-sabotarsi: l’incendio appiccato da
Talino e quello appiccato da Valino contengono, predicono e
simboleggiano il suo suicidio.
Nel complesso gioco di anticipazioni e rimandi che attraversa tutte
le opere, emblematico e riassuntivo appare il finale del quarto capitolo
de La Luna, dove Anguilla commenta il gesto di Nuto che aveva
sequestrato la lucertola a due ragazzi che la stavano torturando:

- Se il sor Matteo ce l’avesse fatto quando andavamo alla riva,


- gli avevo detto, - cos’avresti risposto? Quante nidiate hai fatto
fuori a quei tempi?
- Sono gesti da ignoranti, - aveva detto. – Facevamo male
tutt’e due. Lasciale vivere le bestie. Soffrono già la loro parte in
inverno.
- Dico niente. Hai ragione.
- E poi, si comincia così, si finisce con scannarsi e bruciare
paesi86.

«Scannarsi» e «bruciare paesi». Sacrificio e sabotaggio, auto-


sabotaggio, suicidio. In questi due verbi è racchiusa una poetica intera,
una filosofia di vita, una simbologia complessa eppure chiarissima.
«Scannarsi» è chiaramente riferito alla morte di Gisella, morta
scannata dal forcone di Talino, morta versando sangue sulla terra, che
di quel sangue s’era nutrita («Il fango dov’era caduta col secchio faceva
spavento, così nero; e la strada fino al grano era sempre più rossa, più
fresca»87; «Si vedevano ancora nel portico le macchie di sangue. Cosa
c’è di speciale, pensavo, tutti i giorni le strade ne bevono» 88 ).
«Bruciare», invece, è riferimento altrettanto chiaro a quello che di lì a
poco accadrà, e ancora a Paesi tuoi, come detto. Scannare e bruciare
sono i verbi che Pavese sceglie come propri totem del sacrifico. Il
sacrificio di Gisella, il sacrificio esplorato fino ai suoi abissi nelle
rievocazioni mitologiche dei Dialoghi con Leucò, le cui pagine sui riti
agricoli e sulle morti rituali preparano La luna e i falò – dove si trova il
sacrificio del Valino e di praticamente tutte le donne del romanzo – e,
infine, il sacrificio a cui lui stesso si sottoporrà. Ed è così che il motivo

86
C. Pavese, La luna e i falò. cit., p. 19
87
C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 93
88
Ivi, p. 99
66
del fuoco si lega in maniera indissolubile a quello del sacrificio. Ne I
fuochi compaiono in scena due pastori, padre e figlio, impegnati a
pascolare un gregge sulle montagne. La notte narrata è la notte dedicata
da tutti gli abitanti di quelle montagne al rito propiziatorio per
eccellenza: il falò. «Tutta la montagna brucia», dice il figlio, «Il nostro
falò non lo vede nessuno», «non importa – risponde il padre – Noi lo
facciamo, non importa» 89 . I falò, che illuminano le montagne come
tante lontane stelle – esattamente come accadrà sulle colline della valle
del Belbo davanti agli occhi di un giovane Anguilla – servono a
propiziare la pioggia, indispensabile ai raccolti e al benessere della
terra. Per essere sicuri che la richiesta venga ascoltata e accolta dagli
dèi, però, il falò deve divenire luogo e mezzo attraverso cui compiere
un sacrificio. Da rito deve diventare atto sacrificale: chi ne ha deve
offrire agli dèi un animale, chi non ha bestie da offrire, come i due
pastori (non proprietari del gregge), immolano altro, ad esempio latte e
miele. Non importa il numero di animali offerti, uno può essere
sufficiente ad aiutare tutti perché «se piove, piove dappertutto» 90 . Il
fuoco quindi, emblema del sacrificio, ha la funzione di propiziare la
pioggia (acqua), nutrimento vitale per la terra. Ecco che tornano i tre
elementi, terra acqua e fuoco, in un sistema ciclico in cui l’uno dipende
dall’altro. Il fuoco (sacrificio) serve per l’acqua (nutrimento),
necessaria alla terra (madre e vita). Allo stesso modo il sacrificio umano
può allora essere letto come offerta in cambio di nuovo nutrimento e
nuova vita. Per questo, secondo Jesi, la dinamica di ogni romanzo o
racconto «conduce i giovani dall’innocenza al peccato e poi al
sacrificio, che non è espiatorio, bensì necessario secondo una legge
morale che non promette future salvezze, ma che offre una dura e fatale
virtù a chi si sottopone ad essa». Il sacrificio è necessario, dunque. E
inoltre, continua Jesi, «il sacrificio non è la salvezza, né l’atto gratuito
di un giusto […], ma il simbolo e la via della morte necessaria».

2.6.3. Entroterra luogo del sacrificio?

Si diceva in apertura di capitolo di come la festa racchiuda e superi


il mito, divenendo confine fra passato e presente, ricordi e attualità
(«l’adesione al mondo mitico» – scrive Guido Guglielmi – «si attua
nella dimensione della memoria» 91 ). Si è poi visto come oltre al
recupero del passato, il mito pavesiano sia costituito da simboli che
richiamano costantemente la maternità (e quindi un’appartenenza come
figlio ad una madre ma anche a un luogo, una terra-madre), il

89
C. Pavese, Dialoghi con Leucò, cit., p. 95
90
Ibid.
91
G. Guglielmi, Letteratura come sistema e come funzione, Einaudi, Torino 1980, p. 143
67
nutrimento (fisico e più che altro spirituale, con continui riferimenti a
esperienze al di là dell’orizzonte che possano far fiorire e maturare
l’animo umano), e il fuoco come segno della brevità, dell’inesorabilità
e della spietatezza della vita.
Ora, nonostante diversi critici (tra cui Guglielmi e Jesi) abbiano
parlato di una “festa” come sostituzione del mito, qui non interessa
indagare cosa abbia sostituito cosa, ma piuttosto il punto d’arrivo finale,
l’urlo più chiaro e insopprimibile della poetica intera di Pavese. Un urlo
che, nato dalle prime vibrazioni delle corde di Lavorare stanca, si è
fatto via via più strutturato e potente, fino ad arrivare all’inaudita
compostezza del grido dei Dialoghi e della Luna. Si può perciò
affermare che «[…] l’aspetto più personale e profondo del rapporto di
Pavese col mito ci sembra consistere nell’immagine del sacrificio: nella
necessità morale di vivere nell’oggi, anche se così l’“eterno ritorno” al
tempo primordiale del mito è reso possibile solo più dal riconoscere nel
mito un simbolo etico, la legge cifrata di una virtù dalla quale, quando
ci si sottopone alla sua legge, si può ottenere la morte».
Secondo Jesi «Il sacrificio umano fu per Pavese l’emblema di un
vincolo sotterraneo, vissuto nelle profondità della coscienza, fra rituale
e comportamento morale, fra mito e dovere» 92 . Eugenio Corsini ha
notato come «le fonti etnologiche di Pavese si estendono a un gruppo
di dialoghi relativamente ristretto: sono i dialoghi della terra e dei suoi
aspetti e fenomeni e dei miti che li riguardano: miti della fecondità,
della vegetazione, del raccolto, della propiziazione magica e rituale
(sacrifici umani, falò, lustrazioni, ecc.); miti del “primitivo”,
dell’“indistinto”, dello “stupore”, dell’uomo primitivo
93
disindividualizzato» .
I Dialoghi sono l’opera di più profonda indagine sul sacrificio,
quella con la quale Pavese stava già spiegando i motivi del suo, di
sacrificio (non a caso, è opportuno ripetere, tenne vicino a sé, ben
custodita come fosse una mappa del tesoro – o più propriamente un
testamento – una copia dell’opera quando si tolse la vita con una dose
letale di barbiturici). Un’opera che, come si è visto accennando al
dialogo fra Litierse ed Eracle (L’ospite) e a quello tra padre e figlio (I
fuochi), lega indissolubilmente l’atto del sacrifico alla terra su cui l’atto
si compie. Il sacrificio, infatti, è per l’uomo inevitabile, ed è vitale per
la terra che lo accoglie come nutrimento. Perché l’uomo è fatto della
sua terra natìa, e la terra è fatta di uomini.
Questo introduce la risposta alla domanda alla quale attraverso
queste indagini si vuole rispondere: dov’è che, in Pavese, mito, simboli
e storie confluiscono? E la risposta sembra essere: nei luoghi. Non in
luoghi comuni però, non in tutti i luoghi. Nei luoghi dell’entroterra. In

92
F. Jesi, Letteratura e mito, cit., p. 165
93
E. Corsini, in “Sigma”, 1964, nn. 3-4, p. 124 s.
68
quelli immersi nella natura e da essa dominati: le campagne, le vigne,
le valli coltivate, le colline circondate da altre colline dove il mare si
può solo immaginare; esattamente gli scenari che fanno da sfondo a
tutte le storie di Pavese. Ecco dove tutto il discorso fin qui svolto arriva
a sfociare: nel significato ultimo che l’entroterra (che è madre-natura,
nonché luogo fisico e metafisico dell’infanzia e poi dell’età adulta)
assume per Pavese.
Luogo e uomo sono inseparabili, un binomio inscindibile. L’uno ha
bisogno dell’altro, come madri e figli che si reclamano a vicenda e, se
uno dei due viene a mancare, subiscono traumi. La scelta degli scenari
ha di certo molto a che fare con la biografia dell’autore, ma anche con
la dimensione atavica che egli intende recuperare attraverso la
riesumazione dell’infanzia per mezzo di ricordi legati ai paesaggi. Il
legame uomo-luogo-ricordo, che si dipana poi nella ricerca etnologica
e nella simbologia del sacrificio, testimonia di come l’autore fosse
andato a fondo in certi meccanismi, giungendo alla conclusione che
nessun recupero di sé, della propria dimensione infantile, nessun
secondo sguardo e nessuna offerta-sacrificio è possibile senza un
profondo legame personale con una terra. In Pavese (ma come si vedrà
a breve, non solo) questa dimensione assume tutti i connotati e le
caratteristiche di un entroterra.

69
3. Italo Calvino e Giorgio Manganelli, per una lettura
incrociata del rapporto con l’entroterra

3.1. Calvino e i suoi padri

Marco Belpoliti, nel suo libro Settanta, e precisamente nel capitolo


La retta e il tapiro, affronta il rapporto, le analogie e le principali
differenze fra tre autori: Pavese, Calvino (che sarebbe la retta) e
Manganelli (il tapiro). Interessante come l’unico dei tre mai nominato
finora s’inserisca in un confronto dialettico con gli altri due che appare
addirittura inevitabile. Riprendendo il finale del capitolo precedente
tornano utili, ai fini di una cementificazione di senso e all’apertura di
una nuova via, le parole di Belpoliti riferite alla lettura che Manganelli
fornì dell’autore piemontese: «la letteratura italiana del dopoguerra si
apre col fallimento emblematico di Pavese, un fallimento che ha
costruito un mito»1, e più avanti: «tutto si fonda su un sacrificio umano,
quello di Pavese»2. L’analisi che Manganelli conduce, che a tratti può
apparire aspra – specialmente quando parla di Pavese come un autore
cui un’intera generazione delegò il proprio tedio smanioso, o come un
autore “immemorativo” – induce Belpoliti a parlare di una somiglianza
fra i due. Il problema della maturità è una questione capitale per
entrambi gli scrittori: Manganelli, infatti, investe d’importanza cruciale
l’età dell’adolescenza, leggendola come mitica e simbolica e non
soltanto anagrafica. A differenza di Pavese però, che parla del
raggiungimento della maturità attraverso l’adolescenza come atto
possibile e anzi indispensabile, Manganelli crede che l’adolescenza sia
inafferrabile e irripetibile, in ogni modo e forma, tanto che tutto ciò che
resta della vita, dopo, non è altro che l’effimero tentativo di tornare a
essere un adolescente. Infatti «[…] lui non racconta come Pavese il
tentativo di raggiungere la vita, ma esattamente il contrario: come
l’abbia persa e come non riesca più a ritrovarla»3. I due si scontrano
insomma sulla questione che Calvino aggira così: «passare direttamente
dalla giovinezza alla vecchiaia saltando la fase adulta, vero scoglio su
cui si è infranto Pavese»4.
Calvino non intendeva seguire l’esempio biografico di Pavese, di
quel padre letterario – insieme a Vittorini – così presente, ma sentì nel
corso della vita e della sua attività di scrittore la medesima urgenza di
affrontare ed elaborare un’idea di sacrificio. E se che cosa fosse il

1
M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2010, p. 187
2
Ibid.
3
Ivi, p. 188
4
ivi, p. 189
70
sacrificio per Pavese Calvino lo lasciò dire al citato Furio Jesi – che fu
suo pupillo – attraverso opere come Letteratura e mito (1968) e
Materiali biologici (1979), e attraverso un’originale interpretazione del
tema del sacrificio collegato dal giovane studioso agli eventi politico-
sociali dell’epoca 5 , cosa il sacrificio rappresentasse per se stesso
Calvino lo scrisse in prima persona nel racconto La strada di San
Giovanni del 1963. Come ricorda Belpoliti: «all’inizio degli anni
Sessanta il “sacrificio” è ancora una questione centrale per Calvino. È
il modo con cui tenta di opporsi allo spreco del mondo»6. E in effetti La
strada di San Giovanni è degli anni Sessanta, e apre uno scorcio insolito
e autentico che affaccia direttamente sul passato dell’autore. Calvino
infatti, nato e cresciuto a Sanremo (nato in realtà a Santiago de Las
Vegas de La Habana, a Cuba, di cui per sua stessa ammissione non
conservava alcun ricordo avendoci vissuto solo i primi due anni di vita),
fu fino all’età di vent’anni immerso in un contesto naturale e
naturalistico a doppio strato: non solo abitò in una parte della regione
da lui definita un entroterra «di ombreggiatura e silenzi», ma visse in
mezzo agli studi dei suoi genitori: Mario Calvino, agronomo, ed Eva
Mameli, biologa. In Eremita a Parigi scrisse: «Ho vissuto coi miei
genitori a Sanremo fino ai vent’anni, in un giardino pieno di piante rare
ed esotiche» 7 . Questa profonda, per quanto non sempre accettata,
immersione nell’entroterra sanremese lo ha portato ad ambientare in
quel contesto molti racconti della giovinezza.
La strada di San Giovanni, scritto nell’anno del decimo anniversario
della morte di suo padre, è sostanzialmente la descrizione dell’essenza
contadina della sua famiglia e della loro casa posta sul confine tra il
paese e la campagna:

[…] a mezza costa sotto la collina di San Pietro, come a


frontiera tra due continenti. In giù, appena fuori del nostro
cancello e della via privata, cominciava la città coi marciapiedi
le vetrine i cartelloni dei cinema le edicole, e Piazza Colombo lì
a un passo, e la marina; in su, bastava uscire dalla porta di cucina
nel beudo che passava dietro casa a monte […] e subito si era in

5
Jesi aveva anche affrontato, oltre alle varie tematiche estrapolate dalla poetica pavesiana, come il mito, la festa e il
sacrificio, anche l’importanza generale che Pavese aveva tra le generazioni degli anni Sessanta. Secondo Jesi Pavese era
considerato come l’incarnazione del “perdente”, e proprio per questo era diventato nome di culto specialmente tra i
giovani. Questo perché, in un momento storico caldissimo per via delle rivolte studentesche, che portavano tacitamente a
galla l’allegoria del passaggio dall’infanzia all’età adulta, Pavese era quello che meglio e prima di tutti si era reso conto
dell’inevitabile fallimento a cui l’uomo è destinato come esce dall’infanzia e si appresta a diventare un adulto. Fallimento
inevitabile che altrettanto inevitabilmente porta ad un sacrificio, quello di sé: «[…] si comprende come in Pavese la morale
del sacrificio e la rivolta contro il mondo degli adulti siano due questioni strettamente connesse». (M. Belpoliti, Settanta,
cit., p. 111 s.)

6
Ivi, p. 110
7
I. Calvino, Eremita a Parigi, Mondadori, Milano 1996, pp. 97 s.
71
campagna, su per le mulattiere acciottolate, tra muri a secco e
pali di vigne e il verde8.

Già nell’incipit, città-civiltà e campagna-entroterra vengono


presentati come «due continenti» divisi da una frontiera, perciò separati
e ben riconoscibili. Il primo elemento che salta all’occhio è la netta
opposizione di vedute e sensibilità sua e di suo padre. Ognuno, di quella
casa posta a metà tra due mondi, predilige un affaccio: suo padre,
proprietario di terreni e coltivatore di frutta e verdura, esce ogni mattina
all’alba col cane al seguito dalla porta sul retro dell’abitazione, quella
affacciata sul beudo, che lo stesso Calvino spiega essere uno strumento
destinato all’irrigazione; lui, invece, considera di gran lunga più adatto
a sé l’ingresso principale, quello frontale affacciato sulla civiltà. Se per
suo padre quindi «il mondo era di là in su che cominciava, e l’altra parte
del mondo, quella di giù, era solo un’appendice, talvolta necessaria per
cose da sbrigare, ma estranea e insignificante, da attraversare a lunghi
passi quasi in fuga, senza girare gli occhi intorno»9, per il protagonista
del racconto-ricordo l’unico vero mondo possibile è quello che si
srotola verso la costa, che ha come punto di partenza la facciata
anteriore della casa e che non ha, apparentemente, punti di arrivo:

Io no, tutto il contrario: per me il mondo, la carta del pianeta,


andava da casa nostra in giù, il resto era spazio bianco, senza
significati; i segni del futuro mi aspettavo di decifrarli laggiù da
quelle vie, da quelle luci notturne che non erano solo le vie e le
luci della nostra piccola città appartata, ma la città, uno spiraglio
di tutte le città possibili, come il suo porto era già i porti di tutti i
continenti, e a sporgermi dalle balaustre del nostro giardino ogni
cosa che mi attraeva e sbigottiva era a portata di mano – eppure
lontanissima – ogni cosa era implicita, come noce nel mallo, il
futuro e il presente, e il porto – sempre a sporgersi da quelle
balaustre, e non so bene e sto parlando d’un età in cui scappavo
sempre fuori in giro, perché ora le due età si sono fuse in una, e
questa età è una cosa sola con i luoghi, che non sono più luoghi
né nulla […]10.

