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Iniziativa del Dipartimento delle Arti di Bologna, diretta da Renato Barilli, Alessandra Borgogelli, Paolo
Granata, Silvia Grandi, Fabiola Naldi e Paola Sega
La videoarte ha circa 40 anni di vita (ora 50). Anche di più se si includono esperimenti di Nam June Paik,
anche se si trattavano principalmente di videoinstallazioni. Forse il primo a fissare su nastro
elettromagnetico un evento artistico è stato il tedesco Gerry Schum, con i suoi filmati dedicati alla Land Art,
caratterizzata altrimenti da eventi effimeri. Così, la loro esistenza poteva trasmigrare nel recording, seppur
bisogna sottolineare che nelle procedure seguite da Schum, verso la fine degli anni ’60, non avveniva
ancora direttamente su nastro elettromagnetico e dunque non era di natura elettronica, bensì sfruttava la
vecchia tecnica fotochimica dell’impressione di una pellicola e solo in seguito si compiva il travaso sul
nastro. Barilli racconta di aver incontrato Schum in occasione della Biennale del 1972, quando, chiamato da
Francesco Arcangeli per Opera o Comportamento, richiese la partecipazione dei video di Schum, che giunse
con il suo studio mobile. In quell’occasione, Schum stesso riconobbe in realtà il primato di Gennaio 70 a
Bologna, realizzato dallo stesso Barilli insieme a Tommaso Trini e con l’assistenza di Maurizio Calvesi e
Andrea Emiliani nello spazio del Museo civico archeologico. Allora era stato Trini a segnalare le novità della
videoarte. Si era dunque ricercata la collaborazione della Philips, che fornì un’adeguata attrezzatura e una
squadra di tecnici, a cui si chiese di assecondare le richieste degli artisti. Per esempio, Gilberto Zorio fece
andare tutti nella campagna innevata dello hinterland torinese, mosso dall’intenzione di urinare intorno a
sé in blu (mediante l’assunzione di pillole), anche se ovviamente la videoripresa sarebbe stata in grado di
catturare quell’azione solo in bianco e nero. Bisognava in questo caso mettere in conto le difficoltà tecniche
quali la mancanza delle batterie e dunque bisognava andare a chiedere alle cascine di dintorni di concedere
un attacco alle spine e così via. Un altro esempio che Barilli riporta è quello di Gino de Dominicis, che
voleva dimostrare che gli uccelli possono balzar fuori dalle acque e volare verso il cielo, dunque aveva
comprato dei piccioni e aveva immerso le gabbie nel Tevere, ma morirono annegati. Al di là degli aneddoti,
Barilli rimase profondamente colpito dalle potenzialità del mezzo. Scoprì che con esso si realizzava l’ideale
di carpire la realtà in tempo reale, con perfetta specularità, seguendo sul monitor gli effetti della ripresa,
evitando i tempi lunghi imposti dai procedimenti fotochimici. Si tratta inoltre di un mezzo facile, quasi
elettrodomestico. Sarebbe poi arrivato anche il dono prezioso del colore, a rendere più completo l’effetto
finale. Questo portò, secondo Barilli, al superamento della tradizionale ripartizione di Lessing tra arti dello
spazio (quali pittura, scultura e architettura, ognuna solida e immobile) e le arti del tempo (quali la musica,
il teatro, la letteratura). La videoripresa cancella questi fatidici confini, in quanto i responsi visivi della
percezione ottengono l’effetto del movimento e dunque l’arte diventa cinetica, secondo quel traguardo
tanto sospirato dalle avanguardie storiche. Il movimento implica la registrazione dei gesti e di tutte le
attività corporali, alla base della performance. Barilli era convinto della supremazia dell’attività
performativa e dunque organizzò dal 1977 al 1984 un festival internazionale della performance alla GAM di
Bologna. In tal senso, Barilli crede opportuno rielaborare il celebre motto dell’inglese Walter Pater, che, nel
quadro di un tardo e Decadente ‘800, proclamò: “Tutte le arti tendono alla musica”, e finalmente affermare
“Tutte le arti tendono alla performance”, ma con la necessità di aggiungere subito l’indispensabile
integrazione fornita dalla registrazione video, altrimenti le performance si dileguerebbero nel nulla. E
dunque le opere video sono il vero collettore della creatività e della sensorialità. Infatti, in ogni video che si
rispetti c’è una componente sonora, un apparato scenico, un attore umano o un materiale plastico, il tutto
sottoposto a una regia globale.
A questo punto si presenta il quesito di quale confine porre a queste produzioni che vengono dunque quasi
monopolizzate dalle arti visive, tanto che le si incontra nei circuiti delle gallerie private o nelle grandi
rassegne internazionali quali le Biennali. Qual è il rapporto con il cinema o le reti televisive? Sicuramente
non costituisce un criterio di distinzione il fattore tecnologico, ma una distinzione di fondo sopravvive nei
requisiti che richiediamo al prodotto. Per esempio, la videoarte arriva a occupare tutte le zone della
sensorialità, ma non riesce a sviluppare una narrazione. In partenza, la videoregistrazione funzionava da
fedele specchio elettronico del reale, e dunque dall’altra parte della telecamera si individuava una
sequenza oggettiva, esistente, di oggetti e circostanze. Ma col tempo e col progresso tecnologico, queste
immagini rubate dalla realtà si sono prestate a una manipolazione in studio: è stato possibile rarefarle,
ritagliarle, aggiungerne altre e ancora lavorare sulla cromia, sulla grafica. Oggi, se analizziamo la produzione
video, possiamo individuare due ripartizioni, da un lato i prodotti che in modo mediato si rapportano a una
realtà esistente da qualche parte e registrata, dall’altro le opere che procedono ad atti sintetici di pura
creazione, col che rinascono i vecchi privilegi del disegno e della coloritura a mano, ma resi mobili
dall’effetto cinetico. Ovvero, le pratiche video per un verso sono eredi del decreto di “morte dell’arte”
emesso dai movimenti del ’68, quando si disse che l’intervento manuale, grafico-pittorico era decaduto per
sempre, e bisognava andare a riprendere il reale con foto o video o dichiarazioni verbali, e per l’altro
ritengono la vecchia manualità rimediata attraverso la computer graphic.
La rassegna dello Yearbook ha precisamente il fine di raccontare i prodotti video del nostro Paese,
raccogliendo di volta in volta una quarantina di pezzi, ovviamente selezionando. La rassegna vuole prima di
tutto evitare l’attenzione distratta e dispersiva che la disseminazione dei video lungo i percorsi espositivi
provoca quasi sempre.
Fare video vuol dire avere coscienza di intervenire nella realtà in modo brillante, vivace e soprattutto
profondo così da captare i problemi di oggi ragionandoci sopra secondo modalità sociologiche e
antropologiche. Gli artisti ci danno un succo della realtà ormai globale utilizzando uno stile che corrisponde
alla smaterializzazione del prodotto artistico odierno. Lungo la stessa strada si muovono il design e la
pubblicità. Siamo davanti a un alleggerimento costante. Già dai tempi del Simbolismo il mondo
sintetizzato, dunque non più superdescritto, mirava a restituirci “poco”. Oggi, l’ironia si coniuga alla
abitudine di “riprendere” sia noi stessi che la realtà in modo veloce e sintetico. Il video abbatte ogni tipo di
barriera, lasciando scorrere in piena libertà le immagini e i loro messaggi. Si tratta di una performance
continua e generalizzata, non più dunque riservata a pochi fra le pareti di una galleria. Sono proprio i video
ad avere il potere di sfondare le pareti, sia di una stanza che di spazi pubblici. Ma con arte pubblica la
Borgogelli non intende solamente le piazze, le strade e le stazioni, ma anche il mondo televisivo e il mondo
delle immagini elettroniche. Per questa ragione, nel 1996, quando le fu chiesto di mettere insieme una
selezione di video, spinse affinché vi fosse la collaborazione della Rai. Dunque, contattò Marco Giusti per
tentare di far passare i video nella trasmissione Fuori Orari e così avvenne. L’arte così può e deve penetrare
nelle case di tutti, uscendo dai sacri recinti a cui è abituata. Così facendo, inoltre, l’arte ha potuto giovare da
un confronto con il mondo della pubblicità che pure, come l’arte, ha un forte potere di mettere in atto
spunti già avanzati dalle avanguardie storiche, come i giochi linguistici, i collassamenti di dialetti e di lingue
“alte” o di slang stranieri.
