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Per approfondimenti:
• Interesse primario dell’azienda come principio guida e bene comune:
https://sites.google.com/site/dicarloe/interesse-primario-dell-azienda
• Bene comune: https://sites.google.com/site/dicarloe/bene-comune
• Il conflitto di interessi nelle aziende: https://sites.google.com/site/dicarloe/libro-il-conflitto-di-interessi-nelle-
aziende
• Di Carlo E. (2021), «Il bene dell’azienda come terza via al dilemma shareholder vs stakeholder», Rivista Italiana di
Ragioneria e di Economia Aziendale (In corso si pubblicazione).
• Di Carlo E. (2021), «Le giustificazioni etiche di chi si pone contro (o non favorisce) il bene dell'azienda», Rivista
Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, n. 1-4, pp. 3-22.
• Di Carlo E. (2020), Verso la logica del bene comune: gli effetti del Covid sull’idea di impresa, di finalismo e di uomo,
in Impresa Progetto, n. 3, DOI: 10.15167/1824-3576/IPEJM2020.3.1307.
1 Professore associato di Economia Aziendale presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Direttore del
Master in Anticorruzione (www.anticorruzione.it), Docente Luiss Business School. Sito web: https://sites.goo-
gle.com/site/dicarloe/home
2 La presente dispensa è stata pensata esclusivamente per i corsi che mi vedono come docente e contiene, tra l’altro,
estratti di alcune mie pubblicazioni scientifiche. I contenuti sono stati rivisti tenuto conto dell’esperienza maturata in anni
di formazione aziendale, per renderli più adatti anche ad un pubblico di non esperti nelle materie trattate.
Indice-Sommario
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
1. Il bilancio di esercizio 73
2. Differenze tra bilancio di esercizio, bilancio sociale e rapporto integrato 76
3. Le società quotate e non quotate e i principi contabili nazionali e internazionali
76
4. Preliminari considerazioni sulle differenze tra valori finanziari e valori
economici 77
5. Analisi delle variazioni dei valori finanziari ed economici 79
6. La convenzione della competenza economica per i calcolo del reddito di
periodo 84
7. Il processo che porta alla formazione del bilancio 87
1. Problema economico, attività economica e organizzazioni produttive. La scelta tra Stato e mercato
1 Tra i beni economici si distinguono i beni di consumo finale, destinati a soddisfare direttamente un bisogno
(es. un’automobile o uno spettacolo teatrale), da quelli di consumo intermedio, destinati a partecipare ad ulteriori
processi produttivi (es. un impianto per produrre laminati o della stoffa per confezionare un vestito).
2 Nell’attività economica sono individuabili tre momenti: il momento della produzione in senso tecnico, il
vengono denominate beni. Taluni beni esistono in natura in quantità illimitata e sono liberamente conseguibili,
come l’aria e la luce solare; altri, e sono la maggior parte, esistono in quantità limitata, di fronte al volume dei
bisogni umani, crescenti con l’aumento della popolazione e con il progresso della civiltà; e richiedono uno
sforzo (lavoro) per essere conseguiti e adattati al soddisfacimento dei bisogni. Questi beni limitati si dicono beni
economici e l’attività rivolta al loro conseguimento e al loro impiego si dice attività economica» [Cassandro, 1988, p.
9].
«L’attività economica implica l’utilizzo di beni economici, disponibili in quantità limitata, nella finalità di
massimizzare l’utilità che da essi se ne ricava, in applicazione del principio del minimo mezzo. I beni infatti
sono utilizzati per soddisfare i propri bisogni (attraverso i consumi), o per ottenere altri beni/servizi (soddisfa-
cendo i bisogni dei produttori) o risparmiati in vista di un loro impiego futuro» [Farneti, 2007, p. 7].
4 A livello internazionale le organizzazioni sono di norma distinte in profit (le c.d. business entities), non-profit
(es. associazioni, fondazioni) e amministrazioni pubbliche (es. enti territoriali, aziende pubbliche, agenzie).
2 ESTRATTI PER IL CORSO DI ECONOMIA AZIENDALE ©
5 Proprietà privata e libero mercato sono i presupposti del modello capitalistico, o sistema economico di mer-
cato [Capaldo, 2013, p. 3 e ss.]. Nei paesi capitalistici viene data la libertà agli individui di decidere “che cosa”,
“come”, “dove” e “quanto” produrre sulla base delle richieste del mercato. Per questa importante funzione di
soddisfacimento dei bisogni lo Stato riconosce al capitalista la possibilità di fare impresa e di ottenere per se un
profitto. Tale modello si contrappone quindi a quello delle economie pianificate in cui tutte le scelte si formano e
vengono attuate da organi centralizzati per vie burocratiche. «In un’economia di mercato gli individui e le im-
prese private prendono le principali decisioni sulla produzione e sul consumo. Un sistema di prezzi, mercati,
profitti e perdite, incentivi e premi determina cosa, come e per chi produrre: […] Il caso estremo di un’economia
di mercato in cui lo Stato non riveste quasi nessun ruolo economico è detto laissez-faire» [Samuelson e Nordhaus,
1996, p. 7].
soprattutto con riferimento al sostegno delle aziende causato dal lockdown (es. Recovery
Found).
Hayek, invece, afferma che l’intervento dello Stato nell’economia deve limitarsi alle pro-
duzioni che possono favorire lo sviluppo del mercato, come la realizzazione delle infrastrut-
ture (es. strade, ferrovie, ponti). Tra i seguaci di Hayek, senza dubbio il più noto è Milton
Friedman, massimo esponente della teoria di creazione di valore per l’azionista, nonché fon-
datore della scuola dell’economia neoclassica, il cosiddetto liberismo neoclassico.
Ogni Stato ha l’autorità di decidere quanto accentrare e quanto lasciare al mercato nonché,
in quest’ultimo caso, come disciplinare, attraverso la regolazione, il comportamento degli
operatori economici. Pertanto, la presenza, l’incidenza e lo sviluppo delle aziende di produzione per il
mercato (ossia le imprese) e per l’erogazione (le amministrazioni pubbliche e gli enti non-profit) sono di
fatto il risultato di scelte politiche.
Le motivazioni che portano lo Stato a intervenire nell’economia sono fondamentalmente
quelle di: 1) eliminare i fallimenti (o imperfezioni) del mercato (es. la formazione di posizioni
di monopolio o le esternalità negative come l’inquinamento); 2) garantire equità nella forni-
tura di taluni beni e servizi; 3) garantire l’esistenza e il funzionamento del mercato 6. Si può
anche affermare che tali interventi sono orientati a favorire il bene comune.
A ben vedere, con riferimento al primo punto, talvolta è il mercato stesso ad avvertire la
necessità di autodisciplinarsi, quando il livello di irresponsabilità raggiunto mette a rischio la
sua stessa sopravvivenza. All’indomani della crisi economica globale del 2008, in molti hanno
sottolineato il rischio di sopravvivenza del capitalismo e che gli stessi capitalisti avrebbero
dovuto intervenire per affrontare i problemi dagli stessi generati. Si pensi in proposito all’in-
serimento nella pianificazione strategica delle aziende degli obiettivi sociali previsti
dall’agenda 2030 dell’ONU, tra i quali centrale è quello riferito alla lotta contro il cambia-
mento climatico, che l’estate rovente del 2021 sembra aver evidenziato in modo evidente.
L’intervento dello Stato e delle sue amministrazioni pubbliche nella fornitura di beni e
servizi alla collettività riguarda il secondo punto. Alcune attività economiche, pur quando
utili a soddisfare taluni bisogni (alcune volte primari), non riuscendo a garantire un adeguato
livello di profitto, non sono appetibili per gli imprenditori privati.
Inoltre, lo Stato si sostituisce al mercato quando intende sottrarre (in tutto o in parte),
nell’interesse collettivo, alcune attività economiche alla esclusiva logica del profitto [Capaldo,
2013, pp. 517-521] 7. Per fare un esempio, si pensi alla difesa, alla sicurezza, all’istruzione, alla
6 «Il mercato è – il convincimento è diffuso e, con il tramonto mondiale dell’economia collettivistica, netta-
mente dominante – il sistema meno inefficiente e meno iniquo di allocazione e distribuzione delle risorse. Il
mercato è, tuttavia, un sistema imperfetto. Vi è chi sostiene l’assioma della capacità assoluta di autoregolazione
del mercato; maggiormente condivisibile, tuttavia, la tesi secondo cui la libera concorrenza, in assenza di regole,
produce effetti distorsivi che contraddicono il corretto funzionamento del mercato stesso, cioè la funzione
disciplinare di selezione del prezzo e della qualità e di allocazione ottimale delle risorse. Gli esempi sono nume-
rosi. L’espansione delle imprese conduce al monopolio e all’abuso di posizione dominante, la legislazione An-
titrust, mira a ristabilire il gioco della concorrenza; l’informazione è un legittimo vantaggio competitivo, ma
l’abuso di informazioni privilegiate è sfruttamento indebito delle asimmetrie informative e viene sanzionato con
la legislazione sull’insider trading e sul market abuse; i prodotti a basso prezzo conquistano legittimamente i
mercati se basati sul legittimo risparmio di costi (di materie prime, di lavoro, ecc.), ma sono oggetto di repres-
sione legislativa (negli ordinamenti avanzati) se violano determinati standard di sicurezza; i prezzi si formano
per libera contrattazione ma molti ordinamenti conoscono interventi restrittivi dell’autonomia privata (si pensi
ai prezzi amministrati)» [Montalenti, 2008, pp. 57-58].
7 Borgonovi scrive che «L’identificazione dei bisogni pubblici da tutelare e, quindi, dell’estensione e dell’in-
tensità dell’intervento pubblico, può avvenire secondo due principi: quello cosiddetto statalista e quello della
sussidiarietà. Nel primo caso lo Stato sulla base delle diverse ideologie e dei diversi ideali, definisce l’ambito del
proprio intervento e, quindi, le funzioni di propria competenza, le funzioni da delegare alla regioni o agli altri
sanità, o a quei settori strategici in cui, in alcuni paesi, è lo Stato a decidere quanto e come
produrre. Tale scelta deriva dal rischio che una tensione verso la massimizzazione del profitto
per i conferenti capitale di proprietà, ovvero verso la sopravvivenza dell’impresa, possa por-
tare al soddisfacimento dei bisogni dei clienti/utenti in modo inadeguato [Hart et al., 1996;
Shleifer, 1998]. Un caso emblematico è senza dubbio quello che ha riguardato, nel periodo
della pandemia e in alcuni ambiti, il malfunzionamento della sanità privata, che non è riuscita
ad affrontare il momento di straordinaria emergenza. Infatti, le tensioni tra l’aspetto econo-
mico e quello della salute hanno visto, in alcuni contesti, il prevalere del primo sul secondo.
La scelta del libero mercato, invece, dipende dal rischio che lo Stato allochi le risorse in
modo inefficiente [Krueger, 1990], a causa, tra l’altro, del comportamento opportunistico di
politici e burocrati che cercano di estrarre benefici personali e corporativi, invece di raggiun-
gere obiettivi di interesse generale. Ciò può determinare da un lato l’incremento della spesa
pubblica e, dall’altro, un incremento della pressione tributaria.
Nei contesti in cui né il mercato né lo Stato hanno interesse a (o semplicemente la capacità
di) soddisfare i bisogni, alcuni soggetti privati, con scopi diversi dal lucro, si organizzano
costituendo le cosiddette organizzazioni non-profit, che devono la loro sopravvivenza a con-
tributi elargiti sotto varie forme (es. donazioni, volontariato). Ad esempio, è questo il caso
delle fondazioni che si occupano della ricerca nel settore delle malattie rare presenti in paesi
sottosviluppati, dove gli utilizzatori dei medicinali non possono permettersi i costi di cure
adeguate [Shleifer, 1998].
Dunque, la scelta tra Stato e mercato tiene in considerazione i costi e i benefici di entrambi
i modelli 8. Dal momento che sia il mercato sia lo Stato possono fallire, non c’è una preva-
lenza dell’uno rispetto all’altro 9.
La risoluzione del problema economico, quindi, può seguire diverse strade 10. A ben ve-
dere lo Stato tutela il profitto e, più in generale, la libertà di iniziativa privata, a condizione che non
si pongano in contrasto con il benessere collettivo, determinando i prima richiamati fallimenti di
enti locali e le attività da lasciare ai soggetti privati e alle regole del mercato. Il principio della sussidiarietà
privilegia invece le scelte e l’autonomia degli individui, delle famiglie e degli altri soggetti privati (imprese, assi-
curazioni, ecc.), dando spazio all’intervento degli enti pubblici per quei bisogni che i soggetti privati non sono
in grado di soddisfare autonomamente» [2005, pp. 106-107].
8 Per approfondire gli effetti della globalizzazione sul rapporto tra Stato e mercato si rinvia a O’Riain [2000].
9 «La storia ci insegna che nel secolo passato e in aree diverse del nostro pianeta noi abbiamo avuto diversi
sistemi economici, oscillanti tra i due estremi rappresentati, da un lato, dal mercato liberistico (al 100%, ossia
un sistema ideale capace di autoregolamentarsi) e, dall’altro, dallo Stato come fonte, artefice, del sistema eco-
nomico stesso (statalismo comunista). È chiaro oggi che entrambi questi estremi hanno fallito: il primo (quello
del liberismo puro) ha fallito sin dalla grande crisi del 1929, che ha messo in crisi l’idea di mercato che ha in sé
i criteri e i modi per autoregolamentarsi spontaneamente in tempi brevi (sulla base del principio per cui il puro
interesse individuale è ritenuto sufficiente a costruire un ordine economico collettivo) e per risolvere le sue
distorsioni e contraddizioni, provocando depressione, disoccupazione, disordini politici e sociali; il secondo ha
introdotto le note situazioni di totalitarismo, politico ed economico, con arretramento e povertà di intere masse
di popolazione» [Ciambotti, 2016, p. 56].
10 Come osservato da Caselli, «in economia più strade sono possibili. I problemi non hanno una e una sola
soluzione. Non esiste “il” capitalismo, non esiste “la” economia di mercato. Esistono più capitalismi, esistono
– in special modo – più economie di mercato. I loro elementi costitutivi (la proprietà dei mezzi di produzione,
il ruolo del capitale e del lavoro, la destinazione del profitto, lo spazio per la concorrenza e la collaborazione,
le forme di controllo, ecc.) possono essere variamente declinati e combinati […] La divaricazione tra democra-
zia e mercato è diventata oggi ancora più evidente rispetto al passato, soprattutto se si considerano da un lato
le crescenti disuguaglianze economico-sociali e dall’altro la maggiore consapevolezza, a livello di società civile,
dell’importanza che ha la promozione dell’uguaglianza delle condizioni di base per tutti come una delle finalità
prioritarie della democrazia» [2005, pp. 45-46].
mercato. Qualora ciò dovesse accadere, il regolatore deve intervenire per salvaguardare il
bene comune.
Peraltro, c’è una differenza rilevante che distingue i due elementi e che riguarda il rapporto
tra l’uomo e la comunità in cui vive e opera. Nel modello capitalistico è attraverso la libertà
individuale che si persegue il benessere collettivo, mentre nel modello collettivista è il bene
della comunità che consente di perseguire il benessere individuale. Ancora una volta il Covid
propone numerosissimi esempi che fanno riflettere su entrambi gli approcci. Si pensi, ad
esempio, alle critiche rivolte da alcuni alle limitazioni delle libertà personali (es. uscire di casa,
obbligo di vaccinazione).
Nel presente scritto, si proporrà un modello intermedio che si basa sul cosiddetto inte-
resse primario dell’azienda. Tale modello è una via di mezzo tra i due descritti e, basandosi
sulla logica del bene comune resa particolarmente evidente dalla pandemia Covid, rende sfu-
mati i confini tra settore pubblico, privato e non-profit, in quanto tutti, individui e famiglie
compresi, hanno responsabilità di contribuire appunto al bene comune.
Per molto tempo l’economia è stata considerata come una scienza finalizzata alla risolu-
zione del problema economico, ossia del soddisfacimento dei bisogni umani, per definizione
illimitati, attraverso la produzione di beni e servizi, in una situazione in cui le risorse per
soddisfare tali bisogni sono scarse. Questa definizione si basa su un modello utilitaristico,
ossia di generazione di utilità per l’appagamento dei bisogni di tipo materiale.
Negli ultimi anni questo paradigma è stato messo in discussione, soprattutto grazie gli
studi che hanno messo in relazione il PIL (indice che misura il valore di mercato aggregato
di beni e servizi prodotti in una nazione in un dato arco temporale) e la felicità. Tali studi
mettono in evidenza come la felicità degli individui dipenda non solo dai beni e servizi che
essi ottengono, ma anche da elementi immateriali, come ad esempio le relazioni sociali, il
fatto di svolgere un lavoro coinvolgente, e così via. Si può anche affermare che per essere felici
bisogna avere ed essere. Come si avrà modo di rilevare, l’uomo soddisfa i suoi bisogni attraverso
beni estrinseci (materiale e immateriali), intrinseci, trascendenti e di immagine.
Se il fine dell’uomo è la felicità ed essa non può essere raggiunta con il solo possesso di
beni, si aprono spazi nuovi non solo per l’economia in generale, ma anche per l’economia di
azienda. Il problema economico diventa quindi quello di rendere gli uomini felici, e ciò non
può avvenire solo attraverso la produzione di beni e servizi, visto che l’uomo non ha bisogno
solo di beni materiali. Visto che le organizzazioni produttive sono chiamate a risolvere il
problema economico, esse non solo devono produrre beni e servizi utili, ma devono altresì
contribuire alla felicità delle persone che più o meno direttamente partecipano alle vicende
produttive, ossia gli stakeholder primari e secondari, e della collettività.
11 È bene precisare che i concetti di azienda e impresa proposti dalla dottrina economico-aziendale non coincidono con quelli giuridici.
Per la dottrina giuridica il punto di riferimento per la definizione del concetto di “azienda” è rappresentato dall’articolo
2555, cod. civ., ai sensi del quale “l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”.
A norma dell’art. 2082, cod. civ., è imprenditore chi «esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine
della produzione e dello scambio di beni o di servizi». All’imprenditore fanno capo tutti i diritti acquisiti e le obbligazioni
contratte nell’esercizio dell’attività di impresa. Dal punto di vista giuridico i termini “azienda” e “impresa” assumono quindi
significati diversi: l’impresa viene vista come attività, economica (serie di atti coordinati) e professionale, mentre l’azienda come
complesso di beni (il patrimonio utilizzato nell’impresa dall’imprenditore). Pertanto, sul piano giuridico, tra azienda e impresa
c’è un rapporto di mezzo a fine.
12 In proposito Capaldo osserva che nel linguaggio corrente «l’azienda viene comunemente associata all’idea di profitto,
di tornaconto personale, di non meglio precisate finalità economiche implicitamente contrapposte a finalità di ordine superiore.
Questa posizione non è condivisibile perché si fonda su un’evidente confusione tra la parte e il tutto. Vi sono, infatti,
certamente casi in cui l’azienda è orientata al profitto ed è dominata dal tornaconto personale, ma vi sono anche casi in cui
profitto e tornaconto sono del tutto assenti» [2013, p. XIII, il corsivo è del testo originale].
13 Ad esempio, un Comune può affermare di aver creato valore quando costruisce un ponte realmente utile per i citta-
dini, minimizzando altresì le risorse impiegate. Non pagando una tariffa per l’attraversamento del ponte, l’utilità generata
per gli utilizzatori della struttura, a differenze di un’impresa, non viene misurata attraverso i ricavi. Se il Comune paga molto
più del necessario (ad esempio per incompetenza o per corruzione), può sicuramente affermare di aver soddisfatto un
bisogno in quanto il ponte è utile, ma non necessariamente di aver creato valore. La distruzione di valore, infatti, non
riguarda solo l’ipotesi in cui l’utilità generata è inferiore a quella consumata, ma anche l’ipotesi in cui, pur essendo la prima
superiore della seconda, il Comune ha sprecato risorse che potevano soddisfare altri bisogni, ad esempio per ridurre le tasse
ai cittadini, per incrementare altri servizi e in questo modo soddisfare altri bisogni, e così via. Se poi il ponte crolla poco
dopo essere stato terminato, causando vittime e disagi, il Comune non solo avrà distrutto valore, ma non avrà neanche
soddisfatto i bisogni per cui l’opera era stata realizzata.
14 L’uomo è una componente fondamentale del sistema aziendale. Molti sono gli studi che si sono dedicati a indentificare e
analizzare come le variabili individuali (tra le altre, l’età, la religione, le credenze, il sesso, il livello di maturità morale, l’egoismo)
impattano sui processi decisionali aziendali, rendendo il sistema indeterministico. Ne consegue che il modello di uomo
(egoista e opportunista, piuttosto che altruista e virtuoso) viene ad incidere in modo determinante, tra l’altro, sugli incentivi
(non solo economici) necessari a raggiungere l’effetto sistema.
15 «L’azienda, sia unità di produzione, sia unità di consumo, ci appare come un sistema di forze, cioè un complesso di
componenti legati fra loro da vincoli di interdipendenza, così come sono legate fra loro, in fisica, le varie forze componenti
un sistema meccanico. Le forze che costituiscono il sistema aziendale possono, in una semplificata nozione generale, ridursi
a queste tre: persone, beni, organizzazione» [Cassandro, 1988, p. 33].
16 Per Cafferata l’azienda è una «totalità strutturata e coordinata di parti, partecipanti e di relazioni tra detti elementi,
indirizzata al raggiungimento di un preciso fine nel proprio ambiente di riferimento» [2014, p. 125].
particolare alla controllante, una responsabilità giuridica quando tale attività è svolta a danno
degli stakeholder delle controllate (ex art. 2497 del cod. civ.) [Di Carlo, 2009];
3) la necessità di risalire al fine del sistema gruppo è insita nel concetto stesso di sistema.
Per fare un esempio, una società che acquisti fattori produttivi per poi venderli ad un’altra
società del gruppo, giustifica la sua esistenza proprio in virtù del legame sistemico anzidetto,
risultando, la sua attività, particolare e strumentale rispetto a quella generale di gruppo, in cui
trova motivazione economica;
4) nei gruppi maggiormente integrati, l’oggetto sociale di talune società è strumentale
all’attività produttiva di altre entità. Alla frammentazione giuridica del business unitario del
gruppo, spesso non segue la frammentazione del sistema aziendale dal punto di vista econo-
mico.
Ciò precisato, il carattere aziendale della visione sistemica risulta di particolare importanza
poiché richiama «la necessità di tener conto di tutti i rapporti di interdipendenza che esistono
fra i dati del problema» [Amaduzzi, 1978, p. 26] e consente di distinguere l’azienda da una
qualunque unità produttiva non organizzata o occasionale.
Proprio il concetto di coordinazione suggerisce di non focalizzarsi solo sull’interpretazione degli
aspetti particolari delle vicende aziendali (anche di tipo etico), nonché di comprendere le relazioni tra gli aspetti
particolari e di affrontare e interpretare i problemi in un’ottica spaziale e temporale più ampia (il tutto). Nel
sistema aziendale le singole operazioni di gestione (es. acquisto di un fattore produttivo; ot-
tenimento di un finanziamento) «non hanno significato alcuno se considerate avulse dal si-
stema operativo, all’interno del quale soltanto assumono colorazione, ossia giustificazione e
razionalità, diventando comprensibili e […] economicamente significative e valutabili» [Ca-
valieri e Ferraris Franceschi, 2008, p. 133]. «Il legame che unisce le operazioni aziendali è
fondato sulla comunanza del fine e sull’avvicendamento delle singole combinazioni in termini di economi-
cità. Questi due elementi, a loro volta, costituiscono i presupposti fondamentali per la forma-
zione del sistema» [Giannessi, 1960, pp. 53-54].
Si pensi ad un gruppo di società in cui talune entità giuridiche in perdita potrebbero essere
mantenute in vita poiché creano valore per altre consociate, operando in funzione dell’economi-
cità del gruppo [Onida, 1971]. Il bilancio di esercizio di una società controllata, che opera
nell’ambito di un gruppo integrato, esprime, quindi, i valori di un sub-sistema aziendale. Ne
consegue che la lettura e l’analisi di tale bilancio devono necessariamente tener conto del
collegamento tra la controllata e le altre parti del sistema gruppo, ossia le altre consociate e
la controllante.
In azienda l’effetto sistema (positivo) implica che l’insieme valga più della somma delle singole
parti che lo compongono 17. Questo aspetto porta a valutare l’economicità e le condizioni di equi-
librio delle parti del sistema, ossia dei sub-sistemi (es. società controllate, divisioni, diparti-
menti, funzioni), tenendo conto dell’insieme cui le medesime appartengono.
A ben vedere, questo approccio sembra legarsi maggiormente ad un concetto di azienda
intesa come comunità. In proposito, Melé scrive: «le persone all’interno di un’azienda svol-
gono attività in cooperazione e il risultato di tale attività non può essere attribuito a nessuno
in particolare, ma all’azienda nel suo insieme o ad un gruppo all’interno dell’azienda. Anche
il linguaggio comune attribuisce azioni o attività alle aziende nel loro complesso. Le aziende
hanno cultura e storia, e un apprendimento cumulativo, che rimane quando gli individui, che
possono aderire e lasciare l’azienda, se ne sono andati. Inoltre, le aziende interagiscono, come
soggetti unitari, con altri gruppi o istituzioni sociali. Ultimo, ma non meno importante, da
17 A ben vedere l’effetto sistema può essere anche negativo o nullo. Nel primo caso la scelta dell’imprenditore dovrebbe
una prospettiva filosofica si può sostenere che il tutto, creato da un principio di unità, è più
della somma delle sue parti» [2008, p. 6].
A differenza del concetto di azienda come comunità, quello di azienda sistema è però più
esteso. Il sistema è un’entità reale e autonoma che pur non identificandosi con i proprietari,
il capitale, i beni, le persone che vi prendono parte o con i contratti o le relazioni tra i suoi
componenti, esso è composto da tutti questi elementi e dalle loro relazioni [Signori e Rusconi,
2009, p. 308].
In altri termini, l’azienda non è solo una comunità di persone, includendo anche beni ma-
teriali e immateriali. È però sempre grazie all’intervento dell’uomo, al suo ingegno che l’ef-
fetto sistema può realizzarsi. Tale effetto non deriva solo dalla cooperazione tra persone, ma
anche da come, attraverso l’organizzazione, si integrano uomo e beni, in particolare l’uomo
e le macchine. La digitalizzazione appare di straordinaria importanza in tale ambito, soprat-
tutto nei contesti in cui le persone non possono incontrarsi fisicamente, operando a distanza.
Il sistema aziendale fin qui delineato si caratterizza per il fatto di essere: dinamico; dure-
vole; complesso; finalistico; aperto; probabilistico.
Dinamico
L’azienda non è un sistema statico, bensì dinamico, che, cioè, si modifica nel tempo e
nello spazio, alla ricerca degli equilibri che necessariamente devono caratterizzarne l’esi-
stenza. La pressione esercitata da talune forze interne (es. assetti di proprietà e controllo) ed
esterne (es. concorrenza, gusti dei consumatori, contesto legislativo, evoluzione tecnologica)
richiede all’azienda di modificarsi tempestivamente per sopravvivere [Amaduzzi, 1978, p. 26].
Ad esempio, se il mercato richiede prodotti diversi oppure, pur richiedendo gli stessi pro-
dotti, il modo di realizzarli o di collocarli risulta inadeguato, l’azienda deve cambiare in tempi
rapidi il suo prodotto e/o il suo modello di business 18. Nel periodo di diffusione dell’epide-
mia del Covid-19, molte aziende sono state costrette ad attivare politiche di smart working. Per
molti questo ha peraltro rappresentato una grande opportunità, avendo esplorato cambia-
menti nei modelli di business, che hanno portato a un miglioramento gestionale inaspettato.
