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Massimo Recalcati

Dio si annuncia dal basso dei cieli anche nell’abbraccio tra due corpi innamorati

La Stampa, TUTTOLIBRI, sabato 19 dicembre 2020

Si possono distinguere due diversi modi di intendere lo spirituale. Il primo è quello dello spirituale
religioso. Esso suppone che il mondo finito sia un luogo di morte e di corruzione di tutte le cose, un
mondo intaccato dalla inesorabilità del tempo e dalla distruttività morale del peccato e che la vera
vita non appartenga a questo mondo. Questa prima forma dello spirituale si nutre, infatti, del
sentimento di un Dio al di là del mondo e di una vera vita al di là della vita. La vera vita infatti non è
questa vita, ma la vita che ci attende dopo la fine di questa vita, dopo la nostra morte. La vera vita
non è la vita che viviamo sulla terra - corrotta inesorabilmente dal tempo e dal peccato - ma la vita
eterna che ci consolerà infinitamente dei dolori e delle sofferenze vissute in questa vita.

In questa prima forma, lo spirituale che ho definito religioso ruota attorno al carattere deficitario,
mancante, insufficiente che caratterizza questa vita in rapporto alla pienezza della vita che vivrà
eternamente dopo la nostra morte. La trascendenza dell’al di là viene contrapposta all’immanenza
dell’al di qua. Il carattere infinito della vita eterna è inteso come riscatto e redenzione della vita
terrena. Questa declinazione dello spirituale non può, dunque, che essere fatalmente gnostica, fondata
sulla separazione e sull’opposizione tra le tenebre del finito - la sua privazione d’essere - e la luce
incorrotta dell’infinito - la sua abbondanza d’essere - .

In questo libro di raccolta di Racconti spirituali appena pubblicato da Einaudi, Armando Bonaiuto,
da anni conosciuto e apprezzato direttore scientifico del Festival della spiritualità di Torino, oltre che
conduttore radiofonico della nota trasmissione Uomini e profeti, mette in luce l’esistenza di una
seconda forma dello spirituale. In questo caso il sentimento dello spirituale non scaturisce più dalla
povertà del mondo finito che aspira alla ricchezza ultraterrena di un mondo dietro a questo mondo,
non sorge dall’afflizione e dalla sofferenza umana che ricerca consolazione, non proviene dalla
privazione d’essere che contrassegnerebbe fatalmente la forma umana della vita, né dalla aspirazione
verso una vita non corrotta dal tempo, dal peccato e dalla morte. Questa diversa forma dello spirituale
si genera invece dal mistero stesso del mondo. Nasce dallo stupore nei confronti della ricchezza del
mondo e non dalla sua imperfezione. Da una eccedenza e non da una privazione. La trascendenza in
questo caso non è più separata gnosticamente dall’immanenza, ma appare come una sua piega interna.
Il mondo finito non è il luogo delle tenebre contrapposto a quello della luce, ma appare esso stesso
luogo di luce. Lo spirituale che interessa Bonaiuto non scaturisce, insomma, dall’abbandono del
mondo finito verso il mondo infinito, ma dalla nostra immersione nel mondo finito. Perché è solo in
questo mondo che possiamo trovare il senso misterioso dell’infinito. È questo, a mio giudizio, il filo
invisibile che unisce i racconti riuniti in questa antologia, il denominatore comune di timbri vocali
così diversi propri di autori come Giovannino Guareschi, Vasilij Grossman, Herman Hesse, Guy de
Maupassant, Dino Buzzati, Friedrich Dürrenmatt, Livia Candiani e altri.

Non esiste alcun criterio storiografico o filologico che autorizzerebbe una raccolta apparentemente
così eterogenea. Il solo criterio che ispira Bonaiuto è quello di mostrare il sorgere di un sentimento
dello spirituale che non guarda più verso l’alto dei cieli, ma verso il «basso» della nostra vita terrena
perché è proprio in questo «basso» - coerentemente alla rivelazione della kenosis cristica,
all’abbassamento appunto di Dio nella sua incarnazione come figlio dell’uomo - che si rivela la cifra
più radicale della trascendenza.

È proprio dalla cecità del mondo finito, come insegna il prezioso racconto di Raymond Carver titolato
Cattedrale riportato nell’antologia, che può sorgere la stupefazione e la visione dell’infinito. È solo
dall’amore carnale, erotico, passionale che unisce due giovani innamorati e non nei libri scolastici di
teologia e nella morale del sacrificio, che l’assoluto annuncia la sua presenza nel mondo come accade
nello splendido racconto di Maupassant titolato Chiaro di Luna. Racconto che potrebbe essere sfilato
dagli altri come la chiave di accesso a tutta la raccolta. Il suo protagonista, Don Marignan non conosce
dubbi, la sua fede in Dio è granitica, «le sue convinzioni erano ferme, non conoscevano oscillazioni».
Egli è il rappresentante solido dello spirituale religioso e del suo inevitabile dogmatismo. Servire il
Dio infinito significa odiare il mondo in quanto finito. Questo odio trova il suo oggetto elettivo nella
donna che, come sappiamo, nella tradizione dell’ideologia patriarcale incarna la tentazione del
peccato. Ma accade che la sua cara nipote si innamori e che egli la incontri nelle braccia del suo
amato- «immersi nella nebbia lucente» - mentre passeggiava di notte col suo bastone. Questa visione
sprofonda il prete nella vergogna facendogli scoprire perché Dio ha reso la notte così bella, persino
«più poetica del sole». Egli scopre che la bellezza della notte -«poesia profusa dal cielo sulla terra» -
è destinata all’amore umano e che senza amore l’intera creazione non ha senso alcuno.

La visione gnostica dello spirituale religioso viene drasticamente ribaltata: non c’è lotta tra la luce
del giorno e il buio della notte - tra l’anima e il corpo - perché la notte è quel «velo trasparente gettato
sul mondo» che rende il corpo del mondo intero «poesia profusa». Il fiato sospeso di Don Marignan
di fronte allo spettacolo della notte, di fronte all’abbraccio tra due corpi innamorati, permea l’intera
raccolta. È lo sguardo di quello spirituale non religioso che, come ricorda Gabriella Caramore in un
testo che precede la raccolta, «attiene massimamente a ciò che vive». La stessa trascendenza che
caratterizza nel racconto di Grossman l’amore di un vecchio mulo nei confronti di una cavalla magra
ed esausta nel mezzo degli orrori della guerra. I loro fiati si mescolano in una calda e modesta
prossimità. «Uno strano incanto» fa esistere il loro amore in una «pianura spazzata dalla guerra sotto
un grigio cielo invernale». Anche in questo caso la trascendenza non accade fuori dal mondo ma solo
nelle sue pieghe.

«Lasciarci scuotere forte, stare muti di fronte al mistero», ci ricorda Livia Candiani, è la postura di
una vita spirituale che non abbandona questo mondo per un altro mondo ma sa mostrare, come scrive
Bonaiuto, «tenerezza per ogni cosa che vive».

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