Dal momento che proprio nel 2009 (anno del presente Yearbook) cadde il centenario del Futurismo,
Borgogelli trova doveroso mettere in evidenza alcuni aspetti vitalistici che questo movimento ha trasmesso
al mondo odierno. Il Futurismo, infatti, rimane forte di idee e di soluzioni che tengono ben presente le
possibilità della tecnologia. L’uomo contemporaneo è in parte forgiato da essa. Una tale convinzione è del
tutto comune sia a Filippo Tommaso Marinetti sia a Marshall McLuhan, che parla invece negli anni ’60,
prendendo dunque certamente in esame tecnologie evolute. Nel frattempo, si sono potuti anche
quantificare i loro effetti sul mondo artistico. Se prima infatti Marinetti e compagni, pur ricorrendo alle
energie legate alle tecnologie di stampo elettromagnetico, rimangono anche fedeli alle forze di tipo
meccanico, poi, come comprende McLuhan, vediamo dominare un’energia elettromorfa strettamente
connessa alle nuove modalità del mondo delle informazioni.
È inoltre ancora oggi importante l’indicazione del Futurismo di cogliere la realtà in modo sinestetico,
sviluppando cioè il nostro apparato sensoriale. Nella recente videoarte, infatti, rintracciamo i nuovissimi
suoni, odori e rumori del villaggio globale, sia quelli alti che quelli bassi, fino al rumorismo più caotico. Del
resto, la sonorità già recuperata dai Futuristi apre anche oggi a un energetico spirito comunitario, lo stesso
che caratterizzava i popoli primitivi quando la comunicazione passava per via orale. E sono proprio i suoni a
superare la tradizionale distinzione di Lessing fra le arti del tempo e le arti dello spazio. Oggi tutto si
confonde in un flusso vitale che vede spesso la predominanza della sonorità. E così ritorna quell’abbandono
ai flussi energetici caro ai Futuristi. Marinetti nel 1921 disse “La Vita ha sempre ragione”, essendo convinto
che l’umanità avesse bisogno di nuove gioie. Perciò difese l’estensione delle comunicazioni e delle fusioni
degli esseri umani. Infatti, l’estensione della sensibilità comporta anche una maggiore capacità di cogliere
gli aspetti microemotivi della vita. Una tale carica microemotiva, così attuale, era stata indicata alla fine
degli anni ’60 da Piero Gilardi, quando nasceva l’Arte Povera, lanciando un invito a cogliere quella nascosta
energia primaria che serpeggia nel sostrato della realtà. E anche nelle recenti produzioni video ritroviamo la
tendenza a dare dignità a elementi infinitamente piccoli. La rinnovata rivisitazione del quotidiano unita a
un vivace rapporto relazionale rivitalizza tutto l’odierno panorama culturale.
Sempre dalle idee di Marinetti derivano indicazioni di vivacità espressiva, incitazioni a potenziare gli aspetti
performativi tipici della body art o del travestitismo più sofisticato. A un tale potenziamento dello spirito
performativo che stimola la partecipazione del pubblico, Marinetti aggiunge la convinzione che fosse
importante introdurre in scena dei nuovi media tecnologi, già auspicando un bisogno di apertura e di
sfondamento di scena grazie alle tecnologie.
Marinetti infine arriva a ipotizzare uno dei punti più forti della cultura e dell’arte di oggi, la presenza e la
necessità del soggetto contemporaneo di avere una personalità multipla. Proprio quest’ultimo punto
costituisce uno dei punti più sentiti anche dalla videoarte odierna che spesso mette in campo situazioni
schizofreniche e contraddittorie, sia nei linguaggi che nei comportamenti. Marinetti ha dunque
perfettamente intuito l’essenza della vita futura, dunque la positività di convivenze di razze, suoni, luoghi
nella piena convinzione che “La vita ha sempre ragione”
Nel presente testo, Granata cerca di spiegare come e perché secondo lui è possibile affermare, come fece
Panofsky nel 1927 in riferimento alla prospettiva, che il video è una nuova forma simbolica. Questo
vorrebbe dire attribuire al video la funzione di dispositivo non solo tecnologico, ma anche e soprattutto
culturale, ed estetico, un modo di sentire e percepire il mondo. In termini analoghi, un dispositivo
tecnologico-culturale con valenza estetica altro non è che un medium. La forma video, il video come forma
simbolica o il neologismo videomorfosi, è da intendersi invece come un meta-medium, un arcipelago di
forme espressive. Tutto è video: cinema, broadcasting televisivo, i videogames, ecc. Non a caso la parola
“video” compare nel linguaggio comune, come in video-giochi, video-telefono, video-chiamata, video-
sorveglianza. La nostra vita è una tempesta di immagini che scorrono.
Per dimostrare ulteriormente la sua tesi, Granata evidenzia alcune identità funzionali sussistenti tra le due
tipologie di sguardo sul mondo, quello prospettico e quello videomorfico, oltre che delle importanti
differenze che rendono il video la vera forma simbolica dell’età postmoderna. Entrambe le tipologie di
sguardo condividono un’analoga dimensione tecnologico-strutturale: infatti, anche le più recenti
tecnologie visive digitali, come le videocamere e le fotocamere, funzionano sulla base dell’antico principio
della camera oscura, antico almeno quanto la prospettiva. E non si deve neanche trascurare il fatto che
anche le più avanzate tecniche di simulazione e modellazione 3D si fondano essenzialmente su regole e
principi prospettici. Si scopre così una dimensione comune alle tecnologie della visione di oggi e di ieri, ma
una fondamentale differenza è che mentre la rappresentazione prospettica nell’età moderna è affidata
all’abilità pittorico-manuale dell’artista, a partire dalla fotografia questo processo viene meccanizzato,
automatizzato e delegato al dispositivo. Infine, potremmo citare Lev Manovic e dire che le nuove immagini
digitali non sono altro che pittura elettronica. Un’ulteriore affinità identitaria riguarda il fatto che entrambe
emergono in quanto costruzioni trans-disciplinari, cioè come il risultato della convergenza e dello scambio
tra discipline e conoscenze appartenenti tanto alla sfera tecnico-scientifica quanto artistico-umanistica.
Passando ora alle divergenze, un primo elemento indicativo è riconducile al superamento del punto di vista
unico, ovvero quella rinuncia dell’illusione prospettica anticipata dal cubismo. Come ha notato anche
Edmond Couchot (1982) la tendenza espressiva inaugurata dalla stagione cubista, volta a eliminare ogni
intento di rappresentazione ottico-prospettica, si pone come un riflesso di portata culturale più generale, il
risultato di una più ampia ricerca estetica guidata dal bisogno di penetrare all’interno delle cose per
presentare nella loro frammentarietà, rigettando le istanze ordinatrici e totalizzanti della cultura
prospettica. Così le operazioni artistiche della videoarte evidenziano la necessità tipicamente
contemporanea di frammentazione visiva, di scomposizione dell’esperienza estetica. Quanto appena
descritto potrebbe essere sintetizzato nell’antinomia tra la funzione esogena dello sguardo (la visione “dal
di fuori”) e la funzione endogena (una visione “dal di dentro”). In The Medium is the Massage, McLuhan
afferma che l’eredità del rinascimento è il punto di fuga che permette di trarsi in disparte e rappresentare
l’osservatore distaccato, senza coinvolgimento. Chi contempla l’arte rinascimentale si colloca
sistematicamente al di fuori della cornice dell’esperienza. Invece, il video d’artista, espressione della
videomorfosi e della funzione endogena dello sguardo, offre allo spettatore infinite possibilità di “ingresso
nella cornice”, laddove l’esperienza visiva si trova a diventare esplorazione oltre che interpretazione. Se la
cultura prospettica si colloca in un universo simbolico orientato a raccontare, raffigurare e rappresentare lo
spazio, la videomorfosi fa dello spazio un universo simbolico da attraversare, esplorare e con cui interagire.