Il dinamismo sistemico richiede che le condizioni di equilibrio aziendale siano rispettate in
un’ottica non solo di breve, ma anche di lungo termine. Il sistema aziendale è quindi omeo-
statico, in quanto deve tendere a mantenere nel tempo le sue condizioni di equilibrio evolutivo
[Amaduzzi, 1948, pp. 306-308] 19.
18 Scrive Ferrero che «osservata in qualsiasi istante, la gestione dell’azienda si profila continuamente proiet-
tata nel futuro, anche se ritrova nel presente e nel passato l’origine economica del ciclo, sempre incompiuto,
attraverso il quale essa si esplica. Ciò significa che il fluire della gestione nel tempo è continuo, e che, in qua-
lunque momento, nell’azienda in funzionamento, è sempre possibile percepire una gestione in atto. Malgrado
l’intermittenza che di regola caratterizza l’osservazione economica della gestione nel tempo, il fluire della ge-
stione stessa non presenta mai soluzione di continuità» [1968, p. 115].
19 Sul punto Onida scrive che «l’azienda, contemplata sia nella gestione che nell’organizzazione, si presenta
come mobile complesso o come sistema dinamico nel quale si realizzano in sintesi vitale l’unità nella molteplicità,
la permanenza nella mutabilità […] col trascorrere del tempo tutto si rinnova o può rinnovarsi nella azienda; cose
e persone possono mutare: ma la vita di relazione fra gli elementi del complesso e fra il complesso e il mondo
esterno continua, finché l’azienda non si liquidi e il complesso non si dissolva» [1971, pp. 4-5]. Ancora,
Amaduzzi osserva che «il termine equilibrio non esprime una situazione di quiete, ma vuole riferirsi alle condi-
zioni di un moto, alle leggi che debbono essere rispettate da un complesso funzionante e variabile, per poter
nascere e mantenersi in vita» [1948, p. 306].
La necessità di collegare il breve al lungo termine deriva peraltro dal fatto che «l’azienda
non è un accidente della vita economica, non è un breve corso di eventi destinati a rapido
esaurimento» [Zappa et al., 1964, p. 2].
Durevole
Un’organizzazione produttiva occasionale non può essere qualificata azienda 20. La dura-
bilità è dovuta al fatto che l’azienda è chiamata a soddisfare in modo continuativo i bisogni
dei destinatari delle sue produzioni come anche i bisogni degli stakeholder, attuali e futuri,
che partecipano alle vicende produttive, servendo altresì il bene comune della collettività 21.
L’azienda deve quindi essere un sistema durevole. In assenza di continuità, non c’è sistema,
e il valore dell’organizzazione è semplicemente una somma di valori di parti che non presen-
tano alcuna complementarietà economica, avendo perduto il vincolo di destinazione all’atti-
vità produttiva 22.
Un orientamento al breve periodo potrebbe mettere a rischio la continuità aziendale, an-
che a causa di una sottovalutazione degli effetti dell’operatività di breve sulle condizioni di
equilibrio di lungo periodo.
Complesso
Il sistema aziendale è tendenzialmente complesso poiché possiede un numero talvolta
molto elevato di elementi (le persone e i beni) e di relazioni tra gli stessi [Masini, 1982, pp.
22-39].
La complessità del sistema aumenta con le dimensioni dell’azienda, con le relazioni tra gli ele-
menti che la compongono e la variabilità che caratterizza tali elementi. Evidente è la maggiore
complessità di un gruppo multinazionale e multi-prodotto, rispetto a quella di un’impresa
mono-prodotto di modeste dimensioni. La struttura organizzativa del primo si caratterizza
per la presenza di diversi livelli di delega decisionale, unita alla necessità di integrazione e
coordinamento del sistema, per evitare lo scollamento delle singole parti che lo compongono.
Con riferimento alle amministrazioni pubbliche, si pensi alla complessità riscontrabile in un
comune con poche centinaia di abitanti rispetto ad uno che ne ha qualche milione.
Le relazioni sistemiche aumentano soprattutto nelle aziende che presentano elevate pos-
sibilità di integrazione tra i vari business. Tra l’altro, è proprio la necessità di integrazione
sistemica e di durabilità a rendere complesso il sistema aziendale.
20 Caso particolare è quello delle aziende che nascono per realizzare un progetto (es. costruzione di una
metropolitana, di una strada, di un grattacielo). In tal caso, la durabilità riguarda la capacità della società progetto
di ultimare l’opera.
21 Scrive in proposito Azzini: «Ogni istituto è duraturo o destinato a perdurare poiché sorge e diviene per il
perseguimento di fini duraturi, poiché duraturi sono i gruppi sociali e le esigenze loro, nonostante il continuo
mutare della composizione dei gruppi sociali, degli istituti promotori, delle esigenze da essi avvertite, del mutare
delle condizioni e delle circostanze che vincolano il comportamento degli istituti, del mutare della capacità e
delle possibilità d’azione degli istituti, ecc.» [1982, p. 10].
22 Tale aspetto risalta in sede di determinazione del reddito di periodo e del connesso capitale di funziona-
mento. Quest’ultimo si differenzia dal capitale di liquidazione proprio perché la valutazione dei componenti attivi
e passivi viene fatta in modo da «consegnare ai periodi futuri un’entità del capitale netto che, normalmente, sarà
realizzabile per gli stessi valori o valori più elevati» [Cavalieri e Ferraris Franceschi, 2008, p. 311]. I valori espressi
nel capitale di liquidazione, invece, derivano dalla vendita diretta e separata dei componenti attivi del capitale,
dopo averli stralciati dalla combinazione produttiva.
Finalistico
Il sistema aziendale è un insieme co-finalizzato, deve cioè essere orientato al raggiungi-
mento di un fine univoco [Cavalieri, 2010]. La scelta del fine è un momento cruciale nel governo
di qualsiasi tipo di organizzazione [Parsons, 1960; Simon, 1964], visto che da tale fine di-
scende poi la selezione, guidata dal criterio dell’economicità, degli obiettivi da raggiungere,
quindi degli incentivi da assegnare. Economicità e finalismo, infatti, sono strettamente inter-
relati.
Mentre per alcuni l’azienda non può avere fini in quanto essi sono solo quelli dei soggetti
(gli stakeholder) ad essa interessati, per altri l’azienda può avere finalità proprie.
Seguendo la prima impostazione, il fine aziendale verrebbe a dipendere da come si com-
pongono gli interessi dei soggetti aziendali. Quindi, il fine di un’impresa privata sarebbe di-
verso rispetto a quello di un’impresa pubblica, il fine di un’azienda non-profit diverso da quello
di una for-profit. Il problema forse più importante associato a questo approccio riguarda la
connessione tra il fine dei partecipanti, in particolare quello del soggetto economico 23, e la
durabilità aziendale.
In effetti, se il fine del soggetto economico è di breve termine, il rischio è che la durabilità
dell’azienda sia messa a rischio dal perseguimento di tale interesse. Si pensi in proposito
all’orientamento al breve termine di taluni azionisti che ha condotto gli organi di governo e
gestione a soddisfare tale interesse a danno dell’azienda (es. Parmalat e Fonsai).
Una volta scelto e incorporato in una mission aziendale, il fine passa attraverso la gerarchia
aziendale e deve essere condiviso o fatto condividere attraverso un appropriato stile di lea-
dership [Cafferata, 2014, p. 151].
Aperto
Il sistema aziendale è inserito in un sistema di ordine superiore: l’ambiente. I confini del
sistema aziendale «sono segnati da una serie di punti in cui esso entra in contatto con l’am-
biente. Il suo funzionamento si caratterizza per il grado di apertura o di chiusura che presenta
verso l’esterno» [Ranalli, 1992, p. 7].
23 Il soggetto economico, afferma Ferrero, «è, di fatto, sempre costituito da persone fisiche. E ciò è vero anche
quando l’azienda pertenga allo Stato o ad altri enti pubblici anziché ad enti privati. Infatti, soltanto persone
fisiche possono realmente esercitare la potestà volitiva e le connesse facoltà e prerogative di governo economico
dell’azienda» [1968, p. 48].
I fattori produttivi richiesti al sovra-sistema ambientale (es. risorse naturali, materie prime,
capitale finanziario, umano, relazionale) sono utilizzati nella combinazione produttiva per
incrementarne il valore, attraverso la realizzazione di prodotti (beni o servizi) che vengono
successivamente messi a disposizione dell’ambiente (consumatori finali, altre aziende di pro-
duzione, ecc.) per il soddisfacimento dei bisogni. L’azienda crea valore economico quando il
valore della produzione realizzata supera quello dei fattori consumati.
L’ambiente sottopone il sistema aziendale a condizionamenti (o forze) di varia natura. Si
pensi ai vincoli legislativi (es. non costruire in determinate zone) ed etici (es. utilizzare pro-
dotti biodegradabili). Da ciò consegue che «i livelli di eticità che le organizzazioni produttive
devono e possono realizzare nel tempo sono strettamente correlati alla valutazione delle dif-
ferenti istanze che provengono dal contesto socio-economico» [Cavalieri, 2002, p. 4].
Probabilistico
La complessità aziendale fa si che l’azienda si configuri come un sistema probabilistico,
nel senso che le decisioni economiche sono prese in condizioni di incertezza [Amaduzzi,
1978, p. 19; Masini, 1970, p. 21].
L’imprevedibilità delle relazioni interne ed esterne, il comportamento dell’uomo, la sua
razionalità limitata, i suoi bisogni, sentimenti, impulsi, giudizi, rendono unico e indetermini-
stico ogni sistema aziendale [Amaduzzi, 1978, p. 9] 24-25.
Dunque, l’incertezza è «legata all’elemento tempo e costituisce condizione vincolante per
tutte le aziende» [Ferrero, 1968, p. 36]. Le condizioni di incertezza possono essere oggettive
e soggettive. Le prime riguardano ciò che non è conoscibile in senso assoluto, mentre quelle
soggettive si collegano all’insufficienza di informazioni e alla competenza delle persone.
Vi è una differenza tra rischio e incertezza data dal fatto che nel primo le probabilità di verifi-
cazione dell’evento sono note mentre nel secondo no. L’incertezza viene a dipendere, tra
l’altro, dal grado di variabilità complessiva dell’ambiente. Un ambiente molto dinamico riduce
la possibilità di svolgere adeguate previsioni sugli accadimenti futuri, quindi di valutare ade-
guatamente il rischio che incombe sull’economia dell’azienda. Il rischio generale d’azienda
deriva proprio «da un ineliminabile contrasto tra i caratteri peculiari dell’ambiente ed i carat-
teri peculiari delle strutture organizzative ed operative dell’impresa. Mentre l’ambiente si presenta
caratterizzato da fenomeni di varietà e variabilità intensi e diffusi in tutte le sue componenti (turbolenza), le
strutture organizzative ed operative sono caratterizzate da tendenziale rigidità (scarsa flessibilità ed adatta-
bilità) e da resistenza al cambiamento (vischiosità)» [Cavalieri, 1995, p. 18].
In tal senso, il rischio può derivare sia dal fatto che gli utilizzatori richiedono beni e servizi
diversi rispetto a quelli attualmente realizzati dall’azienda, sia da una inadeguatezza delle strut-
ture organizzative e operative. Nel primo caso, è il “cosa” viene prodotto ad essere obsoleto,
non incontrando più i bisogni degli utilizzatori, mentre nel secondo caso è il “come” si pro-
duce, il modello di business ad essere inadeguato.
Con riferimento all’impresa, Cavalieri osserva che «il rischio economico si può ritenere
una fondamentale quanto ineliminabile caratteristica dell’attività d’impresa che si svolge in
condizioni di incertezza derivanti dalla non sufficiente conoscenza del futuro manifestarsi
24 In proposito, diversi sono gli studiosi che hanno indentificato e analizzato variabili individuali (es. sesso,
età, religione) e situazionali (contesto lavorativo, contesto organizzativo, ambiente esterno) che impattano sul
processo decisionale nell’ambito delle organizzazioni [Loe et al., 2000; McDevitt et al., 2006; Treviño, 1986].
25 In proposito Amaduzzi scrive che «i problemi dell’attività economica ricevono […] determinazione relativa-
mente certa nella parte dei dati storici o attuali che possono confluirvi, ricevono determinazione probabile per la parte
delle presumibili variazioni tendenziali dei fatti scrutabili, restano indeterminati per quanto attiene alle possibilità
di intervento di fatti nuovi» [1978, p. 7].
delle vicende d’impresa e dell’ambiente» [1995, pp. 16-17]. Il rischio nasce nel momento in
cui i mezzi monetari sono investiti in fattori specifici della produzione, in quanto la recupe-
rabilità degli investimenti, attraverso il flusso dei ricavi futuri, si basa su stime e congetture.
3.3. (Segue:) Le condizioni da rispettare per divenire sistema: differenziare, strutturare e integrare
Dopo aver esaminato gli elementi che qualificano il concetto di sistema aziendale, nei
prossimi paragrafi si analizzano le condizioni che consentono ad un’organizzazione produt-
tiva di divenire sistema, o almeno di tendere verso la visione sistemica.
Per essere un sistema, l’organizzazione deve: differenziarsi, strutturarsi e integrarsi [Caf-
ferata, 2014, pp. 125-147]. Il fine aziendale è propedeutico a queste tre condizioni. Orientare
l’azienda verso la massimizzazione del profitto per l’azionista, ad esempio, porta a differen-
ziare, strutturare e integrare il sistema in modo diverso rispetto ad un fine che tenga in con-
siderazione anche le attese degli altri portatori di interessi.
Ciò spiega il rilievo che il finalismo riveste per l’economia dell’azienda.
Differenziare
La prima condizione di sistematicità è particolarmente avvertita nelle realtà più complesse,
dove il sistema aziendale, per poter essere mantenuto coeso, deve essere necessariamente
differenziato in una pluralità di sottosistemi (es. funzioni, divisioni, reparti, società controllate
in un gruppo) [Lawrence e Lorsch, 1967].
Solo nelle aziende di piccole dimensioni può accadere che il soggetto economico (es. il
proprietario/imprenditore nel caso della piccola impresa) sia in grado di governare e gestire
l’intera attività. In tal caso è egli a differenziare, nella mente, le cose da fare (es. cosa, come e
dove acquistare, produrre e vendere), nonché a trovare il modo più giusto per integrare tali
attività [Cafferata, 2016].
Non appena l’azienda abbia qualche sviluppo, anche modesto, la possibilità da parte del
soggetto economico di gestire l’intero processo decisionale viene a ridursi, sia per effetto del
numero delle decisioni che occorre tempestivamente prendere, sia perché tali decisioni ri-
chiedono una valutazione della situazione ambientale che il soggetto economico non sempre
ha la capacità di fare [Saraceno, 1966, p. 97].
In tale situazione il soggetto economico non può non lasciare una sfera di discrezionalità
strategica ai centri decisionali dallo stesso costituiti. Non può cioè evitare di delegare una parte più o
meno ampia dell’esercizio del suo potere decisionale.
Man mano che l’azienda si espande, aumentando le sue dimensioni e, di conseguenza, la
complessità gestionale, delle parti sempre più ampie del potere strategico passano dal sog-
getto economico ai suoi organi delegati.
Strutturare
Dopo aver differenziato il sistema, occorre dare allo stesso una struttura organizzativa
[Mintzberg, 1983]. Le strutture organizzative e i conseguenti meccanismi operativi concreta-
mente adottati dalle aziende di basano sui tipici modelli prefigurati dalla teoria organizzativa
(es. semplice, funzionale, multidivisionale e a matrice).
La struttura organizzativa, infatti, ha il ruolo di attribuire compiti (chi fa cosa all’interno del
sistema differenziato) e responsabilità (chi è autorizzato a fare cosa), non solo dal punto di vista
sostanziale ma anche formale (es. attraverso il rilascio di procure, il sistema delle deleghe),
per indirizzare i soggetti aziendali verso il fine unitario del sistema e gli obiettivi che da esso discendono.
Integrare
La terza condizione di sistematicità è l’integrazione, che consiste nel ricondurre ad unità ciò
che è stato differenziato, ordinato e regolato [Cafferata, 2014, pp. 135-138]. Mentre in talune
aziende l’integrazione si crea da sé, in altre occorre procurarla. Senza integrazione c’è il rischio
che i sottosistemi non siano orientati al raggiungimento del fine del sistema aziendale, ovvero
che sia limitato lo sfruttamento delle sinergie.
Proprio in questo ambito diviene di fondamentale importanza il fine assegnato all’azienda.
Trovare integrazione avendo come fine la massimizzazione del valore per un solo stakehol-
der (es. l’azionista) è senza dubbio più complesso rispetto ad una situazione in cui il fine è la
creazione di valore per l’azienda. Nel secondo caso, infatti, il fine è più facilmente condivisi-
bile dai vari portatori di interessi (in particolare i dipendenti), soprattutto quando diffusa è la
cultura secondo cui fare il bene dell’azienda è un bene comune
3.4. Autonomia decisionale. Il caso del gruppo aziendale e delle amministrazioni pubbliche
Il secondo carattere di riconoscimento dell’azienda nell’ambito delle organizzazioni pro-
duttive è quello dell’autonomia decisionale, che si manifesta nella possibilità da parte dei centri
decisionali di porre in essere le scelte economiche in assenza di pressioni o condizionamenti
da parte di gruppi di potere esterni [Cavalieri, 1999, p. 119] o interni. Il carattere dell’autono-
mia decisionale diviene di assoluto rilievo nel segnare il confine tra l’azienda e l’ambiente
esterno 26-27.
Ma qual è il livello minimo di autonomia decisionale che deve essere richiesto ad un si-
stema per poter essere qualificato azienda?
Se si chiede ad un’unità produttiva controllata di essere autonoma anche nella determina-
zione del proprio fine, si arriva necessariamente ad affermare che nel gruppo l’unica azienda
è il gruppo unitariamente considerato. Invero, nel gruppo è la holding ad assegnare i fini
specifici alle sue unità controllate. Dunque, individuare i confini del gruppo significherebbe
delineare, altresì, quelli dell’azienda. In altri termini, i confini del gruppo, quindi dell’azienda,
sarebbero sempre coincidenti con l’area di controllo del soggetto economico (es. l’azionista
di controllo nel caso di una società controllata o del management nel caso di una società a
capitale diffuso), precludendo la possibilità di riconoscere la presenza di più corpi aziendali
quando le controllate presentano un elevato livello di autonomia decisionale e fini specifici
non correlati.
Tale conclusione è parsa però inopportuna, anche in considerazione del fatto che nel si-
stema economico esistono diverse unità aziendali che non fissano autonomamente il loro fine,
26In proposito, relativamente a tale aspetto Potito scrive che «l’autonomia rappresenta lo stato dell’azienda che agisce
in vista del conseguimento dei suoi obiettivi, in cui comportamenti e decisioni sono assunti in piena indipendenza e tenendo
di mira l’esclusiva convenienza dell’azienda stessa, senza essere in alcun modo assoggettati agli interessi o alle influenze dei soggetti che la
governano, o che a vario titolo vi operano» [2014, p. 8, il corsivo è aggiunto].
27 «La distinzione tra azienda ed ambiente presuppone la possibilità di tracciare un confine tra i due termini; tale confine
non è definibile univocamente; per la sua identificazione si ricorre a due criteri complementari. Il primo criterio consiste nell’as-
sumere come confini dell’azienda i limiti ai quali si estende la struttura giuridica formale, ossia gli elementi della struttura azien-
dale che la normativa vigente indica come campo d’azione degli organi di governo economico della singola azienda. Il
secondo criterio assume come confini dell’azienda i limiti ai quali di fatto si estende l’influenza degli organi di governo
economico dell’azienda; così, se, ad esempio, la struttura delle combinazioni economiche ed i comportamenti dei prestatori
di lavoro dell’impresa B sono direttamente e prevalentemente determinati dagli organi di governo economico dell’impresa A, l’a-
zienda ordine economico di B si colloca entro i confini dell’azienda A. In Economia aziendale l’uso congiunto dei due criteri
è particolarmente rilevante per trattare correttamente il tema delle relazioni tra azienda ed ambiente nel caso di gruppi
economici e di aggregati interaziendali di altra specie» [Airoldi et al., 2005, p. 251].
ma presentano un’ampia autonomia nel suo raggiungimento (si pensi, ad esempio, agli Enti
Territoriali e, più in generale, a talune amministrazioni pubbliche come le aziende sanitarie
locali). Anche a tali unità la dottrina economico-aziendale, in presenza di altri caratteri, reputa
di poter attribuire la qualifica di aziende [Cavalieri e Ferraris Franceschi, 2008, p. 127 e ss.].
La comunanza del soggetto economico non sembra bastare, dunque, ad escludere che le
unità produttive di gruppo possano essere definite aziende. Ciò che rileva non è il potere di
controllo, che è prerogativa del soggetto economico, quanto l’esercizio di tale potere, che si estrinseca nella
formulazione delle strategie aziendali, come pure nella definizione degli assetti di governance,
e che rappresenta il tratto più significativo della funzione imprenditoriale. Dunque, le unità con-
trollate del gruppo sono in possesso di autonomia decisionale quando sono autonome al-
meno nella determinazione delle loro strategie competitive.
Solo nelle società e nei gruppi di piccole e medie dimensioni è facile aspettarsi che la figura
del soggetto economico e quella dell’imprenditore si riferiscano alla stessa persona.
È il soggetto economico a gestire la delega del potere decisionale e, quindi, la ripartizione dell’esercizio
del suo potere tra i centri decisionali dallo stesso costituiti.
Le controllate sono distinti soggetti di diritto, con un proprio patrimonio responsabile a
tutela dei terzi 28, salvo il caso in cui si riesca a dimostrare che gli azionisti di minoranza e i
creditori sociali delle controllate sono stati danneggiati dall’attività di direzione e coordina-
mento della holding, che in tal caso è tenuta a compensare il danno cagionato.
Ne consegue che anche il diritto consente al soggetto controllante di essere esonerato
dalla responsabilità per atti compiuti dagli organi decisionali delle controllate, quando dimo-
stra di aver delegato ad essi l’esercizio del potere decisionale 29. Si può anche affermare che,
per il diritto, l’esclusione della responsabilità giuridica della controllante per atti illegittimi
compiuti dalle controllate è indicativa della presenza nelle medesime del carattere dell’auto-
nomia decisionale. Il binomio «potere nell’assunzione delle decisioni e responsabilità delle
decisioni prese» [Catturi, 2003, p. 545] costituisce un elemento determinante nell’individua-
zione dei confini dell’autonomia decisionale 30.
Nei gruppi tale binomio appare di fondamentale importanza, in quanto se da un lato vi è
la necessità di raggiungere l’effetto sinergico attraverso l’attività di direzione e coordinamento
delle controllate, dall’altro ci potrebbe essere la tendenza a rendere autonome (anche solo in
apparenza) tali società per esonerare la holding da responsabilità [Di Carlo, 2014].
3.5. Economicità
Le aziende, si è detto, svolgono un’attività economica volta a produrre beni e servizi per
soddisfare bisogni, in una situazione di scarsità di risorse e di incertezza. L’«aspetto econo-
mico è fondamentale e sempre rilevante nei giudizi di convenienza; e non può essere mai
dimenticato in concreto» [Onida, 1971, p. 56]. Esso impone che le aziende «siano costituite
28 «La soggettività giuridica frazionata rafforza il principio di una responsabilità localizzata nelle diverse società che com-
pongono il gruppo, a valere soprattutto in extremis nelle situazioni di deterioramento dell’economicità della gestione o di
squilibri finanziari ad esse riferibili, ma che trova continuo presidio e garanzia negli organi preposti, in ciascuna impresa,
alla tutela di tale soggettività» [Lai, 2004, pp. 204-205, il corsivo è del testo originale].
29 Il riferimento è l’art. 2497 e ss. del codice civile relativo alla responsabilità da attività di direzione e coordinamento
da parte della controllante. Sulle relazioni tra area di responsabilità ex art. 2497 e area di consolidamento si veda Di Carlo
[2009].
30 In generale se un soggetto interferisce nelle scelte di un altro, quest’ultimo non può essere ritenuto totalmente re-
sponsabile dei risultati dell’attività svolta. Se un’azienda contatta un docente per soddisfare un certo fabbisogno formativo,
essa può tutt’al più indicare al docente qual è l’obiettivo che essa intende raggiungere, ma non deve interferire su come il
corso deve essere tenuto. Indirizzare anche il come fare lezione esonera di fatto il docente dalla riuscita del corso.
31 Il fine aziendale potrebbe essere, ad esempio, quello di aumentare il valore di borsa dell’azienda, di incrementare
l’utile di periodo, di aumentare il fatturato, di mantenere il posto dei dipendenti, di garantire la sopravvivenza e lo sviluppo
dell’azienda.
32 Si immagini, ad esempio, un’azienda che si pone due fini: massimizzare il reddito di periodo e massimizzare il reddito
di lungo periodo. Cosa dovrebbe scegliere il manager posto di fronte ad una scelta (es. investimenti in ricerca e sviluppo) in
cui la massimizzazione del reddito di periodo può avvenire solo a condizione che sia sacrificato il reddito di lungo periodo,
ossia quando breve e lungo periodo entrano in trade-off?
33 Si è in linea con l’impostazione di Hofer e Schendel che scrivono: «Nella letteratura manageriale i termini fini e
obiettivi sono talvolta distinti e talaltra utilizzati come sinonimi. In questa trattazione i fini sono intesi come gli scopi o
finalità generali di ultima istanza perseguiti a lungo termine da un individuo o da una organizzazione, mentre gli obiettivi si
intendono i traguardi di medio termine necessari, ma non sufficienti, al raggiungimento dei fini. Discende da questa defini-
zione che i fini non sono realizzabili poiché non delineati in modo specifico. Ad esempio, non sarà mai possibile massimiz-
zare il profitto, poiché vi sarà sempre qualche opportunità di guadagno che poteva essere colta e che invece è stata mancata.
Analogamente, non è raggiungibile la “sopravvivenza”, poiché nel futuro esiste sempre la possibilità di fallimento e cessa-
zione dell’attività. Nel loro insieme, comunque, i fini rispecchiano lo scopo (o missione) dell’azienda» [1978, p. 43].
economici (es. riduzione delle emissioni dannose, aumento della sicurezza sul posto di lavoro)
così definiti, questi ultimi, perché hanno natura etica e, in quanto tali, sono obiettivi di svi-
luppo sostenibile. A ben vedere, però, gli obiettivi extra-economici sono talvolta strumentali
al raggiungimento di quelli economici, nel senso che tener conto dei primi consente di mi-
gliorare anche il raggiungimento dei secondi [Coda, 2012, p. 81]. Si pensi, ad esempio, alla
riduzione del consumo di acqua e carta dovuta alla tutela dell’ambiente che determina altresì
un risparmio di costi 34.
Nella Tav. 2 è espressa la relazione tra obiettivi 35, indicatori e risultati con riferimento ad
un’impresa, in un’ipotesi in cui l’economicità include sia obiettivi economici (es. espansione
delle vendite) che extra-economici (ovvero non finanziari, es. riduzione di emissioni di Co2).
Si vuole rilevare che taluni obiettivi extra-economici non sempre possono essere agevol-
mente catturati dagli indicatori e pur avendo effetti sui risultati economici tali effetti sono
talvolta difficili da misurare 36. In alcuni casi gli obiettivi non economici, pur non avendo
effetti sulle performance aziendali, possono avere effetti difficilmente misurabili sulla
Ne consegue che se la fissazione degli obiettivi extra-economici è strumentale al miglioramento delle condizioni
34
etici aziendali. Il rischio è che tali obiettivi non siano ritenuti rilevanti a causa della difficoltà nel misurarli. Si pensi, ad
esempio, al venditore che inganna il cliente, raggiungendo l’obiettivo economico dei ricavi ma non quello extra-economico
della lealtà nei confronti di quest’ultimo. Ancora, un obiettivo non economico può essere quello di favorire lo sviluppo
integrale del dipendente, dal punto di vista sociale, spirituale e morale.
collettività. Ne consegue che tali obiettivi diventano rilevanti solo quando il finalismo azien-
dale include anche aspetti legati al benessere collettivo.
