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PROSPETTIVA FILOSOFICA

” Ogni cosa mette in gioco tutta la potenza infinita della natura secondo la prospettiva determinata che essa esprime

Le teorie dei colori di Gothe, Kandinsky e Klee – 4


30 LUGLIO 201630 LUGLIO 2016 ~ GIULIANO ANTONELLO

4 – Lo spiritualismo di Kandinsky e la sua teoria dei colori

Premessa

A differenza di Goethe, Kandinsky non ha mai dedicato un’opera specifica al colore. Le estese osservazioni che su di esso sono fatte in Dello
spirituale nell’arte si inseriscono, infatti, in un contesto più ampio di quello propriamente cromatico, volendo il testo essere un vero e proprio
trattato di estetica generale, come si desume dalle parole con cui l’artista apre la Prefazione alla prima edizione del 1912:

I pensieri che sviluppo qui sono il risultato di osservazioni ed esperienze nel campo della sensibilità che ho lentamente accumulato nel
corso degli ultimi cinque o sei anni. (TS2, 65)

Inoltre, la prospettiva dalla quale Kandinsky guarda ai problemi dal colore non va al di là dello studio dei suoi effetti etico-sensibili o di
osservazioni riguardanti la tecnica artistica, trascurando, così, completamente la natura materiale del colore. Ciò non è casuale o imputabile a
un preciso taglio teorico dell’artista, ma testimonia, come tenterò di dimostrare, una reale fragilità e labilità della sua produzione teorica.

In questo capitolo non parlerò dell’arte di Kandinsky, ma delle sue concezioni estetiche e filosofiche in generale, concentrando l’attenzione su
quattro punti cruciali, attorno ai quali può essere organizzato tutto il pensiero del pittore.

1. Il primo punto riguarda la serrata e insistente polemica che Kandinsky conduce contro il materialismo del secolo diciannovesimo, in nome
dell’avvento di una nuova era di spiritualità e interiorità che si verificherebbe nel secolo ventesimo. L’arte astratta, il cui principio ispiratore
non è l’esteriore imitazione della natura, ma l’uso degli elementi artistici puri secondo il principio della necessità interiore, costituirebbe un
sintomo inequivocabile di questa trasformazione.
2. L’analisi del significato teorico della crisi dell’oggetto nell’astrattismo e dei complessi rapporti tra arte e natura costituisce il secondo punto
del testo.
3. La terza parte affronta l’argomento specifico della ricerca, cioè la teoria del colore, di cui mostrerò, oltre alle caratteristiche proprie, i motivi
della sua insufficienza nei confronti di quella di Goethe.
4. Quarto e ultimo punto è un argomento centrale di tutta la concezione estetica e filosofica di Kandinsky: gli studi sulla sinestesia e l’arte
monumentale. Infatti, nella sintesi delle arti, intesa come interiore esperienza di totalità, trovano sbocco tanto il suo spiritualismo teosofico
e  iniziatico quanto la sua concezione dei mezzi artistici puri (il colore in primo luogo) come in sé significativi, svincolati da qualunque
compito di rappresentazione esteriore e oggettuale.

Intendo mostrare come Kandinsky sia portatore di un concetto di esperienza sostanzialmente insoddisfacente per le sue inaccettabili
implicazioni mistiche, come le sue pertinenti critiche al positivismo e al materialismo volgare non sappiano dar vita a una reale alternativa a
essi (come invece può giustamente pretendere una scienza qualitativa di ispirazione goethiana) ma evochino in realtà, confusi esoterismi.

Lo spiritualismo di cui l’artista si fa paladino nasce dall’irrisolta questione dei rapporti tra l’interiore e l’esteriore, dall’incapacità di vivere
interamente la realtà: l’interiorità diventa il gratificante ricettacolo in cui ogni frustrato progetto di vita trova benevola comprensione e gli
strumenti adatti per trasfigurarsi in orgogliosa ma impotente espressione di autenticità. Un dualismo teorico, rigido e inflessibile, viene a
sancire questa situazione di lacerazione esistenziale, ammantandola di dignità filosofica. E al riparo dalle insidie impertinenti del “mondo
esteriore” con le sue grevi categorie economiche, sociali, materiali, corporali, uno spirito profetico e ciarliero comincia a produrre fervidi e
appassionati vaticini sulle sorti dell’Umanità, la quale, tra chiliasmi e promesse di apocatastasi, marcia sicura verso la Grande Utopia. Poco
importa che il mondo esteriore veda in ciò nient’altro che una patetica Nostalgia: gli occhi del corpo non possono smentire quelli dello spirito.