Semplificando, si potrebbe dire cornice/quadro/finestra vs. schermo/monitor/display. Se il portato
simbolico della prospettiva, per riprendere le parole di Durer citate nell’incipit del saggio di Panofsky, si
basa sul procedimento di “guardare attraverso”, laddove “l’intero quadro si trasforma in una finestra,
attraverso la quale noi crediamo di guardare lo spazio”, ecco che il video funziona invece come uno spazio
in sé da guardare. Pertanto, mentre l’atteggiamento teorico della cultura prospettica è orientato al
concetto di rappresentazione, ciò su cui si fonda la cultura videomorfica è la reificazione: non più una cosa
che diventa immagine (o video), ma un’immagine (o video) che diventa cosa. Inoltre, il raffronto tra i due
universi simbolici, la cultura prospettica dell’età moderna, e la cultura videomorfica dell’attualità
contemporanea, trova riscontro in una serie di antinomie quali visione naturale vs. visione artificiale,
manualità vs. meccanicismo, distanza vs. vicinanza. Per questa ragione, alla strategia del distacco, il mondo
visto da lontano, il punto di fuga quale elemento principe della prospettiva, il video oppone una strategia di
avvicinamento o anche l’intrusione.
Lungo questa linea interpretativa si è mosso Derrick de Kerckhove, il quale, ricalcando il pensiero di
McLuhan, ha definito quel processo di intrusione introducendo il concetto di “punto di vita”, che
rappresenta una tipologia di coinvolgimento estetico di tipo ambientale e perciò inclusivo. “Il mio punto di
vita, invece di distanziarmi dalla realtà come fa il punto di vista, diventa il mio punto d’entrata nella
condivisione del mondo” (Kerchove, 1991). Entrata e condivisione sono valori che Régis Debray ha assunto
come portanti di un nuovo ambiente mediale che ha definito videosfera. Il visivo è diventato atmosfera
avvolgente. Infatti, la vocazione sinestetica della videomorfosi implica un coinvolgimento dell’intera rete
percettiva, riconoscendo, in accordo con la fenomenologia di Merleau-Ponty, una reciproca sussistenza tra
la sfera tattile e quella visiva. Non stupisce, dunque, che intimità, contatto, fisicità, inerenza corporea siano
da sempre temi al centro della produzione videoartistica. Il video d’artista sembra suggellare il
superamento dell’egemonia della visione in favore di una sensorialità plurale, globale e immersiva. La
videoarte, nell’indurre a “palpare con lo sguardo”, si emancipa dal semplice status di immagine in
movimento. Essa assorbe, supera, integra e si fa gioco della mera dimensione narrativa a cui è ancorato il
medium cinematografico e quella di intrattenimento, documentazione e informazione proprie del medium
televisivo. Si rivela, invece, nella sua incompiutezza e imperfezione, nella bassa definizione, come una
superficie ibrida, da completare, con cui interagire. Spetta al video artista il compito di ricongiungere
consapevolmente la componente sensibile (visiva, sonora, tattile) dell’esperienza estetica con la
componente sovrasensibile o cognitiva delle idee e del pensiero, all’interno del processo di formazione
della Weltanschauung dell’uomo contemporaneo, che coinvolge anche la sfera individuale e l’ambito
dell’Io. Ed è questo che sembra aver intuito nel 1999 il videoartista Peter Campus coniando l’espressione
“video ergo sum”, il che suona quasi come un avvertimento: “siamo ciò che vediamo”.
Il video nasce in ambito artistico alla metà degli anni ’60, opponendosi alla pesantezza degli apparati delle
emittenti generaliste con leggerezza e trasparenza, dando forma allo sguardo personale in
contrapposizione allo sguardo falsamente universale dell’informazione televisiva. Il video diventa un
“fratello povero” del cinema, a basso costo, consentendo interventi rapiti, in grado di documentare e
raccontare. Grazie all’innovazione tecnologica, poi, negli anni ’80 si assiste al progressivo abbandono dei
dispositivi costosi e ingombranti in favore di mezzi per la ripresa e postproduzione più agili ed economici,
dando vita al connubio tra video e apparecchiature computerizzate sempre più alla portata di tutti.
Attraverso l’utilizzo del croma key, del paint box, del morphing fino ad arrivare al motion capture odierno,
capace di trascrivere su forme plastiche virtuali le movenze di personaggi reali, si assiste a una progressiva
normalizzazione dei nuovi software digitali. Il video è passato attraverso una sorta di “ri-generazione”,
grazie all’ibridazione avuta con contesti similari. Il linguaggio dei videoartisti negli ultimi decenni si è
avvicinato sempre più al linguaggio “di massa” dei videoclip musicali, perdendo quella rigidità e
quell’austerità tipiche delle prime sperimentazioni di videoarte, per acquisire la frammentazione, la
ritmicità e la grafica giovanilista tipica di canali tematici come MTV. Il risultato è un nuovo “oggetto
digitale”, generato da anni di incroci linguistici. L’”oggetto audiovisivo”, pur nella sua immaterialità, è un
prodotto totale che racchiude in sé contenuti espressivi un tempo tenuti debitamente separati nei vari
generi (film, video, musica, danza, arte) e proprio per questo è diventato centrale nella comunicazione
odierna.
La necessità di essere presenti, di partecipare alle vicende del mondo e di essere connessi sta spingendo il
pubblico verso un abbandono della visione televisiva tradizionale, che non rende possibile un vero
intervento diretto del fruitore. L’interesse si sposta sullo spazio virtuale. Ciò nonostante, in linea con il
crescente bisogno di essere presenti, di partecipare si assiste contemporaneamente a un ritorno
“ortodosso” e purista del realismo televisivo, che arriva alle esasperazioni voyeristiche dei reality show.
Queste due spinte opposte possono sembrare incompatibili, ma solo se le si valuta superficialmente, senza
tenere conto di quanta importanza ha avuto questo dualismo d’approccio nella definizione dei generi
cinematografici, televisivi e videoartistici. Questo dualismo è rintracciabile anche nei video selezionati per le
tre edizioni di Videoart Yearbook, che si dividono in due filoni: quella del realismo visivo, in cui gli artisti
affrontano le tematiche attuali arrivando anche a manipolarle con sfrontatezza, e quella in cui gli artisti
scelgono direttamente il terreno della finzione e dell’animazione. L’animazione permette di sconfinare nel
terreno della fantasia e dello humor e consente di essere sintetici, astratti, di dare una versione del mondo
di oggi filtrato attraverso una lente riduttiva, simbolica e concettuale. Questo filone molto attuale della
ricerca sembra implodere volutamente fino alle origini, confrontandosi addirittura con certe soluzioni dei
primordi del cinema d’artista, come al primo film di Duchamp, Anemic Cinéma (1926) o Ballét Mécanique
(1924) di Léger. Ma a ciò si aggiunge anche il recupero di ambientazioni surreali e fantastiche,
dell’ostentazione della ricchezza cromatica delle forme, tipica del cinema d’animazione poi divenuto un
genere a sé stante con Walt Disney.
