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Corso di Etnomusicologia LM Modulo A

Docente Serena Facci, a.a. 2020/21


Titolo del corso: Etnomusicologia e voce
Selezione di articoli e capitoli di libro
Corso di Etnomusicologia LM Modulo A
Docente Serena Facci, a.a. 2020/21
Titolo del corso: Etnomusicologia e voce
Selezione di articoli e capitoli di libro PARTE 2
Casi di studio
5. Giorgio Adamo, La voce e l’identità culturale: uno sguardo sulle tradizioni
musicali dell’Italia meridionale [versione italiana] in La vocalité dans les pays
PARTE 1
d’Europe méridionale et dans le bassin méditerranéen, a cura di L. Charles-
Gli studi sulla voce in ambito umanistico: vocalità/oralità/linguaggi Dominique e J. Cler, Saint-Jouin-de-Milly, Édition Modal, 2002.
1. Paul Zumthor, Introduzione, in La presenza della voce, Bologna, Il mulino, 1984 6. Serena Facci, Il fluire del canto-parlato, due casi a confronto, in Verso una
(ed.or. Paris 1983) . musicologia Transculturale. Scritti in onore di Francesco Giannattasio, a cura di G.
Adamo e G. Giuriati, Roma, Neoclassica, 2020.
2. Adriana Cavarero, Introduzione, in A più voci. Filosofia dell’espressione vocale,
Milano, Feltrinelli 2005. 7. Serena Facci, Voci, dal cap. 2 di S. Facci, P. Soddu, Il Festival di Sanremo.
Parole e suoni raccontano la nazione, Roma, Carocci 2011.
3. Steven Feld, Aron A. Fox, Thomas Porcello, David Samuels, Vocal
Anthropology. From the music of Language to the Language of Song, in A. Duranti 8. Serena Facci, The voice that gives voice. Female folk revival singers around
(ed.) A Companion to Linguistic Anthropology, Blackwell, 2004. 1968, in S. Facci and M. Garda (eds), Female voice in XX Century, Routhledge,
2021.
4. Francesco Giannattasio, Dal parlato al cantato, in Enciclopedia della musica, a
cura di J.J. Nattiez, vol. V “L’unità della musica”, Torino Einaudi, 2005. 9. Jayna Brown, Black Sonic Refusal, in S. Facci and M. Garda (eds), Female voice
in XX Century, Routhledge, 2021.

IN APPENDICE 10. Cardilli e Stefano Lombardi Vallauri, L’arte orale. Poesia,


Per i non frequentanti: musica, performance Torino, Accademia University Press, 2020.
https://www.academia.edu/44750835/L_arte_orale_Poesia_musica_performance
Bertil Malmberg, Manuale di Fonetica Generale, pp. 111-123 lettura consigliata a
complemento del video: Incontro con Franco Fussi. Come funziona la voce, da Da questo volume scaricabile gratuitamente studiare gli articoli di:
ascoltare obbligatoriamente e reperibile al Link: - Michela Garda, Arcipelago voce, pp.158-185.
https://www.youtube.com/watch?v=56ebjXZopEE - Nicola Scaldaferri, Il canto dei passi: voce e ritmo del corpo nella
performance dei canti epici del Kossovo, pp. 186- 201.
Per gli studenti LICUS frequentanti e non frequentanti: - Alessandro Bratus, L’oralità simulata: produzione sonora e dimensione
empatica della voce nella canzone registrata, pp. 202-224.
E’ possibile sostituire uno degli articoli della seconda parte con:
Gabriella Santini L’italiano come lingua due in F. Ferrari, G. Santini, Musiche Si può sostituire uno degli articoli con: Enrico Pitozzi, La voce che dischiude:
inclusive, Universitalia, Roma poetica, profetica, sonora, pp. 281-300 (consigliato per gli studenti di
Spettacolo).
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Titolo del corso: Etnomusicologia e voce
Selezione di articoli e capitoli di libro

PARTE 1
Gli studi sulla voce in ambito umanistico:
letteratura orale, filosofia, antropologia,
musicologia, etnomusicologia
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Selezione di articoli e capitoli di libro

1. Paul Zumthor, Introduzione, in La presenza


della voce, Bologna, Il Mulino, 1983
(prima ed. or. Paris 1983)
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Selezione di articoli e capitoli di libro

2. Adriana Cavarero, Introduzione, in A più voci.


Filosofia dell’espressione vocale, Milano,
Feltrinelli, 2003.
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Selezione di articoli e capitoli di libro

3. Steven Feld, Aron A. Fox, Thomas Porcello,


David Samuels, Vocal Anthropology. From the
music of Language to the Language of Song, in
A. Duranti (ed.) A Companion to Linguistic
Anthropology, Blackwell, 2004.
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4. Francesco Giannattasio, Dal parlato al


cantato, in Enciclopedia della musica a cura di
J.J. Nattiez, vol. V “L’unità della musica”, Torino
Einaudi, 2005.
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Francesco Giannattasio
Dal parlato al cantato, in J.-J. Nattiez ( a cura di), Enciclopedia della musica,
vol. V, Einaudi, Torino 2005, pp.1003-1036.
ISBN 88-06-15942-9
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PARTE 2
CASI DI STUDIO
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5. Giorgio Adamo, La voce e l’identità


culturale: uno sguardo sulle tradizioni musicali
dell’Italia meridionale
[versione italiana di La voix et l’identité culturelle: un regard sur les traditions du Sud
de l’Italie, in La vocalité dans les pays d’Europe méridionale et dans le bassin
méditerranéen, Actes du colloque de La Napoule (06), 2 et 3 mars 2000, a cura di L.
Charles-Dominique e J. Cler, Édition Modal, Saint-Jouin-de-Milly 2002, pp. 129- 142].
La voce e l’identità culturale: uno sguardo sulle tradizioni dell’Italia meridionale.

di Giorgio Adamo

Nel linguaggio parlato la voce ha un grande potere di rappresentare e rivelare l’identità


culturale. Quando io parlo francese, chiunque di madrelingua francese è in grado di individuare la
mia provenienza italiana, a prescindere dalla eventuale correttezza grammaticale e lessicale delle
frasi che pronuncio. Ciò avviene normalmente tutte le volte che si è appresa una lingua da adulti,
quando cioè l’apprendimento non si è basato su quel lento processo di acculturazione che si realizza
nei primi anni di vita del bambino per il solo fatto di crescere nella cultura. Anche all’interno
dell’area linguistica dell’italiano – e immagino sia lo stesso per molte altre lingue - è in genere
estremamente difficile mascherare la propria provenienza regionale. Ciò significa che il modo di
parlare è una sintesi complessa e dinamica di una serie di parametri acustici, nella quale anche le
più piccole differenze sono rilevate dall’apparato uditivo di chi ascolta, e interpretate di
conseguenza.
Come nel parlato, la voce cantata può essere considerata un concentrato di fattori dipendente
dalla cultura. Anche il canto, quindi, ha un grande potere di rappresentare e rivelare l’identità
culturale. Se consideriamo l’indagine etnomusicologica come studio dell’identità in musica, vale a
dire uno studio che cerca di individuare nei tratti e nei comportamenti musicali l’espressione di una
specifica appartenenza culturale, l’analisi degli stili di canto può divenire particolarmente
significativa.

Le tradizioni vocali del sud d’Italia rappresentano da questo punto di vista un terreno di
indagine particolarmente interessante. In quest’ambito il rapporto tra musica e identità può essere
affrontato fondamentalmente da tre punti di vista:
1) lo stile di canto come elemento differenziale e caratteristico di culture musicali
individuate in termini socio-economici (analisi differenziale sincronica “verticale”);
2) lo stile di canto come elemento differenziale e caratteristico di singoli paesi o di aree
geografiche all’interno di una stessa cultura musicale (analisi differenziale sincronica
“orizzontale”);
3) lo stile di canto come elemento di continuità e/o cambiamento all’interno di una cultura
musicale o di una comunità (analisi differenziale diacronica).
In questa sede mi limiterò a presentare un esempio dettagliato di analisi relativo al punto 1).
Spero infatti in questo modo di illustrare adeguatamente un metodo di indagine sul rapporto tra
voce e identità culturale che in quanto tale può essere facilmente utilizzato anche per gli altri tipi di
analisi.

Intendo dunque proporre un confronto tra due brani registrati da Lomax e Carpitella nel
Gargano (Puglia) nel 1954.1 Le ricerche sul campo di quegli anni furono particolarmente importanti
per l’etnomusicologia italiana, soprattutto perché portarono Carpitella a differenziare tra diversi

1
I due brani sono inclusi nell’antologia Southern Italy and the Islands, collected and edited by A. Lomax and D.
Carpitella, Columbia KL 5173, LP 33rpm, 1957, ripubblicata in Italia con il titolo Folklore musicale italiano, vol. 2,
PULL QLP 108, LP 33rpm, 1973.
livelli di “popolare” nella musica di tradizione orale in Italia. Da una parte vi era la musica della
fascia folklorica artigiana urbanizzata, fortemente influenzata dalla musica ‘colta’ europea;
dall’altra si individuava una musica della fascia agro-pastorale, per lo più sconosciuta fino ad allora,
ricca di elementi estranei al mondo musicale delle classi dominanti. I due brani in questione sono
particolarmente rappresentativi dei due diversi ‘mondi’ musicali e si prestano in modo esemplare a
una analisi differenziale. Da sottolineare il fatto che i due brani sono stati registrati nello stesso
periodo in due paesi a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro: sono quindi veramente
espressione di una ‘distanza’ esclusivamente socio-culturale.
Brano A : Romanza, voce e chitarra, registrato a Sannicandro il 22 Agosto 1954.
Brano B : Alla carpinese, voce e chitarra battente, registrato a Carpino il 23 Agosto 1954.

Le denominazioni dei due brani e l’uso dei due diversi strumenti di accompagnamento sono
già indicativi di una diversa collocazione sociale delle due esecuzioni. Il termine Romanza è
evidentemente di estrazione colta. La denominazione Alla carpinese, cioè “alla maniera di
Carpino”, è un esempio dell’abitudine - frequente nel mondo agro-pastorale dell’Italia centro-
meridionale - di concettualizzare un canto come ‘maniera’ di cantare, e di identificare spesso
quest’ultima attraverso il paese di appartenenza. Questo concetto di canto “alla maniera di...” non si
riferisce allo stile di canto nel senso in cui si intende normalmente nella cultura occidentale e nella
stessa etnomusicologia (e anche nel presente saggio) ma al canto nel suo insieme, con la sua forma
musicale e la sua melodia, ma indipendentemente dal testo verbale. Questa terminologia è
estremamente significativa perché rivela, in questo tipo di repertori pastorali e contadini, la
concettualizzazione di un modello formale di esecuzione e non di un “canto” specifico. Il fatto che
il modello formale sia molto spesso indicato con un riferimento al paese è indicativo di un modo di
concettualizzare la “maniera” di cantare in termini di identità culturale.2
Per quanto riguarda gli strumenti, la chitarra è, insieme alla fisarmonica, lo strumento più
diffuso presso la fascia artigiana urbanizzata, mentre la chitarra battente è uno strumento presente in
quegli anni soprattutto in alcune aree della Puglia e della Calabria, esclusivamente in ambito agro-
pastorale.

Analisi differenziale dello stile di canto nei due brani.

L’analisi spettrografica dei due brani consente di confrontare il comportamento vocale


secondo una serie di parametri. (I punti di riferimento sugli spettrogrammi sono indicati in secondi,
così come appaiono nei grafici sull’asse delle x).

Profilo melodico

Il profilo melodico presenta un andamento fortemente differenziato. Nel brano A prevale la


tipologia ‘ad arco’: considerando l’intera macrostruttura musicale quadripartita (ABCD), la nota

2
Ho discusso altrove questo aspetto a proposito della presenza di due diverse “maniere” di canto accompagnato dalla
zampogna nel paese di Tricarico (Matera, Basilicata): Alla tricaricese ( = alla maniera di Tricarico) e Alla stiglianese (
= alla maniera di Stigliano, un paese non lontano), cfr. G. ADAMO, L’indagine etnomusicologica come studio
dell’identità in musica, «Studi Musicali» 1999/1, pp. 279-307.
più grave coincide con la nota iniziale e con la nota finale mentre la nota più acuta è raggiunta nella
seconda frase (B); inoltre ognuna delle quattro frasi, corrispondente a un endecasillabo, compie a
sua volta un arco melodico.
Il brano B è chiaramente discendente. Il suo andamento corrisponde in larga misura alla categoria
delle “melodie a picco” proposta da Curt Sachs.

Ambitus e registro

Il brano A ha un’estensione di circa un’ottava, tra 151 Hz (mib3 -52 cents) e 304 Hz (mib4 -38
cents).3 Le misurazioni sono molto precise in quanto sono state effettuate su punti specifici nello
spettrogramma, 151 Hz sulla nota finale (a circa 32s, v. Fig. 1 e Fig. 5) e 304 Hz sulla terza nota
della seconda frase (a circa 13,5s in corrispondenza della sillaba /ma/ di /mattina/, v. Fig. 1 e Fig.
3). E’ importante considerare che la voce è uno strumento a intonazione assai variabile, e quindi i
dati in Hertz e cents rilevati in un specifico istante sono da considerarsi soltanto indicativi.
Il brano B ha una estensione di un’ottava crescente, tra 265 Hz (do4 +21 cents) e 553 Hz (do5 +77
cents). L’intonazione più acuta è stata rilevata sulla sillaba /le/ di /palella/ a circa 45,8s (v. Fig. 6 e
Fig.7). La più grave sulla nota finale, a circa 55,5s (v. Fig. 6 e Fig. 9).
E’ assai evidente e significativa la differenza di registro tra le due voci.

Trattamento dell’intonazione

E’ questo uno degli aspetti differenziali più interessanti.


Nel brano A le caratteristiche più significative sono:
- la presenza di un vibrato abbastanza regolare, molto evidente sulle note “lunghe” (ad es. in Fig. 2
tra 8,3s e 11,6s);4
- la tendenza a “riempire” gli intervalli con portamenti-glissandi ascendenti e discendenti, v. ad es.
in Fig. 2 l’attacco della seconda sillaba, /co/, con un portamento ascendente della durata di oltre 6
decimi di secondo a partire da 4,4s, e all’inizio della Fig. 5 la /a/ tra 27,3s e 28s;
- questa tendenza crea spesso, in corrispondenza del raggiungimento delle note più acute, un vero e
proprio profilo di intonazione ad arco, con lieve salita e discesa nell’ambito di una stessa sillaba: v.
ad es. Fig. 2 tra 6,3s e 7,6s in corrispondenza della seconda /a/ di /guardiano/, e Fig. 4 sulla /o/ tra
21,9s e 22,8s, e sulla /a/ tra 23,7s e 24,5s;
- anche nelle note più brevi, di durata non supperiore a 2-3 decimi di secondo, prevale un
andamento oscillante o “obliquo” dell’intonazione.

Nel brano B risulta evidente a prima vista un diverso modello di intonazione.:


- sui grafici prevale un tracciato piuttosto “lineare” per ogni sillaba, con una assenza quasi totale di
vibrato;

3
Si adotta qui lo standard ANSI di codifica delle note, poco consueto in ambito musicologico europeo ma prevalente in
acustica in campo internazionale, per cui C 4 è il do centrale del pianoforte e A4 il la di 440 Hz.
4
In uno spettrogramma con le frequenze rapppresentate in modo lineare sull’asse delle y, le variazioni di intonazione
appaiono ovviamente più evidenti verso l’alto: una differenza di 10 Hz su una fondamentale di 250Hz diventa una
differenza di 100Hz sul 10° armonico.
- sono presenti oscillazioni e “obliquità” dell’intonazione ma in modo piuttosto irregolare, quasi
sempre di minima ampiezza, e probabilmente dovute anche alle condizioni di articolazione fonetica
delle diverse sillabe;
- il passaggio da una nota all’altra è spesso “brusco” con attacchi delle note piuttosto precisi e
lineari: si veda in Fig. 7 la discesa melodica sulle sillabe /va/ /pe/ /fo/ , tra 46,6s e 48,2s.

Trattamento dell’intensità (dinamiche)

L’andamento dell’intensità si può rilevare sugli spettrogrammi sia seguendo l’ampiezza della forma
d’onda, riportata nella parte inferiore, sia nel tracciato rms rappresentato nella parte superiore (nelle
Figg. 2-5 e 6-8), con i riferimenti in dB sull’asse delle y. E’ immediatamente visibile come questo
parametro sia fortemente coerente con l’andamento delle frequenze.

Nel brano A:
- gli attacchi e smorzamenti del suono sono relativamente “morbidi”, in genere della durata di
almeno un decimo di secondo;
- tra la fase di attacco e quella di smorzamento prevale un andamento leggermente “ad arco”, quasi
una “messa di voce” del tipo piano-forte-piano (questo fenomeno è ben visibile nella forma d’onda
in basso nei grafici, che progressivamente si allarga e si restringe su ogni sillaba);
- a livello microtemporale, si rileva pressoché costantemente una oscillazione dell’intensità che
talvolta assume la forma di un vero e proprio vibrato di ampiezza; tale vibrato è strettamente
connesso al vibrato di frequenza: a volte è ad esso parallelo, cioè all’aumento della frequenza
corrisponde un aumento dell’intensità; a volte, però, può essere influenzato dalla posizione delle
formanti vocali, vale a dire che nell’ambito del movimento oscillante degli armonici, in alcuni
momenti uno o più armonici possono avvicinarsi maggiormente al picco delle frequenze formanti
ed essere quindi rinforzati; mentre nel primo caso la maggiore o minore ampiezza è determinata dal
meccanismo di fonazione alla glottide (maggiore frequenza = maggiore ampiezza), nel secondo
caso è determinata dalle proprietà di risonanza del tratto vocale (coincidenza di armonici con il
picco delle formanti = maggiore ampiezza); in tutti e due i casi l’oscillazione di ampiezza è legata
alla oscillazione della frequenza; se si osserva in Fig. 2 il vibrato sulla /e/ tra 8,3s e 10,2s si può
notare come i picchi di intensità (nel tracciato rms in alto) spesso non coincidano con i picchi di
frequenza;
- a livello macrotemporale, se si confronta l’intensità delle diverse sillabe nella frase,
l’andamento sembra influenzato dai seguenti fattori: l’andamento melodico, per cui
tendenzialmente a nota più acuta corrisponde maggiore intensità; la metrica del verso, per cui le
sillabe accentate dell’endecasillabo implicano in genere un certo “carico” di intensità; l’accento di
parola; la fonetica del testo, per cui alle vocali aperte come la /a/, e in misura minore la /o/ aperta,
corrisponde maggiore energia che alle vocali chiuse come /i/ e /u/; un fattore espressivo-musicale
per cui in conlusione di ogni frase si ha un lento smorzamento verso il pianissimo su note lunghe; il
risultato della combinazione di tutti questi fattori nel primo verso è approssimativamente il seguente
(l’accento acuto indica l’accento di parola, la vocale sottolineata i due accenti metrici principali):

Ni - có - la guar - di - á - no fó - ra sté - va
intensità in dB: - 29 -22 -21 -22 -25 -20 -25 -26 -27 -27/-34 -34/-42.
Nel brano B:
- attacchi e smorzamenti del suono sono estremamente bruschi, creando un andamento della curva
di intensità quasi rettangolare;
- tra attacco e smorzamento prevale un andamento dell’intensità piuttosto lineare, senza eccessive
variazioni e senza l’emergere di uno specifico “modello” di modulazione dell’intensità: le piccole
differenze tra sillaba e sillaba sembrano dipendere dalla struttura fonetica delle sillabe che implica
una diversa articolazione;
- a livello microtemporale non si rilevano significative forme di oscillazione e tanto meno di vibrato
di ampiezza; anche in questo caso si può parlare di coerenza con l’andamento non vibrato e poco
oscillante della frequenza;
- a livello di sillabe e frase si rileva: una tendenza dal forte al piano, abbastanza in parallelo con
l’andamento della frequenza dall’acuto al grave, evidente soprattutto nelle Figg. 8 e 9; interessante
osservare, in Fig. 9, come alla ripetizione della frase “ve ‘la case di” corrisponda la ripetizione di
un modello forte-piano, il che fa pensare che sia l’unità linguistico-semantica della frase a
strutturarsi secondo un modello espressivo forte-piano (modello che nel mondo agro-pastorale
dell’Italia centro-meridionale si riscontra di frequente anche nel parlato); molto evidente appare
l’influenza della diversa sonorità delle vocali, soprattutto nel contrasto tra /a/ e /i/, e del diverso
rapporto tra posizione degli armonici e posizione delle formanti nel corso del canto: tale contrasto
/a/-/i/ viene infatti attutito quando l’intonazione è molto acuta, come all’inizio del canto (in Fig. 7
da 43,2s a ca 46s), dove vi sono solo cinque-sei armonici nell’area delle formanti vocali (all’incirca
tra 0,5 e 3 kHz) e quindi le differenze tra le vocali diminuiscono (e infatti il testo diviene quasi
incomprensibile), mentre diventa sempre più marcato man mano che la fondamentale scende e la
densità degli armonici aumenta (v. Figg. 8 e 9).

Configurazione dello spettro armonico

La configurazione dello spettro armonico nelle due esecuzioni sembra rispecchiare le diverse
caratteristiche della fonazione, in parte legate al diverso registro vocale e al diverso trattamento
dell’intensità.

Nel brano A prevale una voce “naturale”, con emissione rilassata, senza sforzo vocale, quindi senza
particolare pressione alla glottide, probabilmente con posizione bassa della laringe; lo spettro del
suono prodotto alla glottide è quindi evidentemente caratterizzato da una curva di decadimento
degli armonici piuttosto ripida, mentre la posizione delle formanti vocali tende a restare piuttosto
bassa; il risultato di tutto ciò, visibile sugli spettrogrammi, è una concentrazione dell’energia
generalmente entro i primi 1500 Hz (v. Fig. 1), grazie anche al prevalere di vocali come /a/ e /o/,
mentre soltanto in presenza della vocale /e/ si mettono in evidenza, ma sempre in modo limitato, gli
armonici intorno a 1900-2000 Hz, grazie alla seconda formante vocale (v. Fig. 2 tra 8,3s e 10,2s,
Fig. 3 tra 14,3s e 15,2s e tra 16,8s e 18,8s). Al di sopra di questo ambito vi è una scarsa presenza di
armonici significativi, e risultano appena visibili la terza formante intorno a 2400-2600 Hz, e - in
minima parte - una quarta zona di risonanza oscillante nell’ambito 3000-4000 Hz (v. Fig. 1). Non si
evidenzia alcuna formante del canto (singing formant).
Nel brano B riscontriamo un tipico esempio di emissione vocale caratteristica della fascia pastorale
e contadina: forte tensione muscolare, sforzo vocale con notevole pressione alla glottide, posizione
alta della laringe, con il risultato di uno spettro alla sorgente ricco di energia negli armonici
superiori, e posizione alta delle formanti. Osservando la Fig. 6 si nota uno spettro ricco di armonici
fin quasi a 6000 Hz, con un blocco piuttosto compatto fino a 3000 Hz, almeno fino a che la
fondamentale rimane al di sopra dei 300 Hz. Ciò conferma lo stretto rapporto esistente tra
intonazione acuta, sforzo vocale e spettro “compatto”. Come già notato più sopra a proposito
dell’andamento dell’intensità, in queste condizioni la differenza tra le diverse vocali si riduce
fortemente. Si osservi la sequenza iniziale /e/-/i/-/a/-/e/-/a/-/e/-/e/-/a/-/a/-/ε/-/ae/-/a/-/e/-/o/ tra 43,2s e
48,2s (Figg. 6 e 7): la poca differenziazione tra le vocali è dovuta a una posizione alta delle prime
due formanti, a una loro notevole ampiezza di banda, e alla presenza di una chiara singing formant
tra 2500 e 3000 Hz (che soltanto dopo 46s, con lo scendere della fondamentale e l’aumento di
densità degli armonici, comincia a differenziarsi come terza formante); la quarta formante sembra
addirittura oscillare tra 3500 e 5000 Hz (Fig. 6). Si noti come all’inizio del canto, sulla seconda e
terza sillaba, evidentemente in corrispondenza di una forte pressione alla glottide, quest’ultima
formante lasci emergere un’ottavo armonico, intorno a 4300-4400 Hz, di intensità analoga ai primi
cinque!

Considerazioni finali

L’analisi dei più importanti parametri del suono vocale nei due brani ci ha dunque presentato un
quadro fortemente differenziato. Quello che soprattutto ritengo importante sottolineare è il rapporto
reciproco di “coerenza” esistente tra i diversi parametri e la loro sostanziale interdipendenza. E’ in
sostanza la “sintesi” coerente tra i diversi parametri che possiamo definire come lo specifico “stile
vocale” di un determinato brano. Purtroppo non è possibile affrontare direttamente in modo
descrittivo il processo di sintesi dei parametri del suono che viene operata dal cervello nel momento
in cui si crea nella corteccia cerebrale una sorta di “rappresentazione sonora” della musica che si
ascolta. Occorre pertanto essere consapevoli che la separazione dei diversi parametri del suono è
una forzatura necessaria ai fini della descrizione di un fenomeno complesso, ma che tali parametri
sono in stretta interdipendenza l’uno dall’altro sia nel momento della produzione del suono che in
quello della percezione. Proprio per questo, del resto, la forma sonora che la voce assume nel canto
come risultato di una sintesi complessa di molteplici variabili è un così potente ed efficace
strumento di espressione e comunicazione dell’identità culturale.

Nota sugli spettrogrammi

Le analisi acustiche sono state effettuate dall’autore presso la Discoteca di Stato in Roma,
utilizzando il sistema S_TOOLS realizzato dal Laboratorio di ricerca sul suono dell’Accademia
Austriaca delle Scienze. Negli spettrogrammi è rappresentato il tempo (scandito in secondi)
sull’asse delle x e le frequenze sull’asse delle y. Il segno più scuro o più chiaro indica maggiore o
minore presenza di energia. Nella parte inferiore dei grafici appare la forma d’onda. Nelle Figure 2-
5 e 7-9 è aggiunto nella parte superiore il tracciato dell’intensità rms, con relativa scala in dB
sull’asse delle y.
Poiché la segmentazione ai fini dell’analisi spettrografica si è basata su unità musicalmente
significative, la porzione temporale che appare in ciascun grafico non è uniforme, come risulta dalla
maggiore o minore densità della scala in secondi.
Sui grafici delle Fig. 2-5 e 7-9 è stato trascritto manualmente il testo verbale relativo.

Testi verbali:

Brano A - Romanza:

Nicuola guardiano fore steva Nicola il guardiano stava fuori


Sempre matina e sera addiavulate da mane a sera era indiavolato
Nu juorno camminando era di maggio un giorno camminando – era di maggio -
E’nanzi la trovò tanne l’amaj me la trovai dinnanzi e l’amai tanto

Brano B - Alla Carpinese:

Pigliatela la palella, e ve’ pe’ foco, Prendi la paletta e vai a cercare il fuoco
Ve’ alla casa di lu’ nnamurate vai alla casa della tua innamorata
Pija joco e divertiti
6. Serena Facci, Il fluire del canto-parlato, due
casi a confronto, in Verso una musicologia
Transculturale. Scritti in onore di Francesco
Giannattasio, a cura di G. Adamo e G. Giuriati,
Roma, Neoclassica, 2020
Il fluire del canto-parlato:
due casi a confronto
Serena Facci

Uno dei contributi dell’etnomusicologia alla musicologia generale è l’aver indagato sui
confini tra il parlato e il cantato e sulla relazione tra le formalizzazioni poetiche e quelle
melodiche. Per una buona parte del XX secolo molti etnomusicologi hanno lavorato
per la messa in chiaro di modelli e regole linguistico-musicali implicitamente contenute
nelle performance vocali, e la maggiore o minore definitezza intonativa, la particolarità
dei profili melodici o prosodici,1 la percezione di una versificazione più o meno regolare
hanno messo a dura prova le loro interpretazioni. Imprescindibili sono state anche le
motivazioni di quelle performance, che, a seconda delle concezioni e delle occasioni
specifiche, acquisivano un valore più o meno ascrivibile a un orizzonte musicale o lin-
guistico, al dominio dell’espressività ordinaria o artistica. Francesco Giannattasio (2002,
2005) ha messo in luce ulteriori nodi critici della discriminazione cantato/parlato, quali
la collocazione della “musicalità” del parlato nell’oratoria o la definizione di cosa sia la
poesia, divenuta nel corso dei secoli in Occidente organizzazione ritmico-fonetica del
parlato, sostanza verbale del cantato, espressione artistica del linguaggio, e anche altro.
L’ampio dibattito sviluppatosi in Italia sul verso cantato negli anni Ottanta-Novanta,
ispirato anche dagli studi sul passaggio tra l’oralità e la scrittura nella poesia antica, ruo-
tava intorno al tema, messo in luce da Carpitella (1994), dell’“incrocio dei due codici”,
letterario e musicale, e dell’esistenza, evidenziata da Cirese (1988), di “ragioni metriche”
1
Su questi due parametri si basano molte categorizzazioni sistematizzate nell’etnomusicologia a comin-
ciare dallo schema a losanga approntato da George List (1963) per illustrare la sua idea di continuum dal
parlato al cantato.

