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IL CINQUECENTO

1. LA STAMPA
Nel 1455, a Magonza, Johann Gutenberg aveva stampato la Bibbia. Era il primo esito di una invenzione dello
stesso Gutenberg che avrebbe rivoluzionato i metodi di riproduzione e diffusione dei testi: la stampa a
caratteri mobili (ogni singolo carattere era stampato autonomamente per mezzo di un pezzetto di piombo).
Ben presto, già nelle seconda metà del ’400, la stampa venne importata in Italia, in particolare a Roma e
Venezia, dove si aprirono numerose tipografie. Venezia divenne, anzi, una delle principali piazze europee di
produzione a stampa, insieme a Parigi. Nello stesso periodo si iniziò ad applicare la stampa anche alla musica.
Vennero pubblicati alcuni libri liturgici con notazione neumatica e trattati teorici che riportavano esempi
musicali. La svolta si ebbe però con l’attività di Ottaviano Petrucci (1466-1539) che a Venezia aprì la propria
tipografia. Petrucci fu il primo in Europa ad adattare la tecnica della stampa a caratteri mobili alla notazione.
La stampa avveniva in tre fasi di impressione (ogni foglio passava sotto il torchio più volte): prima veniva
stampato il rigo, poi le note e gli altri simboli musicali, infine il testo letterario. Il primo frutto del lavoro di
Petrucci è datato 1501 ed è una raccolta di chansons di autori fiamminghi (Busnois, Isaac, Josquin e altri)
intitolata Harmonice musices odhecaton (Cento canti polifonici). In circa quarant’anni di attività Petrucci
stampò una cinquantina di volumi a contenuto musicale (soprattutto polifonia), alcuni dei quali conobbero
delle ristampe. Una trentina raccoglievano musica liturgica (messe, mottetti, inni, cantici), una decina frottole
(vedi oltre), i rimanenti intavolature per liuto, raccolte di chansons, e raccolte di laudi polifoniche. Petrucci
adottava due tecniche di impaginazione a seconda della lunghezza e della destinazione del brano. La prima
possibilità era costituita da una disposizione a libro corale: le voci (quasi sempre 4) sono disposte su due
pagine vicine (dunque 2 voci sono stampate l’una sopra l’altra sulla pagina di sinistra e le altre 2 voci sulla
pagina di destra). Questo tipo di disposizione era adatta per brani brevi che si esaurivano nel giro di due
pagine, oppure che potevano essere suddivisi in sezioni ognuna delle quali poteva stare nelle due pagine. Dal
punto di vista esecutivo un libro di questo tipo veniva poggiato su un leggio e tutti gli esecutori vi si ponevano
intorno, ognuno leggendo la propria parte. Era dunque un formato particolarmente adatto a esecuzioni
domestiche, o comunque limitate a pochi esecutori (sostanzialmente uno per parte). La seconda tipologia di
impaginazione era invece costituita dai cosiddetti libri-parte: ogni voce era stampata in un libretto
autonomo. Ogni esecutore aveva il proprio libro-parte, oppure più esecutori della stessa voce potevano
leggere dal medesimo libro-parte. Questo tipo di formato era perciò adatto a esecuzioni con molti esecutori
per ogni parte (esattamente come avviene oggi con le parti d’orchestra).
Un altro metodo di stampa venne messo a punto dal romano Andrea Antico, il quale anziché alla stampa a
caratteri mobili ricorse alla xilografia. L’intera pagina di musica era incisa su legno, creando una lastra. Questa
veniva cosparsa di inchiostro e passata sotto il torchio che riproduceva l’intera pagina.
La tecnica di Petrucci venne superata dalle procedure di stampa a impressione singola. In questo caso il
carattere mobile non era limitato alla singola nota o alla pausa, ma inglobava anche il pentagramma
sottostante. Prevedendo un passaggio di impressione in meno, questo metodo era molto più economico,
perciò si diffuse velocemente, in particolare grazie al parigino Pierre Attaignant. Essendo i costi produttivi
più bassi era possibile aumentare la tiratura (cioè il numero di copie stampate) di ogni singolo titolo. La
stampa musicale prese sempre più piede e iniziarono a formarsi le prime aziende di natura famigliare, nelle
quali la conoscenza si passava di padre in figlio. Ecco che la diffusione della musica passa sempre meno dal
manoscritto e sempre più dalla stampa. Gran parte dei madrigali (vedi oltre) del ’500 e del primo ’600, così
come buona parte della polifonia sacra di quest’epoca sono giunti sino a noi in forma stampata. Le raccolte
di musica a stampa potevano essere di diverse tipologie. Vi erano raccolte miscellanee contenenti brani di
autori vari, ma dalla metà del ’500 si pubblicano sempre più anche raccolte monografiche, riservate alla
musica di un solo compositore.

