Aldo convive con Irma, dalla quale ha avuto una figlia, Rosina.
Irma ha già un marito
emigrato all’estero, giunta la notizia della sua morte decide di lasciare Aldo che invece vorrebbe approfittarne per sposarla. Scosso fortemente, Aldo lascia il suo lavoro in fabbrica e con la figlia comincia un viaggio alla ricerca di una nuova vita. Incontrerà prima Elvia, con cui aveva già avuto una relazione, ma che abbandonerà per la seconda volta, poi sarà la volta di Virginia, la quale gli consente di avere lavoro, casa e amore, ma dopo un breve periodo di permanenza e diverse difficoltà e incomprensioni decide non solo di allontanarsi anche da Virginia ma di rispedire la figlia ad Irma e proseguire il suo viaggio. In un’osteria incontra Andreina, ultima donna a cui proverà a legarsi prima di tornare al paese da cui e partito, Goriano. Fallita la ricerca di un nuovo inizio, non gli resta che suicidarsi, lanciandosi dalla torre della fabbrica che aveva lasciato, approfittando di un momento in cui il luogo era deserto, sotto gli occhi solo di Irma. Il momento in cui si aprono le discussioni su cosa sia neorealista o meno, quali film appartengano a questa categoria e quali meno, è lo stesso momento in cui il neorealismo stesso entra in crisi, convergente con la crisi della politica della solidarietà nazionale a cui i cineasti si erano ispirati. Lo stesso Rossellini, considerato il padre fondativo del fenomeno, si muove in ambiti diversi. Le critiche che vengono mosse si muovono principalmente attorno a due film del 1954; “Senso” di Luchino Visconti e “La strada” di Federico Fellini. La critica Marxista loda “Senso” per la maturità artistica e morale che dimostra, mentre si scagliano contro “La strada” con l’accusa di spostarsi dai canoni neorealisti concentrandosi maggiormente su una dimensione spirituale ed interiore, le stesse valutazioni che si faranno di Michelangelo Antonioni. Antonioni dal canto suo ritiene di essere stato il primo neorealista, prima ancora di Visconti, Rossellini e De sica. Il suo primo lavoro è infatti un documentario sui lavoratori fluviali romagnoli, “Gente del Po”. Li si trovano i tratti principali del suo stile, attenzione a corpi e gesti dei protagonisti, assenza di spettacolarizzazione e attenzione al paesaggio, ogni immagine e frutto di sue scelte sia morali che conoscitive, dopo sopralluoghi nei medesimi spazi, messi in scena in modo nudo e diretto, senza lanciare nessun messaggio ideologico, ma solo raccontando una quotidianità drammatica. Antonioni non nasconde la macchina da presa, anzi la realtà che racconta è un vissuto della macchina, una sua soggettiva che rimane anche dopo l’uscita di scena dei personaggi lasciandoci immersi nel paesaggio, prima lo sguardo e dopo i personaggi. Con Visconti, Fellini e Renato Castellani sono considerati i quattro registi della crisi neorealista, che si manifesta verso la metà degli anni Cinquanta, in contemporanea con le delusioni di ricostruzione democratica post-liberazione e con la crisi del comunismo internazionale, sono gli anni della denuncia dei crimini di Stalin e delle repressioni in Ungheria. La dimensione individuale sovrasta quella collettiva, i problemi esistenziali sono considerati al pari di quelli sociali. L’ambiente sociale de “Il grido” diventa lo spazio dell’emergere di una dimensione personale, la solitudine non è una caratteristica di classe ma personale. Con “Il grido” Antonioni sposta il suo sguardo dal mondo borghese a quello proletario, nel quale, ci dice Lino Miccichè, attraverso gli atteggiamenti esteriori si penetra nella loro dimensione interiore, mentre sul versante opposto, Guido Aristarco, ne condanna la mancanza di un racconto forte, di una trama romanzesca, ma vediamo invece una struttura episodica senza una gerarchia da seguire. Si impatta su tempi legati