235
facci

pur all’interno di repertori creati, memorizzati e trasmessi prevalentemente attraverso il


canto. Fu fatto uno sforzo notevole anche per far emergere la ricchezza di singoli e prezio-
si repertori, provenienti da caparbie culture musicali in cui poeti-cantori padroneggiava-
no con destrezza i due codici, complici tra loro e difficilmente pensabili separatamente.2
In questo articolo si mettono a confronto due repertori che rientrano nei casi di
ambiguità tra parlato e cantato: gli amazina del Burundi e il rap italiano. Lontanissimi
tra loro, non sono in alcun modo collegabili storicamente, contengono però alcuni tratti
comuni. La descrizione dei due repertori tiene conto dei criteri di discriminazione che
Giannattasio propone come sintesi del lungo dibattito teorico su parlato/cantato nel
suo saggio per l’Enciclopedia della musica Einaudi (2005), al contempo organico e pieno
di spunti: 1. alterazione intenzionale del registro vocale; 2. alterazione (livellamento o
enfatizzazione) del profilo intonativo; 3. formalizzazione ritmica degli enunciati.

Amazina: un discorso poetico sul nome


I-zina (pl. amazina) in Burundi (come in Rwanda) significa “nome”3 Designa cioè i
nomi propri delle persone, degli animali – in particolare le vacche così importanti per
l’economia tradizionale di questa area – e degli elementi della natura allorché vengono
personalizzati su quel confine che, nella sensibilità religiosa propria dei culti di possessio-
ne tradizionali, distingue la natura immanente da quella trascendente. Su quel limite, il
nome di animali selvatici, luoghi o agenti atmosferici diventa nome proprio: per esempio
il leone diventa il Leone, il fulmine diventa il Fulmine (Inkuba), ovvero il temuto “re del
cielo”, che veniva placato attraverso un rituale del kubandwa allorché colpiva qualcuno
(Rodegem 1970: 241). L’uso della maiuscola è una convenzione grafica che acquista
senso sulla pagina scritta. Non si “sente” la maiuscola quando si parla o si canta, così
come possono non sentirsi le strutture di una versificazione poetica all’interno di società
a tradizione orale (come era il Burundi precoloniale) in cui i passaggi da una parte all’al-
tra di un confine (parlato/cantato; fenomeno naturale/spirito) è comunque più fluida.
Amazina è usato anche in ambito letterario-musicale per designare un genere de-
clamato volto a caratterizzare una personalità attraverso l’enfatica descrizione del suo
carattere, un panegirico che esalta soprattutto le potenzialità distruttive del nominato,
irresistibili nei confronti dei possibili nemici. Il “nome” – talvolta svelato solo alla fine
dell’ode – è parafrasato attraverso un articolato elenco di aggettivi e descrizioni elogiati-
ve. Incuba (il Fulmine) è il protagonista di una tipologia di amazina e quella che segue
è la traduzione di alcune strofe (iniziale e finali) di Amazina y’Inkuba in una esecuzione

2
Gli studi avviati da Carpitella hanno trovato continuazione nel volume curato da Maurizio Agamen-
none e Francesco Giannattasio (2002).
3
Il termine è riportato negli studi e dizionari di altre lingue dell’area con significati diversi e spesso di
ambito musicale: nome in kinyarwanda (Rwanda); danza in kiganda e runyankole (Uganda); canto di nozze
in kihaya (Tanzania).

236
i f i ca a a

registrata a Rutana nel gennaio del 1993 da un cacciatore, Liboire Kabinjiy (Esempio
audio 1):4
Sono Fulmine di giorno. Gallo spietato. Di una severità inaudita. Non c’è ferro né veleno
che mi tengano testa. Ancora meno una donna Twa. Sono Lancia-razzi. Parto come un
razzo. Mi presento d’impeto. Nulla mi ferma.

Scoppio senza paura. Miro senza ostacoli. La mia vittima non si difende. Tutto in un colpo.
Appaio ben luccicante. Mordo dove è più tenero.

Dimoro nei cieli. Sulla terra sono indaffarato. Fulmino per poi volare. Sono Rapidissimo.
Striscio a terra. Ghiottone. Strangolo la mia vittima stupita. So anche risparmiare.

Lo Sterminatore dei cieli. Il ferro è ferro. Non ragiona. È spietato. Sono Gran vagabondo.
Dormo nei cieli. E mi alzo sugli altipiani di Ijenda. Non dormo la notte. Tuono mentre
ammazzo le mie prede. Non impaurisco solo chi non mi conosce.
Adesso vi ho detto chi sono. Sono il Fulmine.5

L’effetto all’ascolto è quello di un turbine di parole inanellate velocissimamente e senza


pause percorrendo precipitosamente un profilo melodico rigorosamente discendente.
Inoltre il cantore arriva a spremere fino all’ultimo il suo fiato per concludere una serie il
più possibile lunga di epiteti elogiativi nel tempo di un solo respiro.
Firmin M. Rodegem (1919-1991) nei suoi studi sulla letteratura orale rundi (1973)
e nel Dictionnaire Kirundi-Français (1970) li definisce odi, elogi poetici, panegirici, ne
elenca le occasioni d’uso, generalmente celebrative della buona riuscita in un’impresa o
di uno scampato pericolo, e ne dà una sintetica descrizione:

L’eurythmie, la musique des mots, la multiplications des hyperboles, les archaïsmes, les
allitérations interlacées sont les principales caractéristiques du genre. Le commun de l’au-
ditoire admire la jactance et la virtuosité du diseur, mais, bien souvent, le texte lui reste
hermétique. La finesse de l’allusion et des sousentendus, les images de cette phraseologie
emphatique, creuse, ampoulée échappent aux non-initiés. La rapidité du débit des diseurs
spécialisés au coffre bien entraîné est vraiment remarquable. Ils commencent leur périodes
d’une voix de tête et, sans reprendre haleine, gardent un registre décroissant jusqu’à épui-
sement de leur souffle. (Rodegem 1970: 578)

4
Un testo molto simile è riportato anche in Rodegem (1973). I coloni europei hanno portato in Burun-
di la scrittura e alcune forme poetiche hanno circolato in epoca coloniale e postcoloniale in forma trascritta
presso le scuole e le università. In quel gennaio in Burundi non ho avuto tempo di approfondire, sul campo,
come il poeta avesse appreso gli amazina. La mia ricerca è avvenuta l’anno precedente la guerra civile del
1994, che sfociò nel terribile genocidio rwandese. Anche il Burundi fu coinvolto in quella tragedia. Dopo la
fine della guerra avevo ripreso un contatto via posta con un altro poeta, giovane studioso. Purtroppo di Eva-
riste, trasferitosi in Francia, avevo poi perso le tracce e solo successivamente ho saputo della sua scomparsa
da un comune amico. Voglio qui ricordarlo e ringraziarlo. In Burundi non sono più tornata.
5
La traduzione dei testi verbali proposti in questo articolo e la loro trascrizione sono state realizzate nel
1995 da Fabien Mvukie, lettore di francese presso l’Università della Basilicata. Anche lui fa uso delle maiu-
scole per alcuni “nomi” contenuti nel testo.

237
facci

Gli amazina sono basati su un linguaggio raffinato e conducono messaggi dai contenuti
più lirico-poetici che prosodico-narrativi, ma non sembrano rispondere dichiaratamente a
principi di versificazione quantitativa. O almeno non se ne sentono gli effetti nella perfor-
mance. Non posso affermare, per quelle che sono le mie conoscenze, se esistano principi
metrici nella selezione delle frasi che vengono cantate. Le trascrizioni contenute nel testo di
Rodegem sembrano rappresentare una versificazione, andando a capo in base al contenuto
semantico, ma non corrispondono a quanto si può ascoltare. Anche la sua descrizione del
resto attribuisce un ruolo caratterizzante del genere al profilo melodico discendente e alla
rapidità dell’eloquio, piuttosto che a forme quantitative di versificazione. “Discorso poetico”
è stata quindi la definizione che, su suggerimento di Francesco Giannattasio, ho utilizzato
in occasione di un mio intervento durante un convegno nel settembre 2006.6 Quell’estate,
per motivi di salute, avevo dovuto rinunciare a un viaggio per ricerca in Uganda e passai
molto tempo ad analizzare questo e altri repertori risultato di ricerche precedenti, speri-
mentando vari software di analisi del suono (Peek, Audiosculpt, Praat, Melodyne). Avevo
messo a confronto alcuni esempi di amazina simili nella forma pur appartenendo a tipo-
logie diverse. Oltre a quella del Fulmine, ne avevo una venatoria e una religiosa, registrata
durante una Messa e alcune in onore dei paggi guerrieri Intore,7 provenienti da materiali
che avevo reperito presso la radiotelevisione nazionale a Bujumbura.
Un estratto video esemplifica la danza degli Intore accompagnata da un cantore di
lodi che proclama amazina (Esempio video 1).8 Il testo degli Amazina y’Intore ha toni
di sfida e la vocalità del poeta non è da meno. L’analisi del profilo melodico di un’altra
strofa tratta dalla stessa fonte è realizzata con il software Praat (Fig. 1, Esempio video 2).

Ingó vyâ vyíza vyâ Mázâ, rwámâmâ vyìza


Ndí umühìzi càne
Nîrwo näbàye ímbère y’ábätába bágâtéra ámácúmû, íbïtèrwá vyá Rücóra
Abânyërêkéje íbítúgu n’ábätázi ígùhumbi künyànga
Nábàri ndáryâma ámäbáza rúhîndu
Ábàntu bárîrîmba mühígo

[Venite belli della mucca Maza, produttrice di ogni bene. / Sono un grande cacciatore. /
Sono dinanzi ai ballerini che portano le lance, con applauso unanime come per Rukora. /

6
“Poetical discours and melodic contour. The amazina of Burundi” presentazione all’European Seminar
in Ethnomusicology a Venezia, 2006, dedicato alla relazione tra parlato e cantato negli studi etnomusicologici.
7
Nel regno precoloniale del Burundi gli Intore, belli, prestanti ed eccellenti danzatori, erano essenziali
sia per la difesa del re (omwami), sia per la dimostrazione pubblica del suo potere. Dopo l’indipendenza i
gruppi di Intore, come le famose orchestre di tamburi, sono stati ricostituiti per la valorizzazione della cul-
tura nazionale, così come è avvenuto in molti paesi africani tra gli anni Sessanta e Settanta.
8
Il video è estratto dal documentario Burundi. Pays de la musique et de la danse, di Oscar Ruvuna,
prodotto dalla Radio Télévision Nationale Burundaise (ante 1993). Agli inizi degli anni Novanta la televi-
sione nazionale realizzò molti documentari di “fiction” etnografica con l’intento di preservare e divulgare la
memoria dell’enorme patrimonio di poesia e musica tradizionale. Alcuni esempi della danza degli Intore cir-
colano anche in YouTube, cfr., con commento in francese, Intore, entre la danse et l’art de la guerre <https://
www.youtube.com/watch?v=XJI26WuLXgU> (ultimo accesso: 20 luglio 2020).

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Coloro che mi hanno voltato le spalle [sono fuggiti] non sanno come muoversi. / Sanno
[solo] dormire e intrecciare cesti [fare lavori umili]. / Mentre la gente canta una sfida.]

FIGURA 1. Profilo melodico di Amazina y’Intore realizzata con il software Praat. La versione animata è
nell’Esempio video 2.

La declamazione dovrebbe seguire, pur enfatizzandolo, l’andamento prosodico del parlato,


ancor di più in una lingua tonale come è il kirundi. Negli amazina invece, pur nel minimale
rispetto dei toni, quello che più sembra contare, e mi fu confermato anche in alcune intervi-
ste, è proprio la caduta precipitosa. Una così evidente forzatura del profilo melodico sembra
aumentare la percentuale di “musicalità” presente in questo genere, se con questo termine
vogliamo indicare, con atteggiamento generalizzante e un po’ “etic”, la manipolazione a fini
estetici dei suoni. Una possibile conferma viene dalla performance di Liboire Kabinjiye, il
cacciatore che eseguì la lode del Fulmine, Amazina y’Inkuba. Prima di lanciarsi nella foga
della declamazione, fischiò una breve melodia discendente (Fig. 2, Esempio audio 2).9

FIGURA 2. Trascizione del fischio realizzato da Liboire Kabanjiye prima della esecuzione Amazina y’Inkuba. In
basso è riportata la misurazione in Hz e il rapporto in cents degli intervalli. Rutana (Burundi), gennaio 1993.
9
Registrazione da me realizzata a Rutana nel gennaio 1993.

239
facci

FIGURA 3. Realizzazione attraverso il software Melodyne della prima frase di Amazina y’Inkuba. L’analisi del
profilo melodico realizzata con il sofware Praat è nell’Esempio video 3.

Va ricordato che il sistema musicale in Burundi è pentafonico, quindi questa scala


quasi per quarti di tono non dovrebbe avere un valore musicale. Ma per il suo contenuto
melodico può, sempre nei nostri discorsi “etic”, rappresentare un modello “musicale” al
servizio della declamazione. Nella trascrizione della prima strofa di Amazina y’Inkuba
realizzata con il sofware Melodyne (Fig. 3, Esempio video 3),10 il comportamento della
voce che insiste su suoni acuti per poi scendere gradatamente verso il registro grave sem-
bra una rielaborazione più complessa della melodia fischiata da Liboire.11
La “musicalità” degli amazina del resto è, emicamente, funzionale all’obiettivo del
genere stesso. Sia Amazina y’Intore sia Amazina y’Incuba sono una sperticata lode di
personalità aggressive cantate per la loro valentìa. La forma non è da meno, la valentìa
del poeta, sintesi della ricercatezza linguistica e della prestanza performativa, deve essere
all’altezza del contenuto dell’ode, investire l’ascoltatore e stupirlo con la sua potenza di
suono, che parte dall’alto e arriva fino in fondo senza indugi.

Amir, chiamami signore


Fin dal primo incontro con gli amazina ho pensato che il Rap, che in quel 1993 era
ancora un fenomeno recente, fosse tra le esperienze contemporanee quella che più li ri-
chiamasse.12 Non perché si potesse ravvisare una qualunque forma di discendenza diretta,
quanto piuttosto per una delle tante “insolite parentele”13 che si possono intravvedere in

10
Melodyne è in grado di interpretare e rappresentare approssimativamente la frequenza prevalente in
suoni con scarso livello intonativo come sono quelli tipici di questo genere declamato.
11
È disponibile in Internet il concerto di un poeta che esegue amazina alternando il declamato a passag-
gi in poesia cantata: Ibicuba n’amazina y’inka [vacca] by Mr Torobeka Joseph, Burundi <https://www.youtube.
com/watch?v=XwOq1sp2iH0> (ultimo accesso: 20 luglio 2020). Non so dire se si tratti di un’innovazione o
di una variante che non avevo avuto modo di attestare. Ma anche questo esempio va nel segno di avvicinare
queste odi a esecuzioni anche musicali.
12
Tra i primi contributi etnomusicologici allo studio del rap ricordo Walser (1995).
13
La definizione, come noto, è stata usata da Simha Arom nei suoi studi che mettono a confronto la
polifonia dell’Africa Centrale e quella europea.

240
i f i ca a a

musiche lontane allorché per forma o funzione vi si rintraccino somiglianze. La prima


tra queste risiede ovviamente nella collocazione intermedia tra il parlato e il cantato
congiuntamente ad altri tratti formali, quali la rapidità dell’eloquio, la ricercatezza nel
linguaggio e l’uso frequente di figure retoriche. La seconda riguarda il contenuto dei testi
in particolare laddove nel rap c’è l’esplicita dichiarazione del “nome” e la sua descrizione
in formule autoelogiative, spesso in un contesto di sfida: «Sono Biggie / vivo con la sua
ambizione // portami rispetto / Amir, chiamami signore //».14
Amir Issaa è un rapper che, giovanissimo, si è avvicinato ai primi nuclei dell’Hip
Hop romano. Amir sostiene che il rap fosse l’unica soluzione espressiva per lui che ave-
va una vita difficile e tante cose da dire. Le canzoni, forse per la loro formalizzazione e
complessità melodica sembravano meno adattabili a quel tipo di urgenza comunicativa,
quel “furor del dire” (Lapassade 2009). Nel 2008 in Inossidabile, un brano autoprodotto
dopo l’abbandono di una major e che Amir stesso definisce “di svolta”, ha raccontato
la sua storia con orgogliosa rabbia prima di maturare una differente consapevolezza
sulla sua professione. Ora è performer, produttore, e soprattutto convinto sostenitore
della funzione educativa del rap. Il rap mette le ali (a chi sta in periferia) del 2015 è un
brano-manifesto in cui Amir porta se stesso a esempio dell’efficacia formativa e di pro-
mozione sociale di questo genere così diffuso e da altre parti anche discusso.15 Non sono
un’esperta di rap. Il mio dialogo con Amir è una sorta di lezione che lui fa a me.16 Nella
mia esperienza didattica però ho passato una quarantina d’anni a osservare i giovani
e l’evolvere dei loro interessi musicali. È grazie a questo che posso testimoniare come
molti universitari, esperti di elettronica in particolare, amino il rap da loro considerato
un genere musicale in linea con i tempi che stiamo vivendo, mentre altri, musicisti e
studenti di musicologia, non lo amino affatto perché non lo ritengono sufficientemente
“musicale”. Ancora una volta la discriminante parlato/cantato si allarga alla più generale
contrapposizione musica/non musica, già toccata a proposito degli amazina. Ho inviato
ad Amir il file audio di Amazina y’Inkuba per avere una sua reazione:

È come un free style. È interessante. Anche questo ripetersi è una sorta di loop. È nel nostro
mondo la ripetizione, assolutamente sì, e ti dico una cosa: mi ricorda anche quello che si
faceva in Sardegna, la sfida delle poesie. Mi riporta anche a quel tipo di vocalità [accenna
una breve melodia imitando l’attacco melodico acuto e il profilo discendente tipico degli
amazina]. È molto aggressivo, avvolgente, una cosa che colpisce. Quindi ci sta.17

14
Amir Isaa, Il rap mette le ali, <www.youtube.com/watch?v=hjh4m11nPWw> (ultimo accesso: 20 luglio
2020). Biggie è uno degli pseudonimi di Christopher Wallace (1972-1997), uno dei padri del rap newyorkese.
15
L’uso didattico-pedagogico del rap è ormai abbastanza diffuso in Italia come all’estero (Fant 2005).
Amir tiene corsi in scuole, carceri e università. Nel 2019 ha partecipato attivamente all’avvio di un progetto
didattico e di ricerca sul rap presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, in occasione dell’acquisizione di
una consistente donazione di dischi e audiocassette da parte di Caterina Fiumanò, la madre di MC Giaime,
writer, rapper, ma soprattutto “intellettuale” hip hop, scomparso purtroppo giovanissimo nel 1998.
16
L’intervista a Amir Issaa, è stata realizzata il 9 luglio 2020 e nei giorni seguenti, telefonicamente e
attraverso uno scambio di opinioni, domande e materiali via e-mail.
17
Intervista a Amir Issaa, vedi nota 16.

241
facci

Free style, ripetizione, poesia sarda. Probabilmente quel che Amir ha colto, nei pochi secondi
di ascolto, è il procedimento formulare ovvero l’organizzazione ritmico-melodica ripetitiva a
sostegno delle parole, che accomuna gli amazina a molti altri generi. Se è possibile parlare di
musicalità degli amazina, come anche di altre forme declamate di poesia, è dilatando, fino
a comprendere forme scarsamente intonative, l’idea di formula melodica. Purché queste
formule assolvano la funzione di assicurare, attraverso un’organizzazione dei suoni di tipo
musicale (ritmi, timbri, profili intonativi) il sostegno alle parole affinché possano fluire
facilmente sia nella fase della composizione che in quella della memorizzazione e della per-
formance. D’altra parte, allorché la musica deve assolvere questo compito, deve rinunciare
a farsi protagonista e lo scetticismo degli appassionati di musica nei confronti del rap è
comprensibile. Nell’epica, nella narrazione, nella poesia improvvisata le formule si ripetono,
talvolta scarne e monotone, possono mancare di interesse, ma non di importanza, sono
essenziali a sollecitare la composizione estemporanea e la memorizzazione.
Il rap non è da meno. La prima cosa che un vero rapper deve fare, dice Amir, è ave-
re qualcosa di importante (e veritiero) da dire. Ma la seconda qualità è il flow, il fluire
delle parole che si organizzano quasi automaticamente in fomule: le “barre”, dall’inglese
bars (battute) che corrispondono ai versi, si concludono con le “rime” e si organizzano
in “strofe”. Il gergo tecnico, usato anche nei tanti tutorial italiani per l’insegnamento
dell’arte del rapping, suona come una rilettura in veste “da strada” di elementi e formule
di metrica poetica e musicale.18 Ma, dice Amir mentre commenta la mia analisi di Il rap
mette le ali riportata più oltre:

Quel passaggio in cui parli di endecasillabi e ottonari, quella è una cosa per noi oscura. Nel
senso che li usiamo inconsapevolmente. Se vuoi scrivilo proprio così: i rapper utilizzano
tutte queste forme retoriche e metriche, ma lo fanno senza saperlo […]. Invece se parli
di flow, questo è il nostro linguaggio. Con il flow si cerca di far scivolare le rime sul beat.
Posso avere un flow legnoso e un flow molto fluido.19

Flow è effettivamente il termine che nel rap racchiude la sintesi tra l’ideazione del te-
sto in rime e la sua vita concreta nella realizzazione performativa. Essere “legnosi” – o
“macchinosi” come ha aggiunto Amir in un successivo colloquio – può sottrarre efficacia
alla performance. Per esemplificare Amir ha rappato alcuni versi del suo brano Uomo di
prestigio secondo le due possibilità (Fig. 4; Esempio audio 3).20
La differenza legnoso-fluido chiarifica come sia proprio l’aggiunta di “musicalità” a
qualificare la realizzazione rappata di un testo, in quanto la versione “legnosa” somiglia

18
Cfr. come esempio Come scrivere rap (flow), uno dei tanti tutorial realizzati da rapper giovanissimi:
<https://www.youtube.com/watch?v=o4aPU_Vkc80> (ultimo accesso: 23 luglio 2020).
19
Intervista a Ami Issaa, vedi nota 16. Amir è ora impegnato in un progetto di ricerca chiamato Rapto-
rical con Flavia Trupia docente e presidente dell’Associazione PerLaRe (Per La Retorica).
20
Ringrazio Amir per la disponibilità dimostrata realizzando questi file. Il brano originale, tratto dall’al-
bum Uomo di prestigio del 2006 è disponibile su Youtube, <www.youtube.com/watch?v=WDygI2I1uEo>
(ultimo accesso: 4 settembre 2020).

242
i f i ca a a

FIGURA 4. Confronto tra il profilo melodico, realizzato con il sofware Praat, di una porzione del primo verso
di Uomo di prestigio, di Amir Issaa, eseguita in modo “fluido” o “legnoso”.

alla recitazione, parlata, di una poesia in cui sono più evidenti i silenzi, più brevi i suoni
e più complessa la definizione delle altezze. Quella “fluida” è decisamente più melodica
grazie al sensibile ancoraggio a un metro isocrono (come vedremo più avanti), ma soprat-
tutto all’allungamento delle vocali, che insistono peraltro intorno a un’altezza più stabile
e controllata, in particolare a fine verso dove si protraggono fino all’attacco del verso
successivo. Per esempio nel primo verso «Nato in Italia Amir scritto sulla sabbia» nel pas-
saggio tra i due emistichi è molto evidente nella versione “legnosa” una pausa espressiva
di tipo “teatrale” (Italia… Amir), assente in quella “fluida” in cui la prima “a” di Italia è
allungata e la seconda si lega a quella di Amir (ItaaliaAmir). «Allungavo di più le parole
alla fine – spiega Amir – le legavo con quello che seguiva, si sentiva che era più fluido,
è proprio come un’onda che va su e giù, non è quel tatatatatatà, si muove».21 Aggiungo
che l’analisi effettuata con Praat del segmento «-tàlia Amir» ha evidenziato una maggiore
instabilità delle altezze nella versione “legnosa” – così come avviene nel parlato – a fronte
della tendenza a una maggiore tenuta in quella “fluida”, che dopo l’attacco sulla sillaba
accentata a 125 Hz, si stabilizza intorno ai 115 Hz, in un range che va da 117 a 110 Hz.
Un’idea può essere data dall’immagine dei due profili melodici a confronto (Fig. 4)
L’onda intonativa di cui parla Amir oscilla dunque intorno a una frequenza preva-
lente. Pur se con infinite varianti individuali e in modo assolutamente non monotòno,
il profilo melodico del rap è tendenzialmente “orizzontale”, e laddove il flow evidenzia
chiaramente le frequenze dei suoni prevalenti anche “centrico”, per usare la terminologia
di Curt Sachs (1979).
Nell’analisi, elaborata con Praat, della prima barra di Il rap mette le ali (Fig. 5), l’an-
damento è appunto lineare e solo lievemente discendente. Il primo emistichio insiste su
suoni più acuti rispetto al secondo che conduce a una conclusione più grave, come spesso
avviene anche nel parlato ordinario.22
21
Intervista a Ami Issaa, vedi nota 16.
22
L’analisi è stata realizzata grazie a una versione a cappella, che Amir mi ha gentilmente inviato appo-
sitamente per questo scopo.

243
facci

FIGURA 5. Analisi del profilo melodico del primo verso di Il rap mette le ali di Amir Issaa realizzata con il
software Praat. La versione animata è nell’Esempio video 4.

C’è però un susseguirsi di oscillazioni intonative dovute all’enfasi accentuativa impo-


sta dalla pronuncia sensibile delle consonanti e dal ritmo della declamazione, interrotto
da alcune “cadute” discendenti dei suoni più lunghi. «La metrica è importante – dice
Amir – la metrica è come far entrare le parole su quel tempo». Scandito dal groove della
base, il metro corrisponde a cicli di otto pulsazioni regolarissime. È la griglia rigorosa
che stimola i rapper nel loro flow consentendo d’altra parte una certa libertà nella realiz-
zazione ritmica di superficie. Generalmente gli accenti più sensibili sono sui tempi pari
del ciclo, dunque in controtempo rispetto alle norme di un ipotetico 4/4.23
In Il rap mette le ali la realizzazione ritmica è abbastanza ripetitiva, vi è prevalente la se-
quenza di due note/sillabe per ogni beat, ma si tratta di un brano, come diremo, didascalico
e dunque volutamente semplice. Quella che segue è la trascrizione del testo della prima
strofa così come registrata nel disco e nel video disponibile in rete. Ho tentato di evidenziare
la relazione della realizzazione ritmica del parlato con la “metrica”. Le sillabe sottolineate
corrispondono alle pulsazioni dispari del groove, quelle in grassetto, sui tempi pari, sono le
più enfatizzate nella performance vocale. Il corsivo evidenzia le variazioni nello schema base.