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2. LA MUSICA PROFANA NELLE CORTI ITALIANE FRA ’400 E ’500


2.1 Improvvisazione
Come già nel ’400, le corti italiane continuano a giocare un ruolo di primo piano nella produzione musicale
del ’500. L’uomo di rango, il gentiluomo di corte, doveva infatti conoscere e praticare la musica. Lo spiega
chiaramente il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, opera letteraria che descrive la vita della corte di Urbino
nei primi anni del ’500, proponendola come modello da seguire in tutte le corti.
Si è detto che nel ’400 la gran parte della produzione profana era costituita dalle chansons polifoniche in
lingua francese dei franco-fiamminghi. Tuttavia ad essa inizia ad affiancarsi una produzione in altre lingue:
fiammingo, tedesco, italiano (per esempio già Du Fay e Josquin composero brani in italiano destinati alle corti
nostrane per cui lavoravano). A fianco di questa produzione impegnata continuava ad essere diffusa, anche
nell’Italia del ’400 e del ’500, la pratica orale. Rientra in questo ambito la cosiddetta intonazione
all’improvvisa, in cui il canto improvvisato di un testo poetico era sostenuto da uno strumento. Tale pratica
era diffusa sia a corte sia a livello popolare (per esempio nelle piazze) e, in età Umanistica, venne interpretata
come riproposizione moderna della monodia greca accompagnata dalla lira o dalla cetra. Fra i musicisti
italiani che vi si dedicarono possiamo ricordare il nobile veneziano Leonardo Giustinian, attivo nella prima
metà del ’400, e Pietrobono del Chitarrino, attivo nella corte di Ferrara nella seconda metà del ’400. La
maggior parte di questa produzione, essendo di tipo improvvisativo e tramandata oralmente, non ci è giunta,
ma qualcosa è stato pubblicato da Petrucci anche se adattato polifonicamente a 4 voci.
2.2. La frottola
Negli ultimi decenni del ’400 a fianco della produzione improvvisata nasce un nuovo genere profano in
volgare che avrà grande diffusione nell’Italia settentrionale fra il 1470 e il 1520 circa: la frottola. Si tratta di
pezzi polifonici che intonano testi poetici articolati in strofe e di conseguenza intonati in forma strofica (la
stessa musica torna sulle varie strofe di testo). Il termine è usato con una doppia accezione: da un lato esso
indica una forma poetica ben precisa, dall’altro è usato in maniera generica per indicare una produzione che,
oltre alla frottole vere e proprie (una ripresa di 4 versi funge da ritornello fra una strofa e l’altra, di solito di
6 o 8 versi: Ripresa di 4 versi, Strofa di 6 o 8 versi, Ripresa integrale o scorciata, Strofa, Ripresa integrale o
scorciata ecc.), comprende altre tipologie come la barzelletta (in ottonari o settenari con ritornello), lo
strambotto (endecasillabi organizzati in ottave), il sonetto (endecasillabi organizzati in due quartine e due
terzine). In questa seconda accezione il termine frottola è utilizzato da Petrucci nelle sue 11 raccolte a stampa
che comprendono brani appartenenti a questo genere. Gli argomenti trattati erano di carattere amoroso
oppure erano popolareggianti e umoristici. Dal punto di vista musicale, come detto, si tratta di polifonia, in
genere a 4 voci (cantus, altus, tenor, bassus). L’esecuzione poteva essere di tipo polifonico, dunque
comprendente tutte e 4 le parti, oppure poteva essere ridotta: il cantus era affidato alla voce del solista,
accompagnata da uno strumento (di solito il liuto) che eseguiva le parti di tenor e bassus, mentre l’altus era
omesso. Dunque un forma esecutiva di canto monodico accompagnato. Eseguita in questo secondo modo la
frottola mostrava una chiara parentela con la tradizione dei canti improvvisati. Per questo motivo e per la
scrittura semplice (stile prevalentemente sillabico; la voce più acuta porta il discorso ritmico-melodico e
dunque si distacca da quelle sottostanti; le altre voci procedono per lo più in maniera accordale; le complesse
tecniche imitative della chanson sono abbandonate), essa si distacca dalla produzione profana dei franco-
fiamminghi. Tuttavia, a differenza delle improvvisazioni e similmente alla chanson, la frottola si presenta in
forma scritta, assurge perciò allo status di composizione vera e propria. Il repertorio frottolistico ci è giunto
sia in raccolte a stampa (Petrucci pubblicò 11 raccolte di frottole), sia in forma manoscritta.
La frottola fiorisce nelle corti del nord Italia, in particolare a Mantova, Ferrara, Urbino e Milano. Alcuni
personaggi femminili contribuirono alla diffusione e all’apprezzamento della frottola: a Mantova Isabella
d’Este, moglie di Francesco Gonzaga, la quale cantava e suonava il liuto, e a Ferrara Lucrezia Borgia, moglie
di Alfonso d’Este. Per loro lavorarono i più importanti autori di frottola: Marchetto Cara (1465 ca. - post
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1525), che fu al servizio di Isabella, Bartolomeo Tromboncino (1470 ca. - post 1534), che lavorò sia per
Isabella che per Lucrezia, e Michele Pesenti (1475 ca. - 1521), attivo a Ferrara (Esempio 7.2 – Tromboncino,
Frottola, Ostinato vuo’ seguire). Nelle corti la frottola veniva per lo più eseguita in privato, ma veniva sfruttata
anche come musica teatrale, benché non nata con quello scopo.
2.3 Canti carnascialeschi e laudi
Se la frottola ha grande fortuna nelle corti del nord Italia, la Firenze dei Medici è il centro di sviluppo di due
altri generi profani in italiano nel ’400 e nel ’500: i canti carnascialeschi e la lauda. Fu soprattutto Lorenzo il
Magnifico (al potere fra il 1469 e il 1492) a incoraggiare la fioritura della poesia in volgare e la sua
nobilitazione, come dimostra il caso dei canti eseguiti durante il carnevale (carnasciale in fiorentino). I testi
in versi erano cantati in diverse occasioni del carnevale. C’erano le mascherate, nelle quali all’inizio la poesia
esplicitava l’identità del travestimento e poi ne delineava le caratteristiche, giocando su doppi sensi e
allusioni sessuali (esempio 7.3 – Visin, visin). Più impegnati e di tono più colto erano i versi che
accompagnavano i trionfi e le raffigurazioni allegoriche posti sopra carri mobili. Per questa situazione lo
stesso Lorenzo compose “Quant’è bella giovinezza” (esempio 7.4). Si tratta di forme strofiche, di solito
intonate a 3 voci, dunque polifonia, ma con andamento sostanzialmente omoritmico. La musica era in genere
composta dai musicisti della corte medicea fra i quali i fiamminghi Heinrich Isaac e Alexander Agricola.
Nel 1494, poco dopo la morte di Lorenzo, i Medici vennero cacciati e il governo cittadino venne gestito dai
seguaci del frate Girolamo Savonarola, che instaurarono un clima severo e che eliminarono qualsiasi forma
di svago profano, canti carnascialeschi compresi. Il moralismo dei nuovi governanti favoriva invece
l’organizzazione di manifestazioni devozionali ad ampia partecipazione popolare. In queste occasioni si diede
nuovo impulso alla lauda, genere monodico non liturgico in lingua italiana, nato e fiorito nel sec. XIII in
particolare nell’Italia centrale (Perugia, Siena, Firenze). Le laude erano canti devozionali in lode di Dio, della
Vergine, dei Santi oppure di tipo penitenziale. Venivano eseguite in confraternite laicali (le compagnie di
laudesi) che svolgevano processioni e si riunivano periodicamente per pregare e cantare le laude. Tali riunioni
avvenivano in locali delle compagnie stesse, di solito oratori (ossia luoghi di preghiera) annessi a conventi e
chiese. Il canto della lauda, pur essendo di argomento religioso, era estraneo alla liturgia che, d’altra parte,
ammetteva solo il latino. La lauda invece costituisce una delle prime espressioni poetiche in italiano.
La lauda non era mai scomparsa dal panorama poetico e musicale, ma nel tardo ’400 - primo ’500 inizia ad
avere veste polifonica. Da un lato vi era la produzione di nuovi testi poetici per la lauda, dall’altro venivano
adattati testi precedenti, anche profani, che, con opportune modifiche, divenivano di tipo sacro. Rimanevano
invece le ben note melodie originali. A questo tipo di adattamenti si dà il nome di contrafactum. I Medici
ripresero il potere nel 1512 e ripristinarono i canti carnascialeschi, almeno fino alla loro seconda cacciata nel
1527. La lauda quattro-cinquecentesca comunque non fu un fenomeno solamente toscano. Si diffuse nelle
corti che videro lo sviluppo della frottola (in particolare Mantova, Ferrara e Milano), tanto che i frottolisti
Cara e Tromboncino si dedicarono anche alla composizione di laudi. Inoltre la lauda ebbe ampia fortuna in
Veneto.
2.4 Il teatro
Le corti italiane furono sede anche di importanti esperienze teatrali profane fra ’400 e ’500. Queste
rappresentazioni si rifacevano ai modelli classici. A Ferrara, durante il carnevale, venivano messe in scena le
opere teatrali di Plauto e di Terenzio, oppure lavori moderni ad esse ispirati. Oltre al carnevale, altre occasioni
di rappresentazione venivano da eventi straordinari, come visite di personalità politiche o feste nuziali fra
regnanti. Queste recite prevedevano la presenza di inserti musicali, cioè parti cantate e suonate perché lo
richiedeva la vicenda (per esempio a un certo punto era previsto che un personaggio cantasse una canzone,
oppure danzasse). La musica era inoltre presente negli intermezzi (o intermedi), momenti spettacolari che
venivano proposti fra un atto e l’altro della pièce teatrale. Dato che le commedie e le tragedie prevedevano
una suddivisione in cinque atti gli intermedi erano almeno quattro (fra primo e secondo atto, fra secondo e
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terzo, fra terzo e quarto, fra quarto e quinto), ma potevano esserci intermedi anche all’inizio (in funzione di
prologo) e alla fine.
Gli intermedi erano detti apparenti se la musica accompagnava un’azione scenica (cioè se sul palco avveniva
qualcosa), in caso contrario la scena rimaneva vuota e si udiva solo la musica, i cui esecutori erano mantenuti
nascosti alla vista del pubblico. Gli intermedi apparenti erano particolarmente curati dal punto di vista
scenico. Era infatti richiesto che fossero molto spettacolari per colpire l’attenzione del pubblico e perché il
loro allestimento, come detto, era previsto in occasioni solenni e straordinarie. Per questo si ricorreva a
macchinari in grado di fare apparire improvvisamente personaggi, oppure nuove grandiose scenografie
(montagne, la superficie del mare, le nuvole, ecc.). Particolarmente ricchi erano anche i costumi.
L’azione prevedeva parti cantate, parti danzate, parti mimiche ed era di solito indipendente dall’azione della
commedia o della tragedia intercalata. La musica degli intermedi poteva non essere composta per
l’occasione, ma già esistente. Venivano eseguite frottole oppure madrigali (vedi oltre), dunque generi che
non erano nati con una destinazione teatrale, ma che si adattarono a ricoprirla. Soprattutto la corte dei
Medici a Firenze si distinse nella produzione di intermedi. Particolarmente noti sono gli intermedi della
commedia La Pellegrina di Gerolamo Bargagli, allestita nel 1589 per il matrimonio fra Ferdinando I dei Medici
e Cristina di Lorena. Gli intermedi della commedia prevedevano effetti estremamente spettacolari come un
dragone che sputava fiamme e la presenza di macchine volanti. Inoltre è l’unico caso di intermedi dei quali
ci sono arrivate integralmente le musiche. Le musiche erano di autori vari, molti dei quali ritroveremo
parlando delle innovazioni tecniche sviluppate fra 500 e 600: Giovanni de’ Bardi, Emilio del Cavaliere, Luca
Marenzio, Giulio Caccini, Jacopo Peri. I testi erano di autori vari fra cui Ottavio Rinuccini (esempio 9.1 –
Intermedio IV de La Pellegrina).

