Sei sulla pagina 1di 42

Sur le bûcher aussi quelquefois des hommes

qui avaient eu le malheur de laisser vivre et


parler le féminin en eux.
Xavière Gauthier, Sorcières, n° 1

Nous donnons la parole à la « féminité » du


monde. Nous délivrons le monde.
Francis Ponge, Pour un Malherbe

I
Cap. I

A Beauvezer, in alta Provenza, la montagna è brulla e insieme oscura. È oscura ad oriente:


infatti macchie di pini e di abeti la ombreggiano a tratti. A nord, al contrario, è brulla, perché la neve
spoglia le cime, erode pietre e rocce. Invece, d’estate, è il sole a calcinare tutto: paesaggio adusto e
rigoglioso. Perciò, se la natura da un lato protegge, dall’altro ancora è minacciosa, e rinserra, immura.
Alle genti di questo paese è dato un unico pensiero: partire alla volta degli altipiani e le pianure,
scendere. Così dovette succedere molto presto anche a Louis Gaufridy.
A otto anni era già pastore. Trascinava ogni sera uno sparuto gregge di pecore e capre fino ai
pendii che delimitano la foresta di Malubac. Seduto sotto un albero, guardava il bestiame strappare a
piccoli morsi ciuffi di erba frammisti di fiori e di steli annidati fra i sassi. Poteva accadere che il muso
triangolare di una capra vicina si rivolgesse verso di lui: gli era stato detto che era così che era il
Diavolo. Ma lui vi ravvisava un’aria dolce, una sorta di espressione amichevole, che scintillava tra gli
occhi grigio-verdi. Nondimeno si alzava per richiamarla all’ordine, e colpendola dolcemente sulle
corna o sugli stinchi, la rimetteva a brucare. Le bestie scendevano poco a poco verso il Verdon, come
trasportate dal declivio naturale del luogo. Di pietra in pietra, arrivavano fino all’acqua. E Louis si
accodava, seguendo con loro il corso del torrente, posando i piedi nudi ora sui ciottoli tiepidi di sole,
ora nella corrente fresca del rio. E uno a uno quei ciottoli li conosceva tutti. A tal punto che a volte gli
capitava di contarli, come per gioco. Bisognava che il loro numero non variasse, e ce ne fossero
sempre dodici tra quelle radici, sette al di sotto di quel ramo, dieci in quel piccolo guado. E se
qualcosa era cambiato, allora, scovate altre pietre nell’acqua o sulla riva, interveniva per ricostituire il
numero esatto. Sondava con cura, piedi e mani. Come se, non tornando il conto, qualcosa rischiasse di
modificarsi nell’ordine delle cose celesti e terrene, nell’ordine delle montagne che lo circondavano, e
verso cui levava ansioso lo sguardo. Frattanto, le pecore gli si facevano attorno, indugiando nel
torrente. Per bere, tuffavano il collo nel chiaro dell’acqua, e, sotto il ventre, la lana, ormai bagnata, si
arricciava. Allora le radunava con tocchi leggeri del bastone, che impartiva sugli stinchi, per evitare
che si disperdessero, e le obbligava così a stringersi le une contro le altre, raggruppate a gomitolo. Poi,
non appena suonava la campana del villaggio, che annunciava il vespro, si affrettava a farle risalire su
per i pendii verso le pasture, inerpicandosi con loro. In quel mentre di certo dalle porte stridenti della
chiesa del paese entravano nere sagome di vecchie e contadini curvi. Ecco che bisognava risalire fin su
alla piazza, a inginocchiarsi sui gradini di pietra: era come un richiamo che il villaggio inviava a
quanti ancora sostavano a fondovalle, in riva al fiume, nel fitto del bosco, ai limiti delle terre, ai
confini dei campi, lungo i clivi delle montagne. Un richiamo insomma a porre fine alle fatiche del
giorno. E, ovviamente, alla chiesa, unico centro, solo focolare. Louis si sentiva libero e felice, in
questa vita scandita dal batacchio della campana; tuttavia a volte gli succedeva, come forse a tutti i
ragazzi della sua età, di ficcare con ansia gli occhi nel nero delle montagne. Predoni, in compagnie
armate, uscivano a volte dai boschi, bruciando e saccheggiando le fattorie. Questi individui, per
trovare un alibi al loro comportamento, sostenevano di prendere parte alle guerre di Religione: gli uni,
in veste di procattolici, si facevano chiamare razas, per via della barba che portavano rasa (o, perché,
come allora si diceva, erano pronti a radere tutto al suolo); gli altri, miscuglio di ugonotti e cattolici,
che si facevano pertanto chiamare bigarras. Erano di una ferocia senza eguali. A tali bande si
aggiungevano poi contadini famelici come lupi, soldati in rotta o disertori, e tutti i relitti umani sortiti
dagli interminabili combattimenti tra fautori della Lega e partigiani della Corona, che avevano ormai
devastato la regione, rendendola irriconoscibile. Ce n’era, insomma, di che far crescere un bambino

1
nell’angoscia. E d’altronde spronarlo con maggior forza a prendere prestissimo la strada della città. E
tuttavia Louis riponeva la sua fiducia nelle bestie, oltreché nella natura: si sforzava di vivere la vita da
pastore come fosse un lavoro quotidiano che lo proteggeva dalla paura e dalla soggezione, e insieme lo
aiutava a decifrare il mondo che gli era toccato in sorte.

A dieci anni faceva ancora gli stessi identici gesti, passava per i medesimi sentieri, contava gli
stessi sassi. Solo che il bastone che teneva in mano, adesso, era più grosso, più nodoso. Il suo gregge
era composto da una trentina di capi; e tra questi una pecora enorme, con mammelle gonfie e tese da
cui certi giorni a stento il ragazzo toglieva gli occhi di dosso. Un mattino d’aprile, caldo meriggio,
l’ora più calda – il sole cominciava a sciogliere la neve ancora posata sul Grand Cordeuil nel
fondovalle –, gli era venuta voglia di toccare, palpare quella sacca di latte. Aveva avvertito, carezzato,
schiacciato la pelle elastica e gonfia; aveva stretto le dita intorno al capezzolo, come mungendo.
Riuscendo così a sentire il sangue pulsare, e il latte. Si domandò come potesse quella cosa enorme
trovarsi proprio sotto il ventre dilatato della pecora, impedendole quasi di camminare, come un
mostruoso malanno, privandola del piacere di saltare, di arrampicarsi, di acquattarsi dietro le rocce. La
sua mano, allora, ma quasi senza che lui se ne accorgesse, risalì lentamente all’indietro, posandosi tra
le due zampe posteriori della bestia, quasi al di sotto della coda: e andò a parare sulla vulva umida e
carnosa, sostandovi come aspirata dal calore delle labbra, nel fitto del vello e della lana. La pecora
continuò a brucare. Allora Louis chiuse gli occhi, e nel farlo rimase così per un lunghissimo momento,
mentre il riverbero del sole sulla neve gli sferzava le palpebre sfavillando fiammeggiante. Intanto
laggiù il fiume continuava a scorrere, saltando da una roccia all’altra, continuamente spezzando il
proprio impetuoso corso di pietra in pietra, sempre pronto a sgusciar via all’improvviso in un getto
d’acqua schiumante; oppure quietandosi, di tanto in tanto, disteso in bacini verdi e oblunghi, che
annunciavano il glauco Verdon delle gole. Quel rumore gli risuonava nel cavo delle orecchie e dentro
al petto.
Di ritorno a casa, la sera, il padre aveva ravvisato in lui uno sguardo di sonno velato. Anche
Mounet Gaufridy era un pastore, rude, rotto a tutte le abitudini della montagna, e le giornate di
interminabile solitudine gli avevano insegnato a decifrare i segni molteplici della terra, del cielo,
dell’uomo. Leggeva così anche nei volti delle persone, e più di tutti in quello di suo figlio. Che, di
solito, era particolarmente allegro e vivace: la purezza dei suoi lineamenti, gli occhi che scintillavano
di riso, il nero dei capelli, rivelavano un tipo di intelligenza tale da garantire ben altro destino che
quello di montanaro. Ma in quel giorno il suo sguardo appariva lontano ed assente, quasi intorpidito
per una indecifrabile tristezza. Mounet lo scrutava sulla seggiola impagliata su cui si era afflosciato,
vicino al camino della casa di legno e fango, costruita sul pendio della collina: e quello non accennava
a alzare gli occhi da terra, immobile nell’ascoltare il passo strascicato della madre che, trasportando un
secchio di latte, ne riempiva una ciotola. Il padre finì col chiedersi se, certe giornate, dandogli alla
testa così tanta solitudine, non capitasse anche a lui di sprofondare in una sorta di inebetimento che,
del resto, tutti i pastori di padre in figlio giungevano a conoscere; e che tappava le loro bocche,
spegneva i loro occhi, gli stringeva il cuore. Che pena per il povero Louis, tutto luce e grazia! Questi
era ancora immobile, fissi gli occhi sul focolare, le cui fiamme si avvitavano attorno a un grosso ceppo
nero, e, puntute, biforcute, si allungavano sempre più verso l’alto, con una violenza cieca, per cui
niente pareva in grado di trattenerle dal balzare. E il legno crepitava, scoppiettava al centro di quello
schermo di fuoco parato davanti a lui. Il padre, allora, posatagli una mano sulla spalla, che vi indugiò
un breve istante, con voce grave lo invitò a andare a letto.
E Louis obbedì, addormentandosi non appena disteso sul pagliericcio. Ma quella notte
avvenne qualcosa di strano. Forse per essersi coricato prima del solito, si era svegliato verso le undici,
come sentendo che una forza lo sollevava dal letto, facendolo fluttuare per spingerlo poi fuori dalla
stanza. Magari fu semplicemente la fatica del giorno, o qualche nuovo bollore del sangue: il bisogno di
respirare, di sentire la freschezza dell’aria. Era allora salito, in silenzio, fino al solleiyaire della casa,
una sorta di loggia o balcone, in legno, attrezzato per un buon riposo al sole, durante l’estate. In quella
notte di aprile la piccola terrazza era attraversata da una brezza viva. E il cielo era d’una purezza
straordinaria. Vi si vedevano costellazioni brillare quasi come d’agosto. Louis si era appoggiato con i
gomiti sul corrimano della ringhiera in legno e si era messo a guardare lungamente quello scintillio di
segni, rabbrividendo felice, con il petto gonfio ed un po’ ebbro nella camicia di tela leggera. La nera

2
profondità del cielo gli dava le vertigini, come se gli girasse tutt’intorno, e si rendeva conto del fatto
che la loggia, poco solida, stava cedendo, che vacillava sotto il suo peso. Sapeva il legno tarlato
ovunque e che al balcone mancavano parecchie traverse, forse proprio sotto le sue gambe, le
ginocchia. E infatti, tutt’a un tratto, appunto per due traverse si era sentito praticamente tirare dai piedi
ritrovandosi nell’aia erbosa che faceva il giro attorno alla casa, stordito a causa della caduta, esanime.
Era rimasto in quello stato fino al mattino seguente, quando suo padre, alzandosi, l’aveva scoperto.
Solo a questo punto era tornato in sé. Non aveva niente di rotto. Non fratture né ferite. E nemmeno
serie tracce della botta. È anche vero che il solleiyaire non era molto alto, e che non molto grave era
stata la caduta. Però cascando in malo modo avrebbe potuto spezzarsi la schiena, o comunque un
braccio, o una gamba. Ringraziavano il cielo; chiesero a Louis cosa fosse successo. Senza dare troppe
spiegazioni, si limitò a dire che tutto era accaduto quasi a sua insaputa: che aveva camminato come in
sogno, probabilmente stordito dall’aria della notte.
Poi, il giorno dopo, aveva ripreso come sempre la sua occupazione di pastore. E con questa le
marce, le passeggiate nei boschi amati: a inseguire farfalle, a raccogliere fiori, ancora a trovare quei
posti, tra letti di aghi di abete e muschi, dove per primo nei mesi successivi avrebbe potuto raccogliere
fragole, lamponi, mirtilli. Di tanto in tanto, fermatosi a qualche fonte ben conosciuta, messe le mani a
mo’ di conchiglia sotto l’esile filo dell’acqua fresca, si bagnava le braccia e il viso. Strizzava gli occhi,
socchiudeva la bocca: ritrovando la sua abituale voglia di divertirsi e di ridere.

Fu proprio quell’anno, il 1582, che Louis lasciò Beauvezer per Pourrières, dove lo zio paterno,
a nome Cristophe Gaufridy, faceva il curato. Pourrières, ai piedi della Sainte-Victoire, nella regione di
Aix, era la pianura, la campagna, un mondo aperto. Lì senza dubbio Louis avrebbe potuto vivere
meglio: studiare, imparare, lavorare. In ogni caso, poiché aveva manifestato indubbie qualità di
intelletto, di questo ragazzo non si poteva che fare un prete. I suoi dovevano averci pensato ben presto,
se lo avevano mandato a Pourrières per dargli una formidabile occasione di istruirsi: lo zio godeva di
una reputazione di saggezza e di esperienza. Ma Christophe Gaufridy – conosciuto piuttosto come
Cristol Gaufred, o almeno così pare – era invece un semplice curato di campagna, preposto a una
parrocchia in cui nulla succedeva che non fossero nascite, morti, matrimoni. Che lui registrava con
costanza giorno dopo giorno. Ancora oggi un quaderno reca traccia della sua scrittura traballante. E fu
da lui che il ragazzo dovette apprendere la mimica della liturgia e nell’amministrare i sacramenti. Lo
seguiva, nelle funzioni lo accompagnava. Lo ascoltava. Accanto a lui scopriva la vita fuori dal suo
paese.
L’attività principale di Pourrières era la vendemmia. Le vigne digradavano con regolarità per
filari che attorniavano il borgo, formando una sorta di anfiteatro abitato al centro dalle case di pietra
bruna o rossiccia, strette le une contro le altre. Tutt’attorno montagne: il blocco della Sainte-Victoire,
dietro, e il Mont Aurélien a Sud, che non davano l’impressione di chiudere l’orizzonte, erano anzi
placidi punti di riferimento, che accentuavano la stabilità della pianura, slargando ancor di più quel
panorama di vigneti. A volte Louis scendeva fino alle rive dell’Arc: e non vi trovava che acqua magra.
Il paese asciutto in cui risiedeva non gli offriva più, ormai, la protezione e l’intimità ridente dei freschi
paesaggi della sua prima infanzia; ma era ancora capace di estraniarsi, osservando per ore la vita del
ruscello: la libellula che sfrecciava con stridore d’ali, il ragno a tessere la tela tra due canne, il topo
insinuatosi sotto una galleria erbacea. Ciononostante, preferiva stare seduto, ad avere tempo, sul bordo
di un’alta spianata al limite della piazza del Castello: dalla quale si svelava un paesaggio
apparentemente quasi sconfinato: non solo campi arati, od ulivi, o vigne, ma anche, di là dai monti,
Marsiglia, e il mare. Il tutto ondeggiante sotto un sole per il quale l’aria pareva tendersi fino a
tremolare. Se per avventura distoglieva gli occhi da questo spettacolo, e guardando indietro li ficcava
tra le mura ritrovate del paese, tra le case di pietra, verso l’altra torre quadrata della chiesa, era preso
dalla paura e dalla voglia di fuggire: la stessa che conosceva da sempre. Ritornava allora in parrocchia,
passando sotto gli archi in pietra che dominavano i vicoli, rasentando muri coperti di pergole, fino a
ritrovarsi nel giardinetto dello zio.
Sovente il vecchio prete trascorreva intere serate a raccontargli storie, a mostrargli vecchi libri
polverosi. Addirittura un giorno lo aveva portato, in gran segreto, in una sala interna del presbiterio,
contro il muro absidale della chiesa, per fargli vedere uno strano fascicolo composto di sei fogli,
posato su un gran leggio di legno. Da come lo maneggiava, da come ne voltava le pagine

3
mantenendole socchiuse si poteva arguire che gli attribuiva un enorme valore. Di fatto era un quaderno
di vecchia cartapecora, fitto di decorazioni e miniature, che gli occhi sorpresi di Louis assomigliarono
un po’ a certi libri di cantici talora già osservati nelle chiese (compresa quella di Pourrières). C’era
tuttavia una differenza: infatti i caratteri che ricoprivano le pagine di questo non erano né lettere né
note di un canone gregoriano, ma piuttosto segni oscuri la cui forma aguzza e irregolare racchiudeva
in sé qualcosa di poco rassicurante. Segni cabalistici, forse. O, più semplicemente, i pieni e i filetti di
una scrittura ebraica. Ma vi si ravvisavano anche dei disegni, simboli e figure, il cui profilo rosso,
come tracciato da un pennello, aveva la precisione di un filo di sangue: e d’altra parte la cartapecora
qua e là aveva assorbito l’inchiostro e il colore, così che certe gocce si aprivano a stella... Come fosse
giunto fin là quell’antico volume di cabala ebraica, e per quale caratteristica il prete sembrasse averlo
accomunato agli altri libri sacri della sua chiesa, non era dato sapere. Ma fece chiaramente intendere al
nipote che si trattava di un oggetto di notevole valore, forse dotato di misteriose proprietà, e che alla
morte glielo avrebbe lasciato. Il giovane scrutava il libro poggiato sul grande leggio, senza arrischiarsi
ad avvicinare una mano, percorrendo con gli occhi immagini vive come quelle dei tarocchi, che
rappresentavano un cavallo dalle froge dilatate, un curioso, piccolo personaggio con un abito a cui
erano appesi dei sonagli, una scimmia dalla testa umana e, ovunque, su pagine intere, quei segni irti e
attorti.
Furono due gli anni che Louis passò a Pourrières, dove imparò a leggere e a scrivere,
istruendosi e meditando. In seguito giunse il tempo per lui di assumere l’impegno della carriera
ecclesiastica con maggiore risolutezza. Allora intraprese nuovi viaggi. Si recò a Grasse, in quel tempo
una sorta di capitale commerciale che aveva traffici intensi da e verso l’Italia, e da dove transitavano
eruditi e curiosi di ogni sorta. Schiuse pertanto la mente alle influenze romane. Quindi fece ritorno a
Pourrières, dove rimase fino al compimento dei diciott’anni. Nel 1590, dunque, approdò ad Arles,
risoluto a rimanervi fino a quando non avesse completato la sua formazione: “baccelliere in umane
scienze”, vi apprese quel tanto di latino e teologia che dovevano far parte del bagaglio di conoscenze
di un curato, e, dopo un breve soggiorno a Marsiglia per concludere gli studi, fu finalmente ordinato
sacerdote.
Al centro della romanità stava Arles: le invasioni di barbari e arabi vi avevano sedimentato le
razze, mentre le guerre di religione, di recente, vi avevano fatto scorrere il sangue. Così, in quella città
si viveva in un miscuglio di cultura e fanatismo, di buonumore provenzale e di crudeltà: davvero un
ambiente in grado di temprare un carattere. Proprio là Gaufridy fu capace di forgiarsi un nuovo sapere.
E da uomo trasformato andò a dire la sua prima messa a Beauvezer.

È sorprendente la frequenza e varietà dei suoi spostamenti in quel periodo. Beauvezer,


Pourrières, Grasse, Arles, Marsiglia: doveva essere tutt’altro che facile, nel 1590, muoversi dall’uno
all’altro di quei luoghi. Infatti, non solo montagne impediscono l’accesso alla pianura, rendendo lento
e arduo il passaggio ed imponendo alle diligenze ardui percorsi su strade polverose e accidentate;
calamità di ogni tipo per ogni dove imperversavano nelle campagne: la peste, le altre epidemie, le
distruzioni massiccie dei raccolti, il brigantaggio, il saccheggio, le razzie delle bande. Proprio tale
situazione, d’altra parte, faceva spirare un vento di superstizione e di esorcismo, a scongiurare mali
reali o immaginari. Era una risorsa contro la miseria e la disperazione: impossibile non lasciarsene
impregnare viaggiando di città in città, di centro in centro. Ma allora è questo che rende così
straordinaria l’adolescenza di un Gaufridy sempre in viaggio, che senza alcuna esitazione affronta ogni
sorta di difficoltà materiale pur di uscire dalla sua condizione di piccolo pastore delle alte terre e così
scoprire il nuovo, l’ignoto. E d’altra parte tutto ciò spiega anche, con un alto grado di verosimiglianza,
da dove provenisse la sua sensibilità a tutto ciò che di perturbante e angoscioso si trovasse al mondo. E
certo anche quella sua sensibilità erotica, da intendersi come curiosità, sempre insoddisfatta, delle cose
e degli esseri, da un lato, e dall’altro come bisogno di mantener congiunti gli estremi della conoscenza
e quelli del desiderio. È poi davvero possibile che fosse guidato da una specie di autocompiacimento,
un’attitudine a sedurre e a sedursi che poteva pure prendere la forma dell’ambizione. I suoi molteplici
viaggi sembrano rivelare in lui il gusto di moltiplicare le prove da poter superare, di tastare più terreni
per trovare quello buono, di sondare diverse possibilità prima di lanciare i dadi. E ciononostante fece
carriera in fretta. A Marsiglia, che gli dovette apparire come la città più confacente alla realizzazione
dei suoi talenti di uomo di chiesa. Vi si stabilì nel 1595.

4
5
Cap. 2

Marsiglia, in quel momento, stava cambiando di mano. Da parecchi anni la città si trovava
sotto il potere di un tribuno popolare, il console Charles de Casaulx, che vagheggiava l’indipendenza,
rendendo la vita impossibile ai notabili locali del commercio all’ingrosso. Nel 1596, però, tutto era
improvvisamente rientrato nell’ordine. Un capitano corso infatti, Pierre de Libertat, attirò Casaulx nei
pressi delle mura, lo passò a fil di spada, dopodiché aprì le porte al Duca di Guisa, governatore della
Provenza. Quell’abile colpo di spada aveva posto fine ai sanguinosi conati delle guerre di Religione; e
d’altra parte all’indipendenza marsigliese, restituendo così la città a Enrico IV e al Cattolicesimo. I
commercianti poterono finalmente respirare, riprendere i propri affari.
Restavano da pagare i debiti, e imprese commerciali da risanare. A ciò si adoperarono due o
tre potenti famiglie, tra loro in disaccordo, spesso violento, quanto ai mezzi da impiegare; che si
spartirono le ricchezze controllate, fungendo spesso da arbitri per i dissensi tra mercanti e marinai; il
tutto sotto gli occhi benevoli e inquieti di Guillaume Du Vair, primo presidente del Parlamento di Aix.
È allora che Gaufridy arriva, stabilendosi nella città. Marsiglia gli era famigliare già dal precedente
soggiorno. Ma ora ne avrebbe fatto il suo definitivo approdo. Gli ci vollero un paio d’anni a tastare il
terreno. In seguito ebbe la carica di vicecurato nelle parrocchie di Saint-Loup e del Saint-Esprit, prima
di poter diventare il curato della chiesa delle Accoules. Dapprima assegnatario di un vicariato, poi
titolare di parrocchia, infine beneficiario. Tappe che aveva superato in fretta, nel cammino verso la
sicurezza materiale e l’autorità morale.
Ora, la chiesa delle Accoules non era soltanto la parrocchia più importante di Marsiglia: infatti
occupava una posizione indiscutibilmente privilegiata. Dominava il lato destro del porto, in cima a
un’erta su cui erano schierati tutti i quartieri più vitali del nucleo primitivo della città, al centro del
rumore, del lavoro, della vita. Il campanile affilato –sormontante una base ottagonale e una torre di
guardia alta come un corpo di fortezza – si stagliava (e ancora si staglia) al di sopra di un dedalo di
vie, salite, vicoli rumorosi e pittoreschi. Ai muri delle case, strette le une alle altre, si erano ora
addossati banchi di commercianti, artigiani, contadine che vendevano prodotti delle campagne,
pollame, panieri pieni di uova. Il tutto tra la chiesa e l’ospedale maggiore, con i suoi appestati, i
lebbrosi, e il cimitero: giacché allora la prossimità tra vita e morte, quotidiana, non turbava nessuno.
Più giù brulicava l’attività il porto. Segantini, incavigliatori, calafati, cordai, fabbri, fabbricanti
d’ancore facevano forza sugli attrezzi del mestiere, martellavano sulle incudini. I pescatori, a Saint-
Jean, ogni giorno portavano il pesce del golfo. Sventravano, salavano sardine e merluzzi, a colpi di
coltellaccio decapitavano i naselli; e le teste le gettavano nel rigagnolo, mentre riempivano i barili di
acciughe. Persino i galeotti, che a volte avevano il permesso di lasciare l’arsenale per qualche ora,
aprivano banchi in cui, sotto gli occhi delle guardie, riparavano serrature, risuolavano scarpe,
compilavano ardenti lettere d’amore per gli innamorati e documenti falsi per i truffatori.