23
Nel rap, che, secondo l’ampia storiografia del genere, è nato in abbinamento al funk o al reggae, gli
accenti corrispondenti al primo e terzo tempo della battuta di 4/4 sono meno sensibili di quelli che cadono
sul secondo e quarto. Si veda a questo proposito un pattern di mani e voce utilizzato da Lucariello per av-
viare un free style in un contesto didattico, durante una trasmissione di TV2000: “La classe” – Rap <https://
www.youtube.com/watch?v=SXjr9sezJQI>, al minuto 10:11 (ultimo accesso: 19 luglio 2020).

244
i f i ca a a

Rappo ancora per la fama | per lasciare un testimone ||


come un investigatore | sopra i beats cercó le prove ||
e non c’è niente che mi ferma | quando rimo sono vivo ||
dillo in giro a questi raappers se vogliono li uccido ||

I versi sono di 16 sillabe (doppi ottonari) in rima baciata. L’ultimo emistichio, “se voglio-
no li uccido” è volutamente più breve per consentire nella performance ad Amir l’allun-
gamento della “a” di “rappers” e la realizzazione, musicalmente parlando, di una sincope
che fa da ponte tra le due metà del verso. Si tratta di un verso di chiusura, che contiene
una formula aggressiva indirizzata a ipotetici antagonisti in sfide di improvvisazione.
Il rap mette le ali è un brano didascalico in cui ogni parola deve essere comprensibile e
dunque è volutamente distante, dice Amir, dai molti virtuosismi sia letterari, sia musicali
che nel rap si esplicano nell’esaltazione timbrica di alcuni fonemi e nella realizzazione
ritmica: gruppi irregolari, allungamenti e spostamenti di accento e, soprattutto, l’extra-
beat, ovvero l’aumento delle parole enunciate in una misura, grazie alla suddivisione e
variazione del pattern base della sequenza di due note/sillabe per ogni beat.24
La velocità del dire è un valore nel rap, come lo è negli amazina. I performer di
ambedue i generi si compiacciono nella rapidità dell’enunciare, che è tale da rendere
generalmente inintellegibile il testo. Chi ascolta è sferzato da ritmi e timbri e di questi
si compiace a sua volta. Questi generi basati sull’arte della parola vivono dunque una
contraddizione tra l’importanza della comunicazione e l’efficacia della performance, che
ribadisce ancora una volta come siano importanti i contenuti sonori della forma. Inoltre
nei due casi citati i due codici, che qui più che nella dicotomia parlato/cantato potremmo
vedere rappresentati da parola significante/parola performante, collaborano a veicolare
uno stesso messaggio: la valentìa del poeta declamatore, celebrata sia nei contenuti densi
di riferimenti elogiativi e spesso autoelogiativi, sia nel virtuosismo della performance.

Conclusioni
La mia comparazione tra amazina e rap termina qui ma si potrebbero aprire ulteriori
percorsi. Per esempio, ho ricorso alla terminologia di Curt Sachs per qualificare come
“orizzontale” il profilo melodico dei brani di Amir che ho analizzato. Vale la pena ricorda-
re che Sachs oppone le melodie “orizzontali” a quelle “a picco”, dal profilo spiccatamente
discendente (1979: 87). Usare questa dicotomia per sottolineare la differenza tra i profili
dell’amazina (a picco) e quelli del rap (orizzontali) è pertinente sul piano della semplice
analisi acustica. Ma lo sarebbe meno se si guardasse alla sostanza dei due generi e dello
stesso discorso di Sachs. Lui utilizza per le melodie a picco «il termine “patogenico”,
cioè di origine emozionale, passionale» mentre è scettico nell’accordare una derivazione

24
Rapper italiano famoso per l’uso dell’extrabeat è Madman. Amir cita il suo Veleno 7 in duo con Ge-
mitaiz come esempio di rap virtuosistico.

245
facci

“logogenica” alle melodie orizzontali, in quanto «le melodie primitive vengono sovente
usate per testi completamente differenti e perciò le loro origini non possono ricercarsi
nel testo» (ibidem). Le citate formule melodiche usate in repertori di tradizione orale, in
effetti, possono essere un contenitore dal profilo orizzontale ed emotivamente asettico.
Nei due casi osservati però mi pare che la divergenza dei profili non giustifichi una di-
vergenza sul piano della relazione parole-suono, essendo la sostanza sonora delle parole il
materiale più consistente della performance. Inoltre in ambedue i generi è considerevole
l’enfasi emotiva: «È molto aggressivo, avvolgente, una cosa che colpisce. Quindi ci sta»25
ha detto infatti Amir a conforto della vicinanza tra amazina e il rap.
Spero di essere almeno riuscita a dare sostanza a quella percezione di somiglianza
che avevo colto negli anni Novanta. Se viceversa dovessimo individuare le differenze (tra
l’uno e l’altro genere e tra i generi al loro interno) sarebbero moltissime, a cominciare
dal fatto che il rap, a differenza del repertorio burundese circoscritto a pochi conoscitori,
ha raggiunto i vertici della vertiginosa conta di fruitori globali possibile dei nostri tempi.
Ma c’è ancora un ultimo punto di contatto da evidenziare e riguarda gli “usi” e le
“funzioni”. Come ogni esperienza musicale sia gli amazina sia il rap possono rispondere
a una mescolanza di funzioni a livello espressivo, di stimolo motorio (per la loro con-
nessione con la danza) e di ciò che Giannattasio (1992) sintetizza con “organizzazione e
supporto delle attività sociali”. Sul piano degli “usi” le competizioni poetiche sono essen-
ziali nel rap, viceversa non ce ne sono testimonianze per quanto riguarda gli amazina, che
risponderebbero maggiormente agli usi riservati alla poesia elogiativa. Ma per i contenuti
e lo stile i due generi sembrano rispondere ambedue a caratteristiche individuabili in
altre formalizzazioni (ritualizzate) dell’aggressività. In molte culture anche africane è
stato documentato l’uso di espedienti culturali finalizzati al controllo della conflittualità
e gli amazina ne sembrerebbero un esempio.26 Amir sostiene che anche il rap può avere
questa funzione e, sia nelle sue lezioni sia nei suoi brani più recenti, vuole testimoniarlo
raccontando la sua vicenda biografica. Lui stesso però è consapevole che esiste il rischio
di innescare un processo inverso, ovvero la sollecitazione di forme di aggressività incon-
trollata soprattutto negli ascoltatori più giovani. In effetti esistono studi che testimoniano
l’aumento di atteggiamenti violenti in ascoltatori soprattutto del Gangsta rap (Penn e
Clarke 2011: 79). Parallelamente è d’obbligo, purtroppo, ricordare il ruolo di alcune
canzoni trasmesse dalla tristemente famosa Radio des milles collines nel periodo precedente
la guerra civile in Rwanda e forse, in Burundi, una poesia di argomento guerriero come
gli Amazina y’Intore, potrebbe avere anche avuto in passato un ruolo di stimolo, più che
di risoluzione, dei conflitti.

25
Intervista a Amir Issaa, vedi nota 16.
26
Per esempio le regole di plaisenterie in Burkina Fasu, i canti nei tribunali dogon in Sudan, ecc. Recen-
temente le forme di controllo ritualizzato dei conflitti nelle società precoloniali africane sono stati oggetto
di una riflessione da parte di Francesco Remotti (2019).

246
i f i ca a a

Non è facile prendere partito su queste due ipotesi contrapposte circa le funzioni sociali
della musica. Quel che è certo è che la dimensione musicale interagisce sempre, e in modo
sensibile, con il contesto e in particolare con gli schemi di comportamento dei partecipanti
all’azione, indipendentemente dal ruolo più o meno attivo che ad essi spetta nell’esecuzio-
ne musicale. (Giannattasio 1992: 213-214)

Esempi audio

1. Amazina y’Inkuba. [1:07]


Esecuzione di Liboire Kabinjiy. Registrazione di Serena Facci, Rutana (Burundi), gennaio 1993.

2. Introduzione fischiata a Amazina y’Inkuba. [0:03]


Esecuzione di Liboire Kabinjiy. Registrazione di Serena Facci, Rutana (Burundi), gennaio 1993.

3. Primo verso di Un uomo di prestigio a cappella. [0:28]


a. Versione con flow “fluido” [0:12]; b. versione con flow “legnoso” [0:14]
Esecuzione e registrazione di Amir Issaa, Roma, settembre 2020.

Esempi video

1. Danza e Amazina y’Intore. [1:58]


Estratto dal documentario Burundi. Pays de la musique et de la danse, di Oscar Ruvuna, pro-
dotto dalla Radio Télévision Nationale Burundaise (ante 1993).

2. Tracciato del profilo melodico di Amazina y’Intore realizzata con il software Praat. [0:10]
Estratto audio del documentario Burundi. Pays de la musique et de la danse, di Oscar Ruvuna, pro-
dotto dalla Radio Télévision Nationale Burundaise (ante 1993). Realizzazione video di Serena Facci.

3. Tracciato del profilo melodico della prima strofa di Amazina y’Inkuba realizzato con
il sofware Praat. [0:08]
Esecutore Liboire Kabinjiy. Registrazione di Serena Facci, Rutana (Burundi), gennaio 1993.
Realizzazione video di Serena Facci.

4. Tracciato del profilo melodico del primo verso cantato di Il rap mette le ali di Amir
Issaa realizzata con il software Praat. [0:06]
Esecuzione e registrazione di Amir Issaa, luglio 2020. Realizzazione video di Serena Facci.

Riferimenti
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247
facci

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1992 Il concetto di musica. Contributi e prospettive della ricerca etnomusicologica, Roma, La
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248
7. Serena Facci, Voci, dal cap. 2 di S. Facci, P.
Soddu, Il Festival di Sanremo. Parole e suoni
raccontano la nazione, Roma, Carocci 2011.
il festival di sanremo

stili vocali pur variando sensibilmente tra le varie aree culturali del paese
e distanziandosi dai modelli accademici si basavano ugualmente su voci
piene e molto sonore, risultato del canto en plein air, capace di sfidare
anche le sonorità di strumenti musicali potenti, quali i tamburelli o le
zampogne.
I microfoni, usati per le trasmissioni radiofoniche, per le incisioni e
in seguito per l’amplificazione sonora durante le esibizioni dal vivo, furo-
no il mezzo che rivoluzionò la «presenza della voce» (Zumthor, 1984)
nella società contemporanea. Consentirono che essa fosse fissata, trasferi-
ta e conservata, al di là della vita. La Discoteca di Stato, ente pubblico na-
zionale (oggi Istituto centrale per i beni sonori e l’audiovisivo), fu fonda-
ta nel 1924 con lo scopo di conservare proprio le “grandi voci” di uomini
illustri e grandi cantanti. I microfoni permisero inoltre di potenziare at-
traverso l’amplificazione emissioni sommesse, deboli e talvolta fragili.
La voce microfonata svelò ben presto le sue potenzialità a livello in-
terpretativo: anche voci “naturali”, prive di forza e di impostazione, po-
tevano imporsi rispetto a grandi orchestre e, successivamente, sulle so-
norità elettriche dei gruppi rock. Inoltre la sempre più sottile sensibilità
dei microfoni e degli apparati di trattamento del suono (sui quali c’è
stato grande investimento nella ricerca tecnica e scientifica) ha reso udi-
bili anche voci sussurrate e toni confidenziali oppure ha aggiunto spes-
sore vocale e potenza attraverso riverberi, raddoppi e altri effetti sempre
più sofisticati di trasformazione, camuffamento, filtraggio. Il Festival,
nato quando ormai la pratica della microfonatura era consolidata, ha via
via sfruttato le varie evoluzioni tecnologiche rimanendo però fedele a
un’estetica di riconoscibilità del cantante secondo i canoni della musica
pop. Tra le poche eccezioni ricordiamo l’utilizzazione dell’effetto “me-
gafono” in L’uomo col megafono di Daniele Silvestri nel 1995 e l’effetto
“vocoder” nel 2009 in Vivi per miracolo dei Gemelli diversi.
Nel passaggio tra gli anni cinquanta e sessanta però non furono solo
le innovazioni tecnologiche a modificare gli stili della voce in Italia. Il
complicato intreccio tra le prassi locali e l’incontro con i variegati mo-
delli statunitensi e sudamericani creò una serie di possibilità stilistiche.
Per esempio, abbiamo già notato come nei cinquanta la vocalità piena e
impostata di Claudio Villa e Arturo Testa fosse compresente con quella
più filmica e delicata di Achille Togliani e Gino Latilla e inoltre con il
modello dei crooners americani – Perry Como, Bing Crosby, Frank Si-
natra, Dean Martin, tutti italo-americani come fa notare Franco Fabbri
(2008) –, interpretato a Sanremo da Teddy Reno, Tony Renis, Johnny

110
2 da le mille bolle blu a ciao amore ciao

Dorelli, tutti invece con nome americanizzato. Negli anni sessanta que-
ste voci, in vario modo piene ed educate, si affiancarono a nuove solu-
zioni. Roberto Agostini distingue quattro modelli dominanti di vocali-
tà: 1. voci limpide, appassionate, con alto grado di sonorità e risonanza
(Claudio Villa, Milva, Pino Donaggio); 2. voci limpide ma delicate,
giovanili e con poche nuance (Gigliola Cinquetti) o ispirate dal folk
(Wilma Goich); 3. voci intime, con toni colloquiali, attente soprattutto
a valorizzare le parole, predominanti tra i cantautori; 4. voci roche o
grintose, con poche nuance, tipiche dei giovani post-urlatori o influen-
zati dal beat inglese (Agostini, 2007).
La classificazione di Agostini, relativa alla metà degli anni sessanta,
è interessante se paragonata a quella proposta dai giornalisti di “tv Sor-
risi e Canzoni” in un gioco elettorale per i lettori tra il 1960 e il 1961. I
cantanti, in base a caratteristiche vocali, ma anche di genere e di tipo di
utenza, furono divisi in ben 9 partiti con altrettanti capilista: Movi-
mento juke-boxista (Mina), Partito musical-moderato (Franca Aldo-
vrandi), Partito restaurazione melodica (Nilla Pizzi), Partito moderni-
sta (Natalino Otto), Partito italo-partenopeo (Sergio Bruni), Partito
cantanti-compositori (Domenico Modugno), Partito d’azione lirica
(Anna Moffo), Partito attori-cantanti (Renato Rascel), Partito estremi-
sta dell’urlo (Ghigo) (Emanuelli, 2004, pp. 121-2). Alcuni partiti, quali
i Modernisti e i Juke-boxisti erano definiti «progressisti», altri «mode-
rati» o «reazionari».
I Restauratori della melodia e i Musical-moderati rientravano nella
più comune definizione giornalistica dei “melodici” che coincide con la
prima categoria di Agostini. Resistettero al passaggio agli anni sessanta,
pur con un significativo cambio generazionale. Meno fortuna, e infatti
non sono contemplati da Agostini, ebbero invece i “modernisti” alla
Natalino Otto, legati al sound dello swing anni quaranta-cinquanta che
si andò perdendo, per tornare di tanto in tanto in forma di nostalgica
citazione, come in Sincerità interpretata da Arisa nel 2009. È interessan-
te la presenza di categorie come quella dei Cantanti-compositori, corri-
spondenti in Agostini ai cantautori, che erano percepiti già come un fe-
nomeno a parte. Altre categorie particolari non sono invece nell’elenco
di Agostini perché non così significative nel Festival di quegli anni: il
Partito d’azione lirica (l’opera era ancora molto popolare nei primi anni
sessanta tanto che nel 1966 fu in gara, anche se con scarsa fortuna, Giu-
seppe Di Stefano) e gli Attori-cantanti, che in Italia hanno sempre avu-
to una loro specificità anche vocale, si pensi a Petrolini che già negli

111
il festival di sanremo

anni venti non usava una voce impostata da cantante. A Sanremo, di


tanto in tanto, furono soprattutto gli attori televisivi a fare qualche iso-
lata e divertita comparsa. Dopo Rascel, che però interpretò una canzone
d’amore, ci fu nel 1962 Gino Bramieri con Lui andava a cavallo.
La categoria dei juke-boxisti sulla quale ci si soffermerà maggior-
mente, sembra, a interpretarla oggi, estremamente varia: con Mina c’e-
rano Adriano Celentano, Betty Curtis, Tony Dallara e Rocco Granata.
Quest’ultimo probabilmente vi rientrava per il successo ottenuto anche
nei juke-box da Marina. Gli altri perché erano accomunati dalla comu-
ne definizione di “urlatori” (Prato, 1998). Si tratta di un fenomeno
strettamente legato al passaggio tra i due decenni, tanto è vero che Ago-
stini, che pur ne parla nel suo saggio, non li contempla nella sua catego-
rizzazione che guarda soprattutto alla metà degli anni sessanta e parla
piuttosto di voci roche da urlatori giovani, o al contrario di voci giova-
nili limpide con poche nuance, come quella della Cinquetti 6.
La prima generazione degli urlatori (Dallara, Curtis, Sentieri) era
accomunata da una fisicità energica nella performance (i pugni chiusi di
Dallara, i salti di Sentieri) che si accompagnava in Dallara molto più
che negli altri a una chiara scansione delle parole, con una spinta accen-
tuativa sull’attacco del suono. L’urlo finale e l’uso, moderato, di colpi di
glottide (singhiozzi) era anche caratteristica dello stile. Ma le voci resta-
vano “ben educate”, ovvero impostate quel che bastava per avere una te-
nuta sicura sui suoni lunghi e un’emissione piena, armonicamente ricca
e priva di incertezze intonative. Voci belle, in altre parole, allorché,
come sempre ci ricorda Agostini, citando gli storici del rock come Allan
Moore (2001), si stava affermando l’estetica delle voci “non educate”,
naturali, talora incerte, qualche volta volutamente sgradevoli.
Non fu un caso, dunque, che i cantanti della prima generazione di
urlatori in realtà scomparvero presto dalla scena (come i Modernisti), per
lasciare il posto ai nuovi giovani. Se avessero riproposto il loro gioco elet-
torale qualche anno dopo i giornalisti di “tv Sorrisi e Canzoni” avrebbe-
ro probabilmente registrato il dissolversi di alcune tendenze “progressi-
ste” a fronte, invece, della tenuta di quelle “moderato-reazionarie”.
Per entrare meglio nel dettaglio proponiamo alcune analisi spettro-
grafiche. Gli spettrogrammi, ora realizzabili facilmente in casa grazie ad
alcuni software di analisi del suono (in questo caso è stato usato Audio-
Sculpt), sono utilizzati prevalentemente per il trattamento e la modifica
dei suoni, ma anche a fini analitici in diversi ambiti degli studi etnomusi-
cologici e negli studi musicologici sulla performance. Fotografano i suoni

112
2 da le mille bolle blu a ciao amore ciao

e ne rappresentano lo spettro. Ovvero traducono in segni grafici non solo


i suoni fondamentali (le note che si possono rappresentare su uno sparti-
to), ma anche tutte le varie componenti armoniche, che caratterizzano i
timbri dei vari strumenti, delle diverse voci, delle vocali e consonanti pro-
nunciate (ogni vocale ha uno spettro molto diverso dalle altre).
La rappresentazione dei suoni armonici avviene attraverso una serie
di linee disposte su un piano cartesiano, che indicano le durate (asse
delle ascisse), le altezze (asse delle ordinate), e l’intensità (in questo caso
attraverso la forza del tratto).
Quel che si propone qui è un confronto tra brevi frammenti di due
canzoni sanremesi nell’esecuzione di cantanti diversi. Delle tantissime
informazioni che lo spettrogramma può fornirci (vi sono rappresentati
ovviamente anche i suoni degli strumenti), si cercherà di evidenziare
solo ciò che più emerge nella qualità della voce 7.
Nel 1959 Betty Curtis e Wilma De Angelis avevano cantato a Sanre-
mo Nessuno di Antonietta De Simone ed Edilio Capotosti. La canzone
fu nello stesso anno incisa da Mina e diventò uno dei suoi primi succes-
si. Nel sonogramma 1 c’è l’immagine del primo verso del secondo cho-
rus cantato da Betty Curtis: «Nessuno, ti giuro nessuno». Nel 2 lo stesso
verso cantato da Mina. La macchia nera in corrispondenza delle “s” di
“nessuno” è molto più marcata in Betty Curtis che in effetti insiste su
questa sibilante molto sonora prima di pronunciare le “u”. La cantante
passa da una sillaba all’altra senza interrompere mai l’emissione, ovvero
tutto avviene in un’unica presa di fiato. Le note più lunghe sono tenute
in modo leggero (senza troppa potenza di suono), ma fermo con un pic-
colo vibrato (le linee sono lievemente ondulate). Sull’ultima sillaba
“no”, quando il diaframma interviene a sostenere in modo più convinto
il fiato, come è naturale e come era stilisticamente in uso presso molte
cantanti dell’epoca, il vibrato diventa leggermente più udibile (e visibile
nelle curve chiaramente ondulate).

1’’ 2’’ 3’’

113
il festival di sanremo

In Mina (sonogramma 2) si nota subito un particolare stile nell’attacco


dei suoni la cui intonazione non è mai (volutamente) stabile. Si vede
benissimo nella sillaba iniziale “ne”. Le linee disegnano chiaramente un
arco. Ciò vuol dire che la nota viene raggiunta con un glissando ascen-
dente e subito lasciata decadere con un nuovo glissando verso il basso.
Un attacco dal basso si vede bene anche sulla sillaba “ti”. Chiunque ab-
bia sentito la canzone, inoltre, ricorderà un andamento particolarmente
singhiozzante della cantante che, con colpi di glottide, scandiva sistema-
ticamente due volte le vocali accentate (in questo verso sono tutte “u”:
«Nessu-uno ti giu-uro nessu-uno»), come in presenza di acciaccature
particolarmente marcate. Il passaggio tra le due vocali avviene nuova-
mente attraverso un glissando: si notino le brevi linee concave tra una
“u” e l’altra. I suoni tenuti, viceversa, sono privi di vibrato. La durata
complessiva dell’estratto è di tre secondi, uno in meno rispetto alla Cur-
tis. Anche Mina usa una sola emissione di fiato, ma la pronuncia secca
delle consonanti (si veda il silenzio prima della “t” assolutamente non
vocalizzata), il raddoppio delle vocali e l’enfasi dei brevi glissandi impri-
mono un indiscutibile senso ritmico.
La voce di Mina sembra una sequenza di colpi bene assestati, laddo-
ve quella della Curtis è un filo teso.
Un uomo vivo, che Gino Paoli presentò a Sanremo nel 1961 in cop-
pia con Tony Dallara, fu così commentata da Arturo Gismondi: «Gino
Paoli la canta alla sua maniera, quella cioè, dicono qui, dei canti grego-
riani. In realtà a parte un certo gesto misticheggiante, comune al Paoli
come al Bindi, i canti gregoriani non c’entrano proprio niente. È tutta
propaganda. Se Paoli carezza amorevolmente la sua canzone, Tony Dal-
lara la aggredisce d’impeto, tuttavia con minore efficacia del suo solito»
(Gismondi, 28 gennaio 1961).
Non è il caso di entrare nei meriti di un accostamento frequente nei
giornali dell’epoca, anche se poco spiegato e spiegabile, tra le prime can-

114
2 da le mille bolle blu a ciao amore ciao

zoni di Gino Paoli e il canto gregoriano. Lo stile vocale del cantante ge-
novese evidentemente aveva colpito per la sua estraneità al panorama
canzonettistico dell’epoca e per il rilievo dato alle parole, che venivano
porte in modo tranquillo e colloquiale. Interessante e indovinato ci
sembra invece il giudizio finale di Gismondi: Paoli accarezza la sua can-
zone, Dallara la aggredisce con impeto. Sembra la descrizione di due di-
versi atteggiamenti amorosi.
Un uomo vivo, però, fu anche incisa nello stesso anno da Claudio
Villa, che ne dette ovviamente una interpretazione alla sua maniera. La
canzone, che lo stesso Paoli dichiarò, forse scherzosamente, in un’inter-
vista sempre su “l’Unità”, essere ispirata dalla favola di Cappuccetto
rosso («I miei occhi mi servono per guardare te / le mie orecchie mi ser-
vono per sentire la tua voce») (I.S., 7 febbraio 1961), è proposta dall’au-
tore con una evidente ascesa dinamica: un’introduzione e una prima
parte della strofa in tono sommesso, quindi un crescendo a fine strofa
che conduce a un ritornello a voce piena. In Dallara l’escursione dina-
mica è meno evidente, in quanto il cantante “aggredisce” effettivamente
la canzone con una vocalità sostenuta fin dall’inizio. La distanza tra la
strofa e il ritornello non è dunque così evidente. Paoli conclude con un
fortissimo, sull’onda del crescendo impostato nel resto della canzone,
Dallara crea uno stacco aggiungendo una coda nella quale ripete i versi
finali «E tu ami me / e io amo te» e quindi conclude con un “urlo” sulla
parola «amor» aggiunta al testo.
La sua interpretazione è più agitata ed agitante, nello stesso tempo
risulta meno coinvolgente sul piano emotivo. Se dovessimo confrontare
le due interpretazioni attraverso il criterio della modernità, ci si dovreb-
be in primo luogo chiedere di quale modernità si stia parlando. Dallara
rappresentava il dinamismo e nello stesso tempo l’asciuttezza di una
modernità antisentimentalista. Paoli quella del comune uomo contem-
poraneo, capace di rappresentare sé stesso anche nelle sue intime parti
fragili.
La versione di Claudio Villa è un’amplificazione dei tratti presentati
da Paoli. C’è più voce nell’introduzione, nella strofa e nel ritornello, ma
il senso del crescendo è rispettato, anzi enfatizzato. Villa utilizza le sue
nuance più sottili per i piano e dispiega completamente la sua voce po-
tente nei forte. L’amore dichiarato suona qui quasi disperato, per la pro-
verbiale foga del cantante romano.
L’analisi sonografica è stata fatta su uno dei versi di apertura «Io non
sapevo a che cosa servivo». Nell’introduzione sono infatti meno evidenti

115
il festival di sanremo

Sonogramma 3. Gino Paoli, secondo verso di Un uomo vivo


(versione digitale del disco Ricordi SRL10177, 1961)
5.000 Hz

I–––––––o––––––––non sa–pe–vo a–––che co––––––sa–––s––e––r––vi–––vo

1’’ 2’’ 3’’ 4’’ 5’’

Sonogramma 4. Tony Dallara, secondo verso di Un uomo vivo


(versione digitale del disco Music 2327x45, 1961)

5.000 Hz

I–––––––––o––non sa–pe––––vo –– ’ a–––co–––––sa–s e r v i ––––vo––

1’’ 2’’ 3’’ 4’’ 5’’ 6’’

Sonogramma 5. Claudio Villa, secondo verso di Un uomo vivo


(versione digitale del disco Cetra SP990, 1961)
5.000 Hz

I–o––––non s–a–pe–––––––vo a chec o –––––s a –s–e r v i –––vo–––––

1’’ 2’’ 3’’ 4’’ 5’’ 6’’ 7’’

le sonorità orchestrali, dunque i tratti della voce sono più chiari. Inoltre
l’assenza della ritmica consentì agli interpreti una maggiore libertà sia
nella gestione dei tempi e dell’emissione vocale, sia nella collocazione
delle parole, caratterizzante anch’essa dei differenti stili.
Paoli (sonogramma 3) inizia il suo «Io» con un evidente glissando
dal basso verso l’alto, che nella sua interpretazione suona come un’in-
certezza. Subito dopo tace, la “o” non è tenuta a lungo. È questo un in-
gresso morbido, in punta di piedi. Le sillabe successive «Non-sa-pe-vo-
a-che-co» sono pronunciate una dietro l’altra, in una sorta di recitativo
(una salmodia? per questo i critici evocavano il gregoriano?), incurante
del ritmo poetico che vedrebbe una cesura dopo la parola «sapevo» che
conclude il primo emistichio dell’endecasillabo. Ogni nota ha una leg-