In generale, considerare anche l’aspetto etico nella conduzione dell’attività economica può
derivare da due approcci: uno strumentale, l’altro cosiddetto normativo. Il primo è quello
appena richiamato, mentre il secondo riguarda la necessità di porsi obiettivi extra-economici
semplicemente perché eticamente è la cosa più giusta da fare.
Quando l’economicità poggia su un fine che richiede anche il conseguimento di obiettivi
extra-economici (o di sostenibilità), essa deve avere come risultato non solo l’equilibrio eco-
nomico a valere nel tempo, ma anche la sua sostenibilità etico-sociale e ambientale 37. Peral-
tro, equilibrio economico e sostenibilità potrebbero essere strettamente interrelati. Il condi-
zionale è d’obbligo in quanto talune forze interne ed esterne all’azienda potrebbero rendere
incompatibile la durabilità con la socialità. Il riferimento è a quelle situazioni che, soprattutto
in alcuni contesti, vedono imprese irresponsabili (o addirittura criminali) avere più durabilità,
ovvero migliori condizioni di equilibrio economico, rispetto a quelle che tengono comporta-
menti corretti.
Oltre all’efficacia il carattere dell’economicità richiede che la produzione sia realizzata con
efficienza (secondo aspetto dell’economicità), ossia minimizzando, per quanto possibile, l’uti-
lizzo dei fattori impiegati nell’attività produttiva e il costo sostenuto per la loro acquisizione.
Un’impresa automobilistica, efficace dal punto di vista strategico in quanto produce un
modello di automobile che incontra il gradimento dei clienti, se non opera con efficienza
rischia di dover collocare la sua produzione sul mercato sotto costo e, quindi, di non remu-
nerare congruamente i fattori produttivi impiegati, ovvero di vendere ad un prezzo che sco-
raggia l’acquisto delle stesse. Il mercato, in tal caso, tende ad escludere tale unità produttiva,
qualora non riesca a recuperare efficienza.
Al pari dell’efficacia anche l’efficienza risente del fine aziendale. Se il fine è la massimizzazione
del profitto di breve periodo, una tensione eccessiva verso la contrazione dei costi potrebbe
portare l’impresa a non essere efficace nel raggiungimento dei suoi obiettivi di medio/lungo
termine, minando la sua stessa durabilità. Si pensi, ad esempio, ad una compagnia aerea che
per risparmiare taglia sui costi di formazione del personale o sui controlli. Se si sceglie un
fine aziendale sostenibile, l’efficienza, al pari dell’efficacia, deve tendere alla sostenibilità; l’azienda deve
cioè essere in grado di rispettare adeguati livelli qualitativi del proprio prodotto, condizioni
di lavoro accettabili per i suoi dipendenti, nonché comportamenti responsabili nei confronti
degli altri stakeholder.
3.6. Efficacia, razionalità limitata e dilemmi etici. Dalle scelte ottimali alle scelte soddisfacenti
L’efficacia, si è detto, deve far tendere l’azienda verso la scelta di obiettivi vincenti 38, che
siano cioè in grado di raggiungere il fine aziendale.
Considerata la complessità del sistema aziendale e la razionalità limitata degli individui
dovuta ai loro limiti cognitivi [March e Simon, 1958], è impensabile che tra le varie scelte
37 «[…] fondamento dell’azienda è l’economicità, senza la quale vengono meno gli stessi presupposti della sua esistenza.
Mediante l’economicità l’azienda è in grado di soddisfare non soltanto le proprie esigenze generali e particolari, ma anche
qualsiasi altro tipo di esigenza: sociale, politica, umanitaria, assistenziale, sportiva, religiosa, familiare, sanitaria, culturale,
individuale, etica, ecc.» [Bertini, 2006, p. 35]. A ben vedere, tali ulteriori esigenze sono soddisfatte solo se l’economicità è
applicata ad un fine che consideri sia l’aspetto economico che extra-economico.
38 Non è detto che gli obiettivi siano sempre vincenti. Si pensi, ad esempio, all’obiettivo di realizzare un
certo modello di automobile, che tuttavia non incontra le attese dei consumatori, ovvero un’amministrazione
pubblica che offre un servizio non necessario alla collettività. Dunque, raggiungere un obiettivo non vincente
non significa aver operato con economicità.
disponibili si riesca sempre ad individuare quell’unica alternativa che risulti ottimale per il
raggiungimento del fine. Ciò significherebbe avere perfetta conoscenza dell’effetto che una
certa operazione può avere sul raggiungimento del fine aziendale. Tutt’al più la scelta può essere
considerata la più soddisfacente tra quelle possibili, avendo riguardo sia ai limiti cognitivi dei soggetti
chiamati a decidere, sia all’incertezza sugli effetti di tale scelta sulle condizioni di equilibrio a
valere nel tempo [Santesso, 2010].
Caso a parte è quello del soggetto decisore che si trova di fronte ad un dilemma etico,
ossia ad un evento critico che impone una scelta con più opzioni, tutte eticamente corrette (“giusto” vs.
“giusto”), ma in conflitto tra loro, e la scelta di una qualsiasi di queste opzioni ha implicazioni negative su
taluni individui, l’azienda (quindi su tutti i suoi stakeholder) o la collettività [Kidder, 1995; Loe et
al., 2000; McDevitt et al., 2007; Treviño, 1986]. Nella definizione l’evento viene definito critico
proprio in quanto impone una scelta con più opzioni, tutte eticamente corrette ma tra loro in conflitto 39.
La presenza di un evento critico, in assenza di possibilità di scelta, ovvero di scelta obbligata,
esclude automaticamente che si possa parlare di dilemma etico.
Dunque, nel dilemma etico occorre stabilire quale sia l’opzione eticamente più giusta tra
quelle disponibili. Il dilemma etico comporta senza dubbio una scelta difficile, ma non tutte
le scelte difficili sono dilemmi etici. Infatti, è la ricaduta etica, in particolare le conseguenze
sugli individui, a consentire di distinguere il dilemma da una scelta difficile. Quest’ultima si
presenta quando, nel paragonare due opzioni, la prima è migliore per alcuni versi mentre la
seconda è migliore per altri [Chung, 2002, p. 650] 40. Per definizione, il dilemma etico non ha una
soluzione migliore in assoluto, giacché tutte le opzioni perseguono principi giusti, ma ne impat-
tano negativamente altri.
Ne consegue che talune scelte aziendali non potranno mai essere ottimali, non solo perché
la razionalità degli individui è limitata, ma anche perché talvolta le opzioni alternative sono
tutte giuste in termini di effetto sugli individui 41. Si rammenta che proprio la componente
umana è uno dei fattori che alimenta la complessità e l’indeterminismo dell’azienda.
Agganciare il criterio dell’economicità ad un fine aziendale chiaro e univoco, consente
senza dubbio di ridurre il numero di alternative, ovvero di interessi in competizione, e di
gestire più agevolmente i dilemmi etici 42.
39 Ad esempio, «è giusto ricorrere ad una menzogna per evitare un disastro? O fare esperimenti nocivi, ed
a volte letali, su un uomo per salvare le generazioni future? O clonare una persona per ottenere organi e così
curarne molte altre? O punire un innocente, scelto come capro espiatorio, per la salvezza del popolo? […]»
[Lodovici, 2004, IX].
40 La scelta di un individuo di fronte a due modelli di automobili può essere una scelta difficile, ma non è
un dilemma etico. Infatti, è la ricaduta etica, la questione morale connessa agli effetti sugli individui, a consentire
di distinguere il dilemma etico nell’ambito delle scelte difficili.
41 In letteratura sono stati proposti diversi modelli decisionali per la gestione dei dilemmi etici. Tali modelli
sono di fatto connessi al carattere aziendale dell’economicità, in quanto il metodo di azione che impone l’effi-
cace ed efficiente gestione, viene ad includere anche la variabile etica. Mentre alcuni modelli sono generici in
quanto applicabili a qualsiasi tipo di organizzazione [Jones, 1991; Treviño, 1986], altri sono specifici, riferendosi
a settori di attività, ad esempio il settore privato [McDevitt et al., 2006] rispetto al pubblico [Ehrich et al., 2004],
ovvero alle professioni, ad esempio quella di infermiere [Park, 2011]. I modelli specifici normalmente adattano
i modelli generici alle caratteristiche assunte dal contesto in cui questi ultimi devono essere applicati. La carat-
teristica dei modelli è di prevedere una serie di step distinti che consentono al processo decisionale del soggetto
posto di fronte al dilemma di scegliere l’azione più appropriata, ossia di prendere in seria considerazione l’evento critico,
come pure di avere tutti gli elementi per spiegare ad altri la scelta (es. al pubblico, ai colleghi).
42 In proposito, si rileva che la teoria di creazione di valore per gli stakeholder (Cap. II, § Errore. L'origine
riferimento non è stata trovata.) porta ad un ventaglio di alternative molto più esteso rispetto alla teoria di
creazione di valore per i soli azionisti (Cap. II, § Errore. L'origine riferimento non è stata trovata.) e, dun-
que, ad un processo decisionale, guidato dal principio di economicità, che potrebbe risultare troppo complesso,
a scapito della durabilità aziendale. Qualora il manager dovesse trovarsi di fronte ad una scelta del tipo “share-
holder vs stakeholder” oppure “shareholder vs collettività”, la shareholder theory suggerisce comunque, seguendo
un approccio utilitaristico, di fare l’interesse dell’azionista, in quanto a lungo andare questa sarebbe la migliore
soluzione tra quelle possibili, anche nell’interesse della collettività.
Dunque anche le aziende, al pari degli individui, possono avere interessi. L’interesse primario
vuole essere derivato dalla natura e dalla funzione dell’azienda nella società. Esso è ciò che la collettività
si aspetta dall’azienda e, per tale motivo, quando perseguito consente di armonizzare gli
obiettivi degli individui, dell’azienda e della collettività. L’interesse primario è quindi un inte-
resse pubblicistico che per sua natura non è negoziabile, ed è quindi legittimo e indisponibile.
Stakeholder e collettività hanno il dovere di favorire il perseguimento di tale bene.
Peraltro, il concetto di interesse con riferimento all’azienda porta a considerare anche i
doveri e la convenienza che gli stakeholder hanno nel soddisfare tale interesse. Si può cioè
affermare che l’azienda è strumentale al soddisfacimento degli interessi dei suoi stakeholder
(non solo quindi del soggetto economico), come pure questi ultimi sono strumentali
all’interesse della prima. Se gli stakeholder favoriscono l’interesse dell’azienda, essa meglio
servirà i loro interessi e, indirettamente, gli interessi della più ampia collettività. L’azienda, al
pari di un qualsiasi individuo, non ha solo doveri ma anche diritti. Un qualsiasi stakeholder che con-
sideri l’azienda come strumentale ai suoi interessi deve tener conto che la sua irresponsabilità
può generare danni all’azienda stessa e ad altri stakeholder (e talvolta anche a se stesso). Af-
fermare che gli stakeholder sono strumentali all’interesse aziendale consente di capire quando i loro
interessi particolari divengono secondari rispetto a quello primario dell’azienda e, quindi, di
studiarne le devianze patologiche per tutelare il bene dell’azienda.
L’utilizzo del termine “tende” nella definizione di azienda vuole invece indicare che la reale
capacità dell’istituto aziendale di soddisfare i bisogni e creare valore sostenibile (ossia servire il bene comune)
può presentare diverse gradazioni, a seconda dell’influenza esercitata dalle forze interne (es. assetti
proprietari e di governo, etica imprenditoriale) e esterne (es. pressione competitiva, regola-
mentazione), esaminate nel capitolo precedente. L’interesse primario è cioè un criterio che
consente di scegliere quali forze accogliere e quali, invece, neutralizzare o eliminare. Tali forze,
infatti, possono favorire o ostacolare la tensione dell’azienda verso il suo interesse primario.
Il livello ottimale raggiunto dall’interesse primario aziendale è quello che, attraverso un criterio di econo-
micità che tiene conto delle forze interne ed esterne all’azienda, porta alla migliore composizione (o equilibrio)
di obiettivi economici ed extra-economici per la durabilità del sistema aziendale, nonché per consentire
all’azienda stessa di essere un bene comune per i suoi stakeholder e per la collettività. Tale livello (o equi-
librio) deve sempre intendersi in modo dinamico ed evolutivo e deve derivare da uno sforzo
massimo volto a perseguire il bene comune. In altri termini, non si chiede di massimizzare
un risultato, ma l’impegno volto al raggiungimento dello stesso.
5. Classificazione delle aziende a seconda dei rapporti che instaurano con il mercato di riferimento e del loro
interesse primario
come viene raggiunto l’equilibrio economico, ma anche come lo stesso viene misurato, ossia
quali sono le concrete possibilità di verificare il valore creato 43.
Peraltro, il fatto di essere caratterizzate dalla presenza di soggetti economici portatori di
interessi particolari diversi (es. profitto nelle imprese, scopi politico-sociali nelle amministra-
zioni pubbliche), potrebbe far allontanare il governo e la gestione di tali aziende dall’interesse
primario prospettato, interferendo sui caratteri di aziendalità e sulla verifica degli equilibri di
tali economie. Ciò accade quando l’interesse particolare del soggetto economico tende a pre-
valere, offuscando la funzione produttiva dell’azienda e la necessità della stessa di sopravvi-
vere e svilupparsi.
Si pensi alla struttura ospedaliera privata che pone il profitto come prioritario rispetto al
bisogno di salute dei pazienti. In una tale situazione, qualora si dovesse porre un dilemma tra
interesse al profitto e quello del paziente (impiantare una valvola già acquistata che rischia di
essere difettosa, oppure acquistarne una nuova? Consigliare un intervento chirurgico non
necessario?), ci sarebbe un rischio elevato di favorire il primo. Nella struttura ospedaliera
pubblica il rischio è, ad esempio, che medici corrotti dal denaro favoriscano il loro interesse
(ad esempio, incrementando le prescrizioni di farmaci prodotti da imprese farmaceutiche
corruttrici) a danno del sistema sanitario nazionale (per le medicine rimborsabili) e della salute
del paziente. Nell’ospedale filantropico e in quello costituito dagli associati, il rischio è che
gli organi di gestione si approprino delle risorse ottenute da terze economie.
Si può anche affermare che nella realtà le aziende tendono ad esprimere gli interessi particolari, e
talvolta temporanei, assegnati dalle persone che le governano e gestiscono. Misurare l’eventuale
disallineamento tra tali interessi particolari e l’interesse primario prospettato consente di valu-
tare, tra l’altro, il grado di partecipazione dell’azienda al bene comune.
Pertanto, specificare i contenuti dell’interesse primario nelle diverse classi di aziende ha,
tra l’altro, il fine di chiarire: 1) che tutte le aziende sono orientate a soddisfare i bisogni; 2)
come viene raggiunto l’equilibrio economico e come lo stesso viene misurato, quindi le con-
crete possibilità di verificare il valore creato; 3) la natura, la direzione e l’intensità delle forze
interne ed esterne che favoriscono o ostacolano il raggiungimento dell’interesse primario; 4)
gli effetti della diffusione di una cultura basata sull’interesse primario, come alternativa a
quanto finora proposto in letteratura e nella pratica.
Dunque, dopo aver proposto un criterio di classificazione delle aziende utile alla finalità
da raggiungere, sarà specificato, per ciascuna classe, il concetto di interesse primario.
In letteratura le organizzazioni produttive sono generalmente distinte in private, pubbli-
che e non-profit. Il confine tra queste tre diverse classi non è sempre così netto, venendo a
dipendere dal fine dell’analisi che si intende condurre. Individuati i confini delle tre classi, è
possibile poi analizzarne le similitudini e le differenze.
43 In proposito, sembra utile richiamare Capaldo [2013, pp. 38-39], che presenta un esempio di quattro
strutture ospedaliere, sostanzialmente identiche per quanto riguarda i bisogni soddisfatti e la necessità di coprire
i costi di produzione, ma facenti capo a soggetti economici diversi: la prima fa capo ad una impresa che, per-
tanto, deve trovare le sue condizioni di sopravvivenza sul mercato attraverso un flusso di ricavi che sia in grado
di reintegrare i costi al fine di liberare un certo margine di profitto per chi ha investito capitale di proprietà; la
seconda ad un’istituzione filantropica che cura gratuitamente le persone individuate facendo riferimento a spe-
cifici criteri, e per la copertura dei costi si avvarrà dei fondi forniti da persone che ne condividono la missione;
la terza ad un’associazione che ha costituito l’ospedale per curare i propri associati i quali si impegnano a versare
quanto necessario a coprire i costi di struttura; la quarta allo Stato o ad un ente pubblico territoriale che in parte
copre i costi con le risorse provenienti dai pazienti, in parte attraverso risorse pubbliche. A ben vedere, in tutte
le strutture, la copertura dei costi non può che essere motivata dal soddisfacimento dei bisogni accompagnato
da un valore della produzione realizzata superiore, appunto, ai costi necessari a realizzarla.
In questo scritto si utilizza una classificazione delle aziende che si basa sui rapporti che esse
instaurano con il mercato di riferimento (Tav. 4) e che distingue le aziende di produzione per il mercato,
dette anche imprese, da quelle che producono per l’erogazione.
Tav. 4 – Classificazione delle aziende a seconda dei rapporti che instaurano con il mercato di riferimento e
del loro interesse primario aziendale
La prima categoria comprende sia le imprese con soggetto economico privato che pub-
blico, mentre la seconda include le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni (private)
non-profit (es. associazioni, fondazioni).
Sulla differenza tra associazioni e fondazioni si rinvia allo studio della seguente
pagina web: https://www.differenzatra.it/differenza-tra-associazione-e-fonda-
zione/
essere orientate: entrambe hanno (o devono tendere ad avere) visione sistemica, autonomia
decisionale ed economicità, entrambe devono essere governate per produrre beni e servizi
utili a soddisfare i bisogni e creare valore sostenibile.
Dunque, la classificazione proposta nella Tav. 4 si distingue anche da quella che vede le
imprese operare con il fine del profitto (for-profit organizations) e le altre aziende con fini diversi
(es. benessere della collettività, filantropia). Infatti, la teoria dell’interesse primario non con-
sidera il profitto come fine aziendale bensì come una condizione da rispettare per garantire
continuità e sviluppo dell’impresa e come scopo del soggetto economico, il motivo principale
(ma non sempre l’unico) per cui egli si prodiga per soddisfare i bisogni.
Seguendo la classificazione contenuta nella Tav. 4, tutte le aziende, in quanto organizzazioni
produttive, producono (in senso economico) – trasformano cioè beni disponibili (input) in beni
di qualità superiore idonei a soddisfare i bisogni (output). Tale impostazione si fonda su un
concetto ampio di produzione, svincolato dal fatto che la produzione si compia per lo scambio sul mercato.
Pertanto, anche le aziende che non scambiano sul mercato bensì cedono (erogano) beni e/o
servizi, talvolta senza alcun corrispettivo, sono da considerare aziende di produzione.
Solo confrontando il valore dell’output venduto/erogato (ceduto gratuitamente) con
quello dell’input dei fattori impiegati per la sua produzione è possibile stabilire se l’azienda
soddisfa i bisogni per cui è stata istituita creando altresì valore. I due momenti, quello pro-
duttivo e quello erogativo, sono quindi posti sullo stesso piano e, anzi, nelle aziende di pro-
duzione per l’erogazione è agevole osservare che l’attività di produzione di beni e servizi
prevale largamente sulla logica erogativa che attiene esclusivamente alle modalità di cessione
del prodotto.
Tale impostazione consente da un lato di interpretare l’attività economica di tutte le aziende come
fenomeno di produzione di valore e, dall’altro, di superare la tradizionale distinzione tra aziende
che producono e aziende che consumano (o di erogazione), in relazione alla prevalenza
dell’attività svolta. In aggiunta, dare rilievo anche nelle amministrazioni pubbliche all’attività
di produzione porta a considerare tali organizzazioni non solo come uno strumento per sod-
disfare i bisogni della collettività, ma anche come entità distinte che vantano diritti verso gli
stakeholder (in primis organi di governance, manager e dipendenti) i quali, operando con eco-
nomicità, hanno appunto il dovere di fornire il loro contributo alla creazione di valore soste-
nibile.
Per questi motivi, nella Tav. 4 anziché distinguere le unità di produzione da quelle di
erogazione, si è preferito parlare di aziende di produzione, per il mercato o per l’erogazione.
A ben vedere, la classificazione proposta nella Tav. 4 non fa differenza tra finalità espresse dalle
aziende aventi un soggetto economico che ha come scopo il perseguimento del profitto rispetto al soggetto econo-
mico orientato al benessere della collettività. Imprese e aziende di produzione per l’erogazione, in-
fatti, hanno lo stesso fine, ossia il soddisfacimento dei bisogni, mentre a cambiare è il tipo di
condizione di sopravvivenza e sviluppo. Nelle prime la creazione di valore sostenibile viene
tradotta con il termine profitto sostenibile, mentre nelle seconde con valore d’uso sostenibile.
Per fare un esempio, un ospedale pubblico e una clinica privata non dovrebbero avere fini
diversi, ossia il primo operare per l’interesse del paziente mentre la seconda per quello del
proprietario, con la speranza (talvolta vana) che quest’ultimo veda sempre nel soddisfaci-
mento dei bisogni del paziente il modo migliore per fare il proprio tornaconto. Entrambe le
aziende, infatti, devono soddisfare lo stesso bisogno, ossia la salute del paziente. Sicuramente
esse possono essere distinte con riferimento al motivo che ha portato il soggetto economico
ad essere interessato a soddisfare il bisogno anzidetto, ma questo è, appunto, l’interesse di
tale soggetto, non dell’azienda. Un fine che guardi alla sola massimizzazione del profitto, o
al risparmio dei costi nel caso di un’amministrazione pubblica, potrebbe portare a scelte che,
oltre a danneggiare la salute del paziente minano la durabilità della stessa azienda.
La condizione di creazione di valore – per ora si prescinde dalla sua sostenibilità etico-
sociale e ambientale – cui tutte le aziende, nel soddisfare i bisogni umani, devono tendere,
può essere riassunta attraverso la condizione di equilibrio economico a valere nel tempo, contenuta
nella Tav. 5 [Cavalieri e Ferraris Franceschi, 2008, p. 218].
Tale condizione richiede che l’utilità generata (ossia il valore economico della produzione
da collocare sui mercati di sbocco o da cedere agli utilizzatori – vpt) sia sistematicamente
superiore a quella consumata (ossia al valore dei fattori che vengono consumati nel processo
produttivo – vft); la differenza rappresenta appunto il maggior valore creato dall’attività
aziendale (v).
Tav. 5 – Condizione di creazione di valore (o equilibrio economico) valida per tutte le classi di aziende
"! "!
! vp! = 𝑣 + ! vf !
!#"" !#""
dove:
vpt = valore della produzione realizzata nell’arco di tempo di riferimento;
vft = valore dei fattori consumati per alimentare la produzione (realizzata nell’arco di tempo di
riferimento);
v = nuovo valore creato dall’attività dell’organizzazione produttiva
t0-tz = intero arco di vita dell’azienda
Tale condizione, si sottolinea, è valida per tutte le aziende. In proposito, Coda scrive che
«qualsiasi ente produttivo (profit o non-profit, pubblico o privato, esposto o meno alla concor-
renza di mercato) è tenuto a produrre un output di valore superiore al costo degli input
impiegati e, quindi, a produrre ricchezza (ancorché essa possa essere di difficile misurazione)»
[2010, p. 27]. La condizione di equilibrio economico, osserva Capaldo, «è fondamentale con-
dizione di vita di qualunque azienda» [2013, p. 63].
44 In proposito, si riportano le parole del noto gangster Al Capone: «Hell, it’s a business [...] All I do is supply a
public demand. I do it in the best and least harmful way I can. I can’t change the conditions. I just meet them without backing up.
[...] Nobody wanted Prohibition. This town [Chicago a/n] voted six to one against it. Somebody had to throw some liquor on that
thirst. Why not me? […] I’m a businessman. I’ve made my money supplying a popular demand. If I break the law, my customers
are as guilty as I am» [Levell e Helmer, 1990].
La Tav. 6 classifica le imprese in responsabili, irresponsabili e criminali, sulla base del loro
modello di business, ossia del come produrre. Quelle irresponsabili includono quelle non
etiche e illegali.
È irresponsabile quell’impresa che «al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non
dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito
alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività» [Gallino, 2005,
p. VII]. L’impresa irresponsabile non serve il bene comune, bensì si pone in contrasto con esso,
è cioè un male comune.
È, invece, criminale quell’entità che ha un “come” produrre caratterizzato da pratiche non
solo illegali (es. violenza e/o intimidazione), ma che conduce la sua attività attraverso la cor-
ruzione o il collegamento con organizzazioni criminali [Conzo e Vona, 2014; Fantò, 1999].
La corruzione è il primo strumento delle organizzazioni, mentre la violenza e l’intimidazione
subentrano solo quando il denaro non è sufficiente.
Sono criminali, ad esempio, quelle imprese che riescono a vincere la competizione obbli-
gando taluni clienti (es. altre imprese o amministrazioni pubbliche) ad acquistare solo i loro
prodotti. Ciò non solo limita la concorrenza, ma quand’anche la produzione di dette imprese
avesse un valore più elevato dei fattori consumati, non si può di certo affermare che esse
creino valore sostenibile. Quest’ultima affermazione tiene solo se si assegna all’impresa un
interesse primario che sia appunto sostenibile, ossia se ad essa si chiede di creare un valore
che possa contribuire, tra l’altro, al bene comune, non un fine che guardi alla sola massimiz-
zazione del profitto.
Altro caso è quello delle imprese che hackerano i pc di individui e organizzazioni con lo
scopo di chiedere un riscatto. In tal caso, viene creato il bisogno di riavere i propri dati e tale
bisogno viene appunto soddisfatto con la richiesta di un riscatto, spesso attraverso le cripto-
valute.
Pertanto, per le imprese in questione il perché produrre non è il soddisfacimento dei bi-
sogni, visto che non è da questo che trovano la loro condizione di durabilità, giacché i clienti
sono obbligati, con violenza e/o intimidazione, ad acquistare i loro prodotti. Tali imprese,
quindi, non solo non creano valore, ma non soddisfano nemmeno bisogni.
Impresa criminale è anche quella che si serve di denaro “sporco” riciclato. Richiamando
il framework internazionale del modello di business pubblicato dall’International Integrated
Reporting Council (IIRC), in questo caso il modello delle imprese criminali, con riferimento
ai capitali finanziari, è caratterizzato dalla raccolta di denaro riciclato e poi investito nell’atti-
vità produttiva 45. Questo aspetto è di particolare importanza in quanto, non solo tali orga-
nizzazioni sono soggetti ambigui che sei confondono con quelle che operano nell’ambito
della legalità, ma rispetto ad esse hanno un vantaggio in quanto non devono acquisire risorse
finanziarie dal sistema finanziario pagandone un costo. Anche per questo motivo, rimuovono
la concorrenza ottenendo un vantaggio competitivo. Agli occhi degli stakeholder, le migliori
condizioni di equilibrio che mostrano queste organizzazioni, le rendono più credibili.