3. IL MADRIGALE
Il ’500, dal punto di vista letterario, segnò il tentativo di affermazione di una lingua unitaria che aveva i suoi
modelli in Petrarca per quanto riguarda la poesia e in Boccaccio per quanto riguarda la prosa. Fu Pietro
Bembo, nelle sue Prose della volgar lingua (pubblicate nel 1525), ad auspicare che la lingua utilizzata dai due
autori toscani venisse presa a modello dagli scrittori contemporanei. Da qui discese la moda del
petrarchismo, ossia la lirica cinquecentesca modellata sul Canzoniere e sugli altri lavori del poeta toscano. La
tendenza influenzò anche il mondo musicale. Da un lato sempre più si misero in musica testi di Petrarca,
dall’altro, se i testi erano nuovi, si prestava maggiore attenzione alla loro qualità letteraria. Lo si nota, per
esempio, nelle ultime raccolte di frottole pubblicate da Petrucci. In precedenza i testi poetici erano in genere
modesti. Ora a brani basati su testi ancora scadenti si affiancano brani su testi molto più curati (quando non
addirittura di Petrarca stesso). Sotto il profilo strettamente musicale, il ricorso a poesia aulica rendeva
impellente la necessità di realizzare una stretta adesione fra parole e musica. Questo nella frottola non era
possibile, perché la frottola era una forma strofica, perciò basata sul ritorno della stessa musica su parole
diverse. Pertanto i compositori abbandonarono la stroficità musicale e iniziarono a comporre musica nuova
per parole nuove. Questo è il principio fondamentale su cui si regge il genere che dominò il ’500 e parte del
’600: il madrigale. Il termine è attestato per la prima volta nella raccolta Madrigali de diversi musici stampata
a Roma nel 1530. Il madrigale cinquecentesco, dunque, nulla ha a che fare con il madrigale trecentesco che
era strofico. Le origini del nuovo genere sono da collocare a Firenze e a Roma, città nelle quali operarono i
compositori che diedero vita alla prima fase del madrigale: Philippe Verdelot (che troviamo prima a Firenze
e in seguito a Roma) e Jacques Arcadelt, fiammingo, allievo di Verdelot a Firenze e poi cantore nella cappella
papale a Roma. Un altro fiammingo protagonista dello sviluppo del madrigale fu Adrian Willaert, prima al
servizio degli Este a Ferrara e poi maestro di cappella in S. Marco a Venezia. Anche in questa città, dunque,
inizia a diffondersi il nuovo genere, apprezzato sia a corte, sia negli ambienti aristocratici e alto-borghesi, per
intrattenimenti privati.

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Sotto il profilo poetico il madrigale non aveva struttura fissa. Potevano essere utilizzati generi diversi: sonetti,
canzoni, ballate, ottave, oppure estratti di opere in versi di vaste dimensioni. L’intonazione musicale era
polifonica (di solito a 4 o a 5 voci, ma esistono madrigali con meno o con più parti) e, soprattutto, la musica
non veniva replicata, ma alternava episodi sempre diversi, che utilizzavano anche stili diversi: c’erano episodi
a compagine completa alternati a episodi a compagine ridotta; momenti omoritmici alternati a momenti in
imitazione; sezioni che prevedevano differenti disposizioni ritmiche; alternanza fra momenti impostati sul
registro acuto e momenti impostati sul registro grave e così via. Il termine usato per definire questa forma
“aperta”, non basata su ritorni musicali, è durchkomponiert. La struttura musicale del pezzo non è più
determinata dalla forma (strofica) della poesia, bensì dal contenuto della poesia stessa.
Il principio fondamentale era dunque la perfetta compenetrazione fra poesia e musica, da un lato
raggiungibile abbandonando la stroficità, dall’altro restituendo attraverso la musica il significato del testo.
Dovendo la musica esprimere il significato delle parole, i compositori si servono di espedienti tecnici chiamati
madrigalismi, che consentono di raffigurare il contenuto del testo tramite le note. Per esempio un veloce
melisma poteva “dipingere” musicalmente il significato di parole come aria o vento; il registro acuto era
sfruttato in coincidenza di parole che indicano l’alto (ad esempio la parola cielo), quello grave di parole che
indicano il basso (la parola terra); passaggi cromatici e dissonanze esprimevano concetti di sofferenza e
dolore (perché l’orecchio “soffriva” di fronte a quegli urti armonici); note bianche (dunque dal valore lungo)
indicavano concetti come chiaro, giorno, occhi, note nere (di valore breve) indicavano concetti come notte,
tenebre, cieco. Uno dei madrigali più noti della fase iniziale della storia del genere è Il bianco e dolce cigno
messo in musica da Arcadelt. Il testo propone un confronto fra il cigno, bianco e dolce, che muore cantando
e l’“io” lirico (il poeta), pure destinato a morire. Tuttavia mentre il cigno muore “sconsolato”, il poeta muore
“beato”. Infatti se il primo muore fisicamente, la morte del secondo è un’allusione al soddisfacimento del
desiderio sessuale, tanto che negli ultimi due versi il poeta dice di voler “morire” in quel modo mille volte al
giorno. La musica deve restituire il significato delle parole. Così il paragone fra il cigno e il poeta è realizzato
attraverso l’opposizione fra la compagine chiara (Canto, Alto, Tenore, bb. 1-5) per il cigno (che è bianco e
dolce) e l’iscurimento dato dall’entrata del basso per il poeta (bb. 5-15). Inoltre in questa seconda sezione
viene introdotto il mi bemolle estraneo al modo d’impianto (fa), alterazione che vuole rendere il tema del
dolore e della morte. Nella parte finale (da b. 34) è prevista un’imitazione fra le voci proposta molte volte. In
questo modo il testo, che come detto racconta il desiderio del poeta di morire mille volte al giorno, è replicato
moltissime volte, sia fra tutte le voci, sia nella stessa parte. Arcadelt restituisce musicalmente quelle “mille
volte” (esempio 7.5 – Arcadelt, Madrigale, Il bianco e dolce cigno).
L’applicazione di queste soluzioni portò a scelte compositive insolite e stravaganti, che si distaccavano dalle
“regole” consolidate della composizione musicale, innanzitutto dal rigore estremo e razionale della polifonia
quattrocentesca. Dato che la musica doveva essere in grado di esprimere i contenuti e le sfaccettature del
testo, il madrigale aveva un trattamento musicale più libero rispetto agli altri generi. Fra i compositori che si
distinsero per bizzarria della messa in musica va segnalato Cipriano de Rore (1516 ca. - 1565). Nei suoi
madrigali capita di trovare, per esempio, passaggi in cui viene meno il profilo melodico e le voci procedono a
note ribattute e in maniera sillabica (una sorta di recitativo). Molto sfruttato è anche il ricorso a movimenti
cromatici che provocano tensioni melodiche e scontri armonici che devono comunicare il pathos del testo. Si
veda per esempio il madrigale Crudele, acerba, inesorabil morte, dove il cromatismo in certi momenti la fa
da padrone (batt. 12-14, 21-22). Questa condotta determina tensioni musicali che ben esprimono le tensioni
del testo: si parla, infatti, della sofferenza procurata dal pensiero della morte (esempio 7.6 – De Rore,
Madrigale Crudele, acerba, inesorabil morte).
Le ‘irregolarità’ compositive del madrigale rimarranno una costante anche dopo de Rore. La produzione di
Carlo Gesualdo principe di Venosa (1560 ca. - 1613) è a tal proposito significativa. Libertà nell’uso delle
dissonanze e delle alterazioni cromatiche, abbondanza di ritardi, scelte ritmiche inconsuete, organizzazione
del discorso musicale in un flusso continuo con poche cadenze, accostamento improvviso di sezioni dal