116
2 da le mille bolle blu a ciao amore ciao

gera inflessione: oscillazioni nell’intonazione si notano chiaramente nel-


le forme curvilinee, non veri vibrati, ma gesti sonori che potrebbero ef-
fettivamente far pensare a carezze, come notò Gismondi. La pronuncia
delle consonanti è sempre ben udibile e, se possibile, strascicata. Lo si
nota nelle “s” ma soprattutto nella “r”, che è addolcita ma vocalizzata
come fosse una sillaba a sé stante. L’ultima vocale, al contrario, è imme-
diatamente interrotta, in un finale asciutto. Le parole e la loro fonetica
risultano effettivamente esaltate in questa interpretazione.
Dallara (sonogramma 4), il cui estratto dura leggermente più a lun-
go, colloca le parole in momenti differenti, dividendo chiaramente il
verso endecasillabo nei due emistichi, anche con una presa di fiato.
Anzi, per renderlo ancora più regolare elimina il “che”, sillaba in più
che avrebbe obbligato a un dittongo “sapevo-a” che connetteva le due
parti del verso. È questa una soluzione ritmica più convenzionale, ma
che permette al cantante di enfatizzare in maniera chiara i suoni lunghi
arricchiti inoltre con un particolare vibrato. Questo è visibilissimo sulla
“i” iniziale. L’attacco di Dallara è nettissimo. Senza incertezze, già forte,
tutto giocato proprio sulla prima sillaba, accentata, di «Io», laddove
Paoli l’aveva subito aperta nella “o”. È questo sicuramente un attacco
impetuoso, forse “aggressivo” come qualificò Gismondi l’interpretazio-
ne di Dallara.
Anche Villa (sonogramma 5) inizia in modo deciso, con un forte. La
sua voce è nel pieno dello spettro armonico sulle sillabe iniziali. Come
Paoli ha un breve glissando sulla “i” e immediatamente preferisce scivo-
lare sulla “o”, vocale sulla quale gli è più facile allargare lo spettro, con-
ferendo così al suo ingresso una maggiore dolcezza.
La mobilità dinamica della voce di Villa è ben visibile nella differen-
za tra il primo e il secondo emistichio del verso, anche in questo caso,
come in Dallara, ben distinti ed equamente ripartiti. Il primo è più forte
e deciso, mentre il secondo sfuma su toni più delicati, con una pronun-
cia confidenziale delle “c” di “che cosa” e uno sforzato sulla sillaba “co”
al quale segue un veloce rilascio del fiato (si noti l’indebolimento degli
armonici superiori). Caratteristica di una voce educata e potente come
la sua è la perfetta tenuta del fiato nei suoni lunghi. Si veda in particola-
re la sillaba “pe”, con un graduale intensificarsi e ampliarsi del regolaris-
simo vibrato.
Viste al microscopio le caratteristiche vocali dei cantanti emergono
in tutte le loro molteplici sfumature. La compresenza, nel giro di pochi
anni, di personalità così differenti dà il senso di quanto transitorio fosse

117
il festival di sanremo

quel periodo. Come si è accennato, i cantanti che più velocemente ce-


dettero il passo furono gli “urlatori” di prima generazione. Le voci di
Betty Curtis e Tony Dallara, in fondo, erano un particolarissimo ibrido
tra vecchie e nuove tendenze. I primi urlatori furono significativi nel pe-
riodo dell’accelerazione dei ritmi e dell’affermazione dei terzinati, ma
mantenevano in fondo un legame con il passato, nel controllo della
voce come nel look. Del resto anche il ritmo terzinato occupò un breve
spazio nella storia musicale italiana, dentro e fuori Sanremo. Nel 1964,
quando Dallara partecipò per l’ultima volta al Festival, Giuliana Lojodi-
ce lo presentò come emulo di Frankie Laine e fondatore della tendenza
degli urlatori, ma, aggiunse, «ha ora addolcito il suo stile» (car 1964).
Per inciso Frankie Laine partecipava quell’anno al Festival, ma in cop-
pia con Modugno e con Bobby Solo.
Le soluzioni adottate da Paoli, invece, sono rintracciabili probabil-
mente nel linguaggio di molti cantautori italiani, dalle voci “non educa-
te”, che condividono per esempio la libertà nella gestione ritmica dei
versi, la volutamente scarsa tenuta dei suoni, l’assenza del vibrato e an-
che una certa povertà dello spettro sonoro.
Mina aveva già allora una personalità abbastanza peculiare. Eppure
nella durezza dei suoi suoni, incisivi e oscillanti negli attacchi, ma fissi e
privi di vibrato quando erano tenuti, si trova sicuramente una traccia
dello stile di molte cantanti che la seguirono, in primo luogo Rita Pavo-
ne, che a Sanremo andò solo quando la sua carriera era già in crisi. Fu
considerata da una mente sottile come Umberto Eco (1995) un modello
femminile che faceva da contraltare a quello di Mina, ma probabilmen-
te trovò la strada spianata dalla cantante cremonese nell’usare la voce in
modo fisso, naturale, con qualche singhiozzo qua e là.
A proposito di Mina però, non si può non notare ancora una volta
che la sua vocalità non fu particolarmente amata proprio a Sanremo, sia
dai critici sia dalle giurie. Anche alcune giovani quali Lilly Bonato, una
urlatrice sulla scia di Mina e Rita Pavone, partecipò nel 1964 ma senza
successo. I motivi che sottintendevano a questo, poco spiegabile, scarso
successo delle nuove “urlatrici” al Festival, probabilmente sono gli stessi
che invece motivarono il successo delle cantanti femminili che si impo-
sero negli anni sessanta quali Milva, Gigliola Cinquetti, Ornella Vano-
ni, Orietta Berti, Iva Zanicchi, Wilma Goich, che avevano voci più
morbide. Le più giovani a fine decennio, Anna Identici, Marisa Sannia,
Annarita Spinaci, Nada, Caterina Caselli, erano cresciute con la voce di
Mina nelle orecchie, ma avevano sicuramente anche altri modelli.

118
2 da le mille bolle blu a ciao amore ciao

Quanto a Villa apparteneva a una scuola ben definita che non ha


mai smesso di essere apprezzata e chiaramente riconoscibile.

Sanremo si internazionalizza

Le coincidenze, si sa, non esistono. Negli anni preparatori del centro-


sinistra, la rai ebbe un atteggiamento circospetto nei riguardi di un
evento che si era fatto presto tradizione, originario come era dei tempi
duri della ricostruzione che si volevano mettere alle spalle. I «miti» del
miracolo italiano, tuttavia, «resta(va)no quelli di una società sottosvi-
luppata» (Fazio, 13 febbraio 1962). Ne conseguì il dimezzamento della
diretta televisiva dal 1961 al 1963. La decisione assunta dalla nuova di-
rigenza del monopolio pubblico alla vigilia del centro-sinistra venne
riaffermata nel 1973 e ribadita nel 1975 dai dirigenti nominati dopo la
riforma.
Dopo il rinnovamento perseguito da Radaelli nel 1960 e nel 1961,
nel 1962 incominciò la gestione dell’ex cantante Gianni Ravera. Egli
impresse il suo segno fino al 1968 e poi ininterrottamente dal 1979 alla
morte nel 1986, condividendo con Radaelli l’edizione del 1970 e parteci-
pando con altri a quella del 1974. Marchigiano, registrato all’anagrafe
nel 1920 col nome di Lenin mutato poi d’ufficio in Giandomenico negli
anni della dittatura fascista (Anselmi, 2009), Ravera fu un impareggia-
bile stabilizzatore nell’intento di incanalare anche il Festival in quello
che secondo lo slogan della dc di Fanfani nelle elezioni del 1958 avrebbe
dovuto essere «un progresso senza avventure».
Ravera accantonò quasi tutte le innovazioni degli anni precedenti,
anche se nei suoi Festival – egli fu l’inventore delle voci nuove di Ca-
strocaro – non mancò una folta schiera di esordienti, alcuni di successo
e molti destinati rapidamente a essere dimenticati. «Da una parte i
tromboni, dall’altra gli anonimi» (Settimelli, 8 febbraio 1962) – era
un’estremizzazione. Però rispondeva al vero che i pubblici del Festival si
sostanziavano di tre “partiti”: «gli appassionati sinceri e ingenui»; gli
«insinceri» che criticavano «amaramente», restando tuttavia «in fedelis-
simo e instancabile ascolto»; «il partito di quelli che ascoltano distratta-
mente e per caso». Ciò che non accadde, come veniva invece auspicato,
fu l’alleanza dei secondi e dei terzi, cioè di coloro che assistevano «a San-
remo con ironia e sufficienza». Si coalizzarono gli «ingenui» e gli «insin-
ceri» (Fazio, 4 febbraio 1962), l’alleanza storica tra una minoranza ru-

119
Corso di Etnomusicologia LM Modulo A
Docente Serena Facci, a.a. 2020/21
Titolo del corso: Etnomusicologia e voce
Selezione di articoli e capitoli di libro

8. Serena Facci, The voice that gives voice.


Female folk revival singers around 1968, in S.
Facci and M. Garda (eds), Female voice in
Twentieth Century, Routhledge, 2021.
8 The voice that gives
voice. Female folk revival
singers around 1968
Serena Facci

Prelude
In 1973, when I was 18, we started a band in my town.1 The band was composed
of me and a group of friends, mainly school friends, and we performed songs
with political content. Like many other Italian young people at the beginning of
the 1970s, we were all activists and belonged to a Marxist-inspired group. We
were influenced not only by the communist idea of socioeconomic equality, but
also by Third-Worldism in connection with the decolonisation process and by the
revolutionary movements protesting against dictatorial regimes in many countries
of the world.
The name of the band was in line with communist bureaucratese: Commissione
artistica del Movimento studentesco (Artistic Commission of the Student
Movement). The songs we learned for our shows were taken from books and LPs
that were very popular at the time in the left-wing movements. Our repertoire
consisted of songs from the Italian Resistance against Nazi-Fascism, songs about
the war in Vietnam, the Cuban revolution and so on.
We also prepared a recital of poems and songs from Latin America. Among
them was one about Argentina titled ‘Violencia y Liberation’. It was the first track
of an album recorded in 1972 by the Italian group Canzoniere Internazionale, an
anthology of protest and revolutionary songs from around the world.2 The track-
list contained not only the famous ‘Hasta siempre comandante’ dedicated to Che
Guevara, but also an Italian translation of ‘Άξιον Εστί ‘ by Mikis Theodorakis,
‘Canzone per Angela Davis’ a song for the release of Angela Davis composed
by Leoncarlo Settimelli, the leader of Canzoniere Internazionale, to mention just
some songs on the album.
‘Violentia y liberation’ was on the soundtrack of La hora de los hornos. Notas y
testimonios sobre el neocolonialismo, la violencia y la liberación, a documentary

1 Frosinone, a city of 50,000 inhabitants, located in Latium, Italy.


2 Questa grande umanità ha detto basta (1972). There were two girls in the group: the composer
Laura Folavolti and the singer Elena Morandi, who also recorded the LP Che Guevara. Canti al
Che (1969), dedicated to Ernesto Che Guevara in 1968, accompanied by important South Ameri-
can musicians, such as Caetano Veloso and Victor Jara.
118 Serena Facci
about Argentina directed by Fernando Solanas between 1966 and 1968 during the
Onganìa regime.3 At the beginning of the song, a male choir repeats some couplets
in a rhythmic ostinato: ‘Prepara el combate / prepara el fucil / prepata tus cosas /
parà combater/ Prepara el combate prepara el fucil / Prepara tu mente / parà ren-
acer etc. (Prepare the combat / prepare the gun / prepare your things / for combat /
Prepare the combat prepare the gun/ Prepare your mind / to be reborn). Over this
accompaniment, a female voice (Elena Morandi) sang in a loud energetic voice:
‘Violentia y liberation, violentia contra la explotation’ (Violence and liberation,
Violence against exploitation). In the verses she sings alone: ‘Esta humanidad ha
dicho Basta! Basta! Basta! / Esta Humanidad ha dicho Attion! Attion! Attion!’
(This humanity has said Enough! Enough! Enough! / This Humanity has said
Action! Action! Action!’). In this song, the female voice has the leading role to
the accompaniment of the men. This reinforces the importance of the woman’s
voice and her call for revolution.
This short autoethnography introduces the context I am investigating here: the
1960s in Italy, where music – and folk music in particular – acted as a mouth-
piece for political discourses. As an ethnomusicologist, I can see how our idea of
music was completely imbued with our political convictions, but how at the same
time our music and particularly the voice (body, music, words and non-verbal
expressions) communicated a more complex stratification of meanings. It is well
known that vocal music plays an important role in the encounter between music
and meaning (Feld and Fox 1994; Tolbert 2001) and it plays a significant role in
the construction of sexual identity in all cultures (Feld 1982, Facci 2003). Here, I
pose two questions: the first is, why did the female voice become a ‘manifesto’ for
political demands on certain occasions during the twentieth century? The second
question is why and how during the 1960s, at the time of the sexual revolution,
did female singers involved in politics become so interested in folk music and, in
particular, in the female peasants?
Coming back to me and my band, in our version of ‘Violentia y liberation’ I
sang the soloist part and my male colleagues sang the choir part. In actual fact,
I was a pacifist and I did not agree so much with the contents of the lyrics. But I
loved pushing up my voice over the male voices. I did it with energy. Later, one
of my friends who was listening to our performance, came to me and said: ‘Today
you aroused me with that song’ (to be honest he used a very vulgar term about
sexual pleasure). It was a strange compliment, but for me it was very clear what
he meant. He was one of the more convinced and enthusiastic members of our
political group. He had not been seduced by me (I knew that) but by the way my
female voice conveyed the meaning of that song and proclaimed the importance
of protest for freedom and for equality. It added a significant piece to his experi-
ence as a ‘revolutionary’ boy.

3 Produced by the Grupo de Cine Liberación. It was performed at the Italian Mostra Internazionale
del Nuovo Cinema (Exhibition of New Cinema) in Pesaro in 1968, https://archive.org/details/Vi
olenciaYLiberacion (accessed 4 March 2020). The song is also in Franco Lao (1967).
The voice that gives voice 119
Does a male voice shouting ‘violentia, violentia’ have the same effect as a
female voice?
In those years, a painting was very popular in left-wing Italian milieus: Il
quarto stato (The Fourth Estate 1901) by the Italian painter Giuseppe Pellizza da
Volpedo. A group of men and very few women are marching resolutely during
a revolt. In the foreground, a woman holding a baby in her arms wants to join
them, or rather, she seems to be asking her husband to come back home. In many
situations of wars or revolutions, women are supposed to be worried, careful and
afraid. Therefore, when they (mothers or wives) are on the front line it means that
the situation is really serious. So, a woman singing a song calling for war or revo-
lution is proof that the situation requires strong action. At the same time, a female
voice sounds seductive to a militant or a soldier and becomes an efficient medium
for the contents of these kinds of songs.
In Italy, we have had other examples in totally different historical contexts.
‘A Tripoli!’ a song inciting the colonial war against the Turkish in Tripolitania
in 1911 was sung by Gea della Garisenda, an operetta star.4 She was also a very
beautiful woman. This song became extremely popular among soldiers, too. We
could cite other examples from the twentieth century.
The role of female singers in political and folk music in Western countries such
as Italy during the 1960s has its peculiarities. The female voice was seductive also
if it was authoritative and imposing. It was touching but not really aggressive.
American folk singers, such as Joan Baez and Barbara Dane, had an important
influence on the Italian left-wing movement. Italian singers such as Giovanna
Marini, Elena Morandi and Margot Galante Garrone played an important role. At
the same time, some celebrated folk singers emerged in the same context, such
as Giovanna Daffini, Rosa Balistreri, Concetta Barra, Caterina Bueno and Maria
Carta.
I will present three singers here: Joan Baez (particularly her relationship with
Italy), Giovanna Marini and Rosa Balistreri. Three women who started their career
in those years. They were very different in terms of personality and vocality, but
at the same time they expressed the same political commitment in their songs.
They came from very different backgrounds, but their lives had a lot in common
and despite having shared the experience of folk singing with many other singers,
they can rightly be considered exemplary spokespersons for the different beliefs
of that complex movement.

Joan Baez
In July 1966, Joan Baez gave her first concert in Paris at the Mutualité. It took
place in a music hall in the heart of the Latin Quarter, as she had refused to sing at
the prestigious Olympia. She was only 25 years old, but she had already become

4 The song was composed by Giovanni Corbetto and Colombino Arona for a show in Turin to
promote the war.
120 Serena Facci
famous in Europe. A reporter working for the Italian newspaper Corriere della
Sera presented her to Italian readers in this way:

By dint of hearing her sing – on records – against the cruelty of the world,
against the atomic bomb and against racial persecutions, we expected to see
a hieratic preacher or a kind of suffragette style 1966. On the contrary, the
Parisian students she wanted to sing for and who observed her in religious
silence, saw a melancholy Mexican virgin with no make-up and messy raven
hair falling past her shoulders but with a very pure voice.
(L. BO. 1966)

That year she was also expected to visit Italy, but her first important concerts
in Milan and Rome took place the following year after the release of a 45-rpm
record and an album published by the Italian Ricordi.5 The 45-rpm record A-side
contained ‘What you Gonna Call your Pretty Little baby’ and the B-side ‘We shall
overcome’, the famous pacifist anthem which became known to young Italians in
the years around 1968, also thanks to her.
‘What you Gonna Call your Pretty Little baby’ was her first song. At the
1959 Newport Folk Festival, where she sang as Bob Gibson’s guest, she duetted
with him in counterpoint trying to freely manage the melody according to canons
close to the African American style. The song was subsequently recorded in the
studio and included on Folksingers’ Round Harvard Square, a collective album
released in 1960.6 This studio version shows that Baez’s voice was very pure,
limpid and crystalline right from the beginning mainly located in the highest reg-
ister, so much so that she was initially considered a soprano in Italy. Most of the
song’s melody is between lab3 and mib4 with the exception of some passages on
lower notes (the nadir note is si2) which are also in tune with a voice that is clear,
confident and very delicate. A great deal of the charm of Joan Baez’s voice lies
in her ability to unfold the sounds with well-mastered sweetness throughout her
wide vocal range.
There is no irregularity, no uncertainty in her agile and round emission. The
song is a lullaby and describes the Virgin cradling the Holy Child. But any child
would abandon itself with confidence in the arms of that voice.
However, Baez continued to work on her voice, gradually eliminating even
the slightest roughness. Her version of Phil Ochs ‘There but for Fortune’, a song
about social commitment, demonstrates mastery of breath and resonance. Phil
Ochs, like many folk singers of that period, had a caressing voice, but Baez had a
particular way of rolling the sounds into the mask, ending the sentences with long-
held notes and taking very fast breaths, so much so that entire stanzas seemed to
be accompanied by the final note in only one breath. In her mature age, Joan Baez

5 ‘What you Gonna Call your Pretty Little baby’/‘We shall overcome’ (1967).
6 Folksingers’ Round Harvard Square (1960).
The voice that gives voice 121
no longer sings this song. In the most recent live performances, the sentences are
broken, much more incisive, harsh and accusatory.7
In those years, Baez came to Italy several times.8 She had established a rela-
tionship based on common ideals with the journalist Furio Colombo. He thus
accompanied her on the Italian tour in 1967 and acted as interpreter at the concerts
and many meetings. This is what he wrote in the cover notes of the Italian version
of the album Joan Baez in Italy (1969)9 which contained part of the live concert
she gave at the Teatro Lirico in Milan in May 1967 in a moment which was par-
ticularly difficult for the American pacifist and anti-apartheid movements:

If this record… exhibits an intensity and tension that has never reigned even
in the most beautiful, most famous and most ‘classical’ pieces by Baez, it is
because a profound change was taking place. …Perhaps for some time she
too thought that her extraordinary success as a singer, her beautiful voice, her
personality so new and different, were also the success of many young black
and white Americans’ struggle. However, times became more restricted and
harder, and destruction was increasing. In press conferences, folk and rock
experts wanted to know from her if she felt that she was performing in the
wake of a tradition or if she considered herself an innovator. They wanted to
discuss the technical and professional characteristics of her work, asked her
opinion on other singers. But Joan Baez wanted to talk about Vietnam. In
Rome, before leaving, she said to an interviewer: ‘They call me a politically
engaged singer. It’s not true. Singing is just my second trade. My first aim is
to fight against oppressive violence’.
(Colombo 1969)

The album contains several songs that convey a particular pathos. However, what
is striking today is that the songs were greeted with shouts of protest from the
audience. This was reported by journalists (M.P. 1967) but above all by Baez
herself in her autobiography And a Voice to Sing with. A Memoir: ‘The concerts
were not so much concerts as they were spectacles, gala events, political forums’
(Baez 2009: 174). In fact, a group of anti-American activists had displayed a Viet
Cong flag and demanded a nod of consent from the singer. She said that she was
blinded by the stage lights and had not noticed. When she finally reacted to the
protests and declared her position on the war in Vietnam, Colombo translated her
sentence about the American war actions in a slightly softened way, replacing

7 Compare the live version on YouTube of ‘There but for Fortune’ sung by Baez in the 1960s: www
.youtube.com/watch?v=rwXO0sbN4pc with the 2004 version: www.youtube.com/watch?v=YKq
-nVdiQ8U (both accessed 20 April 2020).
8 Three tours between 1967 and 1972 with concerts, press conferences and short contributions in
television broadcasts, but she had already been invited to the second folk gathering in Turin in
1966 (Settimelli 1966a; Tomatis 2016).
9 The recordings were edited by Ricordi. A larger version was released in the United States in 1970.
122 Serena Facci
the term ‘aggression’ (in Italian: aggressione) with involvement (in Italian: coin-
volgimento) to defend her from possible attacks from right-wing youths. Further
whistles and shouts followed, including disputes between differing groups in the
audience. Baez writes:

Finally I asked Marco [Furio Colombo] to leave, then I stretched out my arms
imploringly and sang ‘Pilgrim of Sorrow’ [A city called Heaven] – a heart-
rending spiritual I’d sung to King [Martin Luther King] in Grenada – which
if done in the right key, allows me just enough sustained high F’s to win over
the most difficult of crowds. The Milanese… succumbed to my untrained but
impressive vocal gymnastics, decided to sit down, and listened to the rest of
the concert.
(Baez 2009: 174)

In that moment of difficulty, the singer not only did without her awkward inter-
preter, but also without her guitar with which she had accompanied herself. She
sang a cappella, with a bare voice, like her feet which were often bare. She intoned
a pitiful invocation of a poor pilgrim:10

I am a poor pilgrim of sorrow


I travel this wide world alone

In the live recording, you can hear that the shouting begins to fade away during the
first verse and completely by the middle of the second. When she pronounced the
word ‘alone’, she was truly alone singing this very sad prayer in complete silence.
The aggressive shouting that was heard before the song was predominantly male.
But which angry warrior could have resisted the enchanting power of her singing?
It should also be pointed out that the words of the song were truly meaningful,
but in those days knowledge of English was not as widespread in Italy. Most of the
‘anaesthetic’ effect of Baez’s stunt probably lay in what Barthes, borrowing from
Kristeva, would have referred to as geno-song (Barthes 1977: 182). However,
the words were artfully broken by elongated sounds and melisma that made them
even harder to understand for non-native speakers.
Later, after asking Colombo to translate her words more faithfully, Baez said
that she wanted to reiterate clearly her position on the Vietnam War: ‘I feel I carry
the guilt of the US aggression in Vietnam and I’m fighting against this and any
other violence’.11
Thunderous applause accompanies the beginning of ‘Saigon Bride’, a song
composed by Baez for the lyrics that had been sent to her by Nina Dusheck (Hass
1967).12 The song deals with a topos which is common to many war songs, about a

10 Joan Baez in Italy 1967, track 7.


11 Joan Baez in Italy 1967, track 8.
12 About this song, see Perone (2001). Baez also used other lyrics by this San Franciscan author.
The voice that gives voice 123
soldier who must leave his bride to go to fight and die for a cause that he does not
understand and which is, in any case, useless. It is not a hymn; it is a very sweet
lament in a simple monostrophic melody that leaves all the necessary space for
the singer’s words and interpretation:

How many dead men will it take


To build a dike that will not break?

These are the first lines of the second verse. Baez’s voice – which was sweetly
narrative in the introductory verse as is appropriate for a ballad – now rises and
becomes stronger and more insistent, earlier than it generally occurs: in a song of
this kind, changes in intensity or expression (sometimes also in key) are generally
required later to avoid the boredom of repetitiveness. But Baez obviously wanted
her accusation to come forward immediately; she said she wanted to speak clearly
and she did it also in her singing. Immediately after, her voice drops to an intimate
register. The voice of a mother, which we heard in ‘What you Gonna Call your
Pretty Little baby?’. It is the sad sweetness of the maternal voice that weeps and
pronounces the following two lines:

How many children must we kill


Before we make the waves stand still

And it did not matter if the children we were talking about were the innocent lit-
tle victims who were killed in the Vietnam War or in any other war. All over the
world, children were killed by bombings, and so were numerous soldiers, young
men called to arms, but still someone’s children or young husbands. The pain and
injustice were basically the same and, conveyed by Baez’s voice, this suffering
penetrated deep into the hearts of those who were listening to her.13
The last track on the album was recorded in Vienna in June 1967. It is an Italian
song protesting against the Vietnam War: ‘C’era un ragazzo che come me amava
i Beatles e i Rolling Stones’ (There was a boy who, like me, loved the Beatles
and the Rolling Stones). It was sung by the famous and much-loved Italian singer,
Gianni Morandi, who was the idol of young girls. The message was truly pacifist
and Baez wanted to record it, dedicating it ‘to her Italian friends’. The song was
well known in Italy, even though left-wing circles considered it too commercial
to meet the rules of politically engaged songs.14
In And a Voice to Sing with. A Memoir, Baez speaks both worriedly and
humorously about the political liveliness of the young Italian audience attending

13 In the recorded version included on the album Joan (1967), these interpretative nuances are less
evident, perhaps because the song is accompanied not only by guitar but also by a larger instru-
mental group.
14 Regarding the debate on Red Line songs (communist) versus Green Line songs (pacifist but more
commercial) and also on the protests against Baez, see Bermani (1997: 102).
124 Serena Facci
her concerts in Milan. She said that at the Arena Vigorelli in 1970, she tried
in various ways to ‘tame’ the largely youthful audience as she had done at the
Teatro Lirico – with the tenacity of an ‘old schoolteacher’ (Baez 2009: 191).
After refusing the help of the Carabinieri, she tried to sing ‘Ghetto’, but the word
‘revolution’ further inflamed the souls of the left-wing extremists, who became
even more excited. She then tried with ‘Kumbaya’, a religious hymn which was
so popular that Italians could also sing it in chorus. However, the rain caused a
power blackout and everything went dead. The blackout prevented her from using
her real weapon: her voice. A young man belonging to a non-violence group
picked her up and carried her safely away from the crowd. Nevertheless, much to
Baez’s surprise the concert was considered a great hit by the press (Falvo 1970).
The next year, she definitively conquered most Italian hearts with the two songs
from Ennio Morricone’s soundtrack in the film Sacco e Vanzetti by Giuliano
Montaldo.
The touching beauty of Baez’s voice that she has always declared to be a ‘gift’
from her mother was a result of her study of folk models, which she allegedly
adopted adding some subjective features, such as its exceptional vibrato. For this
reason, she was loved and imitated by younger singers in Italy where her vocality
seemed convincing and, at the same time, fresh and innovative.
In an interview, Giovanna Marini says:

She had a voice similar to that of some Irish singers I had heard at the Folk
studio. It amazed me because it was spoggiata, a vocetta (light and unsus-
tained). The women engaged in politics here, the feminists, had low and
rough voices, they smoked and they felt that they had to demonstrate even in
their voice that they were like men. But she was different. Also when I heard
the Beatles for the first time, their vocette struck me.
(Interview Marini 2020)

The comparison that Marini makes in terms of vocality, between the light less
‘virile’ voices of the Beatles, and those of the Irish female singers whom she
assimilates Baez with, is interesting. She identifies a geo-cultural trait, but at the
same time also a trend towards a vocal uniformity among the genders which was
manifested in the years of pacifism and flower children. It was a more ‘youthful’
voice, that brought men and female singers closer, an alternative to the ‘mas-
culinization’ self-imposed by Italian feminists as mentioned by Marini or to
the ‘macho’ style of rock singers, common also to women such as Janis Joplin
(Middleton 2000: 34).
In the ‘Introduction’ to the second edition of Baez’s autobiography, Anthony
DeCurtis writes:

Quite apart from her politics and her willingness to risk her life repeatedly for
causes she believed in, Baez’s voice has always seemed to mean something.
It made a powerful and immediate impression early on because the purity of
her tone, the sunny heights to which her soprano could climb, the youthful
The voice that gives voice 125
strength of her vibrato, all caught a mood in the culture itself. The very yearn-
ing and ache in her singing sounded like a longing for a better world. Her
singing mattered.
(DeCurtis 2009: 14)

Giovanna Marini
Giovanna Marini was one of the musicians of the 1960s who was most engaged
in the folk revival movement inspired by left-wing politics. After a long and suc-
cessful career, she has continued to combine professional activity with a sincere
social commitment that has never become less intense.15
She was born into a family of musicians and intellectuals16 and studied com-
position and classical guitar. Among the many people who frequented her house
every day were the ethnomusicologist Diego Carpitella17 and Pier Paolo Pasolini,
who had always been interested in folk songs (Pasolini 1955) – and he advised
her to contact the group Nuovo Canzoniere Italiano (NCI).18 At that time, in the
early 1960s, Marini had started to attend the Folk Studio, which was a music bar
in Rome where Italian and foreign musicians, songwriters, blues and folk singers,
jazz and experimental musicians of various kinds met. In this music bar, Marini
met Roberto Leydi and Michele Straniero during a concert by Pete Seeger. She
thus joined the NCI as a guitarist, singer and composer of songs inspired by the
folk song tradition that fascinated her with its modal scales, irregular rhythms and
more, above all, particular vocal timbres.
In the NCI there was a singer, Giovanna Daffini who was also a rice weed-
er. She interpreted songs from the repertoire of these seasonal workers. Marini
19

said that during the performance of the first NCI show, Bella ciao,20 amid the
protests and the yelling coming from the audience who were not prepared for a

15 Among other biographical books, see in particular Marini (1977) and Macchiarella (2005). Con-
temporary reviews were available in the archives of two newspapers: Il Corriere della Sera and
l’Unità, the newspaper of the Italian Communist Party. In connection with the writing of this
chapter, Marini granted me an interview on 23 April 2020 (Interview Marini 2020).
16 She was the daughter of the composers Giovanni Salviucci and Ida Parpagliolo.
17 In those years, Diego Carpitella was collaborating with the Centro Nazionale di Studi di Musica
Poplare (National Centre of Folk Music) and he recorded important collections of Italian folk
music also in collaboration with Alan Lomax and Ernesto De Martino.
18 The NCI was created in 1962 by a group of left-wing intellectuals interested in musical folk-
lore (historians, writers, musicians and anthropologists as well as the ethnomusicologist Roberto
Leydi). They were particularly influenced by Ernesto De Martino’s idea of ‘progressive folklore’
and by some pages from Antonio Gramsci’s Quaderni dal carcere. While maintaining conspicu-
ous local characteristics, the NCI and similar groups were in contact with groups located in other
countries, especially in Latin America and the United States (they were in contact with Pete
Seeger, Barbara Dane and others) and established a collaboration with them. For the history, see
Bermani (1997). See Giannattasio (2011) for a critical reconstruction of the activity of these intel-
lectuals.
19 Rice weeder, a labourer in agriculture who weeds and transplants sprouted rice.
20 During the 1964 edition of the Festival of Two Worlds at Spoleto, Italy.
126 Serena Facci
show of pacifist songs with a clear social commitment, she was struck by a lady
who shouted against the voice of a singer. It was probably the vocal timbre of
Giovanna Daffini that caused this reaction. She had the harsh and penetrating
voice of a peasant woman.
The particular rural vocality of the women fascinated Giovanna Marini and
other folk revival singers, such as Sandra Mantovani. This vocality could only
rarely be imitated by those who had not lived the same life acquiring the same
work experience and the same culturally sedimented embodiment.21 Behind those
vocal styles, there was in fact the female world of the Italian countryside with
its specific spaces combined with thousands of years of oppression which was
impeded by invincible abilities of self-defence. Those voices revealed mighty
wisdom witnessing their way of dealing firmly with male power. The women
also showed their strength during the trade union struggles of the 1950s. And that
strength was expressed not only by the voices of the rice weeders, but also by
the voices of the tobacco workers in Apulia, or factory workers – former peasant
women – who abandoned the countryside in the 1960s during the industrialisation
of Southern Italy (which was maybe premature) and subsequently had to face the
closure of several factories in the 1970s.
Having established a relationship of research and solidarity with those women
(Marini 1977), Giovanna Marini produced her own musical idiolect, both from
the point of view of composition – mixing elements of traditional music with
Renaissance polyphony or other types of stimuli – and from the vocal point of
view. Her voice is neither the typical voice of the Italian song, nor the academic
voice of the schools of melodrama, and her vocality is not influenced by the
Anglo-American styles. Her voice is the result of a mixture of her own culture
and the folklore culture. Numerous other female singers imitated this model dur-
ing the Italian folk revival and beyond. In the 1960s, other singers also sang songs
influenced by regional styles, such as Caterina Bueno and Fausta Vetere. In this
context, Giovanna Marini was perhaps not endowed with the most outstanding
singing skills, but she was certainly the first to experiment with rural singing and
musical styles, including them in her compositions and in a didactic project which
was entirely her own.
Perhaps the climax of Giovanna Marini’s complex relationship with the female
peasant voice occurred in the late 1970s with La grande madre impazzita. Cantata
sonata (The great mother gone mad), composed for a vocal female quartet and
an instrumental trio. A group of her colleagues and students, Lucilla Galeazzi,
Annalisa and Tata Di Nola, Elena Morandi and avant-garde jazz musicians (the
trombonist Giancarlo Schiaffini, the saxophonist Eugenio Colombo and the drum-
mer Michele Iannaccone) collaborated on the version recorded in 1979.22 It is an

21 On the wide debate of the 1960s and 1970s on the different forms of folklore revival in Italy, see
Leydi (1972) and Carpitella (1992). For recent research on the contemporary documents, see also
Ferraro (2015) and Plastino (ed. 2016).
22 La Grande Madre impazzita. Cantata e sonata (1979).
The voice that gives voice 127
intense artistic work, and like many of her other compositions it placed the custom
of capitalist modernity in front of a mirror to dismantle all its certainties and under-
line its weaknesses. Her social criticism was thus close to Pasolini’s. However, in
this case the protagonist is the Great Mother the archetype of female fertility and
guarantor of the natural alternation of life, death and rebirth.23 In Marini’s cantata,
this mythical figure becomes a strange character dazed by a world in which the
logic of nature seems interrupted and she no longer dominates it. She is now unable
to help her weakest children, who are victims of injustice, poverty, indifference and
loneliness. The music is based on a complex polyphony which is always useful in
dramaturgy. Despite multiple stylistic quotes – Renaissance polyphony, Baroque
opera, songs, etc. – the fil rouge running through the performance is characterised
by the dramatic tones of a funeral lament diffused in the Mediterranean area among
women who are grieving and helpless witnesses of the mystery of death.
The Great Mother goes mad and alternates destructive instincts with obtuse
questions and recommendations. In the end, she is dragged away in extreme pain
because of the killing of ‘Giovanni, man, father, son, love’. Faced with the death
of her beloved son invoked many times during the course of the cantata, the Great
Mother melts into a river of tears and menstrual blood from which humanity can
perhaps draw life again. ‘It is a healthy spring / the Great Mother is lost in the
sea’, the chorus sings in rhythmic monosyllables and plaintive glissandos. In the
nonsense finale, all the words also seem to liquefy while returning to a primordial
state. The annihilation of the Great Mother is also the annihilation of her specific
logos, that of the female wisdom possessed by Ceres and her ability to control
nature. They get lost, due to the cyclical alternation of the seasons, but this time
there is no certainty of their return.
This drift seems to annihilate the logos in a complete regression to an indistinct
choric dimension. As described by Kristeva, it marks the possible collapse of
female subjectivity in front of absolute injustice. However, this final result is typi-
cal of Marini’s usual way of composing. She always worked a lot on the words
proceeding on a double-track: on the one hand the semantic contents, which were
so important at the time in political songs, on the other the phonetic contents. This
too, she says in the interview, she learned from the folk songs.

Folk singers are teachers and technicians of the wording required to turn it
into a song. When you sing, the phonemes impose themselves. They carry the
melody on the vowels and the time on the consonants. And you can add the
vowels or the consonants you need. It doesn’t matter if they are not part of
the words.
(Interview Marini 2020)

23 Archeologists have assigned this name not only to a paleolithic divinity, but also to several female
divinities of ancient societies from India to the Mediterranean Basin. The Great Mother myth has
also been reinterpreted in psychoanalysis, especially by Jung. The matriarchal character of this
mythical figure also became one of the symbols of feminism in the 1970s, see Coordinamento
donne ARCI (1984).
128 Serena Facci
In the years before the fruitful working relationship with the vocal quartet,
Giovanna Marini created a solo genre, which she defined as a ‘ballad’, ‘long ballad’
or ‘cantata’.24 They were long spoken-sung monologues with guitar accompaniment
only. A genre similar not only to the talking blues, but also to Italian folk cantasto-
rie (storytelling) or any other type of alternation between declamation and singing.
This led to solo performances that were similar to the NCI recitals and the theatre
productions created by Dario Fo, who collaborated with the group. In those years,
the theatrical style of the future Nobel Prize in Literature was based on flourishing
monologues alternating with songs. However, Marini’s ballads are still very par-
ticular and strongly linked to her author/performer’s human and artistic personality.
Her first ballad, Vi parlo dell’America (I’ll tell you about America), was writ-
ten while Marini was living with her family in the United States. There, Marini
found herself in the midst of protests against the Vietnam War and the struggle
to end apartheid. In Boston, she attended Club 47 and befriended several socio-
politically engaged artists including Phil Ocks. The criticism of President Johnson
fitted her ‘Italian-style’ left-wing political values.
Vi parlo dell’America explains how the problems caused by the Vietnam War
and the fight for the rights of African Americans and other minorities were rein-
forced by poverty and social inequality in an advanced capitalist society that did
not care for the poor.25 Marini criticises with irony the cultural homologation of
the middle classes – the macho education, the girls’ aspiration to a good mar-
riage, television serial programmes which were in those days more common in
the United States than they were in Italy – and she expresses great worry about
the organisation of work, the difference between public and private schools and
between the rich neighbourhoods inhabited by the middle class and the slums,
where ‘the real enemy of the negro is the poor white’ and where many minorities
were at odds with each other.
Settimelli published in l’Unità a review of the first performance of this bal-
lad at the Folk Festival in Turin in 1966, saying that it was a new experience,
especially for Italy, and that the ‘talking-like style reflected an authentic need for
self-expression’ on the part of the author (Settimelli 1966b). The novelty was in
the use of a greatly varied spoken-sung style, which seemed to reflect an over-
flowing need for communication, ‘the need to say’, as Marini said (Interview
Marini 2020), which closely resembles George Lapassade’s ‘fury of speech’ in
connection with rap (Lapassade 1998).
In the 1960s, during concerts, songs were usually preceded by long and often
boring introductions, or they were performed during recitals of poems and read-
ings. Marini therefore invented another formula. She would perform her ballad
for about half an hour without interrupting the guitar accompaniment, alternating
singing with straight rhythmic talking or expressive talking respecting the word

24 Chiesa chiesa (Church church) 1967, Con la chitarra senza il potere (With a guitar without
power) 1967, Lunga vita allo spettacolo (Long live the show) 1968, Viva Voltaire e Montesquieu
(Hurray for Voltaire and Montesquieu) 1968.
25 Vi parlo dell’America (1966).
The voice that gives voice 129
stress. This choice was based on an accurate study of the rhythmicity in speech
and in singing. Also in this, Marini imitated folk songs in which the power of the
message is largely entrusted to the sonic characteristics of the words that deter-
mine the rhythm through the stress, but ‘not the measured one: singing folk songs
in a straight rhythm is certainly inappropriate because what matters is the word
stress’, she specifies. In Vi parlo dell’America, all this is clearly evident, in par-
ticular the emphasis of this conception of musical time for interpretative purposes.
This invested the performance with a very strong dynamism that greatly attracted
the attention of the audience. The singing parts were brief new songs, quotations
from existing songs or contrafacta of existing songs.26
I remember that what also struck the audience at Giovanna Marini’s shows was
her stage presence. Despite the difference in vocality, Marini’s standing position
facing the audience with a bandoliers guitar was the same as that of Joan Baez
and other folk revival singers, a static attitude that had nothing in common with
the dynamic and seductive movements that characterised singers of other musi-
cal genres of the same period, but it was attractive in another way. Marini’s stage
presence was authoritative and engaging despite the severe clothing imposed by
the conventions on the politically engaged Italian folk singers. Baez masterfully
used her voice which was beautiful and determined at the same time to tame
the audience, but the journalists put more emphasis on ‘her undoubted magnetic
personality’ and the attitude of a preacher despite ‘her short multicoloured dress’
(M.P 1967). Marini had a different vocality, which was direct, not ‘pretty’ as
Settimelli also said (Settimelli 1964) and she possessed the power to communi-
cate and invest the audience with her flow of musically organised words and with
her speech full of meaning and at the same time pathos.
Joan Baez said she was happy that her beautiful voice could be useful for the
pacifist cause to which she dedicated herself body and soul. Marini used her voice
to manage the words, and her entire body was committed to ensuring that the
voice could carry out that communicative task: ‘Standing still while singing is
necessary for me also now. Every gesture consumes your breath thereby stealing
energy from your voice’ (Interview Marini 2020).
Like all the other folk singers, Rosa Balistreri, the third protagonist of this
chapter, had a voice that was at one with the attitude of a body born and raised in
the harshness of peasant life.

Rosa Balistreri
Speaking of Balistreri, the third protagonist of this article, Giovanna Marini says:

Like all the other folk singers, Rosa Balistreri had a voice that was at one with
the attitude of a body born and raised in the harshness of peasant life. She
came from a totally ‘illiterate’ world and from a very poor family. She had

26 Vi parlo dell’America (1966). For an example listen to the B-side available on YouTube, www
.youtube.com/watch?v=klUleTB_WMY (accessed 7 June 2020).
130 Serena Facci
had a very adventurous life and had managed to get herself out of trouble on
her own. And she came to us who all belonged to a world of students. …She
greatly impressed us when we heard her sing because her voice was really
a window to her soul. There was torment in her voice. You tell me that I am
‘convincing’, but she was more than convincing. She was transformed, she
was another person when she sang – and her voice had a touch of aphonia,
too – because she tore her voice out completely, pulled it where she needed it
and she didn’t care what it sounded like. She was not interested in the myth
of the beautiful voice and she wasn’t even interested in the myth of the ‘folk
voice’. She did not know that she was a representative of ‘the other world’
that was so important to us although we were very happy that we had not been
not born into it. Rosa had never known comfort.
(Interview Marini 2020)

Rosa Balistreri learned to read and write when she was 31. She emigrated to Florence
from Sicily after a childhood characterised by extreme poverty and family violence,
after a marriage that had also ended in violence and after having been in prison. In
Florence, she worked hard for herself and her family. The political climate of the
1960s was in her favour. She got in contact with left-wing artists and it was thanks
to them that she met Dario Fo, while he was working with the NCI and the company
Nuova Scena on the show Ci ragiono e canto (I think about it and I sing) in 1966.
Dario Fo’s theatrical perception was that folk songs should be the protagonists
expressing the thoughts, passions, pains and aspirations of the working classes.
In his dramaturgical project, agricultural and factory work was the source of
the rhythm of the songs thanks to the regular periodic gesture and it was also to
become the soul of the theatrical action. The explicit aim of the show was social
and political criticism.
Balistreri’s voice was powerful but flexible in modulating the dynamics, and
it had a particular dark, scratched and authoritative tone. Listening to the tapes
from the show, you can hear that she is different from the other participants, e.g.
Caterina Bueno, who had a beautiful voice which was also authoritative with her
self-imposed folk imprint. Rosa alternated with her in a number whose topic was
war. It combined a Tuscan song in ottava rima against the Italian-Turkish colo-
nial war of 1911 ‘Contrasto tra l’aristocratica e la plebea sulla guerra di Tripoli’
(Contrast between an aristocrat and a plebeian on the battle of Tripoli) sung by
Bueno with a Sicilian funeral lament (repitu) sung by Rosa.27

Figghiu sciatu meu My son, my breath


Figghiu galofaru meu My son, my carnation
Comu mi lassasti sciatu meu How could you leave me, my breath
Comu haju a fari sciatu meu What shall I do, my breath

27 Fo (1966). A live recording produced in 1969 in Milan is kindly made available on the site Can-
zoni contro la guerra www.antiwarsongs.org/canzone.php?lang=it&id=560 (accessed 7 June
2020).
The voice that gives voice 131
In this song, Rosa Balistreri’s vocal strength is clearly manifested. The typical
descending melodic profile of the lament that for thousands of years has given
voice to the pain of loss, contained in a musically controlled form, is artfully
emphasised by Balistreri who on the adjective ‘meu’ reaches a very serious and
prolonged note that seems to come from the depths of her soul.
She was a capable spokesperson for the musical culture of her homeland after
having found the courage to detach herself from it and to rebel against the vio-
lence and abuse, also overcoming the rigid social conventions that severely judged
women who were willing to perform in public. She also adopted the repertoire of
Sicilian cantastorie, which was actually forbidden to women, learning to use the
technique of singing and declaiming texts.
She had to abandon the repeat of Ci ragiono e canto to solve serious family
problems again. However, that was the beginning of a career that allowed her to
establish herself as an Italian folk singer and, in 1971, she inaugurated an impor-
tant series of records produced by Fonit Cetra.28 She returned to Sicily and was
much appreciated by artists and writers of the island who wrote new songs for her,
e.g. Ignazio Buttitta, Vincenzo Licata and Andrea Camilleri. The latter included
her in a show in which she, acquainted with prison life, played the part of a pris-
oner’s mother quietly singing him a lullaby.29
In an interview recorded in 1985,30 the interviewer Francesco Pira asked
Balistreri what music she liked most. She answered by listing three names:
Amalia Rodriguez, Maria Bethânia and Odetta, because ‘they have something
to say… like me’. She had met these singers personally at some concerts organ-
ised at the Palalido in Milan and Rome in the early 1970s.31 They were great
female performers, women who exhibited not only their subjective skill on the
stage, but also the musical cultures they had grown up with, celebrating them
like Balistreri. But she told a journalist from l’Unità that she disagreed with
Rodriguez:

Good, she is very good. But I don’t understand her when she brings up the
history of the fado saying that the world is in the hands of destiny and that we
can’t change it with songs. Okay as far as the songs, but if the farmer dies of
starvation, it is not destiny’s work but because ‘u patruni si piggia tutte cose
lui’ (the owner takes it all).
(G.f.p. 1973)

28 Amore tu lo sai la vita è amara (1971).


29 Camilleri’s testimonial is included in the documentary produced by Rai Storia: Rosa. Un film
senza autore (Rosa. A film without an author) produced by Marta La Licata and directed by
Fedora Sasso. www.youtube.com/watch?v=jik1qQPQs0k, 00:47:16 (accessed 7 June 2020).
30 Francesco Pira interviews Rosa Balistreri, Televideo Faro 1985, 3/4, www.youtube.com/watch?v
=pvrISMyyO7U (accessed 7 June 2020), 00:02:25.
31 See also Rosa. Un film senza autore, cit. 00:23:07–00:26:40. In Rome, the concerts were part of
the Lunedì del Sistina (Sistine Monday) organised by the impresario Franco Fontana; in addition
to the three singers mentioned by Balistreri, the poster also announced the presence of Miriam
Makeba, Juliette Greco and other internationally known ‘ladies’ of song.
132 Serena Facci
Balistreri was convinced of the political value of her cultural commitment. In
1973, she was invited to participate in the Italian Song Festival of Sanremo,
the most important Italian song contest. However, at the last moment she was
excluded. The official reason was that the song ‘Terra ca nun senti’ (Land that
does not feel) by Alberto Piazza was not unedited as required by the rules of the
contest. Balistreri replied that her exclusion was due to the political contents of
the song. ‘Terra ca nun senti’ is about Sicily, the ‘land that does not feel’ the pain
of those who are forced to leave, and does nothing to make them come back.
It could sound like an accusation against the ruling class, but some verses
‘Malidittu cu t’inganna / promittennuti la luci e a fratillanza’ (Damn those who
deceive you / promising you light and brotherhood) could also refer to the severe
harm caused by the Mafia. The text was only allusive, and it was therefore not
so politically subversive for the television in those days. However, this is not
the forum for discussing the festival managers’ choice.32 It is more important to
underline that an alternative model of vocality and femininity was excluded from
the Sanremo television event thus favouring the mainstream genres then in vogue
(pop, rock, Italian melodies or even folk-pop). The following year, a ‘folk award’
was established in connection with another show, Canzonissima. Balistreri par-
ticipated but lost in the first round.
Diego Carpitella said that ‘the protesting value of folk songs’ was not so much
in the ‘meaning of the words that were sung (also because in matters of folk
songs you often sing one thing and think another) as in the way of singing them’
(Carpitella 1992: 63).33 Rosa Balistreri did not consider herself a singer, but rather
an activist with a guitar. She had ‘that’ subversive way of singing, like the blues
singers in another context. At the same time, she also had the dramatic ability to
act on the listeners’ emotions. During Stasera RRRosa (RRRosa Tonight), an RAI
broadcast of 1972, the Sicilian poet Ignazio Buttitta narrated his first encounter
with her and her performance skills:

I will never forget that evening. Rosa’s voice, her strangled, dramatic,
anguished singing seemed to come right out of the parched land in Sicily. I
had the impression that I had known her forever… Because Rosa Balistreri is
a fabulous character, a drama, a novel, a film without an author.34

Conclusions
I have written about three female folk singers, women who in the same period
were grappling with politics by personally joining political parties, movements

32 On the Sanremo Festival and its impact on the history of Italian politics, see Facci and Soddu
(2011).
33 On this topic and for a more accurate analysis of Carpitella’s position, see also Giannattasio
(2011).
34 Rosa Balistreri. Un film senza autore, cit., 2:06–2:40; 2:49–3:05.
The voice that gives voice 133
or social petitions and whose repertoire was almost entirely made up of songs
with political contents. As we have seen, the voices and figures are completely
different. But all three women were bearers of what Barthes would have called
grain de la voix, that is the ability to touch some intimate strings in the listener
through an equally intimate phonatory work. Joan Baez, Giovanna Marini and
Rosa Balistreri were truly ‘voices that gave voice’ to a cause because they put
individual communication skills and particular voices at the service of political
ideals, voices which were extremely sophisticated and of high expressive and
seductive quality.
However, the gender stereotypes that they have contributed to questioning are
not definitively overcome. A quantitative survey conducted a few years ago on
the use of male and female voices in political advertising in the United States
reconfirmed some gender stereotypes that are present everywhere in the media.35
In the survey, identical ads both in content and visual apparatus were entrusted
to male and female voices. The sample interviewed was asked which advertise-
ments seemed most effective. Without going into the statistical details of a very
complex survey, it can still be said that the results confirmed that the female voice
is considered more suitable for presenting topics such as family and school, while
the male voice is more effective for issues such as economy and defence (Searles
et al. 2017).
In the voice–language relationship linked to politics, the gender stereotypes
that have established themselves in Western culture over the last three centuries
seem to keep going strong at least in the field of advertising and large-scale dis-
semination; they are binary articulations which have been ‘useful in the construc-
tion of modernity and social inequality’ (Bauman and Briggs 2003: 11).
In the political movements of the 1960s these oppositions (man–woman, but
also coloniser–colonised, white–black, etc.) were all questioned, thus starting a
complex revision of the concept of gender, a process which was fundamental in
the second half of the twentieth century. In the experience of the women and men
of those years there are traces of this difficult revision also in their vocal perfor-
mances, as has been highlighted here.
In the interview, Giovanna Marini said that women appearing in the media in
recent decades, also those who carry out important tasks and are there to com-
municate very serious content (scientists, politicians, etc.) often have ‘pupette’
(girlish) voices and that the communicative aspect of the voice no longer seems to
interest communication experts.
In 1973, when Rosa Balistreri was excluded from the Sanremo Festival, many
Italian girls – like myself – approached politics and folk revival to forge their
identity also vocally. In Italy, the young female singers of today – those who
have arrived after years of postcolonialism and anthropology studies of the voice
(Weidman 2014) – face much wider and even more complex horizons to forge
their vocal identity. For women in general, the choice to withdraw into distracted

35 In film production, see Silverman (1988).


134 Serena Facci
or childish ways of managing their own voice, as Giovanna Marini has cleverly
noted, is perhaps a sign of fear. One of the many ‘human’ weaknesses in the post-
humanism era.

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Amadeo – Ricordi, AVRS 21328.
Corso di Etnomusicologia LM Modulo A
Docente Serena Facci, a.a. 2020/21
Titolo del corso: Etnomusicologia e voce
Selezione di articoli e capitoli di libro

9. Jayna Brown, Black sonic refusal , in S. Facci


and M. Garda (eds), Female voice in Twentieth
Century, Routhledge, 2021.
7 Black sonic refusal
Jayna Brown

This chapter is about qualities of dissidence in the vocal work of black women
musical artists. I focus on moments – a lyrical phrase, a single note, parts in a
performance – in which their voices refuse to obey, when they are unruly, screech
out of time and out of tune or withhold in silence. I consider the works of musical
artists Nina Simone, Abbey Lincoln and Poly Styrene – an unexpected genealogy,
but one that makes sense when theorising in specific ways about the relationship
between the voice and language, between emotion, catharsis and protest in black
expressive culture. While we could listen for mellifluous and pleasing virtuos-
ity in their singing voices, I am inquiring instead about what is equally pleasing
to me about the opposing force of a jarring dissonance; I feel connected to a
larger collectivity through their screams and bellows. I feel just as connected to
their silences, or the moments they hold back an emotional catharsis the audience
expects by singing in a flat affective register. It is important to note that these
are not unplanned or spontaneous expressions. They are not the moans of the
long-suffering ‘mules of the world’,1 to quote Zora Neale Hurston’s description
of black women. They are intentional elements of a long and continuous song, the
sounds and silences of dissent and refusal which call us all to a collective, shared
politics of care and responsibility.
Music forms a fundamental lexicon within black aesthetic philosophy and
practice, which engages Western philosophical frameworks but is not subsum-
able within them. Black aesthetic music theories ‘blue’ these frameworks, as they
do musical notes, that is, turn them to use in developing ways to adequately feel
and hear the importance of the oral and the aural in black expressive culture. In
writing about the black female voice, I ‘blue’ the notes of Roland Barthes’ clas-
sic ‘The Grain of the Voice’, essential reading when studying the voice. Barthes’
essay is powerful as it interprets the voice as produced by and through the body.
This embodiment can be understood as a challenge to the hierarchised and gen-
dered split between mind (masculine) and body (feminine). However, his theoret-
ical opining does not shed the form of a binary. It redraws it in the body according
to an equally gendered set of terms, as he distinguishes between the (masculine)

1 This is a frequently referenced saying from Zora Neale Hurston (1990: 14).
Black sonic refusal 103
‘erect’ throat and the (feminine) ‘lung … a stupid organ, [that] swells but gets no
erection’ (Barthes 1977: 183).
Women’s voices are often coded as dependent and impressionable, and situ-
ated as ancillary to instrumental arrangement, which is usually understood as the
provenance of male musicians.2 When their voices are noted, as in the case of
Bessie Smith, Billie Holiday or Mahalia Jackson, they are valorised as emotive
rather than skilled, as carrying the powers of endurance attributed to the ‘strong
black woman’, or, alternately, as charged with erotic currency. In challenging
this marginalisation, we try to shine the stage lights on solo performers as a way
to legitimate women’s voices in musical history and theory. I honour the crucial
work of star performers, and towards the end of this chapter I also argue for the
force of collective voice in vernacular forms of black music.