L’impresa criminale non è poi solo quella che ha un oggetto, un cosa produrre illegale (es.
droghe, giochi d’azzardo clandestini), ma anche quella che ha un come produrre, un modello
di business criminale [Wood e Da Costa, 2015]. In questo caso, quindi, il criterio di econo-
micità, comunque riscontrabile anche nella conduzione di tali imprese, conduce verso obiet-
tivi da raggiungere in modo illegale (es. estorsione) 46.
Sulla base del tipo di prodotto realizzato, tutte le imprese, anche quelle responsabili, pos-
sono avere un oggetto, ossia un cosa produrre, etico o non etico.
Le imprese con oggetto non etico sono quelle che operano nelle cosiddette controversial
industries 47, così definite in quanto soddisfano bisogni leciti, in quanto non vietati dalla legge,
ma criticabili dal punto di vista etico. Proprio queste aziende non possono soddisfare i biso-
gni prescindendo da una creazione di valore sostenibile [Cai et al., 2012], visto che le
45 «Il riciclaggio del denaro sporco è un fenomeno che altera le regole di mercato e della libera concorrenza.
Infatti, è noto che l’imprenditore mafioso o criminale scaccia l’imprenditore onesto dal mercato. Quest’ultimo
per svolgere la sua attività e per realizzare degli investimenti deve rivolgersi ad una banca o ad una società
finanziaria alla quale dovrà chiedere un prestito. Per ottenere il denaro necessario l’imprenditore onesto deve
offrire delle garanzie e sui soldi prestati dovrà pagare un tasso di interesse per una durata temporale prestabilita.
Al contrario, l’imprenditore mafioso o criminale dispone di ingenti risorse finanziarie, frutto di attività illecite,
sulle quali non deve pagare alcun interesse e non deve offrire alcuna garanzia. Si tenga, inoltre, presente che a
differenza dell’imprenditore onesto l’imprenditore mafioso o criminale regola i rapporti con il mondo esterno
ricorrendo, o minacciando di ricorrere, alla violenza» [www.camera.it].
46 In proposito Fantò, riferendosi all’impresa mafiosa, sostiene che essa «rimarrà sempre legata ai fattori
criminogeni da cui è originata, ma ciò non toglie che essa svolga attività produttive lecite e che operi all’interno
dei mercati legali. Si può definire questo tipo di impresa mafiosa l’unità economica che trae origine (e viene in
parte alimentata) da un capitale frutto, in tutto o in parte, di attività di natura criminale, che ha lo scopo di
produrre e/o scambiare servizi e beni leciti, che opera nei mercati ufficiali con modalità formalmente ufficiali
o anche apertamente illegali, ma la cui forza competitiva essenziale è in ogni caso costituita dalla forza di inti-
midazione dell’associazione a cui appartiene il proprietario reale di tale unità economica, comunque e da chiun-
que essa sia formalmente diretta e gestita» [1999, p. 39].
47 Rientrano in questa categoria le imprese che si occupano di giochi d’azzardo, pornografia, produzione e
commercializzazione di alcolici, tabacco, armi, pellicce, sperimentazione sugli animali. Wilson e West furono i
primi due autori a fornire una definizione del termine anglosassone “controversial” come «prodotti, servizi o
concetti che per ragioni di delicatezza, decenza, moralità o addirittura per paura suscitano disgusto, offesa od
oltraggio qualora menzionati o presentati apertamente» [1981]. Lindorff et al. [2012] giustificano l’esistenza delle
controversial industries attraverso la teoria dell’utilitarismo, dottrina filosofica di natura etica per la quale è “bene”,
o “giusto”, ciò che aumenta la felicità degli esseri sensibili. Si definisce perciò “utilità” la misura della felicità di
un essere sensibile. Anche le controversial industries, quindi, potendo incrementare la felicità degli individui, tro-
vano legittimazione.
esternalità negative generate sulla collettività potrebbero essere molto elevate. Tali attività
sono tollerate dal legislatore in quanto il loro esercizio in forma regolamentata è preferibile
rispetto alla fornitura illegale e, quindi, fuori controllo. Questa preferenza viene a dipendere
dall’effetto netto delle conseguenze positive e negative prodotte da tali attività sul benessere
collettivo.
Una società che opera nel settore delle lotterie, ad esempio, può anche affermare di voler
soddisfare il bisogno fisiologico di gioco, ma deve contribuire ad evitare che questo bisogno
si trasformi in ludopatia, generando costi sociali inaccettabili. Dovrebbe quindi sensibilizzare
sui possibili danni generati dal gioco irresponsabile, nonché realizzare sistemi che non con-
sentano al giocatore di scommettere oltre un certo limite. Questa limitazione della libertà
dell’individuo si giustifica solo con l’interesse generale prevalente 48.
Un’azienda, quindi, può avere un oggetto etico (es. produzione di biancheria) ma essere
irresponsabile, poiché non rispetta la legge e non tiene comportamenti etici nei confronti dei
suoi stakeholder, come pure un’azienda con un oggetto non etico può rispettare la legge e
farsi carico di responsabilità etico-sociale e ambientali, come appunto quella che opera nel
settore delle scommesse promuovendo il gioco responsabile.
La presenza e il successo delle imprese irresponsabili e criminali potrebbe portare le im-
prese che intendono operare nella legalità a non avere durabilità, quand’anche caratterizzate
da un modello di business efficace ed efficiente. Ne consegue che la continuità aziendale
realizzata in modo illegale si pone in contrasto con l’interesse della collettività, in quanto
altera le regole del gioco del mercato. In altri termini è più grave, vista la portata delle conse-
guenze, la situazione che vede l’imprenditore che evade il fisco investire quanto risparmiato
nell’abbassamento dei prezzi dei prodotti della sua azienda, rispetto all’imprenditore che
evade per utilizzare quanto evaso per interessi personali (es. un viaggio di piacere per sé e la
propria famiglia). Nel primo caso, infatti, il suo vantaggio competitivo mette a rischio la so-
pravvivenza delle altre aziende.
Le imprese, private e pubbliche 49, sono quelle unità che realizzano la loro funzione pro-
duttiva operando sul mercato, sia nel momento in cui acquisiscono i fattori produttivi (a
fecondità semplice o ripetuta, materiali o immateriali, risorse finanziarie), sia quando collo-
cano i loro prodotti 50. Esse traggono le ragioni della propria sopravvivenza proprio dalla
48 Chiaro è come questo comportamento, almeno in apparenza, sembri contrastare con la logica del profitto
che guida l’interesse del soggetto economico aziendale. In realtà, costi sociali elevati potrebbero minare la ca-
pacità dell’azienda di sopravvivere nel tempo. Non si può escludere, infatti, che lo Stato possa intervenire, in
momenti successivi, per non rinnovare le concessioni assegnate all’azienda per operare in quel settore, ovvero
attraverso specifiche norme volte ad arginare la diffusione del gioco patologico. In proposito si richiamano gli
interventi di alcuni enti territoriali volti a contrastare lo sviluppo delle slot machine. Un’impresa che opera sul
mercato delle lotterie con il fine esclusivo di massimizzare il profitto per l’azionista, potrebbe quindi distruggere
valore per la collettività e, a lungo andare, minare la sua stessa durabilità, o comunque vedere peggiorate le sue
condizioni di equilibrio. Ne consegue che i limiti interni posti alla massimizzazione del profitto, possono salva-
guardare la profittabilità futura.
49 La differenza tra imprese pubbliche e private risiede nel tipo di soggetto economico [Onida, 1971]. Sono imprese
pubbliche quelle controllate da un soggetto economico pubblico (es. Eni controllata dal Ministero dell’Economia e delle
Finanze e Acea controllata dal Comune di Roma), mentre sono private quelle in cui il soggetto economico è privato (es.
Fiat controllata dalla famiglia Agnelli).
50 In base all’attività svolta, le imprese si possono distinguere, poi, in industriali, commerciali, bancarie e assicurative.
capacità di rialimentare i processi produttivi, mediante le risorse generate dal collocamento dei pro-
dotti sui mercati di sbocco.
Come noto, il mercato di un prodotto è costituito dal complesso della domanda e dell’offerta. Sono
queste le due forze che, incontrandosi, finiscono per determinare il prezzo del prodotto scambiato.
Le situazioni nelle quali si verifica tale fenomeno possono essere diverse ed a ciascuna di esse
corrisponde teoricamente una configurazione di mercato. Quelle tipiche sono la concorrenza
perfetta e le varie forme di concorrenza imperfetta, ossia il monopolio, il monopsonio, l’oligopolio e
la concorrenza monopolistica.
La capacità delle imprese di rialimentare i propri processi produttivi viene sintetizzata
dalla creazione di valore monetario, così definito in quanto si forma attraverso scambi di mercato su base
monetaria. In tale situazione, infatti, la moneta, dispiegando pienamente la sua funzione inter-
mediatrice, rappresenta il valore dei beni e servizi scambiati tra soggetti consapevoli e dispo-
nibili a scambiare 51.
Invero, il valore degli input produttivi è dato dal prodotto tra il prezzo d’acquisto e la quantità
di fattori produttivi acquisiti (i costi), mentre quello degli output dal prodotto tra il prezzo di
vendita e la quantità di prodotti venduti (i ricavi). La domanda si genera quando i clienti sono
disposti a pagare un prezzo per disporre del valore d’uso dei prodotti realizzati.
La differenza tra ricavi e costi di competenza economica del periodo segna l’altezza del reddito, di
periodo appunto, positivo se i ricavi superano i costi (utile d’esercizio), viceversa assume
valore negativo (perdita d’esercizio) 52.
Per tale motivo, la condizione di creazione di valore, di lungo periodo, valida per tutte le
aziende, che impone che il valore dell’output sia superiore al valore dei fattori utilizzati, trova
nelle imprese la determinazione quantitativa contenuta nella Tav. 7 [Amaduzzi, 1978, p. 192
e ss.; Cavalieri e Ferraris Franceschi, 2008, p. 221].
Tale condizione, che esprime l’equilibrio economico con riferimento alle sole imprese, viene forma-
lizzata sinteticamente come differenza positiva, ossia profitto (α) a valere nel tempo, tra flussi
di ricavi e costi.
51 Non sempre il prezzo dei beni e/o servizi prodotti dalle imprese si forma sul mercato. È ad esempio questo il caso
delle società che si trovano ad operare in settori di pubblica utilità e in condizioni di monopolio (es. Terna) e i cui prezzi
sono fissati dalle Autorità. Altro caso è quello delle imprese farmaceutiche dove i prezzi dei farmaci brevettati, che pongono
tali imprese in una situazione di concorrenza monopolistica, sono fissati dall’Autorità a ciò preposta (es. in Italia, dall’AIFA).
Questo in quanto il bisogno che tali imprese sono chiamate a soddisfare è quello primario della salute e la situazione di
concorrenza monopolistica generata dal brevetto, nonché l’asimmetria informativa tra medico e paziente, potrebbero de-
terminare inefficienze di mercato a danno degli utenti.
52 Il valore che l’individuo riconosce ad un prodotto, che si esprime attraverso il prezzo che è disposto a pagare per
averlo, dipende non solo dalla qualità intrinseca del prodotto stesso, ma anche da altre variabili, come, ad esempio, i tempi
e le modalità di consegna, i servizi di assistenza post vendita, e non da ultimo, soprattutto per gli acquirenti sensibili alla
tematica della sostenibilità, delle responsabilità che l’azienda si è assunta dal punto di vista etico/sociale e ambientale. Ben
si comprende, dunque, l’effetto sui ricavi, quindi sulla sopravvivenza dell’impresa, che può generare un consumatore re-
sponsabile.
"! % "! (
𝛼 = 𝑅𝑖𝑐𝑎𝑣𝑖 − 𝐶𝑜𝑠𝑡𝑖
dove:
t = arco di tempo considerato;
α = profitto;
Qk = quantità dei prodotti;
Pk = prezzi di vendita dei prodotti;
QkPk = ricavi di vendita dei prodotti;
fi = quantità dei fattori produttivi;
pi = prezzi di acquisto dei fattori produttivi;
fipi = costi di acquisto dei fattori produttivi.
Fonte: Cavalieri e Ferraris Franceschi, 2008, p. 221
Di conseguenza, nelle imprese l’equilibrio economico riguarda l’autosufficienza economica, ossia l’atti-
tudine a remunerare, attraverso i ricavi, tutti i fattori produttivi utilizzati [Ferrero, 1968, p. 200; Onida,
1971, p. 18], inclusa la proprietà e la funzione imprenditoriale; obiettivo, questo, che viene
raggiunto se l’unità produttiva opera con economicità 53. Le imprese che operano con eco-
nomicità sono, quindi, autonomamente durevoli, nel senso che la loro sopravvivenza e il loro
sviluppo non devono essere garantiti da terze economie.
La mancanza di economicità non sempre determina, però, uno squilibrio economico,
come nel caso delle imprese che si trovano ad operare in una condizione di monopolio.
Nell’economia di tali imprese potrebbero essere «presenti debolezze strategiche e/o ampie
zone di inefficienze operativa. Tali imprese sarebbero destinate a perdere la loro autosuffi-
cienza economica o addirittura a piombare in una situazione di crisi economica irreversibile
qualora tali condizioni esterne venissero a mancare» [Cavalieri e Ferraris Franceschi, 2008, p.
233].
La condizione contenuta nella Tav. 7 deve essere rispettata nel lungo periodo. Ciò ovvia-
mente non significa che il breve periodo non sia importante, bensì che una situazione di squi-
librio momentaneo non pregiudica necessariamente la continuità aziendale, quando deriva da fattori con-
tingenti destinati ad essere assorbiti da una gestione efficace ed efficiente 54. Lo squilibrio di
53 In altri termini, «in una prospettiva di lungo periodo se il flusso dei ricavi riveniente dalla vendita sui mercati di
collocamento di tutti i prodotti (beni e servizi) si delinea superiore al flusso dei costi di acquisto di tutti i fattori produttivi
(comprendendo tra questi ultimi anche l’interesse sul capitale di proprietà e l’eventuale remunerazione al proprietario-lavo-
ratore), si realizzano i presupposti dell’equilibrio economico, identificabile in un soddisfacente flusso atteso di maggior
ricchezza (profitto)» [Cavalieri e Ferraris Franceschi, 2008, pp. 221-222].
54 Come osservato da Onida «L’autosufficienza economica dell’impresa può essere considerata con riferimento a diversi
periodi di tempo, nel breve, nel medio e nel lungo andare […] In connessione al mutevole andamento della congiuntura ed
alla vicenda di esercizi ora favorevoli, ora avversi, una impresa può presentarsi autosufficiente nel medio e nel lungo andare,
nonostante i momenti di squilibrio economico nel breve andare. Al contrario, in date condizioni eccezionalmente favorevoli
ma non durature, una impresa potrebbe risultare per breve tempo profittevole, pur non presentando prospettive di auto-
sufficienza in più lungo andare» [1971, p. 59].
Sul punto Cafferata scrive che «la situazione di squilibrio economico può essere considerata una circostanza nella quale
si viene a trovare non solo l’impresa male amministrata, ma anche l’impresa orientata dal criterio di economicità, che incontri
improvvise sfavorevoli dinamiche ambientali […] temporanea carenza di progettualità di fronte a una innovazione di pro-
dotto introdotta da uno o più concorrenti; oppure ad una crescita del potere contrattuale di clienti o distributori; oppure
breve termine è tanto più gestibile quanto più l’azienda è in equilibrio patrimoniale, presentando
un livello di capitale di proprietà adeguato alla copertura di eventuali perdite temporanee.
Ne consegue che il profitto non è l’utile (o reddito positivo), ossia una differenza positiva tra
ricavi e costi contenuti nel conto economico. Infatti, nell’impresa il profitto si presenta
quando i ricavi remunerano congruamente tutti i fattori della produzione, compreso il capi-
tale di proprietà e la funzione imprenditoriale 55.
Per le imprese il soddisfacimento dei bisogni è una condizione necessaria ma non sufficiente alla soprav-
vivenza e allo sviluppo. Infatti, oltre a soddisfare i bisogni le imprese devono generare profitto
a valere nel tempo.
Ad esempio, se un’impresa realizza un prodotto che soddisfa un bisogno ma presenta una
differenza negativa, nel tempo, tra ricavi e costi del venduto significa che nel soddisfare tale
bisogno essa non crea valore.
Dunque, per le imprese il termine “valore” può essere tradotto con “profitto”. Per questo
motivo la condizione di creazione di valore inclusa nel concetto di interesse primario viene
esplicitata in termini di creazione di profitto.
Innanzitutto si è capito, come mai in passato, il collegamento tra il benessere delle per-
sone, quello delle aziende e quello della più ampia comunità [GNEITING et al., 2021]. In pro-
posito, è stato rilevato che «al di là delle nostre vite individuali, abbiamo scoperto che fac-
ciamo parte di qualcosa di più grande e che esiste una comunità più ampia che ha bisogno di
essere adeguatamente tutelata e sostenuta» [DOXA, 2020]. Le imprese, come buoni cittadini,
si sono assunte la responsabilità, insieme ai governi, di contrastare la diffusione il problema
globale virus.
Il Covid-19 ha spinto molte aziende a concentrarsi, in linea con la teoria dell’entità orien-
tata al bene comune, non sul profitto ma sulla produzione di beni o servizi destinati a soddi-
sfare i bisogni, nel rispetto delle regole imposte dalla stringente normativa anti-Covid [AR-
GANDOÑA, 1998]. Le aziende, anche le più grandi, sembrano essere tornate alla fase di start
up, in cui lo sforzo maggiore è concentrato sulle esigenze dei clienti. Soprattutto durante il
lockdown, le aziende non hanno più avuto rapporti con i propri clienti, i profitti sono stati
annullati e hanno potuto focalizzare l’attenzione sui bisogni futuri degli stakeholder, in primis
i clienti appunto, ma anche i dipendenti. I numerosissimi articoli sulla leadership ai tempi del
Covid (tra gli altri, STOLLER, 2020), hanno messo in evidenza la necessità delle aziende di
comprendere i bisogni dei collaboratori, passando dalla logica dell’uomo come strumento a
uomo come fine in sé, e di considerare l’impresa come una comunità di persone [SCHLAG e
MELÉ, 2020]. La leadership umanistica ha trovato un terreno molto feritile.
Le imprese che hanno avuto più capacità di sopravvivenza sono state quelle che prima
della pandemia presentavano un migliore equilibrio complessivo, ad esempio sufficiente ca-
pitale di proprietà per compensare le perdite registrate durante il lockdown, sufficiente
ancora ad un cambiamento repentino nel mercato delle materie prime, che rende particolarmente onerosi gli approvvigio-
namenti» [2014, p. 161].
55 «Il profitto è quella quantità economica che si ottiene dopo aver già calcolato l’interesse anche sul capitale di proprietà
ed il salario direzionale, non è perciò da confondersi, con l’espressione generica di utile e di reddito» [Amaduzzi, 1978, p.
73].
56 Tratto da Di Carlo E., Il bene dell’azienda come terza via al dilemma shareholder vs stakeholder, Rivista Italiana di Ragioneria
liquidità per pagare i debiti, buoni rapporti con i vari portatori di interessi [GARCÍA-SÁNCHEZ
e GARCÍA-SÁNCHEZ, 2020]. Le imprese più vulnerabili sono state quelle che prima della crisi
avevano un payout dei dividendi più elevato [GNEITING et al., 2021]. Gli stakeholder hanno
chiesto come poter aiutare in un momento difficile, sacrificandosi nell’interesse delle imprese
e andando oltre quanto previsto contrattualmente [EBRAHIM e BUHEJI, 2020]. La sopravvi-
venza e la crescita dell’azienda hanno rappresentato un interesse superiore, unito alla consa-
pevolezza dell’importanza di agire non come un aggregato di interessi individuali come una
comunità [ALBAREDA e SISON, 2020]. Gli stessi stakeholder hanno compreso l’importanza
di trovare compatibilità tra i loro interessi, quello della comunità aziendale e quello della
collettività. Come rilevato da Melé, «in un’impresa si può trovare un reale impegno e volontà
di cooperare per obiettivi comuni, sebbene le persone possano anche avere motivazioni in-
dividuali diverse per lavorare insieme […] le persone possono agire con reciprocità e talvolta
anche con gratuità» [MELÉ, 2008, pag. 6]. Il Covid ha portato impegno e volontà di cooperare
per la sopravvivenza e lo sviluppo delle aziende.
Durante la pandemia, le aziende non sono state in grado di soddisfare adeguatamente gli
interessi di tutti gli stakeholder, come raccomandato dalla teoria degli stakeholder. Tuttavia
con solidarietà, reciprocità e gratuità gli stakeholder hanno continuato a sacrificarsi per la
continuità dell’impresa [CENTORRINO, 2020]. La remunerazione dei dirigenti è stata ridotta,
anche su base volontaria, in molte società. Alcuni amministratori delegati hanno volontaria-
mente ridotto i loro stipendi di base di una percentuale maggiore rispetto a quella applicata
ad altri dirigenti [DEJONG, 2020], anche per dare il buon esempio. Proprio la gratuità con cui
le persone hanno fornito il loro contributo alla continuità aziendale ha evidenziato come
l’uomo, soprattutto in momenti di difficoltà, non agisca solo guidato da egoismo e opportu-
nismo, ma anche dal dovere morale di servire l’azienda.
Le imprese governate e gestite come comunità di persone hanno presentato un maggiore
dinamismo e una maggiore capacità di sopravvivenza, rispetto a quelle governate come
somma di interessi individuali finalizzati al perseguimento del proprio vantaggio [ROCHA et
al., 2020]. La fiducia nelle persone, il rispetto per gli altri e per l’azienda, la reciprocità, la
gratuità, sono stati indubbiamente fattori molto importanti [DI CARLO, 2020b].
Inizialmente, l’individualismo diffuso ha portato ad una difficoltà di cooperazione, ma poi
è apparso chiaro che il nemico era troppo forte per essere sconfitto guardando esclusiva-
mente al proprio tornaconto. I paesi europei hanno collaborato come mai in passato [BROWN
e SUSSKIND, 2020]. Come affermato da Schrar [2020], «proprio come l’invisibile coronavirus,
forse la determinante più importante del successo della risposta di un paese è qualcosa che
non è così facile da vedere: la fiducia». Quando il problema è enorme, come un nemico che
mette in dubbio la sopravvivenza, la cooperazione è centrale.
Gli aiuti di Stato hanno inoltre evidenziato un dovere da parte della collettività di garantire,
per il bene comune, la sopravvivenza delle aziende colpite dalla crisi. D’altro canto è stato
evidente il dovere delle imprese di contribuire al bene della comunità per essere legittimate
in momenti di difficoltà.
In diversi casi la conformità alle regole volte al contenimento del contagio è stata avvertita
non come un vincolo (scomodo), ma come un bisogno dell’azienda e delle persone, a dimo-
strazione del fatto che quando si percepisce che il rispetto delle norme è importante per se
stessi, per gli altri e per l’azienda, esse si pongono sullo stesso livello dei risultati finanziari,
entrando a far parte dell’interesse della comunità aziendale. La conformità alle regole ha inol-
tre rappresentato un vantaggio competitivo per diversi business.
fosse un attributo distinto rispetto all’attenzione che invece si dovrebbe porre anche ai risul-
tati aziendali.
Focalizzarsi solo sulla dimensione morale, in realtà, potrebbe essere dannoso tanto quanto
focalizzarsi solo sul profitto, andando a contrastare il concetto di coesione di queste due
facce della medaglia intrinseco nell’obiettivo dell’interesse primario.
È chiaro infatti come, sia un leader interessato a perseguire esclusivamente profitto che
un leader che si focalizza solo sull’aspetto morale del business, possano solamente in parte
essere in grado di raggiungere il nostro ambizioso fine ultimo.
Nel modello di leadership proposto, l’azienda necessita di essere considerata come un’en-
tità distinta rispetto ai suoi stakeholder con un interesse supremo; il leader ha il compito di
supportare gli interessi privati degli stakeholder considerando il bene dell’azienda una bussola
per le decisioni.
Questo permetterà agli attori aziendali di sentirsi parte di una comunità più ampia (Melé
2008), ponendo in luce il binomio business e etica come parte dello stesso purpose.
Gli elementi principali delle tre teorie considerate sono i seguenti: 1) la teoria dell’entità
reale formalizza il bisogno di riconoscere l’azienda come un sistema distinto dai suoi com-
ponenti con una vita potenzialmente infinita ed un suo proprio interesse, avendo sempre in
mente le condizioni di equilibrio che garantiscano la sopravvivenza e la crescita aziendale nel
breve, medio e lungo termine; 2) la teoria degli stakeholder serve a sottolineare l’importanza
di bilanciare gli interessi spesso contrastanti di tutti gli attori coinvolti nell’attività aziendale;
infine 3) la teoria del bene comune chiude il cerchio grazie alla sua propensione a considerare
l’individuo come un “fine” per se stesso e non un mezzo per l’organizzazione, appartenente
ad una comunità di persone (l’entità reale) con un interesse superiore.
Se considerate singolarmente le sopracitate teorie tendono a focalizzarsi su una dimen-
sione piuttosto che una molteplicità di variabili utili a perseguire l’interesse primario e lavo-
rare con la complessità aziendale, allo stesso modo una leadership mono-dimensionale ge-
nera lo stesso limite57.
Per un leader multi-dimensionale prendersi cura degli interessi degli stakeholder non si-
gnifica soddisfarne qualsiasi desiderio o andare incontro ad ogni necessità; Ad esempio, do-
vendo interfacciarsi con la necessità, di breve termine, di aumentare o meno gli stipendi dei
dipendenti un leader deve considerare altre variabili oltre che la felicità e la soddisfazione di
quest’ultimi. Deve infatti essere consapevole sia delle condizioni economiche che risiedono
dietro la sua scelta (con l’obiettivo sempre di assicurare una crescita e uno sviluppo sosteni-
bili) che della possibilità del dipendente di crescere come persona (per esempio, il dipendente
non può dare per scontato che il suo salario crescerà indipendentemente dal suo impegno
nel lavoro).
In questo modo i dipendenti avrebbero la possibilità di accrescere le loro conoscenze, la
loro creatività, le loro skills di cooperazione, amicizia, quindi abilità sia relazionali che pro-
fessionali soddisfacendo i propri bisogni interni e allo stesso tempo fornendo un valore
57 Ad esempio, per un leader transazionale il profitto è la bussola decisionale, pertanto, il suo focus è sui risultati dell’or-
ganizzazione intesa come strumento dei suoi shareholders. Uno stile di leadership più evoluto dal punto di vista morale è il
servant leader, che pone gli individui e le loro relazioni al centro delle sue attività così come previsto dalla logica del bene
comune, prevedendo lo sviluppo e la condivisione delle giuste virtù che alimentano un senso di comunità. Ogni teoria che
compone quindi il nostro approccio multidimensionale alla leadership richiederebbe uno stile speicifico, ad esempio, la
teoria degli stakeholder e la teoria del bene comune richiederebbero uno stile di leadership più vicino alla servant leadership,
visto il suo focus sulle persone più che sull’azienda. Pensare invece all’azienda come un’entità reale con il suo interesse di
sopravvivenza e crescita renderebbe più realistica la presenza di una leadership orientata al profitto.
aggiunto al business (aumentando la probabilità di vedere il proprio salario crescere nel me-
dio-lungo termine).
Pertanto, i limiti che il leader non può oltrepassare nel perseguire l’interesse primario
dell’azienda sono i seguenti: 1) la possibilità per gli individui di crescere come persone per
riportare tali benefici anche al di fuori del contesto aziendale, 2) lo sviluppo e la crescita
qualitativa e quantitativa dell’azienda nel breve, medio e lungo termine. C’è bisogno di un
approccio multi-dimensionale alla base della virtù di un leader per rendersi conto dei rischi
legati ad orientare il business solo verso comportamenti virtuosi senza alcun limite. Essere
virtuosi per il bene delle persone non può andare in contrasto con l’essere virtuosi per il bene
dell’azienda.