Essere il prevosto degli Accoules metteva sullo stesso piano del popolo e del “mondo”; e
tuttavia si era anche in una posizione parecchio in vista, dal momento che comportava un tipo di vita
all’interno della comunità pieno di esigenze. D’altronde i preti preposti alla parrocchia, i curati, i
canonici, i vicari, erano numerosi; e anche sotto l’aspetto economico, la loro sopravvivenza era
garantita dal sistema delle ripartizioni e delle ponctuelles. Le ripartizioni consistevano nella
distribuzione delle prebende e delle offerte – in denaro o in natura, derivanti dalla celebrazione di
messe, battesimi, matrimoni e funerali – in funzione della responsabilità del singolo. In certe epoche
democratiche la ripartizione avvenne in ossequio a regole di equità; altre volte ci si fronteggiava con
spudorata gelosia. Ma a tutti questi inconvenienti si pose rimedio attraverso l’istituzione della mensa
comune, che, se non contentava tutti, perlomeno aveva il vantaggio di risolvere con una certa eleganza
il problema del sostentamento. Certo fu una questione molto controversa; e pare che Gaufridy
propugnasse soluzioni più individualistiche: di fatto non amava il refettorio, e si pronunciò anche
contro la mensa in comune a favore di trattamenti proporzionati alla scala gerarchica (lui che si vedeva
bruciare le tappe). Per quanto riguarda il sistema delle ponctuelles, era di gran lunga più curioso. Si
trattava, in verità, di vere e proprie multe che deprivavano dello spettante quanti vi incorrevano. Se si
leggono i motivi per i quali venivano comminate, si può restare perplessi di fronte alle qualità morali e
spirituali degli ecclesiastici di allora: “aver chiacchierato durante l’uffizio”; “aver mancato di umiltà

6
durante una processione” “avere letto altri libri che non il breviario durante la messa”; “aver ingiuriato
il decano”; “aver minacciato i canonici”. Ma questo in realtà è ancora niente in confronto alle offese
arrecate alla morale: sanzionate non solo con le ponctuelles, ma con ulteriori ammende di parecchi
scudi. Era vasta la gamma delle mancanze: il furtarello di uva matura nelle vigne, la frequentazione di
taverne, il bighellonaggio notturno, armi alla mano, il gioco d’azzardo nelle bische. Ma il divieto più
frequentemente infranto pare proprio fosse quello di “accordare uno la permissione ad accedere al
cubicolo a femmine sospette”, così come quello di ricorrere ai “servigi delle questuanti sulla porta
della chiesa”. Quale tipo di “servigi”? Verosimilmente, di indigenti equivoche ne dovevano stazionare
anche nei dintorni della chiesa delle Accoules. E, chissà, alcune potevano essere anche attraenti, in un
certo qual modo. Le porte si aprivano e richiudevano in fretta. E tuttavia, su questo punto c’era poco
da scherzare. Nell’ottobre del 1604, due beneficiari, colpevoli proprio di questa infrazione, furono
privati delle ripartizioni per quindici giorni. Quanto a Gaufridy, era probabilmente bravo a non farsi
cogliere sul fatto. O, per lo meno, sapeva prendere le sue precauzioni, e, in materia, la sapeva ben più
lunga degli altri.
Era infatti di pubblico dominio che, verso il 1608, aveva “ricevuto” molto, e senza
dissimularlo. Per un po’ sua madre aveva soggiornato presso di lui, e Louis non aveva avuto relazioni
che con una certa Lucrèce Bouchette. Ma successivamente si era messo a vivere circondato da donne.
Eccolo allora, per questa ragione, divenuto ormai oggetto di invidia e malevolenza da parte di molti
ecclesiastici, gravati come lui dal desiderio, ma non egualmente fortunati. Sarà proprio questo a farli
intervenire al suo processo. Con testimonianze non prive talora di un certo grado di indulgenza, che
insistevano su aspetti del carattere di Louis che sembrano spiegare, quando non giustificarne, le
debolezze. Era un uomo generalmente dotato di notevole buonumore: “uomo invero sollazzevole”,
come asserisce la maggior parte di coloro che lo hanno frequentato. “Invero uomo sollazzevole”,
insiste il canonico Jacques Bruni nella sua deposizione “gaudente e arguto oltremodo in brigata […] al
pascersi migliorava da poi la sua refezione con alcuna buona vivanda, piccioncini o altra pietanza, per
le quali dicea pagare del suo, ma che gli altri sapevano provenire da qualche sua figlia in ispirito”. In
una deposizione del beneficiario Guiller Ganteaume vengono invece citate due donne, di cui una
chiamata Catherine la Gobba, e l’altra Pintade (gallina faraona, nome predestinato), che
frequentavano regolarmente la sua camera, come fossero sue sorelle, fornendogli “soavi intingoli di
carni prelibate”. Quelle carni, bocconcini di piccione, dovevano essere decisamente di suo gusto, a
maggior ragione in quanto intrise di piccante erotismo: un giorno, invitato nella casa di campagna di
un parrocchiano, con altri preti, si lascia trascinare a tal punto dall’audacia dei suoi discorsi che intinge
una cosciotto di piccione nel vino, e poi si mette a tirarlo sulle vicine; oppure sputa con ostentazione
su un piatto prelibato per significarne tutto il suo disprezzo, provocando così le risa delle sue
compagne; e gli accade addirittura, in una occasione (deposizione del canonico Pierre Pistre, della
parrocchia delle Accoules), “di mescere acqua e vino in una tazza con chissà quale altra cosa, et indi
lappare con alto rumore il beveraggio, a modo di animale, imitato immantinente dagli altri
commensali, con giubelo di tutti”. Si tratta di comportamenti insoliti, che lasciano perplessi anche
tenendo conto del modo di condursi a tavola del XVII secolo, con tutte le sue raffinatezze: forse
rivelano un bisogno di insozzare, di natura infantile, forse sono legati a singolari pulsioni liberatrici.
Se ne incontreranno altri, di simili sorprendenti esempi, nel corso della vita di Gaufridy. Ad ogni
modo, questa sua naturale inclinazione era sufficiente per conferire un alone di bizzaria al suo
consueto umore gioioso.

Dal punto di vista sessuale, invece, tutto era più schietto, più nettamente delineato. Le donne
non gli si toglievano di torno. Si trattava, beninteso, di penitenti. E lui ne aveva più di qualsiasi altro
curato (non a caso, infatti, si era opposto energicamente, in sede di discussione del regolamento
interno, alla proposta di equa ripartizione degli utili derivanti dalle confessioni tra tutti gli ecclesiastici
delle comunità – sempre la solita soluzione individualista!). All’epoca quelle donne venivano
chiamate “figlie in ispirito”. Diventavano ben presto confidenti, amiche, e amanti, ma il rapporto si
reggeva sulla confessione. E le donne, per farsi confessare da Louis Gaufridy, accorrevano da ogni
angolo di Marsiglia, passandosi senz’altro la voce. O forse no: forse si trattava di uno di quei fenomeni
collettivi in cui una parola, una consuetudine, un’infatuazione si contagiano con una rapidità
incontrollabile. Resta da spiegare, in ogni caso, che cosa rendesse Louis Gaufridy tanto attraente e

7
seduttivo, tanto da attirare a sé tutte quelle parrocchiane. Le stregava forse con il suo modo di fare? O
attraverso la parola e il talento che aveva di predicatore? O ancora annullava, in loro, il benché
minimo senso di colpa? O magari le faceva sentire più libere? Era per loro – chissà – una semplice e
piacevole compagnia? Riusciva forse a toccarle intimamente, nel profondo? Siamo senza dubbio di
fronte a un dato decisivo della sua personalità e della sua vita, così difficile da esplorare. D’altronde fu
certo proprio questo lato oscuro a dare adito alle accuse di magia e stregoneria. Perché bisognava pure
spiegarlo, in qualche modo, con un intervento soprannaturale, quello che si era riluttanti a spiegare, in
parte per invidia, con il fascino che naturalmente Gaufridy sprigionava. Fu immediatamente, pertanto,
accusato di “soffiare” sulle donne (come del resto lui stesso ammise, definendo l’atto con grande
precisione, quando si trovò nella posizione di dover ammettere tutto ciò che gli altri volevano). È
questo un grazioso verbo che significa spirare un soffio diabolico su di una persona per renderla in
proprio potere. Anche se, in linguaggio figurato, la stessa parola ha ulteriori significati: far sparire con
destrezza, sviare. Un significato sul quale, peraltro, è possibile anche fantasticare: immaginiamo
Louis, in placida conversazione con una delle sue compagne, che accosta il viso a quello della donna,
“soffiando” furtivamente sul suo naso, o sulla fronte, per ammansirla; una gentile auretta che le scosta
una ciocca di capelli. O ancora si pensi a quello scambio di “soffi” per eccellenza che è un bacio. In
ogni caso, quel che è certo è che la sua reputazione era ormai bell’e segnata. Era ben noto infatti che la
sua cameretta e il suo studio erano oggetto di frequenti visite. E neppure si ignorava di lui il fatto che
possedesse un piccolo locale in città, all’angolo tra la Grand-Rue e la rue de la Bonneterie, nella città
vecchia: venne individuata la precisa ubicazione del luogo, più tardi indicato come la “casa dello
stregone”. Su Louis poi, una volta caduto in disgrazia, cominciarono a correre inesauribili i
pettegolezzi. Si intratteneva in conversazione con le amiche fino a tarda notte, in chiesa e per la strada,
“usando a dette femmine una soverchia familiarità […] smascellandosi dalle risa con desse”
(deposizione di Jean-François Roulier, vicario della parrocchia delle Accoules). Le riaccompagnava
“spesse volte dopo il Salve Regina, e fino a notte fonda” (deposizione di Jacques Fournier). Le teneva
in confessione tempi esagerati (deposizione Roulier). Ne nacque così pure una leggenda vera e
propria, a lungo tramandata dopo la sua morte, ripresa persino in tutti gli scritti dedicati al suo affaire.
Scritti che, quale che fosse il loro intento – di condanna o di compassione –, hanno in comune il fatto
di non mettere mai in dubbio la sua attitudine alla galanteria e il suo ascendente sulle donne. Les
Histoires tragiques de notre temps, composte da François de Rousset (1742): “Quante donne più pie vi
sono, recansi in confessione appo lui. Allora costui adopra dei suoi malefizi, e, col soffiare sulle dette
femmine, può godere tutte quelle che vuole. O rara, o inaudita licenza concessa da Dio!” (versione
devota). Histoire générale de Provence, libro XIII: “la sensibilità del suo cuore lo distolse dalla retta
via, nell’esercizio di un ministero che tante tentazioni offre; Gaufridy aveva dello spirito, un carattere
allegro, un singolare talento nel render piacevoli le cose più semplici” (versione pudica). Fabre,
Histoire de Marseille: “Gaufridy aveva per sua disgrazia un’immaginazione forte e viva, un cuore
sensibile e ardente, modi seducenti congiunti a passioni ardenti e abusava, con le donne,
dell’ascendente conferitogli dal ministero della confessione: ecco dove sta la sua magia” (versione
laica, “illuministica”).

Ma come stanno veramente le cose? Louis non dovette essere il religioso depravato che si
potrebbe immaginare. Comunque non più depravato della media dei suoi confratelli. Ed è pure
probabile che non fosse per nulla uno spirito forte, e che si limitasse a lasciarsi trasportare da quella
sua naturale inclinazione al piacere che lo spingeva, secondo l’arguta formula di prima, a “rendere
piacevoli le cose più semplici”, senza peritarsi delle possibili conseguenze dei suoi atti. Forse, più di
tutto, il suo comportamento era segnato dall’ingenuità, dalla libertà naturale dei suoi modi. Andava
dove si sentiva attratto, e i successi lo incoraggiavano. E più che dalla depravazione, la sua condotta
era influenzata dall’anticonformismo. Un anticonformismo con ogni probabilità più marcato di quanto
non si pensasse. Una testimonianza del canonico Pistre contiene un aneddoto curioso – per quanto di
seconda mano: un giorno, in campagna, in buona compagnia, “agghindatosi con vestimenti in guisa
femminina, sortì repente di una stanza, cagionando in ciò il riso in tutti”. È una storia che incuriosisce:
questo attimo di travestitismo è un dettaglio supplementare nella lista dei suoi comportamenti ambigui,
insieme al gusto per certe triviali facezie ed equivoche, segno della presenza in lui di una propensione
allo scherno e al dileggio di ciò che viene considerato buon costume.

8
Va detto che tutto questo poteva assumere anche un aspetto di galante mondanità. Gaufridy, è
chiaro ormai, non si nascondeva, e molti osservatori avevano avuto modo di vederlo circondato, in
pubblico, dalle sue “figlie in ispirito”. Come una sera di festa d’estate, sul porto, dove galere dorate e
dipinte a nuovo facevano sventolare le proprie bandiere: vessilli si agitavano all’aria ovunque, i
mercantili ornati di orifiamme facevano un carosello tra le due rive, i remi battevano l’acqua tra i
gabbiani, un cannone riecheggiava di lontano, tra salve di fumo bianco. Si era cominciato a ballare. La
gente si riuniva in gruppi rumorosi. Ed è là che un mercante aveva scorto Gaufridy, dopo il vespro,
sotto la tribuna installata davanti alla cappella Saint-Clair. Era, a suo dire, “attorniato da quatro o
cinque femmine, permanendovi in familiare conversazione, sostenendosi il capo con un braccio e
appoggiando il gomito alla coscia di una delle sopraddette femmine”. Quadretto edificante. Nell’aria
gli odori dell’olio e del pesce: a Marsiglia considerati potenti afrodisiaci.

9
Cap. 3

C’erano parrocchiani di nobile lignaggio: abitavano in eleganti case borghesi innalzate sulla
destra delle Accoules. A loro Gaufridy recava qualcosa in più di una semplice assistenza religiosa, o
del suo buonumore. Interveniva nelle famiglie in qualità di direttore spirituale, consigliandole negli
affari domestici, entrando talora anche a far parte della loro vita. Si trovò così a frequentare con
assiduità la casa di Demandolx de la Palud, elevato esponente della nobiltà di rango: il quale si
avvaleva volentieri dei suoi servigi, tanto più che c’erano, nella sua dimora, beni materiali e spirituali
da gestire, unioni da rafforzare, e donne da confessare. In particolare la sua consorte, Françoise de
Glandevès, e le due figlie, Claire e Madeleine. Ma Antoine de Demandolx aveva anche due figli
maschi: di cui uno legittimo ed un altro naturale. Ora, Gaufridy era davvero a suo agio in quel mondo.
La sua piacevole conversazione e il suo spirito venivano apprezzati; e rispettato il suo ministero. Si
vedeva accolto festosamente e sentiva poi di godere di una certa considerazione. Come spesso accade
in simili casi, non poteva che essere la padrona di casa a dimostrarsi maggiormente premurosa nei suoi
confronti. Françoise de Glandevès, figlia di Ardouin, signore di Gréoulx, era una donna di antico
ceppo provenzale, dal sangue caldo. Secondo l’opinione di alcuni, Gaufridy ne sarebbe
immediatamente divenuto l’amante. Svariati dettagli biografici - messi ancora una volta in luce dalle
deposizioni processuali - lasciano comunque supporre relazioni di singolare familiarità tra lei e Louis.
In effetti Françoise, nel corso dell’istruttoria raccontò, vincendo con ogni probabilità vergogna ed
imbarazzo, che un giorno, a tavola, in compagnia di altre due donne, Jeanne e Catherine, di un certo
Jean Gay e dello stesso Louis, quest’ultimo l’aveva oltraggiosamente inzaccherata di broccio. Il
broccio era una sorta di ricotta di pecora, prodotta nel sobborgo di Rove, rinomata e molto apprezzata
a Marsiglia. Servito alla fine del pranzo, Louis ne aveva preso con le dita, non trovando di meglio e di
più divertente che gettarlo in faccia e nella scollatura delle sue compagne di tavola: “Allhora detto
Gaufridy, tolta la detta ricotta con la mano, ebbe a aspergerne quella e l’altre donne, tutto risoluto in
licenziosi sghignazzamenti; e pare anzi eziandio che ella avesse in animo di fare cosa altrettale,
avvenga che non sia dato sapere s’ella o l’altre lo facesser da poi.” Divertimento nel puro stile di
Louis: che ne conferma, quantomeno, il gusto per certi giochi e ilarità. E tale gusto, Madame de
Demandolx de la Palud lo condivideva come poteva. Donna matura e rispettabile, magari anche bella,
avrà pur avuto il diritto di divertirsi un po’.

Tutto ciò era avvenuto nella bastide di suo padre, luogo in cui la famiglia era solita riunirsi, in
particolare la domenica. Erano le bastides piacevoli residenze di campagna, all’epoca già numerose
nei dintorni di Marsiglia, nei pressi della città vecchia e fino alla riva del mare: dove ci si ritrovava con
vicini, amici e domestici, senza distinzioni di classe sociale. A mangiare, bere, in civile conversazione.
Il vino bianco innaffiava generosamente i ricci di mare. La casa del signore di Gréoulx si trovava nel
sobborgo di Saint-Barthélemy, quartiere degli Escaliers. Aveva il nome di Fontobscure: ampie zone
ombreggiate regalavano una piacevole frescura. Gaufridy amava moltissimo quel luogo e lì aveva più
volte avuto occasione di conversare con Madame de Demandolx sul futuro della sua figlia più piccola,
che presentava tutti i segni di una grande devozione.
La piccola Madeleine, bionda, dolce, dalla salute cagionevole, pareva, per il suo riserbo e il
suo pudore, destinata ad una vita di religioso raccoglimento. All’età di otto anni, Louis ne divenne il
confessore; a nove, le amministrò la prima comunione; adesso suggeriva di farla entrare nelle
Orsoline, ordine di neonato prestigio e influenza crescente. La fanciulla era già stata educanda nel
convento di Marsiglia; si trattava ora di assicurarle una buona posizione presso le Orsoline di Aix. Per
farlo ci sarebbe voluta una certa somma di denaro - la retta era abbastanza cara -, e Françoise de
Demandolx contava su Louis per ottenere i soldi da suo padre (anche di lui, infatti, Gaufridy era il
confessore). Ebbe dunque inizio la trattativa. Giunsero a chiedere al vecchio gentiluomo la somma di
cento scudi; quello ne accordò trentasei, e l’affare fu concluso: con quell’acconto, Madeleine entrava
dalle Orsoline. Aveva dieci anni.

A dire il vero, già da parecchio tempo Madeleine aveva notato Gaufridy. Non solo per il fatto
che si occupava di lei e della sua educazione religiosa: anche per i suoi modi, che le mettevano in

10
subbuglio la testolina. Davvero troppo spesso lo vedeva accanto a sua madre, troppo spesso andare e
venire per casa. Così, ecco quanto accadde un giorno, a Marsiglia: Esprit, suo fratello, si era sentito
male, colpito da una di quelle febbri infettive all’epoca tanto diffuse, e Françoise de Demandolx, come
sempre in quei casi, si precipitò a chiamare Gaufridy. Questi era immediatamente accorso, per far
visita ad Esprit. Il giovane, allora diciassettenne, languiva in una stanza buia, attigua alla cucina. E la
madre faceva la spola da un vano all’altro ininterrottamente, di continuo passando dai fornelli al letto
del malato. Intanto Madeleine le stava sempre appresso. Per tutto il tempo della visita, però, era dovuta
rimanere da sola in cucina: ambiente dalle piastrelle ben lustre, ma colmo di oggetti che incutevano
timore. L’oulo, il calderone, appeso alla catena del camino sopra un fuoco crepitante, dove la zuppa
bubbolava; le spesse sbarre tortili della dispensa del pane, pendente dal muro come una gabbia;
l’enorme caufo-lié di rame gettato sul tavolaccio; le bizzarre collane di teste d’aglio spenzolanti dal
soffitto; i coltelli sparsi un po’ dappertutto. Madeleine, seduta su uno sgabello, osservava tutto,
roteando gli occhi da destra a sinistra, in alto e in basso, di tanto in tanto asciugandosi le mani sul
grembiule. Ma dopo un po’ – non ne poteva proprio più – si era alzata per socchiudere lentamente la
porta. Dapprima non aveva avvertito che il buio, e il respiro penoso di suo fratello. Poi però aveva
distinto, alla fiamma di uno stoppino immerso nell’olio, sulla testa del letto, i due visi ravvicinati di
sua madre e del prete, che confabulavano, a voce bassa. Doveva aver fatto, suo malgrado, un po’ di
rumore: il prete aveva girato bruscamente la testa; e, in quel momento, il suo volto, bizzarramente
illuminato dal di sotto dalla luce che la lanterna emetteva, aveva assunto un’espressione paurosa. Le
era sembrato, poi, che sua madre, nell’ombra, si rassettasse le gonne. Quel che è certo, è che le si era
diretta contro con aria severa; e l’aveva ricondotta brutalmente in cucina, stringendole forte il braccio.
Madeleine, risalita sul suo sgabello, si era messa a tremare: come se la febbre di suo fratello si
fosse contagiata alle sue membra. E nulla pareva in grado di calmarne brividi e sussulti.
Contemporaneamente ricordò una scena che l’aveva terrorizzata, ancora molto piccola. Ora quella
scena le ritornava alla mente con violenza: passeggiando al porto con il nonno, che la teneva per
mano, si erano fermati sull’orlo della rada, a guardare degli operai intenti a calafatare una vecchia
tartana. Questi, a grandi colpi di maglio, infilavano stoppa nelle fessure dello scafo; facendo fondere
sulle crepe del legno un composto che sfrigolava sotto le torce di sarmenti di vite. Per prepararlo,
mischiavano, in un enorme braciere, sego, catrame e resina. Il fumo giallastro che se ne sprigionava,
col rumore dei martelli, aveva qualcosa di terrificante. Il nonno tentò di spiegarle il senso di quel
lavoro, ma la piccola non vedeva altro che fumo, e il rumore dei martelli. Tutt’a un tratto, uno degli
operai spinse avanti un cane enorme, incatenato al braciere; dicendo che era il Diavolo. La bestia, dal
brutto pelo a chiazze, probabilmente rabbiosa, aveva preso ad abbaiare con tutte le sue forze,
scoprendo, sotto fauci bavose, le zanne aguzze. La maggior parte dei curiosi, spaventata, se l’era data
a gambe facendosi il segno della croce. Ma il nonno no: era rimasto immobile, mantenendo la mano
ferma e stretta attorno a quella della bambina. Allora lei aveva cominciato tremare in tutto il corpo,
come oggi. Chiudendo gli occhi per non vedere più l’orrido muso di quel cane, illuminato alla luce
delle fiamme del braciere.
Ora, poco a poco, si era riuscita a calmare. La madre era tornata un attimo dopo, dicendole che
il fratello, grazie al parroco, si era ripreso. Ma al solo nome del prete, Madeleine era scappata a
nascondersi in un armadio, rifiutando di parlare con lui e di fargli la riverenza. Madame de
Demandolx, stizzita, l’aveva trascinata fuori, seccamente rimproverandola per non aver reso al prete
“l’onore che sogliono le devote fanciulle devolvere ai padri della Chiesa” e chiedendole che non
accadesse mai più in avvenire una cosa del genere.

Non solo una cosa del genere non si sarebbe più verificata: qualche anno dopo, il tutto si era
letteralmente rovesciato. Ci troviamo nel 1608. Madeleine ha quindici anni. I suoi capelli sono sempre
biondi; ora però è diventata una ragazza desiderabile, malgrado i tormenti che i soggiorni dalle
Orsoline suscitano in lei. Messer Gaufridy comincia a trovarla di bell’aspetto. A Fontobscure, che
Louis continua a frequentare, Madeleine è lieta di passeggiare con lui sotto i pini, sotto i platani.
Lontano, di tra i rami, vedono palpitare il mare. A volte sostano presso la fontana oscura che dà il
nome alla proprietà, fissandovi la loro immagine riflessa. E, così facendo, la loro conversazione
assume un tono di maggiore intimità. Finché, un giorno di giugno, Madame de Demandolx ha una
sorpresa.

11
Quella mattina deve occuparsi di dirimere una lite tra suo marito ed un vicino, il canonico
Tuzer, a proposito della bastide e di certi confini interpoderali: aspetta pertanto la visita di padre
Jacques Bruni, anche lui canonico, che si è proposto come mediatore. Jacques Bruni, presentatole da
Gaufridy, non conoscendo la bastide, si è appunto fatto accompagnare da lui. Comincia la visita della
proprietà. Dal momento che i due uomini, per venire a Fontobscure da Marsiglia, hanno dovuto
percorrere “una buona mezza lega”, sono stanchi, trafelati, un po’ infangati, e si bada a non fargli
fretta. Nel grande giardino, il gruppo si ferma spesso. Il sole colpisce di rovescio le foglie degli ulivi,
schizza di luce le zolle di terra rossa tra le vigne. Le cicale cantano già tra i pini. Cercano un po’
d’ombra, per riprendere fiato. Bruni e Gaufridy si siedono su un tronco d’albero, vicino alla fontana.
Ed è allora che vedono, un po’ in disparte, Madeleine, fino a un attimo prima passata inosservata. È là,
appollaiata su uno sgabello, a leggere, sulle ginocchia, un libro sacro. I bei capelli biondi calano lungo
le gote fino a sfiorare le pagine del libro. Ha un’aria talmente assorta che si direbbe non abbia visto né
sentito nulla. Quando infine alza gli occhi, alla vista dei due uomini, si fa tutta rossa di timidezza e di
sorpresa. Louis si dirige verso di lei e l’abbraccia; frattanto Françoise de Demandolx spiega al
canonico, commosso e ammirato, che sua figlia è così, sempre in preghiera. Si mettono a
chiacchierare, continuano la passeggiata, e incontrano, aggirato un boschetto, il fratello di Madeleine,
con Claire, sua sorella (sposata, era là solo di passaggio, e, in ogni modo, sarebbe ben presto uscita
dalla scena di questi avvenimenti). Il gruppo prosegue la passeggiata, poi si disperde, e poco dopo
Françoise si ritrova sola con padre Bruni. È l’occasione di ricondurlo al vero motivo della sua visita e
di attirare la sua attenzione sulla conformazione dei luoghi. Françoise gli fa scoprire gli annessi della
proprietà. Gli fa vedere l’hière, l’aia su cui si trebbia il grano, sparsa di paglia e correggiati, al limite
dei campi, dietro la casa. Poi la prospective, vale a dire il luogo dominante, dal quale si gode il miglior
panorama, da dove si può abbracciare con lo sguardo tutta la proprietà, tanto sul lato mare quanto
verso l’interno. È appunto il canonico Bruni che racconterà tutto questo nella sua deposizione.
Racconterà anche che, durante la sua visita, prendeva appunti per “scrivere sulla carta e registrare, di
detta bastide, luoghi e disposizioni”. A questo punto un vento improvviso si alza e una folata di
mistral sparpaglia le carte, obbligandolo a rientrare. Ovviamente Françoise de Demandolx lo
accompagna, proponendogli di continuare l’inventario all’interno. Una buona occasione per effettuare
un sopralluogo dei locali e prenderne nota. Si comincia con la sala e la cucina, si passa quindi alle
camere. Una dopo l’altra vengono spalancate tutte le porte. Ma davanti alla camera di Madeleine li
attende una sorpresa. Là si trova infatti la piccola devota: ma in compagnia di Gaufridy, seduto sul
letto accanto a lei, la mano sul suo ginocchio. Bruscamente Madame de Demandolx richiude la porta.
Opta per guidare il canonico verso altre stanze, proseguendo nelle spiegazioni e nei commenti sui
luoghi. E mantiene un contegno perfetto, ma il suo volto immediatamente avvampa per un violento
calore. A partire da quel giorno, qualcosa le si è rivelato, si è scoperto davanti a lei. Da ciò non può
aspettarsi nulla di buono.