The scream
A black woman’s voice provides an ontological gathering point within contem-
porary black philosophy. In their field-shaping books, performance theorists and
philosophers Saidiya Hartman and Fred Moten both refer to the ‘heart-rending
shrieks’ of an enslaved woman whom Frederick Douglass names Aunt Hester at
the beginning of his Narrative.3 The fugitive Douglass, after his escape from the
United States, describes his memories of the plantation, and the brutal flaying
Aunt Hester receives from the man whom law called her master. Her torture is
a fundamental starting point in Douglass’ narrative. Hartman and Moten recount
this flesh-ripping scene of Aunt Hester’s torture as an originary moment in the
formation of black subjectivity. In Scenes of Subjection, Hartman argues that the
scene illustrates the ‘centrality of violence to the making of the slave… an inaugu-
ral moment… a primal scene… dramatiz[ing] the origin of the subject’ (Hartman
1997: 3). She refuses to quote Douglass’ gruesome narration, arguing that to do so
would capitulate to the long history of the currency of black suffering.
In conversation with Hartman, Moten begins his book In the Break: The
Aesthetics of the Black Radical Tradition with Aunt Hester. He reads Douglass’
passage in relation to the formation of black subjectivity, but focuses on the ‘the
phonic materiality’ of Aunt Hester’s screams as central to his argument (Moten
2003: 2). For Moten, her screams are a ‘natal occasion’, but do not indicate the
power of the master’s violence to found black subjectivity (ibid.). Instead, Moten
draws attention to the relational nature of the violent performance, understanding
Aunt Hester’s screams as ‘passionate utterance and response’ (Moten 2003: 21).
Her screams are a central trope of the Hegelian encounter between master and
slave. He writes, ‘the encounter is appositional, is shaped by a step away that calls
such positions radically into question’ (ibid.). Moten argues that Aunt Hester’s

2 See John Szwed’s descriptions throughout his book about Sun Ra, Space is the Place, of June
Tyson and other women participants in Arkestra (2020).
3 Douglass (2013: 20). Cited in Fred Moten (2003: 6).
104 Jayna Brown
screams ‘operate as a kind of anacrusis (a note or beat or musicked word impro-
vised through the opposition of speech and writing before the definition of rhythm
and melody)’ (ibid.: 22). So, what happens in the scream itself, the space it breaks
open? Does it have the power to alchemise its originary pain?
I seek to join Hartman and Moten in situating the black woman’s voice at
the centre of a fundamental conversation about ontological processes. Questions
remain for me – what are the implications of making pain the root occasion for
our subject formation? Is pain always the dominant determining force behind the
utterance? Does the scream have the power to dissolve the pain, and does it need
to turn to rage to do so?
I also wonder about using Aunt Hester’s voice as a starting point, a trope, for
it is not Aunt Hester’s voice we hear. We only have Douglass’ written account.
The ‘natal occasion’ of her ‘heart-rending shrieks’ is born of Douglass’ ventrilo-
quism. As such, her screams are an element in his literary strategy. They are not
of self-volition; they cannot be about her subject formation. Her voice is medi-
ated through Douglass’ interpretive representation, only audible by way of his
legitimation. Her screams are first mediated through the written word, and then
over-determined by Douglass’ narrative choices. These choices are shaped by the
literary structure in which Douglass is writing, that of the slave narrative, written
expressly as an abolitionist strategy, which employs the use of graphic detail to
enliven a white readership and remind them of their moral duty. Woman’s suf-
fering is a common narrative tactic, used to carry a moral appeal. Aunt Hester’s
is a wail of helpless pain, rather than a scream of anger. Any possible discussion
of a woman called Aunt Hester, any supposition about the level of volition in her
subject formation, is made moot by many layers of male control and mediation.
I am not implying that there is alternatively some form of direct access to an
enslaved woman’s voice. Every historical narrative is only accessible through
some kind of mediation. Even the voice experienced live and in the moment is
mediated. It is filtered through our subjective, and socio-politically informed, per-
ception.4 But we could begin a discussion of the natal scream with another slave
narrative, by the escaped slave Mary Prince. The History of Mary Prince was
written in 1831, preceding Douglass’ Narrative by 14 years. Prince describes the
‘natal occasion’ of frequent whippings and sexual violation. The problem is that
Prince does not give report of her screams. Instead, when she is stripped, whipped,
hung by her wrists and so on, we are met with narrative silence. But there are rea-
sons for this silence. Her account of her time as a slave in Bermuda and her escape
in London with the aid of Quaker abolitionists is mediated through her female
amanuensis. Any woman, represented in the public view, had to contend with an
expectation to act becomingly, in accordance with a politics of respectability. As
the aim of a slave’s narrative was to win the hearts and minds of would-be support
for the anti-slavery cause, we would expect that graphic detail (especially sexual)
and any unbridled vocal response would be considered unbecoming for a woman

4 Eidsheim (2019), chapter 6, ‘Widening Rings of Being, The Singer as Stylist and Technician’.
Black sonic refusal 105
to relate. Perhaps we could read the absence of Mary Prince’s scream as its very
presence.
But perhaps her silence as she is flogged and salt ground into her wounds means
another thing. Maybe my anticipation of her screams creates them in their absence.
Maybe Mary met torture with stone silence – she held her tongue. This silence
could be her resistance, a refusal to give anything of herself to the moment, to grant
any satisfaction to her perpetrators. The absence of ‘utterance’ is her ‘response’.
What we do get in her narrative is loads of graphic detail. And what we are given
is frequent accounts of how she spoke back to power, how she told her master and
mistress that she ‘would stand the floggings no longer’ (Prince 2004: 14). Her final
escape was not in the dead of night but the light of day, announced on the doorstep,
in response to her master’s threats to cast her out while on a trip to London.

I said to the man who was about to take up my trunk, ‘Stop before you take
up this trunk, and hear what I have to say before these people. I am going out
of this house… This is the fourth time, and now I am going out.
(Ibid.: 30)

Prince walks out the door and never returns.


There are plenty of screams, hollers and moments of silence in our historical
vocabulary to call upon, unleashed from the subject position of a black woman. I
explore ways to understand the force of these screams, or their absent presence,
and the sonic frequency they generate. What kind of sonic space do they create?
What is possible there? What do these vocalisations, or their lack, do for us, and
what do they demand of us?

What do they call me


In September 1963, white supremacists bombed the 16th Street Baptist Church
in Birmingham, Alabama, killing four young girls. It happened following a sum-
mer of black non-violent direct action in Alabama, which was met with fire
hoses and police dogs. This event was a catalyst for many activists and artists,
including the pianist, lyricist and vocalist Nina Simone. Immediately following
the bombing, Simone recorded the now iconic song ‘Four Women’. Sweet and
sombre, this song is composed of four first-person portraits of black women, each
representing a particular persona, whose experiences form a devastating picture
of the kinds of oppression and sexual exploitation black women have suffered,
and fought against, historically, both under the system of slavery and afterwards.
The song is simple, made up of just four stanzas, one for each woman, and
each composed of two rhyming couplets and a refrain. ‘What do they call me?’
begins each stanza’s refrain; the women’s plaintive and soft voices lilt gently
through the first three refrains as we are introduced to Aunt Sarah, Saffronia and
Sweet Thing, then changes tone for the voice of another iconic enslaved woman,
106 Jayna Brown
Peaches, which makes up the last refrain.5 Meeting Aunt Sarah, Saffronia and
Sweet Thing, we are left devastated, sad beyond belief, for it seems each wom-
an’s fate is sealed. The violence of slavery has determined the makeup and mean-
ing of their bodies and identities, and their worth is assessed completely by the
use value of their primarily sexual labour. But as the fourth stanza begins there
is a distinct shift in the musical atmosphere. The timbre of Simone’s voice grows
hard and sharp. ‘What do they call me?’ she demands. ‘My name is Peaches!’
Simone’s voice is filled with rage at the obscenity of slavery and its afterlives.
She drives her voice through the last line until it explodes, smashing into the
final word. Simone’s voice bursts the soft sweet fruit this fourth woman has
been named after, takes the stone from its middle and hurls it at the system that
seeks to strip her of all sovereignty. Simone’s voice eviscerates the language,
taking away its power to name. It is the last stanza we all wait for, and anticipate
together. We bear witness to Aunt Sarah, Saffronia and Sweet Thing with all our
love, but listen for Peaches’ final note to shatter the imposition of a name that
marked her as property. We wait for her to resist, to bring us cathartic release.
We want her to break apart the name forced upon her and hear her claim her
own.
But Peaches does not rename herself. Sustaining the piercing note through to
the very end of the song, Simone suspends us at the edge of that catharsis. She
does not offer us resolution. There will be no respite. This is not a therapeutic
journey from slavery to freedom, but the necessary pitch of our response to the
continual violence of anti-blackness. Simone continues to hold this note which,
in its many iterations, has never stopped. It is the necessary continuation of a
response to oppression.

Freedom now
The sustained high-pitched note, the bellow, the silence, are on a continuum with a
range of non-linguistic vocalisations and forms of inflection used by black women
musicians. I am interested in how these practices confront, engage and disengage
from language. I situate us, as Roland Barthes put it, at ‘the encounter between a
language and a voice’ (Barthes 1977: 181). I will look at Barthes’ theories of ‘the
grain of the voice’ later, as a term in some ways useful and in many ways at odds
with what I want to claim here about the vocal in black aesthetic theory.
Abbey Lincoln’s vocal work on ‘Triptych’, the third section on Max Roach’s
We Insist!: Freedom Now Suite, is a limit case in how to think about black
women’s voices and their encounter with language. Her vocalisations show that

5 Simone’s lyrics call to mind the famous passage of Hortense Spiller’s: ‘Let’s face it. I am a
marked woman, but not everybody knows my name. “Peaches” and “Brown Sugar”, “Sapphire”
and “Earth Mother”, “Aunty”, “Granny”… I describe a locus of confounded identities, a meeting
ground of investments and privations in the national treasury of rhetorical wealth. My country
needs me, and if I were not here, I would have to be invented’ (Spiller 1987: 65).
Black sonic refusal 107
certain forms of articulation, particularly the scream, are only possible outside of
language. Issued in 1960, Roach’s album (which began as a collaboration with
Oscar Brown) was composed as an explicit response to a crucial moment in black
people’s continued struggle for liberation. That year, students in Greensboro,
North Carolina, staged the first student sit-in, protesting racial segregation at a
Woolworth’s lunch counter, and were met with white racist violence. Students
subsequently founded the Student Non-Violent Coordinating Committee (SNCC)
which helped galvanise anti-racist activism in the United States. Initially, Roach
and Brown’s album was to be issued in 1963 in honour of the hundredth anniver-
sary of the Emancipation Proclamation. However, following the sit-ins, Roach
decided the album was too urgent and put it forward early. This fight was not just
for civil rights in the United States, but also against black people’s oppression
worldwide. The new energy in the struggle for freedom in the United States was
greatly inspired by the independence movements and revolutions taking place
across Africa in the 1950s. Roach’s album reflected this global context, with its
second side composed of the pieces ‘All Africa’ and ‘Tears for Johannesburg’.
Abbey Lincoln sings throughout the album, but she uses very little language.
Instead, she moans and hums with great vocal range, depth and texture. The third
piece is titled ‘Triptych: Prayer, Protest, Peace’. Lincoln opens ‘Prayer’ with a
series of crooning soft vowel sounds, atop an intermittent drum. Despite its soft-
ness, Lincoln’s voice is not soothing; it holds an unsettling tension. The drum sud-
AU: In the
denly erupts, as we enter ‘Protest’. As the drums rise, Lincoln abruptly screams. sentence ‘As the
For one minute and 20 seconds, Lincoln hollers, whoops and shrieks, her voice drums rise,…’,
holding a deep and complex affective register, expressing exhaustion, urgency, please con-
firm ‘drum’ or
rage, sadness, fear and physical pain. It is demanding to listen to, and for some ‘drums’?.
of us very satisfying to hear. The section ‘Peace’ slows down, returning us to
smoother sounds, the percussion softer. Lincoln utters breathy deep sighs, as if
she were relaxing after great exertion. These can be interpreted as the signs of
some kind of cathartic release. But Lincoln’s vocal tension never fully disappears.
There is no resolution, just necessary respite.
The title suggests that we will move along a familiar redemptive narrative,
from prayer to protest to peace. But Lincoln’s vocals on ‘Protest’ disrupt this
reading; they burst open the narrative, shocking us awake. ‘Protest’ is unsettling,
unrelenting, as Lincoln’s voice raises in volume and sharpens in timbre. With
her hollers and screams, Lincoln protests the quiet appeals for civil rights, for
(yet again) more amendments to the law, which was the dominant strategy before
1965. Her voice recognises the fundamental violence of the US racial regime,
and the futility of appeals to moral reform or inclusion in the body politic. Her
voice registers this disillusionment with such strategy, and predates the collective
shift in political consciousness between 1965 and 1966. This was a shift that left
behind the strategy of the previous 10 years, which were dedicated to calling on
the United States to fulfil its promise of universal freedom, as well as its tactics,
aimed at gaining civil rights and full coverage by the social contract. This shift,
following the Civil Rights Act of 1965, moved instead to a rejection of such belief
and a critique of the system itself, an awareness of how the struggle was not
108 Jayna Brown
about morals and attitudes but fundamentally about power and the violence of
white supremacy. Though this seems here a linear progression, what Lincoln’s
voice reminds us is that this seemingly opposing perspective had always existed
in black thought.
From the standpoint of racialised alienation, the relationship to the laws, rules
and regulations of the dominant social order is fraught. When thinking about
the expressive aesthetics of the formerly colonised and enslaved, language, the
voice of these laws, is not home. In this space, we need to assess the black
voice in relation to musical pitch and word. We have to listen differently, to that
which cannot be captured in language, to what signifies through tone, inflec-
tion, through sliding away from a note, remaining behind or ahead of a rhythm.
Expressivity, the non-verbal and affective are essential to a black aesthetic
philosophy.
As part of his aesthetic meditations, Roland Barthes’ essay ‘The Grain of the
Voice’ defines true ‘grain’ as pre-language, as he draws from the psychoanalytic
theory of Julia Kristeva. Like Kristeva’s ‘geno-text’ and ‘pheno-text’, Barthes’
‘geno-song’ and ‘pheno-song’ exist in opposition to each other (Barthes 1977:
181). The pheno-song, the structures, rules and codes of language, are disrupted
by the geno-song, which, inspired by Kristeva’s theory of the semiotic, is pre-
linguistic, coming from the relationship with the mother, before the imposition of
law and language by the Father through the symbolic order. It explodes its sur-
face, through the voice, like a volcano. The rules are broken: language is stretched
to its breaking point and repurposed.
I find the idea of the non-linguistic as disruption, as eruption, as a frequency
for resistance to the law of the Father, quite powerful. But analysing black aes-
thetic tradition’s use of vocalisation, I hesitate to apply this psychoanalytic model.
To do so would capitulate a racial politics that relegates black personhood to a
pre-civilised status, as residing at home in the pre-linguistic space, as driven by
instinctual primal drives, a priori to language. I argue that black vocalisations
should be listened to differently, considering black subjects’ alienated relation-
ship to Language (the Law), as not pre-linguistic expression, but as anti-linguis-
tic. Black sonic emissions actively refuse language as inadequate. They reject a
language that incorrectly names them, that fails to represent black subjects and
excludes others from being considered subjects at all. Black sonic emissions
sound on another frequency altogether, one that echoes and reverberates across
time.
Black music, either affectively or explicitly, often references historical or
immediate violation and violence. Pain would seem its provenance. In The Body
in Pain, Elaine Scarry writes that the experience of pain ‘require[s] [the] shat-
tering of language’ (Scarry 1985: 5). She writes, ‘physical pain does not simply
resist language but actively destroys it, bringing about an immediate reversion to
a state anterior to language, to the sounds and cries a human being makes before
language is learned’ (ibid.: 4). She continues, ‘Its resistance to language is not
simply one of its incidental or accidental attributes but is essential to what it is’
(ibid.: 5). But it is not only pain that defines blackness.The black voice reaches
Black sonic refusal 109
through pain, and beyond it. Often, the non- or anti-linguistic utterance is about
pleasure, which is just as hard to catch with words.
Sounding pain in performance is different than sounding pain as it is inflicted.
Performing pain – shocks, suffering, resignation, indignation, anger – works to
record and contribute to an embodied archive. It works the same with pleasure,
often stolen moments in the midst of suffering. Performance of the scream, the
wail, the moan, is vernacular, profane, it is not akin to official recognition by dom-
inant systems or institutions. It is embodied knowledge, heard and understood by
others living in the afterlife of slavery. Embodied knowledges defy the Cartesian
split. The mind–body knows, it remembers.
Of ‘Protest’, Lincoln writes: ‘I didn’t write it, I didn’t conceive it, I’m just
the singer on it’.6 But I cannot dismiss Lincoln’s voice as somehow dependent
or impressionable. Her voice is too big to be controlled by Roach’s direction,
or explained away by her apparent disavowal of authorship. Lincoln is neither
silent, nor appropriately sad, weak or weary in appeal for mercy. Her vocalisation
is abrasive, demanding. ‘I got rid of a taboo and screamed in everybody’s face’,
Lincoln says, ‘I am possessed of my own spirit’.7 Her voice has its own force
which pushes through the layers of male mediation.

The lungs
In ‘The Grain of the Voice’, Barthes emphasises that the grain he is defining is
deeply part of the body. It is visceral, reverberating ‘from deep down in the cavi-
ties’ (Barthes 1977: 181). Opining about a Russian bass, he finds

something … beyond (or before) the meaning of words … something which


is directly the cantor’s body, brought to your ears in one and the same move-
ment from deep down in the cavities, the muscles, the membranes, the carti-
lages, and from deep down in the Slavonic language, as though a single skin
lined the inner flesh of the performer and the music he sings.
(Ibid.: 181–2)

It would seem that Barthes is offering us an early theoretical precedent to what


we call embodied knowledges, those memories and histories kept in the body and
passed down through shared experience and performance. Embodied knowledges
challenge a Western logic that, in its gendered binary, defines reason and strength
of the mind as male attributes, and emotion and the body as female.

6 Abbey Lincoln, quoted in Moten (2003: 23). Moten also writes about Lincoln’s performance of
‘Protest’, troubling over what Lincoln says, from notes taken at a Ford Foundation Jazz Study
group in 1999, regarding her performance. Based on this concession, Moten writes, ‘her relation
to Roach disturbingly and rightly echoes Hester’s relationship to the master and to Douglass’
(ibid.). Moten acknowledges here the male mediation to which women’s voices are subject.
7 Abbey Lincoln, quoted in Moten (2003: 23).
110 Jayna Brown
But in claiming embodiment, despite his reference to Kristeva, Barthes’ is not a
feminist analysis. ‘The voice bears along directly the symbolic, over the intelligible,
the expressive’, he writes. ‘Here, thrown in front of us like a packet, is the Father,
his phallic stature. The “grain” is that: the materiality of the body speaking its
mother tongue’ (ibid.: 182). Barthes adamantly distances his concept of the ‘grain’
in the body from expressivity, feeling and emotion, which he associates with the
pheno-song. The geno-song, as he writes, ‘forms a signifying play having nothing
to do with communication, representation (of feelings), expression’ (ibid.). Barthes
criticises music pedagogy for teaching ‘not the culture of the grain of the voice
but the emotive modes of its delivery’ (ibid.: 183). Barthes situates the grain in the
body, but Barthes does not reject the Cartesian split, he simply redraws the lines. He
divides the body, and distinguishes its parts in gendered terms. The lungs, feminine,
are separated from the throat, the true source of the grain, which is masculine. He
writes, ‘The lung, a stupid organ… gets no erection; it is in the throat… where the
phonic metal hardens and is segmented’ (ibid.). The inauthentic voice is unable to
remain – in Barthes’ language – upright, stiff, objective. It is ‘hysterical, overloaded
with historical, affective contexts’ (ibid.: 186). Conventional approaches to vocal
music, which train the voice to be expressive, stress the breath, ‘the myth of respira-
tion’ (ibid.: 183). The true quality of a voice, then, emanates from the male organ;
the cantor’s bass rasps through the hard and strong throat. The sounds of the inau-
thentic voice come from the female organ, the weak and whiny lung.
Even as Barthes is defining a universal theory of the voice, he is actually listen-
ing specifically to certain kinds of European music. Actively listening to African
American music, and the many uses of the voice in it, inspires a different under-
standing and evaluation of what expressivity and feeling mean. As Ashon Crawley
writes in The Black Pentecostal Breath, black non-linguistic vocalisations are
based in breath, in respiring and conspiring: ‘Breath is the vivifying force enliv-
ening and quickening flesh… Breath is constitutive for flight, for movement, for
performance’ (Crawley 2017: 27 and 33). The expression of air is the basis of life
itself. To express, then, is to live. Expression is to claim interiority, to (re)claim
the self. Utterance and response affirm the body as inhabited. Crawley focuses on
the black Pentecostal church as a primary site where the black voice is developed
and celebrated collectively. I am interested in collective respiration found in, but
not bound by, organised religion. I am focusing here on the voice as it responds
explicitly to political events in a vernacular context.
Abbey Lincoln’s voice on ‘Protest’ operates as a complex polyphony. It carries
a myriad of ‘ugly feelings’: grief, fear, frustration, defiance and blind fury (Ngai
2005). Her voice is also layered with joy and pleasure, which are as politically
meaningful, for to claim them is also an act of refusal. This affective labour is
never meant to be an isolated affair. Such affectivity is about calling and respond-
ing to one another. It is about inviting communal sharing of hard-to-bear emo-
tions, a call for a collective agreement to help shoulder each other’s burdens.
But black music has a particular currency, informed by a long association
between black people and the commodity form. In this model of black music as
commodity, listening is consuming. On the market, black emotionality, particularly
Black sonic refusal 111
in response to suffering, is expected to perform a therapeutic function. The black
performer’s job is to represent universal pain, to absorb the pain of others and to
offer cathartic release. She is meant to bear the burdens of the world so we don’t
have to. Simone, in her composition ‘Four Women’ and Lincoln in ‘Protest’ do
not perform this function, will not agree to provide catharsis. As an audience is
not held responsible for reciprocation like a church congregation would be, these
performers refuse to carry the emotional burden for their consuming listeners, or
release them from it. They hold their voices tense, and withhold resolution.

Feelings
In 1976, Nina Simone gave an unsettling performance for her finale at Montreux
Jazz Festival.8 Recently back in Europe from Liberia, following her daughter
who she had enrolled in school in Switzerland, she had found herself in financial
straits. She had unwillingly gone back to work, and her discontent could be felt
throughout her performance. Simone was known for her contrarian performances,
in which she would wander the stage, chatter, make people wait for her to sing and
castigate her audiences. She was in fine fettle that night.
Simone enters the stage to great applause and receives a bouquet of flowers,
but there is something ambling and out of time about her movements. Simone
sits down at her piano and proceeds to talk, occasionally seeming to begin her
song with an opening chord only to stop again. Some of this is the kind of work a
performer does, forming a closeness with their audiences. But Simone begins to
ramble, refusing to follow protocol.
It would be easy to dismiss Simone’s erratic behavior as a symptom of her
mental illness. Yet, her genius is evident, in and through the more disturbing
moments of the performance. In his brilliant study of black madness and expres-
sive art, La Marr Jurelle Bruce (2017) writes:

While I refuse to reduce Simone’s performance to psychiatric symptom, I


recognize that, say, manic impulsivity, and racing thoughts might have inten-
sified her audacity, hastened her impatience, diminished her inhibition, and
otherwise stoked her brilliant delivery. The potential presence of psychiatric
disorder does not demean Simone’s artistry, nor does it deny the immanent
genius, revolutionary politics, and radical love that might interanimate her
performance, along with madness.

(Bruce 2017: 3)

There is method in her madness, her unruly conduct. It is the medium through
which she expresses her frustration at the concessions a black woman musical

8 Nina Simone, ‘Nina Simone Stars-Live at Montreux-1976’. www.youtube.com/watch?v=iFvF


-IaqN98&t=465s (accessed 25 May 2020). Hereafter cited as (MJ) and time stamp.
112 Jayna Brown
artist has to make to the jazz world and the music business. The restrictions and
conditions to which she has had to accommodate herself, as black and as a woman,
conditions that have kept her from a full range of musical expansion. Simone situ-
ates these conditions in a larger politic of oppression.
Once seated at the piano, Simone opens:

I’m quite aware I have left you hanging… but I’m tired. You don’t know
what I mean, so I think I will sing – well, but before we sing the last thing for
you, and hope that you will see me, and see the spirit in another sphere, very
soon now, let me thank the Montreux Jazz festival… I do speak French you
know, I am not like those black musicians who come over here and get locked
into their thing and never speak one word. I swear. You know they really do
that. They come over for ten/fifteen years and never speak one word. I love
your language it is very lyrical, it is very beautiful and I try very hard to learn.
My daughter goes to your school… After I took her out of Africa… she will
be a linguist and I hope by then there will be jobs. And I don’t want to let you
down so I think… the only way to tell you who I am these days is to sing a
song by Janice Ian.
(MJ, 1:40)

There is applause, as it would appear she is going to begin her performance. But
Simone continues:

My thanks to Claude and to your terrible, wonderful peacefulness. It permeates


everything that is here, it attracts me and holds me and I hope I am permitted to
stay amongst you for a little while. All the fairy tales I heard when I was small
are true, I know when I come to Switzerland. I know your little secrets… I hope
that I am able to permitted to stay amongst you for a little while.
(MJ, 3:53)

With her compliment, she refuses to perform to the expectations of the audience.
‘I insist upon being, not one of your clowns, but one of you’, she concludes. It
seems she would start singing again, but instead she asks, ‘Is David Bowie here?’
and gets up to ask, ‘David are you here? Where is he?’ (MJ, 5:33). She begins to
leave the stage as if to look for him.
The audience begins to show their frustration. ‘Sing a song!’ someone yells.
This would seem to settle her down (MJ, 5:54). ‘We leave you with this’, she says,
and plays a chord. ‘It’s sad. But that’s what you expected anyway’ (MJ, 6:39).
But once again, she withholds. ‘Isn’t my necklace beautiful? It is from Greece
and Claude gave it to me and its antique and it’s meant for a queen and I am a
queen’. She laughs. ‘I know you are joking, suddenly it occurs to you that it might
be true!’ (MJ, 6:46).
She again strikes a chord. ‘Feelings’, she begins, and the audience cheers. She
sings two lines before stopping to castigate an audience member. ‘Hey girl, sit down!
Sit down! Sit down!’ (MJ, 7:48). She then begins to sing again, but even as she
Black sonic refusal 113
sings, she withholds the range of her voice, singing as if against her own skill, as if
she were bored. She interrupts herself once more. Then begins again, with a wilfully
flat affect, and stops again. ‘Ok as a robot gets herself together, and we do it, and
we get to the middle when we have forgotten our feelings of love, you will help me
huh?’ (MJ, 15:22). She places the responsibility for feeling, for performing painful
emotions, back on the audience. Although she has called for audience participation,
no one joins her. Of course, at this point, she is so unpredictable, it is understandable.
Her erratic behavior is disturbing, at the same time it demonstrates a critique
of the audiences’ expectation for emotional release. She seems to be trying to get
them to feel, really feel with her, to understand her, rather than extract feelings
from her. ‘Goddamn’, she says. ‘What a shame to have to write a song like that…
I do not believe the conditions that produced a situation that demanded a song like
that! Well come on clap, what’s wrong with you?’ (MJ, 15:50).
We are left not with the release of tears, either out of empathy for her obvious
distress or with the satisfaction of a performance of emotion, but with a profound
discomfort, a rumbling frustration, the desire to do something about the condi-
tions that would demand a song like that. ‘Madness’, as Bruce asserts, is part of
these conditions. But her hesitation, irritability and recalcitrance are also a form
of critique. With a subdued flat affect, Simone is commenting on the emotional
labour black subjects, and particularly black women, are expected to perform.
She is holding back, not allowing the fulfilment of a white desire for black vul-
nerability. She holds back a deep anger – at the racist world that would deny her
admittance to music school, and to a world that would demand she sing to make
herself commercially viable.
It might seem strange to connect the voice of a teenaged punk rock performer to
the jazz geniuses Simone and Lincoln. But I think there is a resonance here, a simi-
larly dissonant set of musical and vocal choices that can be followed from their work
through those of Poly Styrene, the Somali/British lead singer for the band X Ray
Spex. In an earlier piece, I argue for the uses of anger in her work. Poly Styrene’s
lyrics are politically engaged and biting critiques of capitalist consumerism and
women’s oppression. Her songs embody both the punk rock ethos of 1977 in the
UK, when the classic album Germfree Adolescents was released, and the black femi-
nist call of the ‘Combahee River Collective Statement’, published that same year in
the United States. It is also one year after Simone’s performance at Montreux.
‘Some people say little girls should be seen and not heard’, she says, beginning
her song ‘Oh, Bondage!’ with a girlish lilt. ‘But I think’, she continues, as her
voice rises to and sustains a bellowing screech, ‘Oh bondage, up yours!’ In this
song as in many others, Poly Styrene linked pithy critiques of slavery, authori-
tarianism and consumer capitalism. This song, Poly Styrene says, ‘was inspired
by the suffragettes and was also about slavery’.9 It was not about sexual bondage,
she explains in an interview from 1977, ‘It’s about any form of slavery and it’s

9 John Clarkson, interview with Poly Styrene, part 1, pennyblackmusic.co.uk (24 July 2005). www
.pennyblackmusic.co.uk/MagSitePages/Article.aspx?id=3660 (accessed 25 May 2020).
114 Jayna Brown
against that, saying “oh bondage, up yours”, you know, fuck off to that!’.10 For
Poly Styrene, slavery was about consumerism: ‘It was about being in bondage to
material life. In other words it was a call for liberation’ (Savage 1991: 327). Poly
Styrene’s keening voice, riding atop the band’s signature saxophone, created a
barrage of high-pitched sound. Carrying her consistently articulate, socio-cultur-
ally astute lyrics, the sound of Poly Styrene and X Ray Spex continues to resonate,
weaving its way insistently through the intervening years.
My interpretation then was that she was insisting on an anger usually marked as
the provenance of men. Anger, as Seanne Ngai writes, is marked as a heavily mas-
culinised affect. Women can be hysterical, mad, envious or throw childlike tantrums,
but they are virtually incapable of feeling anger, as it requires more than an immediate
reaction to individual violation. I argued that Poly Styrene’s performances reclaim
anger as productive rather than simply purgative, that through her voice anger can be
heard apart from its usual masculinised frequency, as well as apart from a feminist
politics that would link it only to personal pain and heard as acts of confession.
But what is the sound of anger? We think of a bellow, a scream, shriek or yell,
something in the family of expressivity for which Barthes’ feels so much disgust.
But in virtually all of her songs Poly Styrene does not emote, rather, her voice is a
whiny, reedy monotone. Her voice doesn’t offer release; her insistent single note
bars drill away at the ear, building and sustaining a tension. The affect is actually
a suspension of emotion, a denial of catharsis, that reminds us of our own imbrica-
tion within a corrupt and wasteful society.
I am not dismissing the importance of cathartic experience through collec-
tively felt and heard vocal work. Catharsis has been scorned as apolitical, simply
therapeutic, as giving a private, individual salvific solution to what are political
problems. It is feminised in that way, as it is associated with emotional needs
rather than rational minds. But release, purgation, to force out that which is det-
rimental, is an act in itself which has consequences beyond the privatised space
of personal emotion. It is also a collectivising force, potentially bringing together
the audience and performer. It may not offer a solution, we cannot expect it to be
a substitute for action, but perhaps we can reconsider it as the very condition that
creates room for more than negative, ‘ugly’ feelings.
But I am thinking about the suspension of catharsis as a strategy that calls us
to take accountability, rather than to lean on the artist to feel for us. We can feel
with them, participate in a structure of feeling beyond racist aesthetic hierarchies.