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carattere opposto (per esempio cromatico vs diatonico; scrittura accordale vs scrittura imitativa) sono alcune
caratteristiche dei madrigali di Gesualdo che li collocano al di fuori della ordinarietà compositiva. Il madrigale
Itene, o miei sospiri mostra queste caratteristiche. Innanzitutto il brano è costruito su una continua alternanza
fra momenti omoritmici e momenti in imitazione. Nelle varie sezioni cambia poi la mensura. Dunque ogni
verso poetico ha la propria caratteristica intonazione musicale che lo distingue dal verso precedente. Inoltre
questa composizione presenta diversi madrigalismi. All’inizio la parola “sospiri” (b. 2) è interrotta da una
pausa, per esprimere attraverso la musica l’affanno di un sospiro. Inoltre quella stessa parola prevede una
scrittura cromatica, essendo il sospiro un’espressione dolente. Subito dopo la parola “precipitate” (bb. 3-10)
è realizzata con una successione di salti discendenti. Il discorso melodico “precipita” verso il basso. Il senso
della caduta è poi realizzato attraverso la disposizione delle voci. Si parte dalla più acuta e si scenda man
mano fino al basso. Si precipita dal registro acuto al grave. Nella stessa sezione l’espressione “il volo” è
espressa attraverso rapidi melismi verso l’alto. Più avanti, quando si dice che la donna amata “è cagion d’aspri
maritiri” (bb. 11-16) e quando si narra del “duolo” provato dal poeta (bb. 21-22), si fa un ampio ricorso a
cromatismi e dissonanze, come detto utilizzati in coincidenza di espressioni di sofferenza. In coincidenza della
parola “cangerò” (bb. 34-35), l’idea di cambiamento è suggerita dal passaggio dal metro binario utilizzato
sino a quel momento al metro ternario. Dunque un cambiamento musicale riflette il significato del testo
(esempio 7.7 – Gesualdo, Madrigale, Itene, o miei sospiri).
Anche Claudio Monteverdi (1567-1643) non fu da meno in quanto ad arditezze. Monteverdi pubblicò 8 libri
di madrigali che costituiscono un caposaldo del genere (apparirono a stampa fra il 1587 e il 1638). Nato a
Cremona, dove studiò, si trasferì a Mantova nel 1590 al servizio dei Gonzaga, prima come suonatore di viola,
poi come maestro di cappella. I primi cinque libri di madrigali furono composti durante il suo servizio
mantovano. Quindi si trasferì a Venezia: dal 1613 fino alla morte fu infatti maestro di cappella in San Marco.
Qui, fra le altre cose, portò a compimento i libri dal sesto all’ottavo, sui quali sarà necessario ritornare perché
momenti fondamentali del nuovo corso che la musica prenderà nel ’600. Intanto si può rilevare come le
irregolarità presenti in alcuni suoi madrigali, che sarebbero poi stati stampati nel Quarto e nel Quinto libro,
spinsero il compositore Giovanni Maria Artusi a scrivere un pamphlet polemico intitolato L’Artusi, over Delle
imperfettioni della moderna musica (pubblicato a Venezia nel 1600). Già il titolo mostra che l’autore intende
scagliarsi contro le caratteristiche della musica moderna. In particolare Artusi attacca il trattamento anomalo
delle dissonanze (cioè non preparate e non risolte), l’uso di alterazioni non consentite, l’adozione di una
vocalità a note ribattute di tipo declamatorio, la presenza di intervalli particolarmente ampi. La risposta di
Monteverdi arriverà nel 1607 in una appendice allegata alla raccolta Scherzi musicali, firmata dal fratello di
Claudio, Giulio Cesare, anch’egli musicista. Qui si spiega che Artusi aveva censurato certe scelte compositive
presenti nei madrigali di Claudio Monteverdi perché aveva considerato solo la musica e non le parole. Questo
era un approccio tipico dei compositori appartenenti alla prima pratica (i cui esponenti sono Ockeghem e i
fiamminghi), i quali consideravano la musica padrona del testo. Per loro la cosa importante era che le norme
compositive venissero rispettate; in ciò stava il bello della composizione. Alcuni dei compositori più recenti,
Rore, Marenzio, Gesualdo, lo stesso Monteverdi, avevano un differente approccio. È la poesia ad essere
signora della musica. Questo è l’elemento fondante di quella che viene definita “seconda prattica”. Le
irregolarità musicali sono accettabili perché rispecchiano il senso delle parole.
Dai centri di diffusione iniziale (Roma, Firenze, Venezia con Verdelot, Arcadelt e Willaert) il madrigale si
espande ben presto in tutta Italia (anche grazie alla stampa). Lo testimoniano i luoghi in cui lavorarono i
principali madrigalisti del ’500: De Rore fu allievo di Willaert e maestro di cappella a Venezia, ma fu anche
maestro di cappella degli Este a Ferrara e dei Farnese a Parma; Andrea Gabrieli (1533 ca. - 1585) lavorò a
Venezia; Luca Marenzio (1553-1599) lavorò a lungo a Roma; Monteverdi, come detto, lavorò alla corte di
Mantova e poi a Venezia; Carlo Gesualdo fu attivo a Napoli e a Ferrara. Tutte queste città giocarono dunque
un ruolo importante nella diffusione del madrigale. Perfino un compositore impegnato soprattutto presso
istituzioni ecclesiastiche come Giovanni Pierluigi da Palestrina compose quattro libri di madrigali, fatto che
dimostra la considerazione in cui questo genere poetico-musicale era tenuto. La diffusione e la centralità del
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madrigale furono tali che risulta difficile individuare un compositore attivo in Italia nel ’500 la cui produzione
non prevedesse un gran numero di madrigali (per lo più stampati). Il madrigale ebbe anche un grande
successo internazionale. Dunque possiamo dire che se il ’400 fu il secolo dei franco-fiamminghi, nel ’500
l’orientamento musicale veniva dettato dall’Italia.
Il madrigale era utilizzato in occasioni pubbliche, come gli intermedi teatrali, le feste o le cerimonie laiche,
tuttavia per lo più aveva una funzione privata. Era il genere prediletto per esecuzioni domestiche, sia ad
opera di appassionati che si incontravano per eseguire questo genere di musica (dunque senza pubblico), sia
nelle corti dove i membri della cappella di esibivano di fronte a un pubblico ristretto. Dunque era un tipo di
poesia e di musica destinato soprattutto a essere apprezzato dalle classi di colti e raffinati membri
dell’aristocrazia e delle corti.
Spesso erano proprio i signori delle corti oppure i committenti a indicare al compositore quale testo mettere
in musica. Più raramente la scelta era del compositore. Spesso, poi, i testi venivano scritti appositamente per
qualche occasione specifica (nozze, nascite, banchetti, rappresentazioni teatrali ecc.). Capitava inoltre che si
chiamassero differenti compositori per realizzare una raccolta di madrigali tutti basati sul medesimo
argomento, oppure addirittura sul medesimo testo. Si determinava cioè una sorta di cimento, di gara, fra
autori che dovevano lavorare sullo stesso materiale. Come già detto, i testi erano di alta qualità letteraria e
comprendevano lavori sia di poeti passati (Petrarca, Iacopo Sannazzaro), sia di contemporanei (oltre ai
seguaci del petrarchismo, Ludovico Ariosto, di cui spesso si musicavano strofe estratte dall’Orlando furioso,
Pietro Bembo, Torquato Tasso, testi tratti dalla Gerusalemme liberata, Battista Guarini, testi tratti dal Pastor
fido).
Nel corso del ’500 si svilupparono diverse tipologie di madrigale:
- madrigali cromatici o a note nere: il termine “cromatico” non va qui inteso in senso musicale, ma in senso
pittorico. Erano cioè madrigali che prevedevano lunghi passaggi con note di valore breve, dunque colorate di
nero. Ciò consentiva una maggiore possibilità di combinazioni ritmiche sempre nuove (ad esempio la
sincope).
- madrigali ariosi: madrigali nei quali la voce più acuta assumeva la funzione di conduttrice melodica del
pezzo. Dunque la melodia (definita all’epoca “aria”) spiccava sull’accompagnamento delle voci inferiori che
procedevano per lo più in maniera accordale. Spesso la melodia era costruita di schemi melodici preesistenti
e molto noti che il compositore prendeva e rielaborava come “aria” del proprio madrigale.
- madrigali drammatici: sviluppatisi a fine secolo, si tratta di madrigali raccolti in cicli che sviluppano una
vicenda suddivisa in episodi, oppure un concetto unitario. Si trattava di una sorta di teatro immaginario.
Teatro puramente immaginario perché l’intonazione continuava ad essere polifonica, per cui le battute di
ogni personaggio erano affidate a più voci, e perché non c’era alcuna ambientazione scenica. Per esempio
L’Amfiparnaso (1597) di Orazio Vecchi comprende 15 madrigali che evocano personaggi e situazioni della
commedia dell’arte. Invece ne La pazzia senile (1598) di Adriano Banchieri si tratta di due vecchi che hanno
velleità amorose e che vengono delusi dall’intervento di giovani innamorati aiutati da servi.
Si è detto che il madrigale era un tipo di composizione raffinata che faceva uso di elevati testi poetici e
metteva in campo una estrema complessità compositiva. Al suo fianco, in Italia, continuano comunque a
vivere generi più popolareggianti. Esaurita la moda delle frottole, nelle varie zone d’Italia si sviluppano altre
tipologie. Nell’Italia nord orientale si diffonde, dagli anni ’20 del ’500, la villotta, di solito a 4 voci, di
andamento omoritmico. I versi erano di metro variegato, organizzati in lasse, ed era presente un ritornello,
detto nio, che era composto da sillabe prive di significato.
Nell’area meridionale, in particolare a Napoli, si sviluppano altri tipi di musica e poesia popolari. Anch’essi
caratterizzati da stroficità poetica e musicale, ricorrono talvolta al dialetto. A questo repertorio viene dato il
nome di villanesca, sostituito nella seconda metà del secolo da villanella. In genere a 3 voci e dall’andamento
omoritmico, in questi brani la parte superiore portava la linea melodica, caratterizzata da un andamento

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popolaresco. Il carattere popolaresco si otteneva imitando quelle che erano le peculiarità della musica
improvvisata: ripetizione di segmenti melodici, ricorso al declamato attraverso note ribattute, andamento
per quinte parallele fra le voci ecc. Il successo della villanella la fece uscire dai confini del sud Italia e si diffuse
altrove, raggiungendo Roma, Venezia e altri centri (esempi 7.8 e 7.9 – Villanelle).