Immediatamente Calvino rivela la profonda differenza – ai limiti del


dualismo – tra la visione del luogo natìo di suo padre e la sua; visione
del proprio luogo che di fondo è visione del mondo intero, nella
profonda connessione che lo stesso autore vede tra micro- e macro-
universi: «[…] quella strada segreta che lui solo sapeva e che passava

8
I. Calvino, Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Mondadori, Milano 2010, V edizione I Meridiani,
volume terzo Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, p. 7
9
Ibid.
10
Ibid.
72
attraverso tutti i boschi, che univa ogni bosco in un bosco solo, ogni
bosco del mondo in un bosco al di là di tutti i boschi, ogni luogo del
mondo in un luogo al di là di tutti i luoghi»11. La visione di quella terra,
di quella parte di mondo – e in fondo del mondo intero – nella sua
totalità e nella sua inconoscibilità è una visione, da parte di suo padre,
che prevede una profonda empatia con la natura; non a caso il Calvino-
padre appare mosso, in tutti i gesti e gli spostamenti, da un’intima
smania di scoperta e possesso. Tutte le mattine quell’uomo, non importa
la stagione in corso né l’età che di volta in volta si porta addosso, si
barda di tutto punto col suo vestiario da campagna, prende i suoi attrezzi
e il cane e si dirige verso i terreni, le sue colture. E quando la meta non
sono le colture, va a caccia – nel freddo mattutino che precede l’alba –
o si inoltra nel bosco in cerca di funghi o lumache. La sua «ansia
perpetua» è quella di «portare avanti un compito della natura che aveva
bisogno dell’aiuto umano, coltivare tutto il coltivabile […] fino al fiore
al frutto alla pianta e via di nuovo senza principio e senza termine nello
stretto confine della terra (il podere o il pianeta)»12, (per l’appunto: «il
podere»: micro, e «il pianeta»: macro), ma anche quella di cacciare,
«darci addosso, dentro», nel «bosco selvatico, nell’universo non
antropomorfo»13. Questo è l’atteggiamento di suo padre verso il luogo
che abita: un contatto che diventa empatia, empatia che si spinge ai
limiti dell’immersione, per tornare poi ad essere – una volta raggiunta
la totale fusione – nuovo contatto, non più semplicemente con il luogo
abitato ma con ogni luogo. Ad agevolare questa complessa e solitaria
transizione è, nel caso del padre, il linguaggio tecnico della natura:
nominare le cose (piante e fiori, soprattutto) aiuta ad instaurare un
rapporto esclusivo con le cose nominate, attraverso quello che diventa
a tutti gli effetti un linguaggio criptato. Per Italo il processo è differente:
«Io non conoscevo né una pianta né un uccello. Per me le cose erano
mute» 14 . Lui non parla la lingua di suo padre, non accede mai alla
chiave di decodifica di quel linguaggio criptato che pone in stretto
contatto con l’entroterra, non nomina le cose che lo circondano, non
sente la natura. Sente, al contrario, di dover ricercare in altro il suo
linguaggio, il suo contatto con le cose e con il mondo. La sua
dimensione è altrove, lui è altrove, nelle parole scritte, nelle pagine
piene di lettere.
Specchio, questo, di una – peraltro confessata – mancata
riconciliazione col padre: il rifiuto di ricercare i tecnicismi usati un
tempo da suo padre per usarli nel racconto, evitando così di doverne

11
Ivi, p. 11
12
Ivi, pp. 9 s.
13
Ivi, p. 10
14
Ivi, p. 12
73
inventare, testimonia una mancata pacificazione, una resistenza verso il
padre e, per via indiretta, verso l’entroterra, il luogo d’infanzia:

[…] e io ero già quello che sono, un cittadino delle città e della
storia – ancora senza città né storia e di ciò sofferente –, un
consumatore – e vittima – dei prodotti dell’industria […]. Forse
tutto avrebbe potuto essere diverso, - non molto diverso ma quel
tanto che conta – se quelle ceste non mi fossero state già talmente
estranee, se il crepaccio tra me e mio padre non fosse stato così
fondo?15

Emerge così, nonostante entrambi siano abituati a usare le parole e a


nominare le cose, un rapporto fatto di silenzi. Sia all’andata, nel
percorso descritto che porta a San Giovanni, che al ritorno, a prevalere
è il silenzio. La relazione con suo padre sembra compromessa proprio
da una mancata comunicazione, conseguenza dell’incompatibilità dei
linguaggi padroneggiati. Il figlio rappresenta anzi per suo padre
un’insidia, una minaccia al suo contatto con la terra e con il luogo («[i]l
solo luogo che sentiva suo […]» 16 ); in particolare l’insidia è
rappresentata dall’appartenenza del figlio «all’altra parte del mondo,
metropolitana e nemica»17. Il giovane, dal canto suo, vive la presenza
così ingombrante del padre, delle sue smanie e delle sue abitudini, come
un’appendice dalla quale doversi separare, sapendo però di dover in
quel caso rinunciare per sempre a una parte di sé. Più che di
«decapitazione dei capi» (e quindi dei padri) – di cui lo stesso Calvino
parlerà – si può parlare in questo caso di mutilazione di sé. La reazione
muta che sfocia nella rinuncia al rapporto è così palesata:

[…] avremmo dovuto aiutarlo in tutto, per imparare come si


governa una campagna, per assomigliare a lui, come è giusto che
i figli assomiglino al padre, ma presto s’era capito da una parte e
dall’altra che non avremmo imparato niente, e l’idea di educarci
all’agricoltura era stata tacitamente dimessa […]»18.

La frattura c’è, e finché gli impulsi verso concezioni e stili di vita


opposti perdurano vivi ed energici, essa pare insanabile. Ma non è una
frattura che dà vita a un conflitto, quanto piuttosto a una distanza. La
lotta diretta, la decapitazione dei padri, pare essere nel caso personale
di Calvino sostituita da una distanza dal padre. Una distanza inevitabile
durante gli anni della giovinezza, preso dal mondo esterno tanto da non
provare assolutamente nulla stando immerso nella natura: «Cos’era la

15
Ivi, pp. 23 s.
16
Ivi, p. 20
17
Ivi, p. 21
18
Ivi, p. 22
74
natura? Erbe, piante, luoghi verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo
essere altrove. Di fronte alla natura restavo indifferente, riservato, a
tratti ostile»19. Utile a questo proposito è la lettura che Mario Barenghi
ha fornito, riguardo il rapporto padre-figlio e quello con il luogo,
scrivendo:

Il dissidio con il padre, insomma, non si è ancora risolto. E il


misto di animosità e di rimpianto che spesso contraddistingue le
memorie familiari trapassa in una serie di interrogativi
riguardanti la brusca trasformazione dell’Italia da paese agricolo
a moderna società industriale: un passaggio che Calvino si
guarda bene dal deplorare, ma che sarebbe forse potuto avvenire
in maniera meno dissennata e distruttiva, senza dissipare un
patrimonio di competenze e di valori che avrebbe contribuito a
una più solida modernizzazione del Paese20.

La costrizione dell’entroterra che imprigiona e tende a sequestrare i


giovani, spesso gravati da rimorsi e rimpianti a loro estranei e
dall’ignoranza ingenua o vendicativa dei padri, lo spaventa e lo repelle.
Il giovane Calvino vuole fuggire, non intende incorrere nella sorte di
chi, come l’Ernesto pavesiano di Paesi tuoi, è rimasto incastrato:
«Uscendo dal paese Ernesto ci accompagnò fin sotto la lea, e mi
raccontava che aveva imparato da soldato a fare il macchinista. – E
perché siete tornato in campagna? – gli chiedo. – Sapete bene come
sono i padri, ̶ mi rispondeva, ̶ abbiamo un po’ di terra, e sembra una
gran cosa» 21 . Non a caso il personaggio di Calvino, come quelli di
Pavese, vede nel mare il suo punto di riferimento, un orizzonte da
raggiungere e da cui partire. Il racconto infatti si chiude così, col
ragazzo che sogna già – ancora intento com’è a trasportare ceste di
frutta e verdura per suo padre – la spiaggia, il luogo dei giovani, quello
che sente per lui più adatto, dove c’è vita, ci sono ragazze, c’è – forse –
un primo assaggio di estraneità e fuga.
Il mare torna qui nelle stesse vesti con sui si presentava nei racconti
di Pavese, luogo simbolo d’infinito e di fuga, al quale in questo caso il
giovane si affida nei suoi monologhi interiori per evadere da una realtà
contadina e terrosa che gli sta stretta. Non è difficile, qui, fornire al mare
il ruolo che spesso, in letteratura ma anche nella vita, assume. A
controbilanciare la spinta propulsiva verso il mare e il mondo esterno
c’è però quell’appendice a cui si accennava, un prolungamento del
corpo fisico ed emotivo del ragazzo che corrisponde alla persona del
padre (in questo racconto assolutamente centrale è la figura paterna,
probabilmente proprio per sottolineare il carattere allegorico caro a

19
Ivi, p. 25
20
M. Barenghi, Calvino, Il Mulino, Bologna 2009, p. 127
21
C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 84
75
Calvino, che vede nei padri le generazioni precedenti; sua madre è
menzionata un paio di volte, sempre di sfuggita e quasi con timore e
imbarazzo) e a quella terra che pareva volerlo bonariamente inghiottire,
condannandolo a una vita di ascolto e osservazione, una vita al servizio
della natura. Certo lo scrittore non mancherà poi di riconoscere e
studiare il fenomeno dell’industrializzazione e della cementificazione
selvaggia (lo fa nel romanzo La speculazione edilizia del 195822) che
aveva trasformato i paesaggi cittadini tanto sognati da ragazzo e
stravolto anche la costiera ligure a lui familiare (specialmente con il
moltiplicarsi delle case di vacanza della nuova borghesia di massa),
come non mancherà di portare a un livello maggiormente simbolico e
astratto il dualismo tra mondo di campagna e mondo di città, che è
anche una trasposizione del mondo interiore e del mondo esteriore. Nel
1971 infatti scriverà Dall’opaco, in cui descrive il vivere, l’osservare e
il percepire un luogo e una realtà, con l’osservatore sempre in bilico
(ma saldo e consapevole) fra ciò che ha alle spalle e ciò che invece ha
davanti, a cui rivolge lo sguardo. Alberto Asor Rosa su “la Repubblica”,
tracciando un parallelismo proprio tra Dall’opaco e il racconto del ʼ63,
definiti «due spettacolari campioni di poetica autobiografica», ha
descritto meglio questa posizione:

L’“opaco” , com'è ovvio, è il contrario dell’“aprico”: l'ubagu


e l'abrigu, nel dialetto ligure di Ponente, che si fronteggiano, fra
mare, costa e collina, nello spazio ben delimitato di un golfo, che
va da un promontorio all'altro, e che lì dentro e da lì in fuori
confina e definisce il resto del mondo, come le due rispettive
metà di una conoscenza che rischia di non diventare mai un'unità
se non si assume la posizione giusta dello sguardo da cui dipende
poi tutto il resto23.

Ma tornando alla trama del racconto, di una lettura diversa


dell’entroterra d’origine il ragazzo sarà in grado solo molto più tardi,
quando l’età adulta lo condurrà attraverso una rilettura del passato (e
anche qui va rievocata la presenza di Pavese, del quale Calvino – più o
meno consciamente – segue per un certo tratto le orme filosofiche e
simboliche), alla ricerca di quella condizione infantile perduta e
irripetibile che se non altro lo riavvicinerà ai luoghi di suo padre, e forse
infine anche suoi. Secondo Barenghi «il fulcro del racconto non è tanto
il passato rievocato, quanto il processo della rievocazione»24, perché
quello che l’uomo ormai esperto cerca attraverso il ricordo è
«essenzialmente la chiarificazione di un modo di orientarsi rispetto alle

22
cfr. I. Calvino, La speculazione edilizia, Mondadori, Milano 2016
23
A. Asor Rosa, Da vicino e da lontano il racconto del mondo, in “la Repubblica”, 13 dicembre 2015
24
M. Barenghi, Calvino, cit., p. 127
76
cose: o, detto altrimenti, un modello di sguardo»25. Fondamentali quindi
sono l’atto stesso del ricordare e la capacità nel farlo da un’età ormai
adulta, che ha annacquato alcuni ricordi ma ha probabilmente
preservato i più importanti. Mentre il racconto si avvia alla conclusione,
l’autore – che lungo tutta la narrazione commenta e interviene
servendosi di una voce narrante in prima persona – si concede attimi di
nostalgia quando, al ricordo di alcune «meraviglie» sparse lungo le terre
di loro proprietà (una sorgente nascosta tra le rocce, una caverna di tufo,
una grotta) scrive: «[…] e altre meraviglie che non erano più per me
meraviglie, e ora lo sono ritornate […]»26. La rilettura è completa: il
ragazzo fattosi adulto ritrova in sé nuovamente il ragazzo, con una
consapevolezza però nuova e finalmente pronta al contatto diretto con
sé, con le cose e con il luogo-mondo; esattamente come nel racconto di
Pavese, La vigna: «l’uomo e il ragazzo s’incontrano e sanno e si dicono
che il tempo è sfumato», «l’uomo non ritorna ragazzo: è ragazzo»27.
Allo stesso modo il Calvino uomo-autore-protagonista riprende
all’improvviso contatto, al ricordo o alla vista di certi scenari (luoghi di
vita vissuta, scenografie di piccole o grandi avventure e di quotidianità)
con qualcosa che aveva sempre avuto intorno e che mai aveva capito.
In una lettera a Carlo Bo, Calvino pare riassumere anni di riflessioni e
intimi conflitti riguardo il suo rapporto con l’entroterra ligure delle
origini, avvicinandosi al concetto di «un paese ci vuole» espresso da
Pavese ne Luna e i falò; Calvino scrive a Bo: «I liguri sono di due
categorie: quelli attaccati ai propri luoghi come patelle allo scoglio, e
quelli che per casa hanno il mondo e dovunque siano si trovano a casa
loro. Ma anche i secondi, e io sono dei secondi, tornano regolarmente a
casa, restano attaccati al loro paese non meno dei primi»28, esprimendo
in ciò il concetto del ritorno al luogo d’origine, al cuore di quella
Liguria «magra e ossuta» che aveva caratterizzato l’indagine
introspettiva di Pavese e che interessa la maggior parte degli individui
che si trovano, nel corso della vita, ad esser combattuti tra la spinta a
partire ed emigrare e la successiva forza attrattiva esercitata dal luogo
d’origine.
Con un volo pindarico forse non del tutto ingiustificato si potrebbe
leggere questo momento di rivelazione, di disvelamento e di estasi
come il narratore esterno del Barone rampante legge l’atto finale di
conoscenza intima e reciproca fra Cosimo e Viola: «Si conobbero. Lui
conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei
conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era

25
Ivi, p. 129
26
I. Calvino, Romanzi e racconti, cit., p. 24
27
C. Pavese, Feria d’agosto, cit., p. 166
28
I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Mondadori, Milano 2000, p. 46
77
potuta riconoscere così» 29 , leggendo nel «lui» e nella «lei» le due
differenti dimensioni temporali dell’uomo-ragazzo.
Partire quindi vuol dire trovare il coraggio di mutilarsi, lasciare
indietro parte di sé, sacrificare quell’appendice che lega individuo e
terra, infanzia, padri e madri, e mettersi per mare, inoltrarsi tra le
incognite e le seduzioni del mondo esterno, alla ricerca del proprio
luogo e del proprio linguaggio. Di fatto questo è un sacrificio (Belpoliti
ha notato a ragione come «Per Italo Calvino scrivere significa perdersi,
perdere una parte di sé […]» 30 ). Il sacrificio che Calvino indaga e
interpreta nelle opere di Pavese si presenta, chiaro, nella Strada di San
Giovanni, l’opera-testimone di un atto che pur non portando a un auto-
sacrificio (com’era stato per Pavese), conduce, attraverso la perdita
fisica e simbolica, a un disvelamento finale di verità: quella, cioè, che
l’età matura è un fallimento, e che l’essenza vera della vita forse sta
nell’infanzia e in tutto ciò che protegge e custodisce il ricordo
dell’infanzia stessa, primi fra tutto: i luoghi.