In quel momento Louis Gaufridy è al meglio di se stesso. A trentacinque anni, il suo prestigio
è divenuto considerevole, sia alle Accoules che fuori Marsiglia. Gli si riconoscono doti di brillante
predicatore, qualità di direttore spirituale illuminato. Sempre più è richiesto come confessore. E tutto
ciò è dovuto in gran parte al suo fascino. Conserva ancora gli occhi chiari della sua infanzia, i tratti
ridenti, i riccioli bruni attorno alla tonsura. Ma oltre l’apparenza fisica, c’è in lui una segreta, strana
facoltà che gli dà presa sugli esseri, su quanto in loro c’è di più intimo: in particolar modo sulle donne.
“Esse avvertirono una potenza, scrive Michelet in la Sorcière, [...] e seppero che null’altro era che una
potenza diabolica.” E con la maturità, tutto ciò si è andato vieppiù acuendo. È chiaro dunque come
Madeleine abbia potuto subire l’appello dei sensi di fronte a quest’uomo più vecchio di lei di
vent’anni. Appello dei sensi, e allo stesso tempo morale e intellettuale. E inoltre, probabilmente, la
seduzione, vaga, questo sì, dei suoi conturbanti atteggiamenti. Ma si capisce anche che Madeleine, con
la sua giovinezza, la sua ingenuità, i suoi goffi terrori, abbia dato a Louis respiro, freschezza, riposo in
una vita piena ma disordinata, che oscillava tra il comico di carattere e il farsesco. Un’occasione di
cambiare registro.

12
Cap. 4

Era venuto, per Louis, il momento di fare i conti con Madeleine. Che, forse, dietro all’apparenza riservata
e pudica, non era una giovane poi così posata. Madeleine de Demandolx de la Palud, per quel poco che è dato
giudicare, era il classico tipo di ragazza di buona famiglia che si tende a rinchiudere in convento prima
possibile, per togliersi il fastidio della sua educazione e insieme proteggerla dalle incursioni della vita. Ma il
frutto di una condotta del genere non si faceva attendere: isolamento, accidia, languori, aspirazioni soffocate,
desideri sessuali repressi, illusorie ossessioni. Da Diderot a Freud, tutta una letteratura sull’argomento.
In questo caso, in particolare, bisognerebbe aggiungere che le Orsoline – ordine che agiva blandendo la
vanità delle famiglie – reclutavano essenzialmente nella nobiltà e nella borghesia, sforzandosi di conciliare il
rispetto per la “dottrina cristiana” con un esercizio assai proselitista della fede. Le giovani reclutate, d’altra
parte, senza mai arrivare a pronunciare i voti, si dedicavano di buon grado a incombenze d’ambito
pedagogico. Un testimone inatteso, Nostradamus, ce le descrive così: “Fanciulle di alta e invero nobile
condizione, minori tuttavia e più umili in ispecie, le quali, già punte dal desio dell’abbraccio di virginale
castità, non giudicando se stesse punto costanti né forti per la ottenere la palma della vittoria sulla solitudine e
austera disciplina della vita claustrale, fermansi, in dolce e bonaria tranquillità di animo e di corpo, di tra il
mare ondivago e fiero del mondo, quasi essendo nella bonaccia della honesta e pudica libertà, maggiormente
conforme alla virtù loro e alla devozione, così che oprano con singolarissima perfezione nell’esercizio di ogni
sorta di squisita opera di civile onestà e pietà cristiana, coltivando ogni tenerello virgulto con amore tale e
tanta cura che essi crescono vigorosamente e meravigliosamente fruttano”. Insomma, vere e proprie
“giardiniere d’infanzia”. E, se vogliamo dire le cose come stanno, un ordine un po’ inferiore. Non in quanto a
qualità; semmai in fatto di rigore. Più aperto, più umano, al passo col mondo e coi tempi. L’autore di questo
“aggiornamento” [in it. nel testo] era padre Jean-Baptiste Romillon. Nato a Isle-sur-la-Sorgue, provenzale
d’indole bellicosa, aveva cominciato a servire con foga nei ranghi protestanti, per poi cambiare, anni dopo,
bandiera; scoprendosi, con il cugino César de Bus, la vocazione di fondatore d’ordini religiosi. Divenuto
prete, officiava a Aix, e il cugino in Avignone. Ecco: rigorosa spartizione della Provenza; trasformazione,
espansione, propagazione, conquista; stile audace; e apertura di nuove istituzioni. Tra cui, in particolare, a
Aix, i Padri della Dottrina Cristiana e le Orsoline. Quanto a queste ultime, decisivo si sarebbe rivelato
l’intervento di una donna dotata di carattere: Madame de la Fare, vedova, ricca, devota fino all’oltraggio. Nel
1600, padre Romillon, forte della sua collaborazione, trionfò. La congregazione si insediò a Aix, prime
animatrici essendo Françoise e Catherine de Bermont. Finalmente tutto era pronto per accogliere le novizie.
Fu a Marsiglia che, ben presto, venne reclutato il più gran numero di membri dell’ordine. Tra le Orsoline
di Aix e quelle appunto di Marsiglia relazioni intercorsero frequenti e continue. Tanto che si ha l’impressione
che le giovani suore fossero sballottate da un convento all’altro (anche se si trattava, in realtà, di una sola
congregazione). E un caso di questi fu proprio Madeleine: piazzata, nella sua prima infanzia, a Marsiglia; poi
sbattuta a Aix; relegata quindi a Marsiglia; infine ricondotta a Aix. Si agiva così, con ogni probabilità, alla
ricerca delle più favorevoli condizioni di adattamento; ma tutti quegli spostamenti finivano con l’essere più
pregiudizievoli per una giovane novizia di quanto si possa immaginare: poiché, sentendo di non avere una
dimora fissa né da una parte né dall’altra, non c’era luogo dove riuscissero a sentirsi “al riparo”. Eppure
l’esperienza marsigliese era nata sotto buoni auspici. Troppo buoni, forse. Madeleine, già dall’età di otto anni,
appariva da tutti i punti di vista totalmente sottomessa alle regole del convento. Voleva una cella “molto in
disparte delle altre”. Si consacrava alle pratiche religiose con fervore, febbrilmente. Spesso stava “priva della
camicia”, secondo una testimonianza di sua madre, per mortificarsi. Non è possibile escludere che, in tutto ciò
fosse intervenuta, fin da subito, una certa componente di recitazione: l’avveduta suor de Gaumer, madre
superiora, non esita a registrare che “bene notava in lei esservi dell’ipocrisia, poco o punto approvando come
tante estasi la cogliessero in altrui presenza”. Estasi che, ovviamente, sono inquietanti, e da cui trapelano
indizi forieri di tempeste.
Con tutto ciò la giovane aveva comunque agio di abbandonarsi ai rapimenti, visto che le era stata imposta
la vita del chiostro e, ancor di più, di “superare le altre nell’esercizio della virtù”, qualora ne avesse avuto i
mezzi. E così fece. Con il risultato di attirarsi ben presto, da parte delle consorelle, sentimenti contrastanti. Di
amore e diffidenza. Perlomeno da parte di suor Honorée de Lascours e, soprattutto, di suor Désirée
d’Anthoine. Le si vedeva tutte e tre, nel convento della strada del Petit-Puits, cadere in ginocchio a proposito
e a sproposito, prosternarsi al suolo alla minima occasione, stringere febbricitanti il crocifisso sul seno acerbo,
snocciolare litanie balbettando, invocare in sé la presenza del corpo di Cristo. Ma intanto erano i loro giovani

13
corpi a ribollire. E si scambiavano confidenze, gesti di tenerezza e di ardore. Désirée era la prediletta di
Madeleine. Probabilmente il tipo di amicizia adolescenziale che le univa nascondeva, dietro a tanti slanci
mistici condivisi, il turbamento dei sensi. Ma c’è da credere, comunque, che in poco tempo le cose si
mettessero male: infatti suor Désirée dichiarò in seguito che, se, nel corso della loro comune infanzia, era
stata tanto “ricercata” da Madeleine, la cosa non poteva che essere stata dettata da “intenti soverchio maligni”
(perbacco! si comincia ad intravvedere la piega che prenderanno gli avvenimenti!), ma che, fortunatamente,
“Dio l’aveva protetta, suscitando in lei un segreto orrore che, quanto più l’altra la tormentava, tanto più da
ella la rimuoveva”.
Ad ogni modo, sia i soggiorni a Marsiglia che quelli a Aix furono nocivi alla salute di Madeleine. Che, del
resto, già in partenza, non doveva essere molto robusta (sebbene la madre ritenga di rappresentarla, a suo
parere, intorno al 1606, “bella e florida”: con il che si potrebbe supporre che fosse divenuta in breve assai
attraente, di contro all’insistita reputazione di magrezza e di fragilità che le sarà attribuita); ma è chiaro che a
colpirla e logorarla erano turbe psicosomatiche. Si parlava di “grandi dolori per tutto il corpo, con gran copia
di melanconico umore che la faceva molesta a tutta la compagnia”. Dolori non ben localizzati circolanti per
tutto il corpo; disturbi su cui neppure la medicina moderna ha sempre presa, in virtù dello stretto rapporto che
intercorre tra questi e le forme più complesse del “male di vivere”. A maggior ragione la medicina di allora.
Madeleine era già stata seguita dal suo medico di famiglia, il dottor Cassaigne. Ma venne anche consultato,
durante il suo soggiorno ad Aix, un esperto di chiara fama nell’arte della medicina, il dottor Antoine
Mérindol. La palpò, la auscultò, le prescrisse le sole cose che sapeva prescrivere: salasso, purga, clistere, a
rigore brodi, e giulebbi. Ma, nonostante tutto ciò, miglioramenti non ce ne furono. Mérindol era la gloria di
Aix e dell’Università, amico intimo di presidenti come Guillaume Du Vair e Lacépède, sostenuto dai più
illustri dei suoi colleghi. D’altronde aveva probabilmente troppa autorità e troppa dottrina per risolvere un
caso così concreto e per certi versi tanto semplice. E però qualcosa gli suggeriva che la malattia della sua
paziente non richiedesse soltanto cure del corpo. Bisognava senza dubbio modificare le sue condizioni di vita,
farle “cambiare aria”, come volentieri già allora si diceva. E pertanto ordinò: “Che le si facesse cambiare aria,
però che parve a tutti che ella si fosse in grave pericolo di contagiarsi della tisi”. Si teneva così conto
dell’anima senza tuttavia trascurare il corpo. Quello fu il primo incontro di Madeleine con medici, chirurghi,
speziali, che, più tardi, non persero mai occasione di osservarla in ogni luogo, di esercitare su di lei la sagacità
di cui disponevano con l’intento di misurare, sulla base della resistenza del suo male, i limiti del loro sapere.
Insomma, un caso proprio interessante.
E così cambiò aria, e ritornò a Marsiglia. Dai suoi genitori. È là che poco a poco recuperò un relativo
equilibrio grazie a una qualità di vita più propizia alla sua salute. Erano soprattutto i frequenti soggiorni che la
famiglia faceva a Fontobscure a concederle il riposo, l’aria pura, il contatto con la vita naturale di cui aveva
bisogno. Riprendeva colore, e al tempo stesso l’appetito per la vita. È d’altra parte durante la convalescenza
che appaiono i momenti di risveglio affettivo e sensuale scanditi dalla frequentazione di Louis. Lo incontrava
sia a Marsiglia che alla bastide. A Marsiglia andava a messa alle Accoules tutte le mattine, in compagnia della
madre. Ci tornava da sola a mezzogiorno suonato rimanendo lì fin dopo i vespri; e spesso trascorreva lì anche
la sera, per il Salve Regina, fino al cader della notte: non le mancavano, quindi, le occasioni di incontrare
Louis; ed è ammirevole con quale armonia riuscisse a conciliare le esigenze della fede e le inclinazioni del
cuore. Vantaggio dell’estrema prossimità. Quanto alla bastide, sappiamo che Gaufridy la frequentava
regolarmente, e sempre nella sua forma migliore: ben deciso anche lui ad approfittare dei gioiosi momenti di
riposo che gli arrecava la calma dei verzieri, il chiaro rumore delle fontane, il forte sentore resinoso dei pini e,
più lontano, l’odore profondo dei campi arati. Ricostituenti che, insieme alle potenti sue segrete emozioni, in
breve tempo rimisero in sesto Madeleine. Fu proprio lei, un bel giorno, a chiedere di tornare dalle Orsoline. Il
momento di crisi era passato. La convalescenza non poteva durare in eterno. La salute si era consolidata.
Bisognava pur ritornare al progetto di vita prescelto, nonostante gli impulsi del cuore. Né è del tutto
impossibile, d’altronde, che fosse stato lo stesso Gaufridy a favorire il ritorno di Madeleine in convento. Voci
disparate (più o meno benevole) lasciano intendere che, dopo aver ottenuto dal signor de Gréoulx gli scudi
necessari alla riammissione in convento della giovane, avrebbe provveduto personalmente a coprire una parte
non trascurabile delle spese di pensione, certo per attaccamento alla madre, forse con l’unico e lodevole
progetto di assicurare alla ragazza l’avvenire spirituale. Fatto sta che Madeleine si ritrovò nella sede di via
Bassenque, a Aix.

14
La rue Bassenque (attualmente rue Mérindol) si trovava in uno dei luoghi più popolati della città vecchia,
tra il quartiere detto dell’Observance e le vestigia romane delle Terme Sextius. Caseggiati stretti uno all’altro,
separati da pergole e giardini. Le ragazze non erano più segregate, ma, al contrario, vicine alle attività della
città: il rumore della strada, il lavoro alacre degli artigiani, i borghesi a passeggio. Restava pur sempre il fatto
di ripiombare, così all’improvviso, nelle passate condizioni della vita claustrale: che avevano già messo a
dura prova Madeleine. L’età poi che aveva raggiunto, la piena adolescenza, non poteva che aggravarne gli
effetti. Bisognerebbe infatti immaginarsi il tran-tran quotidiano di quelle suorine. Michelet ne ha riassunto la
sorte in una parola sola: noia, insistendo sulla mortale monotonia dei loro ritmi di vita. Dice, parlando della
congregazione fondata da padre Romillon: “Credeva le sue giovani provenzali assennate [quanto i “fratelli
della Dottrina cristiana”] e faceva conto di costringere il suo piccolo gregge nei magri pascoli di una religione
oratoriana, monotona, ragionevole. Così si creava la noia”; e aggiunge: “Ma poi, un mattino qualunque, tutto
precipitava” Costrette a portare un abito austero, ognuna si vedeva rispecchiata in un’altra: lungo velo nero,
chiamato “crespo” (si diceva “prendere il crespo”) e soggolo. Abbigliamento non privo d’eleganza, in un
certo qual modo, e in una certa armonia con un giovane corpo di sedici anni, e nondimeno pensato per
significare il lutto della vita. Il ritmo della giornata? Preghiere, soprattutto, uffizi, a ore regolari. Ben inteso,
passeggiate in un giardino spazioso ed ameno, le sedute dedicate all’istruzione delle più piccole o delle
giovani esterne, riunioni nelle vaste sale comuni preparate per le pensionate, ma anche lunghe ore passate in
cella. Le pareti nude. Sul muro il crocifisso, il corpo, in grave tensione, del Cristo. L’inginocchiatoio di legno
grezzo, vicino al letto. Alzarsi presto, coricarsi prima. Il silenzio. Il tempo del raccoglimento. All’età in cui
tutto si apre sul mondo.
Madeleine conosce tutto questo, si piega a quei ritmi, curva la nuca sotto il velo e la cuffia. Ma, poiché la
vita e la curiosità continuano a palpitare in lei, crea tra sé e le sue compagne, a poco a poco, tutta una rete di
relazioni, più o meno intime, più o meno segrete, che le permettono di sfogarsi, di liberare la sua
immaginazione, di scambiare informazioni. E, più precisamente, informazioni sull’universo sessuale, dove
tutto sembra vergogna e mistero, ma che ognuno porta in sé, nel proprio corpo, nascosto certo, però ardente,
ingombrante. Forse, anche, spaventoso. Freud, nel raccontare l’incontro, dell’estate 1890, con la giovane
Katharina, che si doveva rivelare un caso assai allucinante di nevrosi isterica, annota, quasi con limpida
ingenuità: “Quante volte avevo visto l’angoscia, nelle giovani donne, quale conseguenza del terrore che
suscita in un cuore virginale la prima rivelazione del mondo della sessualità.” Terrore. Era proprio questo che
bisognava scongiurare, combattere, soffocare, parlando, chiacchierando, discorrendo come folli di quegli
strani argomenti. Una giovane suora era brutta (incredibilmente brutta, quasi deforme, con gli occhi strabici e
la pelle coperta di pustole): come, e perché, si poteva essere brutta, cosa significava quella parola, brutta?
Un’altra aveva un seno da balia, che comprimeva fino alla morte nell’abito, schiacciandolo sotto fasce di
stoffa: perchè quei grossi seni, perché quella carne rigonfia di latte? Un’altra aveva dei peli, in gran quantità,
là dove altre ne avevano pochi, e li mostrava fiera sollevando, nell’intimità della cella, l’abito nero fino
all’attaccatura delle cosce. Un’altra parlava delle sue mestruazioni, fornendo orribili dettagli, brandendo
pezze rosse di sangue, sotto gli occhi sgranati dalla paura di quelle ancora impuberi. Alcune, sfrontate oltre
ogni limite, arrivavano al punto di dare dettagli sul sesso maschile, spiegando che era simile ad un serpente
che si drizza, srotola le spire; poi, consapevoli dell’enormità della rivelazione, cadevano in ginocchio sul
pavimento, facendosi il segno della croce con gesti convulsi, piangendo, tremando. Madeleine,
paradossalmente, si era legata a quelle che più l’inquietavano. C’era già stata Désirée d’Anthoine, che, per
anni, le aveva turbato il cuore e lo spirito. Ora c’era Anne de Beaumont, Cassandre de Bus (la nipote di César
de Bus, compagno di missione di padre Romillon) e la strana Louise Capeau, che veniva da Saint-Rémy e
cercava di far dimenticare le sue origini plebee facendosi chiamare de Capel, più vecchia delle altre e
soprattutto più plateale nelle spettacolari manifestazioni di fede e nella sfrontatezza della concupiscenza, di
un’impudicizia devastante. E i giorni trascorrevano in conciliaboli, scanditi dal suono delle campane che
annunciavano il mattutino, le lodi, la messa, la prima, la terza, la sesta, la nona, il vespro, la compieta, il
riposo. L’ora dell’atto di contrizione, l’ora dell’atto di fede, l’ora di inginocchiarsi, l’ora di baciare il suolo,
l’ora della comunione, l’ora di sgranare il rosario. Nei confessionali, un mormorio di lunghe litanie di peccati
e di colpe. I sogni li attraversavano rospi, serpenti, caproni.

E in questo clima, un bel giorno, arrivò Louis. Veniva da Monferrat, un villaggio nei pressi di Draguignan
dove si trovava una vecchia cappella, appesa a una collina, che attirava tre volte l’anno i pellegrini. Ma perché
questo “pellegrinaggio”? Forse desiderava ritrovare qualche amico di quei luoghi dove aveva passato parte

15
della sua gioventù. O forse l’aveva colto un bisogno di fuggire. Più tardi girò voce che non avesse avuto altro
modo di cavarsi d’impaccio per qualche pericolosa storia di donne in cui si era immischiato. In ogni modo, al
ritorno da Monferrat, decide di passare da Aix e di incontrare Madeleine.
Arriva calzato di stivali, bardato di cuoio; accolto con grande considerazione da suor de Gaumer,
all’epoca facente funzione di madre superiora; è lei stessa ad introdurlo in parlatorio. Eccolo davanti a
Madeleine. Fa un ampio segno di croce, e così anche la ragazza; ma il suo è più veloce, quasi rattrappito. Le
chiede, gli occhi fissi nei suoi, se la salute è migliorata, se la vita in convento le si confà, se vive in buona
armonia con le compagne e non ha nulla di cui lagnarsi, se la sua fede e la sua religiosità si vanno
rafforzando. Poi le dà notizie della sua famiglia. Parlando, ha preso a misurare a grandi passi la stanza
pavimentata in bianco e nero e, ogni volta che arriva in fondo, afferra con la mano, per un istante, una delle
volute della griglia in ferro battuto che chiude il locale come un sipario. Poi ritorna a lei, lo sguardo
insinuante. Le parla di sua madre, di suo padre, di suo fratello, degli amici di famiglia: le dice quanto tutti
sentano la sua mancanza, ogni giorno di più, ma aggiunge immediatamente che è meglio sia così, che è in
questo luogo e non altrove che deve compiere la sua salvezza. Lascia intendere che ragioni oscure di ogni
sorta sostengono il suo allontanamento da Marsiglia. Tuttavia, è pronto a continuare ad interessarsi, a vegliare
da vicino su di lei finchè non verrà meno la necessità, a non trascurarla mai né dimenticarla: lei, proprio lei,
conosciuta piccolina, accompagnata nei primi passi verso la vita religiosa. Evoca le Accoules, la campana, le
preghiere. Poi Fontobscure, il raccoglimento sotto gli alberi, vicino alla fontana. Si è seduto sulla panca lungo
il grosso tavolo incerato e, bruscamente, ha afferrato l’ansa della brocca d’acqua fresca che è stata portata lì
per lui. L’accosta alle labbra e, tirando indietro il collo, beve a piena gola. Rivoli d’acqua gli colano intorno
alla bocca, sul mento. Lei è ancora in piedi, a qualche passo dalla panca, con le braccia abbandonate lungo il
corpo, la testa alta. Lui rimette il boccale di stagno sul tavolo e si asciuga le labbra col rovescio della manica.
Una luce dolcissima, forte, gli attraversa gli occhi. Un istante dopo cessa di rivolgersi a Madeleine, come non
avendo più nulla da dirle, e lo sguardo si posa su un grande dipinto austero, in una pesante cornice dorata,
appeso tra due pilastri del salone. Rappresenta la Sepoltura. Vi si vede il corpo del Cristo, lustro come avorio,
in una luce giallastra, che scompare per metà dietro un parapetto in pietra; le molte mani che lo reggono
sembrano uscire da una massa d’ombre che raffigura due uomini e una donna, bardati a lutto. L’insieme è
cupo. Solo particolare colorato (e, per contrasto, vivamente colorato) ad animare la composizione, una serie di
tre gocce di sangue, precise, ben distaccate, preziosamente disegnate, che sgorgano dalla consueta piaga
aperta nel costato del Cristo. In un angolo del quadro, inoltre, l’artista ha collocato due macchie fosforescenti,
senza dubbio due occhietti - insetto o batrace -, all’altezza del suolo, che sembrano testimoni della scena.

Poco dopo, più distesi, Louis e Madeleine proseguono la conversazione nel giardino del convento.
Camminando prima tra le colonnette del chiostro, e dopo sul praticello. L’erba, corta, uniforme malgrado
l’affluire delle linfe di una primavera già inoltrata, deve essere stata falciata di fresco. Lui tiene la ragazza per
il braccio, a momenti, quasi volesse sollevarla dal suolo o come volesse evitarle di inciampare nel lungo abito.
Le racconta il pellegrinaggio a Montferrat. Le strade pietrose che si snodano tra i poggi, doppiando le colline.
Il villaggio arroccato. La cappella aggrappata al colle, sui primi contrafforti della montagna, la grande croce
in ferro. Le lunghe file di pellegrini che salgono in quella direzione, tutto il giorno, con i loro bordoni, i loro
fagotti, e, al calar della notte, si accampano sulla roccia, accozzaglia di bambini, vecchi, cani, pecore, in una
risonanza cupa e persistente di gemiti e preghiere salmodiate. E il sole, al mattino, a inondare la campagna e
riscaldare i corpi intorpiditi. Lei lo ascolta con un’attenzione che di primo acchito può apparire distratta, come
non fosse completamente in sé e temesse qualcuno lì a osservarli, spiarli. Ma, gradatamente, è presa dalle sue
parole, dal racconto fatto con entusiasmo, forse un po’ teatrale, un po’ forzato, e tuttavia da uomo libero,
felice di essere fuggito, evaso, di aver percorso boschi e terre, di aver veduto altri uomini, di aver rigenerato
cuore e spirito a una fonte di vita, il tutto per maggior gloria di Dio. E ora, lungo la via del ritorno, bisognava
che passasse a trovarla. Sarebbe stato stupido non includere Aix nel suo itinerario, visto che c’era lei, visto
che da mesi non la vedeva ed era impaziente di averne notizie. Aveva cambiato direzione a Salernes,
spronando il cavallo verso Pourrières, dove aveva rivisto con piacere la casa di suo zio, ritrovato alcuni amici
d’infanzia. Poi era giunto fin qui, chiedendosi, oltretutto, se l’avrebbe trovata al convento, se qualche nuovo
assalto della sua malattia non l’avesse costretta a ritornare a Marsiglia. Ora che la vedeva, là, vicino a lui, un
po’fragile, ma comunque più serena, in buona forma fisica, il colorito chiaro, era rassicurato. Lei rimane in
silenzio, ma si capisce che non perde una delle sue parole, l’esatto peso di amicizia, verità, fervore che
ognuna di esse ha. Ha infilato le dita sottili sotto il grosso rosario di bosso che le cinge la vita e sembra

16
contarne i grani, forse recita realmente qualche preghiera segreta, per vincere la timidezza, darsi un po’ di
coraggio. O per proteggersi. A momenti, se le sta un po’ troppo vicino, sente esalare da lui quasi un odore
animale, di lana, di cuoio, di terra, che le provoca un oscuro malessere; e, se a lui capita di volgere la testa per
guardarla, con quel riso che gli scopre i denti, e gli occhi sfavillanti, ha voglia di stringere più forte il rosario,
di cercare tra le pieghe della veste la piccola croce nera che è alla sua estremità. Eppure non vuole che parta,
vorrebbe restasse ancora, a lungo. Si è messo a parlarle in provenzale, perché sa che quella è la lingua di tutti i
giorni, che lei ha sentito da piccola, intorno a sé, dai suoi genitori, da suo nonno, tra le genti di casa, quella del
parlare più familiare, più intimo. Vi trascorre come una sorta di musica, o una strana carezza, che dà alla
giovane l’impressione di un’esclusiva, ingenua, calda complicità. È molto abile a modulare quella musica,
come se la suonasse solo per lei, per dirle cose che lei sola può intendere, ben al riparo dei muri che
circondano il giardino. Eppure, in quei muri, ci sono strette ogive protette da inferriate, occhi di bue,
finestrini, attraverso cui molti sguardi potrebbero passare. Senza parlare della terrazza circolare che dà sul
chiostro e sulla quale, in qualsiasi momento, potrebbe passare chiunque. Ma che altro fanno se non
passeggiare, il tempo di una breve visita? L’erba, sotto i loro piedi, è sempre più dolce, - dolce e pura,
tuttavia, fresca e frusciante -. Un grande ciuffo di iris si intravede, laggiù, ai piedi del muricciolo, i fiori si
spiegano, blu, carnosi, nervosi: a Madeleine verrebbe voglia di toccarli, aprire i loro petali arrotolati, stringere
i loro steli. Si contenta di guardarli, dalla panca di pietra dove ora si sono seduti. Lui, per un istante, tace, e si
sentono lievi i rumori degli insetti nell’erba, una finestra che si chiude, dei passi che scivolano nel cortile
vicino. Il sole sembra sempre più caldo. La conversazione riprende. Le chiede altri particolari sulle sue
condizioni di vita. Dice, tra l’altro, che la sua vocazione dev’essere ferma e decisa, che sarebbe meglio
rinunciasse al convento – e, in tal caso, cambiasse vita, si sposasse – piuttosto che restarvi a malincuore.
Vorrebbe essere del tutto sicuro, insiste, che non fosse infelice, che non mancasse di nulla, che fosse
soddisfatta del tipo di vita che conduce. Lei gli risponde invitandolo a visitare i locali dove lavora, dove
mangia, dove prega. E addirittura la sua cella.