4. LA RIFORMA
Fin qui ci siamo occupati della musica profana del ’500. Venendo a parlare di musica sacra in questo secolo,
non si può che cominciare dall’avvenimento che lo sconvolse sia sotto il profilo religioso sia sotto quello
politico: la riforma di Martin Lutero. L’opposizione del frate agostiniano Lutero (1483-1546), professore di
teologia a Wittenberg (in Sassonia), alla Chiesa di Roma prese le mosse dalla diffusione del commercio delle
indulgenze, cioè la remissione dei peccati dietro pagamento. Lutero riteneva che la salvezza non poteva
essere raggiunta attraverso il pagamento, ma dipendeva dalla fede. Egli perciò mise in discussione l’intero
apparato di pratiche dell’epoca. Non solo le indulgenze, ma anche il culto delle reliquie dei santi, i
pellegrinaggi, le messe votive, tutte pratiche che prevedevano aspetti economici legati al culto. Il suo punto
di vista ebbe vasta circolazione soprattutto grazie alla stampa, pertanto la Chiesa prese posizione
condannandolo. Lutero rispose arrivando a rifiutare il primato papale e a teorizzare il sacerdozio universale.
Chiunque avesse ricevuto il battesimo era ‘sacerdote’ e pertanto poteva intrattenere un rapporto diretto con
Dio senza bisogno dell’intermediazione del clero. Nel 1520 Lutero fu dichiarato eretico e scomunicato, ma
nel frattempo il frate aveva conquistato ampio seguito anche presso personaggi potenti, come il principe
elettore di Sassonia Federico il Saggio che lo protesse. Anche altri principi e varie città aderirono alle idee
luterane andando a scontrarsi con l’imperatore Carlo V. Non riuscendo né questi, né il papa, a fare rientrare
lo scisma, nel 1555, ad Augusta, si giunse a prendere atto della situazione sancendo un accordo fra luterani
e cattolici: i sudditi dovevano adeguarsi alla religione professata dal proprio sovrano.
Per favorire il contatto diretto tra fedele e Dio, il fedele doveva disporre degli strumenti necessari. Il primo
passo fu la traduzione della Bibbia in tedesco, in modo che chiunque potesse leggerla. Allo stesso modo,
anche le celebrazioni dovevano essere in lingua volgare. Anche la musica giocò un ruolo importante nella
riforma di Lutero. Egli stesso musicista (suonava il liuto e il flauto), riteneva che tutti i fedeli dovessero
partecipare al rito attraverso il canto. Canti naturalmente in tedesco. L’esempio venne dato da Lutero stesso
che aveva adattato in volgare alcuni salmi. Ancora una volta la stampa fu decisiva nella divulgazione di questi
modelli, raccolti in alcuni opuscoli. Ecco che inizia a svilupparsi una nuova produzione musicale destinata alla
messa in tedesco. Si tratta dei Kirchenlieder (canti da chiesa), detti anche corali. Lo stesso Lutero ne compose
alcuni sia per quanto riguarda la testo che la musica, ma il compositore più importante di questo repertorio
fu Johann Walter (1496-1570), maestro di cappella di Federico di Sassonia. A Walter si deve la musica del
Geystliches Gesangk Buchleyn (Libretto spirituale di canto) pubblicato nel 1524 sotto la supervisione di Lutero
stesso. È una raccolta di 43 canti polifonici da 3 a 5 voci, basati su melodie preesistenti assegnate al tenor.
Alcuni di essi prevedevano una impostazione di tipo accordale, piuttosto semplice (esempio 8.1.2b – Walter,
Corale, Gelobet seist du), altri erano invece basati su una scrittura contrappuntistico-imitativa più complessa
e dovevano essere eseguiti da cantori esperti (esempio 8.1.3b – Walter, Corale, Christ ist erstanden).
Entrambi gli esempi utilizzano come tenor corali monodici di Lutero (esempio 8.1.2a – Lutero, Corale, Gelobet
seist du). Accanto ai corali polifonici, esistevano dunque corali monodici che potevano facilmente essere
intonati da tutti i fedeli, realizzando in tal modo la loro partecipazione al rito tramite il canto auspicata da
Lutero. Di forma strofica, erano articolati in frasi regolari (di solito la cosiddetta Barform, una struttura sullo
schema aab di derivazione medievale) e prevedevano intervalli semplici da intonare. In questo modo il
fedele poteva impararli a orecchio senza troppi problemi (esempio 8.1.1 – Lutero, Corale, Ein feste burg).
Nella seconda metà del secolo, dunque dopo la morte di Lutero, il corale polifonico assunse altre
caratteristiche. La melodia preesistente non stava più al tenor, ma alla voce superiore, mentre le voci
inferiore si limitavano ad armonizzarla.
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5. LA CONTRORIFORMA, IL CONCILIO DI TRENTO E LA SCUOLA ROMANA


La reazione ufficiale della Chiesa di Roma ai dibattiti religiosi dei primi decenni del ’500 si ebbe con la
convocazione del Concilio di Trento indetto da papa Paolo III con il sostegno dell’imperatore Carlo V. La città
fu scelta in quanto luogo di confine fra nord e sud, e roccaforte del cattolicesimo contro il vicino
protestantesimo. Il concilio (termine che indica una assemblea di vescovi) fu sospeso e ripreso molte volte.
Durò un paio di decenni e in alcuni momenti si spostò da Trento. Si aprì nel 1545 e fino al 1547 la sede fu
Trento, ma nel 1547 venne spostato a Bologna (fino al 1549). Dopo un’interruzione i lavori ripresero nel 1551-
1552 a Trento grazie al nuovo papa, Giulio III. Quindi ci fu una nuova, lunga, sospensione e il concilio riprese
nel 1562 fino alla chiusura nel 1563 sotto un terzo papa: Pio IV. Scopo del concilio era sancire con decisione
le posizioni dottrinali alle quali, poi, sarebbe stato obbligatorio adeguarsi, per conseguire un lindore dei
precetti della Chiesa e una purificazione del rituale. La diffusione delle idee luterane da un lato aveva messo
in pericolo l’autorità romana, dall’altro aveva spinto la stessa Chiesa a ritrovare una disciplina che era andata
persa. Per questo motivo il Concilio sancì che doveva esserci una netta separazione fra sacro e profano, le
due cose non potevano più essere mischiate. Ecco che anche in ambito artistico, per esempio, si organizza
una censura di stampa e vengono vietate raffigurazioni pittoriche di scene profane nelle Chiese.
Durante il Concilio vennero toccate anche alcune questioni relative alla musica liturgica, benché in maniera
abbastanza superficiale. Oltre alla questione dell’abolizione dei tropi e delle sequenze, i temi musicali
affrontati durante il concilio concernevano soprattutto la presenza di elementi profani o non liturgici
all’interno delle musiche sacre e il problema della comprensibilità delle parole. In particolare si discusse della
improprietà delle Messe che usavano come canto preesistente musica non liturgica, cosa che avveniva di
frequente, sia nelle messe su tenor, sia nelle messe parodia (basate, spesso, su chansons profane). Altro
argomento al centro del dibattito fu il fatto che la polifonia non consentiva di comprendere le parole del
testo (si pensi alla complessità della polifonia franco-fiamminga). Alla fine venne approvato un decreto che,
però, non accennava al problema dell’intelligibilità del testo e, semplicemente, bandiva quelle musiche nelle
quali venivano introdotti elementi “lascivi o impuri”. Dunque si trattava di indicazioni di massima, tanto che
la produzione polifonica proseguì a fiorire, così come la creazione di messe basate su canti profani (dei quali
al massimo veniva celato il nome, e la messa era chiamata Sine nomine).
Venne istituita una commissione cardinalizia che sorvegliasse sulle applicazioni delle delibere conciliari. Di
questa commissione faceva parte anche Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano. Fu lui che ebbe
particolarmente a cuore la questione della comprensibilità delle parole nei canti liturgici (come detto
discussa, ma non deliberata dal concilio) e, dunque, si adoperò affinché nella sua diocesi si realizzasse.
Sollecitò dunque il maestro di cappella del Duomo di Milano, Vincenzo Ruffo (1508 ca. – 1587), a comporre
messe polifoniche secondo due principi fondamentali: l’abbandono di elementi musicali non liturgici e la
comprensibilità delle parole. Ruffo seguì le direttive, come si comprende dal titolo di alcune sue raccolte di
messe: Messe a cinque voci […] Nuovamente composte, secondo la forma del Concilio Tridentino, oppure Il
quarto libro di messe a sei voci […] piene d’inusitata dolcezza, composte ultimamente con arte meravigliosa,
conforme al Decreto del Sacrosanto Concilio di Trento. Ruffo, tuttavia, non fu il solo compositore a muoversi
in questa direzione. Lo fecero anche altri musicisti, attivi soprattutto a Roma (come è logico), fra i quali
Costanzo Porta (1529 ca. – 1601), Tomás Luis de Victoria (1548 ca. – 1611) e Giovanni Pierluigi da Palestrina
(1525/26-1594). Dunque le indicazioni del Concilio di Trento si trasformarono in norme vere e proprio solo a
livello locale e, in ambito musicale, Milano e Roma furono i centri più importanti relativamente a tale
applicazione. Fra l’altro Borromeo stabilì che nella diocesi di Milano fosse proibito nelle musiche liturgiche
l’uso di qualsiasi strumento ad eccezione dell’organo.
Palestrina fu senz’altro il massimo esponente della musica sacra cinquecentesca, autore di un catalogo che
comprende più di 100 messe, centinaia di mottetti, oltre 100 madrigali e composizioni liturgiche per l’Ufficio.