3.2. Manganelli in Abruzzo: l’entroterra come luogo-tempo

La favola pitagorica, il libro con il quale la casa editrice Adelphi


raccoglie per la prima volta in volume unico i reportages di viaggio che
Giorgio Manganelli scrisse tra il 1971 e il 1989, è un esempio di
geocritica (leggere cioè un luogo come fosse un libro) che indaga un
insieme di rapporti autentici e repentini instaurati da Manganelli con
alcuni luoghi d’Italia. La premessa all’opera era che nessuno sguardo
rivolto alle località toccate fosse uno sguardo da turista, ma sempre –
rigorosamente – da viaggiatore. Premessa nient’affatto scontata dato
che «Non viaggiavano gli emigranti ottocenteschi, che pure mutavan di
cielo, né viaggiano i turisti in gregge, che una guida incattivita riempie
di capolavori. Viaggiare è operazione o solitaria o di sparuta e
congeniale compagnia; ed è lasciarsi cadere nel fondo di quella magica
fessura che ci porta da un luogo all’altro»31. Il perché di questo spostarsi
è dichiarato dallo stesso autore quando scrive: «L’istinto mi porta a
cercare i luoghi minori, gli oggetti controversi, i mondi periferici, le
forme distratte o schive. Non voglio l’immagine esatta, ma l’immagine
che partecipa dell’errore»32. Chiarita dunque l’identità del movimento
di Manganelli, è opportuno prendere in considerazione i luoghi che
sceglie come mete: Emilia-Romagna, Toscana (specialmente Firenze)

29
I. Calvino, Il barone rampante, Mondadori, Milano 1990, p. 303
30
M. Belpoliti, Settanta, cit., p. 120
31
G. Manganelli, La favola pitagorica, Adelphi, Milano 2005, p. 11
32
Ivi, p. 34
78
e Abruzzo, i principali. Le pagine su Firenze sono di rara bellezza
espressiva, ma preme qui porre l’attenzione sul capitolo dedicato
all’Abruzzo, per la natura d’entroterra che caratterizza la regione, e che
la accomuna – seppur delineando scenari fisici dai tratti differenti – alle
valli piemontesi care a Pavese e, di sbieco, all’entroterra ligure descritto
da Calvino in cui mare e colline si guardano e si toccano e monti e
spiagge si custodiscono reciprocamente da lontano.
Quello che Manganelli costruisce è un mosaico di scorci e visioni,
assemblato attraverso l’indagine attenta di ogni attimo. L’autore sembra
riuscire a entrare in simbiosi con un luogo tanto da coglierne l’essenza
più intima, indipendentemente dal tempo che vi trascorre a percorrerlo
e a viverlo, ma semplicemente – anche se si tratta di un’operazione
tutt’altro che semplice – grazie ad una spontanea attitudine allo sguardo
e all’empatia. Meccanismo che sorprende, questo – specialmente
considerando l’approccio schivo e diffidente del Manganelli
viaggiatore verso molti di quei luoghi da lui visti come inganni (i musei,
le città d’arte) – se si leggono le pagine su Firenze, della quale l’autore
restituisce una visione inedita e priva di retorica, ma che non stride
affatto invece con quella parte di sé profondamente e da sempre attratta
dalle periferie, dai mondi dimenticati e da quelli meno esplorati.
Sicuramente l’Abruzzo s’inserisce in questa categoria, essendo in fondo
un enorme e variegato entroterra periferico (con l’unica eccezione,
forse, come nota lo stesso autore, di Pescara), e non può di conseguenza
non indurre il viaggiatore-osservatore a delle riflessioni sul rapporto
che gli abruzzesi hanno col proprio territorio.
Nella sezione Abruzzo, l’itinerario di Manganelli, sempre
accompagnato da qualcuno – amici, esperti, autoctoni – che mai ha
un’identità precisa, parte da Pescina, patria di Ignazio Silone: «Vedi un
po’, mi dico, contemplando la torre litigiosa e corrucciata, proprio
Ignazio Silone mi accoglie sulla soglia della regione Abruzzo»33.
Fontamara infatti, come l’autore aveva chiamato il paese da lui
inventato nell’omonimo romanzo del 1933, è un «antico e oscuro luogo
di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del prosciugato
Fucino, nell’interno di una valle, a mezza costa tra le colline e la
montagna»34, dove si muovono i cosiddetti “cafoni”, i contadini poveri
che secondo l’autore costituiscono «nazione a sé, razza a sé, chiesa a
sé» 35 . Silone presenta gli individui che costituiscono la comunità
protagonista del suo romanzo come poveri e ignoranti, affidati a una
fede assoluta, continuamente vessati dal Governo, dai ricchi del
capoluogo, dagli avvocati, dal parroco, dai fascisti. Una persecuzione
talmente accanita da risultare grottesca – specie quando anche il caso si

33
Ivi, p. 99
34
I. Silone, Fontamara, Mondadori, Milano 1998, p. 3
35
Ivi, p. 4
79
mette di mezzo – ma che restituisce con onestà la situazione che a quel
tempo vivevano gli abitanti dell’entroterra abruzzese: la terra era tutto
quel che avevano, ma continuamente dovevano difenderla e
rivendicarne il possesso attraverso proteste, battaglie, sudore e lavoro.
Perdere la terra, o la possibilità di farla fruttare – che è esattamente
l’eventualità minacciata nel romanzo, quando l’Impresario e i
possidenti pensano di deviare il corso del ruscello che attraversa
Fontamara e grazie al quale i fontamaresi avevano fino ad allora irrigato
i loro campi – rappresentava la peggiore delle disgrazie:

Come può un uomo della terra rassegnarsi alla perdita della


terra? […] Fra la terra e il contadino, dalle nostre parti, ma forse
anche altrove, è una storia dura e seria, è come marito e moglie.
È come una specie di sacramento. Non basta comprarla, perché
una terra sia tua. Diventa tua con gli anni, con la fatica, col
sudore, con le lagrime, con i sospiri36.

A Silone interessa quindi raccontare due cose: la prima è la


spaccatura che divideva i poveri dai ricchi nei primi decenni del
Novecento – e il conseguente trattamento che era riservato ai cafoni –
(«Un fatto insomma era chiaro: ogni giorno uscivano nuove leggi a
favore dei padroni; ma, tra le antiche leggi, erano abolite solo quelle
favorevoli ai cafoni, mentre altre rimanevano»37); frattura nella quale si
legge anche un profondo distacco tra il mondo cittadino, patria
benestante e opulenta del potere e della politica, a tutti gli effetti
inaccessibile ai cafoni (essi anzi sono scherniti e sbeffeggiati anche
semplicemente entrando in città), e quello di campagna, povero e
disperato, dove vige la regola del lavoro ma altrettanto l’amara
consapevolezza che quel lavoro non arricchirà le famiglie dei contadini
bensì quelle delle élite cittadine. La seconda è il legame dei cafoni con
la loro terra. Il possesso di un appezzamento, di un acro, di un orto, per
chi non possiede nient’altro, è tutto. E non è solo un fatto di ricchezza,
di guadagno o sostentamento: è un fatto di identità. Possedere la terra
conferisce dignità all’uomo, è motivo di orgoglio e onore, è simbolo di
uno status sociale: avere un po’ di terra esclude il possessore dalla
categoria degli ultimi tra gli ultimi, conferendogli un ruolo in società,
una utilità, un senso. Avere un po’ di terra non è qui inteso come
l’intendeva l’Ernesto di Paesi tuoi di cui si è detto prima («abbiamo un
po’ di terra, e sembra una gran cosa» 38 ), che constata rassegnato
l’attaccamento sopravvalutato che una comunità provava verso le
risorse del proprio territorio; al contrario, per la popolazione

36
Ivi, p. 70
37
Ivi, p. 141
38
C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 84
80
fontamarese avere un po’ di terra vuol dire esistere: Berardo Viola, per
certi versi simile al Talino pavesiano, per i tratti selvatici e animaleschi
del suo carattere e per l’impulsività da cui originano alcuni atti violenti,
si affanna infatti per tutto il romanzo alla disperata ricerca di un
appezzamento di terreno da acquistare e coltivare. Lui infatti, Berardo,
pur essendo in paese una sorta di eroe (o meglio, antieroe), è costretto
ad assicurarsi una proprietà, pena la perdita del valore riconosciutogli
dalla collettività. A Fontamara, dunque, esiste un’appartenenza
reciproca: ogni abitante appartiene al villaggio e si sente fontamarese,
con tutte le disgrazie e le difficoltà che ciò comporta, e il villaggio però,
diviso e ripartito, appartiene a ogni singolo abitante e alle famiglie
sottoforma di case, campi messi a coltura e orti. Una relazione tanto
simbiotica richiama il sentimento di Mario Calvino per quell’entroterra
ligure a lui molto caro: il paese è il mondo, e non esiste, per quanto
sogni e progetti e speranze ne ammettano l’esistenza, altro mondo
possibile. Fontamara è «[u]n villaggio insomma come tanti altri; ma per
chi vi nasce e cresce, il cosmo. L’intera storia universale vi si svolge:
nascite amori odii invidie lotte disperazioni»39.
Questo, per l’appunto, non significa che non esistano speranze di
fuga o progetti rivolti ad una realtà esterna, lontana, diversa.
L’emigrazione dei giovani è infatti presentata come una prassi, o
almeno lo era fino a poco tempo prima dell’avvenimento dei fatti
raccontati nel romanzo: «un tempo i giovani cominciavano a partire in
cerca di lavoro appena oltrepassati i sedici anni. Chi andava nel Lazio,
chi nelle Puglie e chi, più ardimentoso, in America» 40 . Da un certo
momento in poi, quindi, «la proibizione dell’emigrazione aveva
interrotto la partenza dei giovani, i quali erano costretti a restare a
Fontamara, e così il lavoro era scarso per tutti»41; eppure anche l’atto di
emigrare, molto rimpianto in questi passi dalla voce narrante, aveva uno
scopo ultimo ben preciso:

L’impossibilità di emigrare significava l’impossibilità di


guadagnare e risparmiare quel tanto che permettesse di
conservare il piccolo fondo paterno corroso dai debiti e dalle
ipoteche, che permettesse di apportarvi il necessario
miglioramento, che permettesse di sostituire l’asino morto o
vecchio con un asino giovane, di acquistare un letto per potersi
ammogliare42.

Andarsene, quindi, che fosse in una regione vicina o in un altro


continente, era soltanto un mezzo alternativo per guadagnare e

39
I. Silone, Fontamara, cit., p. 4
40
Ivi, pp. 77 s.
41
Ibid.
42
Ibid.
81
accumulare denaro da reinvestire poi in terra natia. Difficile era pensare
a viaggi di sola andata, a movimenti che non presupponessero
movimenti opposti, di ritorno. Allo stesso modo pare difficile per chi
resta immaginare un futuro migliore in un altrove diverso. C’è la stasi,
dunque, quella che si definirà più avanti come mancato movimento, c’è
la partenza e c’è il ritorno.
Se anche l’entroterra spinge i fontamaresi a partire, esso resta in
attesa del loro ritorno e, in qualche modo, alla fine, li richiama e li
riaccoglie. Ogni aspetto tragico di una vita di sacrificio pare perciò
venir meno. L’entroterra di Silone è forse quello che descrive meglio,
in letteratura, il doppio movimento (che è in fondo un movimento più
complesso, fatto di più di due direzioni, come si vedrà nel capitolo
successivo), e che descrive chiaramente i due elementi, le protesi, di cui
la terra madre dota i suoi figli: radici e ali.

Già nel piccolo borgo natìo di Silone, Manganelli rintraccia


«qualcosa che poi riconoscer[à] come molto abruzzese» 43 , qualcosa
cioè «di aspro e di frammentariamente elegante», nonché «uno dei miti
abruzzesi, quell’essere un sistema di case casalinghe su coste
montane»44. L’itinerario prevede poi come tappe: Cocullo, dove assiste
alla festa delle serpi, rituale svuotato di tradizione e consegnato al
folklore turistico, Scanno, col suo lago «calmo, distratto», Sulmona che
«ha una grazia cordiale, meridionale, e insieme durezze e squisitezza
che direi nordiche»45 e il Parco Nazionale d’Abruzzo, che chiude quella
che è considerabile la prima parte dell’itinerario. Nel capitolo Il tempio
del parco lo scrittore descrive il Parco Nazionale come «una regione
nella regione», una sorta di “metaluogo” insomma, e si inoltra in un
parallelismo che vede protagonisti il parco e il témenos, cioè quel luogo
che fa della sua linea di confine un mezzo per isolarsi e distinguersi,
allo stesso modo di un tempio, «che è un luogo discontinuo ai luoghi
della vita quotidiana, un luogo entro il quale, e solo entro il quale,
possono avvenire eventi, riti, gesti della vita, anche sogni, epifanie,
visioni, che non sono possibili altrove: non possibili che non vuol dire
fisicamente impossibili, ma moralmente tali» 46. L’impressione è che
parlando in questi termini del parco, definito regione nella regione,
l’autore stia in realtà parlando della regione tutta, quella che contiene il
parco, che ne assume e ne assorbe la fisionomia etico-comportamentale,
i valori e tutto l’apparato simbolico e allegorico. Manganelli parla
infatti di «sogni, epifanie, visioni», le epifanie e le visioni che i
personaggi di Pavese vivono tra le valli di Santo Stefano Belbo – in atti
di assoluta simbiosi uomo-uomo e uomo-luogo – e i sogni che il

43
G. Manganelli, La favola pitagorica, cit., p. 101
44
Ivi, p. 103
45
Ivi. p. 108
46
Ivi, p. 110
82
giovane Calvino della Strada di San Giovanni fa mentre percorre le
strade del suo luogo-padre, perdendosi con la mente tra spezzoni di
giornali trovati qua e là e speranze di fuga. Attraverso l’immagine del
Parco, Manganelli racconta una regione intera, regione d’entroterra e
da sempre periferia: «l’Abruzzo fu per secoli un luogo inospite,
intrinsecamente lontano – “più lontano dell’Abruzzo” dice un
personaggio del Decameron, per indicare una distanza favolosa.
Appartato, scostante, anche banditesco […]» 47 ; un luogo
«intrinsecamente lontano», la cui lontananza è congenita, biologica e
intima, una lontananza che Manganelli chiama con formula felicissima
«favolosa». Una «distanza favolosa» è una distanza incalcolabile,
mitica, che come unica certezza dà l’essere in qualche modo enorme e
inconoscibile. Distanza che poi, passati i tempi del Boccaccio e del
regno di Napoli, si è realisticamente ridimensionata, è stata declassata
rispetto a nuove distanze considerate siderali ed è stata così con più
facilità affrontata da viaggiatori e avventurieri come Manganelli. Quel
che non è cambiato, sembrerebbe, è la giurisdizione propria di un luogo
così antico e carico di mito, un luogo-tempio che, esattamente come
accade ai templi, non smette di essere luogo sacro anche ad occhi
profani, un posto «del tutto discontinuo allo spazio umano e fisico che
lo circonda, entro il quale sono imperative le leggi, e prevalgono
consuetudini che altrove non esistono» 48 . Le leggi dell’entroterra
(abruzzese e non, estendendo il discorso a ogni entroterra) e della
campagna, della periferia contadina, sono resistenti, granitiche nel loro
perdurare a dispetto del tempo che inesorabile scorre e trasforma.
L’entroterra che salva o condanna, che sprona a partire o trattiene, che
libera o imprigiona, l’entroterra come punto di partenza o meta del
ritorno, resta comunque sempre fedele alla sua identità unica, all’unicità
e all’anomalia dello scorrere del tempo. La cristallizzazione temporale
è una questione che Manganelli cita, ponendola in stretta relazione con
le due anime più evidenti di un mondo così selvatico: il freddo e il
silenzio.
Il freddo pungente e perenne dell’Abruzzo pare congelare,
fermandolo in cristalli di ghiaccio, il tempo; così come il silenzio, di cui
quel territorio è grande produttore, sembra preservarne la segretezza,
l’indicibilità e l’incredibile lentezza con la quale la storia si fa strada a
fatica in quei luoghi. Le regole e le tradizioni che l’entroterra abruzzese
personalizza sono oggi proposte da un’autrice – che di certo rispetto a
Manganelli ha il vantaggio di essere un’autoctona – sulla quale ci si
soffermerà più avanti: Donatella Di Pietrantonio, che pone al centro
delle dinamiche delle sue storie le tradizioni ataviche e fuori dal tempo
che Manganelli osserva da vicino.

47
Ivi, p. 111
48
Ivi, p. 110
83
Si diceva di un Abruzzo come tempio sacro, custode di freddo («[…]
mi dicono che la neve non scomparirà mai del tutto; questo è un luogo
occupato dalla stagione per eccellenza abruzzese, il sovrano, taciturno
inverno […]»49 e silenzio; Manganelli scrive: «l’Abruzzo è un grande
produttore di silenzio»50 e invita il lettore a fare un esperimento: sostare
davanti a due chiese, site non lontano dall’Aquila, e apprezzare «il
rapporto strettissimo con il luogo, la solitudine, e la qualità del silenzio;
un silenzio arcaico, che ospita rumori animali, e fruscii vegetali, tutti
sommessi, come assorbiti nella grande immagine del luogo; sì che alla
fine tutto fa quello strano spettacolo che ha il suo culmine nelle due
chiese, ma che include l’immagine delle montagne, il rilievo degli
edifici, la qualità dell’aria e infine la suasiva coerenza del silenzio»51.
Partendo dalla definizione manganelliana dell’Abruzzo come luogo-
tempio, si potrebbe formulare un’altra definizione, quella di luogo-
tempo: luogo e tempo coincidono e perdurano uniti e indivisibili in
questa coincidenza; il luogo non muta e il tempo non scorre, e gli
abitanti non possono che assorbire quest’aura di immobilità, costruendo
comunità apparentemente immutabili. A suggerire questa definizione è
lo stesso Manganelli quando scrive dei monumenti abruzzesi e
l’impressione è, di nuovo (dopo aver usato il Parco Nazionale per
parlare dell’intera regione), che si stia servendo di una sineddoche per
parlare dell’Abruzzo attraverso i suoi monumenti:

I monumenti abruzzesi stanno nella loro sede come pietre che


un torrente abbia deposto lungo la sua corsa, per poi deviare; ora
il greto dei secoli è asciutto, è immobile, è una pura immagine; e
la pietra, il monumento sta nel centro, forma chiusa, qualcosa
come un gigantesco inimitabile cristallo, una solidità dissimile da
qualunque altra solidità: solidità è una parola astratta, e una
quantità astratta fascia le pietre, i cristalli giganteschi
d’Abruzzo52.