La visita di Gaufridy fece gran scalpore nel convento. Tanto più che non se ne andò senza prima
confessare un certo numero di religiose, e la stessa suor de Gaumer. Questa, sensibile sia alla prestanza di un
così bell’uomo, sia alla spiritualità che irradiava, non avrebbe sopportato di vederlo partire senza avergli fatto
dono della sua più profonda umiltà: aveva inteso, dunque, offrirgli la sua anima. Un modo di coronare la
deferenza con cui l’aveva accolto. Quanto alle pensionate, un gran numero aveva considerato che non si
poteva lasciar perdere una simile occasione di purificarsi, forse anche di santificarsi. Tuttavia sapevano che
Messer Louis era venuto per Madeleine, il che suscitava in loro una gelosia difficile reprimere. Suor Capeau,
in particolare, si dava molto da fare, e in modo piuttosto sgradevole. Dissimulava a fatica, dietro le sue
smancerie, il risentimento che provava contro quell’uomo importante che s’interessava a quell’ochetta bionda
di piccola nobiltà. Lei, che sarebbe stata per sempre, agli occhi dei grandi, una ragazza di campagna. Aveva
fatto il possibile per attirare la sua attenzione, non risparmiando sforzo alcuno, in confessione, nel dire tutta la
verità sui suoi giorni e le sue notti, moltiplicando i dettagli più crudi sulle sue impudicizie, reali o
immaginarie. Gli occhi neri brillavano dietro la griglia, in un flusso precipitoso, rapido e smozzicato di parole
taglienti. Ma anche le altre si agitavano. Suor Anne, andava da un corridoio all’altro mormorando che un
grande avvenimento era accaduto, che suor Madeleine era stata “scelta”, “eletta”. Suor Cassandre diceva in
refettorio che soltanto un “mistero” poteva spiegare perché un così grand’uomo di Dio avesse fatto una così
lunga deviazione, di ritorno da un luogo santo, per incontrare una delle loro compagne. E, poco a poco, corse
voce, tra le giovani orsoline, che le ragioni naturali da sole non erano sufficienti a spiegare quello che era
successo. Dovevano esserci cose che sfuggivano, oscuri inconoscibili interventi, manifestazione di forze
segrete. Le chiacchiere si propagarono a folle velocità. Le suore, una dopo l’altra, erano prese dalla febbre dei
commenti, delle interpretazioni. E, beninteso, era l’invidia che dominava, senza mai manifestarsi apertamente.
Vero è che le religiose erano pettegole, ma prudenti. Nei giorni che avevano seguito la partenza di Gaufridy,
avevano avuto cura di tenere Madeleine al di fuori dei loro conciliaboli, cosa che la faceva fluttuare in una
sorta di nuvola di pace e dolcezza, come in sogno, insomma, come se fosse stata oggetto di qualche celeste
visitazione. E ciò faceva si che il convento paresse come pervaso da un soave profumo di grazia. Ma, dietro
questa apparente serenità, si accumulavano i pensieri segreti e le parole mormorate che presto o tardi le
avrebbero tradite. La piccola Capeau, a dire il vero, manifestava un talento fuori dal comune a rimestare nel
torbido e attizzare il fuoco. È chiaro che avevano finalmente trovato un modo per vincere la noia.

17
Cap. 5

Quella mattina, Louis si alzò di buon ora. I suoi “problemi” erano ormai risolti, e così aveva potuto
riprendere le sue abitudini. Tra cui una serie di escursioni che solitamente lo conducevano in luoghi amati, dalle
parti di Marsiglia. Grotte, per lo più, o, come si diceva allora, “baumes”: la baume di Roland, nel massiccio di
Marseille-veyre, quella di Loubières, a nord-est della città, la Sainte-Baume, più lontana, nella zona montuosa
della Provenza. Ritrovava, in quelle gite, un ambiente selvaggio, una freschezza, un’evasione, che lo riposavano
dalle costrizioni di una vita sottomessa sì alle regole del sacerdozio, ma, al contempo, irrimediabilmente rivolta
verso il “mondo”. C’era poi, in quei luoghi, e nella Sainte-Baume in particolare, qualcosa di primitivo, di
nascosto, di difficilmente accessibile, che li rendeva adatti al ritiro, all’esercizio di un culto segreto, al
pellegrinaggio. Ma soprattutto, bisogna pur dirlo, trovava nelle sue escursioni – sempre fatte in compagnia di
amici e sodali – un’occasione di soddisfare quel bisogno di gioco, di divertimento collettivo, di liberazione, che
era certo un elemento della sua natura ma, verosimilmente, rifletteva anche un bisogno più vasto, di tutta
un’epoca, di trovare valvole di sfogo, vie d’uscita, scappatoie per sottrarsi all’enorme dispositivo di repressione
del magistero ecclesiastico e dell’ordine sociale da esso garantito.
E dunque aveva deciso, quel giorno, di partire per la baume di Loubières (oggi le Grottes-Loubières), così
chiamata per i lupi, si diceva, lì insediatisi un tempo, che magari ancora vi si aggiravano. Lo accompagnavano
probabilmente Pintade, “figliuola spirituale”, ma anche domestica, con la sua accolita Catherine la Gobba,
Victoire Corbie (amante forse di Louis e comunque a lui molto devota) e suo marito François Perrin, un mercante
che frequentava le Accoules, Jeanne et Jean Gay, assidui frequentatori dei Demandolx. A Louis, dal canto suo,
sarebbe piaciuto portare anche Madeleine, che già da qualche giorno sostava a Marsiglia, ma, pensatoci su, non
aveva osato coinvolgerla nell’impresa, né, più semplicemente, chiedere il permesso ai suoi genitori. Avevano
previsto di partire di buon’ora: il tragitto era lungo, il cammino impervio, laborioso l’accesso alla grotta. Il tutto
richiedeva pertanto alcuni preparativi.

Erano le quattro del mattino. E la partenza era stata fissata per una mezz’oretta dopo. Louis, appena
alzato, aveva fatto le sue preghiere, procedendo quindi a qualche rapida abluzione ed ora cercava, dalla finestra
della sua camera, di vedere quel che prometteva il cielo. Sui tetti che digradavano dalle Accoules fino al porto,
c’era ancora la notte buia, punteggiata da minuscole stelle; ma ecco apparire una striscia di luce bianca e rosa che
aveva cominciato a distendersi al di sopra delle tegole, annunciando il giorno. L’aria era viva, fresca, percorsa dal
sentore di iodio che saliva dal mare. Da oriente, invece, venivano i profumi lontani della campagna, che
sembravano spazzare via gli odori acri della strada. Louis, in piedi davanti alla finestra, aveva l’impressione di
respirare più profondamente del solito, di aprire i polmoni ad un soffio che lo sollevava, lo trasportava: come una
forza che di colpo avrebbe potuto portarlo, nell’aria, fino alle grotte che lo aspettavano. Provava il desiderio di
tendere le braccia, per sentire meglio il richiamo del mondo che lo circondava. Il petto gli si dilatava e la
freschezza del mattino gli parve così benefica che socchiudeva le palpebre in preda a un’ebbrezza, a una vertigine
leggera. Dopo un attimo, chiuse la finestra per terminare di vestirsi. I gesti un po’ lenti, di un uomo non ancora del
tutto sveglio. All’improvviso gli venne voglia di sedersi un momento sul letto. Sul tavolo, la grossa candela
accesa, che poco prima si era quasi spenta per la corrente d’aria, gettava luce su di un libro posato sopra una
tavoletta di legno sostenuta da due supporti, aperto, offerto alla lettura: il fascicolo che gli aveva lasciato un
tempo lo zio canonico e che forse ora serviva da elemento decorativo, con le sue lettere irte, i suoi bizzarri segni.
Lo guardò un istante, con occhi che pareva non riuscissero a staccarsi dalle pagine: come se, curiosamente, ne
ricevesse un invito al sonno, al torpore, e questo proprio nel momento in cui, invece, urgevano gli ultimi
preparativi. Allora, ripreso in tutta fretta il controllo di sé, aveva invece finito di vestirsi, dando gli ultimi tocchi
all’equipaggiamento. Aprì di nuovo la finestra, per guardare ancora una volta il cielo. Quand’ecco un gran soffio
d’aria si riversò nella stanza, facendo vacillare, questa volta più forte, l’ombra della fiamma della candela sulle
pagine del libro. Il giorno si levava. La notte si diluiva in lunghe strisce rosa. Dopo essersi riempito d’aria il petto
ancora una volta, come per meglio affrontare la giornata, verificò qualche particolare e scese in refettorio.
Il grosso della compagnia aveva già preso posto in una carretta trainata da un mulo. Da sotto un telone
sporgevano panieri, fagotti d’ogni sorta, coperte, cuscini, una trapunta, alcuni utili arnesi, come se si trattasse di
una vera e propria spedizione. La carretta doveva essere disequilibrata, le ruote piegavano sugli assali, le stanghe
sul collo del mulo. Gaufridy e François Perrin facevano da scorta a cavallo. Quella partenza di prima mattina
aveva qualcosa d’insolito e insieme di infantilmente alla buona, che sembrava mettere allegria a tutti.

18
In vista della baume di Loubières, tutti gli sballottamenti subiti, le asperità e le pietre della strada, avevano avuto
ragione del buon umore: le reni peste, la carretta che sembrava mezza scassata. I cavalli, invece, che non avevano
dovuto forzare il trotto, e i cavalieri, apparivano freschi. Ora il sole era già alto nel cielo e caldo. Conferiva una
bellezza aspra ad un luogo che, senza quella luce, avrebbe potuto sembrare desolato.
I dintorni delle Grottes-Lubières hanno, ancora oggi, aspetto di una regione lunare, con ettari di
vegetazione bassa e secca, piantata su mammelloni di pietra. Più si avanza, più si è prigionieri, nel fitto della
macchia, da una fantastica monotonia. La strada che vi serpeggia dà l’impressione di sprofondare nelle terre
all’infinito, fino a sboccare in un mondo sconosciuto. E il paesaggio si apre su distese deserte, zone morte nel
senso letterale del termine, attraversate solo, così si dice, da gallerie sotterranee che collegherebbero la grotta alla
catena montuosa dell’Etoile, oltre Gardanne. Sembra creato apposta per suscitare angoscia, paura. Si può
immaginare l’inquietudine, l’orrore, che doveva ingenerare negli spiriti in quell’epoca. Ma era al tempo stesso
luogo isolato per eccellenza, lontano dalla vita. Vien fatto allora di chiedersi se esistesse nei dintorni un luogo di
sosta, una qualunque locanda. Forse là dove si è sviluppata la borgata di Château-Gombert, prospera periferia
marsigliese, forse dove è attualmente ubicata la buvette che ristora i turisti e rilascia loro il biglietto d’ingresso.
Ma è molto più probabile non ci fosse nulla. Cioè il deserto. Il bosco ceduo pungente. Boschetti di roveri.
Pietrame.

È là che arriva la piccola brigata. Scendono dalla carretta, si dissetano. Fanno bere anche il mulo, lo
staccano, lo legano a un piolo. Gli uomini calzano gli stivali, le donne intanto ridono, passandosi la mano sui
fianchi, scaricando i panieri. Poi si incamminano verso la grotta, in un’atmosfera di scampagnata. Ma là tutto
cambiano volto, perché è dalla luce del giorno a quella notturna che bisogna passare, e penetrare in una strana
apertura nella roccia. L’entrata della grotta è situata sotto una caverna, una sorta d’arcata in pietra di piccole
dimensioni, appena una ferita, un segno inatteso nel paesaggio; eppure non appena giunti lì si scopre una buca,
una specie di pozzo, da dare quasi le vertigini, attraverso il quale ci si incammina verso l’abisso. Il sentiero
scosceso, arduo. Oggi ci sono dei gradini, tagliati nella pietra, e un’apparecchiatura elettrica ben congegnata
permette un facile accesso scoprendo così in un sol colpo d’occhio il vasto panorama della prima sala della grotta.
Invece, a quel tempo, si immagina solo il nero spesso della notte spalancata sotto i passi, minacciosa,
spaventevole. Da dominare squarciandone il velo con le fiamme, sprofondando in essa con torce di pece e di
resina. Ed è quel che fanno i nostri amici. Tirano fuori dai bagagli un arsenale di fiaccole, lucenti di nero bitume,
accendono un braciere di fortuna sul quale è stata fatta scaldare della pece, e, strano corteo, discendono nelle
tenebre della grotta. Quelli che portano le più grosse, Louis e Jean Gay, sono tornati a indossare le cappe, per
proteggersi dal fumo. Pintade, Jeanne e Victoire sono cariche di panieri di provviste. Catherine non porta nulla, si
è ferita alla caviglia e scende a tentoni, a piedi nudi, gli zoccoli in mano. Non appena giungono nel cuore
dell’immensa sala di pietra, dispongono le torce negli anfratti e nei rilievi naturali della roccia, senza esitazione
alcuna, come se ne conoscessero ogni recesso, e uno spettacolo stupefacente si offre ai loro occhi. Sotto la volta
dell’alto soffitto si innalzano enormi stalagmiti di calcite, aghi di carbonato rosa quasi trasparenti nella mobile
luce delle torce, che sottolineano le ombre, deformano i contorni. Alcune sono sovraccariche di depositi biancastri
come colate di sego su una candela. Altre si alzano fino a raggiungere le stalattiti, o il soffitto, formando delle
colonnette o dei pilastri naturali. Le pareti trasudano da ogni parte. Falene, insetti, pipistrelli forse, alle prime luci
delle torce, si sono ritirati nelle sacche d’ombra, in un battito d’ali.

Le donne hanno scelto un vasto spazio, pianeggiante e sgombro, sul suolo. Hanno gettato degli stracci,
delle tovaglie, e cominciano a disporre le provviste. Pintade è dovuta tornare su per aiutare Catherine a scendere
l’ultima china, tenendola per mano. La Gobba si siede bruscamente su un ripiano di pietra e si strofina trafelata
con le due mani la caviglia dolorante. Intanto Jean Gay le si avvicina e, estratte da una sacca ampolle di ogni
sorta, scatolette che sembrano contenere pomate, liquori, unguenti, si accinge ad alleviare il suo dolore
applicandole uno dei suoi prodotti. Senza alcun dubbio è un po’ speziale, poiché cita nomi a profusione: la
belladonna, il giusquiamo, lo stramonio, il nepente, l’aconito. Innalza ad altezza d’occhi, ridendo, la cantaride,
che favorisce le prodezze amorose. Sceglie infine una pomata grassa, alla quale incorpora dello zolfo, e con quel
miscuglio unge il piede di Catherine. Tiene la gamba sulle ginocchia e, lentamente, con mano sicura, massaggia la
caviglia, il polpaccio, risale fino alla coscia, sotto le sottane cenciose della Gobba, che fa delle smorfie, non si sa
se di dolore o di piacere. Quando ha finito, prende un’altra manciata di zolfo e la getta, come per gioco, su una
delle torce appoggiate alla parete di pietra. Una raffica di luce gialla crepita violentemente attraverso la grotta. Nel

19
frattempo le donne hanno finito di disporre le vettovaglie sul suolo e Louis, che si è tolto la cappa, benedice con
un ampio gesto tutto quel ben di Dio. Recita una breve preghiera, ripresa a bassa voce dalle donne.

Più tardi, hanno senza dubbio bevuto e mangiato un po’ troppo, poiché cominciano a circolare
imprecazioni di ogni sorta, scherzi di cattivo gusto, risate, grida. Uno strano clamore di tripudio sfrenato.
Gaufridy ha le labbra tutte umide di vino rosso, tiene in mano una bottiglia mezza vuota e ne sparge il contenuto
sul petto delle sue vicine, Pintade e Victoire, dicendo che è il sangue di Dio. E loro si versano addosso il liquido
con le mani, se ne imbrattano il viso, ridendo e segnandosi col segno della croce. François Perrin invece divora a
quattro palmenti una carcassa di pollo, il mento grondante di grasso. A sua volta Jean Gay, con il suo coltellaccio,
taglia sottili fette da una rapa nera. Ad un tratto, Catherine si mette ad urlare, dicendo che la caviglia le si sta
gonfiando a vista d’occhio, che la pomata era maledetta, che è stata stregata. Si alza, saltellando sulla gamba
buona, e le sue grida raddoppiano, mentre i capelli, nella frenesia dei movimenti, le coprono il volto. Riescono a
fatica a trattenerla, a calmarla. Finalmente, torna a sedersi per terra, ansimante e in lacrime, un po’ di bava sulle
labbra. Ora possono tornare a mangiare e bere. Lanciano qualche osso al cane di Pintade, legato in un angolo:
quello comincia a frantumarle, in un sordo brontolio. Jean e Jeanne Gay annunciano che ci sarà un dessert
prelibato, una raffinatezza inattesa: delle focaccine di una farina rosa, del tutto speciale. Ma perchè riescano bene,
bisogna impastarle sul momento, prima di cuocerle a fiamma viva, e di preferenza impastarle sulla coscia della
donna più calda del gruppo, poiché il calore delle carni di una femmina è un indispensabile ingrediente del dolce.
Pintade e Victoire si contendono il titolo con ardore. Ma alla fine è Victoire la prescelta: la capigliatura rossa, la
pelle chiara picchiettata di lentiggini, hanno giocato a suo favore. Le alzano le gonne fino alla vita e, su ognuna
della cosce denudate, viene ammonticchiato un poco di farina. Jean impasta da una parte, Jeanne dall’altra.
Victoire si lascia fare, passiva, le braccia all’indietro, per puntellarsi sul suolo, il collo rovesciato, gli occhi
semichiusi. Intorno a lei, gli altri ridono, si scambiano battute. Terminata la preparazione, i dolcetti, piatti e
arrotondati, vengono disposti su un’assicella. Poi fatti cuocere, uno ad uno. Al momento di mangiarli, Pintade,
gelosa, li sputa con violenza, dicendo che sono nauseanti, cattivi, orribili. Gli altri, al contrario, sembrano trovarli
succulenti. Li innaffiano d’idromele. Gaufridy ha avuto cura di mettere certe erbe in fondo alle coppe, per
insaporire la bevanda, dice: probabilmente qualche droga destinata ad eccitare ancor più gli animi. A sopirli,
forse. Visto che, in capo a qualche momento, li vediamo mezzo addormentati, stretti l’uno contro l’altro, avvolti
nelle cappe e nelle coperte, certamente per proteggersi dall’umidità della grotta, i piedi in mezzo ai rifiuti, agli
avanzi di cibo.

Ma è un intermezzo di breve durata: una sorta di siesta, tradizione provenzale, con l’ombra o con il sole.
E quando escono dal loro torpore, è per meglio lasciarsi andare alla voglia di liberare i corpi. Passano ad uno ad
uno in un’altra sala della grotta, attraverso uno stretto passaggio che li obbliga ad abbassare il capo sotto un’arcata
che trasuda, e, trasportate le torce, di nuovo le conficcano nella roccia. Ora, questa parte della grotta, più bassa,
più profonda e più buia, che sembra già aprirsi su altre fosse, altri abissi, è molto più scolpita, più ornata, rispetto
alla prima. Le stalagmiti sono meno affilate, meno diradate, si ravvicinano, si addensano, in modo da comporre
curiose forme, che fanno pensare a delle figure, a dei personaggi, talora persino a quadri viventi. François Perrin,
che sembra conoscere i luoghi, dà nome ad alcuni di quegli insiemi, come se fosse la guida di un museo. Quella
massa difforme, allargata verso il basso, con quell’estremità che spunta come un osso, è “il grosso prosciutto”: e
tutti scoppiano a ridere. Quella successione di gobbe, che declinando si allungano come proboscidi, è “il branco di
elefanti”: ed eccoli a grugnire, a lanciare delle specie di barriti. Quella roccia che assomiglia a una testa cornuta
sghignazzante, in aggetto sotto la volta, è, semplicemente, il “Diavolo”: cadono in ginocchio, facendosi il segno di
croce, e gemono, lanciando grida orrende. E là, in mezzo alla sala, quella sottile forma di pietra come
drappeggiata nelle pieghe di una tunica, un cordone che le serra la taglia, è il “penitente”, un penitente che
assomiglia ad ognuno di loro. Pintade si avvicina, gira attorno a quella statua naturale, la tocca, l’annusa
letteralmente e, ad un tratto, con strani segni d’emozione, dichiara che non è affatto un penitente. È Madeleine: la
si riconosce dalla veste, dal cordiglio, dal rosario stesso (se ne possono toccare i grani), da quel modo di inclinare
il capo. Gli altri guardano, con aria trasognata, perplessi. Pintade insiste, sa bene che tutti conoscono Madeleine,
che nessuno ignora l’interesse che Louis ha per lei, e cerca forse di sfidarlo, di provocarlo. Urla, additando la
forma di pietra: “Madeleine, Madeleine, Madeleine!”.
Allora, ha inizio un culto bizzarro. Le donne portano dei drappi, delle stoffe che dispongono intorno alla
statua, come per darle un aspetto più femminile, o semplicemente decorarla. Le fanno una sorta di corona

20
verginale con le erbe ed i fiori essiccati che hanno estratto dai loro panieri. Al tempo stesso, pregano, gemono,
fingono di prostenarsi davanti ad essa, simulando tutte le apparenze della derisione, della mascherata. Catherine,
tutto ad un tratto, come fosse presa da un impulso irresistibile, afferra a piene mani una stalagmite sottile sopra la
quale si arrampica come fosse un palo. Poi accovacciatasi sulla sommità della guglia di pietra, fa mostra di
impalarsi su di essa, le gonne sollevate in alto sulle sue gambe magre, in una contorsione grottesca, la testa
rientrata nella schiena gobba. Accentua ancor di più la posizione oscena, mentre gli altri guardano sbalorditi, e
contemporaneamente emette gemiti soffocati, come se la punta della stalagmite stesse davvero penetrandole la
vulva. Negli astanti lo stupore si cambia nella più viva eccitazione: per incoraggiarla le lanciano delle
imprecazioni, delle sconcezze, delle invettive di ogni sorta. Pintade non può più a trattenersi: afferra una scopa,
prima usata per spazzare i resti del pasto, e, inforcandola come fanno le streghe, ne agita il manico davanti a sè,
mimando una frenetica masturbazione. Nell’ostentazione delle sue smorfie viene a piazzarsi, bene in vista,
davanti alla forma di pietra del “penitente”, che per lei è ora del tutto identificata a Madeleine, e continua a
pronunciarne il nome, parlando a scatti, ansimando, con voce rauca. Tutt’intorno, gli altri formano un cerchio.
Ma, bruscamente, con un bizzoso colpo di reni, spezza il circolo e, sempre a cavalcioni della scopa, si mette a
percorrere la sala urlando, i capelli neri sciolti che le arrivano alla vita, scarmigliati, in una folle cavalcata. Varie
volte gira attorno all’immagine di Madeleine. François Perrin, che si è impossessato di una campana e di una
specie di corno, fa suonare la prima e soffia con tutte le sue forze nel secondo, come per accompagnare quegli
scatenamenti d’istinti con una musica stramba da sarabanda infernale. Intanto, Gaufridy contempla lo spettacolo
con, per così dire, indifferenza, forse quasi pigramente. Victoire sta premendo il suo corpo contro di lui, dopo
essersi avvicinata con ondeggiamenti da gatta; e lui, senza abbandonare l’aria un po’ assente che ha in viso, la
carezza distrattamente. Scioglie i lacci del suo corsetto, facendo sgusciare fuori dalle trine i bei seni dalle larghe
aureole brune, e ne fa drizzare i capezzoli rosa. Victoire sospira, geme, gorgheggia. Vinti dal trasporto si ritirano
in un angolo oscuro della grotta, su una sorta di tappeto di muschio, all’insaputa degli altri che continuano nella
loro gazzarra. Là, dove fanno l’amore, si lasciano andare alle improvvisazioni dei loro sensi.

Ma c’è anche chi si eccita alla luce delle torce. Pintade ha abbandonato la sua scopa e, inginocchiata
davanti a Jean Gay, ne ha preso in bocca il membro, che succhia tutta intenta. François Perrin soffia a piena gola
nel suo corno sotto le bianche natiche di Catherine, mentre continua la scalmana di questa sulla sua stalagmite.
Frattanto Jeanne, addossata ad una parete, si accarezza con l’indice la vulva umida, schiumante d’orgasmo.
Mentre il cane, sempre legato nella sala vicina, abbaia. Sono scivolati a poco a poco gli addobbi dell’effige di
Madeleine, e ora si direbbe sia là, denudata, esposta, cenciosa, abbandonata da tutti, in quella derisoria attitudine
di religiosità che le conferiscono i contorni di calcite. Si consumano le torce, e le loro mobili e grandi fiamme
s’inclinano progressivamente, disegnando ombre sempre più corte. Forse qualcuno ha gettato del sale, questa
volta, su una di esse, poichè un crepitio prolungato, come una successione di piccoli scoppiettii, si fa sentire: si
direbbe che il fuoco bruci qualcosa, come appiccato a della legna secca, facendo scricchiare rami morti.