alla visione e non al racconto, cioè che non hanno una finalità nell’intreccio, con la predominanza del paesaggio sui corpi, immersi in uno spazio disadorno e ampio, dove il regista ci mostra la sua tendenza stilistica in favore di profondità di campo e continuità di ripresa, negli anni Cinquanta e sicuramente colui che ne fa uso maggiormente in Italia almeno. Ciò, unitamente alla conformazione del paesaggio padano in cui è ambientata la storia, ci fa avere un film con inquadrature sempre orizzontali, cioè escludendo i pochi secondi di due inquadrature, una all’inizio e una alla fine, non vedremo mai la macchina da presa compiere un movimento su sé stessa né verso il basso né verso l’alto, ma solo orizzontalmente. Nella piattezza del paesaggio padano, Aldo compie il suo viaggio che inizia e si conclude nella fabbrica in cui lavorava a Goriano, la storia termina con il suicidio, lanciandosi dalla stessa torre da cui Irma lo chiama all’inizio del film per consegnargli il pranzo, sono questi gli unici momenti in cui la macchina si muove in verticale. Fallimento di un viaggio che comincia da un luogo alla quale lo riporterà, incapace di trovare o accettare altre soluzioni, comincia da una donna e termina giungendo dalla stessa donna. Il suo vagabondaggio si muove verso tre donne, dopo essere stato lasciato da Irma raggiunge Elvia, una sua vecchia fidanzata, Virginia, attraente vedova che gestisce un distributore di benzina e Andreina, che però abbandona quando scopre che si mantiene prostituendosi. Sono le stazioni di un percorso a tappe che però si rileverà alienante al punto da riportarlo all’inizio del percorso, alla fabbrica di Goriano, e alla prima donna dal quale era partito, cioè Irma, che sarà tristemente testimone del suo suicidio. Le scelte registiche sono evidenti, anche in momenti forti come il dialogo con Irma, quando questa gli annuncia di volerlo lasciare, non è usuale infatti che un dialogo tra due persone venga raccontato in continuità di ripresa, esternamente ai due protagonisti della scena, senza il consueto alternarsi dei primi piani in campo/controcampo, donando allo spettatore lo stesso distacco verso i personaggi in favore di un’immersione nell’ ambiente circondante. Quello che ci viene mostrato è un paesaggio avvolto nella miseria, quasi incomprensibile nell’Italia del 1957, che porta ancora i segni del passato. Il presente è mutato dalla memoria che però non viene mai rappresentata, è così anche per Aldo, il cui tempo trascorso, sia quello prima di essere abbandonato da Irma che quello che vedremo dopo, ne ha scandito la sua interiorità, dopo tanto tempo si rende conto dell’impossibilità nel riassestarlo, così come le mura e gli edifici ancora in macerie. In uno scenario fortemente ideologico i critici fanno molta fatica a considerare “Il grido” come un film neorealista, ma vediamo forse gli ultimi riferimenti di Antonioni ad un immaginario che se non è neorealista si avvicina molto e che non vedremo mai più nei suoi film, come il vecchio anarchico, padre di Virginia, che tenta di iniziare la piccola Rosina all’odio verso i padroni, oppure la stessa Rosina che accompagna il padre per parte del suo viaggio, richiamando la coppia Maggiorani-Staiola. Per Antonioni questo è anche un viaggio autobiografico, situato nel suo luogo di provenienza e da lui vissuto, ci ritorna dopo “Gente del Po”, tentando di rappresentare una classe sociale a cui non appartiene. Egli non nega la sua esperienza neorealista, ma cerca di adattarla a nuove esigenze, consapevole che al cinema non esiste una realtà oggettiva, ma una realtà da raccontare attraverso i propri occhi, uno strumento di osservazione nel quale attraverso gesti e sguardi esteriori si delineano dinamiche interiori. Si può considerare un ponte di giunzione tra Neorealismo e Nouvelle vague.