I «cristalli giganteschi d’Abruzzo» possono esser letti come


incarnazioni in pietra della cristallizzazione temporale – e in questo
caso anche spaziale, di luoghi che paiono non mutare e non poter
mutare, come vittime di un incantesimo di pietrificazione – che
caratterizza un mondo distante e favoloso, lo stesso che Pavese
restituisce nella descrizione del luogo e del tempo dell’entroterra
piemontese.
L’assoluta anomalia dello scorrere del tempo nell’entroterra è
testimoniata dal fatto che, rimettendosi in viaggio verso Roma, l’autore

49
Ivi, p. 113
50
Ivi, p. 135
51
Ibid.
52
Ivi, p. 138
84
avverte «la sensazione acuta di qualcosa di distante, distaccato, anche
estraneo» 53 , ha già cioè l’impressione che, avvicinandosi alla civiltà
caotica e globalizzata, vengano meno i momenti di contatto con città
come Atri e Sulmona, o come L’Aquila, in cui il tempo perdura, uguale
a se stesso, con una pazienza e con una lenta ostinazione che
affascinano. L’immobilità di tempo e luoghi è causata dalla perenne
ibernazione della regione, maestra e generatrice di freddo:

Fa freddo, in Abruzzo, in modo ostinato, angoloso,


professionale. È una regione che si è specializzata in inverno, sa
produrre diversi tipi di inverno, tutti robusti e ben lavorati. Si ha
l’idea che l’inverno sia in Abruzzo la stagione di base, e su quella
si lavori per produrre le altre. Ma non è solo il freddo, […] l’aria
ha uno scatto, una elasticità di muscoli, una pungente, tagliente
acredine che sa di spazi nordici, di scoscese dimore montane54.

Un’immobilità che inevitabilmente dà vita ad un profondo senso di


solitudine, uno stato d’animo che non è però diretta conseguenza delle
lande desolate create dal silenzio, come si potrebbe pensare, ma è
secondo l’autore «una scelta», forse perché la solitudine, il vivere
appartati rispetto alla caoticità del mondo, è la via privilegiata per una
totale empatia con la natura e, di conseguenza, con se stessi.

3.3. Un caso aggiuntivo: Flaiano come esempio di una simbiosi


mancata

In una lettera a Luciano Scarpitti pubblicata nel 1972 in Discanto


Ennio Flaiano risponde alla domanda che l’amico gli aveva posto in una
precedente lettera, chiedendogli in sostanza cosa lui avesse conservato
in sé di abruzzese. Da qui nasce quella che sembra essere allo stesso
tempo una reminiscenza e una presa di coscienza: l’Abruzzo raccontato
con gli occhi dell’autoctono distratto da una vita altrove, l’abruzzese di
ritorno Flaiano, che nella lettera all’amico confessa le sue
dimenticanze, i momenti cioè nei quali si dimentica d’essere abruzzese,
lui ormai romano d’adozione («emigrante intellettuale», come lui stesso
si definisce), spesso in movimento da una grande città all’altra e da
tanto lontano dai suoi luoghi d’origine. Una sorta di distacco intimo
quello che vive nei confronti della sua regione, sentimento che sta lì,
quieto e sopito la maggior parte del tempo, ma che torna ad accendersi
con vigore quando qualcuno, o qualcosa, gli fa tornare alla mente certi

53
Ivi, p. 140
54
Ibid.
85
ricordi abruzzesi («questa lettera che mi hai cavato con la tua dolce
pazienza non volevo scriverla, per un altro difetto abruzzese, il più
grave, quello del pudore dei propri sentimenti» scrive a Scarpitti).
Flaiano condensa in poche righe un discorso che avrebbe altrimenti
avuto bisogno di ben più spazio (e sarebbe stato interessante se lo
avesse meritato), quello sulle sue origini e di fatto sul suo abbandono
della terra d’origine; un abbandono mai davvero voluto, mai rivendicato
come atto benefico, eppure utile – e forse necessario – ad una presa di
contatto vera con quella realtà vissuta sempre a distanza. Scrive ancora
nella lettera:

Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel


sangue. Me ne andai all’età di cinque anni, vi tornai a sedici, a
diciotto ero già trasferito a Roma, emigrante intellettuale, senza
nemmeno la speranza di ritornarci. Ma le mie “estati” sono
abruzzesi, e quindi conosco bene dell’Abruzzo il colore e il senso
dell’estate, quando dai treni che riportavano a casa da lontani
paesi, passavo il Tronto e rivedevo le prime case coloniche coi
mazzi di granturco sui tetti, le spiagge libere ancora, i paesi
affacciati su quei loro balconi naturali di colline, le più belle che
io conosco. Poco so dell’Abruzzo interno e montano, appena le
strade che portano a Roma. Dico sempre a me stesso che devo
tornarci a “vederlo”. Non certo per scriverne, scrittori abruzzesi
che possono dirci qualcosa dell’Abruzzo d’oggi non mancano, io
indulgerei un po’ troppo nella memoria, non so più giudicare,
capisci quello che voglio dire?55

Una conoscenza di quell’entroterra, la sua, acquisita da distanze di


anni, sprazzi estivi e ricordi, tutti passaggi pavesiani, quelli già
analizzati che conducono l’individuo alla piena presa di coscienza di sé
e del luogo in età adulta. Flaiano infatti ha instaurato un legame col suo
Abruzzo fatto di distanza, quella distanza di cui anche lui – come
Manganelli – parla usando le parole di Boccaccio («Gli è più lontano
che Abruzzi») 56 ; un legame dapprima dato per scontato, poi
successivamente riletto, proprio come quello di Calvino e del suo
personaggio autobiografico della Strada di San Giovanni con
l’entroterra ligure e con la campagna paterna. Il trasferimento a Roma
di Flaiano, avvenuto in giovane età, ha determinato la nascita di una
dimensione di altrove – Roma, appunto – in cui vivere e scoprire, e una
di luogo-proprio, indissolubilmente legato al passato e ai ricordi, che si
carica di misticismo e sacralità proprio grazie alla distanza fisica e
temporale che divide individuo e luogo natìo. L’emigrazione di Flaiano
non assomiglia però alla fuga calviniana, e forse per questo ha creato

55
P. Scarpitti, Discanto, cit., p. 50
56
Ibid.
86
l’effetto opposto a quello di una fuga: Flaiano ha sviluppato un senso
nostalgico dei luoghi e delle genti d’Abruzzo che lo porta a rileggere
scenari e ambienti, caratteri e rapporti in maniera affettuosa, pur
riconoscendo l’esistenza tanto di qualità positive quanto di negative: la
tolleranza, la pietà cristiana, la semplicità, la franchezza nelle amicizie,
ma anche il sentimento che tutto è vanità, ed è quindi inutile portare a
termine le cose, inutile far valere i propri diritti; e tutto ciò misto ad
un’accettazione della vita come preludio alla sola cosa certa, la morte.
Da qui, conseguentemente, il disordine quotidiano, l’indecisione, la
disattenzione a quello che succede attorno – pensiero fisso rivolto alla
morte che contiene tra l’altro l’essenza del mito e del sacrificio che
Pavese aveva associato ai suoi luoghi d’infanzia. Certamente Flaiano
non ha avuto modo, e specialmente tempo, di dare continuità al suo
rapporto con il luogo d’infanzia; è consapevole di non conoscere a
sufficienza ciò di cui l’amico gli chiede e per lo stesso motivo si
ripromette ogni volta di «tornarci a vederlo», perché si sente turista e
non vorrebbe esserlo; cerca una presa di contatto più intima ma non gli
riesce, è ormai distante e allora forse deve convivere col fatto che lui è
un abruzzese a distanza che non ha mai preso vero contatto, o
quantomeno non ha mai raggiunto una piena simbiosi, con la sua terra.
Discorso che certamente appare differente se ci si riferisce a quella che
è diventata la sua vera terra: Roma, città che lo scrittore sente
visceralmente, che ama e conosce profondamente.
A differenza di Pavese e di Calvino, Flaiano si affida sì al ricordo
ma senza poter a esso associare il ritorno fisico, epifanico. Il suo è un
continuo rimandare, con la certezza silenziosa trattenuta nel petto che
quel luogo gli appartiene a metà e così lui apparitene a quel luogo; la
fusione è un’utopia. Ecco allora che cade vittima di un sentimentalismo
da distacco, perdendo di vista alcuni tratti fondamentali delle comunità
contadine su cui qui si tenta di concentrare l’attenzione. Perché è vero
che, come lo stesso autore scrive, una regione come l’Abruzzo è fatta
non solo di montagne ma anche di spiagge e coste, ma è anche vero che
una città come Pescara, per quanto dall’autore amata – essendo legata
ai ricordi più felici della sua infanzia – è anche, come scrive
Manganelli, l’eccezione dello scacchiere, la novità e il diverso che
tentano di farsi largo e affermarsi in una cultura radicata negli
avvallamenti collinari e nei borghi pedemontani, non solo
topograficamente e morfologicamente ma anche e soprattutto
caratterialmente, culturalmente, folkloristicamente. Manganelli
definiva infatti Pescara una città senza rughe, perché nuova, rivolta al
mare e al futuro; una città che cercava già quando l’autore l’aveva
visitata di emergere e farsi largo in mezzo a tutte le realtà di pietra, terra,
freddo e silenzio. La mancanza di rughe in Pescara (e cioè di segni del
tempo, tracce di civiltà antica, monumenti e insomma storia) non è per

87
Manganelli un privilegio, tutt’altro: «Pescara tra la stazione e il mare è
un reticolo progettato da un geometra accanito. Chi ha in mente le strade
tortuose, i viluppi dei borghi, delle città abruzzesi, non può non cogliere
in questa geometria astratta una volontà di razionalità che pare
incompatibile con la storia, quella vecchia che riempie di rughe sapienti
le città abruzzesi» 57; «incompatibile» è l’aggettivo usato dall’attento
osservatore esterno, che dopo aver toccato con mano di viaggiatore
diversi altri posti di quella regione è in grado di cogliere l’estraneità di
una realtà come quella pescarese in uno scenario di luoghi che portano
in grembo mito e passato.
Incomplete, certo, le visioni tanto di Manganelli quanto di Flaiano,
osservatori che, per quanto lucidi e lirici, peccano di quantità, quella
quantità temporale e di esperienze dirette necessaria per la conoscenza
profonda di un micro-mondo; visioni incomplete, frutto di flussi deviati
e rapporti interrotti o solo brevemente instaurati, come le visite da
viaggiatore appassionato ma costretto alla sintesi di Manganelli o le
esperienze abortite di Flaiano, che certi posti li ha visti «una sola volta
di sfuggita, in automobile, come facciamo noi, poveri viaggiatori
d’oggi» 58 ; visioni incomplete se si pensa all’insieme, che tentano
comunque di restituire visuali profonde e improvvisi disvelamenti di
senso e di estemporanee empatie.
Da ciò si può dedurre che i processi relazionali e addirittura
simbiotici tra uomo e territorio sono soggetti a diverse variabili, e non
sempre arrivano a compimento attraverso una fusione sacrale; queste
visioni parziali, questi scorci di visuale offerti in letteratura da autoctoni
emigrati, o da forestieri adottati, forniscono casi di studio su rapporti
persi e irrimediabilmente interrotti, non restaurabili, su unioni mancate
e ricongiungimenti parziali o abortiti. In questi casi i luoghi d’infanzia,
l’entroterra mitico e il tempo-luogo possono essere certamente osservati
e toccati nei panni, appunto, di viaggiatori o estranei, cogliendo anche
– perché no, se le mani sono esperte, gli occhi attenti e l’animo pronto
e abituato all’ascolto del respiro delle cose e delle genti – l’essenza
primordiale di una terra, ma non possono essere totalmente
interiorizzati come chi sente di condividere ogni propria fibra con un
habitat fisico che, prima ancora che essere erba e terra, alberi e sassi, è
paesaggio interiore; come chi, cioè, sente e percepisce ogni cosa perché
ha resettato una distanza creata da una fuga o una partenza o perché non
ha mai interposto distanza alcuna tra sé e il luogo-del-sé. È il caso,
quest’ultimo, dell’autrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio di cui si
parlerà nel prossimo capitolo.

57
G. Manganelli, La favola pitagorica, cit., p. 115
58
P. Scarpitti, Disincanto, cit., p. 50
88
4. Il panorama contemporaneo: Di Pietrantonio e
Durastanti

4.1. L’arrivo dei barbari

Volgendo lo sguardo al panorama contemporaneo ci si trova ad


affrontare una realtà inevitabilmente diversa da quella del Novecento
letterario italiano. Lo scenario attuale deve sicuramente la sua
fisionomia alle innovazioni e alle riscoperte che si sono susseguite nel
corso del secolo scorso, ma anche alle trasformazioni che hanno
interessato tanto la società quanto il mondo dell’arte – e il modo di fare
arte –, oltre a essere legato all’economia, ai commerci, alla politica. A
queste trasformazioni hanno contribuito, e anzi sono stati determinanti
ai fini di un cambio netto di paradigma, quelli che, nel saggio del 2006
I barbari. Saggio sulla mutazione1, Alessandro Baricco ha definito –
per l’appunto – «i barbari». Essi hanno messo in discussione, secondo
l’autore, i confini della letteratura, spostandoli molto più in là, e rivisto
le priorità ad essa interne.
Ma chi sono, questi barbari? Semplicemente tutti quelli nati a ridosso
e durante la Rivoluzione Digitale (tuttora in atto): i pionieri del
progresso tecnologico degli ultimi quarant’anni (partendo dalla fine
degli anni Ottanta e arrivando a oggi) e i giovani degli anni Duemila –
incarnazioni, secondo lo scrittore, del fenomeno contemporaneo del
multitasking e di un nuovo modo di pensare e agire. Questi barbari, che
Baricco chiama anche «animali nuovi», da studiare e capire, hanno in
sostanza stravolto le regole del gioco inventando un movimento nuovo:
quello orizzontale. Nel corso dei secoli precedenti i pochi umani
destinati a una vita da artisti o intellettuali si sono sempre mossi “in
verticale”, facendo affidamento sugli unici mezzi in grado di sondare la
profondità: tempo, pazienza e studio. Oggi, invece, in piena era
tecnologica, i barbari si muovono rapidi e a pelo d’acqua: hanno
sacrificato l’atto del sondare abissi di senso per privilegiare una rapidità
di movimento che garantisse massima copertura della superficie. Non
si fermano mai, pensano meno e sono sempre in movimento; in questo
modo hanno fatto del movimento stesso il loro significato. Il senso non
sta più nelle cose, ma nel moto.
A livello letterario tutto questo si è tradotto in una nuova maniera di
scrivere e, forse, in una nuova maniera di leggere. Non è ancora chiaro
infatti da dove il cambiamento parta e cosa influenzi cosa: è la maniera
di fare arte a mutare il pubblico, che si adatta quindi ai nuovi processi

1
A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano 2006
89
artistici, o è l’arte che cambia in base alle evoluzioni dei gusti e delle
modalità di fruizione che interessano la società? Non è questa la sede
per tentare di rispondere alla domanda, per cui conviene limitarsi ad
analizzare un aspetto del nuovo modo di scrivere che può essere utile ai
fini di questo discorso.

Oggi, una grossa fetta di pubblico apprezza una tipologia di scrittura


immediata e di semplice decifrazione, che richiede poco tempo e poco
sforzo per essere fruita completamente, e che chieda, possibilmente (e
non è poco), una sola lettura per essere totalmente assimilata. Per fare
questo, è ovvio, è necessario semplificare la struttura dell’opera,
rinunciando a quei livelli di senso che possono rappresentare un
ostacolo all’immediatezza e alla rapidità di fruizione. Da questa
semplificazione è nato quello che oggi, anche grazie alla nascita del
formato tascabile nel mondo editoriale, è definito best-seller. Il best-
seller è quel romanzo (anche se non necessariamente dev’essere un
romanzo) in grado di parlare a ogni tipo di lettore, indipendentemente
dal grado di istruzione (basta il minimo: saper leggere), perché scritto
in una lingua piana e accessibile, semplice, e perché costruito quasi
esclusivamente sull’intreccio di trama. Il best-seller è fatto di eventi,
fatti, azioni, curiosità, rivelazioni. Certo, esistono poi best-seller fatti
bene e altri fatti male, quelli che contengono riferimenti all’attualità –
politica, sociale – e quelli che tentano di veicolare determinati messaggi
o indurre a precise riflessioni, ma in linea di massima il best-seller è tale
perché è, per definizione, il più venduto. Il fatto è che per essere il più
venduto un libro deve essere accessibile, e per essere accessibile deve
essere (in vari e diversi modi) semplice, e la via più breve per la
semplicità passa per l’eliminazione di piani simbolico-allegorici, di
riferimenti impegnativi e di una lingua impervia. Questo per dire che,
anche se nel capitolo corrente si prenderà in considerazione il panorama
contemporaneo, lo si farà con una consapevolezza ben precisa: c’è, tra
la letteratura del Novecento fin qui presa in considerazione e quella
degli anni Venti del Duemila, una profonda distanza, che non dovrebbe
però impedire l’analisi di quanto accade oggi sul fronte letterario
italiano.