Se torniamo indietro e pensiamo alla volontà futurista di far muovere le immagini pittoriche, risulta
evidente la similitudine tra questo pensiero avanguardistico e il disegno animato, relegato per anni a
produzioni di nicchia, pubblicitarie e per l’infanzia. Sembra che oggi ci sia la volontà invece di recuperare
l’immagine artificiale proprio per i quozienti di fantasia e visionarietà che porta con sé. La nostra epoca ci
ha abituati a ragionare in modo sintetico, a riconoscere simboli e icone, a rifiutare l’eccesso di particolare e
giungere invece all’essenza delle cose. Il nostro immaginario è mutato, grazie alle nuove tecnologie digitali,
mentre la creatività applicata alle nuove tecnologie continua a sfornare sempre nuovi surrogati o replicanti
del reale. Siamo ormai spinti a uniformarci al codice rappresentativo che parla il linguaggio
dell’artificialità o dell’artificiosità, che, proponendoci quotidianamente oggetti, persone, elementi non
esistenti in natura, che, slittando in una dimensione parallela, funzionano come avatar del reale.
Non deve quindi stupire il fatto che anche i videoartisti non siano rimasti insensibili a queste nuove
frontiere del digitale. Molti artisti sono stati influenzati dalle innovazioni uscite dai laboratori della Disney
Pixar, dalla DreamWorks o della Nintendo, ormai normalizzate e alla portata di tutti. Negli anni ’60, periodo
che ha visto una discreta ripresa delle tecniche di animazione nate nei primi decenni del ‘900, assieme alla
tecnica del “passo uno” o stop motion, le icone usate nell’animazione erano fisse, immobili, dichiaravano la
loro ascendenza fumettistica, in una semplice piattezza in sintonia con il clima della Pop Art. La Computer
Art degli anni ’70-’80 aveva prelevato invece dal repertorio delle immagini elettroniche, rimanendo però
legata a formulazioni geometrizzanti, rigide e schematiche, in relazione con le analoghe elaborazioni dei
primi videogame, come Pac-Man (1980). Dagli anni ’90, con l’introduzione dei monitor a maggior
definizione, la computer graphic facilita l’uscita dai rigidi schemi dei pixel giganti, permettendo di
ammorbidire le linee, di farle diventare sinuose, consente di mescolare effetti grafici e cromatici a linee
vettoriali. Oggi sembra di trovarsi davanti a una Flatland che ha guadagnato spessore, corpo, plasticità e
movenze delle persone reali in una progressiva “naturalizzazione” dell’artificiale. E anche nella videoarte si
assiste alla nascita di un filone dedicato all’animazione.
Guardando molti dei video presenti in Videoart Yearbook è facile capire quanto questo nuovo mondo
animato, alternativo alla realtà sia entrato nelle produzioni di video d’arte degli ultimi anni. Ne sono un
esempio i lavori 3D di Giovanni Kronenberg e Diego Zuelli, che ci catapultano in atmosfere artificiali al limite
del metafisico e del surreale, oppure in quelle da vuoto, asettiche e spaziali in cui nascono nuove forme
vitali come in Rebecca Agnes, Eva Marisaldi, Mauro Rescigno, Giovanna Ricotta. Tra le tecniche usate dagli
artisti si incontrano però anche modalità superate, oggi attualizzate dalle possibilità offerta dalla
postproduzione, il vecchio “montaggio” in digitale: per esempio, il passo uno ritorna prepotente in Morena
Pedrini. Anche la linea, il tratto, il disegno si presentano nella loro semplicità astrattiva sempre attuale in
Blu, Angela Buccino e altri. Un’estetica povera, ridotta a segno grafico, che rifiuta naturalismo e colore.
Infatti, a questo filone dell’animazione se ne affianca un altro, che ricorre alla figurazione stilizzata e piatta,
cromaticamente vivace, volutamente infantile o barbarica, come in Marco Morandi o Laurina Paperina, o
che recupera certe soluzioni d’animazione analogica rileggendole in chiave attuale (Davide Bertocchi) o che
ancora riedita l’uso del pixel gigante per scomporre le immagini (Debora Hirsch). Sul fronte del
decorativismo più spinto, troviamo alcuni video che coniugano il carattere grafico del disegno con le
possibilità digitali di composizione/scomposizione delle immagini (Concetta Modica) in una sorta di texture
fatta di pattern decorativi in movimento a tempo di musica (Riccardo Arena) o in un caleidoscopio di effetti
di campionatura cromatica e musicale (Andrea Renzini).
La decisione di compiere una ricognizione della produzione video italiana più interessante nasce
dall’esigenza di tutto il comitato promotore di osservare e di dimostrare quanto ancora la giovane arte
italiana sia all’altezza di quella internazionale. Mancano, invece, i luoghi di dibattito e di confronto dedicati
e questo spiega il successo di Videoart Yearbook. Ancora una volta, la videoarte ha dimostrato che qualsiasi
tipo di confine non ha alcuna rilevanza. Se guardiamo l’estesa piattaforma del genere del video, c’è, come
dicevano i Matia Bazar, “tutto un mondo intorno”, composto di raffinate attrezzature, di professionisti, di
ampie strutture economiche che sostengono questo prodotto e qui ci si riferisce in modo particolare al
mondo della pubblicità, dello spot televisivo, del trailer cinematografico e del videoclip musicale. Lì c’è il
meglio della creatività internazionale, dunque viene da chiedersi perché gli artisti visivi si ostinano a
produrre opere video che probabilmente saranno mostrate solo in qualche galleria privata o in
un’istituzione museale? È importante rilevare che molti artisti, che persistono nella videoarte, tentano di
svincolarsi dagli obblighi funzionali cui i loro colleghi operativi negli ambiti della televisione, della pubblicità,
della grafica, sono obbligati. Liberi dal mercato massificato, ma schiavi delle imposizioni economiche e
strutturali di mezzi tecnologici impegnativi, tentano una strada alternativa. Videoart Yearbook ha guardato
a tutti loro, tentando di escludere il meno possibile e volendo attraversare le mille anime della videoarte
italiana. Il primo dato più o meno comune è comunque la presenza di un plausibile impianto narrativo, in
quanto non è certo sparita l’esigenza umana di vedersi “presentata” in forme differenti. Questo non vuol
dire che siamo dinanzi a una struttura cinematografica, ma che la nuova colonizzazione estetica
postmoderna si arrampica su di un crescente approccio narrativo/informativo. Gli anni ’80 sono stati i
primi testimoni della saturazione narrativa/informativa attraverso il concetto di super descrizione, e gli anni
’90, al contrario, si sono ribellati a un plus valore divulgativo. L’attuale contemporaneità convive dei suoi
opposti, dogmatizzando la cross culture nata negli anni ’80. Rimane dunque una volontà di raccontare e
raccontarsi. La pubblicità si concentra sempre meno sul prodotto a favore di una riconoscibilità di intenti, il
palinsesto televisivo si infarcisce di reality e talent show, la musica si imbastisce di citazioni e suoni di altre
culture, il cinema sceglie il quotidiano. Contro i giganti della piattaforma visuale odierna, l’arte visiva ha la
possibilità di travalicare ogni confine e creare una combustione sinestetica di tutti questi valori. Per questo
motivo, anche nell’arte visiva, la costruzione narrativa ha assunto nuovamente un ruolo importante.