Spesso il fallimento di alcune aziende, nonostante la capacità dei propri leader di svilup-
pare comportamenti virtuosi, è dovuto alla loro incapacità di gestirne la dimensione econo-
mica, o viceversa. Esistono leader competenti che non utilizzano le loro capacità per servire
l’interesse primario probabilmente perché hanno ben chiaro il concetto di azienda come en-
tità reale. La conseguenza è l’incapacità di capire gli effetti che alcuni comportamenti possono
portare al bene dell’azienda e dei suoi stakeholder, leadership compresa.
Nell’interesse dell’azienda il leader deve gestire le relazioni con gli stakeholder cercando,
a seconda delle contingenze interne ed esterne, un equilibrio tra comportamenti morali che
prescindono dal risultato e decisioni che invece sono strumentali per la vita dell’impresa.
Inoltre, nella leadership orientata all’interesse primario l’approccio strumentale alla ge-
stione degli stakeholder non va ad escludere l’approccio normativo; prendersi cura degli in-
teressi degli attori aziendali nell’interesse dell’azienda infatti deve comunque essere conside-
rata come una azione corretta e responsabile nei confronti di tutti i partecipanti all’attività
produttiva (anche se nel breve termine questo possa precludere il soddisfacimento di alcune
aspettative, nel medio-lungo termine genererà un circolo virtuoso a beneficio di tutti). Il lea-
der può prendere decisioni orientate all’interesse di uno stakeholder o di un gruppo, ma, in
alcuni contesti e sotto alcune condizioni non può misurarne le conseguenze probabilmente
perché alcuni degli interessi coinvolti andrebbero a mettere a repentaglio la profittabilità che
nel lungo termine si riverserebbe anche contro gli stessi.
Seguendo questa logica, il leader multi-dimensionale orientato all’interesse primario do-
vrebbe:
– Essere portatore del bisogno di elaborare una mission chiara e accattivante orientata
all’interesse primario;
– Cosi come un “buon padre di famiglia” deve essere in grado di creare e mantenere unita
una comunità orientando i suoi membri all’interesse primario della stessa, quindi, alla sua
mission;
– Deve prendersi cura di se stesso, per crescere dal punto di vista morale, sociale e spiri-
tuale. In questo modo potrà meglio prendersi cura dei suoi collaboratori;
– Deve essere in grado di generare consapevolezza nei dipendenti e in tutti gli attori azien-
dali riguardo alla concezione dell’azienda che, differentemente da una famiglia, non è sola-
mente una comunità di persone ma anche un sistema composto da parti e partecipanti e
relazioni tra essi;
– Deve essere in grado non solo di creare ma anche di preservare il benessere della co-
munità aziendale. Ogniqualvolta sia necessario deve sottolineare e rendere chiaro che
l’azienda in quanto entità reale ha un suo proprio interesse differente dalla pluralità di inte-
ressi degli attori coinvolti;
– Deve “prendersi cura” dei dipendenti ma, al contempo, renderli capaci di ricambiare
perseguendo sempre l’interesse primario anche quando lo stesso sembra essere in contrasto
con gli altri interessi coinvolti, quelli del leader compresi. Ad esempio, i dipendenti devono
sentirsi liberi di “criticare” le scelte del leader in quanto anche lui può sbagliare;
– I dipendenti devono identificarsi con l’azienda più che con il leader. Solo in questo
modo sarà possibile propagare una cultura aziendale che rimane anche quando il leader lascia.
Questo è utile nel lungo-termine per salvaguardare l’azienda da un cambio di gestione e pro-
prietà;
– In caso di delega ad attori esterni, è importante che il leader orientato all’interesse pri-
mario sia in grado di allineare con questo purpose chiunque venga a contatto con la realtà
aziendale;
– Infine, il leader orientato all’interesse primario deve avere ben chiaro quali sono le di-
mensioni da porre a sistema durante il processo decisionale e quali sono gli strumenti prin-
cipali utili per promuoverle e orientarle al bene comune. Prima di questo, ovviamente, deve
avere chiaro cosa si intende per bene comune e quali sono i beni estrinseci, intrinseci e tra-
scendenti dai quali è composto, al fine di lavorare per raggiungerli e condividerli.
La domanda sul “come” creare valore riguarda le condizioni da rispettare affinché l’equi-
librio economico sia non solo concretamente proiettato al lungo periodo, ma sia anche so-
stenibile dal punto di vista etico-sociale e ambientale 58, tendendo così a servire il bene co-
mune. In tal senso, la sostenibilità vuole qui essere intesa sia in termini economici che extra-
economici, giacché il “come” si riferisce a tutti i soggetti per i quali si intende creare valore
(azienda inclusa), ossia al “per chi” creare valore.
Creare valore per l’azienda significa garantire, per un tempo indefinito ma tendente all’im-
mortalità, la sopravvivenza e lo sviluppo, la fioritura, della sua comunità, attraverso la pro-
duzione di beni comuni e condivisi (il c.d. sviluppo qualitativo).
La sostenibilità economica si raggiunge quando l’azienda è in grado di realizzare una condi-
zione di equilibrio economico nel lungo periodo, che le consente di sopravvivere e svilup-
parsi.
L’equilibrio economico riguarda l’autosufficienza economica, ossia l’attitudine a remunerare, attraverso i ricavi,
tutti i fattori produttivi utilizzati (Ferrero, 1968, p. 200; Onida, 1971, p. 18), inclusa la proprietà e la
funzione imprenditoriale; obiettivo, questo, che viene raggiunto se l’unità produttiva opera con
economicità. Le imprese che operano con economicità sono, quindi, autonomamente durevoli,
nel senso che la loro sopravvivenza e il loro sviluppo non devono essere garantiti da terze eco-
nomie.
L’equilibrio economico è insostenibile (anche per i proprietari) quando viene realizzato –
in modo talvolta anche fittizio attraverso disastrose manipolazioni di bilancio – solo nel breve
periodo, come accaduto negli scandali societari più volte richiamati.
Il raggiungimento dell’equilibrio economico a valere nel tempo non dice però ancora nulla
sulla sostenibilità extra-economica con cui il valore viene creato. Ad esempio, un’impresa automobili-
stica, pur operando con economicità ed in equilibrio economico a valere nel tempo, potrebbe
non essere responsabile dal punto di vista etico-sociale e ambientale, come pure un Comune,
che rispetti tale condizione, potrebbe non tenere un comportamento sostenibile nei
Lo sviluppo è sostenibile quando soddisfa i bisogni del mondo presente senza compromettere le capacità delle future
58
generazioni di soddisfare a loro volta i propri bisogni. Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo dell’ONU (World
Commission on Environment and Development, WCED) del 1987.
59 Si rammenta che i termini “come creare valore” e “come produrre” non sono sovrapponibili. Infatti, il primo riguarda
le condizioni da rispettare affinché l’azienda si mantenga in equilibrio, mentre il secondo il modello di business (o modello
di attività, con riferimento a tutte le organizzazioni produttive).
Per la spiegazione del modello di mission ascolta l’audio contenuto nel seguente link
https://drive.google.com/file/d/1uii04uP9og5fuO64MPnnRWpGku23eQou/view
Per la spiegazione del collegamento tra mission condizioni di equilibrio ascolta l’audio contenuto nel se-
guente link:
https://drive.google.com/file/d/1Fg_G1Koei-VGQaxuJB_kbmh33pOEEpjn/view
Nella Tav. 8 l’equilibrio economico, relativo al flusso di costi e dei ricavi, viene messo a
sistema con l’equilibrio finanziario, monetario e di interessi.
L’equilibrio finanziario (o patrimoniale) riguarda la necessità di sviluppare adeguate correlazioni (quantita-
tive e qualitative) tra investimenti e fonti di finanziamento, in modo da mantenere una sistematica capacità
di onorare le proprie obbligazioni nei tempi e nei modi dovuti, senza pregiudizio per il futuro.
Le perdite registrate durante la pandemia, hanno avuto effetti devastanti su questo equilibrio, in
quanto esse si sono abbattute sul capitale di proprietà determinando l’insolvenza di molte aziende
e l’esigenza di ingenti finanziamenti.
L’azienda realizza l’equilibrio monetario (o di cassa) quando l’azienda è in grado di far fronte, in ogni
momento, agli impegni di pagamento assunti, ad esempio, con i dipendenti, fornitori e finanziatori. Tale
equilibrio si lega quindi al concetto di liquidità, attraverso cui si misura la solvibilità dell’impresa
nel breve termine. Dunque, mentre l’equilibrio finanziario esprime la solidità patrimoniale ed è
connesso all’attitudine dell’impresa a far fronte agli impegni di pagamento in futuro, quello mo-
netario riguarda la capacità di onorare i debiti contratti, a mano a mano che giungono in scadenza.
60 L’approccio integrato è in linea con quanto previsto dalla Commissione Europea (comunicazione del 25 ottobre
2011, n. 681), sul tema della responsabilità sociale d’impresa, in cui si legge che: “Per soddisfare pienamente la loro respon-
sabilità sociale, le imprese devono avere in atto un processo per integrare le questioni sociali, ambientali, etiche, i diritti umani
e le sollecitazioni dei consumatori nelle loro operazioni commerciali e nella loro strategia di base in stretta collaborazione
con i rispettivi interlocutori, con l’obiettivo di: fare tutto il possibile per creare un valore condiviso tra i loro proprietari
/azionisti e gli altri loro soggetti interessati e la società in generale; identificare, prevenire e mitigare i loro possibili effetti
avversi”.
Tav. 9 – Possibili effetti sull’equilibrio complessivo in caso di riduzione dei costi per consulenze
Descrizione Internalizzazione dei costi per consulenze (fare internamente costa meno che acquisire
strategia dall’esterno). Saranno coinvolti dipendenti aziendali sotto utilizzati
Cosa, come La nuova strategia porta ad un cambiamento del modello di business, ossia del “Come
e perché produrre”, in particolare per quanto riguarda l’acquisizione di fattori produttivi
produrre
• Equilibrio Economico: Breve periodo: incrementano i costi interni in modo più che
proporzionale rispetto alla riduzione dei costi esterni, in quanto l’azienda investe per
Equilibri
avviare internamente il servizio. Lungo periodo: migliora per la contrazione di costi (i
sui quali ha
costi interni sono più bassi rispetto a quelli che si sarebbero sostenuti acquisendo il
effetto la
servizio dall’esterno) che riescono anche a compensare gli interessi passivi dovuti ai
strategia
maggiori finanziamenti richiesti per finanziare la struttura del nuovo servizio. Nel
lungo periodo l’utile di esercizio è più elevato;
61 «Il bene dell’azienda […] richiede che si perseguano, bilanciandoli e coniugandoli, in punto di tempo,
molteplici obiettivi: obiettivi di breve e obiettivi di medio e lungo termine; obiettivi economici (di competitività,
di redditività, equilibrio economico finanziario) e obiettivi etico-sociali e ambientali; obiettivi di crescita della
produttività e obiettivi di sviluppo; obiettivi di efficienza e obiettivi di rispetto delle persone e così via. Per
contro, se un obiettivo singolo è perseguito con logica assolutizzante, il management è prigioniero di una rigida
concezione gerarchica e statica del sistema degli obiettivi, che vede in cima alla piramide l’obiettivo di cui trattasi
[…] nel caso delle imprese, le derive più comuni che conducono ad una crisi di perdita di senso sono quelle
della massimizzazione del profitto, della creazione di valore azionario, della crescita dimensionale. Inseguendo
un obiettivo da massimizzare – sia esso il profitto o la creazione di valore azionario o la crescita – è inevitabile
che il management indirizzi tutta l’attenzione, la fantasia e le energie nella direzione segnata da quell’obiettivo,
invece di esercitare la sua capacità di giudizio alla ricerca dell’equilibrio dinamico dei molteplici obiettivi rilevanti
ai fini della sopravvivenza dello sviluppo duraturo dell’impresa» (Coda, 2012, pp. 82-83).
• Equilibrio patrimoniale: Breve periodo: peggiora per effetto dei finanziamenti neces-
sari agli investimenti in struttura nella nuova attività internalizzata. Lungo periodo: l’utile
più elevato incrementa il patrimonio netto;
• Equilibrio monetario: Breve periodo: più uscite di liquidità coperte attraverso l’inde-
bitamento. Lungo periodo: minori uscite di liquidità a seguito della contrazione dei costi;
• Equilibrio di interessi: Breve periodo: attriti con il personale e i sindacati per l’incer-
tezza generata dal cambiamento. Lungo periodo: dipendenti accolgono positivamente
tale nuova attività, acquisendo beni intrinseci (es. soddisfazione per il nuovo lavoro
svolto, incremento di know how) ed estrinseci (es. riconoscimento da parte dei capi
e dei colleghi, aumento della remunerazione). Le virtù dimostrate nella nuova attività
sono un esempio per i colleghi. Ciò determina un incremento delle performance la-
vorative con effetti positivi sui ricavi.
• Conto Economico (schema del reddito): Breve periodo: Riduzione dei costi esterni
(servizi) e incremento più che proporzionale dei costi interni (es. formazione, lavoro,
materie, ammortamenti della struttura). Inoltre, incremento degli oneri finanziari per
il pagamento degli interessi sul debito. Lungo periodo: costi esterni (lavoro, materie, gli
oneri finanziari sono integralmente coperti).
• Stato Patrimoniale (schema del capitale): Breve periodo: Contrazione del patrimo-
nio netto (in particolare la voce Utile dell’esercizio) e incremento delle passività per
l’indebitamento necessario a finanziare gli investimenti in struttura e i costi di eserci-
Effetto sul zio; Lungo periodo: Incremento del patrimonio netto (in particolare la voce Utile
bilancio di dell’esercizio) e graduale riduzione delle passività dovuta al rimborso del finanzia-
esercizio e mento;
sul bilancio • Rendiconto Finanziario (schema dei flussi di cassa): Breve periodo: Decremento
sociale del flusso di cassa in uscita dell’attività operativa, in virtù della contrazione dei costi
esterni, ma incremento di tale flusso in uscita in ragione dei costi interni (oneri finan-
ziari compresi). Incremento del flusso di cassa in entrata per i finanziamenti ottenuti
e incremento del flusso di cassa in uscita per gli investimenti in struttura; Lungo periodo:
Flusso di cassa in uscita dell’attività operativa per i costi esterni e degli interessi, e
flusso di cassa in uscita per il rimborso dei finanziamenti.
• Bilancio Sociale (schema dei rapporti con gli stakeholder): Breve periodo: peggiora
il clima organizzativo perché i dipendenti non accolgono positivamente il cambia-
mento. Lungo periodo: migliora il clima organizzativo grazie alla maggiore soddisfa-
zione dei dipendenti. Si riduce il tasso di turnover
Equilibrio Nel lungo periodo si assiste ad un miglioramento dell’equilibrio complessivo. L’ef-
complessivo fetto netto dell’internalizzazione è positivo.
12. Il lavoro come bisogno fondamentale dell’uomo per la sua fioritura: beni estrinseci, intrinseci, trascendenti
e di immagine
Le persone hanno bisogni materiali, spirituali, morali e sociali che trovano appagamento
in taluni beni.
In proposito, lo psicologo Abraham Maslow [1954] descrive cinque categorie di bisogni
che, se soddisfatti, portano l’essere umano a svilupparsi in modo completo. Queste categorie
si posizionano su una scala (Tav. 10) che al gradino più basso vede i bisogni primari legati
alla sopravvivenza (fame, sete, casa), mentre i bisogni collocati sui gradini superiori coinci-
dono con necessità sempre più raffinate, dal bisogno di amore, a quello di socializzazione, ai
bisogni culturali, fino all’autorealizzazione.
L’individuo può trovarsi in diversi punti della scala e suo il comportamento trova moti-
vazione dai bisogni appartenenti a quella classe. Una volta raggiunto un certo livello, i bisogni
posizionati su livelli inferiori non sono più motivanti, mentre quelli collocati su livelli supe-
riori non stimolano ancora il comportamento, in quanto la persona è concentrata sul soddi-
sfacimento dei bisogni che caratterizzano il livello raggiunto.
La scala di Maslow fu molto importante nell’ambito del management del secolo scorso,
ma presenta alcuni lati problematici: ciascun individuo, infatti, differisce dagli altri e avverte e soddisfa
i bisogni con modalità differente. Il campo di variazione dell’intensità degli interessi può essere
molto ampio da individuo a individuo. Ne consegue che ogni individuo è sempre diverso da
un altro, giacché il suo comportamento è irripetibile e, per certi versi, imprevedibile. Ogni
individuo, quindi, possiede una sua unica scala dei bisogni.
Ad esempio, mentre per alcuni sono sufficienti poche ore di sonno per riposare, altri hanno
bisogno di molte più ore; mentre la maggior parte delle persone quando ha fame desidera
mangiare, altre persone digiunano per soddisfare bisogni più elevati. Un individuo con un red-
dito basso potrebbe resistere molto di più all’offerta di una tangente rispetto a uno più abbiente,
visto il maggior bisogno del primo di sentirsi moralmente integro.
La remunerazione che un soggetto ottiene per il fatto di prestare la sua attività lavorativa
è un bene materiale strumentale poiché consente l’acquisto di beni e servizi, taluni dei quali
sono atti a soddisfare bisogni primari (es. cibo per sé e la propria famiglia, rata del mutuo per
l’acquisto della casa). Il denaro è un mezzo per acquistare beni e servizi, ma ci sono alcuni
beni che non si possono comprare e che sempre il lavoro è in grado di produrre.
Fonte: Internet
Il lavoro, infatti, è in grado di produrre altri beni per l’individuo, come ad esempio il fatto di
svolgere un’attività interessante, di instaurare relazioni con altre persone, il carattere morale
che egli sviluppa 62. «Il lavoro, prima ancora che un diritto umano, è un bisogno insopprimi-
bile della persona. È il bisogno che ogni uomo avverte di trasformare la realtà di cui è parte
e quindi di edificare se stesso» [Zamagni, 2018].
Al riguardo è stato osservato che «il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo
stesso, il suo soggetto, il che significa dal punto di vista etico che prima di tutto il lavoro è
“per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro” […] il soggetto che lavora ha la sua preminenza
su qualsiasi suo prodotto od anche su qualsiasi sua azione» [Compagnoni, 2010, p. 89].
Nonostante i beni non materiali prodotti dal lavoro siano in grado di soddisfare bisogni (non
economici) spirituali, morali e sociali, normalmente in economia alcuni di essi non sono con-
siderati come tali, nonostante motivino l’individuo a fare meglio il proprio lavoro e contri-
buiscano al bene comune 63. La motivazione che conduce verso la ricerca di tali beni deriva
dal desiderio dell’uomo di raggiungere la felicità. Chi produce tali beni, invece, è motivato dalla
volontà di far sviluppare integralmente le persone, che rappresentano un fine in sé, non uno
strumento. Un esempio di tale approccio è quello del genitore nei confronti di un figlio, o di
un medico verso il suo paziente. Il problema risiede nel fatto che non di rado tali beni non
sono ricercati perché la cultura in cui si vive fa ritenere che essi non siano in grado di produrre
benessere. Un’azienda farmaceutica, ad esempio, potrebbe ritenere che il medico ascolti il
suo informatore scientifico solo se in cambio riceve beni materiali (es. doni o altre utilità),
dimenticando che il medico è una persona che, spesso, incrementa il suo livello di felicità
62 Nelle organizzazioni non-profit, il volontariato è una dimostrazione di come il lavoro possa trovare motivazioni
quando riesce a migliorare le condizioni di vita dei suoi pazienti. Il sacrificio dei medici du-
rante il Covid, molti dei quali hanno perso la vita, ne è un esempio evidente. Ne consegue
che l’azienda farmaceutica produce beni per il medico quando ad esempio riconosce allo
stesso il merito di aver contribuito, anche grazie ai suoi consigli, al miglioramento del farmaco
prodotto, oppure il comportamento che egli ha tenuto in una data circostanza (es. durante
un periodo di pandemia) è stato utilizzato come esempio di virtù tra i dipendenti dell’azienda.
In altri termini, considerare il medico come uno strumento dell’azienda per fare l’interesse
del paziente, ovvero per incrementare il numero di prescrizioni, quindi i profitti, e inoltre
pensare che egli sia un egoista e opportunista e che lavori solo per lo stipendio o per ottenere
benefici dall’azienda, limita lo scambio di beni relazionali. Se invece il medico, al pari del
paziente, viene considerato come un fine in sé, come una persona degna di rispetto e avente
voglio di fiorire, di svilupparsi integralmente, l’azienda stringerà un legame con lo stesso,
fatto di cooperazione nell’interesse comune che non può che essere il benessere del paziente.
L’azienda deve riconoscere il contributo del medico alla sua attività (es. tempo dedicato
all’ascolto, consigli) e viceversa (es. l’efficacia del farmaco sui suoi pazienti).
e può essere presente a prescindere dal riconoscimento esterno. I beni intrinseci, come ad
esempio la conoscenza, possono essere utilizzati in momenti successivi rispetto a quelli in
cui sono stati acquisiti. Gli studiosi di psicologia rilevano che le persone internalizzano le
norme e i valori della società, che sono utilizzati come termine di confronto con altre per-
sone. Essere conforme ai propri valori interni genera una ricompensa morale positiva (bene
intrinseco), mentre non essere conformi porta ad una punizione in termini di costo morale
(male intrinseco). Quando l’individuo è posto di fronte alla scelta “tenere o no un compor-
tamento fraudolento” sono due le motivazioni tra loro in competizione: guadagno da com-
portamento improprio versus positiva concezione di sé come persona onesta. L’inganno, ad
esempio, comporta un guadagno economico ma chi lo perpetra potrebbe avvertire un costo morale
alla negativa considerazione di se stesso. Viceversa, agire onestamente può comportare una
perdita economica ma un guadagno in termini di positiva considerazione di sé, quindi un
vantaggio morale. Tali motivazioni sono quindi in trade-off. L’individuo potrebbe però risolvere
questo trade-off mantenendo il guadagno economico da comportamento improprio e atti-
vando dei meccanismi di razionalizzazione (ad esempio, lo fanno tutti, l’azienda mi sfrutta)
che ne annullano il costo morale. Il rischio è quindi di corrompere (o essere corrotti) senza
avvertire di essere corruttori (o di essere corrotti). Dunque, per un individuo che non include
l’onesta tra i propri valori, agire in modo corretto e abbandonare il guadagno economico
(bene estrinseco) non produce alcun bene intrinseco, anzi provoca sofferenza.
c) Beni trascendenti. Sono quelli che l’individuo cerca per gli altri, non per sé e, in tal senso,
trascendono la persona. Si pensi, ad esempio, al fatto di prodigarsi per soddisfare i bisogni
dei clienti, per il successo dei colleghi di lavoro o dei propri dipendenti (es. attraverso il
trasferimento di conoscenza), per garantire un giusto profitto agli azionisti, per concorrere
alla sopravvivenza e allo sviluppo dell’azienda (intesa come comunità di persone). Un sog-
getto che riesce a produrre beni per altre persone e per l’azienda, ottiene anche beni per se
stesso, ma questi ultimi sono appunto definiti trascendenti in quanto si estendono oltre il
soggetto che li ha prodotti. Questi beni, infatti, consentono all’individuo di sviluppare i mezzi
per continuare ad agire con la stessa motivazione, cioè abitudini morali o virtù, per contri-
buire con la propria vita alla buona riuscita di altre vite 64, avendo effetti sulla fiducia che gli
altri ripongono su tale individuo. L’uomo virtuoso ha quindi una disposizione abituale e
ferma a dare il meglio di sé per fare del bene, anche quando ciò si pone contro il suo interesse
(es. dedicare tempo agli altri e trascurare sé stessi). Le virtù possono essere utilizzate per tutta
la vita. La ricerca di beni trascendenti da parte di un manager consente allo stesso di svilup-
pare uno stile di leadership a servizio degli altri (la c.d. servant leadership). In proposito, Simon
Sinek, nella prefazione del suo best seller ‘Start with the why’ [2009], scrive: «Che siano individui
o organizzazioni, noi seguiamo quelli che guidano non perché dobbiamo, ma perché vo-
gliamo. Noi seguiamo quelli che non guidano per loro, ma per noi stessi» 65.
d) Beni d’immagine: Si riferiscono a quei beni che incrementano l’immagine dell’individuo
agli occhi degli altri. La motivazione di immagine, o di segnalazione, si riferisce alla tendenza
di un individuo ad essere in parte motivato dalla percezione degli altri. Per un esempio, si
pensi a chi acquista un’auto elettrica, pur pagandola di più rispetto ad un’auto a benzina, per
64L’abitudine morale di essere orientati al bene non deve essere confusa con l’altruismo egoistico, che invece riguarda
la soddisfazione personale per il bene fatto ad un’altra persona. L’altruismo può essere un bene estrinseco, quando si cerca
l’apprezzamento da parte degli altri, oppure intrinseco quando deriva da una soddisfazione personale. Peraltro, ormai diversi
studi dimostrano il legame tra altruismo e felicità.
65 Sinek si è poi focalizzato sulla leadership a servizio degli altri con il libro [2014] dal titolo ‘Leaders eat last: Why some
il solo fatto di essere percepito dagli altri come un soggetto rispettoso dell’ambiente. Se il
costo della prima fosse allineato a quello della seconda (ad esempio perché lo stato contri-
buisce all’acquisto dell’automobile meno inquinante attraverso l’erogazione di incentivi), pro-
babilmente tale soggetto non avrebbe la stessa motivazione, avendo perso, l’acquisto ad un
costo più alto, l’elemento segnaletico del valore che l’individuo attribuisce al rispetto dell’am-
biente. Ne consegue che un soggetto potrebbe agire in favore degli stakeholder, come pure
dell’azienda, anche sulla base di tale motivazione. Altro caso può essere quello delle persone
che postano contenuti sui social media, contribuendo alla diffusione di conoscenza. Le loro
motivazioni possono essere intrinseche, estrinseche (es. commenti, “mi piace” e visualizza-
zioni da parte dei lettori), come anche di immagine, ossia il piacere che si prova a costruire
un’immagine di sé.
I beni sopra richiamati soddisfano bisogni di varia natura degli individui, e possono anche
coesistere, rappresentando la chiave della loro motivazione, il perché contribuiscono all’atti-
vità aziendale (es. per avere uno stipendio, per imparare, per essere utile alla società). Ne
consegue che le aziende producono non solo beni e servizi per i clienti/utenti, ma anche beni
estrinseci, intrinseci, trascendenti e di immagine per gli stakeholder e, quindi, per la colletti-
vità 66, visto che i portatori di interessi sono anche membri della collettività.
Per fare un esempio che sintetizzi i beni di cui sopra, si pensi alle motivazioni che possono
portare un professore universitario a prodigarsi per fare una bella lezione: remunerazione
(estrinseca materiale); riconoscimento degli altri (estrinseca immateriale); soddisfazione per-
sonale per la bella performance (intrinseca); fare appassionare gli studenti alla materia (tra-
scendente); essere riconosciuto come un professore di elevato livello (immagine). Tali moti-
vazioni possono anche presentarsi simultaneamente e ogni persona ha una scala diversa di
bisogni. Ne consegue che quand’anche si volessero portare le persone ad essere motivate da
beni non materiali, occorre tener presente che non tutti arriveranno a manifestare con la
stessa intensità tale bisogno. Questo problema in parte può essere mitigato selezionando
persone che abbiano più motivazioni non materiali, ma non è detto che siano anche le più
competenti. Molte persone partecipano al cambiamento non perché guidate da un purpose
aziendale, ma perché ben remunerate.