The end, or the beginning


The moments I have visited in this chapter together form a continuous song, the
utterance and response of collective voices. It is through collective voice that the

10 Wolfgang Büld, Punk in London, Hochschule für Fernsehen und Film München (HFF), Stein
Film, 1977.
Black sonic refusal 115
utterance can ‘break the back of words’ (Morrison 1987: 308). At the end of Toni
Morrison’s Nobel prize–winning book Beloved, the central protagonist Sethe is
caught in a binding spell, haunted by her dead child, and, by extension, the collec-
tively experienced trauma of slavery. The women in her community have decided
to come together and do something about her condition. ‘Thirty neighborhood
women’ surround her house:

The voices of women searched for the right combination, the key, the code,
the sound that broke the back of words. Building voice upon voice until they
found it, and when they did it was a wave of sound wide enough to sound
deep water and knock the pods off chestnut trees. It broke over Sethe and she
trembled like the baptized in its wash.

(Ibid.: 308)

Black voices repeat and echo and resonate, interweaving in space and time. Black
women’s voices give us a frequency to access the long song of violence, stolen
joy and vibrancy of selfhood and collective self-making. Peaches may have never
given us her chosen name, but we hear her refusal of the given one.

References
Arkestra, Sun Ra’s (2020) Space is the Place: The Lives and Times of Sun Ra, Durham,
NC: Duke University Press.
Barthes, Roland (1977) ‘The Grain of the Voice’, in Id., Image/Music/Text, London:
Fontana, pp. 179–189.
Bruce, La Marr Jurelle (2017) ‘Interludes in Madtime: Black Music, Madness, and
Metaphysical Syncopation’, Social Text 35/4, pp. 1–31.
Crawley, Ashon (2017) Black Pentecostal Breath: The Aesthetics of Possibility, New
York: Fordham University Press.
Douglass, Frederick (2013) Narrative of Frederick Douglass, an American Slave, Written
by Himself, New York: Barnes and Noble.
Eidsheim, Nina Sun (2019) The Race of Sound: Listening, Timbre & Vocality in African
American Music, Durham, NC: Duke University Press.
Hartman, Saidiya (1997) Scenes of Subjection: Terror, Slavery and Self-Making in
Nineteenth-Century America, Oxford: Oxford University Press.
Hurston, Zora Neale (1990) Their Eyes are Watching God, New York: Harper Perennial.
La Marr Jurelle, Bruce (2017) ‘Interludes in Madtime: Black Music, Madness, and
Metaphysical Syncopation’, Social Text 133, 5/4, pp. 1–31.
Morrison, Toni (1987) Beloved, New York: Vintage Books.
Moten, Fred (2003) In the Break: The Aesthetics of the Black Radical Tradition,
Minneapolis, MN: University of Minnesota Press.
Ngai, Sianne (2005) Ugly Feelings, Cambridge, MA: Harvard University Press.
Prince, Mary (2004) The History of Mary Prince, A West Indian Slave, New York: Penguin
Books.
116 Jayna Brown
Savage, John (1991) England’s Dreaming: Anarchy, Sex Pistols, Punk Rock and Beyond,
New York: St. Martin’s Griffin.
Spiller, Hortense (1987) ‘Mama’s Baby, Papa’s Maybe: An American Grammar Book’,
Diacritic 17/2, pp. 64–81.
Scarry, Elaine (1985) The Body in Pain: The Making and Unmaking of the World, New
York: Oxford University Press.
Corso di Etnomusicologia LM Modulo A
Docente Serena Facci, a.a. 2020/21
Titolo del corso: Etnomusicologia e voce
Selezione di articoli e capitoli di libro

10. Lorenzo Cardilli e Stefano Lombardi Vallauri, Torino, Accademia University Press, 2020.
https://www.academia.edu/44750835/L_arte_orale_Poesia_musica_performance

Da questo volume Studiare:

• Michela Garda, Arcipelago voce, pp.158-185.


• Nicola Scaldaferri, Il canto dei passi: voce e ritmo del corpo nella performance dei canti epici
del Kossovo, pp. 186- 201.
• Alessandro Bratus, L’oralità simulata: produzione sonora e dimensione empatica della voce
nella canzone registrata, pp. 202-224.

Si può sostituire uno degli articoli con: Enrico Pitozzi, La voce che dischiude: poetica, profetica,
sonora, pp. 281-300 (consigliato per gli studenti di Spettacolo).
Corso di Etnomusicologia LM Modulo A
Docente Serena Facci, a.a. 2020/21
Titolo del corso: Etnomusicologia e voce
Selezione di articoli e capitoli di libro

APPENDICE 1
Per gli studenti non frequentanti:

Bertil Malmberg, Manuale di Fonetica Generale, pp. 111-123


Lettura consigliata a complemento del video: Incontro con Franco Fussi. Come
funziona la voce, da ascoltare obbligatoriamente e reperibile al Link:
https://www.youtube.com/watch?v=56ebjXZopEE
Estratto da:

Manuale di Fonetica Generale, di Bertil Malmberg, Il Mulino, Bologna 1994


Corso di Etnomusicologia LM Modulo A
Docente Serena Facci, a.a. 2020/21
Titolo del corso: Etnomusicologia e voce
Selezione di articoli e capitoli di libro

APPENDICE 2

Per gli studenti frequentanti e non frequentanti di LICUS

Gabriella Santini L’italiano come lingua due in F. Ferrari, G.


Santini, Musiche inclusive, Universitalia, Roma
MUSICA PER L’ITALIANO COME L2 GABRIELLA SANTINI
Questo mio intervento vuole offrire un contributo alla ricerca di nuove
strategie educative, sempre più urgenti per favorire l’inclusione dell’eleva-
to numero di alunni stranieri iscritti nelle scuole del nostro Paese che de-
vono imparare l’italiano per poter effettuare con successo il loro percorso
scolastico e di inclusione sociale [MIUR 2006].
Anche la recente pubblicazione dei dati curata dall’Ufficio di Statistica del
MIUR evidenzia che
La presenza degli alunni stranieri nelle scuole italiane, oltre che variegata quanto all’origine
(gli alunni provengono, infatti, da circa 200 Paesi differenti) è sempre più numerosa: nel-
l’anno scolastico 2012/2013 il numero degli alunni con cittadinanza non italiana è pari a
786.630 unità, ovvero 30.691 unità in più rispetto all’anno scolastico precedente [MIUR
2013, p. 3].

Inoltre, gli stessi dati mostrano che


[..] il 38,2% degli alunni stranieri (di tutti gli ordini di scuola) si trova in una situazione di
ritardo scolastico, a fronte di un ben più contenuto numero di alunni con cittadinanza italia-
na (11,6%) [e, in particolare] nella scuola secondaria di primo grado [gli alunni stranieri in
ritardo nel percorso scolastico] sono il 44,1% contro l’8% di quelli italiani [Ivi, p.4].

Infine, la Direttiva sui BES (Bisogni Educativi Speciali) del dicembre


2012, oltre a sottolineare gli aspetti inclusivi piuttosto che quelli selettivi
del sistema di istruzione italiano, esplicita che «presentano una richiesta di
speciale attenzione [gli alunni con] difficoltà derivanti dalla non cono-
scenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture di-
verse» [MIUR 2012a, p. 2].
Dunque, è soprattutto alla scuola che si pone quotidianamente il compito
di rispondere ai bisogni formativi degli studenti stranieri, riconoscendo che
il fenomeno migratorio è ormai consolidato nel nostro Paese dalla presen-
za organica e strutturale di alunni immigrati nelle classi scolastiche di ogni
ordine e grado.
Sappiamo, però, che l’inclusione degli studenti stranieri e il loro successo
scolastico si realizzano pienamente soltanto se ciascuno di loro impara a
comunicare in italiano, pur continuando ad utilizzare e valorizzare la pro-
pria madrelingua [cfr. MIUR 2012; Parlamento, Consiglio dell’Unione Eu-
ropea 2006].
L’apprendimento della lingua italiana da parte degli alunni stranieri è
quindi un obiettivo trasversale, che richiede la messa in pratica di percorsi
didattici innovativi nei diversi ambiti disciplinari.
Infatti, come sottolinea Paolo Manzelli, esperto di neurolinguistica, non è
più pensabile che «a scuola si insegnino le lingue parlate con le stesse mo-
dalità delle lingue morte (latino e greco), costringendo gli studenti ad un
sistema di traduzione da vocabolario, [perché] tale
49
modalità di insegnamento rallenta le capacità di apprendimento dinamico
42
di una lingua parlata» .
Bisogna inoltre considerare che una buona parte degli studenti immigrati
iscritti a scuola non sa né leggere né scrivere nella propria madrelingua e,
anche per questo motivo, è assolutamente impensabile che possano impa-
rare l’italiano iniziando a studiarne le regole grammaticali. È invece neces-
sario impiegare strategie didattiche che sollecitino gli alunni stranieri a un
approccio diretto con il suono dei fonemi della nuova lingua da imparare.
A questo proposito sono significativi gli studi che hanno indagato sulle
connessioni neurali tra le aree cerebrali del linguaggio e della musica: dal-
l’area di Broca, che presiede all’espressione del linguaggio (collocata nel-
l’emisfero sinistro anteriore del cervello), all’area di Wernicke, deputata
alla comprensione dei linguaggio tramite interconnessioni associative con
la evocazione della memoria (collocata sempre nell’emisfero sinistro, so-
pra l’area temporale), al giro di Heschl, la parte del cervello che racchiude
la corteccia uditiva e che presiede alla percezione dei suoni. Proprio inda-
gando sul giro di Heschl, i ricercatori della Northwestern University, han-
no scoperto che dalle sue dimensioni dipende anche la capacità di imparare
43
più o meno facilmente una lingua straniera . È stato comunque dimostrato
come queste connessioni neurali coinvolgano anche i centri della memoria,
del movimento e della raffigurazione [Aniruddh D. Patel 2011; Daniel Le-
44
vitin 2008] Ulteriore motivo di riflessione meritano, inoltre, le ricerche
dei neo-evoluzionisti che individuano un comune ceppo comunicativo,
pre-linguistico e pre-musicale, alle origini sia del linguaggio sia della mu-
sica [Steven Mithen 2007].
LA RICERCA SUL CAMPO IN UN GRUPPO-CLASSE DI STUDENTI IMMIGRATI
Per verificare l’ipotesi che la musica può favorire, trasversalmente, l’appr-
endimento di una seconda lingua e l’inclusione scolastica degli alunni
stranieri, nel periodo compreso tra gli inizi del gennaio 2008 e la fine del
gennaio 2009, ho approfondito un ambito della mia ricerca di dottorato in
Etnologia ed Etnoantropologia, intitolata Valorizzazione degli universi so-
nori nella didattica interculturale[Gabriella Santini 2010].
Dopo una ricognizione degli studi scientifici su questa problematica, ho
constatato che nel panorama degli approcci metodologici cosiddetti ‘co-
municativi’ per l’apprendimento /insegnamento delle lingue seconde, sol-
tanto quello suggestopedico – teorizzato già alla fine degli anni Settanta
dallo psichiatra e psicoterapeuta bulgaro Gheorghi Losanov – prevede
l’uso sistematico della musica, ma al solo fine di creare in aula un clima
rilassato e favorevole all’apprendimento di una lingua straniera [Renzo Ti-
tone 1983].
Facendo osservazione-partecipante all’interno di un gruppo-classe formato
45
da «minori stranieri non accompagnati» e da donne immigrate, che fre-
quentavano i corsi di alfabetizzazione in lingua italiana con la prof. Ga-
briella Nocchi presso il C.T.P. n°11 (Centro Territoriale Permanente per
46
l’Istruzione in Età Adulta) di Roma , ho potuto
42
Cfr. in merito PAOLO MANZELLI, Cervello e linguaggio. Sintetiche osservazioni e riflessioni,
Educazione e scuola: http://www.edscuola.it/archivio/lre/cerling.html
43
Cfr. In merito PATRICK C.M. WONG et al, Volume of Left Heschl's Gyrus and Linguistic Pit-
ch Learning, Cerebral Cortex, XVIII, 4, pp. 828-836 http://cercor.oxfordjournals.org/con-
tent/18/4/828.abstract

44
Cfr. in merito a agli studi su musica, linguaggio e aree cerebrali anche l’Abstract del
Symposium su Music- Language Interactions in the Brain, 2010: http://aaas.confex.com/
aaas/2010/webprogram/Session1521.html
45
Vengono definiti «minori stranieri non accompagnati» i ragazzi immigrati in Italia senza
genitori e ospiti delle strutture di prima accoglienza.
46
Per un’analisi dettagliata delle fasi di questa ricerca antropologica, vedi GABRIELLA SANTINI,
Musica per l’italiano come seconda lingua, in «Musica Domani», XLIII, 2013, n°168, pp.
35-39.

! !
!
verificare che la musica, oltre ad una funzione emotiva, può svolgere al-
meno altre due funzioni preziose per l’insegnamento/apprendimento di una
lingua seconda:
a) può facilitare l’apprendimento dell’italiano come L2 attraverso la cura
della musicalità

delle parole;
b) può favorire l’incontro, lo scambio e la trasformazione delle diverse
identità, anche
musicali, degli studenti, facilitando il loro percorso di inclusione scolasti-
ca.
Rispetto alla prima funzione, ho sperimentato che la musica può facilitare
l’apprendimento di una lingua seconda curando gli aspetti ‘musicali’ insiti
nella sua natura di sistema comunicativo sonoro: fonemi, profili melodici,
accenti, ecc. Per questo motivo è utile didatticamente far ascoltare e ripro-
durre agli studenti stranieri il suono dei fonemi della lingua italiana e la
diversa intonazione delle frasi. Come sappiamo, quest’ultima è determina-
ta dall’ambito frequenziale interessato e disegna differenti contorni melo-
47
dici, legati anche alle variazioni di significato delle frasi stesse . Quindi,
se gli studenti stranieri vengono sollecitati a ripetere per imitazione frasi
interrogative e affermative in italiano, possono essere facilitati a compren-
derne più rapidamente il significato. Inoltre, un altro importante esercizio
può consistere nel far scandire agli alunni stranieri gli accenti delle singole
parole anche per riprodurre correttamente il ritmo delle frasi, facendo at-
tenzione a rispettare le pause.
Sappiamo che diversi studi, anche applicativi, e diversi metodi sull’ap-
prendimento delle lingue - come il verbo-tonale di Petar Guberina [1992] -
hanno evidenziato l’utilità della pratica musicale in generale ma, in parti-
colare, dell’uso di canti ad hoc, che facilitano l’apprendimento degli ele-
menti fonetici, ritmici e intonativi attraverso il medium melodico, in quan-
to difficilmente la resa melodica di un testo contraddice o non rispetta i ca-
ratteri della lingua, oltre a favorire la memorizzazione di vocaboli nuovi e
l’apprendimento più rilassato e piacevole della stessa lingua seconda. Inol-
tre, l’apprendimento di una seconda lingua attraverso il canto offre agli
alunni immigrati un’ulteriore possibilità di conoscere tratti della cultura
del paese accogliente e l’esecuzione in coro dei canti memorizzati favori-
sce, allo stesso tempo, la socializzazione all’interno del gruppo-classe [Jo-
han A. Sloboda 1988]. Altra funzione importante svolta dai canti per
l’insegnamento dell’italiano come L2 è la possibilità di sollecitare gli stu-
denti alla «conoscenza della propria voce [che] è uno dei fattori di costru-
zione dell’identità individuale» [Serena Facci 1997, p. 45], obiettivo for-
mativo rilevante per favorire l’inclusione degli alunni stranieri.
Per insegnare l’italiano agli studenti immigrati lavorando sulla musicalità
delle parole, è quindi importante individuare un criterio di selezione dei
canti da proporre in classe.
I CANTI DI TRADIZIONE ORALE PER L’INSEGNAMENTO DELL’ITALIANO COME
L2
Il criterio che ho seguito nella mia sperimentazione per la selezione dei
brani da proporre agli studenti immigrati, frequentanti i corsi di italiano
come L2, è stato quello di scegliere canti di tradizione orale legati a mo-
menti e attività significative della vita di ogni essere umano – ad esempio,
le musiche appartenenti al ciclo dell’anno e della vita [Serena Facci 2005,
pp. 32-34] – anche per facilitare un confronto interculturale tra gli studenti
immigrati e gli insegnanti italiani, sollecitando in ciascuno la memoria dei
propri vissuti musicali, lo scambio e la loro reciproca trasformazione.
47
Cfr. in merito AMEDEO DE DOMINICIS, Intonazione http://www.treccani.it/enciclope-
dia/intonazione_%28Enciclopedia_dell%27Italiano%29/
!
!
51
Ho così selezionato 46 canti di tradizione orale europei ed extraeuropei,
raggruppandoli in sei aree tematiche: canti per giocare, canti per lavorare,
canti per danzare, canti per festeggiare, canti per raccontare, canti per pre-
gare. Vorrei però sottolineare che queste aree tematiche non sono da consi-
derarsi in modo rigido, poiché tra esse c’è comunque sempre la possibilità
di uno scambio (ad esempio, è evidente la continua connessione tra i canti
48
per danzare e quelli per festeggiare) .
Inizialmente, gli studenti stranieri sono stati guidati a cantare ninne-nanne,
conte e filastrocche in lingua italiana. Il lavoro con questo genere di reper-
torio ha sollecitando la memoria dei vissuti musicali degli alunni immigra-
ti, spingendoli anche a ricordare i canti del loro repertorio infantile che, in
un secondo momento, hanno insegnato ai compagni di diverse provenienze
e ai docenti, proponendo a loro volta anche elementi delle loro lingue ma-
49
dri. Oltre alla ninna-nanna toscana, Babbo tornate , a quella veneziana La
50
ninna- nanna-na-na-na ti canto , alla conta siciliana Lina, Lina, zoppa,
51 52
zoppa e alla filastrocca ligure Girometta, abbiamo così imparato ad in-
tonare la conta bengalese, Ag-dom bag- dom e la filastrocca per conta al-
53
banese, Një edhe një .
Infatti, com’è stato sottolineato dall’etnomusicologo rumeno Costantin
Brăiloiu, sebbene i diversi brani del repertorio infantile abbiano una pro-
pria fisionomia formale, essi sono accomunati dalle stesse leggi ritmiche
alle diverse latitudini [Costantin Brăiloiu tr. it., 1982, pp. 104-139]. Il re-
pertorio dei brani tramandati oralmente e continuamente trasformati sia
dalla creatività dei bambini che li intonano per accompagnare i loro giochi,
sia dagli adulti che li eseguono per indurre il sonno o per giocare con i
bambini – proponendo anche modelli di comportamento linguistico, moto-
rio e sociale [cfr. Sandro Biagiola, Giovanni Piazza 1992] – risponde poi al
bisogno di musica comune a tutti gli esseri umani.
All’interno dello stesso gruppo-classe di studenti immigrati, sono risultati
didatticamente funzionali all’insegnamento dell’italiano come L2 anche i
canti di lavoro e per il lavoro.
Com’è noto, i canti ‘euritmici’ intonati durante lo svolgimento di un lavoro
– a tutte le latitudini – oltre a scandire i movimenti ritmici muscolari, udi-
tivi e visivi determinati dai gesti necessari alla realizzazione degli atti pro-
duttivi, hanno anche la funzione di alleviare le fatiche del lavoro stesso,
perché imponendo il proprio tempo consentono ai lavoratori «un’ evasione
dal [tempo] reale» [Francesco Giannattasio 1992, p. 221].
Guidando gli studenti a intonare i canti del repertorio vocale associati a di-
versi ambiti produttivi come quello agricolo, della pastorizia, della pesca,
dell’artigianato e domestico, è stato facilitato l’apprendimento di nuovi
vocaboli, che hanno arricchito il loro lessico.
48
Per una proposta didattica di canti italiani di tradizione orale, cfr. SERENA FACCI, GABRIELLA
SANTINI, Chants d’Italie. Pour chanter ensemble de 8 à 14 ans, Parigi, Cité de la musique,
2012.
49
Registrazione raccolta da DIEGO CARPITELLA il 12 dicembre 1965 a Lierna, tratta dall’LP
Musica Contadina dell’Aretino, Albatros, vol.3, 1977.
50
Canto registrato da ALAN LOMAX nel 1954 a Pellestrina (VE), tratto dall’LP Folklore Musi-
cale Italiano. Registrazioni originali di Alan Lomax e Diego Carpitella, vol.1, 1973.
51
Registrazione raccolta da PINO BIONDO a Troina (EN) il 9 settembre 1998, tratta dal CD
Suoni e Canti Popolari nella Provincia di Enna, vol. II (Il Ciclo della Vita), Enna, Ethica
(collana diretta da Pino Biondo), 2002.
52
Filastrocca ligure tratta dall’LP Canti popolari di Liguria, vol. 1 – rime e filastrocche po-
polari, canti monovocali, a cura di EDWARD NEILL, Albatros, VPA 8313, 33.30, “Documenti
originali del folklore musicale europeo”.
53
La conta bengalese Ag-dom bag-dom e la filastrocca per conta albanese, Një edhe një sono
state intonate in classe dagli studenti immigrati e registrate dai docenti. La prima è stata in-
tonata da uno studente bengalese che frequentava i corsi di alfabetizzazione italiana presso
il C.T.P. n°11 di Roma e la seconda da una studentessa albanese di Serena Facci, che fre-
quentava la scuola media di Riano (RM) nel 1999.

!
All’interno di questo repertorio gli alunni hanno ascoltato e intonato il can-
54
to delle mondine, Senti le rane che cantano , la vignarola laziale a salta-
55
rello, E dopo la veligna vie’ l’uliva , il canto dei battipali della laguna ve-
56
neta, Oh issa eh , ma anche il canto in forma di dialogo intonato dalle
donne del Benin mentre pestano le noci per fare il burro ritmando il gesto
57
della pestatura nel mortaio, Canto delle noci di karité .
Facendo ascoltare più volte quest’ultimo canto di lavoro in cui due donne
improvvisano un dialogo, è stato fornito loro un modello ritmico sulla base
del quale ciascuno studente ha potuto improvvisare in italiano delle frasi
su un argomento scelto dal gruppo (in quel caso si trattava dello svolgi-
mento delle giornate dei componenti il gruppo-classe).
Ascoltando, poi, le registrazioni che documentano paesaggi sonori di am-
bienti di lavoro pastorali e contadini – ad esempio, Suonata e richiami,
58
l’estate e la transumanza di un paese in Calabria, Mesoraca; Segnali di
59
richiamo delle pecore e galline, registrato nella provincia di Enna) –che
«pur non avendo una funzione dinamica, sono parte integrante dell’atto la-
vorativo» [Francesco Giannattasio 1992, p. 220], – gli studenti sono stati
ulteriormente sollecitati al ricordo dei loro vissuti in ambienti simili e han-
no iniziato a raccontarsi. Così un alunno afgano, che ha immediatamente
riconosciuto l’ambiente di lavoro pastorale, ha raccontato di aver fatto il
pastore nel suo paese, prima di emigrare in Italia. L’insegnante di italiano
come L2 ha approfittato per chiedere ai ragazzi quale lavoro facessero nel
loro paese d’origine. Ne è scaturita una conversazione molto interessante e
di confronto interculturale.
Anche l’ascolto dei Segnali di richiamo delle pecore e galline ha sollecita-
to un alunno afgano ad imitare il verso usato nel suo paese per ‘parlare’
con gli animali: Ciai ciai per farli deviare e Are are per farli andare avanti,
che tutti noi abbiamo ripetuto; mentre un alunno bengalese ci ha informati
che nel suo paese, per far allontanare le galline i contadini dicono Già già.
Queste onomatopee sono influenzate dalle caratteristiche fonetiche delle
rispettive lingue e rappresentano materiali pre-linguistici che possono es-
sere utili (nel caso anche di gruppi infantili) per giochi sonori.
I canti di danza e quelli di festa hanno consentito all’insegnante di far in-
tonare i testi in italiano agli studenti stranieri, che li hanno accompagnati
60
scandendone il ritmo con i movimenti del corpo . Abbiamo potuto così
sperimentare che la ritmicità dei canti per danza facilita la memorizzazione
linguistica. L’esecuzione corale dei canti di questo repertorio ha anche fa-
vorito la socializzazione e il confronto interculturale all’interno del grup-
po-classe. Infatti, molti alunni stranieri sono stati sollecitati a raccontare di
rituali festivi ai quali hanno partecipato nel loro paese d’origine.
54
Canto di risaia registrato a Quinto Vercellese (VC) il 30 giugno 1970 da SERGIO LIBEROVICI
e EMILIO JONA, tratto dal CD allegato al saggio di FRANCO CASTELLI, EMILIO JONA E ALBERTO
LOVATTO, Senti le rane che cantano, Roma, Donzelli, 2005.
55
Canto registrato il 12 ottobre 1964 a Olevano Romano (RM) da BRUNO NATALETTI, GABRIE-
LE ARRIGO e TRAN TU QUAM, tratto dal CD allegato al saggio a cura di ROBERTA TUCCI, I “suo-
ni” della Campagna romana. Per una ricostruzione del paesaggio sonoro di un territorio
del Lazio, Regione Lazio, Assessorato alla Cultura, Spettacolo, Sport e Turismo, Soveria
Mannelli, Rubbettino, 2003.
56
Canto registrato da ALAN LOMAX a Venezia nel 1954 e tratto dall’LP Folklore musicale ita-
liano. Registrazioni originali di Alan Lomax e Diego Carpitella, vol.1, 1973.
57
Canto registrato da SIMHA AROM nel Benin agli inizi degli anni ’70, tratto dall’LP Dahomey,
Musical Atlas- Unesco Collection 064-18217, 1976.
58
Registrazione di Antonello Ricci del 10 luglio 1993, tratta dal CD Mesoraca. Vita musica-
le di un paese in Calabria, AIMP XLII, Ginevra, Archives Internationales de Musique Po-
pulaire, Musée d’ethnographie, 1996.
59
Registrazione di Pino Biondo, Sperlinga (EN) 1998, tratto dal CD Suoni e Canti Popolari
nella Provincia di Enna, vol. III (Il Lavoro), Enna, Ethica (collana diretta da Pino Biondo),
2002.
60
Per una proposta didattica dei canti italiani di tradizione orale di danza e di festa cfr. SERE-
NA FACCI, GABRIELLA SANTINI, Chants d’Italie. Pour chanter ensemble de 8 à 14 ans, cit., pp.
68-84.