È interessante notare come la ricerca di alcuni giovani artisti presenti in Videoart Yearbook individui come
oggetti di indagine le strutture stesse della narrazione, analizzando la frammentazione dell’impianto
linguistico o la sua contaminazione con elementi in bilico tra fiction e documentario. La registrazione,
documentazione, post produzione di frames “rubati” o la ricostruzione di un ricordo, di un viaggio o di una
fantasia, permangono nella recente produzione video internazionale. C’è infine un dato rilevate
connaturato all’opera stessa che tuttavia Videoart Yearbook, per esigenze di video rassegna a monocanale,
non ha potuto rispettare, ovvero l’elemento spaziale in cui spesso si collocano le opere videografiche. Oltre
alla relazione con i vecchi e i nuovi media, gli artisti sono sempre più interessati al rapporto con uno spazio
temporale che possa connettersi con altri luoghi e immaginari. Il fruitore così diventa parte integrante
dell’opera stessa che assume un carattere immersivo. Siamo dunque alla presenza di un triplice dialogo:
con lo spettatore, con l’intento dell’artista e con lo spazio, che, da semplice contenitore, diventa parte
attiva e reattiva dell’opera. Non a caso questo è il motivo principale per cui Videoart Yearbook ha dovuto
respingere negli anni opere interessanti per via della loro struttura formale.
Di Sandra Lischi
- Simultaneità
- Immaterialità della trasmissione (mancanza di supporto, come fa notare Enrico Menduni)
- Fruizione domestica
Pertanto, possiamo individuare due grandi famiglie di media: da un lato la fotografia da cui nasce il cinema
e dall'altro la radio da cui nasce la televisione.
1.2 La televisione
Il termine televisione significa “visione da lontano” e le ricerche partono alla fine dell’800 con la scoperta
del selenio che consentono la trasformazione di variazioni luminose in impulsi elettrici. Tra il 1944 e il 1945
la televisione si affermerà diventando un medium a fruizione familiare e successivamente a fruizione
individuale. La tv attrae per il suo potere di portare nella quotidianità domestica l'attualità planetaria.
L’immagine televisiva si basa non su un procedimento ottico-meccanico, ma sulla conversione di impulsi
luminosi in vibrazioni elettriche di diversa intensità e sulla loro riconversione in punti luminosi sullo
schermo. In altre parole, sintetizzando molto, la realtà da riprendere viene analizzata e composta in unità
minime (pixel) che vengono trasformati in impulsi elettrici. Questi impulsi vengono trasmessi in un
apparecchio ricevente che li ricostruisce in puntini luminosi sullo schermo. Non si tratta quindi di una
successione di immagini statiche, ma di un'incessante formazione di segnali che nascono e muoiono alla
velocità della luce. L'immagine non è compatta e la ricostruiamo grazie alla persistenza retinica, che ci aiuta
a ricomporre mentalmente una trama di linee e punti. Nel nostro sistema le righe sono 625: è la cosiddetta
“bassa definizione”. Con l'avvento del digitale si sta superando questa limitazione, e già dagli anni 80 del
900 si è tentato di sperimentare l'alta definizione (un numero doppio di righe) in modo da rendere la trama
televisiva più compatta e definita. Alcuni studiosi come Alessandro Amaducci, sostengono che a causa di
questo procedere per codificazioni l'immagine elettronica non esiste in quanto vera e propria immagine.
Non è materiale. Non è reale. È flusso energetico. Anche la tv è un terminale di immagini e suoni
funzionante 24 ore al giorno. Di qui la nozione di “flusso programmato”. I primi elementi importanti sono
dunque la diretta, il carattere puntiforme a mosaico e una potenzialità illimitata di trasmissione.
Aggiungiamo poi che la tv è dalla sua nascita, un mezzo che unisce ripresa e trasmissione sia audio che
video, cioè il fascino delle immagini in movimento e la potenza della dimensione sonora, insomma il cinema
e la radio. Il televisore è una scatola luminosa portatile, disponibile nello spazio domestico. Ricordiamo che
all'inizio la tv era solo in diretta e quel che veniva preregistrato e mandato in differita lo era solo grazie a
costose e certo non rapide riprese in pellicola. Solo successivamente, grazie ai sistemi di registrazione su
nastro magnetico Ampex è stato possibile registrare i programmi.
• il cinema è caldo perché satura i nostri sensi, fino a intorpidirli e diventiamo quindi passivi
Differenza tra McLuhan e Ragghianti: McLuhan vede la televisione e l’immagine televisiva come
qualcosa di circoscritto e limitato. Ragghianti vede la cosa in maniera positiva, sostenendo che
bisogna creare dei settori sperimentali nell’ambito del quale le persone possano realizzare
liberamente le proprie immagini.
La diretta tv cambia radicalmente le modalità dei montaggi: essa non prevede alcun supporto di
registrazione perché l’immagine trascorre immediatamente dalla telecamera all'apparecchio ricevente, il
montaggio è del tutto diverso da quello del cinema su pellicola. Il regista nella tv ha a disposizione vari
schermi, ed egli deve scegliere di volta in volta la ripresa da mandare in onda e decidere rapidamente.
Anche il montaggio avviene in diretta.
Negli anni ’40 Ejzenstejn guarda alla tv con grande interesse per la sua capacità di annullare il lasso di
tempo che intercorre tra la performance dell’attore e la sua presentazione al pubblico: infatti con la diretta
l’attore recita di fronte alla telecamera sapendo che in quel momento la sua performance arriva al
pubblico, ricreandosi quel contatto col pubblico tipico del teatro. L’autore insiste sulla temporalità attiva
della diretta, del qui e ora, mentre il cinema e la fotografia rendono presente qualcosa che è già passato.
Con la registrazione su nastro magnetico e quindi con la possibilità di differita le cose cambiano , e il
montaggio, benché tecnicamente ancora diverso da quello su pellicola, torna ad essere una fase di scelta
meditata.
Anche per lo studioso tedesco Rudolf Arnheim la TV è una nuova vittoria sul tempo e sullo spazio. Egli
sostiene che la tv è molto diversa dal cinema in quanto è un mezzo di trasporto culturale e non artistico,
sottolineando la forza della compresenza di suono e immagine. Sostiene che la televisione relativizza il
nostro posto nel mondo: il fatto di poter vedere tutto quello che accade, ci fa sentire la nostra piccola
posizione nel mondo, rendendoci modesti: il pianeta diventa come un pianerottolo, come un vicino di casa.
Tuttavia, egli sottolinea come vedere tutto e percepire tutto non equivale a conoscere e a capire, mentre
spesso c’è una sopravvalutazione della sensazione-> lui ha paura che il pensiero sia l’unico che conta senza
la capacità di capire. Fa un confronto tra la spettatorialità del cinema e la spettatorialità della televisione->
al cinema ci andiamo tutti insieme e c’è dunque una sensazione di coralità collettiva, mentre quando
guardo la televisione so che la stanno guardando milioni di persone, ma in quel momento io sono solo e
quindi mi sento ridicolo.
Umberto Eco si è sempre occupato di televisione. Nel 1962 scrive il libro “Opera Aperta”: l’opera d’arte è
aperta all’interpretazione di un lettore, è aperta a nuovi contenuti da parte degli studiosi a seconda del
contesto storico (l’opera non è aperta solo dal 900, ma è sempre stata aperta). Eco sostiene la differenza
tra l’apertura dell’opera di tutti i tempi e l’apertura dell’opera nel 900-> nel 900 l’opera vuole essere
aperta: l’opera di Dante è una struttura chiusa anche se Eco dice che può essere aperta in quanto ci sono
diverse interpretazioni. Eco riflette su come funziona il linguaggio televisivo-> dice che il montaggio
televisivo fa sì che ci sia la struttura, ma anche l’improvvisazione. Agli inizi degli anni ’60 Eco parlava del
montaggio in diretta televisivo come una performance jazz aperta a variazioni e alla libertà creativa.
Dopo aver valorizzato le caratteristiche della trama elettronica dell’immagine (trama= tessitura,
conformazione puntiforme) e la diretta, McLuhan discute l’effetto che provoca il contatto con il mondo che
chiama “villaggio globale” -> è un ossimoro: siamo tutti in un piccolo villaggio che però è globale.