Giunge il momento in cui la loro frenesia si calma. Si lasciano cadere al suolo, sedendosi sui talloni, come
per iniziare una discussione o un gioco di società. Nei loro sguardi c’è uno strano torpore, e i corpi sembrano
disfatti, molli come sacchi di crusca. Mormorano, borbottano, a voce bassa, sorte di litanie, di preghiere.
All’improvviso Catherine tende un braccio, diritto davanti a sè, e con un dito tremante, stralunando gli occhi,
indica un rospo adagiato su una pietra. L’animale deve essere salito da una buca della grotta, forse attirato,
affascinato dalle fiamme, ed è là, immobile, come ipnotizzato, enorme, gozzuto, con gli occhi rossi, brillanti nel
buio. Catherine tiene il braccio immobile, un’espressione di terrore negli occhi, singhiozzante. Jean Gay, che
sembra più lucido degli altri, si alza, con gesto lento estrae il coltello dal fodero appeso alla cintura, e si avvicina
al rospo. Poi, dopo essersi abbassato, posa un ginocchio al suolo, come preparandosi a compiere un’operazione
delicata: si vede luccicare allora la lama, a intermittenza. D’un sol colpo gli mozza la testa. Dove ha praticato la
sezione si distingue una superficie granulosa sulla quale si formano delle bolle, dei ribollimenti grigiastri.
Catherine si mette a lanciare delle grida acute, brevi, salta, danza, strepita, cammina a quattro zampe. Il rospo è
sempre là, appiattito sulle zampe anteriori, che continua a respirare. I mormorii, le litanie proseguono. È a questo
punto che François Perrin si alza, scoppia in un’enorme risata, e dichiara che va a cercare da bere. Jean Gay si
asciuga lentamente il coltello sui calzoni. Poi di colpo tocca a Pintade mostrare qualcosa: un ragno, dalle magre
zampe, dal dorso peloso, che discende lungo lo spigolo di una pietra. Finge di prenderlo in mano e di gettarlo
sulla gobba di Catherine, che riprende a fare smorfie e a gridare. Ma Jean si è già avvicinato, ha fatto cadere

21
l’insetto e lo ha schiacciato sotto il tallone. Si mettono allora a parlare confusamente di tutte le bestie che la grotta
può ospitare. Jeanne insiste sui pipistrelli che, soprattutto se le torce si spengono, rischiano in ogni momento di
sbattacchiare le ali dappertutto, fino a schiaffeggiarci le guance, ancorché senza forza, impigliandosi nei capelli.
Ne parla così bene che tutti hanno l’impressione di sentirli uscire dall’ombra, attraversare la caverna, e sbattere,
accecati, contro di loro. Di bestia in bestia, pensano al cane, che sta gemendo, laggiù, e tira dalla corda. Vanno a
cercarlo, e, mentre salta, uggiolante, in mezzo al cerchio, gli danno delle larghe croste staccate da una pagnotta
già rafferma, che lui divora a quattro palmenti, con salti incredibili ogni volta che gliele presentano.

È allora che ricompaiono Louis e Victoire. L’aria un po’ smarrita, sonnolenta, insieme pieni di una strana
quietudine. E qui avviene un fatto singolare: Victoire è appena venuta avanti, quando le altre donne l’afferrano,
come fosse evidente l’esigenza di imporle un qualche trattamento. Le alzano pertanto le gonne, sistemata su una
pietra in una posizione da partoriente. Lei, dal canto suo, si presta a questa operazione senz’ombra di
recriminazioni. Jeanne Gay porta una sorta di enorme clistere, mentre Pintade mette a sua disposizione un catino
pieno di un’acqua che è stata a lungo lasciata a rinfrescare in una cavità della grotta. Riempie il clistere e,
laboriosamente, inietta in due o tre tempi l’acqua ghiacciata nella matrice di Victoire, che si contorce. Le altre
applaudono nel vederla come di dovere sterilizzata. Forse lo spettacolo risveglia i sensi dei partecipanti, poichè le
effusioni amorose riprendono. Pintade e Victoire si accarezzano. Louis comincia a stringere tra le braccia Jeanne.
François Perrin si diverte a prendere a schiaffi le natiche di Catherine, che saltella. Con la sua abitudine di urlare e
seminare il panico, si mette ad agitare ed esibire una specie di palla scura, coperta di aculei, che ha tirato fuori
dalla tasca del grembiule; e che dice essere il “pomo spinoso”, ripetendo la parola in una sorta di esaltazione
febbrile e minacciosa. Aggiunge che bisognerà che tutti vi diano un morso, uno dopo l’altro, che allora saranno
presi da una frenesia di danzare inarrestabile, e che danzeranno come pazzi, fino alla morte. Siccome sembrano
tutti in preda alla felicità più sfrenata, all’appetito di vivere con i loro corpi, e senza dubbio dalla voglia di
danzare, si avvicinano al pomo spinoso...

La sera, escono sfiniti dalla grotta. Il corpo esausto, lo stomaco rovesciato, gli occhi spenti, ma il cuore
gioioso. Con la sensazione di essere stati tutti uguali, fratelli nella libertà e nel piacere, e essersi liberati di
qualcosa di profondo, di oscuro, che poteva essere spartito tra loro soltanto in quei luoghi remoti e selvaggi.
Gaufridy glielo ricorda, e li invita , d’altronde, ad una preghiera e ad un atto di contrizione, sulla soglia. Si
inginocchiano, pregano, le loro labbra, tremanti, sgranano parole latine curiosamente deformate, miste al dialetto.
Su alcuni volti scorrono lacrime. Poi le donne si ravviano le acconciature. Gli uomini stringono i cinturoni. Si
radunano i panieri, gli attrezzi, le coperte. Si spengono le torce. Si ritrovano i cavalli, il mulo, la carretta. E l’aria
della sera è già fresca, passa leggera sulle fronti, sui capelli. Quando escono, vedono quel paesaggio di boschi
cedui e di roccia che estende all’infinito la sua ruvida monotonia. Quasi una landa, ma irta di aculei, delle spine
dei lentischi e degli albatri della macchia provenzale. E quelle alture, quelle lastre di pietra. Il sole le colpisce
obliquamente, ma qualcosa nell’aria fa già presentire la notte che calerà, cadrà, passando sotto il suo rullo quelle
forme indecise, trasformandole in una vasta unica distesa, piatta e vuota...

Al ritorno, le lingue non si sciolgono. Si è trattato di una giornata di sole, come tutte le altre, una semplice
giornata in campagna. Soltanto Jeanne Gay, alle Accoules, chiacchiera. Si è fermata dai Demandolx, dove ha
sempre qualche servizio o incombenza da svolgere e, prima di tornare a casa, si intrattiene con Madeleine, che
non si è ancora coricata e vorrebbe sapere quel che è stato di questa giornata d’evasione. E siccome Jeanne
capisce che la curiosità della giovane è ben desta e lei ha voglia di soddisfarla, racconta. Beninteso, abbellisce i
fatti. Ma, con la sua immaginazione, li altera a volte in modo del tutto inatteso. Vuoi per scempiaggine, vuoi
cedendo inconsciamente al bisogno un po’ perverso di andare incontro a certe ossessioni di Madeleine, di agire
sulla sua naturale propensione al sogno, all’esaltazione. È così che le racconta l’episodio della riunione intorno
alla statua di pietra che le assomigliava, prestando a Louis Gaufridy un’emozione che non aveva. Abbellisce gli
amori degli uni e degli altri, aggrava le contorsioni di Catherine la Gobba. Ricama in modo un po’ morboso sulle
storie di rospi e di ragni, come per cancellare in Madeleine ogni rimpianto di non essere stata della compagnia.
Parla di zolfo e di sale, per infiorare la sua narrazione. Arriva a raccontare scene sulle quali farebbe meglio ad
essere discreta. Ne aggiunge altre. Sente nella ragazza una tale attesa, una tale angosciata, tremante recettività, che
poco manca non si fermi più.

22
Cap. 6

Nel convento, frattanto, la febbre si propagava. Anzi, in assenza di Madeleine, le chiacchiere


erano persino raddoppiate. Ma poi, al suo ritorno, parve che una sorta di vuoto le si spalancasse
innanzi: placido in apparenza, in realtà pettegolo, perturbante. Fingevano di rispettarla, di essere
discrete e silenziose con lei, per ordirle attorno una più efficace serie di trappole. E lei si lasciava
imbrogliare, ancor più facilmente perché ignorava ciò che le stava accadendo; mentre i suoi
numerosissimi andirivieni tra Aix e Marsiglia, che interrompevano i periodi di clausura, avevano finito
col renderne capricciosa e volubile l’immaginazione. Non aveva più coscienza del luogo da cui
veniva, di quanto abbandonava, di ciò verso cui si dirigeva. A volte Gaufridy le appariva come un
uomo reale, quasi un amico, intimo dei suoi; altre volte le sembrava un parto dei suoi sogni e della sua
fantasia; e ciò soprattutto dal giorno della sua visita al convento. In realtà, era l’agitazione delle
compagne che, di quell’avvenimento, le rimandava un’immagine amplificata, esagerata, deformata.
Tutte ne parlavano, nei modi più confusi, durante gli uffizi, nel refettorio, nelle celle, nei letti, e, a
poco a poco, di bocca in bocca, circolava e prendeva forma un’allucinazione collettiva.
Situazione pericolosa, che precludeva il minimo passo falso, la minima imprudenza. Eppure,
Madeleine, disorientata, commetteva un errore dopo l’altro, incapace di distinguere il vero dal falso; e
riponeva male la sua fiducia. E così non trovò migliore confidente di Louise Capeau per parlare della
giornata alla baume di Loubières, che Jeanne Gay le aveva raccontato e che lei riportava con
ingenuità, come se vi avesse realmente partecipato. È ovvio che anche lei riadattasse, deformasse.
Rabbrividiva e faceva rabbrividire la sua interlocutrice, insistendo sulla stranezza di questo o
quell’episodio: la preparazione delle gallette, la scoperta delle sculture naturali della grotta, la
sarabanda di Pintade, l’apparizione del rospo, le libagioni, le pozioni e tutto quello che non osava
dire... Un dettaglio su cui insisteva, un effetto esagerato, abusi della sua immaginazione ad ogni
minimo pretesto, sottintesi continui, la morbosa convinzione che tutto era stato fatto per lei, a causa di
lei, intorno a lei: nulla mancava alla sua storia perché prendesse il carattere di un’allucinazione. Le
mani le tremavano, mentre parlava; i suoi occhi vedevano bagliori di zolfo, teste di diavolo scolpite
nella pietra; il petto ora contratto, ora dilatato. Al tempo stesso, quello che evocava le pareva grande,
bello, inaudito; le sembrava che soltanto la presenza di un uomo come Messer Gaufridy avesse potuto
rendere possibili tali prodigi; e ne traeva un sentimento di riconoscenza, di vera gratitudine, per avervi
partecipato, nella realtà o nella sua immaginazione. Louise, lo si può immaginare, beveva le sue
parole, se ne dilettava, non se ne lasciava sfuggire una sola, in uno stato di totale immedesimazione,
mostrando alternativamente meraviglia, terrore, ammirazione, incoraggiando Madeleine nella sue
invenzioni con la sua stessa compiacenza, provocandola a parlare ancora, sempre di più.

Qualche giorno più tardi, non poté resistere alla tentazione di presentarsi alla madre superiora
per dirle, devotamente, che molte cose la preoccupavano nel comportamento di suor Madeleine, dato
che questa aveva tenuto in sua presenza atteggiamenti allarmanti, e le aveva fatto confidenze
inquietanti; bisognava pertanto vegliare su di lei. Il caso volle che, nello stesso momento, la signora de
Demandolx, che di tanto in tanto veniva ad Aix a far visita a sua figlia e a portarle qualche provvista,
sollecitasse un colloquio con suor de Gaumer; comunicandole il suo timore di vedere Madeleine
attraversare di nuovo un periodo difficile; chiedendole di dispensarla da alcuni dei suoi obblighi;
confidandole che, durante il suo ultimo soggiorno a Marsiglia, le era parsa nervosa, agitata;
soggiungendo infine, dopo breve esitazione, che erano forse le attenzioni prodigatele da Gaufridy a
turbarla. Sua figlia aveva manifestato un’incresciosa tendenza a “farcire di pensamenti a quegli
dedicati quante proposizioni ella manifestasse o discorsi pronunciasse per tucto lo dì” (queste le sue
esatte parole, secondo la deposizione che Catherine de Gaumer fece più tardi al processo). La madre
superiora drizzò le orecchie. Da qualche giorno, ne sentiva troppe. La signora de Demandolx non tardò
un attimo a fare le spese della sua sincerità. Si vide rimproverare con veemenza la sua debolezza nei
confronti di sua figlia, la sua irresponsabilità, la sua leggerezza: era suo dovere dirigere e ammonire
Madeleine, informare il signor de Demandolx di quello che stava accadendo, ma probabilmente – e
qui Catherine de Gaumer si fa sarcastica – “ben paventava il biasmo imperocché non seppe antivedere
né impedire il male, e più e più di essere maltrattata dal marito suo”. La signora de Demandolx era
sbiancata. Cominciava a rimpiangere di aver parlato. La sua apprensione crebbe quando la madre

23
superiora concluse, facendo più forte la voce, come se presentisse future catastrofi: “Guardatevi,
guastando il vero, dall’esser causa della perdizione della vostra figliuola, col far che detto Louis sia
dichiarato innocente”. Queste ultime parole lasciano trapelare come una minaccia velata, ma in ogni
caso inattesa: l’idea che bisognasse prendersela con Louis Gaufridy, se non si voleva che tutto
ricadesse su Madeleine. La signora de Demandolx fece ritorno persa tra pensieri di ogni sorta. Mai le
era passato per la testa di dichiarare chicchessia colpevole o innocente di qualcosa in questa storia.
Gaufridy l’irritava, era evidente, e la preoccupava il comportamento di sua figlia, ma non vedeva alcun
dramma in quello che stava accadendo, e tutto avrebbe fatto piuttosto che immischiarvi un marito che
non si immischiava mai di niente. I propositi di Catherine de Gaumer, ora, le davano a pensare.
Era vero che la madre superiora aveva preso la cosa con veemenza e non intendeva lasciare
che finisse male. Decise, dopo quei due colloqui, di convocare Madeleine senza ulteriori indugi, per
ottenere dalla sua stessa bocca un certo numero di precisazioni. Madeleine venne, balbettò, si turbò.
Per vincere l’imbarazzo e apparire, in tutto e per tutto, pura, credette opportuno parlare severamente di
Gaufridy, abbozzandone un ritratto assai critico, insistendo sul fatto che, personalmente, non aveva
nulla da dire su di lui, ma che, secondo la voce pubblica, il suo comportamento a Marsiglia, nella sua
parrocchia delle Accoules, era quantomeno singolare. Giunse a dichiarare, secondo la testimonianza di
suor de Gaumer, che annotò le sue parole per poi riprenderle una ad una nella sua deposizione:
“Troppo grave pondo sarebbe il dirvi le insolenze che si hanno luogo nella sua abitazione allorché
alcune figliuole sue spirituali ivi si recano al desinare.” Insinuò, per rendere più piccante il suo
discorso, qualche allusione alle abitudini che Gaufridy era solito avere a tavola, al suo gusto per quei
“bocconcini”, ai lanci di carne, di ricotta o di cosce di piccione al di sopra della tovaglia, che erano
avvenuti, talvolta, in sua presenza, prova che queste burle – di cui era stata forse testimone, o sulle
quali, semplicemente, aveva dovuto sentir delle chiacchiere – non risultavano del tutto insignificanti ai
suoi occhi o, perlomeno, avevano colpito la sua immaginazione. Catherine de Gaumer non stava più
nella pelle. Quello che ascoltava superava ogni limite. Aveva la sensazione che tutti quei dettagli
triviali fossero l’indice di avvenimenti sospetti dei quali il suo convento avrebbe avuto ben presto a
patire, se non si fosse ristabilito l’ordine senza alcun indugio. Era sensibile all’effervescenza che
regnava tra le suorine. Si chiedeva poi che gioco giocasse, in questo affare, un uomo del prestigio e
dell’autorità di Gaufridy. Decise di vederci chiaro. Fece preparare un baroccio, pregò il cocchiere del
convento di frustare i cavalli, e si recò a Marsiglia.

A questo punto è forse necessario spiegare chi era Catherine de Gaumer. Il suo ruolo, nel
processo di Louis Gaufridy, è stato importante quanto basta per spingere a cercare di capire meglio la
personalità di una donna – e donna in effetti lo era, dalla prima all’ultima delle sue azioni – che
impegnò, fino alla fine, e oltre ogni limite, la propria responsabilità, spirituale e secolare. Veniva
chiamata Catherine di Francia, perchè era nata a Rouen e questo fatto le conferiva da subito una certa
“superiorità”. Era divenuta orsolina seguendo le orme di una dama d’alto rango, la contessa de Sault –
conosciuta in Provenza per aver sostenuto ogni sorta di lega e partecipato a numerosi intrighi –, che
aveva fatto di lei la sua dama di compagnia. Per sapere esattamente in cosa ciò consistesse,
bisognerebbe esplorare da vicino i costumi delle grandi dame di quel tempo. Ma una cosa è certa: la
contessa de Sault attribuiva il più grande valore alla presenza al suo fianco di “una pulcella sì bella del
corpo e di cotanto merto”, come dice un memorialista dell’epoca; alimentava la sua vanità con la
compagnia di quella; della sua amicizia, non poteva più fare a meno. La portava con sé dappertutto. E
fu così che, un giorno del 1600, di ritorno da un pellegrinaggio alla Sainte-Baume, si presentarono
insieme al convento di via Baussenque che era stato appena aperto a Aix, e, mentre la signora de Sault
esponeva alla madre fondatrice il suo interesse per la nuova istituzione, Catherine esprimeva il suo
immediato desiderio di consacrarvi le sue forze e la sua fede. Sentiva, diceva, “delle forti ispirazioni di
fermarsi in cotale luogo per dedicarsi in esso a servire Iddio in compagnia di quelle devotissime
giovani”. In realtà, altro non si trattava, probabilmente, che di un freddo calcolo: la contessa de Sault
avrebbe potuto “sistemare” così, e in modo assai autoritario, la sua damigella di compagnia e
assicurarle un avvenire. Nessuno, d’altronde, cercava di nascondere gli interessi che erano in gioco in
questo progetto. Catherine avrebbe anche dichiarato, sospirando e alzando gli occhi al cielo: “Come,
mio Dio, mi volete?”, per aggiungere subito dopo: “E dunque mi avrete, purciocché un tale, mio
debitore in franchi duemila, mi solva senza mora”. Modi piuttosto disinvolti di negoziare con Dio. E

24
senza dubbio efficaci. Poiché pare che Catherine ottenesse immediatamente il rimborso di quel credito
che poneva come condizione al suo entrare nell’ordine, con l’aiuto, evidentemente, della sua
protettrice. D’ora innanzi una carriera si apriva davanti a lei. Ne percorse rapidamente le tappe,
diventando in qualche anno madre superiora, a Aix, e poi a Marsiglia.

Catherine di Francia aveva trentatré anni al momento del suo primo incontro con le Orsoline.
A quarant’anni, se la sua ambizione era soddisfatta, il suo ardore e il suo spirito di decisione non si
erano attenuati. Era certamente elegante e bella, come lo era stata in gioventù, quando aveva
ammaliato la contessa de Sault, ma ora amava presentarsi come donna “importante”. La si diceva
orgogliosa, vanitosa, arrogante. In realtà si comportava semplicemente in modo conforme alle sue
funzioni e, verosimilmente, s’irrigidiva in talune circostanze per meglio difendersi contro debolezze e
segrete agitazioni. Come tutte le donne che governava, infatti, era insidiata dal desiderio represso,
dalla follia, dall’isteria. La sua intelligenza e la sua “nobiltà” l’aiutavano senza dubbio a dissimulare le
sue turbe, ma, in certi momenti, fatalmente, qualcosa si incrinava (il “tutto crollò” di Michelet). Che la
visita di Gaufridy sia avvenuta proprio in uno di questi momenti, è quasi certo. Aveva sentito parlare
di lui già più del necessario. Vedendolo, aveva avuto il sentimento che non fosse al di sotto della sua
reputazione. Con i suoi quarant’anni inoltrati, non era sicura di attirare la sua attenzione quanto
Madeleine o un’altra qualsiasi delle giovani suore; ma pensava, almeno sul piano dell’impegno
religioso, di poter essere l’unica interlocutrice degna di lui. In quel campo non avrebbe ceduto il posto
a nessuna, ed è questo che l’aveva indotta a ben sottolineare che era lei, in persona, ad accoglierlo al
convento. Ma le sembrava che lui non se ne fosse mostrato particolarmente grato e che le avesse
manifestato soltanto una distratta considerazione. Ne serbava una certa stizza. Da quel giorno,
inconsciamente, aveva preso il partito di non risparmiarlo.

Ed eccola a Marsiglia. Si reca senza indugi alle Accoules, fa chiamare Gaufridy e decide di
aspettarlo in un confessionale. Lui arriva, di lì a poco, un po’ sorpreso, ma del tutto convinto che
Catherine di Francia muoia dalla voglia di farsi confessare da lui, ancora una volta. Indossa la stola,
prende posto nel confessionale e tende l’orecchio. E qui ha luogo, allora, una scena straordinaria.
Catherine parla. Ma invece di sentirla dichiarare i propri peccati, sono i suoi che il reverendo Gaufridy
sente enumerati dalla bocca della penitente. Ha optato per la messa in scena della confessione, perché
sa che è il miglior mezzo per avere il prete alla sua mercé, per obbligarlo a prestarle attenzione, per
impedirgli di sottrarsi alla discussione. Non deve guardarlo in faccia né esserne guardata: può
attaccare, nascosta, protetta, senza dover smorzare né occhi né tono. E poi, le piace stare inginocchiata
accanto a lui, ma sentirsi al tempo stesso in posizione di dominatrice. Non smette di parlare, non gli
lascia letteralmente il tempo di aprir bocca. Per un’ora intera, stigmatizza i suoi peccati, le sue
imprudenze, i suoi passi falsi, i suoi errori di comportamento. Dice quanto conosce o crede di sapere;
parla delle confusioni delle Orsoline, dello stato di grave inquietudine di Madeleine, della propria
apprensione davanti ad una situazione giorno dopo giorno più degradata e della quale lui, Gaufridy,
deve essere considerato il solo responsabile. Finisce con l’annunciargli che tutto ciò scatenerà grandi
sventure e provocherà la sua rovina; gli predice una fine spaventosa. Pare che a quel punto la violenza
della sfida avesse raggiunto un grado tale che Gaufridy, sorpreso da un simile attacco, tremasse al
punto di scuotere suo malgrado il legno del confessionale. “Fu forte sbigottito e colto da tremito per
modo che lo stesso confessionale ne era scosso”, si legge nel capitolo della Chronique des Ursulines
che riporta la vita edificante di Catherine di Francia. Ciononostante non desiste dalle sue profezie e
maledizioni. Lo scongiura di pentirsi, se non vuole essere reprobo e dannato, gli rammenta il caso di
frate Couton de la Trinité, allora “pubblicamente diffamato poi che ebbe sedotto una sua figliuola
spirituale” e di cui si diceva “che sarebbe prontamente arso”. Questa precisa allusione è da
sottolineare: è la prima volta, o almeno così pare, che una minaccia concreta viene formulata nei
confronti di Gaufridy. Si può immaginare quanto lo abbia colpito. Ma suor de Gaumer non ha finito.
Di fronte al silenzio e allo sgomento del suo interlocutore, mette i puntini sulle i. Lo accusa di “essere
fonte di perdizione per le sue figliuole spirituali” con i suoi costumi, di allontanarle dalla fede e dalle
pratiche religiose, di imboccare con esse la strada di “un periglioso adulterio spirituale”. Quando ha
terminato, esausta, Louis non riesce che a mormorare, nel suo sciocco turbamento e imbarazzo, tra

25
inconsulti balbettii, attraverso la piccola grata, che, in effetti, “femmine v’erano sì folli che gli si erano
legate in siffatta guisa...”.
Più tardi, Catherine de Gaumer dirà che non sapeva che cosa le avesse preso, che cosa l’avesse
spinta a parlare con tale veemenza, tutto d’un fiato. Non era stata più padrona di sé. Avrebbe voluto,
sinceramente, “ragionare con lui in umiltà e carità” ma “Dio le dettò altre parole di quante avea
pensato dirgli”. Lo si vede, non era stata che lo strumento della violenza divina. Non aveva potuto far
altro che cedere. Aveva parlato, d’un sol fiato. E ora poteva tornare a Aix, esausta, svuotata,
ansimante.

Trovò il convento ancor più effervescente di quanto non l’avesse lasciato; ma risoluta a
prendere la situazione in mano. Pensando che la prima mossa da compiere dovesse riguardare la stessa
Madeleine, per indurla a dire tutto quello che poteva ancora nascondere, ebbe l’idea davvero
machiavellica di organizzare una sorta di messa in scena che l’avrebbe forzata a parlare. Ordinò per
l’indomani una giornata di meditazione collettiva su alcuni punti tanto precisi quanto inattesi, “li quali
punti versavano sull’argomento dell’amor-proprio che si porta alcuna fiata sui padri ispirituali e contro
il quale bisogna bene guardarsi” (queste meditazioni su “punti” erano parte ordinaria della vita
religiosa). Si può indovinare il successo del programma sulle giovani monache. Difficile immaginare
qualcosa che potesse provocare una maggior confusione nei loro animi. La notte passò nelle angosce e
nei conciliaboli. E l’esito, del tutto scontato, non si fece attendere. Quando venne il momento della
relazione pubblica dei risultati della meditazione, infatti, Madeleine fu colta davanti alle sue compagne
da un tale tremito convulsivo per tutto il corpo, che, in qualche secondo, lo spavento fu generale. Ecco
dove conducevano le sottigliezze di Catherine di Francia. Aveva l’intuizione della terapia d’urto, ma
l’urto, per l’appunto, era un po’ troppo violento.
Si procedette a una immediata sospensione della seduta e la madre superiora convocò
Madeleine nella sua camera. Cominciò col rassicurarla, invitarla alla calma e alla fiducia, passandole
una mano sulla fronte, accarezzandole affettuosamente i capelli; le propose allora di parlare
liberamente: di dire una buona volta tutto quello che non aveva ancora detto. Madeleine esitò, si
calmò, respirò profondamente, cercò di tornare padrona di se stessa; tutto ad un tratto, poi, si sciolse in
lacrime come una bambina, e parlò, disse tutto, e ancor più del necessario. Rivelò, stavolta con
abbondanza di particolari, “le grandi familiarità che aveva avute con detto Loys Gaufridy, baci,
toccamenti e altre familiarità che recavano offensione all’onore della detta Magdelaine” (deposizione
di Catherine de Gaumer al processo). La madre, spaventata, la interruppe, non volendo ascoltare oltre
“e tanto più dacché aveva compreso trattarsi di cose che orecchie caste e pudiche non possono né
vogliono udire senza danno”. Volle tuttavia sapere come tali eccessi avessero potuto verificarsi e tenne
a far osservare a Madeleine che gli insegnamenti che le erano stati impartiti nella congregazione di
Sant’Orsola non erano compatibili con siffatti comportamenti. Al che la giovane monaca rispose: “Mia
buona madre, Voi sapete quanto tempo ho trascorso nella casa di mio padre da quando sono venuta
nella città di Marsiglia dalla città di Aix!” Alludeva ai suoi andirivieni, ai soggiorni alle Accoules e a
Fontobscure. In un lampo, Catherine ebbe la visione dei pericoli ai quali la condizione di religiose non
di clausura esponeva le sue pecorelle e si chiese se non sarebbe stato meglio che fossero rinchiuse nel
chiostro come le altre: insomma, se l’esperienza delle Orsoline non si trovasse, di colpo, condannata.
Era ben decisa a parlarne con padre Romillon. Ma, per il momento, bisognava occuparsi di Madeleine.
Costei, sollevata dalle lacrime, superato l’ostacolo delle prime rivelazioni, ne fece altre, con
disinvoltura, con inventiva, con morbosità. E Catherine di Francia, le cui orecchie a poco a poco si
avvezzavano, turbata, ascoltò, capì. “Sappiate, mia cara figliola, disse in capo a un momento con
severità, che se avessi saputo quello che mi avete appena detto prima di accogliervi, mai avreste avuto
né l’onore né il consenso di restare in questa Congregazione.” Aggiunse che individuava in tutto ciò
un pericolo “per la mia e per la vostra anima”e che i doveri della sua carica le imponevano ormai di far
sapere ai suoi superiori come lei avesse potuto essere stata sedotta da questo “miserabile uomo”.
Madeleine, che stava incastrando Gaufridy forse proprio perché l’amava, dichiarò che aveva ragione,
che bisognava liberarla da quell’uomo che la perseguitava con le sue attenzioni criminose, la circuiva
con i suoi “sortilegi e malefici”. E si rimise a piangere, a tremare.