4.2. Donatella Di Pietrantonio: un racconto moderno


dell’entroterra

Uno dei casi letterari più apprezzati dal nuovo pubblico di massa è
quello dell’autrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio, che ha esordito
nel 2011 con il romanzo Mia madre è un fiume, libro che presenta la
tematica a lei più cara: la maternità, subìta e agita. Bella mia, infatti,
90
romanzo di quattro anni successivo, sarà lo sviluppo parallelo di due
maternità distinte e complementari: la madre-genitore e la madre-città,
un dialogo, un parallelismo e una continua trasposizione dal concreto
all’astratto. Una donna, la protagonista, ritrovatasi improvvisamente a
essere madre di un nipote già adolescente, e una città, L’Aquila, madre
dei suoi figli abitanti, costrette a fare i conti con l’eventualità più
terribile: il lutto, la consolazione, la ricostruzione (fisica ed emotiva) di
un rapporto messo a dura prova dalla tragedia. Una condizione materna
che si scinde e articola nelle due posizioni coinvolte: l’essere madre e
il sentirsi madre. Per stessa ammissione della scrittrice, queste sono le
dinamiche dei rapporti umani che dominano i suoi romanzi. Non è un
caso, ma anzi una conferma, che anche il terzo libro, L’Arminuta,
s’incardini sul rapporto madre-figlia, con l’elemento di novità costituito
in questo caso dalla presenza di due madri (una biologica, l’altra
adottiva) per una ragazzina che dovrà capire di chi e di cosa essere
figlia.
Ma la tematica della maternità, così cara all’autrice, interessa in
questo discorso se declinata nell’altro grande significato fin qui trattato,
quello che vede la terra d’origine intesa come madre, la Madre Natura,
quella di Pavese con le colline che sembrano mammelle e quella
descritta da Alberto Savinio in Dico a te, Clio come «terra
mammelluta» 2 parlando di Guardiagrele, un paese dell’Abruzzo.
Premessa doverosa è (oltre quella già fatta riguardo l’evidente distanza
qualitativa tra le scritture) che l’indagine sulle opere di Donatella Di
Pietrantonio ha il fine di analizzare un modello concreto e diffuso di
rapporto con l’entroterra nel panorama narrativo contemporaneo.
Certamente l’autrice appartiene a una categoria diversa rispetto a quella
cui appartengono gli autori a lei precedenti, ma in uno scenario
oggettivamente depauperato di profondità, e forse di talento, appare
necessario selezionare esempi che possano portare in campo
quantomeno dignitose e nobili intenzioni. Di Pietrantonio è tra le poche
penne contemporanee che tentano di dare voce e spazio in maniera a
tratti credibile (a differenza di altri tentativi oggi molto in voga e
totalmente fallimentari, in prosa quanto in versi, come ad esempio la
“paesologia” di Franco Arminio) al rapporto uomo-luogo, e al disegno
di una realtà d’entroterra che ancora resiste ma che va inesorabilmente
indebolendosi e che rischia di scomparire, fisicamente e non.
Per questo, dell’autrice si tratterà principalmente il romanzo
d’esordio, che è il più intriso di quell’abruzzesità di cui hanno parlato
Manganelli, Flaiano e Savinio, con qualche rapido cenno a L’Arminuta;
interessante sarà notare sulla base di diversi elementi come la lettura del

2
A. Savinio, Dico a te, Clio, Adelphi, Milano 1992, p. 33
91
territorio e del legame uomo-luogo nelle opere di Di Pietrantonio derivi
dal modello pavesiano.

4.2.1. I movimenti da e verso l’entroterra

Il romanzo Mia madre è un fiume segna, attraverso le parole che la


figlia rivolge alla madre malata di Alzheimer, un percorso di riscoperta
di vita (quella dell’anziana donna), di luoghi e fatti. Ogni ricordo è
legato a un luogo, e la memoria degli ambienti si unisce e si accavalla
alla memoria dei ricordi:

Ride in dialetto ai nostri sporchi ricordi. Quando glieli


restituisco li trattiene per qualche momento, oppure li conserva
un po’ più a lungo, se corrispondono a tracce profonde. […]
Mia madre a volte non vuole. Allora guardo i fogli da fuori,
chiusi sul mistero della loro indisponibilità. Nascondono
contenuti all’apparenza neutri che la malattia ha deciso di
proteggere nell’indicibile. Non è casuale. Se avvicino certi nodi
lei ha paura, si difende subito col non mi viene in mente e
respinge il mio aiuto.
Non capitava quando le ripetevo un racconto ascoltato dalla
sua bocca o da altre. Accade ora, mentre narro un passato
condiviso, una storia dove sono nata e cresciuta abbastanza da
poter ricordare di prima mano. Ci sto dentro, so di lei e di me3.

La memoria delle due donne protagoniste è una memoria storica e


geografica, che richiama momenti di vita contadina e porzioni di
entroterra oggi quasi scomparse. Per un abruzzese, questo libro è un
“curiosario”, qualcosa da leggere per il gusto di scoprire cosa l’autrice
abbia deciso di raccontare di un popolo e di una terra, cosa abbia voluto
svelare ai non autoctoni riguardo usi, tradizioni, dialetti, credenze.
Un’operazione che procede per lampi aneddotici che tengono viva
l’attenzione del curioso all’interno d’una narrazione che comunque
procede fluida, quasi familiare. È un’opera che si occupa dei tre
movimenti già citati in precedenza e che così si potrebbero riassumere:
staticità, cioè assenza di movimento (con relativa domanda: perché
restare?), movimento in uscita (perché partire?), ed eventuale
movimento a ritroso (perché tornare?). Forse è il caso di osservarli
meglio.

3
D. Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, Elliot, Roma 2011, p. 96
92
4.2.2. Restare

I genitori della voce narrante – quella madre paragonata al fiume


eracliteo, sempre uguale a se stesso eppure sempre diverso, e il padre
molto poco menzionato – appartengono alla generazione di padri e
madri per i quali le opzioni erano due e ben nette: emigrare e costruire
una vita lontano, oppure restare, custodendo più o meno
volontariamente il proprio òikos (οἶκος: famiglia, casa) insieme a
ciascuna delle gerarchie che ne contraddistinguevano l’organizzazione.
A condizionare la decisione erano solitamente i denari e gli affetti, che
il più delle volte trattenevano e imprigionavano. Emblematico è il caso
della comunità di Fontamara. I poveri paesani infatti, disillusi e
rassegnati agli stenti del vivere misero di campagna, accettano
sommessamente la propria condizione, unica e sola possibile,
incontrovertibile, perpetua: «“Passeranno questi guai, se Dio vuole,
come ne sono passati tanti altri”, diceva la Recchiuta fiduciosa. “Quante
volte si è detto, così non si può andare avanti? E si è andati avanti”»4.
Altrettanto paradigmatico è il trattenersi dell’Ernesto pavesiano, indotto
dai genitori – poiché possedevano «un po’ di terra e sembra[va] una
gran cosa»5 – ad abbandonare la parentesi di vita urbana alla quale si
era da poco affacciato per essere anch’egli iniziato alle pratiche di
significazione della tradizione contadina. Differente è invece il caso di
Mario Calvino, discusso nel capitolo precedente: egli aveva scelto di
restare, trattenuto dalla profonda familiarità con il luogo d’origine e da
un rapporto quasi simbiotico e di reciproca assimilazione, di co-
appartenenza.
Il concetto di familiarità trova dimora presso il sistema teorico di
Martin Heidegger: egli, già in Essere e Tempo – ricerca ontologica di
cui l’esistere, l’esser-ci (Dasein) è insieme fondamento e oggetto –
aveva definito l’essere-nel-mondo come esistenziale fondamentale
risultante dalla composizione di «elementi semplici: il mondo (Welt),
l’essere con gli altri (Mitsein), l’essere se stessi (Selbstsein) e l’in-essere
(Insein)»6. Particolarmente rilevante, ai fini dell’indagine, è l’Insein,
l’in-essere:

Heidegger spiega il concetto [di essere-nel-mondo]


prendendo le mosse da quello di in-essere nel mondo. […] L’in-
essere, che è un esistenziale, ha infatti una valenza ontologica
prima che empirica ed è connesso all’essere familiare con un
luogo e con il suo ambiente. Il fatto di abitare un luogo è possibile
solo sul fondamento dell’intrinseca apertura esistenziale che
pertiene all’esser-ci, in virtù del proprio “ci”, cioè del fatto che

4
I. Silone, Fontamara, cit., p. 114
5
C. Pavese, Paesi tuoi, cit., p. 84
6
U. Curi, Il coraggio di pensare. Dagli arcaici al medioevo, Loescher, Torino 2017, vol. 3B, p.133
93
egli, esistendo, è sempre collocato in un orizzonte spaziale e
temporale che costituisce il suo ambito di esperienza e senza il
quale non potrebbe essere pensato7.

L’in-sein, la familiarità, l’appartenenza ad un luogo, definisce


dunque l’esistenza umana nella sua propria specificità. Heidegger
riprende lo studio degli elementi che scandiscono il rapporto tra l’uomo
(esser-ci) e il mondo (sua dimora) in Costruire, abitare, pensare. A
partire da un’analisi semantica e linguistica della parola “costruire”, in
tedesco bauen, egli torna sui temi di Essere e tempo, osservando come
«Noi non abitiamo perché abbiamo costruito, bensì costruiamo e
abbiamo costruito nella misura in cui abitiamo, cioè siamo in quanto
abitanti»8. Stabilita l’identità tra essere e abitare, Heidegger prosegue
l’indagine filologica, nel tentativo di risalire all’«essenza propria
dell’abitare». Se ne riportano di seguito i passaggi nodali, utili a chiarire
le ragioni che rendono stanziali popoli e uomini:

[…] il wuon antico-sassone, il gotico wunian, significano


come l’antica parola bauen, il rimanere, il soggiornare. Ma il
gotico wunian spiega più chiaramente come viene esperito questo
rimanere. Wunian significa: essere pacificati, rappacificati, in
pace. La parola pace significa ciò che è libero, il frye, e fry
significa: preservato da danni e minacce, riparato da…, cioè
risparmiato. Liberare significa propriamente risparmiare. Lo
stesso risparmiare non consiste soltanto nel non fare nulla di male
a chi viene risparmiato, bensì propriamente risparmiare è
qualcosa di positivo e accade allorché in anticipo preserviamo
qualcosa nella sua essenza riconducendola ad essa; allorché in
conformità alla parola liberare, la ripariamo. Abitare, essere nella
pace, significa: rimanere riparati nel frye, cioè nella libertà, che
risparmia ogni cosa nella sua essenza9.

L’entroterra accoglie chi sente di appartenergli, e se si sente di


appartenere all’entroterra si è in grado di pensare alternativamente la
realtà e la propria quotidianità. Se fatto con coscienza, con desiderio,
con una visione, rimanere può essere rumoroso, rivoluzionario.
Rimanere, così come ritornare, è radicale perché radica: chi decide di
legare la propria vita, un mestiere o il futuro a una specifica terra, sta
scegliendo di radicarsi – e di farlo in un territorio generalmente più
disagiato rispetto ad altri, coste o aree industriali, soggetto a
spopolamenti e abbandoni che ne modificano non solo la demografia
ma anche la morfologia – e per questo compie un atto radicale. A volte

7
Ivi, p. 134
8
M. Heidegger, Costruire, abitare, pensare, a cura di L. Taddio, Mimesis edizioni, Milano 2010, p.19
9
Ibid.
94
anche chi parte, resta, «come alcuni migranti continuano a vivere nel
paese che hanno lasciato e mandano un ologramma di se stessi in giro
per il futuro».10

4.2.3. Partire

Quello del partire è un atto che negli ultimi anni è stato del tutto
sdoganato, e privato nella maggior parte dei casi di quel richiamo al
tradimento a cui era spesso associato. Per conoscere e conoscersi
meglio, per acquisire una prospettiva diversa e un punto di vista nuovo,
non necessariamente giusto e veritiero, ma comunque nuovo, partire
appare alle nuove generazioni come la soluzione più logica e sempre
più in linea con gli aspetti pratici legati a studio, lavoro e carriera in
generale. Partire vuol dire assecondare il bisogno d’altro, come nel caso
del giovane protagonista in La strada di San Giovanni di Calvino o in
quelli dei racconti e dei romanzi di Pavese; vuol dire immergersi nel
mondo globalizzato e caotico, quello rapido e barbarico di cui parla
Baricco, quello liquido di Bauman e dei non-luoghi di Augé.
Partire perché, così come esiste il legame sacro e indissolubile col
luogo, esistono anche legami difficili, nati o divenuti insostenibili,
ammalatisi col tempo e diventati dannosi. Spostando per un attimo
l’attenzione su un genere e un’epoca differenti, viene in soccorso ai fini
di questo discorso il caso di Giacomo Leopardi. La sua biografia
sintetizza in un certo modo quello che si è appena scritto, quel rapporto
conflittuale con la propria terra d’origine, fatta di paesaggi e soprattutto
persone. A testimoniare l’insofferenza del giovane Leopardi è il suo
tentativo di fuga da Recanati, poco più che ventenne, poi sventato dal
padre e rimandato. Ma la voglia di fuggire da quel paese così austero
non è contenibile, e porterà il poeta a partire, girare l’Italia alla ricerca
di una nuova realtà, una città da cui farsi adottare, con l’intento preciso
di non tornare mai stabilmente al nido paterno recanatese. Già
L’infinito, scritto proprio l’anno successivo al tentativo di fuga,
presenta tra le altre cose il conflitto interno tra affetto e insofferenza:
«Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte
/ dell’ultimo orizzonte il guardo / esclude»11. La siepe, così familiare al
poeta, è sì cara, ma anche d’ostacolo, perché si frappone tra lo sguardo
e quell’orizzonte marittimo («e il naufragar m’è dolce in questo
mare»12) che, come sarà poi per Calvino, è l’unica finestra su un mondo
altro, sconosciuto e nuovo: esterno. Due forze sono attive e si
scontrano: restare e partire. Legame con la terra natìa e affetto per essa

10
C. Durastanti, La straniera, La Nave di Teseo, Milano 2019, p. 284
11
G. Leopardi, Canti, a cura di E. Peruzzi, Bur Rizzoli, Milano 1981 p. 298
12
Ibid.
95
(il caro colle), e la voglia – non solo istintiva ma anzi ben giustificata
da quel sentirsi irrimediabilmente fuori luogo – di superare fisicamente
gli ostacoli che mantengono inaccessibile una vita nuova, in cui potersi
dedicare liberamente a quelle esperienze da sempre castrate, e in cui
potersi sentire in pace con sé, riscontrando finalmente, perché no, un
apprezzamento esterno. Questo conflitto tra le due forze si risolverà con
la vittoria di una delle due, quella che spinge a partire, che lo condurrà
successivamente a una rilettura del suo luogo d’infanzia, di quella
Recanati che ne Le ricordanze mantiene ognuno dei suoi aspetti
negativi e delle sue nocive caratteristiche ma che, anche, sarà restituita
con note di affetto, seppur pieno di biasimo. Leopardi infatti, tornato
dopo anni nella casa paterna, osserva quanto lo scorrere del tempo abbia
influito su quei luoghi e su se stesso, quanto la luce della giovinezza
abbia lasciato spazio al disinganno dell’età adulta. La poesia parte da
uno slancio nostalgico e affettuoso bilanciato tuttavia fin da subito dalla
sorpresa dell’essere di nuovo («non credea tornare» 13 ) in quella
Recanati, per poi, nel corpo della poesia, dissacrare l’idillio tipico del
ricordo di un luogo d’infanzia, sfogandosi e liberandosi del veleno di
quegli anni da incompreso ed escluso, anni di pena tra la fanciullezza
felice e l’inizio delle sofferenze di gioventù ed età adulta.
C’è, in questo caso, un ritorno, ritorno al nido e all’adolescenza, una
presa di contatto tra il sé adulto e il sé ragazzo, ma solo ai fini di una
dura e rassegnata costatazione («rimembranza acerba» 14 ): non è
possibile rivivere, come non è possibile raggiungere una simbiosi che,
comunque, la letteratura successiva, nel corso del Novecento italiano,
inseguirà.
Fulcro d’ogni significato, riprendendo contatto con il discorso che si
sta conducendo, è la definizione che Leopardi dà di Recanati: «natio
borgo selvaggio» («Né mi diceva il cor che l’età verde / sarei dannato a
consumare in questo / natio borgo selvaggio» 15 ): natio e selvaggio
appaiono in netta opposizione, perché può succedere di nascere in un
ambiente selvaggio, ma difficilmente ad essere tale è un borgo – che
solitamente è civilizzato, quieto – e, soprattutto, se anche si nascesse in
un ambiente selvaggio, le opzioni sarebbero ovvie e limitate: o si
dovrebbe essere altrettanto selvaggi e selvatici, o si accetterebbe di
convivere con un luogo di matrice diversa rispetto a sé, oppure potrebbe
vincere l’istinto di abbandonare quel luogo non appena possibile. Che
è, quest’ultima opzione, quella che si era infine concretizzata nella vita
del poeta: «E che pensieri immensi, / che dolci sogni mi ispirò la vista
/ di quel lontano mar, quei monti azzurri, / che di qua scopro, e che
varcare un giorno / io mi pensava, arcani mondi, arcana / felicità

13
Ivi, p. 458
14
Ibid.
15
Ibid.
96
fingendo al viver mio!»16. Torna il mare, e torna ancora nelle vesti di
portatore di sogni e speranze future, o anche soltanto di miraggi e
illusioni, sempre però di mondi lontani, di altre realtà, di fughe. Il mare
e l’orizzonte sono le uniche vie d’uscita da quell’esistenza dolorosa e
nuda alla quale avrebbe spesso preferito la morte. Il ricordo è aspro, in
questo caso, decisamente critico, e il Leopardi ormai adulto non può
sottrarsi dal fare del male, ora che il tempo ha lenito il dolore ma non il
rancore, a una gente che mai lo aveva accolto, né accettato, né
riconosciuto come uomo e valido poeta. Se non fosse stato per la
popolazione recanatese, infatti, forse il rapporto tra lui e la realtà del
territorio marchigiano sarebbe stato diverso, forse più mite, più
empatico, meno doloroso. Ad ogni modo, l’unica soluzione era per lui
partire, e infatti partì, girando l’Italia e stabilendosi in varie grandi città,
dove non smise mai di cercare stimoli nuovi. Quando poi tornò, in
occasione della scrittura de Le ricordanze, si trattò di un ritorno ultimo
a quella terra natale, un congedo, un saluto definitivo. Il suo atto si pose
a metà tra il ritorno e il mancato ritorno, perché tornò per non rimanere.