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La metà circa delle sue messe sono messe parodia (basate su precedenti polifonici), l’altra metà non sono
costruite su alcun materiale preesistente, oppure sono basate su precedenti monodici (canto gregoriano o,
in qualche caso, temi profani), alcune delle quali sono messe su tenor, altre messe parafrasi. I mottetti invece
non ricorrono quasi mai a canti preesistenti, ma sono costruiti quasi tutti su temi dello stesso Palestrina. Il
compositore trascorse quasi tutta la vita a Roma, dove ricoprì incarichi nelle maggiori cappelle musicali: fu
maestro di cappella e cantore nella cappella Giulia (ossia la cappella della basilica di S. Pietro), nella cappella
Sistina (la cappella personale del pontefice), in S. Giovanni in Laterano, in S. Maria Maggiore. La sua
produzione esercitò un’influenza determinante sui compositori romani dell’epoca (il già citato Victoria, Felice
Anerio, Francesco Soriano), dando un’impronta decisiva alla cosiddetta scuola romana. In particolare
l’equilibrio del discorso polifonico e la pulizia del contrappunto fecero di Palestrina un modello anche nei
secoli successivi. Divenne un “classico”, il punto di riferimento per l’insegnamento della composizione, e la
scrittura contrappuntistica ricalcata sul suo modello venne addirittura indicata come stile “alla Palestrina” (o
stile “antico” o “osservato”). Ma quali erano le caratteristiche tecniche che gli consentirono di raggiungere
questa purezza contrappuntistica? Innanzitutto Palestrina ritiene, come Carlo Borromeo, che le parole
debbano essere comprensibili anche in una composizione polifonica. Per questo motivo rispetta sempre gli
accenti delle parole nella intonazione in musica, e evita il più possibile l’enunciazione simultanea di testi
diversi da parte delle differenti voci. Inoltre Palestrina ha un grande controllo sulla linea melodica. Ciò
significa che un andamento ascendente sarà bilanciato da un seguente andamento discendente (e viceversa),
e che i salti sono ridotti in ampiezza (per lo più limitati entro una quinta) e che vengono seguiti, di solito, da
movimenti per gradi congiunti in direzione opposta. Altrettanto controllo Palestrina esercita
sull’organizzazione delle dissonanze. La dissonanza viene sempre preparata e risolta, viene posta in
coincidenza di un valore di durata limitato, e, in genere, si trova sul tempo debole. Queste caratteristiche
(comprensibilità del testo e pulizia contrappuntistica) sono molto evidenti nel Kyrie-Christe della Messa Sicut
lilium, una messa parodia basata su un mottetto dello stesso Palestrina (esempio 8.2.1b – Palestrina, Messa
Sicut lilium, Kyrie).
Un’altra conseguenza del Concilio di Trento fu la pulitura del canto gregoriano, per riportarlo all’originaria
purezza. Fu questo il motivo della abolizione dei tropi e delle sequenze, che alteravano il canto originale.
Inoltre Palestrina e Annibale Zoilo vennero incaricati da papa Gregorio XIII di rivedere i canti contenuti nei
libri liturgici, preparandone una nuova edizione. Il lavoro iniziato da Palestrina e Zoilo fu portato a
compimento da Felice Anerio (1560 ca. - 1614) e Francesco Soriano (1549-1621). L’intervento di questi
compositori fu teso soprattutto a raggiungere una semplificazione dei canti gregoriani. I melismi vennero
accorciati o aboliti, in modo da raggiungere un rapporto maggiormente sillabico fra parola e musica; ancor
più che in precedenza, si intervenne adattando le melodie dei canti per farle rientrare in uno degli otto modi
gregoriani; vennero introdotte alcune indicazioni ritmiche (escluse dalla notazione neumatica). Il risultato fu
dunque un allontanamento da quelli che erano i canti gregoriani originali per il motivo opposto dei tropi e
delle sequenza: questi ornavano e farcivano il repertorio gregoriano; Palestrina, Zoilo, Anerio e Soriano lo
avevano semplificato e impoverito.
Il Concilio di Trento aveva chiaramente stabilito la abolizione di qualsiasi contaminazione fra canti liturgici e
canti profani, tuttavia il successo del madrigale non poteva essere ignorato nemmeno dalla Chiesa. Si pensò
perciò di adattare il madrigale al contesto sacro, sicché, nella seconda metà del ’500, fiorì una ricca
produzione di madrigali spirituali. Compositori importanti ne furono Giovanni Animuccia, Luca Marenzio,
Giovanni Gabrieli, Palestrina, Orlando di Lasso. I modi di procedere erano due: o il pezzo era composto ex
novo, oppure si ricorreva alla tecnica del contrafactum. Si sostituiva cioè il testo profano di un madrigale
preesistente con un testo dal contenuto sacro, mantenendo intatta la musica.