26
Bisogna notare a questo punto che è la prima volta in cui le parole di sortilegio e maleficio
sono pronunciate e che il fatto coincide esattamente con il momento in cui appaiono in Madeleine le
prime manifestazioni verificabili di un comportamento isterico. I violenti tremiti dai quali viene colta
(e che si possono ravvicinare ai tremiti di Gaufridy nel confessionale) sono caratteristici di quei
meccanismi di sfogo nevrotico che sopravvengono bruscamente in seguito a uno stato di estrema
tensione psichica e che tanti specialisti hanno descritto.
Un altro tremito dello stesso tipo si impadronì di lei qualche giorno dopo, nel corso di un
uffizio nella chiesa di Santa Chiara, mentre stava pregando inginocchiata proprio accanto a suor
Catherine de Gaumer, che, ormai, non la lasciava quasi mai, e restava per quanto possibile vicino a lei
(tremito, descritto questa volta dalle suore che ne furono testimoni, come “grande tremito di tutto il
corpo e spaventevole” – stupefacente formulazione). Davanti allo sbigottimento generale, spiega che
mentre faceva le su devozioni, visioni di demoni “le erano apparse in diverse guise, anche sotto
l’imagine ed il sembiante di detto Gaufridy”. Nuovo progresso. Non soltanto si precisano i fenomeni
allucinatori, ma appare, esplicita, un’allusione al Diavolo (o a dei diavoli). Mentre si prova a
soccorrere Madeleine, - evitando di toccarla troppo, tanto si propaga in fretta un certo tipo di paura -,
suor Catherine interviene con autorità e le rivolge domande insistenti (su quel tono intimidatorio che
annuncia quello dell’esorcista): Che avete? Cosa vi succede?” Al che Madeleine, barcollante, pallida,
risponde che “era per via della rappresentazione di parecchie cose, ossia della sua giovinezza, della
persona di Gaufridy, della disperazione di mai ottenere misericordia”. È sconcertante la precisione
della “sintomatologia” inscritta in questa risposta (trasmessa, pare, con esattezza da Catherine de
Gaumer nel corso della sua deposizione): il riferimento a ricordi traumatizzanti della giovinezza, l’uso
stesso del termine “rappresentazione”, l’affermazione del senso di colpa sono di una chiarezza
perfetta. E, beninteso, tutto ciò si accompagna a nuovi meccanismi di sfogo. Urla che “Dio le strappa
il cuore”. Uscendo di chiesa, sostenuta dalle compagne, urla ancora più forte, proprio come volesse
attirare l’attenzione dei passanti: Catherine de Gaumer decide di farla ricondurre in convento per
strade traverse. Si batte il petto, si lacera le vesti gridando che il Diavolo l’accusa di essersi
“comunicata indegnamente”. Improvvisamente, drizzandosi bruscamente all’indietro, urla:
“Misericordia!” Questa volta le suorine non resistono più. L’abbandonano, fuggono, si disperdono.

Freud, a proposito, per l’appunto, di una “nevrosi demoniaca nel XVII secolo”: “Non ci si
deve stupire se le nevrosi di quei tempi remoti si manifestano sotto un aspetto demonologico, mentre
quelle del nostro tempo, così poco psicologico, assumono, sotto le sembianze di malattie organiche, un
aspetto ipocondriaco. Parecchi autori, Charcot per primo, hanno, come si sa, scoperto le
manifestazioni dell’isterismo nelle rappresentazioni, che l’arte ci ha trasmesso, di casi di possessione
demoniaca e di estasi; non sarebbe stato difficile individuare, nella storia di questi malati, il contenuto
della nevrosi, se soltanto vi si fosse prestata maggior attenzione.” Di fatto, i sintomi sono quanto mai
“leggibili” in Madeleine, e – a partire da quel giorno – il male la tormenta violentemente. Sarà lei
stessa a raccontare, nel corso degli interrogatori ai quali verrà sottoposta, che oramai le “visioni
spaventevoli” non l’abbandoneranno più, assalendola ad ore regolari, imponendole la visione di spiriti
maligni “sotto forma di uomo, di capro, di leone, di cane, di cavallo, di mulo, di gatto e di altre
bestie”. Questo bestiario fa a meno di ogni commento, tranne per quanto riguarda la presenza
rivelatrice e originale dell’uomo, messo sullo stesso piano di specie di una così violenta animalità quali
il caprone o il cavallo.
Le cose si aggravarono a tal punto che, poco prima di Natale, si cominciò a parlare di
esorcismo. Fu allora che, il 21 di dicembre, giorno di San Tommaso, sopravvenne una crisi di tale
violenza che, quanto alle origini diaboliche delle turbe di Madeleine, il dubbio, in molte menti, lasciò
il posto alla certezza. Quel mattino si trovava in confessione, da padre François Billet, un oratoriano,
che veniva regolarmente al convento per l’assistenza delle religiose. Mentre enunciava, una volta
ancora, peccati contro la purezza, i suoi sintomi abituali si erano improvvisamente manifestati. Il
padre, inquieto, nella speranza di calmarla, le aveva teso il crocifisso che portava alla cintura. Ella
aveva cominciato a baciarlo, a stringerlo contro le labbra ed il petto, con segni d’emozione e di
fervore, poi, brutalmente, con un’espressione di rabbia ed una forza che pareva moltiplicata, l’aveva
letteralmente “fatto a pezzi” (da notare che i termini sono di padre Billiet, nella sua futura
deposizione). È possibile l’avesse semplicemente lasciato cadere e che il bell’avorio si fosse spezzato

27
sul marmo del pavimento. O che, in un gesto di stizza, l’avesse respinto per protestare contro le
domande assillanti del confessore. O che abbia contratto troppo forte le mani su di esso, rimuovendo,
staccando la statuetta del Cristo dal legno già consumato. Padre Billiet dichiarò: “fatto a pezzi”. E
siccome è probabile abbia gridato assai forte davanti al danno del suo crocifisso, tutte accorrevano da
ogni dove, quasi istantaneamente dato che si stava appresso Madeleine in permanenza, per sorvegliare
quello che avrebbe potuto fare o quello che avrebbe potuto accaderle. Una volta ancora, la scoprirono
in preda a convulsioni, tremante. Le sue compagne provarono a calmarla, a sorreggerla, non senza
un’estrema paura di essere vittime di un nuovo eccesso di violenza da parte sua. Altre si misero a
raccogliere i frammenti del crocifisso. Infine arrivò suor Catherine de Gaumer. Altera. Il portamento e
l’andatura diritti. Risoluta a mantenere il sangue freddo. Con un solo sguardo, valutò la situazione. La
giudicò grave. Dette qualche rapido ordine. Madeleine doveva essere ricondotta immantinente nella
sua cella. Venne mandato a chiamare un esorcista. Si fece venire padre Romillon.

Quest’ultima decisione era della massima importanza. Prima di confermarla, Catherine sentì il
parere di padre Billet, che espresse la sua opinione. Anche a lui sembrava non si potesse lasciare che il
male si propagasse con tanta rapidità. La distruzione del crocifisso non era soltanto un gesto blasfemo,
era una evidente manifestazione “fisica” della presenza – e della potenza – del Demonio. Solo padre
Romillon, con la sua esperienza, la sua conoscenza delle cose divine ed umane, poteva dare un avviso
sugli avvenimenti inauditi che scuotevano la casa delle sue care Orsoline, l’istituzione che aveva
fondato, così fragile ancora, così vulnerabile, insidiata da tanti nemici e avversari. Venne dunque
chiamato. Non prese l’affare alla leggera. Gli appariva pieno di pericoli e assai pregiudizievole per la
politica religiosa che aveva ispirato tutta la sua azione, passata e presente. Innanzi tutto chiese a
Catherine di Francia di essere discreta, di non lasciar trapelare nulla (ma, senza dubbio, il consiglio era
piuttosto tardivo). Volle in seguito sapere chi o che cosa fosse all’origine dei disordini di cui era preda
Madeleine. Padre Billiet parlò allora di Gaufridy, il cui nome ricompariva continuamente nella
confessione della ragazza, dicendo che il suo ruolo doveva essere stato nefasto, che era giunto a
dissuadere la poverina a restare negli ordini, a votare a Dio la sua esistenza, e che l’aveva
probabilmente indotta a preferire i piaceri della vita all’esercizio della devozione. Padre Romillon
aggrottò il ciglio. Ma dichiarò che bisognava agire a mente fredda e, prima d’ogni altra cosa, aprire
un’istruttoria. Catherine di Francia restò muta, ma con un segno del capo assentì.

28
Cap. 6

Nel convento, frattanto, la febbre si propagava. Anzi, in assenza di Madeleine, le chiacchiere


erano persino raddoppiate. Ma poi, al suo ritorno, parve che una sorta di vuoto le si spalancasse
innanzi: placido in apparenza, in realtà pettegolo, perturbante. Fingevano di rispettarla, di essere
discrete e silenziose con lei, per ordirle attorno una più efficace serie di trappole. E lei si lasciava
imbrogliare, ancor più facilmente perché ignorava ciò che le stava accadendo; mentre i suoi
numerosissimi andirivieni tra Aix e Marsiglia, che interrompevano i periodi di clausura, avevano finito
col renderne capricciosa e volubile l’immaginazione. Non aveva più coscienza del luogo da cui
veniva, di quanto abbandonava, di ciò verso cui si dirigeva. A volte Gaufridy le appariva come un
uomo reale, quasi un amico, intimo dei suoi; altre volte le sembrava un parto dei suoi sogni e della sua
fantasia; e ciò soprattutto dal giorno della sua visita al convento. In realtà, era l’agitazione delle
compagne che, di quell’avvenimento, le rimandava un’immagine amplificata, esagerata, deformata.
Tutte ne parlavano, nei modi più confusi, durante gli uffizi, nel refettorio, nelle celle, nei letti, e, a
poco a poco, di bocca in bocca, circolava e prendeva forma un’allucinazione collettiva.
Situazione pericolosa, che precludeva il minimo passo falso, la minima imprudenza. Eppure,
Madeleine, disorientata, commetteva un errore dopo l’altro, incapace di distinguere il vero dal falso; e
riponeva male la sua fiducia. E così non trovò migliore confidente di Louise Capeau per parlare della
giornata alla baume di Loubières, che Jeanne Gay le aveva raccontato e che lei riportava con
ingenuità, come se vi avesse realmente partecipato. È ovvio che anche lei riadattasse, deformasse.
Rabbrividiva e faceva rabbrividire la sua interlocutrice, insistendo sulla stranezza di questo o
quell’episodio: la preparazione delle gallette, la scoperta delle sculture naturali della grotta, la
sarabanda di Pintade, l’apparizione del rospo, le libagioni, le pozioni e tutto quello che non osava
dire... Un dettaglio su cui insisteva, un effetto esagerato, abusi della sua immaginazione ad ogni
minimo pretesto, sottintesi continui, la morbosa convinzione che tutto era stato fatto per lei, a causa di
lei, intorno a lei: nulla mancava alla sua storia perché prendesse il carattere di un’allucinazione. Le
mani le tremavano, mentre parlava; i suoi occhi vedevano bagliori di zolfo, teste di diavolo scolpite
nella pietra; il petto ora contratto, ora dilatato. Al tempo stesso, quello che evocava le pareva grande,
bello, inaudito; le sembrava che soltanto la presenza di un uomo come Messer Gaufridy avesse potuto
rendere possibili tali prodigi; e ne traeva un sentimento di riconoscenza, di vera gratitudine, per avervi
partecipato, nella realtà o nella sua immaginazione. Louise, lo si può immaginare, beveva le sue
parole, se ne dilettava, non se ne lasciava sfuggire una sola, in uno stato di totale immedesimazione,
mostrando alternativamente meraviglia, terrore, ammirazione, incoraggiando Madeleine nella sue
invenzioni con la sua stessa compiacenza, provocandola a parlare ancora, sempre di più.

Qualche giorno più tardi, non poté resistere alla tentazione di presentarsi alla madre superiora
per dirle, devotamente, che molte cose la preoccupavano nel comportamento di suor Madeleine, dato
che questa aveva tenuto in sua presenza atteggiamenti allarmanti, e le aveva fatto confidenze
inquietanti; bisognava pertanto vegliare su di lei. Il caso volle che, nello stesso momento, la signora de
Demandolx, che di tanto in tanto veniva ad Aix a far visita a sua figlia e a portarle qualche provvista,
sollecitasse un colloquio con suor de Gaumer; comunicandole il suo timore di vedere Madeleine
attraversare di nuovo un periodo difficile; chiedendole di dispensarla da alcuni dei suoi obblighi;
confidandole che, durante il suo ultimo soggiorno a Marsiglia, le era parsa nervosa, agitata;
soggiungendo infine, dopo breve esitazione, che erano forse le attenzioni prodigatele da Gaufridy a
turbarla. Sua figlia aveva manifestato un’incresciosa tendenza a “farcire di pensamenti a quegli
dedicati quante proposizioni ella manifestasse o discorsi pronunciasse per tucto lo dì” (queste le sue
esatte parole, secondo la deposizione che Catherine de Gaumer fece più tardi al processo). La madre
superiora drizzò le orecchie. Da qualche giorno, ne sentiva troppe. La signora de Demandolx non tardò
un attimo a fare le spese della sua sincerità. Si vide rimproverare con veemenza la sua debolezza nei
confronti di sua figlia, la sua irresponsabilità, la sua leggerezza: era suo dovere dirigere e ammonire
Madeleine, informare il signor de Demandolx di quello che stava accadendo, ma probabilmente – e
qui Catherine de Gaumer si fa sarcastica – “ben paventava il biasmo imperocché non seppe antivedere
né impedire il male, e più e più di essere maltrattata dal marito suo”. La signora de Demandolx era
sbiancata. Cominciava a rimpiangere di aver parlato. La sua apprensione crebbe quando la madre

29
superiora concluse, facendo più forte la voce, come se presentisse future catastrofi: “Guardatevi,
guastando il vero, dall’esser causa della perdizione della vostra figliuola, col far che detto Louis sia
dichiarato innocente”. Queste ultime parole lasciano trapelare come una minaccia velata, ma in ogni
caso inattesa: l’idea che bisognasse prendersela con Louis Gaufridy, se non si voleva che tutto
ricadesse su Madeleine. La signora de Demandolx fece ritorno persa tra pensieri di ogni sorta. Mai le
era passato per la testa di dichiarare chicchessia colpevole o innocente di qualcosa in questa storia.
Gaufridy l’irritava, era evidente, e la preoccupava il comportamento di sua figlia, ma non vedeva alcun
dramma in quello che stava accadendo, e tutto avrebbe fatto piuttosto che immischiarvi un marito che
non si immischiava mai di niente. I propositi di Catherine de Gaumer, ora, le davano a pensare.
Era vero che la madre superiora aveva preso la cosa con veemenza e non intendeva lasciare
che finisse male. Decise, dopo quei due colloqui, di convocare Madeleine senza ulteriori indugi, per
ottenere dalla sua stessa bocca un certo numero di precisazioni. Madeleine venne, balbettò, si turbò.
Per vincere l’imbarazzo e apparire, in tutto e per tutto, pura, credette opportuno parlare severamente di
Gaufridy, abbozzandone un ritratto assai critico, insistendo sul fatto che, personalmente, non aveva
nulla da dire su di lui, ma che, secondo la voce pubblica, il suo comportamento a Marsiglia, nella sua
parrocchia delle Accoules, era quantomeno singolare. Giunse a dichiarare, secondo la testimonianza di
suor de Gaumer, che annotò le sue parole per poi riprenderle una ad una nella sua deposizione:
“Troppo grave pondo sarebbe il dirvi le insolenze che si hanno luogo nella sua abitazione allorché
alcune figliuole sue spirituali ivi si recano al desinare.” Insinuò, per rendere più piccante il suo
discorso, qualche allusione alle abitudini che Gaufridy era solito avere a tavola, al suo gusto per quei
“bocconcini”, ai lanci di carne, di ricotta o di cosce di piccione al di sopra della tovaglia, che erano
avvenuti, talvolta, in sua presenza, prova che queste burle – di cui era stata forse testimone, o sulle
quali, semplicemente, aveva dovuto sentir delle chiacchiere – non risultavano del tutto insignificanti ai
suoi occhi o, perlomeno, avevano colpito la sua immaginazione. Catherine de Gaumer non stava più
nella pelle. Quello che ascoltava superava ogni limite. Aveva la sensazione che tutti quei dettagli
triviali fossero l’indice di avvenimenti sospetti dei quali il suo convento avrebbe avuto ben presto a
patire, se non si fosse ristabilito l’ordine senza alcun indugio. Era sensibile all’effervescenza che
regnava tra le suorine. Si chiedeva poi che gioco giocasse, in questo affare, un uomo del prestigio e
dell’autorità di Gaufridy. Decise di vederci chiaro. Fece preparare un baroccio, pregò il cocchiere del
convento di frustare i cavalli, e si recò a Marsiglia.

A questo punto è forse necessario spiegare chi era Catherine de Gaumer. Il suo ruolo, nel
processo di Louis Gaufridy, è stato importante quanto basta per spingere a cercare di capire meglio la
personalità di una donna – e donna in effetti lo era, dalla prima all’ultima delle sue azioni – che
impegnò, fino alla fine, e oltre ogni limite, la propria responsabilità, spirituale e secolare. Veniva
chiamata Catherine di Francia, perchè era nata a Rouen e questo fatto le conferiva da subito una certa
“superiorità”. Era divenuta orsolina seguendo le orme di una dama d’alto rango, la contessa de Sault –
conosciuta in Provenza per aver sostenuto ogni sorta di lega e partecipato a numerosi intrighi –, che
aveva fatto di lei la sua dama di compagnia. Per sapere esattamente in cosa ciò consistesse,
bisognerebbe esplorare da vicino i costumi delle grandi dame di quel tempo. Ma una cosa è certa: la
contessa de Sault attribuiva il più grande valore alla presenza al suo fianco di “una pulcella sì bella del
corpo e di cotanto merto”, come dice un memorialista dell’epoca; alimentava la sua vanità con la
compagnia di quella; della sua amicizia, non poteva più fare a meno. La portava con sé dappertutto. E
fu così che, un giorno del 1600, di ritorno da un pellegrinaggio alla Sainte-Baume, si presentarono
insieme al convento di via Baussenque che era stato appena aperto a Aix, e, mentre la signora de Sault
esponeva alla madre fondatrice il suo interesse per la nuova istituzione, Catherine esprimeva il suo
immediato desiderio di consacrarvi le sue forze e la sua fede. Sentiva, diceva, “delle forti ispirazioni di
fermarsi in cotale luogo per dedicarsi in esso a servire Iddio in compagnia di quelle devotissime
giovani”. In realtà, altro non si trattava, probabilmente, che di un freddo calcolo: la contessa de Sault
avrebbe potuto “sistemare” così, e in modo assai autoritario, la sua damigella di compagnia e
assicurarle un avvenire. Nessuno, d’altronde, cercava di nascondere gli interessi che erano in gioco in
questo progetto. Catherine avrebbe anche dichiarato, sospirando e alzando gli occhi al cielo: “Come,
mio Dio, mi volete?”, per aggiungere subito dopo: “E dunque mi avrete, purciocché un tale, mio
debitore in franchi duemila, mi solva senza mora”. Modi piuttosto disinvolti di negoziare con Dio. E

30
senza dubbio efficaci. Poiché pare che Catherine ottenesse immediatamente il rimborso di quel credito
che poneva come condizione al suo entrare nell’ordine, con l’aiuto, evidentemente, della sua
protettrice. D’ora innanzi una carriera si apriva davanti a lei. Ne percorse rapidamente le tappe,
diventando in qualche anno madre superiora, a Aix, e poi a Marsiglia.

Catherine di Francia aveva trentatré anni al momento del suo primo incontro con le Orsoline.
A quarant’anni, se la sua ambizione era soddisfatta, il suo ardore e il suo spirito di decisione non si
erano attenuati. Era certamente elegante e bella, come lo era stata in gioventù, quando aveva
ammaliato la contessa de Sault, ma ora amava presentarsi come donna “importante”. La si diceva
orgogliosa, vanitosa, arrogante. In realtà si comportava semplicemente in modo conforme alle sue
funzioni e, verosimilmente, s’irrigidiva in talune circostanze per meglio difendersi contro debolezze e
segrete agitazioni. Come tutte le donne che governava, infatti, era insidiata dal desiderio represso,
dalla follia, dall’isteria. La sua intelligenza e la sua “nobiltà” l’aiutavano senza dubbio a dissimulare le
sue turbe, ma, in certi momenti, fatalmente, qualcosa si incrinava (il “tutto crollò” di Michelet). Che la
visita di Gaufridy sia avvenuta proprio in uno di questi momenti, è quasi certo. Aveva sentito parlare
di lui già più del necessario. Vedendolo, aveva avuto il sentimento che non fosse al di sotto della sua
reputazione. Con i suoi quarant’anni inoltrati, non era sicura di attirare la sua attenzione quanto
Madeleine o un’altra qualsiasi delle giovani suore; ma pensava, almeno sul piano dell’impegno
religioso, di poter essere l’unica interlocutrice degna di lui. In quel campo non avrebbe ceduto il posto
a nessuna, ed è questo che l’aveva indotta a ben sottolineare che era lei, in persona, ad accoglierlo al
convento. Ma le sembrava che lui non se ne fosse mostrato particolarmente grato e che le avesse
manifestato soltanto una distratta considerazione. Ne serbava una certa stizza. Da quel giorno,
inconsciamente, aveva preso il partito di non risparmiarlo.

Ed eccola a Marsiglia. Si reca senza indugi alle Accoules, fa chiamare Gaufridy e decide di
aspettarlo in un confessionale. Lui arriva, di lì a poco, un po’ sorpreso, ma del tutto convinto che
Catherine di Francia muoia dalla voglia di farsi confessare da lui, ancora una volta. Indossa la stola,
prende posto nel confessionale e tende l’orecchio. E qui ha luogo, allora, una scena straordinaria.
Catherine parla. Ma invece di sentirla dichiarare i propri peccati, sono i suoi che il reverendo Gaufridy
sente enumerati dalla bocca della penitente. Ha optato per la messa in scena della confessione, perché
sa che è il miglior mezzo per avere il prete alla sua mercé, per obbligarlo a prestarle attenzione, per
impedirgli di sottrarsi alla discussione. Non deve guardarlo in faccia né esserne guardata: può
attaccare, nascosta, protetta, senza dover smorzare né occhi né tono. E poi, le piace stare inginocchiata
accanto a lui, ma sentirsi al tempo stesso in posizione di dominatrice. Non smette di parlare, non gli
lascia letteralmente il tempo di aprir bocca. Per un’ora intera, stigmatizza i suoi peccati, le sue
imprudenze, i suoi passi falsi, i suoi errori di comportamento. Dice quanto conosce o crede di sapere;
parla delle confusioni delle Orsoline, dello stato di grave inquietudine di Madeleine, della propria
apprensione davanti ad una situazione giorno dopo giorno più degradata e della quale lui, Gaufridy,
deve essere considerato il solo responsabile. Finisce con l’annunciargli che tutto ciò scatenerà grandi
sventure e provocherà la sua rovina; gli predice una fine spaventosa. Pare che a quel punto la violenza
della sfida avesse raggiunto un grado tale che Gaufridy, sorpreso da un simile attacco, tremasse al
punto di scuotere suo malgrado il legno del confessionale. “Fu forte sbigottito e colto da tremito per
modo che lo stesso confessionale ne era scosso”, si legge nel capitolo della Chronique des Ursulines
che riporta la vita edificante di Catherine di Francia. Ciononostante non desiste dalle sue profezie e
maledizioni. Lo scongiura di pentirsi, se non vuole essere reprobo e dannato, gli rammenta il caso di
frate Couton de la Trinité, allora “pubblicamente diffamato poi che ebbe sedotto una sua figliuola
spirituale” e di cui si diceva “che sarebbe prontamente arso”. Questa precisa allusione è da
sottolineare: è la prima volta, o almeno così pare, che una minaccia concreta viene formulata nei
confronti di Gaufridy. Si può immaginare quanto lo abbia colpito. Ma suor de Gaumer non ha finito.
Di fronte al silenzio e allo sgomento del suo interlocutore, mette i puntini sulle i. Lo accusa di “essere
fonte di perdizione per le sue figliuole spirituali” con i suoi costumi, di allontanarle dalla fede e dalle
pratiche religiose, di imboccare con esse la strada di “un periglioso adulterio spirituale”. Quando ha
terminato, esausta, Louis non riesce che a mormorare, nel suo sciocco turbamento e imbarazzo, tra

31
inconsulti balbettii, attraverso la piccola grata, che, in effetti, “femmine v’erano sì folli che gli si erano
legate in siffatta guisa...”.
Più tardi, Catherine de Gaumer dirà che non sapeva che cosa le avesse preso, che cosa l’avesse
spinta a parlare con tale veemenza, tutto d’un fiato. Non era stata più padrona di sé. Avrebbe voluto,
sinceramente, “ragionare con lui in umiltà e carità” ma “Dio le dettò altre parole di quante avea
pensato dirgli”. Lo si vede, non era stata che lo strumento della violenza divina. Non aveva potuto far
altro che cedere. Aveva parlato, d’un sol fiato. E ora poteva tornare a Aix, esausta, svuotata,
ansimante.