Ad oggi, comunque, partire è – nell’era per eccellenza degli


spostamenti rapidi e dei viaggi accessibili – il banco di prova più
gettonato per il proprio futuro, specialmente da un punto di vista pratico
e al di là di ogni simbolica ricerca di sé e di significati metaforici. Ci
sono infatti anche altri motivi che giustificano una partenza. Sennett ha
indagato in modo esaustivo i processi della modernità che attrae con le
nuove città, le megalopoli così luminose e piene di opportunità per
giovani sognatori o padri e madri di famiglia in cerca di sicurezze, che
spesso si rivelano delle trappole mal progettate e mal costruite. Secondo
lo studioso, la città, una volta vista dall’interno, si presenta come una
giungla in cui vige la legge del più forte, rischiando di trasformare la
quotidianità in una lotta tra simili per la sopravvivenza17.
Certo però si continua a partire, e probabilmente lo si farà sempre,
anche per poter tornare diversi e con sguardo rinnovato, così da
raggiungere una verità che altrimenti sarebbe rimasta inaccessibile. In
effetti questo punto e il successivo sono legati, non potendo esistere
movimento senza un punto di partenza e una meta.

16
Ibid.
17
Per Sennet le cosiddette Smart Cities stanno già toccando un punto di eccessiva automazione, con il conseguente
rischio di atrofizzare la capacità esperienziale e quella riflessiva degli abitanti. La città rischia così di annullare
l’individuo. (R. Sennet, Costruire e abitare, cit., p. 186)
97
4.2.4. Tornare

Tornare ha senso quando lo si fa, come detto, con occhi nuovi, e per
poter prendere davvero contatto con la terra che si era lasciata, come
accade ne I mari del sud a quel cugino emigrato all’estero e diventato
un giramondo che infine torna al paese e trova tutto nuovo. Il ritorno è,
in Pavese in primis, la sintesi del senso di ogni movimento e partenza.
Sia esso un ritorno fisico – al paese, alla casa d’infanzia – o simbolico
– all’adolescenza, per esempio – è sempre un contenitore e disvelatore
di senso che dà una chiave di lettura più consapevole a ogni esperienza
che s’incastra tra il tempo della partenza e quello del ritorno. Tornare è
un dovere non eterodiretto, è l’ordine della legge morale custodita
dentro ciascun individuo Si è già detto del significato di cui è investito
il ritorno nella filosofia pavesiana, inutile ripeterlo. Può essere utile
però richiamare una situazione in particolare: Anguilla, dopo essere
emigrato verso il Nuovo Mondo americano, così drasticamente diverso
e lontano dalla piccola realtà piemontese, si accorge di come la sua
partenza si era resa necessaria non tanto per conoscere l’America
quanto per conoscere il suo paese, le sue valli, la sua gente, che mai
però avrebbe potuto davvero comprendere senza frapporre fra sé e loro
un’importante distanza geografica e temporale. Una situazione simile è
quella che vive la protagonista dell’opera che si sta per approfondire.

4.3. La ritornante per antonomasia: L’Arminuta

Anche il tornare però può avere motivazioni e sfumature differenti.


Chi è afflitta da una vera e propria sindrome da ritorno è l’Arminuta, la
protagonista dell’omonimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio. La
giovane donna, nata imprigionata tra sfumature diverse dell’entroterra
abruzzese, in una situazione familiare che le ha presentato fin da subito
il movimento a ritroso del ritorno, è probabilmente l’esempio perfetto
di una situazione in bilico fra l’impossibilità del movimento e il bisogno
di esso. Vittima di un entroterra che la incarcera, pur facendola crescere,
dal quale lei deciderà di partire per non tornare (se non a causa del
legame con la sorella), è la ritornante per eccellenza (arminuta nel
dialetto abruzzese vuol dire propriamente “ritornata”), che ripete l’atto
più di una volta. La trama del romanzo sostanzialmente è questa: una
ragazzina data via ancora in fasce da sua madre, donna di bassa
estrazione sociale che non poteva permettersi, insieme a suo marito, di
crescere tutti i figli dati alla luce e garantir loro una vita dignitosa, fatta
di salute e di istruzione, viene restituita in età preadolescenziale dai
genitori adottivi alla vera, e povera, famiglia; a questo evento seguirà
un impatto difficile e traumatico con una condizione economica molto
98
meno agiata, con abitudini diverse e in generale con un’idea di vita più
elementare, ruvida e fatta di sacrificio. Il lento e controverso
inserimento in un nucleo familiare apparentemente impenetrabile, la
morte di uno dei fratelli, l’attaccamento affettuoso alla sorella minore,
la continua ricerca di un perché sull’improvviso abbandono da parte
della famiglia adottiva faranno da apripista ad un faticoso disvelamento
finale. Sullo sfondo, l’Abruzzo. Un Abruzzo spaccato in due, quello
presentato dall’autrice: da una parte la città, fatta di scuole affollate e
fermate degli autobus, dove l’arminuta vive e a cui si sente appartenere,
dall’altra la periferia, il paesino pedemontano di proletariato e stenti;
due ambienti distinti e ben riconoscibili, che la protagonista impara a
sue spese a conoscere e riconoscere, costretta da quel movimento di
ritorno – seppur minimo, geograficamente poco rivoluzionario – a una
rilettura totale della sua vita e alla ricerca di un nuovo equilibrio.
Un elemento evidente è l’assenza di una identità precisa della
protagonista: il suo nome non è rivelato, non viene mai pronunciato, e
lei stessa sembra averne perso memoria. Un tratto che non può non
richiamare direttamente l’Anguilla pavesiano, anche lui mai chiamato
per nome all’interno del romanzo, né da bambino né da adulto. Ad
accomunare i due protagonisti è quindi l’assenza di identità che pare
essere conseguenza diretta di una mancata appartenenza: se non si ha
un luogo a cui appartenere, non si ha un’identità. La ragazza aveva
lasciato il suo habitat (la città) troppo presto, e la partenza l’aveva così
resa un’esclusa, proprio come Anguilla, partito giovane per l’America
senza mai essere diventato un americano, e poi, una volta tornato,
trovatosi privo di punti di contatto con quella gente che Di Pietrantonio
ha chiamato «i restanti»: chi ha deciso di restare, consciamente e
razionalmente, ma anche chi rimane una volta tolti tutti gli altri, restanti
quindi anche nell’accezione negativa di “ultimi rimasugli umani in una
terra snobbata”. I restanti sono anche la testimonianza di gente vissuta
in un tempo cristallizzato, perciò impreparata ad un certo tipo di
movimento in avanti, rapido e repentino, e impauriti dall’eventualità di
accogliere novità e cambiamenti nel loro ecosistema. Si è detto infatti
di come nell’entroterra il tempo scorra lentamente, lo aveva notato un
viaggiatore attento come Manganelli, lo sostiene splendidamente
Pavese ne La luna e i falò, avendo vissuto questa dimensione mitica del
tempo sulla sua pelle. Il tempo nell’entroterra non procede fluido, ma
avanza con immane lentezza e fatica, concedendosi qualche
sobbalzante scatto in avanti in occasione dei grandi avvenimenti, spesso
tragici, che coinvolgono l’umanità tutta attirando l’attenzione anche di
quelle lontane borgate e campagne.
Nel finale la protagonista trova un equilibrio (per quanto sempre
precario): diventa grande e va via, lontana da una realtà che, pur
circondandola – come nel caso del giovane Leopardi – sente

99
assolutamente distante. Lo si scopre in quello che è diventato il secondo
capitolo di una delle saghe contemporanee più apprezzate da una fetta
del pubblico che ancora frequenta le librerie: L’Arminuta sposa infatti
appieno, come detto, le logiche del best-seller e della letteratura di
rapido consumo, così come le sposa Borgo sud, il sequel uscito nel
2020.
Ai fini della trattazione, Borgo sud torna utile per l’ennesimo (ma
forse primo, vero) movimento di ritorno della protagonista, che si fa in
questo caso, ormai adulta, ritornante volontaria, o quasi. Torna cioè,
nell’ambiente abruzzese che l’aveva vista crescere, senza la costrizione
esterna di una famiglia che la restituisce a un’altra, senza che nessun
genitore avesse deciso per lei, ma pur sempre influenzata dalla richiesta
d’aiuto giuntale da sua sorella, unico vero legame con quell’entroterra
odiato e ripudiato. Torna quindi per una persona, non per i luoghi. E
non potrebbe essere altrimenti: l’entroterra non le appartiene e lei non
appartiene a esso. Una situazione opposta a quella dell’autrice che è
invece rimasta, in Abruzzo e in particolare nelle piccole aree interne
della regione (vive a Penne, vicino Pescara), legata a quella dimensione
atavica di una terra per certi versi ancora selvatica, poco globalizzata,
incontaminata e però anche ambigua, contraddittoria per la presenza di
retaggi obsoleti e visioni ancora molto chiuse, poco pronte ad accogliere
le evoluzioni e le novità del mondo sterno. Lo dimostra il fatto che
l’Abruzzo che racconta è antico, patriarcale, superstizioso, ignorante,
maschilista, crudo e violento. Nonostante i toni siano spesso smorzati e
delicati, la verità delle cose è questa. Tiene fede alla realtà di una terra
e di un popolo dal punto di vista del contenuto, raccontandone anche gli
aspetti meno nobili, seppur con delle formule non prive di ingenuità e
cliché. Ma di questo si parlerà più avanti, prima è necessario concludere
il discorso riguardante i movimenti.

4.3.1. Il mancato ritorno

L’assenza del ritorno potrebbe essere il quarto movimento, anche se


un mancato ritorno, al pari di una mancata partenza, più che un
movimento è un’assenza di movimento. Il mancato ritorno può avere
varie motivazioni: può essere sintomo di una profonda distanza emotiva
fra individuo e luogo natìo (e quindi di un legittimo disinteresse), come
nel caso della conflittualità leopardiana toccata poco sopra, o può essere
il frutto di un trauma, o di una impossibilità fisica del ritorno. In ogni
caso l’assenza di un ritorno, sommata ad altre assenze di ritorni,
determina lo svuotamento delle aree interne, l’abbandono cioè
dell’entroterra. Di Pietrantonio ne ha parlato su “L’Espresso” in un
articolo ripreso anche dal giornale aquilano “NewsTown”, scrivendo da
100
un fronte opposto a quello mobile del Flaiano che, viaggiando in
macchina sull’autostrada, vedeva di sfuggita un piccolo borgo e
immaginava un giorno di visitarlo. L’autrice parla invece da abitante di
un paese abruzzese, e scrive di un centro nevralgico di quello stesso
paese: l’ospedale. Il breve editoriale è una protesta contro il progressivo
abbandono e i continui tagli che l’amministrazione regionale va man
mano stabilendo per un ospedale (il “San Massimo” di Penne) che fa da
raccordo a numerose comunità dell’area pedemontana della provincia
pescarese. Scrive:

È una morte lenta. L'intonaco si stacca, il pavimento in


linoleum si alza qua e là, viene riparato con un nastro adesivo
grosso e resistente. Resistente come noi, che ci ostiniamo ad
abitare in questi posti dell'Italia interna, così belli, dicono. Noi lo
sappiamo, siamo i restanti. Conosciamo questa bellezza minore
e struggente. Restiamo attaccati ai borghi, alle colline ancora
coltivate dai vecchi e da pochi giovani che combattono contro
ostacoli di ogni genere – la burocrazia, soprattutto. […]
Dicono che c’è lo spopolamento. Quando perderemo il San
Massimo e, definitivamente, il diritto a curarci, ci sarà
l'azzeramento. I paesi abbandonati rovineranno e le campagne
incolte non le vorranno più neanche i cinghiali, i tassi e gli istrici
che mio padre a 83 anni contrasta con i suoi recinti. Nessuno
potrà dire che non sapeva. Lo avremo voluto18.

L’abbandono dei luoghi è uno dei rischi più grandi nella logica delle
partenze. Ma l’abbandono non è necessariamente il risultato di una
migrazione lontana; anche gli spostamenti, per altro frequenti, da una
zona interna verso un avamposto anche di poco più civilizzato
rappresentano una perdita consistente per le realtà d’entroterra. In Mia
madre è un fiume, quando la protagonista torna nella vecchia casa dove
aveva trascorso l’infanzia, a pochi chilometri da dove ormai abitava, si
sorprende nel ritrovare un luogo così tanto familiare ma allo stesso
tempo nuovo e straniante, un luogo all’apparenza abbandonato,
trascurato, regredito a una condizione di selvatichezza che contiene in
sé una familiarità sanguigna ben riconoscibile. Un luogo che oscilla tra
la trasformazione messa in atto dallo scorrere del tempo e la
cristallizzazione, l’immutabilità cioè dei luoghi della memoria (e
quindi, in fondo, tra luogo fisico e metafisico), quella che Manganelli
chiama «lenta ostinazione del tempo»19.

18
N. Avellani, Donatella Di Pietrantonio e lo spopolamento delle aree interne abruzzesi, «NewsTown», consultato il
20 gennaio 2021, <https://news-town.it/cronaca/31801-donatella-di-pietrantonio-e-lo-spopolamento-delle-aree-interne-
abruzzesi.html>
19
G. Manganelli, La favola pitagorica, cit., p. 140
101
Un progetto ancor più recente che si è proposto di documentare il
fenomeno delle piccole migrazioni interne è il documentario del 2018
Entroterra. Memorie e desideri delle montagne minori, realizzato dal
gruppo denominato Boschilla, fondato per fare ricerca multimediale
sulla montagna e le aree interne d’Italia. Il documentario nasce da
un’idea precedente risalente al 2016, Ragnatele, «un viaggio che segue
il filo conduttore dei paesi abbandonati e spopolati dell’Appennino»20,
e diventa due anni dopo un film che racconta con voce discreta la
pacatezza di chi ha scelto di restare, chi è tornato dopo esser partito, e
chi si è spostato più in là, anche solo di pochi chilometri. Il nome con
cui le zone scelte vengono identificate è «montagna minore», ad
indicare quella parte della montagna al di sotto della vetta, che è in
fondo la più abitabile e la più accogliente per l’insediamento umano.
Nessuno infatti, dei pastori e dei contadini incontrati e intervistati, ha
confidenza con le vette della montagna; nessuno di loro è un esperto
scalatore, né un alpinista o un escursionista. La loro confidenza con i
monti fonda su altre basi, ciò di cui sono esperti è la vita che una certa
altitudine offre, il clima, le colture, ma anche i rischi e i pericoli.
Un’altra questione sollevata nel documentario è infatti quella del fattore
ambientale, della conformazione fisica del terreno di certe aree montane
o pedemontane, soggette a continui movimenti della terra come
smottamenti e frane, fino ai movimenti in assoluto più pericolosi: i
terremoti. Così come in Bella mia la tematica del terremoto contribuisce
in maniera decisiva a portare avanti il parallelismo tra due figure
materne (una, la donna protagonista, l’altra la città, L’Aquila) ferite,
così nel film torna ripetutamente la fuga come unica opzione – spesso
forzata e non voluta dagli abitanti – al post-terremoto. Esattamente
come a L’Aquila, infatti, che ha visto diversi dei paesi limitrofi
svuotarsi completamente – divenendo di fatto paesi fantasma – per
essere ricostruiti da capo più a valle, molte altre realtà in giro per l’Italia
hanno subìto questo fenomeno di scissione e migrazione obbligata
verso soluzioni abitative immediate (o quantomeno più celeri) e verso
un maggior contatto (spesso disatteso, a volte addirittura utopico) con
la politica.
Disservizi quindi, calamità naturali, condizione economica,
miraggio capitalistico: sono diverse le cause reali e concrete che da
sempre spingono uomini e donne a partire dall’entroterra,
abbandonando i paesi delle zone interne e con essi ambienti naturali
ancora incontaminati e adatti a pascoli e colture, che inevitabilmente
scompaiono con pastori e contadini. Non solo il desiderio di nuovo, non
solo il fascino dell’altrove e del moto finalizzato alla scoperta o alla
serendipità. Da sempre esistono condizioni ben più pratiche che

20
A. Chiloiro et al., Entroterra. Memorie e desideri delle montagne minori, «openddb», consultato il 2 febbraio 2021,
<https://www.openddb.it/film/entroterra/>
102
inducono gli esseri umani a staccarsi dalla natura di un luogo per aderire
in maniera più diretta ai canoni di volta in volta nuovi del mondo, della
società, dell’economia.