Appare evidente che la capacità del lavoro di produrre beni è direttamente connessa al
perché delle persone chiamate a svolgere una certa attività. Questo perché, la ragione di esi-
stenza della persona, non cambia nel corso della vita ed è talvolta molto difficile da indivi-
duare, anche per la persona stessa. Se si trova felicità nel trasmettere agli altri le proprie co-
noscenze, svolgere un’attività di insegnamento può produrre molti più beni rispetto a un’at-
tività che non consente di interagire con le persone. Questo aspetto è centrale nella selezione
del personale, che non può essere fatta solo tenendo conto delle competenze.
13. Imprese, amministrazioni pubbliche e aziende non-profit. Una sintesi delle principali differenze
Tutte le classi di aziende sono state accomunate da uno stesso principio-guida di governo,
espresso con il termine “interesse primario aziendale”.
66 «Il successo di un leader ha più a che fare con la motivazione intrinseca, le competenze, le capacità e il carattere che
con il legame tra la sua remunerazione e i ritorni per gli azionisti. Se i leader non sono attrezzati per il ruolo che devono
ricoprire, dare loro un incentivo più alto legato ai risultati non migliorerà la situazione e potrebbe addirittura peggiorarla [...]
Le sfide che si pongono alla leadership aziendale – definire la strategia, costruire una solida organizzazione, sviluppare e
motivare dirigenti di alto profilo, e allocare le risorse tra i vari business dell’azienda per massimizzare i ritorni attuali futuri
– sono complesse. Puntando sugli incentivi economici per assicurare una leadership efficace, la teoria dell’agenzia banalizza
queste sfide e riduce l’importanza dello sviluppo di persone in grado di affrontarle» [Bower e Paine, 2017, p. 57-58].
Con riferimento all’interesse del soggetto economico (sub b), nelle imprese è in modo
prevalente, quando non esclusivo, lo scopo di lucro, mentre nelle altre aziende è un interesse
extra-economico, come ad esempio l’interesse socio-politico per le amministrazioni pubbli-
che, oppure l’interesse sociale o filantropico per le organizzazioni non-profit. Ne consegue che
nelle amministrazioni pubbliche – ma il discorso può essere esteso anche alle non-profit – è
più elevata l’aspettativa da parte della collettività che gli organi di governo e gestione si com-
portino in modo più corretto, responsabile, trasparente e onesto [Rainey et al., 1976], in
quanto è “assente” il rischio che lo scopo di lucro possa prevalere sul soddisfacimento dei
bisogni.
Guardando alla centralità che assumono i bisogni dei destinatari dei beni e servizi per la
continuità aziendale (sub c), mentre per le imprese il soddisfacimento dei bisogni dei clienti
costituisce una condizione necessaria, ma non sufficiente, alla loro sopravvivenza, non al-
trettanto può dirsi per le aziende che trovano le loro condizioni di sopravvivenza nel soste-
gno da parte di altre economie 67, come nel caso delle amministrazioni pubbliche. Peraltro, i
contesti in cui operano talune amministrazioni pubbliche non sono competitivi, trovandosi
in una situazione di monopolio (es. il rilascio di un’autorizzazione da parte di un Comune).
Per talune aziende non-profit la capacità di soddisfare i bisogni (es. quello degli associati di
un’associazione) è, invece, una condizione necessaria per attrarre i fattori produttivi (capitale
e lavoro) necessari all’attività.
Per quanto riguarda il punto sub d), nelle amministrazioni pubbliche i soggetti che deci-
dono gli obiettivi da raggiungere (i politici) sono diversi rispetto a quelli che hanno il compito
di creare valore nel raggiungimento degli stessi. L’organo politico stabilisce i bisogni da sod-
disfare, la priorità da dare a tali bisogni ovvero come allineare gli interessi in competizione,
mentre i dirigenti sono responsabilizzati sulla creazione di valore nel perseguimento degli
obiettivi 68.
Il problema si pone quando la politica interferisce sulla modalità di creazione di valore,
visto che tale interferenza potrebbe portare, tra l’altro, a forme di opportunismo di vario
genere (es. clientelismo e nepotismo). Tuttavia, il principio di separazione dei ruoli tra politica e
67 In proposito Capaldo scrive che per alcuni «La sopravvivenza viene vista come l’obiettivo in grado di
ridurre ad unità gli interessi di tutti coloro che, in punto di diritto o di fatto, hanno titolo o comunque sono in
grado di interloquire nella gestione aziendale. Che cosa si può dire di questa opinione? Riferita ad alcuni tipi di
aziende essa è condivisibile. Lo è molto meno per altri tipi di aziende. In particolare essa è convincente se
pensiamo alle aziende che producono per lo scambio e segnatamente alle imprese. E lo è sulla base del seguente
argomento: la sopravvivenza dell’impresa postula […] il suo durevole equilibrio economico-finanziario e poiché
questo, a sua volta, postula la congrua remunerazione di tutti i fattori della produzione attraverso i ricavi, ecco
che con la teoria della sopravvivenza il cerchio in qualche modo si chiude, nel senso che l’impresa sopravvive solo
se appaga le aspettative di tutti, ivi compresi quelli che puntano al profitto. Tutt’altro è il discorso per le aziende
diverse dalle imprese, perché esse a volte possono vivere indefinitivamente pur non raggiungendo gli obiettivi
per cui sono nate […] Per queste aziende, come per tutte quelle che vivono al di fuori del mercato, la tesi della
sopravvivenza non è convincente; perché, tra l’altro, rischierebbe di lasciare indefinitamente in vita aziende che
fanno pessimo uso delle risorse loro affidate» [2013, p. 41, il corsivo è del testo originale].
68 Nelle amministrazioni pubbliche italiane, ai sensi dell’art. 4, comma 1, del D.Lgs. 165/2001, «gli organi
gestione pone rilevanti problemi in termini di coordinamento e coerenza politica dell’azione am-
ministrativa [Tosi et al., 1997]. A tal riguardo è stato rilevato il rischio di una potenziale disar-
monia [Hansen e Ejersbo, 2002; Moe, 2006] generata dall’asimmetria informativa che carat-
terizza appunto la relazione tra politica e amministrazione [Niskanen, 1971] 69. Questo po-
trebbe avere implicazioni notevoli sulla coerenza degli obiettivi socio-politici con le concrete
possibilità di creazione di valore.
Nelle imprese e nelle aziende non-profit i soggetti che stabiliscono il fine e quelli che hanno
la responsabilità di creare valore possono coincidere o essere diversi 70.
13.2. Durabilità da conquistare autonomamente sul mercato vs durabilità garantita dal sostegno di altre
economie
69 Si immagini, ad esempio, la volontà politica di realizzare un certo servizio per incrementare il consenso
elettorale, pur quando l’investimento non è sostenibile dal punto di vista finanziario, ovvero ad una situazione
in cui l’azione amministrativa si pone contro la volontà politica.
70 Coincidono nel caso in cui gli organi di governance e gestione sono gli stessi, come nel caso di una piccola
e media impresa in cui il proprietario è anche amministrazione unico e gestore. Sono diversi nella grande im-
presa in cui gli organi di governance fissano la mission delegando la gestione all’amministratore delegato e al
top management team.
71 In proposito, guardando alla normativa sulla prevenzione della corruzione, essa viene a dipendere dagli
interessi manifestati dal soggetto economico. In Italia, ad esempio, per le imprese a controllo privato è previsto
il DLgs n. 231/2001, per le PA la Legge n. 190/2012, mentre per le imprese che vedono la partecipazione di
azionisti pubblici e privati sono applicate entrambe le normative. In tale ultimo caso, sono previsti gradi di
applicazione diversi della L. 190/2012 a seconda della prevalenza dell’interesse privato su quello pubblico, ossia
ad un maggior rischio di corruzione passiva si associa un più elevato livello di applicazione di tale legge. Dalla
determinazione dell’ANAC (Autorità Nazionale Anticorruzione) n. 8 del 2015 si legge: «Come è noto l’ambito
di applicazione della legge n. 190 del 2012 e quello del d.lgs. n. 231 del 2001 non coincidono e, nonostante
l’analogia di fondo dei due sistemi, finalizzati entrambi a prevenire la commissione di reati nonché ad esonerare
da responsabilità gli organi preposti qualora le misure adottate siano adeguate, sussistono differenze significative
tra i due sistemi normativi. In particolare, quanto alla tipologia dei reati da prevenire, il d.lgs. n. 231 del 2001 ha
riguardo ai reati commessi nell’interesse o a vantaggio della società o che comunque siano stati commessi anche
e nell’interesse di questa (art. 5), diversamente dalla legge 190 che è volta a prevenire anche reati commessi in
danno della società».
Con riferimento all’effetto della perdita di reputazione sulla sopravvivenza aziendale (sub
f), per talune imprese, ma soprattutto per le aziende non-profit, che devono attrarre risorse
dall’esterno, la reputazione è spesso vitale, mentre per le amministrazioni pubbliche potrebbe
non esserlo, almeno fino ad un certo livello. Questo è il motivo per cui in tali amministrazioni
solo una normativa che vada a punire il danno all’immagine e alla reputazione della PA può
contrastare tale rischio 72. In proposito è stato rilevato che nell’impresa la perdita di reputa-
zione, con conseguente danno al profitto e alla sopravvivenza, costituisce un valido stru-
mento per contrastare la normalizzazione della corruzione perpetrata nell’interesse dell’im-
presa alla massimizzazione del profitto [Ashforth e Anand, 2003].
La pressione competitiva, unita all’interesse degli azionisti privati ad ottenere un congruo
profitto, potrebbero spingere le imprese a comportamenti irresponsabili (sub g). Ne consegue
che la sostenibilità del business deve essere realizzata simultaneamente alla sostenibilità
dell’etica. Il prevalere della socialità potrebbe determinare l’incapacità dell’impresa di soprav-
vivere. Nelle PA l’assenza di mercato e di un azionista interessato al rendimento residuale
esclude tali giustificazioni, portando l’etica a trovare meno ostacoli rispetto alle imprese.
13.3. Effetto degli scambi di mercato e della durabilità sulla misurazione della creazione di valore
Le differenze che derivano dall’effetto che gli scambi di mercato e la durabilità (autonoma
o garantita) hanno sulla misurazione della creazione di valore, possono essere ricondotte ai
seguenti punti:
a) significato che assume il concetto di creazione di valore come condizione di sopravvi-
venza e sviluppo;
b) possibilità di verificare la capacità di creare valore sostenibile attraverso le condizioni
di equilibrio economico, finanziario, monetario e di interessi;
c) possibilità di utilizzare incentivi (positivi e negativi) per stimolare l’economicità azien-
dale.
Con riferimento al punto sub a), nell’impresa creare profitto implica la sopravvivenza e lo svi-
luppo in quanto essa, grazie alla sua capacità di rialimentare i processi produttivi, riesce ad
essere economicamente autonoma; nelle altre aziende soddisfare i bisogni e creare valore se-
condo utilità serve a dare una giustificazione economica al trasferimento di risorse garantito da terze
economie.
Per quanto riguarda il punto sub b), per le imprese gli indicatori contabili e di borsa assol-
vono un’importante funzione di verifica degli equilibri economico, finanziario e monetario,
mentre per le amministrazioni pubbliche e le aziende non-profit, gli indicatori quantitativi non
riescono ad esplicitare in modo esaustivo il valore della produzione realizzata e/o i consumi
di risorse per la sua realizzazione, visto che le prestazioni sono erogate direttamente in base
a diritti acquisiti, ovvero gli atti di scambio avvengono in mercati con forme di competizione
attenuata o indiretta. Sono quindi necessari anche indicatori di tipo qualitativo, normalmente
espressi nel bilancio sociale. Tale strumento è peraltro utilizzato dalle imprese per esprimere
la sostenibilità etico-sociale e ambientale con cui hanno condotto il loro business, ossia il
livello di equilibrio di interessi raggiunto.
72 Tale danno si riferisce al discredito generato nell’opinione pubblica nei confronti della PA [Cacace, 2004;
Dentamaro, 1996].
Nelle imprese il management può utilizzare una serie di indicatori di redditività che evi-
denziano, anche se non in modo esaustivo, se tali economie sono state in grado di soddisfare
i bisogni e/o di creare valore (punto sub c). Nelle aziende di produzione per l’erogazione il
rischio è che gli incentivi siano erogati sulla realizzazione di obiettivi che, talvolta, prescin-
dono dal fatto che essi abbiano consentito di soddisfare un certo bisogno o di creare valore,
così come dimostrato dalla sopravvivenza di taluni enti inutili o inefficienti che continuano
ad distribuire bonus agli organi di gestione.
Sulla differenza tra società di capitali e di persone di rinvia allo studio del seguente
pagina web: https://www.laleggepertutti.it/195706_societa-di-persone-e-societa-di-
capitali-quale-differenza-ce
1È subito opportuno precisare che in questo testo spesso utilizzeremo il termine azienda come sinonimo di corporation.
Tuttavia, non c’è sovrapposizione tra i due termini visto che il primo è un prodotto dell’economia aziendale italiana che
presenta dei contenuti diversi rispetto al secondo.
54 ESTRATTI PER IL CORSO DI ECONOMIA AZIENDALE ©
Inoltre, è agevole constatare come la letteratura sulla corporate governance non si con-
centri con la stessa intensità su tutte le tipologie di società di capitali. Infatti, il focus è prin-
cipalmente sulle imprese quotate (listed companies) [Blair, 1995, p. 3]. Questa preferenza è senza
dubbio connessa al rilevo assunto da tali società, soprattutto se ad azionariato diffuso, vista
la presenza di un numero talvolta elevatissimo di azionisti che conferiscono capitale delegandone la
gestione al management, sulla base di un rapporto fiduciario. Il fallimento di una società quo-
tata di grandi dimensioni ha senza dubbio una portata delle conseguenze e un impatto me-
diatico, più rilevanti rispetto ad una società non quotata di dimensioni modeste.
Inoltre, rispetto alle società non quotate, lo studio di quelle quotate è agevolato dalle co-
spicue informazioni che esse rendono pubblicamente disponibili, perché obbligate o in modo
volontario.
Tuttavia, nonostante la dimensione assunta dalle società quotate sia considerevole il loro
numero è molto ridotto rispetto al totale delle società. Basti pensare che attualmente in Italia
operano circa 250 società quotate. Le motivazioni derivano da una serie di motivi: vantaggio
fiscale derivante dalla deducibilità degli interessi passivi che spinge maggiormente verso l’uti-
lizzo di capitale di debito; la volontà dell’azionista di controllo di non diffondere al mercato
informazioni interne e di mantenere il controllo dell’azienda; i costi che la quotazione com-
porta soprattutto dal punto di vista della conformità ad una serie di regole [Zattoni, 2020].
Coerentemente con il modello teorico dell’interesse primario dell’azienda, in questo
scritto la governance è intesa come l’interazione tra gli attori interni ed esterni e i membri dell’organo
di governo (es. consiglio di amministrazione, consiglio di gestione, giunta), avente come fine ultimo l’orienta-
mento dell’azienda verso il suo interesse primario [Di Carlo, 2017; 2020]. L’organo di governo viene
ad assumere un ruolo di mediazione imparziale tra gli interessi, talvolta in competizione (o trade-
off), degli stakeholder, azionisti compresi, e l’interesse dell’azienda 2. Quest’ultimo, come fun-
zione obiettivo, deve guidare a fare la scelta ottimale in caso di trade-off. In generale, la tendenza
degli attori aziendali, soprattutto quando divengono salienti, potrebbe essere quella di elevare
il proprio interesse a interesse dell’azienda. Da qui discende l’importanza di avere un organo
di governo indipendente dagli interessi particolari degli stakeholder.
Nella definizione in parola, l’enfasi viene posta sull’azienda, alla quale viene riconosciuto
un interesse diverso rispetto a tutti i suoi stakeholder. Gli azionisti non sono proprietari
dell’azienda, bensì delle azioni, e il board ha un dovere fiduciario verso l’azienda. L’interesse
dell’azienda comprende due elementi: il fine del soddisfacimento dei bisogni dei clienti/utenti
attraverso la produzione di beni e servizi utili e una condizione di sopravvivenza e sviluppo,
riassunta con il termine creazione di valore sostenibile.
Da quanto finora osservato emerge che talune definizioni di corporate governance sembrano trovare
la loro motivazione nel fine assegnato all’impresa, e ancora prima nel concetto stesso di impresa. Dove il
fine riconosciuto è quello della creazione di valore per l’azionista, le definizioni enfatizzano
l’importanza di creare strutture di governance adeguate alla massimizzazione del risultato
appunto per l’azionista, mentre quando si guarda alla creazione di valore anche per gli altri
stakeholder le definizioni richiamano una pluralità di attori di cui la governance deve tener
conto.
2 Con riferimento alle relazioni con gli stakeholder, Bower e Paine sostengono che «trovare la maniera di mantenere
queste relazioni e stabilire quando sono necessari dei trade-off tra gli interessi dei vari gruppi sono decisioni critiche per la
leadership aziendale. La regola decisionale implicita nella teoria dell’agenzia – che i manager dovrebbero sempre massimiz-
zare il valore per gli azionisti – semplifica eccessivamente questo problema e porta inevitabilmente a un sottoinvestimento
sistematico in altre relazioni importanti» [2017, p. 34].
Lo studio della corporate governance richiede l’analisi dei seguenti attori, o soggetti azien-
dali:
- gli stakeholder, ossia i portatori di interessi largamente intesi;
- i proprietari (shareholder), ossia quegli stakeholder che conferiscono capitale di proprietà e
assumono, in primis, il rischio dell’attività d’impresa;
- i soggetti titolari dei diritti di controllo, ossia chi ha il potere di determinare le politiche finan-
ziarie e gestionali dell’impresa;
- i soggetti titolari dell’esercizio del potere di controllo, ossia chi esercita la direzione dell’impresa (gover-
nance e management), prendendo decisioni volte a indirizzare concretamente la gestione azien-
dale.
Nelle aziende di piccole dimensioni (ad esempio quelle a conduzione familiare) solita-
mente la stessa persona (o gruppo di persone) non solo ha la proprietà, ma contestualmente
controlla e dirige l’azienda. Nelle entità di più grandi dimensioni, soprattutto quelle che si
espandono a livello multinazionale, si assiste ad una separazione tra proprietà e controllo,
come anche a quella tra controllo e direzione.
Nei paragrafi successivi si procede con la descrizione degli attori e delle finzioni sopra
elencati.
Come già fatto per il termine corporate governance, anche in questo caso è opportuno
partire dal significato letterale della parola stakeholder. Lo stakeholder è un individuo o un
gruppo di individui che possiede (hold) un interesse (stake) nell’organizzazione. La definizione
più utilizzata in letteratura è senza dubbio quella di Freeman, il quale, proponendo la teoria
degli stakeholder come alternativa alla teoria di creazione di valore per i soli azionisti, definisce
“stakeholder” «un gruppo o un individuo che può influire o essere influenzato dal raggiungi-
mento degli obiettivi dell’organizzazione» [Freeman, 1984, p. 46].
Nel corso degli anni le crescenti richieste e le influenze da parte dei vari interessati alle
vicende aziendali hanno portato il management a fare sempre più attenzione alla gestione
attiva dei rapporti con gli stakeholder. Gli studiosi hanno risposto a questo crescente inte-
resse proponendo diversi criteri di classificazione, sulla base dell’impatto che le varie classi
di stakeholder possono avere sull’organizzazione, fornendo altresì delle indicazioni sulle mo-
dalità più opportune di gestione dei rapporti in questione (il c.d. stakeholder management).
Di seguito sono richiamate alcune delle classificazioni proposte.
Clarkson [1995] distingue gli stakeholder in primari e secondari. Gli stakeholder primari sono
rappresentati da quei gruppi che, avendo continue transazioni con l’impresa, risultano fon-
damentali per la sua sopravvivenza. Rientrano in questa categoria gli azionisti (shareholder), i
dipendenti, i finanziatori, i clienti, i fornitori e la comunità. Gli stakeholder secondari, invece,
sono quelli che influenzano o sono influenzati dall’impresa, ma non sono impegnati in tran-
sazioni con la medesima e, salvo alcuni casi, non sono essenziali per la sua sopravvivenza (es.
media, associazioni per la tutela dei consumatori e dell’ambiente). In generale si può affer-
mare che gli stakeholder hanno le potenzialità per aiutare o ostacolare l’impresa e, proprio per
tale motivo, è opportuno che il management tenga conto in modo prioritario dei loro inte-
ressi.
Altra classificazione normalmente richiamata in letteratura è quella tra stakeholder interni ed
esterni all’azienda. Tra i primi rientrano gli azionisti, i manager e i dipendenti, mentre tra i
secondi i fornitori, i clienti, i concorrenti lo Stato, la comunità e l’ambiente. Nel caso in cui
l’impresa non dovesse avere continuità il danno maggiore sarebbe causato agli stakeholder
interni, visto che quelli esterni, in particolare i clienti e i fornitori, possono con più facilità
trovare alternative sul mercato 3.
Bridoux e Stoelhorst [2014] distinguono i reciprocal stakeholders, orientati ai comportamenti
collaborativi e per i quali partecipare al bene comune costituisce una motivazione intrinseca,
rispetto ai self-regarding stakeholders interessati al solo tornaconto personale. Ad esempio, se i
cambiamenti aziendali non intaccano i rapporti con i reciprocal stakeholder tali cambiamenti
sono accompagnati da una creazione di valore. Se, invece, i cambiamenti impongono com-
portamenti non corretti ma orientati alla sopravvivenza dell’azienda, la reazione da parte dei
reciprocal stakeholder potrebbe portare a risultati negativi in termini di creazione di valore, di-
versamente da quanto accadrebbe se tali comportamenti riguardassero self-regarding stakeholder.
In generale, un reciprocal stakholder contribuisce maggiormente alla creazione di valore se
l’azienda adotta nei suoi confronti un approccio basato sulla correttezza, rispetto ad un com-
portamento normale. Un self-regarding stakeholder contribuisce invece maggiormente alla crea-
zione di valore se l’azienda adotta nei sui confronti un comportamento normale rispetto ad
uno basato sulla correttezza.
Mitchell et al. [1997] adottano una classificazione che tiene conto di tre attributi che gli
stakeholder possono presentare: potere (di influenzare l’azienda), legittimità (della relazione
con l’azienda) e urgenza (delle aspettative verso l’azienda). Questa classificazione è centrale
se si pensa che l’azienda non è sempre in grado di soddisfare tutte le richieste dei suoi porta-
tori di interessi, quindi lì dove si pone un dilemma etico su quale degli interessi in competi-
zione sia opportuno favorire, la segmentazione proposta diventa determinante nel processo
decisionale del management.
La Tav. 12 contiene, per ciascuna categoria i stakeholder, i loro interessi particolari (econo-
mici ed extra economici) e il contributo fornito all’azienda. Si può anche dire che ciascuno
dei soggetti elencati ha un interesse particolare a partecipare all’attività economica aziendale
poiché riceve una ricompensa (non solo economica) per il contributo fornito 4.
A ben vedere gli interessi degli stakeholder possono essere soddisfatti attraverso beni
estrinseci (materiali e immateriali, intrinseci, trascendenti e di immagine).
Il rischio dei clienti e fornitori è invece paragonabile a quello degli stakeholder interni quando essi operano per una
3
sola impresa.
4 Da questa diversità di interessi emerge anche un diverso interesse verso le comunicazioni aziendali (corporate disclosure).
Talvolta la comunicazione volontaria da parte dell’impresa viene sollecitata proprio dalle pressioni di alcuni stakeholder che
chiedono all’impresa una rendicontazione economica e/o sociale oltre a quella prevista obbligatoriamente dalla normativa.
La ricerca della legittimazione spinge gli organi di governance a tener conto delle aspettative degli stakeholder.
che i manager si sottraggano dai loro doveri; ciò comporterebbe prima o poi un pregiudizio
per la continuità aziendale, quindi per tutti gli stakeholder. A ben vedere, gli altri stakeholder,
pur non accettando il profitto come unico fine dell’impresa, dovrebbero essere portati a con-
siderarlo come una condizione da rispettare per la sua sopravvivenza e il suo sviluppo [Koslo-
wski, 2000], e il rispetto di tale condizione non può non interessarli.
Anche secondo Blair e Stout [2001] gli azionisti non sono gli unici ad avere interesse al
rendimento residuale sul capitale investito e, più in particolare, alla durabilità dell’azienda. I
dipendenti, siano essi manager o impiegati/operati, fanno investimenti specifici nell’azienda,
oltre quanto contrattualmente previsto, ad esempio, investono in capitale umano, in cono-
scenza, in relazioni, in ore di lavoro non retribuite e così via. Tali investimenti trovano ra-
gione nel fatto che i dipendenti credono che nel lungo termine l’impresa riconoscerà, sulla
base di un rapporto di reciprocità, quanto le è stato dato, in termini di aumento di stipendio,
promozioni, sicurezza del posto. Se per qualsiasi motivo l’azienda dovesse andare in default,
a subire perdite non sarebbero solamente gli azionisti ma anche i dipendenti che non po-
tranno più ricevere remunerazione degli investimenti specifici fatti in passato 5.
Il discorso di Blair e Stout può dunque essere esteso a tutti quegli stakeholder che, ad esem-
pio in periodi di crisi dell’azienda, forniscono alla stessa più di quanto richiesto dal contratto
con stipulato la stessa, ad esempio: i fornitori che hanno allungato i tempi di incasso oltre
quanto stabilito, i finanziatori che non hanno portato l’azienda al fallimento nonostante i
loro crediti siano scaduti e non ancora incassati.
Peraltro, giova rilevare come mentre taluni azionisti (es. gli speculatori) potrebbero essere
interessati al profitto a prescindere da come lo stesso viene realizzato, altri stakeholder (es. i
dipendenti) sono interessati al reale stato di salute dell’azienda, quindi anche alla sostenibilità
del profitto nel tempo.
La pandemia ha generato una serie di forze interne ed esterne che hanno prodotto effetti,
positivi o negativi, sui rapporti azienda-stakeholder-collettività, così come rappresentati nella
Tav. 13. Tali rapporti sono di tipo circolare e comportano responsabilità di natura giuridica ed
etica.
Come rilevato da Latemore, il «Covid ha rafforzato il fatto che come specie umana siamo
collegati a livello globale, sia per il male che per il bene… Proprio come il Covid non conosce
confini e non rispetta confini, la comunità umana è ora inesorabilmente legata» (2020, p. 2).
5 Gli investimenti specifici sono persi dai dipendenti anche in ipotesi di licenziamento.
Per fare un esempio, un’azienda che tuteli la sicurezza dei lavoratori attraverso il rispetto della
normativa anti-Covid (relazione 2 della Tav. 13), non solo favorisce il loro benessere, ma anche
quello della collettività, essendo i primi parte della seconda, ed essendo interesse della collettività
quello di raggiungere il maggior benessere sociale.
Il comportamento responsabile dell’azienda ha effetti sui dipendenti (relaz. 2), in quanto ve-
dono ridursi il rischio di contagio, come pure il comportamento di questi ultimi verso la colletti-
vità (relaz. 5), giacché non essere contagiati in azienda evita di mettere a rischio i soggetti esterni.
Inoltre, i comportamenti virtuosi acquisiti in azienda possono essere diffusi anche nelle colletti-
vità 6. Un dipendente contagiato, invece, produce effetti negativi sia in azienda (es. perché con-
tagia i suoi colleghi) sia nella collettività (es. contagia altre persone a loro volta operatori in altre
aziende) (Oswald et al., 2015). Anche comportamenti non virtuosi producono effetti negativi (es.
abitudine in azienda, portata anche all’esterno, a non indossare la mascherina).