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6. LA SCUOLA VENEZIANA
Se la polifonia romana, sull’esempio di Palestrina, continuava a fondarsi sul contrappunto imitativo e, almeno
idealmente, era destinata a un’esecuzione a cappella (in S. Pietro erano effettivamente presenti le sole voci),
qualcosa di diverso, fra ’500 e ’600, viene ad affermarsi in area veneta. Il principio fondamentale su cui si
basano le composizioni liturgiche, in particolare a Venezia, è la policoralità. La tecnica deriva dall’esecuzione
antifonale dei salmi, che prevedeva due cori contrapposti. La basilica di S. Marco a Venezia era dotata, fin
dagli inizi del ’500, di due organi, posti su due cantorie sopraelevate. Qui, attorno alla tastiera dell’organo,
prendevano posto i cantori. Ecco che la disposizione fisica dei musicisti favoriva la composizione di pezzi in
cui due cori si alternavano o cantavano insieme, procedendo per lo più per blocchi accordali e in maniera
diatonica (con pochi cromatismi). Ne nasceva sostanzialmente un effetto stereofonico. Adrian Willaert, che
in S. Marco fu maestro di cappella, compose per esempio dei salmi spezzati, cioè distribuiti tra due cori.
Andrea Gabrieli (1533 ca. - 1585), a lungo secondo organista in S. Marco, ampliò le possibilità della tecnica
policorale, non limitandosi ad alternare i cori in episodi regolari come faceva Willaert, ma prevedendo sezioni
in cui era condotto un dialogo più serrato e sezioni in cui i cori procedevano riuniti (esempio 8.3.1 – A.
Gabrieli, Mottetto “O salutaris hostia”). A essere trattati secondo i principi della policoralità non erano tanto
i canti dell’Ordinarium, quanto quelli del Proprium e la liturgia dei vespri (comprendente salmi, inni,
Magnificat). L’alternanza fra i cori realizzava non solo la spazializzazione della musica (i suoni provenivano da
luoghi diversi della basilica), ma anche effetti di dinamica: per esempio se a un gruppo di solisti in una
cantoria, si opponeva un intero coro in un’altra cantoria, è chiaro che si sarebbe realizzata un’alternanza fra
sonorità ridotte e sonorità massicce.
Anche le cappelle alte prendevano parte a questo tipo di esecuzioni, dunque non si aveva solo alternanza fra
voci, ma anche fra voci e strumenti. Per esempio nel 1587 viene pubblicata a Venezia una raccolta
comprendente composizioni di Andrea Gabrieli e di suo nipote Giovanni Gabrieli (1557-1612) intitolata
Concerti […] per voci, et stromenti musicali. Si tratta di musiche di vario tipo (sia sacre sia profane) e per vari
organici vocali (da 6 a 16 voci) e strumentali. Tuttavia non vengono espressamente indicati gli strumenti che
devono intervenire. Interessante poi è l’utilizzo del termine “concerto” (una delle sue primissime
attestazioni), qui inteso come concordia, coordinamento e confronto tra compagini vocali e strumentali
eterogenee. Solo a fine ’500 - inizio ’600 cominciarono ad essere previste delle apposite parti pensate per gli
strumenti e fissate per iscritto in partitura. Una raccolta di Giovanni Gabrieli (che fu organista in S. Marco),
le Sacrae symphoniae (1597), comprendeva alcuni brani vocali, altri strumentali. Ancora non erano presenti
composizioni che prevedevano la presenza in partitura sia di parti vocali che di parti strumentali, cosa che
avverrà con una raccolta successiva dello stesso Gabrieli: le Symphoniae sacrae (1615). Qui si trovano alcuni
brani che presentano parti vocali e parti strumentali, le quali posso alternarsi oppure sovrapporsi. La novità
delle Sacrae symphoniae e delle Symphoniae sacrae, non sta nella compresenza di voci e strumenti (cosa che
da sempre avveniva in sede esecutiva), ma nel fatto che alcune parti fossero scritte apposta per gli strumenti,
i quali, dunque, non eseguivano parti vocali, ma parti che prevedevano una scrittura adatta alle proprie
caratteristiche: note di valore breve, ritmi puntati, rapide scalette, motivi di fanfara, ornamenti. Composizioni
di questo tipo si basavano sull’avvicendamento fra sezioni prettamente vocali, sezioni strumentali e sezioni
cui partecipavano sia gli strumenti sia le voci (esempio 8.3.4 – G. Gabrieli, mottetto In ecclesiis). È in questi
anni, a cavallo fra 1500 e 1600, che lo stile concertato comincia a prendere piede. Oltre che sul colore
timbrico, da cui deriva l’effetto di molti brani di Gabrieli, un altro aspetto su cui lavorò il compositore
veneziano fu la dinamica. Lo attesta la Sonata pian, e forte (brano puramente strumentale, con alternanze
fra due gruppi, parte delle Sacrae Symphoniae), una delle prima composizioni a usare indicazioni di dinamica
(esempio 8.3.3 – G. Gabrieli, Sonata pian, e forte).
Ciò non significa comunque che lo stile concertato sostituisse la scrittura “a cappella” (intesa come scrittura
che prevede parti solamente vocali), la quale continuava ad essere praticata. Piuttosto lo stile concertato
“più moderno” era complementare a quello tradizionale a cappella e venivano utilizzati in ambiti diversi del

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repertorio liturgico. Lo dimostra bene uno di capolavori di Monteverdi: Il vespro della Beata Vergine (1610).
Si tratta di una raccolta liturgica a stampa che comprende una Messa seguita da Vespri. Ebbene, la Messa è
a voci sole (a 6 voci), i canti dei Vespri invece possono essere concertati, prevedendo la presenza di parti
strumentali (non tutti lo sono in verità). Ovviamente lo stile concertato, essendo particolarmente ricco dal
punto di vista sonoro e per numero di esecutori, veniva praticato soprattutto in circostanze e occasioni
solenni.

7. LA MUSICA STRUMENTALE FRA ’500 E ’600


Fino a tutto il ’400 abbiamo poche notizie relative alla musica strumentale. Con l’inizio del ’500 invece
iniziamo ad avere informazioni maggiori e, nel corso del secolo, si affermano compositori che si dedicheranno
molto a questo tipo di musica. Fra essi Marc’Antonio Cavazzoni (1490 ca. – 1560 ca.) e Girolamo Cavazzoni
(1525 ca. – post 1577), padre e figlio, i già citati Andrea e Giovanni Gabrieli, come detto entrambi organisti
in S. Marco a Venezia, e Claudio Merulo (1533-1604), anch’egli organista in S. Marco.
Innanzitutto va detto che la musica strumentale veniva praticata anche all’interno della liturgia, soprattutto
con l’utilizzo dell’organo. Fra le composizioni organistiche del ’500 troviamo messe, inni, cantici. In questi casi
veniva elaborato strumentalmente un cantus firmus tratto da porzioni di quei canti liturgici (esempi 11.1a e
11.1b – Cavazzoni, Christe dal Kyrie IV). L’esecuzione di un brano poteva prevedere infatti la pratica
dell’alternatim. Alcune parti erano eseguite monodicamente, altre polifonicamente e altre ancora
dall’organo.
Un’altra pratica diffusa era l’adattamento strumentale di chansons. Naturalmente il testo viene eliminato e
la musica è adeguata alla tecnica dello strumento. In particolare viene preso come modello un tipo particolare
di chanson, diverso da quello praticato dai compositori franco-fiamminghi, che si sviluppa nel ’500. Si tratta
di una nuova chanson detta parigina, perché diffusa soprattutto nella corte di Francia. Molte di queste
composizioni vennero pubblicate dall’editore parigino Attaignant ed ebbero un grande successo e una grande
diffusione in tutta Europa. La chanson parigina del ’500 continuava a essere polifonica, ma era molto più
semplice dal punto di vista contrappuntistico rispetto alla chanson dei franco-fiamminghi. La chanson
parigina prevedeva l’alternanza fra sezioni nelle quali le voci procedevano con andamento omoritmico (cioè
sostanzialmente con lo stesso ritmo) e sezioni in cui si praticava l’imitazione fra le parti (ma comunque
un’imitazione molto meno complessa di quella dei franco-fiamminghi). Uno dei compositori più importanti
di chansons di questo tipo fu Clément Janequin (1485ca. - 1558), il quale sviluppò una caratteristica
particolare. Molte delle sue chansons sono descrittive, ossia le voci (in genere 4 o 5) descrivono scene
concrete, come battaglie, il canto degli uccelli, le grida dei venditori ambulanti ecc. Janequin realizzava queste
descrizioni attraverso onomatopee musicali (la musica riproduce i suoni e i rumori della realtà quotidiana).
Ad esempio capitava che se la chanson voleva descrivere una battaglia, la musica imitasse squilli di tromba e
colpi di cannone.
Come si diceva, una parte della musica strumentale cinquecentesca nasce come adattamento per strumenti
di chansons, soprattutto parigine. Inizialmente si trattava di una semplice trascrizione per strumenti, ma con
adattamenti alla tecnica strumentale. Per esempio si ricorreva a diminuzioni: i brani polifonici originali sono
arricchiti con abbellimenti, con scale rapide, con veloci passaggi di tipo tecnico. Dunque i brani polifonici
originali forniscono una base sulla quale vengono effettuate delle “decorazioni”. Tuttavia si dà anche il caso
di un altro tipo di canzone strumentale, cioè la parafrasi di chansons polifoniche. Si prendevano i soggetti
delle chansons e li si rielaborava imitativamente sullo strumento in maniera autonoma (un po’ come, in
ambito sacro e vocale, avveniva nelle messe parafrasi) (esempio 11.2a.2b – G. Cavazzoni, Canzon sopra
Faulte d’argent). Per questo motivo la canzone strumentale era spesso chiamata canzon da sonar, da cui
sarebbe derivato il termine sonata.