Così, queste piccole realtà, i luoghi d’infanzia e gioventù, i borghi e


le campagne, paiono essere per diversi motivi destinati all’abbandono,
oscillando tra amore e odio, tra affetto incondizionato e una perenne
remora. Sembrano avere nel destino un lasso di tempo dedicato
all’abbandono, che può andare dalla prima partenza al primo ritorno o,
in assenza di quest’ultimo, perdersi verso l’infinito. Sono luoghi
d’abbandono e richiamo. Di nuovo: di ali e di radici.
Ali e radici che rappresentano rispettivamente libertà e costrizione.
Le radici che fondono l’individuo alla terra, garantendo nutrimento e
circolazione di linfa vitale, ma che limitano, anche, e trattengono. E le
ali, strumenti d’evasione e di fuga che proiettano verso la ricerca della
libertà, ma che espongono ai rischi e ai pericoli del mondo esterno.
Potrebbero essere, queste, le caratteristiche tipiche dell’entroterra, un
luogo fatto di rapporti spesso complessi ma quasi sempre autentici e
profondi, e di connessioni che interessano non solo i legami tra
individui e luoghi ma anche quelli tra individui e altri individui, e per
questo in netta opposizione a quella che è l’identità dei non-luoghi
descritta da Augé.

4.4. Nuovi linguaggi

Si diceva della narrazione che Di Pietrantonio fa di una regione


contraddittoria come l’Abruzzo, non mettendone in luce solo gli aspetti
positivi o quelli dei quali è più semplice parlare: è apprezzabile nella
narrazione di Mia madre è in fiume, ad esempio, il tentativo di lasciare
intatta una realtà osservata e vissuta (che rischia sempre, nell’atto di
trasposizione sulla pagina, di essere edulcorata o romanzata). Ne sono
esempi gli episodi di violenza che si consumano nella vita della
protagonista e della sua famiglia:

Però certe sere li sentivo litigare in camera, o meglio lui


litigava e la moglie: zitto, zitto. Poi colpi e grida soffocate di lei.
Lo scongiurava di fermarsi. […]
Ma l’anima nera della casa era il vecchio paralitico che,
scatarrando di continuo, incitava il figlio a suonargliele a quella
femmina incapace. Ogni giorno escogitava pretesti validi per
proporre una razione di botte e se l’avessero assistito le forze ci
avrebbe pensato lui stesso, altro che quel pezzo di pane, così lo
definiva. Non ha mai pronunciato il nome, per chiamarla una
103
specie di grugnito e con gli altri diceva di lei mògliete o
màmmete o zìete21.

Il punto di forza di quella che pure è una scrittura nel complesso


semplice e priva di vertiginose profondità è probabilmente questa
volontà di raccontare la complessità di certe vite e di determinati
rapporti umani. In particolare, i rapporti che il micro-filone narrativo
sulla maternità mette in scena, non sembrano a prima vista trattati con
superficialità, al contrario di altre situazioni rintracciabili nelle opere
dell’autrice che paiono invece subire l’influenza del periodo storico-
letterario in corso che, come analizzato da Gianluigi Simonetti in La
letteratura circostante, esalta alcune tematiche a discapito di altre,
portandole all’attenzione di un pubblico di massa alla ricerca di una
letteratura altamente fruibile.
Simonetti infatti individua, nell’indagine sui nuovi luoghi comuni,
anche quello del rapporto genitori-figli: «Il ricordo commosso di uno o
più genitori è una specifica costante di queste scritture alla ricerca
disperata di genealogia e radici […]»22, e afferma inoltre: «Si guarda ai
genitori per incidere virtù, prolungare tradizioni, colmare vuoti, non per
esplorare un conflitto, scavare una ferita, seppellire un passato […]»23.
Lo sguardo rivolto ai genitori è in effetti, nella letteratura
contemporanea, sempre uno sguardo ammirato, quando non di assoluta
venerazione, mai d’odio, di risentimento, di invidia negativa. Si assiste
a una piattezza zuccherina nella narrazione di quelle che potenzialmente
sono per l’individuo umano le relazioni più complesse, alle quali è
obbligato a sottoporsi. Il tratto distintivo della scrittrice abruzzese sta
nel fatto che il suo libro si fonda proprio sul rapporto complesso e
ambivalente, di recriminazioni taciute e compassioni violente, tra la
protagonista e la sua vecchia madre malata. La storia è infatti un
continuo racconto che la figlia intesse per sua madre, il racconto della
donna che era e delle loro vite incardinate nelle campagne
dell’entroterra abruzzese:

Ti chiami Esperia Viola, detta Esperina.


Come una viola sei nata il venticinque marzo
millenovecentoquarantadue, in una casa al confine tra i comuni
di Colledara e Tossicia. Era l’ultima abitazione prima dei monti,
un piccolo sasso rotolato per sbaglio dal fianco orientale
dell’Appennino abruzzese24.

21
D. Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, cit., pp. 105 s.
22
G. Simonetti, La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, Il mulino, Bologna 2018, p.
344
23
Ivi, p. 345
24
D. Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, cit., p. 10
104
Non che l’idea di una perdita di memoria da compensare attraverso
quotidiani racconti sia nuova, ma è qui interessante il contesto in cui
tutto si svolge, la natura della donna che si trova a dover riscoprire se
stessa e la sua intera esistenza, e il legame continuamente richiamato e
intrecciato tra la dimensione madre-figlia che lega la voce narrante alla
sua madre biologica e quella che la lega alla sua terra natìa. Il rapporto
è quindi controverso («Il nostro amore è andato storto, da subito»25). Si
parla di una ferita, una ferita non taciuta e non banalizzata ma anzi
esposta, una piaga spesso toccata e indagata con la punta del dito o di
un ricordo, condivisa dall’inizio alla fine con il lettore, ipotetico eppure
intimo, vicino; come condivisa è la ricerca di una risposta, una
soluzione, una cura a quel male che è la distanza dalla madre,
l’incomunicabilità, la distorsione di un affetto nato e cresciuto in
situazioni difficili (situazione per altro simile a quella vissuta dal
giovane Italo Calvino e da suo padre, vittime entrambi di una
totalizzante incomunicabilità). La protagonista si propone di indagare
quello che sente essere un grande punto irrisolto della sua vita.
L’incomunicabilità non riguarda solo la figura materna, ma anche tutte
le altre, che si muovono in quel territorio fisico, storico e culturale che
sembra non esser mai uscito dall’immediato dopoguerra. A segnare il
rapporto fra genitori e figli è un’incapacità: quella dei genitori di
guardare alla realtà con gli occhi dei propri figli. Un’ignoranza
congenita nel DNA di chi si trova a nascere in una periferia povera e
distante dai centri del progresso, un’ignoranza che diventa sensibilità
atrofizzata. L’incomunicabilità sembra esasperata dal linguaggio
utilizzato: quella di Di Pietrantonio è una lingua ibrida, un esperimento
che riecheggia l’eco dello studio verghiano e quello, più recente e qui
più presente, di Pavese (quel linguaggio concepito in piemontese ma
reso totalmente in italiano, che mantiene però le differenze di registri
linguistici). La lingua de L’Arminuta è costruita a tavolino per adempire
a due obblighi: restituire, anche se di riflesso, l’identità linguistica unica
e particolare – come unici e particolari sono tutti i dialetti – di un
territorio circoscritto, e rendersi comprensibile a tutti. Il risultato è uno
pseudo dialetto fatto di registri diversi e lessici mescolati tra loro. Non
si può però in questo caso non tornare a Simonetti e chiedersi: non sarà,
questo della lingua ibridata e assemblata, un accodarsi alla tendenza
contemporanea che vede in queste ricerche l’identità più fruibile,
accattivante e vendibile? Non sarà la risposta all’ormai palese
gradimento da parte del pubblico per quei linguaggi di compromesso
tra una lettura impegnata e intellettuale e una di puro intrattenimento?

25
Ivi, p. 25
105
A ciò si aggiunge il secondo metodo di lettura che si è adottato a
inizio capitolo, che permette di leggere il rapporto madre-figlia/o anche
come un rapporto natura-essere umano, dove la natura è madre e ogni
individuo è figlio. Quella maternità che Cesare Pavese rintracciava
nella collina, Di Pietrantonio la rintraccia nell’intero entroterra
abruzzese. Il tema della maternità della natura pare quindi accomunare
un’autrice contemporanea a colui che forse meglio di tutti durante il
Novecento ha raccontato il legame intimo e profondo, che può essere
sacro, profano e mitico; a riprova del fatto che l’indagine sul mito delle
origini personali di ogni individuo, del passaggio simbolico
dall’infanzia all’età adulta, della spinta a partire e della forza che induce
a restare, sono argomenti ancora presenti e non del tutto esplorati nella
letteratura italiana. Di Pietrantonio infatti non è l’unica a proseguire
questa indagine.

4.5. Tra appartenenza ed estraneità: La straniera di Claudia


Durastanti

Claudia Durastanti ne La straniera racconta una storia parzialmente


autobiografica: la protagonista, nipote di emigrati e nata in America,
torna in Italia, in Basilicata, all’età di sei anni; lì cresce in una regione
spoglia e periferica con i ricordi di New York negli occhi.
Torna il rapporto complesso di una figlia con i genitori: maternità e
paternità sono affrontati qui allo stesso modo, come se madre e padre
fossero un tutt’uno, una persona genitoriale inscindibile (pur essendo
divorziati), fisicamente non udenti ma soprattutto sordi alle richieste
della figlia. Un trauma in questo caso affrontato con un senso
dell’umorismo costante e a tratti noir, come si evince da frasi come:
«Non c’è nessuna violenza nella mia vita che io riesca a ricordare senza
ridere»26. I toni spesso dissacranti, quando ci si riferisce alla disabilità,
spostano l’attenzione dalla difficoltà del vivere alla difficoltà
nell’assomigliarsi, nel ritrovarsi e nell’andare d’accordo pur
appartenendo a due generazioni differenti. Anche Durastanti parla di
una incomunicabilità, che non è quella tra persona sorda e persona
udente – che anzi viene affrontata senza patemi – quanto piuttosto
quella che affligge un rapporto le cui parti in causa occupano posizioni
diverse: i genitori sono troppo impegnati a restare attaccati a scarne
convinzioni per comprendere l’impellente bisogno di movimento che
anima la figlia. Sono così immersi nella loro non-evoluzione che
«qualsiasi cosa tocchino […] si adegua alla loro decadenza» 27 . Lei

26
C. Durastanti, La straniera, cit., p.138
27
Ivi, p. 59
106
invece è invasa dal movimento, un movimento che l’aveva portata fin
da piccola a lasciare un mondo per conoscerne un altro, a cui doversi
adattare senza però mai combaciare, e che le aveva però dato già la
certezza che ognuno ha una propria dimensione nella realtà.
In quella che trova in Basilicata, una realtà povera e arretrata, si
rintracciano i medesimi elementi dell’Abruzzo degli stessi anni
raccontato da Di Pietrantonio. La piccola straniera infatti si trova a fare
i conti con il sospetto e l’ipocrisia quando s’iscrive a scuola e viene
subito presa di mira, bacchettata dalla maestra che la trova troppo
audace con quelle sue scarpe da ginnastica con le lucine, e guardata con
invida dagli altri ragazzini: «da quel momento sono diventata un’isola,
mortificata dalla mia autosufficienza e sempre affacciata sull’affetto
degli altri»28; situazione simile a quella raccontata dalla voce narrante
in Mia madre è un fiume: «Il primo giorno di scuola ad Atri nessuna
maestra mi voleva prendere, perché venivo dalle pluriclassi di
montagna»29. Il giudizio dei paesani, poi, altro tratto comune: qualcuno
chiamava sua madre «a’mercan», l’americana, e altri «la muta» anche
se era sorda e non muta, proprio come nell’opera di Di Pietrantonio
l’arminuta non viene mai chiamata per nome ma sempre e solo con quel
nomignolo che le si attacca addosso come una seconda pelle. La
curiosità pettegola della stessa gente del paese rende le situazioni
d’interazione sociale della straniera e dell’arminuta estremamente
simili: («A chi appartieni?», «A chi sei figlia?»30 sono le domande che
sempre sentono rivolgersi ogni qualvolta entrino a contatto con una
persona che non le conosce e che deve – secondo la logica di una piccola
realtà di paese – assolutamente inserirle in un contesto dinastico e
familiare ben preciso). E addirittura risultano uguali – trattandosi di due
regioni che pur appartenendo all’area di centro-sud dell’Italia sono
abbastanza lontane tra loro – le tradizioni: l’approccio descritto da
Durastanti con la tradizione del maiale («Appena entrata avevo chiesto
cosa fossero tutti quegli uncini di metallo appesi al soffitto: servivano
ad appendere il maiale, l’aglio o i peperoni secchi» 31 ) è resa da Di
Pietrantonio con la familiarità di chi è autoctona:

Il maiale deve morire d’inverno, quando il freddo inchioda le


albe e taglia la faccia. Sono accadute le gelate di cristallo e la
luna è buona. Allora può capitare la mattina presto, mentre le
pozzanghere di ieri scricchiolano sotto i passi, di venire sorpresi
dai lamenti della bestia che è uccisa in un punto imprecisato della

28
Ivi, p. 109
29
Ivi, p. 106
30
Ivi, p. 117
31
Ivi, p 109
107
valle, sul fianco di una collina, dove il fumo sale in anticipo sul
chiarore»32.

Dando così l’avvio a un breve capitolo interamente dedicato al


rituale dell’uccisione del maiale.
È infine lo spopolamento ad accomunare le due realtà:

La bassa natalità aveva costretto la mia vecchia scuola


elementare a formare delle pluriclassi, e ospitare dei bambini dei
paesi vicini. Nonostante la presenza dei cacciatori, i cinghiali
avevano iniziato a riprodursi in maniera incontrollata e
apparivano nel centro abitato di notte, così alcuni si portavano il
fucile sul posto di lavoro. D’inverno era possibile percorrere gli
otto chilometri di lunghezza del paese, dalle case terremotate
n’ped a terr a quelle popolari, senza incontrare mai nessuno; il
vento era così forte da lacerare le finestre33.

Le aree interne che fanno da sfondo a La straniera sono sempre più


punti di partenza e sempre meno mete di ritorno: «[…] eravamo
circondati da paesi disabitati che si erano arresi alle frane e Matera con
le sue caverne di tufo si preparava a diventare una meta da “new York
Times”» 34 . È una terra aspra e poco accogliente a causa di quella
propensione del terreno a franare facilmente, ma anche per colpa di una
popolazione ostile a cambiamenti e novità. La morfologia difficile del
terreno, molto simile a quella che i viaggiatori Savinio e Manganelli
rintracciano in Abruzzo, si affianca a un ecosistema in generale ostico
per chi non vi nasce, per chi sosta per poco tempo e anche per chi arriva
per rimanere. Ogni simbiosi che parta da zero con quel tipo di realtà è
un’operazione complessa, un tentativo probabilmente destinato a
fallire. È esattamente la difficoltà e l’ambiguità di questo tentativo che
l’autrice tenta di descrivere:

[…] dalle nostre parti si trovavano paesaggi apocalittici e


lunari che sarebbero stati molto richiesti dal mercato quando tutto
il resto sarebbe stato banalizzato, ma per quella tigna ruvida e
ostile tipica di certi comuni lucani, l’invasione non sarebbe mai
riuscita: qualcosa nell’ecosistema si sarebbe ribellato, e avrebbe
rinnegato ogni spora. Era vero, ma in qualche modo io ero
rimasta, mia madre era rimasta: non eravamo attecchite, ma
neanche eravamo state spazzate via, dimostrazione che la natura

32
D. Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, cit., p. 43
33
C. Durastanti, La straniera, cit., p. 140
34
Ivi, p. 141
108
non è fatta solo da perdenti o vincenti; la maggior parte delle sue
sostanze sta, e si dimentica35.