Il benessere generato al lavoratore, ad esempio garantendogli adeguati strumenti anti-conta-
gio, può avere effetti positivi sull’azienda stessa (relaz. 1), in termini di produttività delle ore
lavorate. Un incremento della profittabilità aziendale, a sua volta, ha effetti positivi sulla colletti-
vità (relaz. 3), ad esempio, per il fatto di aver consentito, attraverso il maggior reddito imponibile,
di aumentare il gettito fiscale, quindi il livello quantitativo e/o qualitativo dei servizi pubblici.
Comportamenti responsabili dell’azienda verso i suoi stakeholder portano ad una maggiore le-
gittimazione della stessa da parte della collettività (relaz. 4). Infatti, la percezione che l’azienda sia
conforme alle norme anti-contagio favorisce il rapporto con i suoi stakeholder (Grace, 2020).
Pertanto, il rispetto della legge è stata una fonte di vantaggio competitivo (Peterson, 2013).
Il benessere della collettività, a sua volta, è anche benessere degli stakeholder, quindi delle
aziende per cui essi operano (relaz. 6). La situazione di emergenza dovuta alla pandemia ha de-
terminato uno stress psicologico enorme nella collettività, che si è ripercosso sulle aziende.
Queste relazioni mettono chiaramente in evidenza che, di norma, ciò che è bene per l’azienda
è bene per gli stakeholder e la collettività e viceversa. In altri termini, l’azienda è in grado di contribuire
a migliorare la vita delle persone al suo interno e all’esterno.
In generale, considerare non solo i bisogni materiali degli stakeholder (es. per il dipendente la
remunerazione economica), ma anche quelli morali, sociali e spirituali, produce effetti sulla
6 Come giustamente rilevato, il «comportamento responsabile non va abbandonato fuori dai luoghi di lavoro.
Anzi, ognuno di noi dovrà diventare ambasciatore in tutta la società della cultura della prevenzione praticata sul luogo
di lavoro, perché i nostri bambini possano tornare presto a una vita sociale nelle loro scuole, perché si possa riprendere
a praticare uno sport quale elemento essenziale di benessere psicofisico, perché il nostro sistema di assistenza sanitaria,
che, profondamente colpito dall’emergenza COVID-19, ha saputo in questi mesi scrivere pagine straordinarie grazie
al sacrificio di tanti medici e operatori sanitari, possa tornare a fornire in sicurezza il suo fondamentale servizio per la
tutela della nostra salute» (Politecnico di Torino, 2020).
collettività, a prescindere dagli effetti generati sull’azienda. Per questo motivo diventa rilevante
comprendere che un individuo ha diverse identità (es. un individuo può essere al tempo stesso
dipendente di un’azienda, padre di famiglia, membro di un’associazione), ciascuna delle quali
porta bisogni diversi. Un’azienda che concede al dipendente un permesso per dedicare più tempo
alla sua famiglia, o di lavorare in smart working, favorisce non solo il benessere del dipendente,
ma anche quello della sua famiglia e l’armonia familiare è un bene comune a tutti i membri della
famiglia.
In proposito, Arjoon rileva che le aziende che adottano strategie e programmi di lavoro/vita
(assistenza agli anziani, pianificazione flessibile, condivisione del lavoro, rimozione di molte re-
gole di lavoro, consentendo alle persone di impostare i propri obiettivi e ore di lavoro, consentire
il lavoro da casa e altri siti, ecc.) promuovono il bene della società (2000, pp. 164-165).
7 In Italia, ad esempio, l’articolo 2473 del cod. civ. stabilisce che l’atto costitutivo determina i casi in cui il socio può
recedere dalla società e le relative modalità. Il diritto di recesso compete in ogni caso per legge al socio che non abbia
acconsentito, ad esempio, al cambiamento dell’oggetto sociale; alla trasformazione; alla fusione od alla scissione della società;
al trasferimento della sede all’estero.
In aggiunta, è agevole constatare che anche i vari tipi di azionisti potrebbero essere por-
tatori di interessi non sempre tra loro allineati. Si pensi, ad esempio, agli azionisti orientati al
breve termine, rispetto a quelli orientati al medio-lungo termine; agli azionisti che hanno una
logica orientata alla massimizzazione del profitto a tutti i costi rispetto a quelli che conside-
rano anche la sostenibilità tra i bisogni da soddisfare, ovvero interessi socio-politici.
Secondo la shareholder theory, invece, l’azienda sarebbe uno strumento di proprietà degli
azionisti per massimizzare il loro investimento. Ne consegue che gli azionisti sono considerati
proprietari dell’impresa. L’azienda sarebbe quindi una finzione giuridica, senza una propria indi-
vidualità e, quindi, senza un proprio interesse distinto rispetto a quello dei suoi proprietari.
Questo modo di intendere la proprietà porta a non dare rilievo, finanche ad escludere, il
conflitto di interessi tra azionista ad azienda. Ne è una prova che la teoria dell’agenzia si
preoccupa di disciplinare il conflitto di interessi tra azionisti e manager, nei contesti in cui si
assiste ad una separazione tra proprietà e controllo, ovvero quando c’è un azionista di mag-
gioranza che potrebbe tendere ad espropriare azionisti di minoranza. In caso di unico pro-
prietario sembra invece non sussistere alcun problema.
Ciò precisato, il titolo azionario attribuisce due diritti: il diritto di voto (voting right) e il
diritto alla ripartizione dei flussi di cassa (cash flow right).
Il primo riguarda il diritto di esprimere un voto nell’assemblea degli azionisti, ad esempio
per la nomina del consiglio di amministrazione e la ripartizione degli utili. A questo livello è
possibile distinguere gli azionisti che partecipano all’assemblea da quelli che, invece, per vari
motivi, non vi prendono parte. Di norma vale il principio “un’azione un voto”. Tuttavia,
alcuni ordinamenti prevedono la possibilità di emettere azioni senza diritto di voto (es. le azioni
di risparmio), ovvero, azioni con voto plurimo.
I cash flow right si riferiscono invece alla ripartizione del rendimento residuale (c.d. residual
claims), ossia dei dividendi o del capitale che, in ipotesi di liquidazione, rimane dopo aver
onorato le obbligazioni aziendali. Ne consegue che un’azione senza diritto di voto incorpora
solo il diritto ai flussi di cassa, mentre un’azione con voto plurimo vedrà più diritti di voto,
pur avendo lo stesso diritto ai flussi di cassa delle altre azioni.
Per il fatto di essere remunerato in via residuale, normalmente il capitale di proprietà viene
anche definito capitale di rischio. Infatti, mentre gli altri soggetti che partecipano alla creazione
di valore hanno remunerazioni garantite da contratti (es. dipendenti, banche) gli azionisti
ricevono un rendimento solo dopo aver soddisfatto tali soggetti.
Per alcuni, visti i dissesti finanziari che hanno interessato diversi colossi aziendali por-
tando a perdite enormi anche per tutti gli altri soggetti contrattualmente “protetti” (es. di-
pendenti, fornitori, clienti, banche), non è opportuno utilizzare questo termine nel richiamare
il solo capitale di proprietà. Peraltro, come prima rilevato, anche altri stakeholder (es. dipen-
denti, fornitori) potrebbero subire perdite quando essi hanno fatto investimenti specifici
nell’azienda, ad esempio in termini di capitale umano, di impegno lavorativo oltre quanto
dovuto contrattualmente, che potranno essere remunerati solo se l’impresa sopravvive e si
sviluppa (es. aumenti della remunerazione, promozioni).
Dunque, con riferimento al capitale proprio sembra più opportuno parlare di capitale di
pieno rischio, ad indicare che rispetto agli altri stakeholder gli azionisti sono più esposti al rischio
di non essere remunerati.
La crescita dimensionale delle aziende si lega inevitabilmente alla disponibilità di capitali. Fino a
quando le dimensioni sono ridotte, il capitale conferito dal singolo imprenditore-proprietario
8I coefficienti sono una misura della quantità di capitale di una banca espresso in percentuale della sua esposizione al
rischio di credito ponderato.
9 Osserva Cavalieri: «Sarebbe comunque auspicabile un’adeguata eccedenza del capitale permanente rispetto alle immo-
bilizzazioni a fabbisogno rigido, che contribuirebbe a conferire all’impresa una adeguata elasticità finanziaria di tipo strate-
gico – con tale espressione ci si riferisce alla possibilità che l’azienda, in virtù della struttura finanziaria di cui dispone, riesca
a procurarsi i finanziamenti necessari per coprire il fabbisogno finanziario generato da investimenti volti a modificare la
struttura aziendale per adeguarla alle nuove condizioni dell’ambiente –. L’importanza di queste relazioni non sarà mai suf-
ficientemente evidenziata. I recenti dissesti finanziari sono stati caratterizzati dalla presenza di rapporti patologici tra inde-
bitamento e capitale di proprietà, nonché tra caratteristiche degli investimenti (e dei relativi fabbisogni), da un lato, e carat-
teristiche delle fonti di copertura, dall’altro»; Cavalieri [2005, p. 410].
10Come si avrà modo di puntualizzare più avanti nel lavoro, nonostante l’importanza degli equilibri economico-finan-
ziari nel garantire la sopravvivenza e lo sviluppo dell’azienda, non sempre chi esercita i diritti di controllo sembra tenere a
tali equilibri. Ciò si verifica quando i titolari di tali diritti hanno interessi particolari non allineati a quelli dell’azienda.
decide anche come investire il capitale attinto a prestito, anche quest’ultimo viene fatto rien-
trare nel capitale comandato.
Dunque, la distinzione tra capitale di comando, che esercita i diritti di controllo, e capitale
comandato, che subisce gli effetti positivi o negativi di chi controlla, nasce fondamentalmente
dall’esigenza di reperire le risorse finanziarie necessarie allo sviluppo delle combinazioni pro-
duttive [Cavalieri e Ranalli, 1999, p. 215].
Le minoranze, ossia il capitale comandato, possono essere distinte, a loro volta, in mino-
ranze qualificate e non qualificate. A differenza delle minoranze non qualificate – che non con-
trollano e non influenzano l’attività della società in cui hanno investito – quelle qualificate,
oltre alla possibilità di ottenere un rendimento dal capitale conferito (dividendi e capital gain),
come quelle non qualificate, hanno anche interesse a partecipare attivamente alla governance
dell’impresa.
Con specifico riferimento alle società quotate, è poi opportuno distinguere gli azionisti a
seconda che siano rilevanti o non rilevanti. In Italia, ad esempio, ai sensi del Testo Unico della
Finanza (Tuf) è azionista rilevante chi partecipa in una società con azioni quotate in misura
superiore al 3% del capitale. Gli azionisti rilevanti (ma anche quelli irrilevanti) possono essere
qualificati e non qualificati, nel senso sopra specificato 11.
In alcune grandi corporation il capitale di proprietà diventa talmente diffuso da annullare la
differenza tra capitale di comando e capitale comandato. È questo il caso delle public com-
pany, dove con il termine “public” si indica che il capitale appartiene al pubblico degli inve-
stitori (e non quindi che la società è di proprietà dello Stato). Questo aspetto, come si avrà
più modo di precisare, è rilevantissimo visto che la presenza di azionisti che hanno un inte-
resse particolare e temporaneo nell’azienda (agli azionisti speculatori) ha notevoli implica-
zioni sul comportamento del management, che si trova a dover porre tale interesse al centro
della gestione aziendale, quand’anche eticamente ritenesse giusto considerare l’interesse di
altri stakeholder.
Di particolare importanza è poi il ruolo che la proprietà gioca come meccanismo di cor-
porate governance. In proposito, Connelly et al. [2010] distinguono l’inside ownership dall’outside
ownership. Rientra nella prima categoria il capitale di proprietà posseduto dai manager, dagli
amministratori e dai dipendenti. In sintesi, la funzione dell’inside ownership è di allineare l’inte-
resse dei soggetti che a vario titolo operano nell’azienda con quello degli azionisti (il cosid-
detto “alignement approach”) [Dalton et al., 2003]. L’outside ownership, invece, fa riferimento al
capitale di proprietà detenuto da azionisti esterni (es. private equity, azionisti rilevanti e non rile-
vanti). In tal caso, maggiore è il capitale posseduto più elevato è l’incentivo che i proprietari
hanno nel monitoraggio dei manager (“control approach”).
Il controllo si vuole qui definire come il potere di determinare le azioni da prendere [Turnbull,
1997, p. 182], ossia di indirizzare le politiche gestionali e finanziare dell’impresa.
In economia aziendale il soggetto in possesso di tale potere è chiamato soggetto economico e
viene inteso come quella persona fisica o quel gruppo di persone fisiche che, di fatto, detiene il massimo
potere decisionale. Al soggetto economico «fanno capo le prerogative massime di iniziativa di
11 Sempre in Italia, l’attivismo nella governance da parte delle minoranze qualificate è determinato soprattutto dal fatto
di aver presentato, ai sensi dell’art. 147-ter del Tuf, la cosiddetta lista di minoranza. Il Tuf, infatti, ammette l’elezione di
amministratori di minoranza, per consentire di rappresentare efficacemente la posizione di una minoranza all’interno dell’or-
gano di gestione, contribuendo così ad una più incisiva tutela della stessa minoranza [Alvaro et al., 2012].
12Il termine soggetto economico non trova una traduzione nella letteratura internazionale. Tuttavia, spesso si utilizza il
termine insider per indicare chi, di fatto, si trova ad esercitare i diritti di controllo (es. azionista di maggioranza nel caso della
società a capitale concentrato o management nel caso della public company).
In proposito Cafferata scrive: «avere la possibilità di esprimere la maggioranza utile dei voti significa che, di fronte ad
13
una decisione da prendere e a una scelta da fare, è possibile imporre la propria opinione, il proprio indirizzo, se del caso la
propria volontà qualunque essa sia. Il che equivale a dire: essere il decisore in ultima istanza» [2014, p. 82].
La direzione si riferisce all’esercizio concreto del potere di controllo. In effetti, il soggetto econo-
mico, che detiene il potere dominante in quanto titolare dei diritti di controllo, può delegare
ad altri una parte più o meno rilevante dell’esercizio di tale potere. Il soggetto economico ha
però sempre la possibilità di revocare l’esercizio del potere conferito.
Pertanto, la differenza tra controllo e direzione è la stessa che c’è tra funzioni generali di governo o
di indirizzo e funzioni di gestione. Le prime, come sottolineato in precedenza, spettano al sog-
getto economico (es. azionista di maggioranza), mentre le seconde competono al consiglio
di amministrazione e alla direzione, ossia agli organi di management scelti direttamente o
indirettamente dal board.
Visto che «l’area della governance si configura come un’area di interessi, decisioni e ope-
razioni aziendali» [Cafferata, 2014, p. 58], si vogliono far rientrare in quest’area le decisioni
del soggetto economico e quelle del consiglio di amministrazione.
Per quanto concerne il governo d’impresa, sono due i sistemi normalmente richiamati:
two-tier system e one-tier system.
Il primo, detto anche modello duale (di derivazione tedesca), si caratterizza per la presenza
di due distinti organi collegiali: il consiglio di sorveglianza (supervisory board), eletto dall’assem-
blea degli azionisti, e il consiglio di gestione (management board) nominato dal primo. In tale
modello, dunque, gli azionisti nominano i controllori (consiglio di sorveglianza), mentre que-
sti ultimi nominano i controllati (consiglio di gestione). Il management board normalmente in-
clude solo manager aziendali. Il presidente siede nel supervisory board come amministratore
non esecutivo.
In alcuni contesti la legge prevede che nel consiglio di sorveglianza prendano posto anche
soggetti diversi dagli azionisti, come ad esempio accade in Germania dove nel supervisory board
sono presenti anche rappresentanti dei lavoratori. Ne consegue che in questo caso il soggetto
economico è espressione di soggetti (azionisti e lavoratori) che hanno interessi particolari
diversi (supra, Tav. 12) e, per tale motivo, il governo aziendale si dice essere frutto di una
cogestione. In effetti, il supervisory board può essere considerato come un veicolo che consente
a gruppi di stakeholder diversi (azionisti e lavoratori) di partecipare alla governance aziendale.
Il secondo modello, detto anche modello monistico, si è sviluppato nei paesi anglosassoni
proprio perché un comitato di controllo interno al CdA (audit committee) consente di compen-
sare la mancanza di monitoraggio diretto esercitabile da parte degli azionisti che sono in
possesso di quote marginali di capitale.
In sintesi, nel modello monistico i soci nominano i controllati (consiglio di amministra-
zione), mentre questi ultimi nominano i controllori (comitato di controllo e gestione). Tale
modello ben funziona quando i controllori sono dotati di requisiti di indipendenza e di altis-
sima professionalità. Inoltre, i componenti dell’audit committee partecipano alla gestione azien-
dale, essendo amministratori della società e deliberano insieme agli altri amministratori in
merito agli atti gestori della società. In tal senso, esercitano un importante controllo ex ante.
Nella governance aziendale indubbiamente il ruolo di maggior rilievo è ricoperto dal con-
siglio di amministrazione (board of directors). L’importanza del board è andata via via crescendo
con la consapevolezza che i grandi scandali e dissesti societari hanno trovato nella mancanza
di efficacia di tale organo di governo uno dei principali responsabili.
Nelle società a capitale concentrato il board viene nominato dall’azionista di controllo.
Spesso tale azionista, che – come specificato in precedenza – costituisce il soggetto econo-
mico d’impresa, è presente nel board. Quando anche decidesse di non farne parte è facile
immaginare come tale soggetto possa imprimere agli organi di governance il suo orienta-
mento strategico di fondo. Si rammenta che nel sistema duale tedesco, il board (consiglio di
gestione) viene nominato dal consiglio di sorveglianza a cui partecipano non solo gli azionisti
ma anche i rappresentanti dei lavoratori.
Nelle società a capitale diffuso il board è eletto dagli azionisti ma, a differenza del caso
precedente, questi ultimi non sono coinvolti nella governance aziendale. Dunque, l’influenza
di alcuni azionisti di minoranza (active shareholders) sul board viene esercitata all’esterno, attra-
verso l’esercizio del diritto di voice o di exit.
Al board sono attribuite obbligazioni fiduciarie nei confronti degli azionisti, degli stakeholder
o dell’impresa a seconda della teoria di riferimento, ovvero del fine assegnato all’impresa
stessa.
Più in generale, i ruoli assunti dal board sono fatti rientrare in quattro categorie: il monitoring
role, lo strategic role, il service role e il mediating role.
Il ruolo di monitoraggio si riferisce a tre ambiti: 1) all’assunzione, al licenziamento e alla re-
munerazione del management (hire, fire and compensate managers) e deriva dalle indicazioni for-
nite dalla teoria di creazione del valore per l’azionista e dalla connessa teoria dell’agenzia; 2)
alla valutazione delle operazioni in conflitto di interessi tra la società e gli insider (azionista di
maggioranza e manager); 3) alla supervisione del processo di accounting, di reportistica finan-
ziaria e di disclosure in generale, ossia di quanto necessario a valutare le performance aziendali,
consentendo al mercato di essere più efficiente nell’allocazione delle risorse degli investitori.
Il ruolo strategico riguarda appunto l’impostazione della strategia aziendale e la selezione dei
progetti. Dunque, il board non solo ratifica le decisioni del management ma partecipa attiva-
mente all’orientamento strategico di fondo dell’azienda e alle strategie aziendali. Sulle moda-
lità di tale partecipazione diverse sono poi le posizioni degli studiosi.
Il ruolo di servizio è invece connesso alla teoria della dipendenza dalle risorse, per la quale il
board dovrebbe rappresentare un meccanismo per favorire il networking, ossia l’accesso alle
risorse esterne necessarie all’impresa per poter operare.
Infine, il ruolo di mediazione, suggerito dalla team production theory, vede il board come un or-
gano indipendente dagli stakeholder, azionisti compresi, orientato a trovare una mediazione
tra gli interessi dei partecipanti alla produzione (il c.d. team produttivo).
Il management (gli executives) è composto da dipendenti con funzioni dirigenziali, come ad
esempio i direttori generali (che tuttavia possono anche essere nominati dall’assemblea degli
azionisti) incaricati di svolgere mansioni di alta gestione. Questi ultimi rispondono solo all’or-
gano amministrativo della società, ossia al board da cui, come detto, dipende la loro nomina.
Il loro potere è, quindi, un potere derivato e non originario (come per gli amministratori che
per legge non sono subordinati agli azionisti che li hanno nominati), la cui fonte è il contratto
di lavoro, che implica la soggezione alle direttive del consiglio di amministrazione.
Il chief executive officer (CEO) è il principale responsabile dell’attività d’impresa e, di norma,
siede nel board (in Italia, l’amministratore delegato), rappresentando l’anello di collegamento
tra il board stesso e il top management team.
Il board si compone di amministratori esecutivi (inside director o executive directors) e non ese-
cutivi (outside director o non-executive directors, i cosiddetti NEDs): i primi sono manager impiegati
a tempo pieno in azienda 14 e, quindi, il ruolo di monitoraggio nei confronti del loro collega
CEO potrebbe essere fortemente condizionato; i secondi, invece, non appartengono al ma-
nagement e, per tale motivo, sono ritenuti più imparziali e critici rispetto agli altri ammini-
stratori.
9. Il gruppo aziendale
14 Per quanto concerne il conteso italiano, ai sensi del codice di autodisciplina di Borsa Italiana [2011], sono qualificati
amministratori esecutivi coloro che, all’interno dell’emittente o di una società controllata avente rilevanza strategica, sono:
amministratori delegati, amministratori che ricoprono incarichi direttivi (es. direttore generale, direttori di divisione), am-
ministratori che fanno parte del comitato esecutivo.
interna, il discorso si complica e le modalità di esercizio di tale potere diventano più sfumate
e mediate.
Ciò premesso, in questo scritto si propende per una definizione che considera il gruppo
aziendale come pluralità di unità produttive (di beni o servizi), con soggettività giuridica distinta (società) o
condivisa (divisioni di una società), sottoposte al controllo di uno stesso soggetto economico (persona fisica o
gruppo di persone fisiche), dove per controllo si intende il potere del soggetto economico di indi-
rizzare le unità aggruppate, a prescindere dagli strumenti in concreto utilizzati (es. partecipa-
zioni, contratti, vincoli economici). Tale potere decisionale strategico può essere totalmente
esercitato dal soggetto economico controllante, ovvero può essere da quest’ultimo delegato,
in modo più o meno ampio, alle singole unità produttive. Nel primo caso, parleremo di
azienda gruppo (di società o divisioni), mentre nel secondo caso si potrebbe parlare, al verifi-
carsi delle condizioni di cui si è discusso, di gruppo di aziende.
Pertanto, le società controllate, pur appartenendo ad un’aggregazione configurabile come
unica entità economica, talvolta, assumono importanza per gli studi economico-aziendali,
potendo essere considerate unità aziendali individualmente rilevanti, per quanto concerne l’os-
servazione dei loro equilibri economico-finanziari. Diversi, peraltro, sono gli studiosi che,
riferendosi alle controllate, definiscono le stesse come aziende, attribuendo evidentemente
tale qualifica anche alle unità produttive che presentano un’autonomia decisionale relativa e
finalità assegnate da un soggetto esterno controllante.
È quanto mai opportuno sottolineare, fin d’ora, che nonostante in taluni casi sia possibile
definire “azienda gruppo” sia il gruppo di società (in tale ipotesi sembra opportuno parlare
di azienda con soggettività giuridica suddivisa tra una pluralità di soggetti giuridici) che la
società con struttura multidivisionale, è sempre opportuno distinguere le due fattispecie.
Questo in quanto nel gruppo di società ogni soggetto giuridico opera con proprie responsa-
bilità, economiche e giuridiche, nei confronti degli stakeholder, che limitano l’autonomia deci-
sionale del soggetto economico controllante nell’indirizzo delle controllate, rispetto al caso
in cui il soggetto economico controlli più unità produttive che svolgono la loro attività all’in-
terno di un unico soggetto giuridico, come accade nella società multidivisionale.
10. Le unità del gruppo economicamente autonome, prive di vitalità economica e a vitalità economica riflessa
Affinché un gruppo aziendale possa avere durevole esistenza è necessario che sia autonomo
dal punto di vista economico, ovvero deve essere in grado di realizzare un adeguato profitto
per il suo soggetto economico. In pratica, deve essere realizzata la seguente condizione.
tz n tz m
åå f
t = to i =1
i p it + a =å å Qk Pkt
t = to k =1
dove:
fi = quantità dei fattori produttivi (compresi gli interessi sul capitale
di proprietà e il salario direzionale);
pi = prezzi di acquisto dei fattori produttivi;
fipi = costi di acquisto dei fattori produttivi;
α = profitto;
Qk = quantità dei prodotti;
I ricavi di gruppo sono componenti positivi di reddito del gruppo derivanti soltanto da ces-
sioni a terze economie, mentre i costi di gruppo rappresentano componenti di reddito negativi
derivanti da acquisizione di fattori produttivi da terze economie. Ne consegue che il profitto
di gruppo (α) è depurato degli utili interni non realizzati verso il mercato. In pratica nella
relazione vengono espressi i componenti positivi e negativi di reddito rappresentati nel bi-
lancio consolidato.
A ben vedere, l’autonomia economica del gruppo è intimamente connessa alle condizioni
di equilibrio economico delle singole unità produttive che ne fanno parte, soprattutto quando
le attività svolte dalle medesime presentano un elevato grado di complementarietà econo-
mica, come ad esempio accade nei gruppi verticali.
Le singole economie costituenti il gruppo possono presentare diverse condizioni di equi-
librio, che devono essere interpretate tenendo sempre a mente la più ampia economia di
appartenenza. Se ciò non venisse fatto, si rischierebbe di interpretarne in modo distorto gli
equilibri economici e finanziari.
Invero, qualora si analizzino gli equilibri di un’unità operante all’interno di un gruppo,
può accadere che la stessa, pur svolgendo la propria azione con economicità, ovvero in modo
efficace ed efficiente, non sia autonoma dal punto di vista economico. Ciò nonostante il
soggetto economico del gruppo ha interesse a mantenerla in vita, attraverso la sistematica co-
pertura delle relative perdite, in quanto giudicata essenziale all’economia del gruppo stesso. In
altri termini, è utile al gruppo, nel senso che il valore creato si riflette sui valori di bilancio
delle altre società, ovvero in assenza di tali economie la riduzione del valore creato dalle altre
unità sarebbe superiore alla perdita che il gruppo dovrebbe coprire per garantirne la soprav-
vivenza. Le partecipazioni detenute dalla holding in tali unità sono quindi strategiche.
Già da queste prime considerazioni si comprende come il trasferimento di utili a queste
società, attuato anche attraverso l’applicazione di prezzi interni di trasferimento non allineati
a quelli di mercato (es. finanziamenti infruttiferi volti a rafforzarne il patrimonio, ovvero a
coprirne le perdite), entro certi limiti debba ritenersi assolutamente legittimo, visto che il
pregiudizio arrecato alle minoranze delle società che contribuiscono al risanamento, solo ap-
parentemente senza vantaggi, sarebbe maggiore in assenza delle economie supportate.
È chiaro che in questa ipotesi l’unità dipendente, seppur in perdita, sta comunque creando
valore per il gruppo che, tuttavia, non è misurabile in termini di differenza tra ricavi e costi
in quanto, come si è detto, l’unità produttiva non è messa nella condizione di raggiungere
una condizione di equilibrio economico a valere nel tempo, tale da assicurarne autonoma-
mente la sopravvivenza.
Pertanto, l’unità produttiva opera con economicità, crea valore per il gruppo e, proprio
per questo, la durabilità viene garantita dal soggetto economico controllante.
Nel gruppo è possibile individuare tre diverse fattispecie, con riferimento al grado di auto-
nomia economica delle controllate. In particolare, si distinguono le unità produttive:
a. economicamente autonome;
b. prive di vitalità economica;
c. a vitalità economica riflessa.