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In una fase successiva, nella seconda metà del ’500, la canzon da sonar si slega dai precedenti polifonici vocali.
Claudio Merulo fu uno dei primi a staccare la canzon da sonar dal modello della chanson polifonica. Lui iniziò
a comporre brani strumentali del tutto autonomi, che non si basavano su un modello precedente. Essi
erano articolati in quattro o cinque sezioni che si differenziavano perché ognuna di esse era basata su un
tema differente, e anche per la scrittura musicale impiegata: per esempio una sezione accordale può essere
seguita da una sezione in imitazione, oppure a una parte in metro binario può succedere una parte in metro
ternario. Dunque la composizione era organizzata in parti fra loro contrastanti l’una dall’altra. Si tratta del
primo passo che porterà alla suddivisione della sonata in vari movimenti. Le possibilità esecutive delle
canzoni da sonar erano molteplici: alcune erano destinate a un’esecuzione solistica (organo, clavicembalo,
spinetta, liuto), in altri casi a complessi strumentali. Tuttavia, di solito, non venivano indicati con precisione
gli strumenti, che potevano essere ad arco oppure a fiato (cornetti, tromboni, cromorni ecc.). In ogni caso la
canzon da sonar cinquecentesca continua a mantenere una scrittura sostanzialmente polifonica. Anche se
l’esecuzione è affidata a un solo strumento è sempre possibile distinguere le diverse parti (o voci) e infatti gli
strumenti utilizzati erano polifonici.
Fin cui si è parlato di pezzi strumentali derivati da precedenti brani vocali (monodia gregoriana o polifonia),
ma esistevano anche composizioni nate espressamente per lo strumento, che non si basavano su un canto
preesistente (composizioni per lo più destinate a strumenti a tastiera o al liuto). È il caso delle improvvisazioni
(che talvolta poi potevano venire messe per iscritto e diventare così composizioni a tutti gli effetti) che
funzionavano da preambolo a qualcos’altro. In area tedesca si utilizzava il termine preludio, in Italia il termine
ricercare. I ricercari erano pezzi utili a sciogliere le dita del suonatore e a fissare l’intonazione del successivo
canto. Il ricercare poteva fungere da preludio e interludio fra le strofe di opere vocali trascritte per strumento,
oppure essere utilizzato durante le celebrazioni liturgiche per introdurre i canti chiesastici. Era basato su una
scrittura tecnica che alternava passi accordali a passi più virtuosistici di solito basati su rapide scale e su
passaggi d’agilità (esempio 11.3 – M. A. Cavazzoni, Ricercare del secondo tono). Ben presto (nei decenni
centrali del ’500) però il termine ricercare verrà a indicare un’altra cosa: si tratta di pezzi che prevedono una
vera e propria polifonia strumentale basata sull’imitazione, strutturati sul concatenamento di più sezioni,
ognuna delle quali con il proprio soggetto e le sue imitazioni, esattamente come avveniva nel mottetto
(esempio 11.6 – G. Cavazzoni, Ricercar II). Altri termini usati per identificare pezzi organistici usati nella
liturgia con funzione introduttiva e per stabilizzare il tono del successivo canto sono intonazione (per
esempio quelle di Andrea e Giovanni Gabrieli) e toccata (per comprendere il funzionamento della
stabilizzazione del tono si ascolti l’esempio 8.3.2 – Intonazione al Mottetto O Magnum Mysterium di G.
Gabrieli). Entrambi i tipi di composizione erano basati sulla destrezza e l’agilità manuale, su passaggi brillanti,
ma mentre le intonazioni erano piuttosto brevi (esempio 11.4 – A. Gabrieli, Intonazione del secondo tono),
le toccate erano più complesse e potevano prevedere passaggi in stile polifonico-imitativo. Anzi, per quanto
riguarda la toccata, fu ancora Merulo, come per la canzone strumentale, a ridefinire il genere. Nelle sue
toccate, infatti, il libero gioco improvvisativo si alterna a sezioni di tipo imitativo-fugato. Così la toccata
diviene una composizione più lunga e complessa, articolata in diverse parti. Oltre alla forma, Merulo
arricchisce anche la scrittura tecnica per la tastiera. Non si ha più semplice alternanza fra passaggi accordali
e passaggi scalari, ma una grande varietà di momenti virtuosistici, che prevedono figurazioni varie e originali
unite a varietà ritmica (con ricorso anche ai trentaduesimi e a ritmi puntati). Questo tipo di toccata vedremo
essere quella che Girolamo Frescobaldi farà propria, ma anche i grandi organisti tedeschi del ’600-’700, da
Buxtehude a Bach, la prenderanno a modello (esempio 11.9 – Merulo, Toccata Undecimo tono). Da quanto
detto risulta chiaro come, nel ’500, le diverse nomenclature dei generi strumentali potessero essere
interscambiabili. Nomi diversi potevano essere utilizzati per composizioni dallo stesso carattere, oppure lo
stesso nome poteva essere usato per brani fra loro diversi (ricercare indica sia un pezzo d’intonazione, sia un
pezzo in imitazione). Altri termini adoperati per indicare brani strumentali sono fantasia e capriccio. Essi
indicavano pezzi contrappuntistici, un po’ come il ricercare (i termini sono spesso intercambiabili). Semmai
la fantasia è meno rigorosa e severa nel trattamento dell’imitazione rispetto al ricercare. Come indica il nome
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è di genere più libero e di carattere brillante. Di solito utilizza un numero inferiore di soggetti elaborati
contrappuntisticamente rispetto al ricercare. Il capriccio invece è, appunto, una composizione “capricciosa”,
che spesso adotta soluzioni inconsuete e ricche di artifici, come improvvisi, rapidi e continui cambiamenti di
scrittura musicale (esempio 11.7 – Macque, Capriccio sopra re fa mi sol). In generale bisogna comunque
considerare che di questa produzione strumentale deve esserci arrivata una parte limitata. Non dobbiamo
infatti dimenticare che, soprattutto nel caso di musica solistica per tastiera o per liuto, gli strumentisti erano
soliti improvvisare, senza necessità di mettere per iscritto queste esecuzioni estemporanee.
Un altro aspetto della musica strumentale è il suo legame con la musica da ballo. Essa nacque per
accompagnare i balli di società nelle corti e veniva utilizzata per azioni coreutiche nelle rappresentazioni
teatrali. Tuttavia nella seconda metà del ’500 si affrancò dal suo impiego funzionale e divenne ‘musica pura’,
eseguita, per lo più, in ambiente domestico. Caratteristica di questo tipo di musica è ovviamente la regolarità
ritmica (utile per realizzare la coreografia), che, a sua volta, determina un’articolazione del brano in periodi
regolari di 4, 8 o 16 battute chiaramente individuati da cadenze. Molto chiara è anche la suddivisione fra
melodia, di solito nella parte superiore, e accompagnamento. Nel corso del secolo si procedette accostando
danze di diverso tipo, di diverso carattere e di diverso metro andando a delineare quelle che sarebbero state
le caratteristiche della suite (termine che indica appunto una “successione” di danze). Fra i tipi di danza più
utilizzati ricordiamo:
- Pavana: metro binario, andamento moderato
- Saltarello: metro ternario, andamento veloce
- Gagliarda: metro ternario andamento abbastanza rapido
- Corrente: metro ternario puntato con andamento vivace
- Allemanda: metro binario con andamento lento
- Sarabanda: metro ternario, andamento che può essere lento o veloce
- Giga: metro composto, andamento vivace
- Passamezzo: metro binario tagliato, andamento mosso
La suite di danze di solito prevedeva un unico schema melodico e armonico che veniva variato e declinato
nei ritmi delle varie danze. Questi schemi melodici provenivano da danze molto note o da canzoni popolari,
erano perciò conosciuti da tutti (per esempio la Follia, la Ciaccona, il Ruggiero, la Romanesca). Il motivo
prescelto poteva stare nel basso, oppure nella parte acuta, oppure forniva solo la struttura armonica. La suite
era dunque costruita sulla variazione di questo schema e ogni variazione formava una “parte” della suite
stessa. Per questo motivo il termine che nei paesi tedeschi usavano per indicare la suite è partita.
La stampa favorì molto la diffusione della musica strumentale, anche perché, a fianco di raccolte strumentali
scritte in notazione mensurale, comparvero le intavolature. Si tratta di un sistema che anziché indicare
l’altezza dei suoni, indica la posizione che le dita devono assumere sulla tastiera o sulle corde per produrre il
suono. Sopra questa indicazione sono riportati i valori di durata. L’editoria delle intavolature ebbe molto
successo soprattutto presso i dilettanti (della nobiltà o dall’alta borghesia) che potevano, in questo modo,
leggere più facilmente i pezzi da suonare. L’intavolatura era un sistema che riguardò soprattutto il repertorio
per liuto e per strumenti a tastiera. Altro aspetto che riguarda la stampa nell’ambito della musica strumentale
è la pubblicazione di trattati che descrivono le caratteristiche dei vari strumenti e danno indicazioni su come
suonarli: lo Spiegel der Orgelmaker und Organisten (Specchio degli organari e organisti), 1511, di Arnolt
Schlick; la Fontegara di Silvestro Ganassi, 1535 (sul flauto); il Fronimo di Vincenzo Galilei, 1568 (sul liuto); Il
transilvano di Girolamo Diruta, 1593 (sull’organo, sul cembalo, sulla spinetta).

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