Trovò il convento ancor più effervescente di quanto non l’avesse lasciato; ma risoluta a
prendere la situazione in mano. Pensando che la prima mossa da compiere dovesse riguardare la stessa
Madeleine, per indurla a dire tutto quello che poteva ancora nascondere, ebbe l’idea davvero
machiavellica di organizzare una sorta di messa in scena che l’avrebbe forzata a parlare. Ordinò per
l’indomani una giornata di meditazione collettiva su alcuni punti tanto precisi quanto inattesi, “li quali
punti versavano sull’argomento dell’amor-proprio che si porta alcuna fiata sui padri ispirituali e contro
il quale bisogna bene guardarsi” (queste meditazioni su “punti” erano parte ordinaria della vita
religiosa). Si può indovinare il successo del programma sulle giovani monache. Difficile immaginare
qualcosa che potesse provocare una maggior confusione nei loro animi. La notte passò nelle angosce e
nei conciliaboli. E l’esito, del tutto scontato, non si fece attendere. Quando venne il momento della
relazione pubblica dei risultati della meditazione, infatti, Madeleine fu colta davanti alle sue compagne
da un tale tremito convulsivo per tutto il corpo, che, in qualche secondo, lo spavento fu generale. Ecco
dove conducevano le sottigliezze di Catherine di Francia. Aveva l’intuizione della terapia d’urto, ma
l’urto, per l’appunto, era un po’ troppo violento.
Si procedette a una immediata sospensione della seduta e la madre superiora convocò
Madeleine nella sua camera. Cominciò col rassicurarla, invitarla alla calma e alla fiducia, passandole
una mano sulla fronte, accarezzandole affettuosamente i capelli; le propose allora di parlare
liberamente: di dire una buona volta tutto quello che non aveva ancora detto. Madeleine esitò, si
calmò, respirò profondamente, cercò di tornare padrona di se stessa; tutto ad un tratto, poi, si sciolse in
lacrime come una bambina, e parlò, disse tutto, e ancor più del necessario. Rivelò, stavolta con
abbondanza di particolari, “le grandi familiarità che aveva avute con detto Loys Gaufridy, baci,
toccamenti e altre familiarità che recavano offensione all’onore della detta Magdelaine” (deposizione
di Catherine de Gaumer al processo). La madre, spaventata, la interruppe, non volendo ascoltare oltre
“e tanto più dacché aveva compreso trattarsi di cose che orecchie caste e pudiche non possono né
vogliono udire senza danno”. Volle tuttavia sapere come tali eccessi avessero potuto verificarsi e tenne
a far osservare a Madeleine che gli insegnamenti che le erano stati impartiti nella congregazione di
Sant’Orsola non erano compatibili con siffatti comportamenti. Al che la giovane monaca rispose: “Mia
buona madre, Voi sapete quanto tempo ho trascorso nella casa di mio padre da quando sono venuta
nella città di Marsiglia dalla città di Aix!” Alludeva ai suoi andirivieni, ai soggiorni alle Accoules e a
Fontobscure. In un lampo, Catherine ebbe la visione dei pericoli ai quali la condizione di religiose non
di clausura esponeva le sue pecorelle e si chiese se non sarebbe stato meglio che fossero rinchiuse nel
chiostro come le altre: insomma, se l’esperienza delle Orsoline non si trovasse, di colpo, condannata.
Era ben decisa a parlarne con padre Romillon. Ma, per il momento, bisognava occuparsi di Madeleine.
Costei, sollevata dalle lacrime, superato l’ostacolo delle prime rivelazioni, ne fece altre, con
disinvoltura, con inventiva, con morbosità. E Catherine di Francia, le cui orecchie a poco a poco si
avvezzavano, turbata, ascoltò, capì. “Sappiate, mia cara figliola, disse in capo a un momento con
severità, che se avessi saputo quello che mi avete appena detto prima di accogliervi, mai avreste avuto
né l’onore né il consenso di restare in questa Congregazione.” Aggiunse che individuava in tutto ciò
un pericolo “per la mia e per la vostra anima”e che i doveri della sua carica le imponevano ormai di far
sapere ai suoi superiori come lei avesse potuto essere stata sedotta da questo “miserabile uomo”.
Madeleine, che stava incastrando Gaufridy forse proprio perché l’amava, dichiarò che aveva ragione,
che bisognava liberarla da quell’uomo che la perseguitava con le sue attenzioni criminose, la circuiva
con i suoi “sortilegi e malefici”. E si rimise a piangere, a tremare.

32
Bisogna notare a questo punto che è la prima volta in cui le parole di sortilegio e maleficio
sono pronunciate e che il fatto coincide esattamente con il momento in cui appaiono in Madeleine le
prime manifestazioni verificabili di un comportamento isterico. I violenti tremiti dai quali viene colta
(e che si possono ravvicinare ai tremiti di Gaufridy nel confessionale) sono caratteristici di quei
meccanismi di sfogo nevrotico che sopravvengono bruscamente in seguito a uno stato di estrema
tensione psichica e che tanti specialisti hanno descritto.
Un altro tremito dello stesso tipo si impadronì di lei qualche giorno dopo, nel corso di un
uffizio nella chiesa di Santa Chiara, mentre stava pregando inginocchiata proprio accanto a suor
Catherine de Gaumer, che, ormai, non la lasciava quasi mai, e restava per quanto possibile vicino a lei
(tremito, descritto questa volta dalle suore che ne furono testimoni, come “grande tremito di tutto il
corpo e spaventevole” – stupefacente formulazione). Davanti allo sbigottimento generale, spiega che
mentre faceva le su devozioni, visioni di demoni “le erano apparse in diverse guise, anche sotto
l’imagine ed il sembiante di detto Gaufridy”. Nuovo progresso. Non soltanto si precisano i fenomeni
allucinatori, ma appare, esplicita, un’allusione al Diavolo (o a dei diavoli). Mentre si prova a
soccorrere Madeleine, - evitando di toccarla troppo, tanto si propaga in fretta un certo tipo di paura -,
suor Catherine interviene con autorità e le rivolge domande insistenti (su quel tono intimidatorio che
annuncia quello dell’esorcista): Che avete? Cosa vi succede?” Al che Madeleine, barcollante, pallida,
risponde che “era per via della rappresentazione di parecchie cose, ossia della sua giovinezza, della
persona di Gaufridy, della disperazione di mai ottenere misericordia”. È sconcertante la precisione
della “sintomatologia” inscritta in questa risposta (trasmessa, pare, con esattezza da Catherine de
Gaumer nel corso della sua deposizione): il riferimento a ricordi traumatizzanti della giovinezza, l’uso
stesso del termine “rappresentazione”, l’affermazione del senso di colpa sono di una chiarezza
perfetta. E, beninteso, tutto ciò si accompagna a nuovi meccanismi di sfogo. Urla che “Dio le strappa
il cuore”. Uscendo di chiesa, sostenuta dalle compagne, urla ancora più forte, proprio come volesse
attirare l’attenzione dei passanti: Catherine de Gaumer decide di farla ricondurre in convento per
strade traverse. Si batte il petto, si lacera le vesti gridando che il Diavolo l’accusa di essersi
“comunicata indegnamente”. Improvvisamente, drizzandosi bruscamente all’indietro, urla:
“Misericordia!” Questa volta le suorine non resistono più. L’abbandonano, fuggono, si disperdono.

Freud, a proposito, per l’appunto, di una “nevrosi demoniaca nel XVII secolo”: “Non ci si
deve stupire se le nevrosi di quei tempi remoti si manifestano sotto un aspetto demonologico, mentre
quelle del nostro tempo, così poco psicologico, assumono, sotto le sembianze di malattie organiche, un
aspetto ipocondriaco. Parecchi autori, Charcot per primo, hanno, come si sa, scoperto le
manifestazioni dell’isterismo nelle rappresentazioni, che l’arte ci ha trasmesso, di casi di possessione
demoniaca e di estasi; non sarebbe stato difficile individuare, nella storia di questi malati, il contenuto
della nevrosi, se soltanto vi si fosse prestata maggior attenzione.” Di fatto, i sintomi sono quanto mai
“leggibili” in Madeleine, e – a partire da quel giorno – il male la tormenta violentemente. Sarà lei
stessa a raccontare, nel corso degli interrogatori ai quali verrà sottoposta, che oramai le “visioni
spaventevoli” non l’abbandoneranno più, assalendola ad ore regolari, imponendole la visione di spiriti
maligni “sotto forma di uomo, di capro, di leone, di cane, di cavallo, di mulo, di gatto e di altre
bestie”. Questo bestiario fa a meno di ogni commento, tranne per quanto riguarda la presenza
rivelatrice e originale dell’uomo, messo sullo stesso piano di specie di una così violenta animalità quali
il caprone o il cavallo.
Le cose si aggravarono a tal punto che, poco prima di Natale, si cominciò a parlare di
esorcismo. Fu allora che, il 21 di dicembre, giorno di San Tommaso, sopravvenne una crisi di tale
violenza che, quanto alle origini diaboliche delle turbe di Madeleine, il dubbio, in molte menti, lasciò
il posto alla certezza. Quel mattino si trovava in confessione, da padre François Billet, un oratoriano,
che veniva regolarmente al convento per l’assistenza delle religiose. Mentre enunciava, una volta
ancora, peccati contro la purezza, i suoi sintomi abituali si erano improvvisamente manifestati. Il
padre, inquieto, nella speranza di calmarla, le aveva teso il crocifisso che portava alla cintura. Ella
aveva cominciato a baciarlo, a stringerlo contro le labbra ed il petto, con segni d’emozione e di
fervore, poi, brutalmente, con un’espressione di rabbia ed una forza che pareva moltiplicata, l’aveva
letteralmente “fatto a pezzi” (da notare che i termini sono di padre Billiet, nella sua futura
deposizione). È possibile l’avesse semplicemente lasciato cadere e che il bell’avorio si fosse spezzato

33
sul marmo del pavimento. O che, in un gesto di stizza, l’avesse respinto per protestare contro le
domande assillanti del confessore. O che abbia contratto troppo forte le mani su di esso, rimuovendo,
staccando la statuetta del Cristo dal legno già consumato. Padre Billiet dichiarò: “fatto a pezzi”. E
siccome è probabile abbia gridato assai forte davanti al danno del suo crocifisso, tutte accorrevano da
ogni dove, quasi istantaneamente dato che si stava appresso Madeleine in permanenza, per sorvegliare
quello che avrebbe potuto fare o quello che avrebbe potuto accaderle. Una volta ancora, la scoprirono
in preda a convulsioni, tremante. Le sue compagne provarono a calmarla, a sorreggerla, non senza
un’estrema paura di essere vittime di un nuovo eccesso di violenza da parte sua. Altre si misero a
raccogliere i frammenti del crocifisso. Infine arrivò suor Catherine de Gaumer. Altera. Il portamento e
l’andatura diritti. Risoluta a mantenere il sangue freddo. Con un solo sguardo, valutò la situazione. La
giudicò grave. Dette qualche rapido ordine. Madeleine doveva essere ricondotta immantinente nella
sua cella. Venne mandato a chiamare un esorcista. Si fece venire padre Romillon.

Quest’ultima decisione era della massima importanza. Prima di confermarla, Catherine sentì il
parere di padre Billet, che espresse la sua opinione. Anche a lui sembrava non si potesse lasciare che il
male si propagasse con tanta rapidità. La distruzione del crocifisso non era soltanto un gesto blasfemo,
era una evidente manifestazione “fisica” della presenza – e della potenza – del Demonio. Solo padre
Romillon, con la sua esperienza, la sua conoscenza delle cose divine ed umane, poteva dare un avviso
sugli avvenimenti inauditi che scuotevano la casa delle sue care Orsoline, l’istituzione che aveva
fondato, così fragile ancora, così vulnerabile, insidiata da tanti nemici e avversari. Venne dunque
chiamato. Non prese l’affare alla leggera. Gli appariva pieno di pericoli e assai pregiudizievole per la
politica religiosa che aveva ispirato tutta la sua azione, passata e presente. Innanzi tutto chiese a
Catherine di Francia di essere discreta, di non lasciar trapelare nulla (ma, senza dubbio, il consiglio era
piuttosto tardivo). Volle in seguito sapere chi o che cosa fosse all’origine dei disordini di cui era preda
Madeleine. Padre Billiet parlò allora di Gaufridy, il cui nome ricompariva continuamente nella
confessione della ragazza, dicendo che il suo ruolo doveva essere stato nefasto, che era giunto a
dissuadere la poverina a restare negli ordini, a votare a Dio la sua esistenza, e che l’aveva
probabilmente indotta a preferire i piaceri della vita all’esercizio della devozione. Padre Romillon
aggrottò il ciglio. Ma dichiarò che bisognava agire a mente fredda e, prima d’ogni altra cosa, aprire
un’istruttoria. Catherine di Francia restò muta, ma con un segno del capo assentì.

34
Cap. 7

Nello stesso periodo, Gaufridy, preso da uno di quei bisogni di “evasione” che periodicamente
si impossessavano di lui, partì in pellegrinaggio per Loreto, in Italia. Nostra Signora di Loreto era un
luogo venerato in tutta la cristianità, da quando la casa della Vergine a Nazareth vi era stata, si diceva,
miracolosamente trasportata dagli angeli. Vi giungevano da molto lontano. Ma arrivarci non era facile.
Bisognava attraversare il Piemonte, la Toscana, le Marche. Gaufridy, che amava alternare i piaceri del
viaggio e che, ancora una volta, si vedeva costretto da oscure ragioni ad affrettare la partenza, aveva
deciso di recarsi anzitutto a Genova per mare, prendendo al volo una delle numerose tartane che
levavano l’ancora da Marsiglia in direzione dell’Arcipelago e del Levante, seguendo le coste del
Mediterraneo.
Il “padrone”, un capitano di nome Alcoras, coperto di cicatrici ma vestito di indiana leggera,
navigava al servizio di Bertrand Tarterin, grosso fabbricante di sapone a Marsiglia, e ritornava da
ognuna delle sue traversate carico di “paccottiglia” in quantità sufficiente per alimentare i propri affari
e progettare di sistemarsi per conto proprio in breve tempo. Aveva accettato di prenderlo a bordo con
due confratelli delle Accoules e un eremita disceso dal Ventoux. La compagnia si era radunata all’ora
convenuta, e la tartana, armata di fresco, la bandiera massaliota sventolante a bompresso, aveva preso
il largo in una chiara mattina di novembre. La mitezza della temperatura era eccezionale per la
stagione; e allontanandosi dalla rada i viaggiatori scoprivano, rapiti, i colori dell’autunno, le macchie
di rosso e di giallo sulle colline della Garde. Un vento leggero, moderato, gonfiava la vela. In mezzo a
casse di sapone e barili d’olio, appoggiato col gomito a una balla di pelli e di cuoi che Alcoras aveva
riportato da un recente viaggio verso le rive barbaresche, Gaufridy si sentiva libero; il cuore gonfio di
speranza, un po’ stordito da quegli odori forti, che davano alla testa; il sentimento, una volta ancora, di
rigenerarsi nell’evasione, di fuggire l’assillo di quegli attacchi quotidiani che opprimevano i suoi
giorni, soffocavano la sua fede, lo imprigionavano in una rete tesa dalle sue stesse parrocchiane e
figliuole spirituali. Qui, finalmente, respirava. L’aria d’alto mare lo avvolgeva delle sue folate saline.
Il mare era ancora più esteso delle immense foreste di larici su cui il suo sguardo spaziava quand’era
bambino. Le onde, più gioiose, più spumeggianti dei vortici del Verdon intorno alle pietre. È a quel
mondo che era ricondotto. E per di più andava verso Dio. Verso la Vergine e verso Dio. Il vecchio
eremita russava. I due preti sgranavano i loro rosari. Lui non staccava gli occhi dalla grande distesa
azzurra. Oltrepassando le isole del Frioul, all’altezza del recinto fortificato del Lazzaretto, la tartana
virò di bordo, doppiò una roccia per poi gettare l’ancora e lasciar salire un intendente della Sanità, in
abito lungo e gorgiera, che veniva a verificare se tutte le misure sanitarie fossero state prese. Fece
qualche osservazione sui pidocchi e le pulci che sembravano rodere l’eremita e abbandonò il battello.
Giunta al porticciolo di Cassis, la tartana fu nuovamente in sosta per completare l’equipaggio.
Vi erano già dei marsigliesi, due livornesi, un genovese. Vennero imbarcati alcuni pescatori del posto,
un vecchio marinaio corso che si offriva come cuoco, e due puttane colpite da provvedimento di
espulsione da Marsiglia: una spagnola di nome Purificación e una zingara chiamata Estella. Gaufridy,
come si può immaginare, fu quanto mai lieto della loro compagnia. Fece ogni sforzo per far prendere
coscienza alle due donne degli errori della loro condotta, e tentò di ricondurle sulla retta via. Poiché
Purificación era in preda ad un mal di mare spaventoso che le provocava terribili singhiozzi, le
insegnò delle preghiere, provando a convincerla che uno slancio di devozione da parte sua l’avrebbe
aiutata a sormontare queste prove. Quanto a Estelle, la pelle quasi nera, gli enormi anelli che le
foravano i lobi delle orecchie, i braccialetti che portava alle caviglie, le anche drappeggiate in rossi
tessuti, la trovò subito di suo gusto. I due religiosi lo sorpresero in sua compagnia, fin dalla prima
notte della traversata, in un ridosso del secondo ponte, dove erano ammucchiati tappeti marocchini e
seterie di ogni sorta. Accarezzandola, prodigava ogni sforzo per strapparla al paganesimo e alla
miscredenza. Estelle, petto maturo e cosce nervose affondati nella seta, parve accettare i suoi tentativi
con riconoscenza. Aveva un profumo forte, quasi bestiale, che piaceva a Louis, misto agli aromi di
cannella, di garofano, di noce moscata che giungevano dall’altro lato del ponte.

Non vi furono incidenti di rilievo finchè non arrivarono al largo di Sanremo. Si accorsero
allora che Purificación aveva una malattia venerea che rischiava d’infettare tutto il battello e che uno
dei livornesi si era imbarcato senza rivelare che accusava i primi sintomi del colera. Un breve panico

35
si impossessò dell’equipaggio, che si chiedeva se non fosse il caso di approdare immediatamente e
abbandonare i due indesiderabili sulla prima spiaggia. Ma il padrone fu d’avviso di aspettare di essere
arrivati a Genova per sbarazzarsene e spiegò che nelle sue navigazioni ne aveva viste ben altre, che su
questo Mediterraneo che aveva solcato in tutti sensi non vi era certo da far caso ad un contagio o ad
un’epidemia. Il marinaio corso, che era anche un po’ speziale, procedette a qualche salasso e a qualche
applicazione di teriaca per calmare gli spiriti.
Mentre un leggero rollio agitava il bastimento, Alcoras, abituato da sempre ad usare il suo
talento di narratore per calmare i nervi dell’equipaggio, raccontò come qualche mese addietro,
ritornando dall’Africa, fosse stato attaccato da alcuni maiorchini delle Baleari, dei veri pirati, che
avevano tentato di abbordare il suo battello, ma che lui e i suoi uomini erano riusciti a disperderli a
colpi di bastone e di coltello da cucina. Tutto ciò spiegava le numerose cicatrici che gli si vedevano
sulle guance, sul collo, sulle braccia. Da quel giorno, per prudenza, aveva fatto sistemare un piccolo
cannone a prua, e li invitava a venirlo a vedere in azione sparare un bel paio di salve, non appena il
rollio fosse finito. Purificación non cessava di farsi il segno della croce per scongiurare la nausea che
la prendeva. Gaufridy ascoltava, mangiando delle carni insaporite con spezie che erano state portate
dalle cucine. Osservava con una certa ammirazione quel lupo di mare che, nel racconto delle sue
imprese, dimostrava di possedere doti da vero commediante, e sembrava aver fatto la scelta di una
piacevole eleganza di abbigliamento e di modi, che contrastava curiosamente con il suo corpo
massiccio e il suo volto abbronzato, tagliato con l’accetta. Teneva gli occhi rivolti verso di lui per non
perdere una sola delle sue parole, asciugandosi di tanto in tanto con la manica il sudore che gli colava
sul collo. Dalle cucina saliva un forte aroma di aglio e di olio che a poco a poco si spandeva sul ponte,
impregnando i panni e appiccicandosi alla pelle. A momenti, però, si alzava un vento di burrasca che
spazzava tutto, e precipitava Purificación in nuovi tormenti. A ogni colpo di mare, il padrone
interrompeva il racconto, accostava all’occhio un cannocchiale e ne regolava pazientemente la portata.
Fu così che scorse una galeazza veneziana che si stagliava sull’orizzonte e che dei banchi di nebbia
avevano dovuto nascondere. Ora la vedeva nitidamente, e gli dava l’impressione che si dirigesse verso
di loro. Vi fu un momento d’inquietudine poiché ci si domandava se la galeazza avesse intenzioni
pacifiche o meno, se si avvicinasse in segno di amicizia o per speronarli. Di fatto, ben presto si
allontanò, scomparve, e il capitano abbassò il cannocchiale, con un lento gesto grave, un po’ triste:
sembrava che la parola gli fosse venuta meno, definitivamente.

Vi fu anche un episodio inatteso: i pescatori di Cassis avevano gettato le reti in un braccio di


mare di color cangiante, di un viola profondo, uno dei frati rischiò di cadere in acqua, sporgendosi un
po’ troppo al di là del bastingaggio per vedere un tonno, o almeno quello che credeva essere tale,
dibattersi in mezzo a sardine argentate. Lo trattennero giusto a tempo per la tonaca. Ma, come
inebetito, rimase a lungo a poppa, lo sguardo fisso sulla scia della tartana, e sulle pesanti reti che ne
colpivano lo scafo. Nel frattempo, gli altri, raggruppati intorno al cannone, assistevano alla
dimostrazione del capitano, toccavano con le mani la polvere da sparo come per rassicurarsi, se ne
strofinavano il volto, dicendo non vi era nulla di più efficace per prevenire la rogna ed altre malattie
della pelle. L’eremita, addossato all’albero, raccontò di aver avuto tutti gli ascessi e le scrofole
possibili, e che non vi fosse miglior cicatrizzante delle erbe medicinali della montagna. Esortato a
raccontare la propria vita, ad evocare vecchi ricordi, finì per confessare che era stato galeotto, e che
conosceva il mare meglio di tutti loro. Propose anche la forza delle sue braccia per remare, nel caso in
cui il vento avesse dovuto abbandonarli.
Ci si accorse della scomparsa di Gaufridy e della zingara. Li cercarono per un momento, per
timore che una rollata un po’ brusca non li avesse precipitati in mare, ma pensarono poi che dovevano
trovarsi tra le balle d’indaco e le stoffe. In ogni modo, Genova era vicina e non era il caso di guastare
il piacere che Louis pareva prendere a questo viaggio. Tutti avevano notato che sembrava più di ogni
altro sensibile a quel senso di grande libertà che il mare generava, con quelle grandi folate d’aria
inebrianti. Il tempo si faceva più fresco, nuvole grige salivano dall’orizzonte annunciando un autunno
che poteva riservare delle sorprese. Ma il mare restava di un azzurro inalterato. Da lontano, la linea
delle coste, di un rosa sfumato, sembrava avvicinarsi e a poco a poco, lasciava apparire, in un tremolio
di vapori, delle forme più precise, case, tetti, macchie d’alberi.

36
A Genova, Gaufridy piantò in asso la compagnia e preferì, come sua abitudine, scegliersi da
solo l’itinerario, andando incontro alle occasioni che il caso gli avrebbe presentato. Dovette passare
una notte e un giorno in città, per informarsi sulle diligenze, sulle vetture da nolo o sui cavalli a
disposizione. Genova non era molto diversa da Marsiglia. Vi ritrovava certi rumori, quello stesso
profumo nell’aria, la confusione del porto, l’agitazione nelle stradine strette e oscure, che lo facevano
sentire a casa. I suoi corrispondenti erano di norma religiosi incontrati in precedenti occasioni o dei
quali aveva avuto l’indirizzo, e che potevano offrirgli ospitalità: la solidarietà tra le chiese, tra i
conventi e i monasteri costituiva il vero passaporto per i viaggiatori della sua condizione, e la sua
qualità di beneficiario gli valeva d’essere ricevuto con certi riguardi, anche se arrivava all’improvviso.
Parlava poco l’italiano, in una specie di dialetto imbastardito con il provenzale, ma che permetteva di
comunicare, e ad ogni modo, se era necessario, ricorreva al latino, altro passaporto perfettamente
efficace nel mondo ecclesiastico. Tuttavia, non aveva nessuna intenzione di finire ostaggio di un
canonico genovese che, col pretesto di accoglierlo alla sua tavola, l’avrebbe subissato di chiacchiere
senza lasciargli tirar fiato. Voleva vedere le strade della città. Ed è così che si ritrovò, la sera stessa del
suo arrivo, nel quartiere del porto, in una sorta di bettola che un ecclesiastico del suo rango non
avrebbe dovuto frequentare, ma dove l’aveva attirato lo spettacolo di quattro giocatori di carte, più
precisamente di tarocchi, poiché gli era parso, ad un primo sguardo, che i disegni dai colori vivaci che
ornavano i rettangoli di cartone – consunti tuttavia, sgualciti, sbiaditi – che tenevano in mano non
erano quelli delle carte da gioco ordinarie, ma figure simboliche di altro significato. Per un istante si
chiese se quei tarocchi non venissero da Marsiglia dove ne venivano fabbricati di ottima qualità, e
pensò che porre questa domanda ai giocatori gli avrebbe permesso di attaccar discorso con loro. Ma si
ricredette, e preferì osservarli in silenzio, benché il suo riserbo e il suo aspetto da viaggiatore straniero
sembrassero renderlo vagamente sospetto ai frequentatori della bisca. Ordinò del barolo del Piemonte,
per quietare la loro diffidenza, e continuò a guardare. Era come affascinato da quei disegni rossi, gialli
e verdi che, per la precisione dei contorni, la forma ora puntuta ora angolosa, in volute e spirali, gli
ricordavano i caratteri del vecchio libro di suo zio: un personaggio, vestito di un farsetto traforato, ma
con una testa di volpe tutta verde, una coda a cavatappi, anch’essa verde, che gli usciva dalle brache, e
delle zampe di caprone, attirava in particolare il suo sguardo. Vedeva anche oggetti come corna, tube,
vasi sanguigni recisi. A tratti, i suoi occhi si posavano sulle dita dei giocatori: unghie nere e spezzate,
solchi marcati dallo sporco o dalla terra, tracce di tintura nera o di grasso. Tutto mescolato, fuso
nell’atmosfera piena di fumo e di vapori vinosi. Vi si attardò gran parte della notte.