Nella Tav. 14 viene rappresentato graficamente il grado di autonomia economica delle
società del gruppo, che va dal livello massimo (I quadrante) delle unità oggettivamente
durevoli a quello minimo delle unità a vitalità economica riflessa (III quadrante), passando
per quello medio delle unità prive di vitalità economica (II quadrante).
Nella fattispecie sub a) l’unità del gruppo appare economicamente autonoma e, quindi,
oggettivamente durevole, nel senso che la sua struttura è capace di operare durevolmente in con-
dizioni di economicità, anche qualora il soggetto economico del gruppo decidesse di abban-
donare la sua gestione, ovvero il suo controllo, a favore di un altro soggetto economico che
abbia, si intende, adeguate abilità imprenditoriali.
Il fatto di non appartenere al gruppo, o più semplicemente il mutare del soggetto econo-
mico, può determinare importanti cambiamenti negli equilibri economici della controllata,
ma essa rimane unità individualmente rilevante, vista la sua oggettiva capacità di operare du-
revolmente e autonomamente sul mercato.
Questo è anche il caso di quelle unità che, pur scambiando beni o servizi solo con altre
unità del gruppo, troverebbero, comunque, un mercato esterno dove acquisire i fattori della
produzione o allocare i propri prodotti, in condizioni di economicità.
Nella fattispecie sub b) le unità sono prive di vitalità economica, ovvero sono soggettivamente dure-
voli (non oggettivamente come nel caso precedente), in quanto la loro capacità di sopravvi-
venza è strettamente collegata all’appartenenza all’economia del gruppo. È questo il caso di
quelle società che nell’ambito del gruppo svolgono economicamente una fase del processo
produttivo (come nei gruppi integrati verticalmente) e il loro prodotto può essere fornito solo
ad altre unità del gruppo, che provvedono, poi, ad assemblarlo con altri componenti e a
collocarlo sul mercato. Se queste società non appartenessero più al gruppo, per volontà del
soggetto economico di cedere all’esterno il pacchetto di controllo delle stesse, ma continuas-
sero comunque ad operare a servizio del gruppo, ossia se rimanessero un anello della catena
produttiva del gruppo (come se l’attività venisse data in outsourcing alla stessa società di cui si
è abbandonato il controllo), sopravvivrebbero senza particolari difficoltà, visto il permanere
del collegamento con l’economia del gruppo.
Rientrano in questa fattispecie anche le società che, pur trovando all’esterno i propri mer-
cati di approvvigionamento e di collocamento, sono legate al gruppo da vincoli finanziari che
ne consentono la durabilità, poiché se non ci fosse il gruppo a sostenere gli investimenti di
tali unità le medesime sarebbero destinate a dissolversi. Non si può dire in tal senso che tali
unità siano autonome dal punto di vista economico, rappresentano bensì unità economiche rela-
tive. Ne deriva che quand’anche il bilancio di tali unità mostrasse condizioni di equilibrio
economico, si dovrebbe necessariamente tener conto della forte dipendenza dei risultati dal
collegamento all’economia del gruppo.
Nella fattispecie sub c) (unità a vitalità economica riflessa) le unità sono prive di durabilità non
soltanto oggettiva, ma anche soggettiva, nel senso che a prescindere dal tipo di mercato in
cui esse operano, di gruppo o esterno, se non vengono supportate da altre economie sono
destinate a dissolversi. In questo caso si potrebbe parlare di durabilità indotta, visto che tali
unità pur non essendo economicamente autonome, vengono mantenute in vita perché of-
frono opportunità o vantaggi alle altre economie del gruppo, senza che questi si manifestino
in componenti positivi di reddito per le unità che li forniscono. In altri termini sono economiche
in funzione del gruppo.
La durabilità è, dunque, strettamente connessa al sostegno da parte del gruppo. Si pensi,
ad esempio, a quelle unità che svolgono attività di promozione culturale o di formazione del
personale.
Sono queste le «aziende che neanche entro il gruppo riescono né presumibilmente riusci-
ranno, almeno per tempo lungo o indefinito, a raggiungere l’autosufficienza economica
dell’esercizio e risultati positivi di bilancio, ma che il gruppo, tuttavia, ha convenienza a man-
tenere in vita o comunque non può abbandonare senza danno per la sua stessa economia».
Nelle società a vitalità economica riflessa rientrano anche le società finanziarie outer captive
ossia quelle società che erogano prestiti a favore di partner commerciali delle consociate e
una serie di altri servizi finanziari (es. leasing, factoring), con lo specifico obiettivo di facilitare
lo sbocco delle produzioni e l’approvvigionamento di beni e servizi. Si pensi ad esempio alle
finanziarie dei gruppi automobilistici che erogano finanziamenti agevolati agli acquirenti delle
automobili prodotte dal gruppo.
Appare evidente, quindi, che il sostegno garantito da parte del gruppo ad alcune unità,
come quelle a vitalità economica riflessa, deriva dalla loro capacità di creare valore per le altre
consociate, anche se questo valore viene trasferito dove il soggetto economico ritiene più op-
portuno.
Le unità a vitalità economica riflessa operano con economicità nel mercato di gruppo, ma
non essendo questo un mercato competitivo (le unità possono arrivare a cedere i loro pro-
dotti alle altre consociate, assumendo le vesti di centri di costo), non consente di attribuire
un corretto valore monetario ai prodotti offerti dalle medesime.
Alcune volte, poi, il valore non è solo quello del prodotto venduto o ceduto, ma di qual-
cosa che ad esso si accompagna. È il caso delle società finanziarie costituite nell’ambito del
gruppo per gestire i flussi delle consociate a condizioni vantaggiose rispetto a quelle ottenibili
acquisendo tale servizio dall’esterno, ma con costi di struttura tali da non giustificare, almeno
in prima analisi, la loro permanenza. Tali unità vengono comunque mantenute nell’economia
del gruppo, in quanto il valore da esse prodotto, superiore al costo sostenuto per il loro
mantenimento, in questo caso viene espresso non solo dai componenti positivi di reddito
maturati sul servizio erogato (gestione dei flussi intragruppo), sempre che gli scambi rispet-
tino le normali condizioni di mercato, ma anche dal vantaggio della segretezza con cui questa
funzione si vuole venga svolta.
Se si volesse esplicitare quest’ultimo valore, bisognerebbe chiedersi quanto il gruppo sa-
rebbe disposto a pagare per avere garanzia assoluta di segretezza delle informazioni da parte
di un gestore esterno.
Possiamo ragionevolmente concludere che le unità in questione vengono mantenute in
vita, in altri termini presentano il carattere della durabilità (anche se indotta), quando riescono
a creare valore per il gruppo, anche se tale valore non è esprimibile contabilmente. Ma a ben
vedere, l’equilibrio reddituale non può che migliorare in seno al gruppo ed è misurabile, con
alcuni limiti, attraverso il bilancio consolidato, che si riferisce al gruppo unitariamente consi-
derato e non già alle singole unità che lo compongono.
1. Il bilancio di esercizio
Domanda. Caliamoci nei panni di un medico bravissimo che trova sulla sua scrivania delle
analisi del sangue e nota che il valore del colesterolo è molto più elevato rispetto al valore
soglia. Ora proviamo a rispondere a questa domanda: Il medico può decidere come inter-
venire, ad esempio quale farmaco prescrivere avendo solo questa informazione? Oppure
manca qualcosa?
È evidente che così come per le analisi non si può prescindere dalla conoscenza dell’indi-
viduo, anche per l’analisi del bilancio di esercizio non si può prescindere dalla cono-
scenza dell’azienda cui questo documento si riferisce, ad esempio il contesto in cui
l’azienda opera, la pressione competitiva a cui è soggetta. Per questo motivo, ancor prima di
procedere con la lettura di questo capitolo, è quanto mai necessario aver chiari i concetti
esposti nel primo capitolo, in particolare quali sono i caratteri di aziendalità e qual è il fine
dell’azienda. Per fare un esempio, l’analisi dei ricavi di un’azienda che opera in un regime di
monopolio porta senza dubbio a considerazioni diverse rispetto ad un’azienda che, invece, è
soggetta ad una forte pressione competitiva.
74 ESTRATTI PER IL CORSO DI ECONOMIA AZIENDALE ©
Altro aspetto importante è capire chi controlla e governa l’azienda. Com’è facile intuire il
controllo esercitato dallo Stato determina effetti diversi rispetto a quelli che caratterizzano
un’impresa a controllo familiare. Per questo motivo si consiglia di leggere anche il Cap. II
dedicato alla governance aziendale.
Il bilancio è uno strumento consuntivo in quanto riporta la situazione patrimoniale,
economica e finanziaria (o monetaria) di un’impresa, con riferimento ad un certo arco tem-
porale, normalmente coincidente con l’anno solare, ossia quello che parte dal 1° gennaio e
arriva al 31/12. Pertanto si differenzia dal budget che, invece, è uno strumento previsionale
e che a sua volta deriva dalla pianificazione strategica.
La condizione da rispettate affinché l’azienda operi durevolmente in modo sostenibile, sia
cioè in salute, mette a sistema l’equilibrio economico (ossia la condizione di creazione di
valore) con gli equilibri finanziario (o patrimoniale), monetario e di interessi, così come rap-
presentato nel modello della Tav. 15.
Tali equilibri sono il risultato del (e a loro volta condizionano il) cosa, come e perché
produrre, ovvero dell’economicità aziendale, e rappresentano il modello attraverso cui sono
misurate le performance, finanziarie e non finanziarie.
Questo aspetto è fondamentale in quanto le performance dell’azienda non si migliorano
manipolando i risultati di bilancio, ad esempio falsificando i ricavi e i costi. I risultati sono
prodotti dalla gestione!
Torniamo all’esempio del medico, e immaginiamo le tre seguente situazioni per migliorare
il valore del colesterolo fuori soglia del paziente: 1) manipolare le analisi riportando il valore
sotto soglia; 2) prescrivere un medicinale; 3) chiedere al paziente di cambiare stile di vita. Nel
primo caso non migliora di certo lo stato di salute del paziente, che anzi non cambierà il suo
stile di vita in quanto ritenuto adeguato, con rischi gravissimi. Nel secondo caso risolve il
problema utilizzando un farmaco che comunque non è esente da controindicazioni. Nel
terzo caso richiede un sacrificio (es. attività fisica) che non sempre il paziente è disposto a
fare o è in grado di fare (es. perché anziano).
In azienda il primo caso coincide con il miglioramento dell’utile falsificando i ricavi e i
costi, il secondo ad esempio con il taglio indiscriminato dei costi del personale che migliora
i risultati di breve periodo ma rischia di pregiudicare seriamente quelli di lungo periodo, il
terzo caso con lo sforzo di elaborare strategie vincenti per riportare l’azienda in utile (es.
cambiando il perché, cosa e come produrre). È evidente come questa soluzione dipenda an-
che dalle competenze del management.
Attraverso il bilancio di esercizio si possono valutare gli equilibri economico, patrimoniale
e monetario dell’azienda. Per la valutazione dell’equilibrio di interessi, ossia del rapporto tra
azienda e stakeholder, è invece necessario il bilancio sociale o di sostenibilità.
Il modello proposto, tra l’altro, intende dare concreta applicazione al concetto, talvolta astratto, di
economicità di lungo periodo e favorire lo sviluppo di un pensiero integrato, che cioè leghi le strategie ai
risultati economici e non economici dell’azienda (es. gli obiettivi di sostenibilità dell’ONU).
Tale pensiero richiede la considerazione simultanea di tre modelli: il modello mentale (ossia il
perché produrre); il modello di attività (come produrre) e il modello di misurazione (come creare
valore, ossia nel rispetto di quali condizioni di equilibrio).
Tav. 16 – Interesse primario dell’impresa e comunicazione esterna della creazione di profitto sostenibile
Oltre al bilancio annuale, le società quotate sul mercato di borsa hanno l’obbligo di redi-
gere delle relazioni intermedie, ossia un bilancio trimestrale e semestrale.
Inoltre, sempre le quotate, devono redigere il bilancio applicando i principi contabili in-
ternazionali IAS-IFRS predisposti dall’International Accounting Standard Board (IASB), uti-
lizzati da tutte le società quotate nella comunità europea. Le società non quotate applicano
invece la normativa contenuta nel codice civile (art. 2423 e ss.) e nei principi contabili nazio-
nali predisposti dall’organismo italiano di contabilità (https://www.fondazioneoic.eu/), an-
che se alcune volte viene lasciata la libertà di adottare i principi IAS-IFRS.
I principi contabili sono postulati, criteri, procedure, metodi, accettati e applicati dalle
aziende, i quali stabiliscono le modalità di registrazione delle operazioni di gestione (es. come
registrare un leasing, l’acquisto di azioni, di immobili) e i criteri di valutazione (es. come
valutare gli immobili, gli impianti, i macchinari, le rimanenze, i crediti e di debiti) e di rappre-
sentazione dei valori in bilancio (es. dove inserire in bilancio un credito commerciale). Ad
esempio, se l’azienda ha un immobile che ha acquistato al prezzo di € 300.000, che a fine
esercizio ha un valore di € 350.000, per capire quale valore inserire in bilancio dovrà vedere
cosa dicono i principi contabili.
In alcuni casi potrà/dovrà applicare il costo mentre in altri il valore di mercato (il c.d. fair
value).
In precedenza abbiamo detto che la lettura del bilancio consente di valutare lo stato di
salute dell’azienda, o del gruppo aziendale nel caso di un bilancio consolidato, attraverso
l’analisi dell’aspetto economico e finanziario. Ma a cosa si riferiscono questi aspetti?
Il ciclo della produzione è un ciclo unitario. Tuttavia per motivi di analisi viene osservato
nei suoi differenti aspetti: economico, monetario, finanziario, e tecnico.
Ogni operazione di acquisizione di fattori della produzione può essere indagata sotto il
duplice aspetto dell’uscita del denaro (o sostituti del denaro, ossia i debiti commerciali) e della
ricchezza investita (costo).
Le risorse monetarie precedentemente investite vengono recuperate. Viene definito “RI-
CAVO” il recupero della ricchezza precedentemente investita attraverso la cessione del pro-
dotto sul mercato che viene determinata dalla quantità di denaro che affluisce all’impresa.
Anche le operazioni attinenti alla vendita possono essere indagate sotto il duplice aspetto
economico (attinente al recupero della ricchezza, ossia il ricavo) e quello monetario (o sosti-
tuti del denaro, ossia i debiti commerciali.
Ogni operazione di esterna gestione alimenta una dinamica monetaria o finanziaria. L’ac-
quisizione di fattori produttivi rappresenta un investimento (costo) che viene misurato dalla
quantità dei mezzi monetari o finanziari che escono dall’azienda (uscite).
La cessione dei prodotti rappresenta un disinvestimento (ricavo) che viene misurato dalla
quantità di mezzi monetari o finanziari che entrano in azienda (entrate). Costi e ricavi rap-
presentano variazioni della ricchezza aziendale.
Nel caso in cui i mezzi monetari che derivano dalla vendita di prodotti siano superiori a
quelli impiegati per acquisire nuovi fattori produttivi si genera nuova ricchezza.
La differenza tra ricavi e costi di periodo rappresenta il reddito, inteso anche come incre-
mento o decremento che la ricchezza disponibile all’inizio di un periodo subisce per effetto
dell’attività produttiva del periodo.
Utilizzando lo schema sottostante si analizzano una serie di operazioni aziendali che de-
terminano variazioni nei valori economici e finanziari. Sopra la linea tratteggiata vengono
registrate le variazioni dei valori appartenenti al settore finanziario, mentre sotto la linea quelli
del settore economico.
FINANZIAMENTI ATTINTI
CON VINCOLO DI CAPITALE DI PROPRIETÀ
E
+ Denaro (VF+) 20.000
2) Viene sottoscritto il capitale della Gamma SpA per un importo di € 200.000. I soci
versano contestualmente, sul conto corrente bancario, € 90.000 (1), impegnandosi a ver-
sare la differenza dopo un mese.
E
+ Denaro (VF+) 90.000
+ Crediti di funzionamento (VF+) 110.000
FINANZIAMENTI ATTINTI
CON VINCOLO DI CAPITALE DI PRESTITO
3) Si ottiene da un istituto bancario un prestito di € 50.000, che viene versato sul conto
corrente bancario intestato all’impresa. La somma, maggiorata degli interessi di € 3.000,
viene rimborsata in un’unica soluzione un anno dopo.
E U
+ Debiti di fi-
+ Denaro (VF+) 50.000 (VF-) 50.000
nanziamento
Un anno dopo. La rata comprende una quota capitale, relativa al rimborso del valore
nominale del mutuo (€ 50.000) e una quota interessi (€ 3.000), maturato sulla dispo-
nibilità dei mezzi monetari ottenuti.
E U
- Debiti di fi-
(VF+) 50.000 - Denaro (VF-) 53.000
nanziamento
Costi per
(VE-) 3.000
interessi passivi
(1) Per gli incassi e i pagamenti attraverso il conto corrente bancario, si utilizza per semplicità la voce “denaro”.
E U
+ Debiti di
+ Denaro (VF+) 100.000 (VF-) 100.000
finanziamento
U
- Denaro (VF-) 150.000
U
- Denaro (VF-) 20.000
+ Debiti di funzionamento (VF-) 110.000
E U
- Debiti di fun-
(VF+) 110.000 -Denaro (VF-) 110.000
zionamento
U
- Denaro (VF-) 3.000
9) In data 15/5 si paga tramite banca il canone mensile per l’affitto del capannone per un
importo di € 6.000.
U
- Denaro (VF-) 6.000
ACQUISTO DI UN IMPIANTO
10) In data 15/1 si acquista un impianto per un valore di € 150.000, regolamento 1/3 tramite
banca, 2/3 tramite dilazioni di pagamento.
U
- Denaro (VF-) 50.000
+ Debiti di funzionamento (VF-) 100.000
U
- Denaro (VF-) 3.000
E
+ Denaro (VF+) 400.000
E
+ Crediti di funzionamento (VF+) 20.000
E
+ Denaro (cassa) (VF+) 10.000
(VE+) 90.000
Ricavi per vendita merci
RISCOSSIONE CREDITI
15) Si riscuotono tramite banca i crediti verso clienti di cui al punto 14.
E U
- Crediti di fun-
+ Denaro (VF+) 50.000 (VF-) 50.000
zionamento
FINANZIAMENTI CONCESSI
E U
+ Crediti di
(VF+) 300.000 - Denaro (VF-) 300.000
finanziamento
E U
- Crediti di fi-
+ Denaro (VF+) 163.500 (VF-) 150.000
nanziamento
Dal punto di vista dell’andamento del denaro, però, non ci sono entrate ed uscite. Pertanto
il fondo cassa non subisce movimentazioni nel periodo.
Ipotizziamo ora che l’azienda debba pagare subito i fornitori subendo un’uscita di denaro
pari a 800 mentre invece per quanto riguarda i ricavi realizzati nel periodo il credito connesso
ai clienti sarà riscosso il 15 febbraio. In questo periodo si rileverà quindi un utile pari a 200 e
un fondo cassa negativo pari a 800, che sarà coperto ad esempio attraverso un indebitamento
ottenuto da una banca.
Capite bene che un’azienda può presentare un ottimo equilibrio economico ma essere
sbilanciata dal punto di vista finanziario. Questo accade soprattutto per le imprese che ope-
rano con organizzazioni che ritardano i tempi di pagamento dei fornitori.
Peraltro, quando mi finanzio devo sostenere un costo finanziario rappresentato dagli in-
teressi passivi, che si aggiunge ai costi operativi, ossia a quelli relativi all’acquisto di beni e
servizi. Se non si recupera questo sbilanciamento, l’azienda rischia di essere eccessivamente
indebitata con le banche e di avere un reddito della gestione operativa (il cosiddetto EBIT),
ossia quello che deriva dalla differenza tra i ricavi di vendita e i costi di acquisto dei fattori
produttivi, completamente eroso dagli interessi passivi.
Un’azienda troppo indebitata risulta particolarmente rischiosa, e se con l’andare avanti del
tempo non riesce ad ottenere ulteriori finanziamenti dalle banche per coprire gli squilibri di
cassa, è destinata a fallire
Passiamo ora al processo che porta alla formazione del bilancio. Innanzitutto il bilancio
nasce da una serie di valori oggettivi.
Tali valori possono essere finanziari (denaro, crediti e debiti) ed economici (capitale di
proprietà, costi e ricavi) e sono definiti oggettivi perché derivano da una serie di atti di scam-
bio tra l’impresa e i terzi che sono comprovati da documenti, ad esempio fatture di acquisto
e di vendita, contratti di finanziamento con le banche. Tali scambi riguardano prevalente-
mente l’acquisto di fattori produttivi, la vendita di prodotti, l’ottenimento di finanziamenti
da parte dei soci e da parte delle banche, nonché la concessione di finanziamenti dell’azienda
a terze parti. Nel paragrafo sull’analisi delle variazioni tutte le operazioni hanno fatto sorgere
valori oggettivi (supra, § 5).
Ne consegue che vi sono valori importanti per l’azienda che tuttavia non sono rilevati in
bilancio perché non derivano da atti di scambio, ma sono internamente generati. Ad esempio,
la conoscenza, la reputazione aziendale, il valore di un marchio o di un brevetto registrato
dall’azienda. Ci sono poi valori intangibili che trovano spazio nelle attività ma solo perché
acquisiti da terzi attraverso atti di scambio, come ad esempio un brevetto, un marchio, una
concessione, l’avviamento pagato per un’azienda acquisita.
Questi valori oggettivi sono rilevati dalla contabilità generale, che funziona con il me-
todo bilanciante della partita doppia 2. Ogni fatto aziendale viene rilevato in contabilità.
In particolare vengono rilevate le variazioni dei valori economici e finanziari.
I valori economici riguardano il capitale di proprietà, e i ricavi e i costi che determinano
rispettivamente un incremento del capitale di proprietà e una riduzione. I valori finanziari
sono invece il denaro, i suoi sostituti temporanei, ossia i crediti e i debiti commerciali, e i
crediti e debiti di finanziamento.
D. Ricordando quanto appena detto sui valori economici e finanziari, prova a rispon-
dere a questa domanda: Se l’azienda acquista un fattore produttivo da un fornitore,
che concede una dilazione di pagamento, quali sono i valori economici e finanziari
rilevati in contabilità generale?
R. Ci sarà un valore economico negativo, rappresentato dal costo, e un valore finan-
ziario negativo rappresentato dal debito commerciale, in quanto abbiamo detto che
il fornitore viene pagato in un momento successivo. Se invece l’azienda avesse pagato
subito avremmo avuto non un debito commerciale ma un’uscita di denaro.
2 La partita doppia è un metodo di scrittura contabile, consistente nel registrare le operazioni aziendali simultanea-
mente su due serie di conti ("dare-avere", secondo il principio della duplice rilevazione simultanea), allo scopo di determi-
nare il reddito di un dato periodo amministrativo e di controllare i movimenti monetari-finanziari della gestione. Fu de-
scritto, in maniera più approfondita rispetto ai suoi predecessori, dal frate matematico italiano Luca Pacioli, nel suo li-
bro Summa de arithmetica, geometrica, proportioni et proportionalita (Venezia, 1494).
Tuttavia, come detto in precedenza, il bilancio accoglie oltre ai valori oggettivi anche le
valutazioni, che portano ad una serie di valori soggettivi, frutto di stime e congetture.
Ad esempio, il valore scritto in una fattura d’acquisto è oggettivo, in quanto deriva da un
atto di scambio ed è comprovato da un documento. Il valore delle rimanenze di magazzino
è, invece, soggettivo in quanto deriva da una valutazione fatta a fine esercizio, anche se, è
bene sottolineare, il valore deve essere determinato seguendo il dettato dei principi contabili.
Le valutazioni sono necessarie perché quando si chiude un esercizio amministrativo, ad
esempio il 31/12, non tutti i processi produttivi sono conclusi, alcuni sono infatti in corso di
svolgimento e devono essere rinviati al periodo successivo. Se ad esempio l’azienda ha ac-
quistato materie prime da un fornitore che però sono rimaste in magazzino perché al 31/12
non ancora utilizzate, in sede di chiusura del bilancio, appunto il 31/12, si deve procedere
con la valutazione di queste rimanenze.
Se l’azienda ha concesso un credito commerciale ad un cliente, il 31/12 dovrà valutare se
quel credito sta perdendo valore, perché magari il cliente si trova in difficoltà finanziaria e
non riuscirà ad onorare il suo impegno.
Le valutazioni hanno quindi un effetto sui valori di stato patrimoniale e di conto econo-
mico.
C’è un unico caso in cui il reddito può essere determinato in modo oggettivo ed è quello
che fa riferimento all’intero arco di vita dell’azienda ossia da quando l’azienda nasce a quando
cessa la sua attività.
Ipotizziamo che oggi conferiamo capitale ad un’azienda di nuova costituzione per un va-
lore di 100.000 euro. Con questo denaro iniziamo ad acquistare materie prime che ci consen-
tono di produrre beni che vendiamo alla nostra clientela. Facciamo questo business per circa
20 anni. Poi chiudiamo la nostra attività ipotizzando di aver liquidato tutto. Se in cassa sono
rimasti 300.000 euro significa che il reddito complessivamente prodotto è pari a 200.000.
Questo valore è oggettivo, in quanto non deriva da una valutazione, è una differenza tra cassa
finale e cassa iniziale.
Il concetto di reddito totale è solo teorico, perché l’azienda non aspetta di chiudere per
calcolare il reddito prodotto, in quanto ha necessità di calcolare il cosiddetto reddito di pe-
riodo, ossia quanta parte del reddito totale generato, pari a 200.000, si è formato nel primo
periodo, nel secondo, nel terzo e così via.
Utilizzando i documenti di bilancio consolidato della tua azienda, con riferimento all’ultimo
esercizio prova a individuare in quale schema, stato patrimoniale o conto economico, deve
essere inserito il ricavo di vendita di un servizio erogato nel corso dell’anno e il relativo in-
casso di denaro. Inoltre, prova a rispondere alla seguente domanda: in quale schema sono
rappresentate le rimanenze? Il loro valore è oggettivo o soggettivo? Perché?
Facciamo un esempio: ipotizziamo che nel corso del periodo t0-t1 l’azienda acquisti fat-
tori produttivi per 100. In questo periodo i fattori produttivi non sono però stati utilizzati e
quindi sono quindi tutti in rimanenza.
R. Tornando al nostro esempio, nel periodo t0-t1 pur avendo sostenuti costi pari a
100, devo rinviarli al futuro in quanto il ciclo produttivo non si è concluso con la rea-
lizzazione dei ricavi. Quindi i costi di competenza sono pari a 0.
Pertanto nel periodo t1-t2 avremo innanzitutto costi provenienti dal passato pari a
100. Visto che in questo periodo realizziamo anche i ricavi, in quanto vendiamo e
consegniamo il prodotto, il principio di inerenza dei costi ci porta ad affermare che i
costi provenienti dal passato trovano in questo periodo la loro competenza econo-
mica.
Pertanto il reddito del periodo t0-t1 è pari a zero, mentre quello del periodo t1-t2 è
pari a 20, ossia la differenza tra i ricavi di competenza pari a 120 e i costi di compe-
tenza pari a 100.
D. Cosa accadrebbe, invece, se nel periodo t1-t2 venissero realizzati i prodotti, ma
anziché essere venduti fossero in rimanenza alla fine dell’esercizio? A quanto am-
monterebbe il reddito di questo periodo?
R. Il reddito sarebbe ancora pari a 0 perché il costo dei prodotti sostenuto nel prece-
dente esercizio andrebbe ancora rinviato al futuro, in quanto pur avendo realizzato i
prodotti non si è ancora venduto nulla.