!
53
Ad esempio, dopo i canti italiani di danza e di festa, abbiamo cautamente
proposto l’ascolto in classe della danza del Marocco Ahidus, poiché diversi
studenti provenivano proprio dal Marocco. Immediatamente, uno dei ra-
gazzi immigrati ha esclamato con sorpresa: «Ma questa la suonavano e la
ballavano i miei nonni in piazza!» E subito dopo ha iniziato a ballare sulla
61
musica dell’ Ahidus, coinvolgendo anche i compagni di classe .
I canti composti con le tecniche poetico-musicali espressive e narrative
comunemente utilizzate dai cantori di tradizione orale (ad esempio, i can-
62
tastorie siciliani e i cantori toscani in ottava rima) sono risultati utili in
ambito didattico, poiché ciascun alunno straniero è stato guidato a memo-
rizzare – oltre ai vocaboli nuovi – i moduli ritmico- melodici tradizional-
63
mente impiegati dagli «artigiani delle parole e della musica» .
Abbiamo così sfruttato, anche ai fini dell’insegnamento dell’italiano come
L2, una tipica funzione che il verso svolge all’interno delle culture di tra-
dizione orale. Infatti, riprendendo le parole di Diego Carpitella, sappiamo
che «nelle culture di tradizione orale il verso si situa nel corredo mnemo-
tecnico della collettività; [e che] Il verso è un segmento di queste ‘tecniche
della memoria’ adottate per poter conservare e tramandare una
cultura» [Diego Carpitella 1994, p. 9].
L’ascolto, l’imitazione e la memorizzazione delle parti cantate, recitate e
declamate – che, com’è noto, spesso si alternano nel repertorio dei cantori
di tradizione orale – hanno confermato la loro valenza didattica: gli stu-
denti hanno lavorato sulla musicalità delle parole sperimentando con la
propria voce diverse forme esecutive finalizzate all’intonazione e/o alla re-
citazione dei versi poetici dei racconti in musica proposti dall’insegnante.
In un secondo momento, gli stessi studenti stranieri hanno manipolato di-
rettamente i moduli ritmico-melodici utilizzati dai cantori tradizionali
(come fossero stati i pezzi di un Lego) per comporre una loro storia in mu-
sica.
In particolare, un canto sacro intonato da alcuni poeti a braccio di Tolfa
64
(RM) in occasione della festa di Sant’Antonio Abate , si è rivelato parti-
colarmente adatto come modello ritmico-melodico per guidare gli adole-
scenti immigrati ad improvvisare alcuni versi poetici in italiano, in forma
65
di preghiera .
In questo caso abbiamo lavorato con un canto che – facendo riferimento al
criterio di classificazione dei brani di tradizione orale che ho scelto per
l’organizzazione del repertorio da proporre in classe – pur utilizzando le
tecniche improvvisative dei poeti a braccio, rientra nell’area tematica dei
canti per pregare.
61
Registrazione tratta dal CD n°3, HUGO ZEMP (a cura di), Les Voix du Monde. Une antologie
des expressions vocales, CNRS e Musée de l’Homme, Parigi, 1996. L’Ahidus è un’impo-
nente danza collettiva, cantata e accompagnata con tamburi a cornice nella zona dell’alto
Atlante orientale dai Berberi, che la eseguono soprattutto durante le occasioni festive con-
nesse ai rituali di matrimonio e di circoncisione.
62
Per una proposta didattica dei canti narrativi italiani di tradizione orale cfr. SERENA FACCI,
GABRIELLA SANTINI, Chants d’Italie. Pour chanter ensemble de 8 à 14 ans, cit., pp. 36-55. Per
una descrizione dettagliata di un percorso didattico con i cantastorie siciliani, cfr. GABRIELLA
SANTINI, A scuola dai cantastorie: un’esperienza interculturale, in «Musica Domani», XX-
XIV, 2004, n°133, pp. 12-19.
63
In questo caso estendo ai poeti-cantori delle diverse tradizioni orali la definizione artigiani
delle parole e della musica, che è stata usata da Eric Charry per indicare i griot e distinguer-
li dagli appartenenti alle altre categorie socio-professionali dei Mandinga; ad esempio, dai
numu (cacciatori) e dai garanke (conciatori di pelle e vasai). Cfr. in merito ERIC CHARRY,
Mande Music. Traditional and modern music of the Maninka and Mandinka of western
Africa, Chicago, The University of Chicago Press, 2000, p. 1.
64
Brano registrato da Marco Mϋller a Tolfa (Rm) nel 1979, riportato nel CD allegato al testo
di ROBERTA TUCCI (a cura di), I “suoni” della Campagna romana. Per una ricostruzione del
paesaggio sonoro di un territorio del Lazio, cit., 2003.
65
Questa esperienza didattica è descritta in modo dettagliato in GABRIELLA SANTINI, Musica
per l’italiano come seconda lingua, cit., p. 38.

!
Quest’ultimo genere di repertorio ha anche favorito la promozione di per-
corsi di didattica interculturale.
Com’è noto, ogni sistema religioso è caratterizzato da un insieme di cre-
denze e di pratiche rituali in cui la musica è quasi sempre impiegata con
parole, gesti e oggetti simbolici assai diversi. Sappiamo, inoltre, che in
molte religioni la recitazione dei testi sacri e delle preghiere è formalizzata
sul piano sonoro (cantillazione, parlato ritmico, parlato intonato). Voci par-
ticolarmente pure (nel gregoriano cristiano) o particolarmente complesse
armonicamente (nel buddhismo) sono utilizzate per entrare in contatto con
la sfera più spirituale dell’esistenza mentre voci trasformate (in senso tea-
trale) – con o senza dispositivi quali portavoce o mirliton – vengono usate
per la personificazione delle divinità.
Nel corso della mia ricerca sul campo, poiché l’intenzione era quella di
partire dal vissuto dei ragazzi immigrati, considerando che tutti gli stranie-
ri presenti erano musulmani, ho inizialmente fatto ascoltare al gruppo-
66
classe una Recitazione del Corano registrata in Marocco . Ma gli studenti
non hanno riconosciuto questa recitazione come una di quelle da loro pra-
ticate. Allora un ragazzo bengalese, di sua iniziativa, ha iniziato a recitare
alcuni versetti del Corano e l’esperienza è così descritta nelle pagine del
diario etnografico, che ho steso nel corso della mia ricerca sul campo :
A questo punto, Shariff recita per tutti noi una parte del Corano e si crea nell’aula un’atmo-
sfera di forte partecipazione e di coinvolgimento emotivo. Quando il ragazzo bengalese
67
termina la recitazione lo applaudiamo e lo ringraziamo .

Essendo Shariff un bengalese, l’insegnante di lingua ha cercato di capire se


il ragazzo conoscesse il significato delle parole del Corano che aveva ap-
pena finito di recitare, ma dalle sue risposte ci è sembrato evidente che lo
studente avesse memorizzato i versetti senza comprenderne il significato.
Soltanto a questo punto del percorso didattico ho proposto allo stesso
gruppo-classe alcuni brani connessi a pratiche rituali che comprendessero
canti italiani di tradizione orale legati a feste religiose (ad esempio, le Ot-
tave su San’Antonio, più sopra citate, e l’inno alla Vergine, intitolato Evvi-
va la Vergini, intonato dai bambini durante la festa dell’Assunta, che si ce-
68
lebra ogni anno a Randazzo, nel messinese, il pomeriggio di Ferragosto) .
Dunque, un percorso didattico sulle diverse forme di recitazione delle pre-
ghiere (percorso che può trovare spazio all’interno di progetti interdisci-
plinari sul delicato tema del dialogo interreligioso) ha consentito, in quel-
l’esperienza, di sollecitare negli studenti un confronto tra differenti esempi
di vocalità ‘speciale’, che caratterizzano pratiche rituali religiose presenti
‘altrove’, di farle loro intonare per sperimentare le potenzialità della pro-
pria voce offrendo, allo stesso tempo, un contributo all’arricchimento del
lessico di ciascun alunno.
LE CANZONI ITALIANE PER L’INSEGNAMENTO DELL’ITALIANO COME L2
Facendo ricerca sul campo nella stessa classe di studenti immigrati, ho
avuto poi l’opportunità di sperimentare l’impiego in ambito didattico an-
che del repertorio delle
66 67 68

!
CD n°1, HUGO ZEMP (a cura di), Les Voix du Monde. Une anthologie des expressions vocales,
cit, 1996. Dal diario etnografico, mercoledì 7 gennaio 2009.
Registrazione tratta dal CD Suoni e Culture. Documenti sonori dell’Archivio Etnomusicale
Siciliano. Il

Ciclo dell’anno, Palermo, CIMS (Centro per le Iniziative Musicali), 1996. 55

canzoni dei cantautori italiani per facilitare l’apprendimento dell’italiano


come seconda lingua.
In accordo con la docente, abbiamo selezionato le canzoni italiane di can-
tautori come, ad esempio, Lucio Battisti, Angelo Branduardi, Fabrizio De
André, Sergio Endrigo, Francesco Guccini e Gino Paoli, che sono entrate
maggiormente a far parte della memoria collettiva. Alcune di queste can-
zoni sono diventate anche degli standard jazzistici e già da diversi anni
sono state inserite nelle antologie dei libri di testo scolastici.
All’interno di questo repertorio, è stato utile scegliere delle canzoni con
melodie logogeniche, che quindi rispettassero maggiormente gli elementi
ritmici e intonativi della lingua parlata (come nel caso della canzone Oggi
ho incontrato mia madre di Gino Paoli); mentre abbiamo cercato di evitare
le canzoni con melodie patogeniche, più emozionali ma che si discostano
molto dalla linea melodica e dall’andamento ritmico della lingua parlata,
soprattutto nell’italiano (come nel caso della canzone Almeno tu nell’uni-
verso scritta da Bruno Lauzi insieme a Maurizio Fabrizio e cantata da Mia
69
Martini) .
Il repertorio delle canzoni dei cantautori italiani è stato scelto anche per il
fatto che, in genere, le melodie rispettano gli accenti della lingua parlata e
l’ambito frequenziale dell’italiano. Inoltre, i testi di questo genere di can-
zoni offrono una grande varietà di forme grammaticali e sintattiche anche
complesse, che sono risultate utili in ambito didattico per insegnare agli
studenti immigrati le regole della lingua italiana in modo graduale [cfr.
Ciro Massimo Naddeo, Giuliana Trama 2006; Giuseppe Antonelli 2010].
Ad esempio, dal punto di vista dei contenuti grammaticali, Alla fiera del-
l’est di Angelo Branduardi (nata come reinvenzione di filastrocche popola-
ri) può essere utile per lo studio dei verbi al passato remoto e dei pronomi
relativi; Ci vuole un fiore di Sergio Endrigo, canzone per bambini molto
semplice dal punto di vista linguistico, può guidare all’uso degli articoli
determinativi e del verbo “volerci”, molto comune nell’italiano parlato;
Domenica e lunedì di Angelo Branduardi facilita lo studio dei pronomi e
delle congiunzioni mentre Il pescatore di Fabrizio De André quello dei
verbi al passato e la canzone E penso a te di Battisti-Mogol può introdurre
all’uso del gerundio.
Seguendo questo criterio, ciascun insegnante potrà arricchire il repertorio
delle canzoni che possono essere utili ad insegnare l’italiano come L2 agli
studenti immigrati, fino a costruire un corpus articolato da cui attingere.
Del resto, questo tipo di selezione è già stata fatta per i metodi d’insegn-
amento della lingua inglese come L2, poiché nei paesi anglosassoni è stata
affrontata ormai da lungo tempo questa stessa necessità che, invece, nel
nostro paese è diventata urgente soprattutto a partire dagli anni Settanta,
quando da terra di emigrazione l’Italia è diventata terra di immigrazione
[Caritas/Migrantes 2008, pp. 15-16].
Osservando la pratica didattica messa in atto in modo intuitivo dalla do-
cente di italiano come L2, mi è stato possibile verificare che effettivamente
«la musica e il testo delle canzoni rispondono alle esigenze di “un’introdu-
zione” emotiva alle più importanti unità semantiche, fonetiche e gramma-
ticali» [Renzo Titone 1983, p 3], facilitando l’apprendimento di una se-
conda lingua, come teorizzato già alla fine degli anni Settanta dallo psi-
chiatra e psicoterapeuta bulgaro Gheorghi Losanov, che ho citato più so-
pra. Inoltre, l’insegnante di italiano cercava sempre di spiegare agli studen-
ti il significato delle parole che non conoscevano facendo degli esempi le-
gati al loro vissuto:
69
Cfr. in merito alla definizione di canzoni logogeniche e patogeniche, CURT SACHS, La mu-
sica nel mondo antico, Firenze, Sansoni, 1963, p. 28; STEFANO LA VIA, Poesia per musica e
musica per poesia. Dai trovatori a Paolo Conte, Roma, Carocci, 2006, p. 43.
!
Mohammoud, egiziano, chiede il significato della parola inverno (presente nel testo della
canzone Domenica e lunedì di Angelo Branduardi) che, inizialmente, confonde con inferno
e la docente scrive sulla lavagna il nome delle stagioni. Inoltre, i ragazzi non conoscono il
significato dei verbi perdere, ritrovare, fermare, sprecare, durare, catturare, disprezzare e
consumare, ognuno dei quali viene spiegato dalla docente con degli esempi riferiti al vissuto
dei presenti. Ad esempio, per far comprendere il significato del verbo durare viene chiesto
ai ragazzi quanto tempo hanno impiegato per raggiungere l’Italia partendo dal loro paese,
cioè quanto tempo è durato il loro viaggio. Veniamo così a sapere che il viaggio del ragazzo
curdo è durato 3 mesi e 15 giorni, quello dell’egiziano 7 mesi, come quello dell’afgano,
70
mentre il viaggio dell’albanese è durato 1 mese e soli 3 giorni quello del tunisino .

L’insegnante ha così avviato un lavoro sulla memoria del viaggio di mi-


grazione del gruppo degli adolescenti: ciascuno studente è stato sollecitato
a raccontare il proprio viaggio migratorio, che ha sicuramente comportato
- come ha osservato Graziella Favaro - delle «“fratture” emotive ed affetti-
ve» [Graziella Favaro 2007, p. 111] con quella parte di vita che ognuno di
loro ha condotto altrove.
In questo modo, è stato possibile prendere spunto dal testo di una canzone
per fare leva su un fattore emotivo, spingendo gli allievi a narrare in lingua
italiana un episodio autobiografico significativo della propria esperienza
migratori. Del resto, tra i diversi approcci metodologici più diffusamente
utilizzati nell’insegnamento/apprendimento di una lingua seconda, sap-
piamo che proprio il metodo autobiografico si propone di insegnare la se-
conda lingua a partire da temi e contenuti legati alle storie di vita degli ap-
prendenti perché, come sottolinea la stessa Favaro:
[... ] l’utilizzo nel tempo [...] di “sollecitatori” autobiografici, oltre che efficace per l’appr-
endimento della L2, si rivela positivo anche in termini psicologici e affettivi. Raccontare
[...] parti della propria storia permette a ciascuno di sentirsi accolto e consente anche di co-
struire fili e ponti tra la propria vita qui e la parte della propria storia condotta altrove [Gra-
ziella Favaro 2002, p. 135].

L’intonazione delle parole delle canzoni, poi, ha facilitato gli studenti stra-
nieri anche a pronunciare le singole parole dei testi poetici. Ad esempio,
nel corso di alcune lezioni dedicate alla recitazione del testo della canzone
Il Disertore, di Boris Vian, è emerso che gli studenti stranieri imparavano
più facilmente i versi se erano cantati:
[...] si prova la recitazione del testo poetico contro la guerra di Boris Vian: Il Disertore. I
ragazzi declamano le parole del primo verso “Egregio presidente...” in arabo, persiano,
francese, italiano, inglese e rumeno alternandosi in un frenetico accelerando. Quando gli
studenti vengono chiamati a ripetere le parti che gli sono state assegnate in italiano, dimo-
strano maggiore facilità ad intonare i versi sul modello dell’interpretazione di questo testo
fatta da Ivano Fossati, piuttosto che a recitarli; dunque, l’insegnante fa riascoltare la regi-
strazione della versione del cantante italiano prima di far riprendere a ciascun ragazzo la re-
71
citazione dei versi de Il Disertore .

Anche lavorando con adulti italiani che hanno frequentato seminari di ag-
72
giornamento su questa tematica , ho potuto verificare che è più semplice
pronunciare le parole di una lingua straniera da imparare se vengono can-
tate. In particolare, gli italiani adulti hanno
70
Dal diario etnografico, mercoledì 30 gennaio 2008.
71
Dal diario etnografico C.T.P., mercoledì 21 maggio 2008.
72
Il seminario di formazione nel corso del quale è stato possibile sperimentare questa poten-
zialità didattica della musica – intitolato La musica per l’insegnamento della lingua stranie-
ra (L2), rivolto ai docenti della scuola dell’infanzia, primaria, secondaria di primo grado e
dei C.T.P. – è stato organizzato dall’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della
Fondazione Giorgio Cini di Venezia e guidato da Serena Facci e me medesima nei giorni 23
e 24 ottobre 2013.

!
57
confermato di avere maggiore facilità a ripetere per imitazione una fila-
strocca cinese cantandone le parole piuttosto che scandendole solo ritmi-
73
camente .
Inoltre, lavorando con canzoni di tipo cumulativo – ad esempio, Alla fiera
dell’Est di Angelo Branduardi, che ho già più sopra indicato tra le canzoni
utili per insegnare agli stranieri alcune forme grammaticali della lingua ita-
liana – è stata anche facilitata la memorizzazione di numerosi vocaboli
‘nuovi’, come si può rilevare dalla rilettura di alcune pagine del mio diario
etnografico:
Trattandosi di un brano di tipo enumerativo e cumulativo [Alla Fiera dell’Est di Angelo
Branduardi], la comprensione delle parole è facilitata e, continuando a ripetere più volte gli
stessi termini, a poco a poco tutti gli studenti immigrati iniziano a comprendere il significato
del racconto.
Particolare attenzione, poi, viene riservata anche alla conoscenza dei nomi degli animali,
che vengono disegnati sulla lavagna dall’insegnante.

La memorizzazione delle parole, di cui ormai gli studenti hanno compreso il significato,
viene facilitata insegnando loro ad intonare il testo. Il brano viene fatto cantare sia in coro
che per piccoli gruppi, assegnando a ciascun gruppo una strofa mentre il ritornello è ripetuto
da tutti.
L’impressione che ricevo è che per mezzo della pratica corale è possibile far intonare agli
studenti più volte uno stesso testo, sebbene sia molto ripetitivo, senza rischiare che si annoi-
74
no, facilitando così la memorizzazione delle parole ‘nuove’ in modo divertente .

Osservando il comportamento dei ragazzi immigrati nel corso degli incon-


tri è stato così possibile verificare che le canzoni memorizzate hanno svol-
to la funzione di formulario mnemonico, che si è rivelato prezioso per im-
75
parare una seconda lingua .
Altra strategia didattica sperimentata con la docente di italiano come L2 è
stata quella di far drammatizzare al gruppo-classe il contenuto dei testi del-
le canzoni mentre ne ascoltavano la registrazione:
Prima di terminare la lezione, però, l’insegnante fa cantare ai ragazzi la canzone Porta Por-
tese, mentre alcuni di loro mimano la scena descritta nel testo di Claudio Baglioni: la folla
del mercato, i diversi banchi (sostituiti dalle sedie) con le merci esposte, l’arrivo della ra-
gazza con il nuovo fidanzato ecc. Il risultato sembra efficace, perché il significato di molti
termini, che non era stato ben compreso da alcuni studenti, viene chiarito attraverso il coin-
volgimento di ciascun ragazzo nella narrazione della storia, perché a tutti loro è stato asse-
gnato un ruolo.

Il momento di maggiore partecipazione emotiva del gruppo, comunque, è quello legato alla
spiacevole sorpresa riservata al protagonista della canzone che, ad un certo punto, capisce di
essere stato tradito dalla sua fidanzata (IV strofa): si aggirano a braccetto tra i banchi del
mercato i due ragazzi nigeriani Joi e Coscia – che fanno le parti della fidanzata del protago-
nista e del suo rivale – ma quando li vede l’egiziano Mahamoud – che ha il ruolo di prota-
76
gonista - dice: “Io l’ammazzo!”, senza che fosse stato concordato .

Com’è noto, la strategia didattica relativa al coinvolgimento del linguaggio


del corpo per facilitare l’apprendimento di una lingua straniera, è suggerita
da diversi approcci metodologici induttivi e affettivo-comunicativi [Gra-
77
ziella Favaro 2002, pp. 113-137] .
73
In quell’occasione, abbiamo lavorato con una filastrocca cinese registrata da Serena Facci
mentre la intonava ‘Amy’ Zeng Huayan, dottoranda presso l’Università di “Tor Vergata” di
Roma.
74
Dal diario etnografico C.T.P., mercoledì 23 gennaio 2008.
75
Cfr. in merito JOHAN A. SLOBODA, Il contesto della mente musicale: cultura e biologia, in
Johan A. Sloboda, La mente musicale. Psicologia cognitivista della musica, cit., tr. it. 1988,
p. 407: “La musica fornisce una cornice mnemonica unica entro cui le persone possono
esprimere, con l’organizzazione temporale di suoni e gesti, la struttura delle loro conoscenze
e delle relazioni sociali. Le canzoni, i discorsi e le poesie organizzate ritmicamente formano
il deposito più importante di conoscenze umane delle culture non alfabetizzate.”
76
Dal diario etnografico, mercoledì 6 febbraio 2008.
77
Cfr. in merito anche ANDREA NAVA, La suggestopedia, in Maria Cecilia Rizzardi, Monica
Barsi, Metodi in classe per insegnare la lingua straniera, Milano, LED, 2005, p. 420: “L’u-
so della drammatizzazione e della

!
Credo sia da evidenziare, a questo proposito, che l’insegnante di italiano
come L2, prof. Gabriella Nocchi, ha lavorato molto sulla musicalità delle
parole senza trascurare però l’espressione mimico-gestuale degli studenti;
dunque, gli adolescenti e le donne immigrate hanno imparato l’italiano an-
che curando gli aspetti non verbali della lingua: il linguaggio del corpo, la
prossemica, gli sguardi, i gesti e le espressioni del volto.
Del resto, anche Graziella Favaro ha sottolineato che:
Il riferimento agli aspetti non verbali della lingua, alla dimensione ‘nascosta’, al linguaggio
del corpo, ci invita ancora una volta a considerare come componente peculiare dell’inse-
gnamento/apprendimento della L2 l’approccio interculturale. Imparare la nuova lingua si-
gnifica, per l’alunno straniero, essere profondamente immerso nei significati, nei riferimen-
ti, nella rappresentazione del mondo che essa veicola. Significa [...] entrare in contatto con
suoni, parole e alfabeti diversi, sperimentare e incontrare altri punti di vista, decentrarsi e
provare a mettersi “nei panni di...” [ad esempio anche drammatizzando il testo di una can-
zone] in un percorso di apprendimento – che integra le dimensioni cognitive, linguistiche e
affettive – che diventa arricchente per tutti [Graziella Favaro 2002, p. 131].

CONCLUSIONI
Sulla base dei risultati che ho rilevato facendo osservazione-partecipante
all’interno di un gruppo-classe di studenti immigrati frequentanti i corsi di
alfabetizzazione in lingua italiana, sono state confermate le due ipotesi
privilegiate dalle quali ha preso avvio la mia ricerca sul campo: una di ca-
rattere affettivo-relazionale e l’altra di carattere cognitivo.
Rispetto all’ipotesi di carattere affettivo-relazionale, il percorso con le mu-
siche del mondo di tradizione orale ha dimostrato che sollecitando la ‘visi-
bilità musicale’ delle culture dei paesi di provenienza degli studenti stra-
nieri, è possibile promuovere un lavoro sulla loro memoria musicale. Inol-
tre, guidandoli ad ascoltare e ri-manipolare creativamente i brani del reper-
torio di tradizione orale, gli studenti immigrati possono essere aiutati a
raccontare i propri vissuti, a confrontarli e a scambiarli tra loro e con i do-
centi fino a trasformare le proprie identità, con una ricaduta positiva anche
sull’apprendimento della lingua italiana.
È stato inoltre possibile verificare, rispetto all’ipotesi di carattere cogniti-
vo, che l’insegnamento dell’italiano come L2 attraverso le canzoni, basato
sulla cura della musicalità delle parole, facilita la memorizzazione dei ter-
mini ‘nuovi’ grazie anche all’associazione tra i suoni delle parole e l’arco
melodico dal quale sono rivestite, contribuendo così ad arricchire il lessico
dello studente straniero.
Per facilitare gli alunni immigrati nell’apprendimento dell’italiano, si è ri-
velato prezioso il lavoro sui testi poetici dei canti, incentrato su esercizi fi-
nalizzati a curare la pronuncia del suono dei singoli fonemi, la loro intona-
zione e la scansione ritmica, facendo attenzione a rispettare gli accenti di
ciascuna parola e le pause fra esse. L’insegnamento dell’italiano agli stu-
denti immigrati è stato quindi caratterizzato dalla cura degli aspetti musi-
cali interni alla lingua che, come hanno anche evidenziato recenti studi
dell’etnomusicologo Francesco Giannattasio, sono legati alla sua struttura
[FRANCESCO GIANNATTASIO 2005, pp. 1003- 1036].
Dunque, la musica può favorire l’inclusione di ciascun alunno immigrato,
promuovendone sia la creatività che la socializzazione. Allo stesso tempo,
l’attivazione di percorsi didattici incentrati sull’uso di un repertorio di can-
ti selezionati ad hoc, può facilitare gli studenti stranieri nell’apprendimen-
to dell’italiano come una seconda lingua.
mimica permette di sfruttare le potenzialità di apprendimento anche dell’emisfero destro,
facilitando l’assimilazione profonda e duratura delle strutture di una lingua seconda”.

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Sulla base di queste considerazioni, risulta evidente che è importante una
formazione anche musicale dei docenti di italiano come L2.
Inoltre, dalla ricerca sul campo che ho avuto l’opportunità di condurre, mi
sembra sia emersa la necessità di lavorare per organizzare un repertorio di
canti italiani scelti all’interno di diversi generi – che spazi dalla musica di
tradizione orale a quella popular e colta – per strutturare una metodologia
adeguata a rispondere alla sfida imposta alla scuola dal graduale e costante
aumento degli alunni immigrati, che devono imparare l’italiano per accele-
rare il loro percorso di inclusione scolastica e sociale.
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