Kandinsky condivide questa prospettiva caratteristica di ogni spiritualismo e misticismo, anche se la grande forza innovatrice della sua arte e
le numerose collusioni con la vita mondana di cui è stato protagonista (leader di avanguardie artistiche, attivo impegno nella politica culturale e
artistica del giovane governo sovietico, ammirato professore della Bauhaus) l’hanno messo al riparo dagli esiti più grotteschi. Siamo comunque
decisamente lontani dal vitale umanesimo goethiano, dal suo rifiuto di contrapporre l’interno all’esterno, la sensibilità allo spirito. Ma siamo
ugualmente lontani anche dall’intensa sensibilità di Klee che, pur essendogli affettuoso amico, mai condivise le divagazioni teosofiche del
pittore russo.

Caratteri generali dello spiritualismo di Kandinsky

La metafora della vita spirituale che Kandinsky presenta nel suo fondamentale saggio Dello spirituale nell’arte ci dà un’immagine molto efficace
della sua concezione filosofica (TS”, 63-150). Il libro Dello spirituale nell’arte fu tradotto in russo da Kandinsky e letto al congresso degli artisti
russi tenutosi a Pietroburgo tra il 29 e il 31 dicembre 1911. Tale versione differisce in alcuni punti dall’edizione tedesca. Le differenze riscontrate
sono riportate in una Nota a Dello spirituale nell’arte, in TS2, 147-150
La vita spirituale è rappresentata schematicamente in modo corretto da un grande triangolo acuto diviso in sezioni orizzontali diseguali,
con la più piccola e più aguzza rivolta verso l’alto. […] L’intero triangolo si muove lentamente, in modo appena percettibile, in avanti e
verso l’alto e dove oggi si trova il vertice estremo, domani sarà la prossima sezione; […] alla punta del vertice estremo si trova talvolta
soltanto un uomo. La sua gioiosa visione fa tutt’uno con la sua smisurata tristezza interiore,  e neppure coloro che gli sono più vicini sono in
grado di comprenderlo. (TS2, 75)

Nelle sezioni inferiori si trovano i più irriducibili materialisti, gli atei e i socialisti, appena sopra dimorano i positivisti in campo scientifico, che
credono solo a ciò che vedono e possono misurare, e i naturalisti in campo artistico. Le sezioni intermedie sono pervase da un timore segreto e
da un senso di incertezza, derivanti dalla consapevolezza della relatività di una conoscenza fondata su motivi puramente materiali. Nelle parti
più elevate, infine, si trovano coloro che mettono in discussione sia il credo della scienza materialistica che quello dell’arte naturalista e si
rivolgono a civiltà ed esperienze cadute nell’oblio, soffocate dall’efficientismo della società occidentale industrializzata.

Come si vede, la gerarchia in questo triangolo è dettata dalla scelta spirituale contrapposta a quella materiale. Perciò viene dato grande rilievo
e collocato nelle sezioni più elevate il movimento teosofico della signora Blavatsky, che cerca di “accostarsi ai problemi dello spirito passando per la
via della conoscenza interiore“, utilizzando quindi metodi diametralmente opposti a quelli positivistici. (TS2, 82). Questo movimento, fortemente
caratterizzato in senso esoterico e animato da una grande tensione escatologica, rappresenta per Kandinsky un vertice della spiritualità del
secolo e ad esso guarderà sempre con grande simpatia. V. Maurizio Calvesi, Kandinsky e la teosofia, in Anna Cavallaro, Il Cavaliere azzurro e
l’orfismo, Fabbri, Milano, 1976, p. 96-97. La Società Teosofica fu fondata dalla Signora E. P. Blavatsky a New York nel 1875 e ad essa appartenne
fino al 1922 (quando si staccò per fondare la Società Antroposofica) anche lo studioso di Goethe Rudolf Steiner. Secondo la teosofia:

una sapienza divina unica e universale è stata fino dai tempi più remoti alla base di ogni religione e filosofia. Ma la vera conoscenza è
riservata ai grandi iniziati, i quali trasmettono al volgo solo alcune verità in forme approssimative e adatte, di volta in volta, ai tempi; così le
religioni e le filosofie non sono che il pallido riflesso dell’autentica gnosi. (p. 96)

Tale spiritualismo si riflette fortemente nell’attività artistica del pittore caratterizzata, come osserva Argan, da una forte tendenza anticlassica
dovuta a un esplicito richiamo all’irrazionalismo orientale.