L’avvento di questi media planetari può contribuire alla vicinanza, ma può addirittura aumentare il divario:
per cui questa nozione non è da intendersi solo nelle sue valenze di armonia e unificazione. Alcuni hanno
considerato l’importanza della televisione anche per il fatto che essa utilizza primi e primissimi piani e una
dimensione intima in modo da favorire e amplificare la dimensione domestica del mezzo.
L'immissione sul mercato di attrezzature video portatili avviene negli USA a opera della Sony nel 1965, il
“portapack”. Le prime attrezzature di videoregistrazione erano “portatili” a prezzo però di grandi fatiche
fisiche. Esse esano un insieme complicato di apparecchiature distinte: telecamera separate dal nastro,
situato in un registratore, collegato alla telecamera da un cavo. Il peso di tutta l'attrezzatura era di circa 20
chili. Eppure, questo mezzo attrae subito l'interesse di gruppi e collettivi e mobilita l'attitudine
sperimentatrice da parte di cineasti indipendenti e artisti. Tuttavia, questo disegno commerciale non ebbe
all'epoca gli esiti sperati, per via dell'ingombro e della poca affidabilità delle attrezzature. Solo con i
“camcorder” (telecamera più recorder, cioè nastro contenuto direttamente nell'apparecchio di ripresa) e
con le “handycam” (telecamere che stanno in una mano), la diffusione delle telecamere sarebbe diventata
un vero business per le industrie produttrici.
Quali erano i grandi vantaggi di un mezzo che, proprio per distinguerne la natura da quella televisiva, viene
chiamato video?
Infine, il portapack consentiva di registrare insieme immagini e suoni, e seppure con un po' di fatica, poteva
essere usato da una persona sola. Del resto, a chi si accostava per la prima volta a questo nuovo medium
non interessava la qualità perfetta. Quello che contava era la testimonianza di eventi altrimenti non
documentabili. Bisogna immaginare questa novità inserita nello scenario di quegli anni. Sono, infatti, gli
anni in cui si mira a coinvolgere maggiormente lo spettatore, fino a farlo divenire attivo, chiamarlo in causa.
Buona parte delle battaglie studentesche contro la guerra in Vietnam aveva come spunto e come bersaglio
la manipolazione quotidiana delle informazioni da parte dei media. Siamo alle soglie dei movimenti del
1968 che videro milioni di giovani scendere in piazza contro la violenza. Il video nasce in questo contesto,
come medium più adatto a documentare quanto accade, allontanandosi dai generi e dalle durate
codificate tipiche della tv, anche se mantenendo quel carattere di attualità e di presa diretta.
Per concludere, con il termine “video” si intendono fenomeni diversi tra loro: video come schermo tv, come
nastro magnetico, come tecnica, come genere particolare. Video in latino viene da “io vedo”. Il critico
Philippe Dubois dice che il video è l’atto stesso dello sguardo nel suo costituirsi.
2. Un nuovo linguaggio?
2.1 Video, film, cinema elettronico
Il video appartiene dal punto di vista tecnologico alla famiglia della televisione e della radio. Tuttavia, anche
il dialogo tra cinema e tv è ininterrotto fin dalle origini. Alcuni autori cinematografici, ad esempio, si sono
rapportati alla tv con interesse: è il caso di registi come Godard e Fritz Lang che negli anni 60 applicarono ai
loro film caratteristiche del linguaggio televisivo come lo sguardo in macchina. Antonioni, invece, ha
effettuato le riprese con le telecamere invece che con le cineprese: l'immagine elettronica può infatti
consentire modifiche dei colori delle scene nella fase del montaggio. È la stagione del cosiddetto “cinema
elettronico” il cinema che assorbe, incorpora alcune caratteristiche della tv . Bisogna chiarire che in questi
esperimenti l'immagine elettronica veniva poi riconvertita in pellicola per poter consentire un'efficace
distribuzione nelle sale, come avviene d'altronde oggi. La tecnologia televisiva consente anche di vedere
subito quello che si gira, di verificare in diretta l'efficacia della luminosità, dell'inquadratura, della
recitazione. Dziga Vertov è uno degli autori che immaginarono fin dagli anni ‘20 gli usi, anche sociali e
poetico-politici, di un cinema “potenziato”. Ejzenstejn ne sottolineava la forza di comunicazione diretta,
immediata, tra attore e spettatori. In questo suo potere di simultaneità fra la recitazione e la sua ricezione
sullo schermo, e quindi nella consapevolezza da parte dell'attore che in quel preciso momento lo spettatore
tv lo vede e lo ascolta, la televisione ritrova e ripropone un’“aura” simile a quella dello spettatore teatrale.
Tuttavia, si è anche tentato di delineare un possibile “linguaggio specifico” del nuovo medium. In quanto
intimo e domestico, secondo alcuni avrebbe dovuto insistere su una sorta di simulazione di dialogo diretto,
privilegiare i primi piani a scapito delle scene di massa o dei panorami, lo sguardo in macchina e la bassa
definizione. Inoltre, bisognava sperimentare programmi e forme nuovi e non tanto riprendere quelli già
esistenti dal mondo dello spettacolo (Adriano Bellotto). E dunque qui ritorniamo al pensiero di Ragghianti,
che sottolineava quanto le inferiorità della televisione rispetto al cinema siano in realtà punti di forza.
- una realistica: facilità d’uso, avere allo stesso tempo registrazione delle immagini e dei suoni,
durata delle riprese, economicità (cinema documentario)
- l'altra sperimentale e astratta, collegata alla natura metamorfica dell'immagine elettronica (cinema
di animazione e sperimentale).
In questo senso il dialogo con il cinema può estendersi anche al video: Gene Youngblood sostiene che il
video è l’estensione del cinema, capace di coinvolgere più sensi, di presentarsi sotto varie forme, di
superare il montaggio cinematografico classico, di attivare processi di immaginazione nuovi. Se si parla di
“videoarte”, si parla di un cinema sperimentale praticato elettronicamente, dove arte sta per il processo di
esplorazione e ricerca.
Non è un caso che molti pionieri del video provengano dalle arti plastiche e dalla musica: scoprire il video è
stato come scoprire uno strumento che consentiva di proseguire in altri modi una ricerca estetica. Per Paik,
il video era un mezzo che consentiva non solo di documentare creativamente le performance degli artisti,
ma anche di continuare a giocare con le forme, a irridere la tradizione. Il suo video musicale ispirato a un
brano di Beethoven, consiste in un continuo di deformazioni colorate e una scena di un busto del celebre
musicista preso a schiaffi. Si conclude con la distruzione del pianoforte.
Robert Cahen, francese, si era formato invece nella scuola della “musica concreta”, termine coniato dal
compositore Pierre Schaeffer nel 1948 per indicare una musica che esiste solo fissata concretamente,
appunto, su supporto. I suoni vengono trattati in laboratorio come oggetti: trasformati, alterati in vario
modo. È così che Cahen si accosta, all'inizio degli anni 60 ai macchinari per gli effetti video, ancora
inesplorati. Sperimenta gli effetti dei “generatori di trucchi”, dell'oscilloscopio, che deforma l'immagine e vi
produce stratificazioni quasi geologiche, dello “spectron” che crea rigature geometriche.
Negli USA troviamo invece Steina e Woody Vasulka, che si occupano dell’interazione tra strumento
musicale e immagine elettronica: infatti affermano che immagini e suoni provenivano dalla stessa sorgente
e differivano solamente nel modo in cui tensione e frequenze di base erano organizzate nel tempo.
Negli stessi anni, anche Bill Viola scopriva che il video aveva affinità maggiori con il suono che con le
immagini cinematografiche. Il video però ha rivelato da subito la propria natura pittorica. Il colore, i
contorni, le figure, potevano essere alterati con il videosintetizzatore.