L’indomani, ristorato e rifocillato dal suo canonico, partì per Carrara. Finì in una locanda di
fortuna, dove un commerciante di marmo a caccia di affari, che voleva far visitare il proprio cantiere,
gli si propose come guida per un’escursione in città. Visitò chiese, botteghe, laboratori. Mangiò,
bevve, passeggiò. Scoprì quartieri in cui incrociò miserabili come mai ne aveva visto altrove: ciechi,
storpi, scrofolosi, donne sdentate, bambini scheletrici, mendicanti che gli restavano appiccicati
addosso come sciami di mosche, nel lezzo insopportabile delle strade. Al suo passaggio venivano
svuotati vasi da notte dalle finestre, ad ogni istante metteva i piedi in mezzo a mucchi d’immondizia,
camminava tra rigagnoli trasformati in cloache. Uscito dal dedalo delle viuzze, si trovava di fronte il
marmo e la pietra dorata dei palazzi (in it. nel testo), scopriva meraviglie di architettura, le facciate
scolpite di residenze principesche, le case dei ricchi negozianti, lo sfarzo delle chiese, le opere degli
artisti, pale d’altare, i soffitti, le vetrate. Infine preferì ritornare alla locanda e riposarsi. La cucina era
buona, i cavalli erano ben curati, e il locandiere parlava un po’ di francese. Vi era inoltre una
cameriera, di origine napoletana, che, essendosi accorta di non dispiacere a Louis, ritenne suo dovere
occuparsi con particolare cura della sua camera e del suo letto. Era un po’ robusta, ma bella, giovane,
fresca e in ottima salute. Louis ebbe voglia di prolungare il soggiorno, ma il pellegrinaggio l’aspettava,
e restavano ancora lunghe tappe da percorrere.

Giunse a Firenze in diligenza, percorrendo la Toscana in lunghe tratte, attraversando i campi


fiancheggiati da cipressi, le colline coperte di ulivi. Aveva accarezzato il progetto di incontrare il
granduca che aveva giurisdizione sull’isola del castello d’If, al largo di Marsiglia, per discorrere con

37
lui di certi progetti. Ma venne ricevuto soltanto da uno dei suoi intendenti. Quest’uomo, colto ed
affabile, conosceva la Provenza e aveva l’intenzione di ritornarvi: gli promise di fargli visita alle
Accoules. Nell’attesa, gli consigliò di profittare del pellegrinaggio a Loreto per passare per Roma e
chiedere udienza al papa, che non avrebbe mancato di prendere conoscenza con grande interesse
dell’espansione della Dottrina cristiana nel sud della Francia e l’avrebbe sicuramente incaricato di
portare la sua benedizione alle giovani orsoline di Aix e di Marsiglia. Inoltre, Paolo V, che prodigava
ogni cura affinché fossero completati alcuni edifici della città pontificale, gli avrebbe certamente
fornito i mezzi di visitare Roma nelle migliori condizioni. Louis rispose che lui, il più modesto di tutti
i preti ed il più indegno dei servitori di Sua Santità, voleva restare povero tra i poveri e pellegrino tra i
pellegrini. Ad ogni modo, troppa strada gli restava da percorrere perchè potesse permettersi la
deviazione. L’intendente espresse il desiderio che almeno non disdegnasse le bellezze di Firenze.
Gaufridy, in effetti, visitò il convento di San Marco, dove fu ricevuto con riguardi di cui serbò
un’emozione durevole, la chiesa di Santa Croce, dove una religiosa, incaricata per l’occasione di
occuparsi di lui, lo ragguagliò minutamente sulle ricchezze dei palazzi e dei santuari. Ripartì,
meravigliato di quel che aveva visto, ma un po’ turbato per aver preso gusto, quasi suo malgrado, ai
fasti e agli onori. Ritrovò con soddisfazione l’anonimato della sua condizione di viaggiatore.

Una sosta ad Urbino lo ricondusse ai piaceri delle locande. Faceva sensibilmente più freddo, e
non fu scontento di trovare una stanza rustica, munita di scaldini pieni di brace. Sentiva la fatica
vincerlo, di tappa in tappa, e fu per ritrovare le forze che passò due notti in quel luogo. L’atmosfera
che regnava nella sala dei clienti era gioiosa, contadini e contadine si univano ai viaggiatori, vi era
sempre una mezza dozzina di brocche di vino rosso sul tavolo. Nel cortile, uno stalliere strigliava i
cavalli, poiché la locanda serviva anche da stazione di posta. Louis aveva l’intenzione di portare a
termine il suo viaggio in parte a cavallo e in parte a piedi, per dare risalto al fatto che lo compiva da
pellegrino. Si riposò un’ultima volta andando a zonzo per la città, ammirando intarsiature ed affreschi,
spingendosi fino al limitare delle campagne. Poi ripartì, evitando per un pelo un’imboscata tesa da una
banda di briganti. Spronò il cavallo verso Ancona. A partire di là, tutto si svolse con rapidità. Si unì ad
una fiumana di pellegrini che si riversava sulle strade gridando la propria gioia, il proprio dolore, la
propria speranza, come a Montferrat. Spagnoli, provenzali, sardi, siciliani, montanari venuti dalle Alpi
o dall’altra riva del Mediterraneo. Tutti cantavano, pregavano, salmodiavano, battendosi il petto,
offrendo alla Vergine di Loreto i loro piedi insanguinati, le loro membra intorpidite, le loro piaghe, i
loro moncherini. In quel paesaggio di luce dolcemente rinfrescato dal mare, si aveva la sensazione di
una sorta di brulichio terreno, di uno strano sussurro di misericordia che saliva dalle valli e dalle
pianure.

Vi furono anche, inevitabilmente, il disordine, la festa. Quelle affluenze di folla erano pretesto
a tutte le promiscuità, a tutte le avventure. Il miscuglio delle condizioni e delle razze permetteva ad
ognuno di dimenticare i limiti della propria personalità, del quotidiano e di liberarsi della propria
individualità per tutte le vie possibili. L’euforia del viaggio, la spossatezza dei corpi stremati
accrescevano il delirio nutrito dall’estasi religiosa. Inoltre, i più miserabili ottenevano qualche aiuto
provvisorio dai più abbienti, i mendicanti mettevano insieme in qualche giorno più scudi, piastre o
escalins di quanti non ne avrebbero ottenuti in parecchie settimane nei quartieri più prosperi di una
città, e si stabiliva una sorta di uguaglianza, nello spartirsi le indulgenze e le grazie della Vergine così
come le gioie e i dolori della carne. Gaufridy, per le ragioni che si possono indovinare, dipendenti
dalla sua intima natura e dal suo carattere, apprezzava tutto ciò, facendosi, come diceva e voleva,
profondamente pellegrino tra i pellegrini. Con gli altri, pregò, cantò, esultò. Poi ripartì, com’era
venuto, a grandi tappe. Riattraversò la Toscana, la Liguria, riguadagnò la Provenza per terra. Poco
prima di Natale era a Marsiglia. Sfinito, ma gli occhi e la memoria pieni di cose nuove. Il cuore
fiducioso.

38
Cap. 8

Padre Billet, incalzato da Romillon, non aveva certo tralasciato il caso. Aveva trascorso
parecchie notti a riflettere sul miglior modo di “ammonire” Gaufridy senza metterlo in guardia né
troppo risvegliarne i sospetti, ed era giunto alla conclusione che scrivergli una lettera sarebbe stata la
soluzione migliore. Ma non una lettera qualsiasi. L’ingenua strategia del padre fu di parlare di
Madeleine a Louis indirettamente, alludendo a un “uomo di sua conoscenza” (di conoscenza di
Gaufridy, un suo amico dunque) che si sarebbe interessato un po’ troppo da presso alla ragazza. Per
far buon peso, aggiungeva che ciò gli era stato rivelato per il tramite di un “demone” (senza dubbio
convinto che quello fosse un mezzo efficace per adescare colui che vedeva già in familiarità con il
Diavolo), promettendo di rivelare il nome dell’uomo in questione nella lettera seguente. La seconda
lettera arrivò qualche tempo dopo. Svelava lo stratagemma (il padre contava sull’effetto-sorpresa), e
rivelava a Gaufridy che l’“uomo” era lui. Strana e astuta circospezione, ma in ogni caso inefficace.
Louis rispose con sdegno ed arguzia che ringraziava il padre del “caritatevole monito ed avviso”.
Null’altro.
Era tuttavia venuto a conoscenza, dalla pubblica voce, di un certo numero di cose, abbastanza
per sospettare ciò che stava accadendo. Ma, pervaso da una sorta di stanchezza e di distacco, si diceva
che la gente non poteva essere così sciocca da ostinarsi a vedere malefici dove non ve ne era alcuno, e
non teneva conto nella giusta misura dell’aggressività e della stupidità crescenti. Inoltre, si divertiva
non poco delle “diavolerie” di cui veniva imputato e provava un certo godimento nel passare, agli
occhi di qualcuno, come “stregone” e “mago”. Non cambiava in nulla la sua vita; continuava a
ricoprire la sua carica di sacerdote, ad assistere le sue figliuole spirituali e a confessarle. Dal giorno del
suo ritorno, in frequenti occasioni, aveva anche rivisto Madeleine, che, nonostante lo stretto controllo
esercitato su di lei al convento, ritornava a volte nella sua famiglia a Marsiglia. Le aveva anche portato
dal suo viaggio un ricordo: una noce. Gliela aveva offerta uno dei locandieri incontrati sulla strada di
Loreto, con l’assicurazione di averla colta dal grande noce del suo giardino, ma che era stata benedetta
dal papa, a Roma. Lungo tutto il viaggio di ritorno, aveva rigirato tra le dita quella noce dura e rugosa
nella tasca della cappa, poi l’aveva offerta.

Il primo indizio che lo aveva seriamente allarmato, a parte la lettera di padre Billet, era una
sequela di affermazioni di un certo Michel-Ange, cappuccino e predicatore itinerante, venuto a vederlo
per dirgli che il vociare sul conto di lui e di Madeleine cresceva un po’ dappertutto. Gaufridy l’aveva
ricevuto nella sua camera, l’aveva fatto sedere sul suo letto e, dopo un breve silenzio, gli aveva
risposto, con molta semplicità e un poco di tristezza, che “gran pena gli aveva arrecato Magdelaine,
ch’ella era molto innamorata di lui, onde avea preso risoluzione di lasciare la città di Marsiglia”... Per
sua sfortuna quel tal Michel-Ange si sarebbe in futuro rivelato uomo di una mala fede infame e
affabulatore senza pari. Trasformò e corresse quel che gli era stato detto e inventò (retrospettivamente,
quando ebbe a testimoniare) una storia inverosimile secondo la quale sarebbe stato “affatturato” da
Gaufridy nel momento stesso in cui ne raccoglieva le confidenze. Tutto era cominciato l’anno
precedente, durante le prediche quaresimali. Louis gli aveva dato una strana pozione, nel corso di un
pranzo alla bastide del signor de Gréoulx, al quale partecipava Madeleine (bisognava pur trovare un
legame tra questo incidente ed il caso). La pozione era composta di “polve adamantina, e di zaffiro,
posteriore di bove, posteriore di asina e posteriore di infante arrostito alla sinagoga”. Nientemeno.
Michel-Ange raccontava senza nessun pudore. L’essenziale, d’altronde, non consisteva
nell’enumerazione precisa (che, comunque, non poteva che fare un’ottima impressione), quanto di
precorrere qualche ossessione ben radicata: gli “infanti arrostiti alla sinagoga” sono molto eloquenti a
questo proposito, e tutti quei “posteriori”, che suggeriscono strani rovesciamenti (tutto è “posteriore”,
“contrario”, nei sabba, nelle pratiche demoniache) lo sono ancora di più. Se veniva chiesta allo
sventurato Michel-Ange la ragione di quel terribile sortilegio diretto contro di lui, rispondeva, gli
occhi umidi, che era senza dubbio “per la sua troppa confidenza di fare a Loys qualche caritatevole
rimostranza sul fatto che troppa familiarità avesse con le donne”. E la sua carità, che gli scioglieva la
lingua, lo induceva a rivelare altri dettagli su quel funesto pranzo: vi erano strane “insalate”, un
curioso “brodo senza zuppa”, servito in “una scodella d’argento che tutti i convitati l’invitarono a

39
sorbire”, e l’effetto di questi cibi era stato di provocargli, poco tempo dopo, il giorno della festa del
Corpus Domini, “un’indisposizione del corpo contro la quale vennero impiegati tutti i rimedi che
avessero possuto excogitare, e che non servirono punto”, che gli aveva causato “tormenti e dolori in
tutte le giunture”, a tal segno che era lecito interrogarsi sulla natura “di un male sì straordinario”.
Senza dubbio un volgare attacco di gotta. Ma tutto stava nel modo di descriverlo. Michel-Ange vi mise
tutta la sua scienza, dimenticando soltanto, pare, la prima serie di ingredienti enumerati. Ma,
apparentemente, nessuno si scompose. Tutto si svolse come se le orecchie credule avessero inteso le
parole che volevano intendere. Il fecondo Michel-Ange poteva continuare a dissertare sulle sue
coliche, le sue giunture, i suoi medici e i loro consulti. La conclusione sola contava: un tale male non
poteva spiegarsi che tramite “qualche incantamento o stregoneria”, poiché nei tentativi di alleviarlo
tutti i “rimedi umani” avevano fallito.
Eppure Gaufridy non aveva parlato che della sua tristezza e delle sue preoccupazioni. Ed è
proprio questo lo stato d’animo al quale egli è soggetto in quel periodo. Incontrato un giorno, vicino
alla porta Reale di Marsiglia, Claude Bourguignon, priore di Saint-Nicolas, aveva reiterato le sue
preoccupazioni, la sua inquietudine, la sua intenzione di “ritirarsi dall’officio, imperocché vorrebbe
cessare il pondo e la molestia delle confessioni e dell’interramento dei morti”. Il priore era rimasto
colpito da queste parole, e da quanto fossero tinte di melancolia. È probabile che il pensiero
dell’“interramento dei morti” non fosse che un pretesto, simbolo di quanto più materialmente
ripugnante vi fosse, in quell’epoca di pesti e epidemie, negli obblighi del sacerdozio, ma che il vero
turbamento venisse piuttosto dalle confessioni e da quella rete inestricabile che era andata tessendosi
intorno ad esse. Louis sentiva che le cose si complicavano, al punto che la fuga, o almeno un
allontanamento, gli apparivano come la sola soluzione. È per questo che aveva voglia di cambiar
domicilio. Chiese quel giorno al priore se non conoscesse un “albergo” vicino alla sua abitazione nei
paraggi dell’abbazia di Saint-Victor. Era un luogo tranquillo, in quell’epoca praticamente in aperta
campagna, dall’altro lato del porto. Voleva, diceva, farla finita con la tavola comune, gli obblighi della
sua prebenda, le voci che circolavano inrorno a lui, e vivere finalmente in pace. Claude Bourguignon
riferì che aveva ascoltato queste parole con stupore e che si era limitato a mettere in guardia il suo
interlocutore quanto alle difficoltà del progetto: intorno a Saint-Victor e a Saint-Nicolas era il deserto,
non vi era “riparo di sorta”, bisognava prevedere la costruzione di una casa. Louis vi sembrava deciso.
È da sottolineare questo improvviso desiderio di allontanarsi, di ritirarsi. Tutto avviene come
se Gaufridy, prete molto richiesto e avventuroso viaggiatore, provasse di colpo il bisogno di eclissarsi,
di farsi dimenticare, di scomparire. Qualche settimana prima, era ancora immerso nell’azione, nel
movimento, nel mondo. Tutto ad un tratto, qualcosa in lui si richiude, si ripiega. Gli attraversa la
mente il diffuso sentimento di una minaccia? O l’impressione di aver veramente accumulato troppe
imprudenze? Un oscuro avvertimento suggeritogli dal suo istinto di conservazione? Forse,
semplicemente, un momento di scoramento, di fatica. O il disgusto, fin d’ora, davanti alla stupidità.

Ma era davvero così singolare il suo caso? Una cosa va ricordata in proposito: le abitudini di
Louis Gaufridy erano, di fatto, le stesse di numerosi ecclesiastici del suo tempo ed è assai improbabile
che potesse considerare il proprio comportamento particolarmente provocante. Un detto di San Carlo
Borromeo correva dall’Italia alla Provenza: “Chi vuol essere dannato, che si faccia prete”, e la
corruzione e i costumi dei religiosi non stupivano né scandalizzavano nessuno. Per dare un’idea della
situazione, si possono citare queste righe di un nipote dell’abate Bourguignon, nominato in
precedenza, eccellente osservatore dell’ambiente dell’epoca: “Il pervertimento dei costumi di verun
religioso poco riformato a tale segno fu giunto, che era appo essi in uso che colui che celebrava la
Prima messa presiedesse alla mensa degli altri religiosi, sedendo accanto a una leggiadra donzella, che
preponeva a fare la spesa del convito, e che chiamava sua Madrina; danzava seguitamente, dopo il
desinare, con essa, e tutti gli altri Religiosi toglievano le altre damigelle che erano convitate al festino,
e danzavano nel Refettorio al suono di tamburi e di violini, mostrando sotto gli abiti talari, che
sollevavano, vesti secolari e alla moda, cariche di nastri di ogni foggia e colore. E, cosa che a pena
posso scrivere e che non si saprebbe intendere senza confusione, questi Religiosi, dimentichi di ogni
sorta di pudicizia, venivano anche ai baci e altri atteggiamenti libertini oltre le danze” (la Vie du P.
Romillon, fondateur de l’ordre des Ursulines en France, Marsiglia, 1669.

40
Gaufridy sentì dunque chiaramente che quel che si voleva colpire in lui andava oltre la sua
persona: o si trattava di fargli pagare il prezzo dei costumi dei suoi contemporanei, o, più
probabilmente, di concentrare su di lui, una volta per tutte, il livore che suscitava quel libertinaggio,
quella libertà che ci si prendeva nelle cose del sesso.
Quanto a Madeleine, era sottoposta agli esorcismi. Di fatto, esorcismi graduali, che non
facevano ancora appello a tutte le procedure di espulsione del Demonio. Per esempio, la si faceva
comunicare due volte al giorno, la si aspergeva leggermente di acqua benedetta, le si applicavano delle
reliquie e dei crocifissi sulle parti scoperte del corpo, la testa, il collo, le braccia, questo per preparare
il suo animo a lunghe ore di interrogatorio. Si sperava che una sua parola avrebbe favorito la
liberazione, avrebbe almeno fatto muovere il Maligno, l’avrebbe stanato.Ma non si era ancora arrivati
alle grandi ingiunzioni.
D’altronde lei si prestava docilmente a quelle pratiche, aiutava in quel lavoro che le marcava il
corpo portando cilici e ogni sorta di indumenti di penitenza. Aveva sotto la camicia una cintura di
crine che non la abbandonava quasi mai. D’altra parte, molte tra le altre giovani orsoline la imitavano,
convinte bisognasse condividere il peccato e la sua espiazione. Il crine, la tela cruda irritavano la pelle,
graffiavano i capezzoli, escoriavano i fianchi, infiammavano le carni nelle parti più sensibili. Un
dolore incontenibile, che sfociava in preghiere, in suppliche, in invocazioni.
Oggi, a Aix, quando si passa davanti ai muri e all’alta porta di legno chiusa di quello che
doveva essere il convento, in rue Mérindol, si è vinti da uno strano sentimento di compassione e di
inquietudine. Qualche casa vetusta. Un marciapiede stretto. Oltre il muro, un ramo d’albero dal quale
si drizza qualche pallida foglia. Delle viuzze che portano i nomi coloriti di “rue des Muletiers”, “rue
de la Treille”, “rue Noustre-Seigno”, ancora qualche bottega di artigiano, falegnami, materassai, che
sembrano emergere dal passato, biancheria stesa alle finestre, una piazzetta, minuscola – la place des
Fontêtes – dove tra due olmi canta una fontanella, e che comincia, nonostante la sua esiguità e
l’eleganza della sua pavimentazione, a trasformarsi in parcheggio per automobili e ciclomotori. Nelle
vicinanze abitano numerosi lavoratori immigrati, i borghesi benestanti hanno da tempo raggiunto le
zone residenziali lontane dal centro. Certi giorni, in particolare la domenica, il rione prende un aspetto
di quartiere arabo, di casbah. Ma, durante la settimana, gli abitanti sono calmi, pacifici, discreti,
assoggettati con pazienza ai ritmi di un lavoro ingrato, allo sfruttamento degli albergatori, dei
proprietari di locali di ogni sorta, dei venditori di sonno. Curiosamente, con i suoi usi, le sue abitudini,
i suoi costumi, questa popolazione richiama, forse più di quella nativa, dispersa dalle migrazioni
urbane, i modi di vita del 1610, quanto meno al livello della strada e dei cortili. Ma il convento di
quelle giovani della buona società è ancora allo stesso posto. Con quel carico di silenzio soffocante
che sembra pesare sulla viuzza tranquilla, dove, spenti per sempre, sembrano imprigionati i sospiri
repressi, le grida soffocate nelle gole, i singhiozzi convulsi, i dolori della carne ferita e mortificata, i
lamenti del desiderio e della solitudine, i deliri del sogno. Piccola strada calma, all’ombra dei grandi
muri, tra le facciate grige. Rari passanti in quel mattino d’autunno. Ramo d’albero mosso dal vento.

Beninteso, sottoposta agli interrogatori, Madeleine continuava a parlare. A padre Pauly,


venuto in soccorso di padre Billiet, diceva di sentirsi sempre più smarrita, che le pareva di “cadere”
per un nonnulla, e restare “priva di sentimento”. Aggiungeva che la memoria ormai le faceva difetto,
nel fornire particolari sulle “dette abominazioni” che aveva già ricordato. Tuttavia, ricordava
benissimo che Messer Louis le aveva “dato come famiglio un Demonio in guisa d’uomo, che la
accompagnarebbe dappertutto”: Diavolo del quale descriveva con precisione l’abito verde. Ed anche
che, l’anno precedente, a Natale, durante la messa di mezzanotte, lo stesso Louis l’aveva obbligata “a
rinnegare Dio, la Santissima Trinità, la Passione di Nostro Signore”. Infine, e soprattutto, che le aveva
fatto scrivere, per concludere il patto col Diavolo, “una cedola che avea firmato con il suo sangue”.
Una cedola (così era designata una striscia di carta sulla quale veniva redatto un documento giuridico,
contratto o citazione) diverrà uno dei leitmotive dell’istruttoria, citato a profusione nel processo, come
qualcosa di affascinante, ossessionante: vero è che la si considerava firmata col sangue di Madeleine,
sangue ottenuto, come confesserà lo stesso Gaufridy, incidendo con un punteruolo il mignolo della sua
mano destra. Madeleine, comunque, non si accontentava di queste affermazioni. Le sottolineava con le
sue manifestazioni, le sue grida, i suoi gesti, le sue eterne contorsioni. E, a questo proposito, si passava
da un prodigio all’altro. Le veniva posto il ciborio sul capo e sulle braccia: balzava come una demente

41
“scagliando a terra parecchie cose, come una grossa croce, libri e altri mobili che si trovavano nella
cappella”. Le veniva mostrata la croce: “Soffiava con grande strepito rovesciando gli occhi in strana
guisa.” Il Diavolo stesso, d’altronde, secondo padre Pauly, aveva finito con manifestarsi, dicendo “che
sortirebbe allorché Louis si fosse convertito a Dio” (strano proposito!) o, meglio, “non se ne
andarebbe se Louis non si fosse convertito o fosse morto” (proposito ancora più sorprendente!). Le
giovani suore erano più che atterrite: nei giorni che seguirono queste dichiarazioni, dieci di esse
abbandonarono il convento “non potendo risolversi a vivere tra gli indemoniati”. Per di più, Madeleine
deperiva, non mangiava, non dormiva. Tutto quello che toccava diveniva sospetto. Perfino quella
famosa noce italiana, offertale da Louis, e che conservava con paura e febbrilmente (di certo
amorosamente), e che le giocava brutti tiri: si era provato a “romperla con delle pietre”, a bruciarla “in
un braciere di fuoco”, resisteva a tutto, era incantata, stregata.
Le cose andavano dunque di male in peggio, e la giovane non aveva più ragione alcuna di
mettere un freno alle sue rivelazioni. Confessava cento volte di aver avuto “conoscenza e coabitazione
carnale” con Louis. E, per non lasciare nulla nell’ombra, aggiungeva che lui le aveva rivolto gravi
minacce nel caso lei avesse rifiutato di lasciare la vita monastica e di sposarsi per meglio darsi a lui:
“Io farò in sorte che tu sia stranamente tormentata a mia cagione e in tale modo che sarai costretta a
trascinarti ventre a terra con grandi dolori e visioni di diavoli molto spaventevoli” (cosa che, ahimé, le
accadeva!). Se lei avesse, invece, rinunciato al convento e si fosse prestata ai suoi desideri, le avrebbe
garantito ogni sorta di “comodità”, compresa quella di non ritrovarsi incinta, o allora: “Avrò la
comodità di godere di te tutte quante le volte che mi piacerà... e non appena ti avrò coperto, ti darò a
bere certa polve di cotale efficacia che farà che i figliuoli che potrai da me avere non mi somiglieranno
punto, per modo che da nessuno si possa giudicare male di me...” Tali erano i propositi di Madeleine,
e il suo trepidante discorso sul godimento.

Essendo assolutamente necessario confrontare tutto ciò con le eventuali dichiarazioni di


Gaufridy, venne nuovamente incaricato della delicata missione padre Billiet. Ma, questa volta, nessuna
lettera. Fu inviato direttamente alle Accoules. Louis, sempre più stanco, ma sorridente, gli disse con
tono calmo che “vi erano state tra lui e Madeleine familiarità e libertà in grande quantità e che ella
l’aveva amato, ma tutto era accaduto senza alcun male”, negando formalmente e con ostinazione “la
conoscenza e copulazione carnale”; quanto alla noce che aveva riportato, “se vi era maleficio, ne
sapeva punto”.

42

Potrebbero piacerti anche