La descrizione che Durastanti fa di quel territorio si pone a metà


strada tra le tinte decadenti dei quartieri raccontati da Silvia Avallone
in Acciaio 36 e la realtà in semi-abbandono di Antimondi delle
migrazioni: l’Africa a Castel Volturno37 di Fabiana D’Ascenzo, ritratto
non-fiction di un innesto tra mondi. Un’analisi tanto lucida del luogo in
cui era cresciuta la spinge di fatto a capire che quella non è, e non
potrebbe mai essere, la sua patria, trovandosi così ovunque apolide e
ovunque cittadina, in un complesso gioco di non-appartenenza che
diventa, di fatto, appartenenza momentanea o a metà. La sua condizione
ricorda quella che per Okakura Kakuzō, allievo di Heidegger e autore
del trattato filosofico Il libro del tè, è la condizione essenziale per
sentirsi liberi: scendere a patti con l’assenza e con la propria non-
appartenenza (sosteneva come non fosse necessario radicarsi per vivere
in un posto). Che sarebbe, in altre parole, lo slancio verso il vivere alla
giornata, cercando qualcosa ma con la consapevolezza che, se davvero
c’è qualcosa trovare, lo si farà durante il cammino e non giunti alla
meta, e in modo del tutto casuale (la serendipità di cui si era detto nel
primo capitolo).
Le analogie che la straniera troverà nei luoghi che la accoglieranno
una volta partita dalla Basilicata confermano però un clima di ambiguità
e confusione: le «piante putride e salmastre» di Calcutta, gli scenari da
incubo dei romanzi di Conrad, una Londra tolkieniana con la sua torre
oscura che trasmette inquietudine. Luoghi che rispecchiano, nonostante
la matrice letteraria, molti di quelli che Richard Sennett aveva descritto
giusto l’anno prima (2018) nel suo saggio sull’etica della città moderna:
spazi abitati che divengono, col tempo e con l’intervento invasivo da
parte dell’uomo, spazi alieni e alienanti, in cui occupare fisicamente
uno stesso spazio non significa condividere un’esperienza, né
comunicare.
Partire le darà però una conferma, la porterà verso una rivelazione:
«è stato tanti anni dopo essermene andata che ho scoperto di essere
cresciuta nel deserto»38. Torna dunque anche qui la presa di coscienza
che solo il partire può fornire: lasciare per comprendere, scoprire e
capire. Tempo e distanza geografica portano la protagonista a compiere
quel percorso a ritroso (anche se solo mentalmente) battuto per lei – e
per tutti quelli afflitti come lei dal movimento – dalla letteratura
precedente. Torna, in particolare, la lettura data da Cesare Pavese alla

35
Ivi, p. 142
36
S. Avallone, Acciaio, Rizzoli, Milano 2010
37
F. D’Ascenzo, Antimondi delle migrazioni: l’Africa a Castel Volturno, Lupetti, Bologna 2014
38
C. Durastanti, La straniera, cit., p. 142
109
rivelazione: l’uomo adulto incontra il ragazzo che vive in lui e giunge
ad una consapevolezza nuova sia riguardo se stesso sia riguardo i
luoghi. In questo caso il risultato è opposto: la rivelazione porta cioè
alla consapevolezza che quello che si era abitato è nient’altro che un
deserto; c’è quindi presa di coscienza, ma non c’è simbiosi. Non pare
esserci riconoscimento fra la protagonista e i luoghi, e senza
riconoscimento difficilmente ci si ferma da qualche parte; è più
probabile che ci si continui a muovere: «Il peregrinare da un punto
all’altro in una città moderna per me è solo la ricerca di un posto
abbastanza anonimo e confortevole in cui sostare il tempo necessario
per arrivare a stanare la ragazza nuova e farla sentire inopportuna»39.

La tematica al centro dei romanzi contemporanei presi in


considerazione può indurre a riflettere su come la letteratura italiana sia
ancora legata ad alcune tematiche e a questioni forse irrisolte, e su come
tenti di affrontarle e analizzarle, attualizzandole. È ovvio che non può
esserci continuità assoluta con il filone novecentesco, ma i pochi esempi
citati dimostrano se non altro un avvenuto passaggio di testimone per
quel che riguarda il racconto dell’entroterra, con le sue contraddizioni
e i movimenti (partenza, ritorno) e i mancati movimenti (permanenza,
mancato ritorno) che lo interessano, e il rapporto (limpido o ambiguo,
di amore o di odio) che necessariamente si instaura tra esso, gli uomini
e le donne, e in particolare con gli uomini e le donne che restituiscono
e indagano quel rapporto in letteratura.
Si è tentato nelle pagine precedenti di riportare gli esempi giudicati
migliori tra quelli (comunque pochi) che il panorama attuale propone,
scegliendo di sacrificare alcuni nomi che pure si occupano oggi di uomo
e natura, come il citato Franco Arminio, parso fuori luogo oltre che per
la sua inclinazione al verso anche per la maniera adottata nell’indagine
di natura e passato. È sembrato, insomma, in casi come quelli di
Arminio, più opportuno escludere, per rimarcare una verità che pure
non va persa di vista: oggi, le analisi della simbiosi uomo-luogo, uomo-
ragazzo, presente -passato, al pari di molte altre ricerche (come quella
linguistica) sono ben diverse da quelle portate avanti nel secolo scorso,
perché gravate dal peso di grandi risultati ottenuti prima da altri e da
quello, non secondario, della Rivoluzione Digitale, che ha determinato
l’avvento dei “barbari”. L’attuale presenza di suddetta indagine nel
panorama letterario degli anni Duemila, però, potrebbe essere
un’argomentazione a favore di questa tesi: l’entroterra si è posto, e
ancor oggi si pone, attraverso le letture che dal Novecento a oggi alcuni
letterati ne hanno dato, come luogo di contatto per antonomasia,
animato da legami autentici, atavici e profondi – per quanto spesso
ambigui e controversi, e forse anche per questo così veri – e opposto ad

39
Ivi, p. 168
110
ogni incarnazione di non-luogo, dove invece un contatto interpersonale
(non importa se positivo o negativo, basta che sia reale) è impossibile,
e dove si rintracciano al massimo presenze di passaggio e non rapporti
ambivalenti fatti di movimenti complessi.

111
Conclusioni

In conclusione, se si riprende per un attimo in considerazione l’intero


percorso sin qui seguito, ci si accorge di come i due universi paralleli
ma indissolubilmente intrecciati, quello naturale e quello umano, siano
stati da sempre, e in special modo negli ultimi due secoli, al centro delle
riflessioni sul mondo, sulla vita e sull’arte da parte di poeti, scrittori, e
filosofi. Dai concetti dell’antropologia umana, sociale e culturale alle
più recenti teorie urbanistiche, dall’interpretazione intima e profonda
del dissidio interiore tra uomo e ragazzo e tra presente e passato in tutta
la produzione letteraria di Cesare Pavese ai suoi successori, abitanti e
viaggiatori, come Italo Calvino e Giorgio Manganelli – uomini alla
ricerca di una propria dimensione individuata spesso nel movimento,
nella partenza verso l’orizzonte e un altrove più o meno sconosciuto –,
fino ai tentativi più vicini nel tempo di riscoperta del rapporto con certe
aree interne della penisola italiana (l’Abruzzo, la Basilicata) e di
rivalutazione di una vita d’entroterra, sganciata dalle frenetiche
dinamiche cittadine di alienazione e perdita di profondità e silenzio; da
tutto questo, si diceva, è forse ora possibile avere un quadro
leggermente più chiaro riguardo i dubbi, le problematiche, le
contraddizioni, le ricerche di equilibrio nella vita di uomini e donne in
piena epoca postmoderna (o “surmoderna”, o “sovramoderna”), e
soprattutto riguardo quella che si è chiamata “felicità”, concetto
destinato ad essere ancora a lungo discusso e dibattuto, ma che in questa
sede specifica, alla luce di quanto letto, può forse combaciare con
un’autentica e sincera convivenza (o addirittura, nel migliore dei casi,
simbiosi) tra uomo e luogo. Un luogo, però, o meglio un ambiente, che
non sia alienante ed estraneo, che non imponga costantemente rinunce
e compromessi basati sulla massima efficienza nel minor tempo, che
non sacrifichi insomma la naturale e biologica dimensione spazio-
temporale, ma che al contrario sia culla di tempo e silenzio, familiarità
e pazienza, e che conceda la possibilità, all’individuo umano razionale
ma abitato dall’anima, di ritrovarsi – cioè trovare se stesso – nella terra
in cui nasce, cresce o nella quale decide di tornare (come fanno molti
dei personaggi pavesiani); oppure, come testimoniato da altri casi
letterari e biografici (Leopardi, Calvino, Manganelli, Durastanti),
l’opportunità di mettersi alla ricerca di un altrove personale che possa
coincidere con una altrettanto personale idea di felicità. Si è tentato di
mettere in luce inoltre un aspetto oggi più che mai tralasciato, che
appare però di cruciale importanza: l’entroterra ha rappresentato in
molti casi biografici e letterari lo scenario perfetto per attuare una
discesa nell’inconscio umano, alla scoperta di fragilità da sanare o

112
valorizzare, o alla ricerca di una matrice primigenia alla quale
ricongiungersi per un nuovo o ritrovato benessere. L’entroterra come
luogo dell’anima, del raccoglimento silenzioso, della riflessione
solitaria sul mondo e sull’esistenza, e come luogo del mito, della
rappresentazione del reale e del sacrificio, è stato qui indicato come
“iperluogo” proprio per suggerire, e a questo punto ribadire con
convinzione, che se esistono i non-luoghi debbono esistere,
necessariamente, anche entità a essi opposte e contrapposte. E per
ricordare, anche in un’epoca storica invasa dalla rapidità di pensieri e
azioni, che si può sempre fare un tentativo di lentezza, di riconciliazione
e di immedesimazione. Perché il movimento lento e riflessivo è l’unico
che può avvicinare la sensibilità umana alla piena percezione di ciò che
viene declinato in territorio, paesaggio, luogo, luogo antropologico, ma
che corrisponde, sempre, a quella madre che da sempre abita il mondo
e accoglie in sé la vita e la storia umana: la natura.
E in nessun altro posto la natura, selvatica e ancestrale, si palesa con
la potenza e l’imponenza con le quali si mostra nell’entroterra.

113
Bibliografia

Asor Rosa A., Da vicino e da lontano il racconto del mondo, in “la


Repubblica”, 13 dicembre 2015.

Augé M., Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la


surmodernité, Éditions du Seuil, Paris 1992, trad. it. Milani C. e
Rolland D., Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della
surmodernità, Elèuthera, Milano 2008.

Augé M., Espace et bonheur, trad. it. Guarnieri C., Piccole felicità.
Malgrado tutto…, Castelvecchi (Lit Edizioni), Roma 2020.

Avallone S., Acciaio, Rizzoli, Milano 2010.

Barenghi M., Calvino, Il Mulino, Bologna 2009.

Baricco A., I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano 2006.

Bauman Z., Globalization. The Human Consequences, Polity Press-


Blackwell Publishers Ltd., Cambridge-Oxford 1998, trad. it. Pesce
O., Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Editori
Laterza, Roma-Bari 1998.

Belpoliti M., Settanta, Einaudi, Torino 2010.

Bonnefoy Y., L’entroterra, a cura di G. Caramore, Donzelli Editore,


Roma 2004.

Calvino I., Pavese in tre libri, in “Agorà”, 2 agosto 1946.

Calvino I., Il barone rampante, Mondadori, Milano 1990.

Calvino I., Pavese in tre libri, in Saggi 1945-1985, a cura di M.


Barenghi, Mondadori, Milano 1995, vol. I.

Calvino I., Eremita a Parigi, Mondadori, Milano 1996.

114
Calvino I., Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Mondadori,
Milano 2000.

Calvino I., Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto,


Mondadori, Milano 2010, V edizione I Meridiani, volume terzo
Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione.

Calvino I., La speculazione edilizia, Mondadori, Milano 2016.

Curi U., Il coraggio di pensare. Dagli arcaici al medioevo, Loescher,


Torino 2017, vol. 3B.

D’Ascenzo F., Antimondi delle migrazioni: l’Africa a Castel Volturno,


Lupetti, Bologna 2014.

De Las Nieves Muñiz Muñiz M., Introduzione a Pavese, Laterza, Bari


1992.

Di Pietrantonio D., Mia madre è un fiume, Elliot, Roma 2011.

Di Pietrantonio D., Bella mia, Einaudi, Torino 2014.

Di Pietrantonio D., L’Arminuta, Einaudi, Torino 2017.

Di Pietrantonio D., Borgo Sud, Einaudi, Torino 2020.

Durastanti C., La straniera, La Nave di Teseo, Milano 2019.

Foucault M., Eterotopie, a cura di Villani T., Mimesis, Milano 1994.

Gioanola E., Cesare Pavese. La poetica dell’essere, Marzorati, Milano


1971.

Givone S., Introduzione a Pavese C., Dialoghi con Leucò, Einaudi,


Torino 2014.

Guglielmi G., Letteratura come sistema e come funzione, Einaudi,


Torino 1980.

115
Guglielminetti M., Cesare Pavese. Tutti i romanzi, Einaudi, Torino
2000.

Heidegger M., Costruire, abitare, pensare, a cura di L. Taddio,


Mimesis edizioni, Milano 2010.

Heiddeger M., Sein und zeit, CW Niemeyer Buchwerlage GmbH, Halle


1927, trad. it. Marini A., Essere e tempo, Mondadori, Milano 2017.

Jesi F., Letteratura e mito, Einaudi, Torino 2002.

Lévi-Strauss C., Anthropologie structurale, Plon, Paris 1960, trad. it.


Caruso P., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 2015.

Lussault M., Hyper-lieux. Les nouvelles géographies de la


mondialisation, Seuil, Paris 2017.

Marx K., Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, trad. it. G.
Backhaus, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica, Pgreco, Roma 2012.

Leopardi G., Canti, a cura di Peruzzi E., Bur Rizzoli, Milano 1981.

Manganelli G., La favola pitagorica, Adelphi, Milano 2005.

Marcoaldi F., La terra ideale del poeta Bonnefoy, in “la Repubblica”,


22 marzo 2005.

Mauron C., Des metaphores obsedantes au mythe personnel, Josè Corti,


Paris 1964, trad. it. Picchi M., Dalle metafore ossessive al mito
personale, Il Saggiatore, Milano 1966.

Melucci A., The Playing Self: Person and Meaning in the Planetary
Society, Cambridge University Press, Cambridge 1966.

Milani R., L’arte del paesaggio, il Mulino, Bologna 2001.

Mondo L., Cesare Pavese, Mursia, Milano 1984.

116
Morelly E. G., Code de la Nature, ou le véritable esprit de ses lois de
tout temps négligé ou méconnu, èdition critique S. Roza, La ville
brûle, Montreuil 2011.

Nay L. e Zaccaria G., Nota introduttiva a Pavese C., Paesi tuoi, Einaudi,
Torino 2015.

Paliaga S., Lussault e la sapienza politica degli iper-luoghi, in


“Avvenire”, 16 gennaio 2020.

Pavese C., Lettere 1924-1944, Einaudi, Torino 1966.

Pavese C., Lettere 1945-1950, Einaudi, Torino 1966.

Pavese C., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1997.

Pavese C., Dialoghi con Leucò, Einaudi, Torino 2014.

Pavese C., Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 2014.

Pavese C., La luna e i falò, Einaudi, Torino 2014.

Pavese C., Paesi tuoi, Einaudi, Torino 2015.

Pavese C., Feria d’agosto, Einaudi, Torino 2017.

Quintili P., Lo spazio della felicità, introduzione a Augé M., Piccole


felicità. Malgrado tutto…, Castelvecchi (Lit Edizioni), Roma 2020.

Savinio A., Dico a te, Clio, Adelphi, Milano 1992.

Scarpitti P., Discanto, Sarus, Teramo 1972.

Sechi M., Centri e periferie di città in Pasolini e Volponi, in


“Urbanistica”, 125, settembre-dicembre 2004.

Sennett R., Building and Dwelling. Ehtics for the city, Farrar, Straus
and Giroux, New York 2018, trad. it. Spinoglio C., Costruire e
abitare. Etica per la città, Feltrinelli, Milano 2018.

Silone I., Fontamara, Mondadori, Milano 1998.


117
Simonetti G., La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia
contemporanea, Il mulino, Bologna 2018.

Turri E., Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano


1974.

Turri E., Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio


rappresentato, Marsilio Editori, Venezia 2001.

Turri E., Il paesaggio e il silenzio, Marsilio Editori, Venezia 2004.

Sitografia

A. Cagnato, Le origini del paesaggio, in «Labsus», consultato il 28


ottobre 2020, < https://www.labsus.org/2018/05/le-origini-del-
paesaggio/>.

N. Avellani, Donatella Di Pietrantonio e lo spopolamento delle aree


interne abruzzesi, «NewsTown», consultato il 20 gennaio 2021,
<https://news-town.it/cronaca/31801-donatella-di-pietrantonio-e-
lo-spopolamento-delle-aree-interne-abruzzesi.html>.

A. Chiloiro et al., Entroterra. Memorie e desideri delle montagne


minori, «openddb», consultato il 2 febbraio 2021,
<https://www.openddb.it/film/entroterra/>>.

118
Ringraziamenti

Un ringraziamento particolare al Prof. Stefano Colangelo, relatore di


questa tesi, per i preziosi suggerimenti e per la disponibilità. Grazie
inoltre a chi mi è stato d’aiuto, in diversi modi, durante la stesura.
Grazie alla mia terra, l’Abruzzo, per avermi prima cullato e poi
cresciuto tra freddo e silenzi; per avermi dato amici, affetti, ma anche
indimenticabili sofferenze. Grazie a Bologna, la bellissima controversa
Bologna. Grazie a Pavese e a Calvino. Alla letteratura tutta, alla buona
poesia.

119
120

Potrebbero piacerti anche