Uno degli strumenti usati più frequentemente per ottenere effetti di tipo pittorico è il “paint-box”, che
consente di usare frammenti di immagine video come texture grafica di sottofondo o come pennellate
fedeli al tratto dell'originale, per creare nuove immagini statiche o in animazione, ritagliare un soggetto dal
suo sfondo e metterlo in un contesto diverso, elaborare, alterare, ridimensionare e colorare a piacere
qualsiasi porzione dell'immagine elettronica.
Nella ricerca più specificatamente artistica con l'immagine elettronica invece, la parola tende a lasciare il
posto alla musica, al suono, al rumore. È come se il video in questo volesse contrapporsi allo strapotere del
parlato nella tv, nella radio e nel cinema. A tal proposito la radio si differenzia nettamente per il fatto che
essa è un medium acusmatico, di cui non vediamo la fonte, e per questo ha un potere molto più forte nello
sviluppo dell’immaginazione e di associazioni mentali. Ne era a conoscenza Orson Welles quando nel 1938,
nella vigilia della notte di Halloween, mise in scena un adattamento radiofonico de “La guerra dei mondi”,
con false dirette, silenzi improvvisi, simulando l’arrivo dei marziani sulla terra: tutto ciò causò panico da
parte della gente che iniziò a fuggire. Il suono è più potente dell'immagine: non ci si può difendere dai
suoni, perché si diffondono nell'ambiente come un fumo. I primi videoartisti provenivano in gran parte
dalla musica. E questo è uno dei motivi per cui la ricerca con l'immagine elettronica è stata ricerca insieme
audio e visiva.
Oggi non si parla più di trucco, preferendo il termine effetto speciale. Esso designa tutti quegli effetti che si
ottengono usando l’elettronica in cinema e trasferendo poi queste sequenze in pellicola per la
distribuzione in sala. Sono quindi effetti speciali perché vengono elaborati a parte. Bisogna però
considerare che anche gli effetti sono da storicizzare e da inserire nell’evoluzione dei media. Questa
incursione dell’effetto cinematografico è utile per un raffronto con gli effetti video, per capire un altro
elemento di novità portato dall’immagine elettronica. Nel cinema delle origini il movimento stesso delle
immagini era di per sé un effetto speciale, e così i primi piani, per non parlare del montaggio. In video,
l'effetto è ottenibile e verificabile in diretta. È stato l’esperimento del magnete sulla televisione a far
considerare gli effetti video come del tutto normali.
I primi effetti video (anni 60-70) sono stati:
Un altro effetto è quello del “feedback” provocato dal puntare la telecamera sul monitor ad essa collegato.
Amaducci spiega che è un fenomeno molto particolare: ciò che si sta riprendendo si ripeterà all'infinito,
diventando sempre più piccolo e perdendo la sua colorazione naturale per diventare sempre più azzurrino,
infine disperdersi nella luce. In postproduzione si sperimentano altre possibilità e altri effetti, come quello
dell'intarsio, o “blue studio” o “chroma-key” che consente di combinare in una stessa inquadratura due
diverse immagini miscelandole. Questo effetto viene usato anche negli studi televisivi: per esempio il
meteorologo ha il pannello con lo sfondo in movimento, che in realtà è blu. È il regista che manda in onda
l'immagine che esso “contiene” intarsiandola nell'altra. Il protagonista si regola guardando un monitor.
Naturalmente l'effetto del chroma key può essere applicato non solo all'uso di sfondi ma anche a oggetti,
vestiti, corpi. La possibilità di intarsiare più immagini è utile per creare delle scenografie virtuali.
Questa gamma di possibilità ha indotto a ripensare il linguaggio delle immagini in movimento, che in video
necessita di una nuova terminologia: se già la nozione tecnica di fotogramma scompare in video, anche
quella di inquadratura tende a essere messa in discussione. In un'inquadratura possono coesisterne tante.
La stessa parola “montaggio” è stata sostituita da quella di “post-produzione”, parola che indica un lavoro
di elaborazione delle riprese, non di taglio e assemblaggio. Con il digitale la terminologia di nuovo si evolve
e cambia, di pari passo con le diverse e nuove possibilità tecnologiche.
Il linguaggio del video, invece, non è stato esplorato solo in antitesi alla tv, ma anche al suo interno ; anzi,
proprio alcune emittenti radiotelevisive hanno ospitato e incoraggiato programmi “sperimentali”. In Gran
Bretagna la BBC promosse e accolse esperimenti di artisti indipendenti come David Hall, che diede vita a un
prototipo di programma, composto da corti, piccole gag televisive girate in pellicola ma ispirate all'universo
televisivo, che rappresentano una sorta di pausa tra un programma e l’altro (7 TV pieces). In Francia il
creatore della musica concreta, Pierre Schaeffer, elaborò suoni e li modellò come se fossero oggetti. Negli
USA, alcune emittenti televisive accolgono degli artisti in grado di utilizzare generatori di effetti e i mixer
video, con l’intenzione di umanizzare la tecnologia senza farsi influenzare e “buttare giù” dalle complicate
attrezzature e dalla scarsa assistenza tecnica. Nonostante la televisione fosse vista come un modello
negativo, essa era anche un materiale da deformare per costruire un universo mediatico fatto di follia e
divertimento, messaggi pubblicitari e assurdità.
Nel 1988 una rivista italiana dedicata alle nuove tecnologie elettroniche e alla creatività televisiva
“Videomagazine” pubblicava un elenco di “programmi intelligenti” a livello europeo, sintetizzando le
caratteristiche di una serie di emittenti televisive aperte al nuovo. Nel 1989 un programma in 14 puntate,
“El arte del video” fa il punto sulla storia e sui linguaggi del video. La trasmissione acquista un peso
internazionale anche perché per ogni puntata produce un breve lavoro di 4 minuti affidato ai maggiori
videoartisti internazionali, da Cahen a Godard. Godard, del resto, è tra i primi, proprio negli anni ‘80, a
intuire le possibilità del video come “altro schermo”, come possibilità di manipolazione dell'immagine nella
mescolanza con il cinema. Secondo Kluge, la televisione, come il cinema, si impegna per instaurare un
rapporto con il pubblico, anche se nel caso della tv, il pubblico è più ampio e differenziato rispetto al
cinema. Rossellini, invece, smette di fare cinema per avviarsi verso il regno della televisione, vista da lui
come strumento di conoscenza. Era, infatti, convinto della capacità della tv di stabilire un dialogo più
personale con lo spettatore.
Si comincia a parlare di “television art”. Non è più tempo di guerra tra video e tv. Ma la stagione della
television art finisce presto per mancanza di investimenti adeguati e forse anche per l'assenza di una
riflessione approfondita sui modi migliori per inserire questo tipo di produzioni nel flusso della
programmazione tv. Forse con i canali satellitari e con le televisioni tematiche, cioè con il fenomeno della
“neotelevisione” potrà riemergere una forma di diffusione e dialogo tra video e tv.
La duttilità del video si presta anche per ritrarre il caotico spazio della metropoli odierna: il documentario
di creazione è ricco di esempi in cui la città è rivisitata con lo sguardo e il corpo della danza, oppure con
immagini, suoni e colori come in “La deuxieme jour” e “Hong Kong”, entrambi di Cahen.
Klier, invece, aveva nel 1984, composto un ritratto di città e della civiltà a partire dalle immagini di varie
telecamere della videosorveglianza. Documento allo stato puro, la parola è assente, lo spazio urbano è
ritratto attraverso immagini, suoni, rumori, gesti. Un'altra tendenza forte del documentario in video è,
infatti, quella del found footage, che consiste nell’elaborare creativamente materiali di repertorio, film
d'archivio, anche i filmini di famiglia e amatoriali, sia per “reimpaginare” e sonorizzare vecchie pellicole
destinate all'invisibilità e consentire loro una nuova circolazione grazie alla videocassetta (e possiamo citare
l'attività dell'Archivio cinematografico della Resistenza di Torino); sia per “rileggere” la storia utilizzando
anche memorie private e piccole vicende quotidiane. Qui possiamo portare come esempio Peter Forgacs,
che da anni raccoglie film privati girati in tutta Europa in particolare durante la Seconda Guerra Mondiale,
per ricrearli in video e testimoniare eventi storici attraverso le vicende drammatiche delle famiglie. Lavori di
taglio poetico e biografico furono svolti da Alina Marazzi in “Un'ora sola ti vorrei” 2002, in cui l'autrice
ricostruisce in video, a partire da film di famiglia, foto e diari, la vicenda della madre, in un’opera che riesce
ad andare oltre il dato personale e che diventa universale e toccante. Questo genere viene ripreso anche
dalla serie dei “Diari” di Nanni Moretti, che narra in video, attraverso la composizione di archivi, le
testimonianze, le vicende di vari personaggi che possono offrire degli aspetti di cultura e storia dell’Italia.
Anche questa stagione televisiva è destinata ben presto a concludersi. Il linguaggio del video continua però
a confrontarsi con il teatro. Ma nel frattempo si affermano modalità espressive autonome del prodotto
audiovisivo, non vincolate cioè a uso di servizio, alla documentazione. Lo spettacolo viene rielaborato e
ricreato per la sua versione (o sintesi) in video e ha una sua vita, circola nei festival e talvolta trova
ospitalità in qualche programma televisivo. È appunto la stagione del video-teatro, un vero e proprio nuovo
genere. Registi, autori e compagnie si accostano al video usando i colori per creare scenografie non
realistiche, deformando il volto dell'attore. Il video entra in scena e diventa elemento della narrazione,
componente importante e viva della scenografia. Questo appare soprattutto in due opere: “Prologo a diario
segreto contraffatto” (1985) e “La camera astratta” (1987), che vedono la collaborazione di Giorgio Barberio
Corsetti e del gruppo Studio azzurro. Non si tratta qui di uso più o meno complesso di immagini in
movimento sulla scena. Qui i monitor diventano elementi mobili, scenografici, interagiscono con gli attori; il
tutto arricchito dalla recitazione dietro le quinte trasmessa dai monitor in diretta sulla scena. La
rappresentazione teatrale mette in scena insomma una rete fitta di dialoghi tra macchine e persone. “I
monitor devono avere una propria funzione e muoversi nello spazio come attori”. In effetti, la scatola
luminosa del monitor diventa quinta teatrale, sipario, fondo, ma si muove anche sulla scena. Diventa
elemento fondamentale del racconto. Il gruppo di Studio Azzurro continuerà poi questa riflessione su corpo
e artificio tecnologico sviluppando la concezione e costruzione di videoambienti e “ambienti sensibili”, ma
non dimenticando il teatro vero e proprio.
Un altro aspetto del rapporto tra scena e immagine elettronica è la videodanza, che ha avuto uno sviluppo
parallelo a quello del videoteatro. Negli Usa già una regista, Maya Deren, si era cimentata in pellicola, con
una ricerca di modi creativi, non naturalistici, di rappresentazione della danza. Negli Usa, in Canada, poi in
Francia e in Gran Bretagna, dove la danza in video diventa un vero e proprio prodotto da reti televisive. La
rappresentazione delle coreografie si prende una serie di “licenze poetiche” consentite o agevolate dalla
tecnologia elettronica: rallentamenti e accelerazioni, moltiplicazioni dei personaggi, inserimento dei
danzatori in scenografie virtuali o in spazi “impossibili” ad esempio aria. Con l'avvento del digitale, in
particolare negli anni ’90, la danza in video va incontro a nuove configurazioni: si può creare, a partire dallo
studio di un vero ballerino, a cui vengono applicati dei sensori, un suo sostituto virtuale. Si tratta della
“motion capture”, ovvero di un sistema di cattura del movimento. Il danzatore in carne ed ossa, dotato di
sensori, può interagire con l'ambiente creando una “realtà virtuale” che si evolve con lui.
A Ginevra, nel 1994 Peter Greenway è stato chiamato per una serie di vedute della città da varie postazioni
e incorniciature dello spazio. A Livorno nel 2004 Robert Cahen è stato chiamato a tenere uno stage con
alcuni giovani che intendevano realizzare un’installazione con immagini in diretta dei visitatori e in differita,
su 6 schermi. Sono tutti esempi di come il video e lo spettacolo multimediale stiano entrando in vari ambiti:
da quello produttivo a quello istituzionale a quello formativo.
Si avvale di questa tecnologia anche la “computer art”, che raccoglie e ricrea alcune utopie
cinematografiche e alcune ricerche sull'immagine astratta svincolata dall'apparecchio di ripresa. Il digitale,
comunque, consente attraverso la costruzione di realtà non esistenti in natura, “virtuali”, di creare punti di
vista che sfidano ogni legge fisica, simulando situazioni impossibili. L'era informatica modifica i nostri modi
di vivere, tutti abbiamo un computer e facciamo uso di apparecchi informatici ogni giorno. Il panorama
mediatico sta cambiando: i media sembrano perdere la loro individualità e mescolarsi con altri media. Si
pensi al telefono che diventa macchina fotografica, al computer che diventa un piccolo cinema.
Il successo della rivoluzione digitale è dovuto all’efficienza della trasmissione, alla riduzione dei rischi di
perdita dei dati, dalla semplicità nell’elaborazione, economicità e possibilità di avere un controllo totale.
- Il cinema è simboleggiato dalla linea in quanto è in qualche modo un prodotto finito perché la
pellicola ha un inizio e una fine. Vi è una successione di fotogrammi.
- Il video è simboleggiato da una spirale perché oltre a consentire riprese illimitate, si potevano
deformare le inquadrature. erano a forma di spirale le distorsioni astratte in movimento generate
dai magneti applicati al monitor. Ed è una spirale quella che si forma nel fenomeno del feedback.
- L’immagine numerica è simboleggiata dalla sfera che ricrea uno spazio potenzialmente infinito
grazie alla codificazione numerica dei segnali.
Per Amaducci il video digitale è un segnale video campionato dal computer, ciò che prima era un flusso di
informazioni elettromagnetiche ora è un file, cioè una catena di informazioni digitali. Il video digitale è una
terra di mezzo tra il video analogico e le immagini di sintesi, dato che le immagini passate al computer
possono ancora avere un rapporto con una realtà ripresa dalla telecamera, ma grazie alla digitalizzazione
sono gestibili e versatili.
Con il computer, la possibilità di combinare immagini all’interno di una stessa inquadratura si chiama
compositing. Inoltre, il computer crea un ambiente operativo virtuale e ricrea e reinventa il cinema. Il
computer sembra farci andare incontro ad una ricezione più attenta e attiva: infatti se secondo McLuhan
l’immagine televisiva si mostra più “fredda” e attivatrice di partecipazione a differenza del cinema, anche
Rossellini si mostra a favore della fruizione mediata e individuale della tv rispetto al cinema, per Manovich
di fronte all’immagine digitale passiamo continuamente dalla posizione di utente attivo a quella di
spettatore perché se mentre guardiamo un film su dvd compaiono icone e menù, noi diventiamo
immediatamente attivi.
Per tutte queste caratteristiche oggi molti registi cinematografici preferiscono girare in digitale, perché
permette di registrare un numero doppio di linee ad alta qualità e poi trasferire tutto sulla pellicola per
proiettare il film nelle sale. Dunque, vi è una maggiore qualità dell’immagine e la possibilità di farne un uso
domestico a basso costo, grazie alla presenza di computer nelle case delle persone.