Il movimento a cui dà vita Kandinsky, russo di origine siberiana, è anticlassico non soltanto perché nega all’arte ogni fondamento
naturalistico, ma anche perché prospetta il necessario rinnovamento dell’arte come la vittoria dell’irrazionalismo orientale sul razionalismo
artistico occidentale. (Giulio Carlo Argan, L’arte moderna. 1770-1970, Sansoni, Firenze, 1978, p. 384)

Molto opportunamente De Micheli sottolinea la differenza tra la concezione ascetica di Kandinsky e quella immanentistica di Klee:

(Klee), a differenza di Kandinsky è convinto di poter penetrare la corteccia del mondo fenomenico, come è convinto che l’arte possa
afferrare il senso creativo della natura in modo diretto. Per Kandinsky invece il mondo oggettivo è invalicabile […]. In Kandinsky,
insomma, la concezione ascetica oppone spirito a materia, l’immanentismo di Klee invece elimina tale dualismo per affermare una
continuità dell’universo. (Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano, 1971, p. 112)

Altrettanto pertinente è la distinzione tra l’orfismo del Blaue Reiter e l’espressionismo della Brücke. Gli artisti del Blaue Reiter, infatti,

tendevano a una purificazione degli istinti anziché al loro scatenamento sulla tela; non cercavano un contatto fisiologico col primordiale,
quanto piuttosto un modo di cogliere l’essenza spirituale della realtà. […] L’evasione non è verso il mondo selvaggio e neppure nel cuore o
nelle viscere pulsanti della natura, bensì nello ‘spirituale’ della natura, nell’Io interiore, nella verità dell’anima. (ibid, p.100-102)

Alla base dello spiritualismo di Kandinsky si trova ricorrente il concetto di necessità interiore con il quale si esprime il suono o valore che ogni
oggetto o forma hanno in quanto tali, in quanto cioè si rivolgono direttamente all’anima umana non contaminati da estranee funzoni pratiche.
Questo principio, unico valore su cui basare ogni attività artistica autentica, è plasmato, come detto in Dello spirituale nell’arte, da tre necessità
mistiche:

1. L’elemento della personalità, secondo il quale l’artista, in quanto creatore, esprime solo ciò che gli è peculiare;
2. L’elemento dello stile, grazie al quale l’artista, in quanto figlio della propria epoca, esprime solo ciò che è proprio dell’epoca;
3. L’elemento dell’artisticità pura attraverso cui l’artista, in quanto servitore dell’arte, esprime ciò che è proprio all’arte in generale. (TS2, 103-
104)

Anche nel saggio Sulla questione della forma (TS1, 117-132), scritto nel 1912 per l’Almanacco del Cavaliere Azzurro, si parla di personalità, stile e
artisticità come elementi che determinano la forma dell’opera d’arte. (TS1, 119-120) Attraverso il principio della necessità interiore, dunque,
l’opera d’arte assume un valore spirituale, non più legato a un’estrinseca esigenza di imitazione della natura.

La dimensione spirituale cui si accede va tenuta chiaramente distinta da quell’esigenza di idealizzazione propria della poetica simbolista.
Argan lo dice apertamente allorché afferma che:

lo spirituale, per Kandinsky, non è affatto l’ideale dei simbolisti: […] lo spirituale è il non-razionale; e il non-razionale è la totalità
dell’esistenza. (Giulio Carlo Argan, op. cit., p. 388)

v. anche Giulio Carlo Argan, Kandinsky e la rivoluzione, in Vassily Kandinsky, 43 Opere dai Musei sovietici (Catalogo della Mostra), Roma, Musei
Capitolini, Palazzo dei Conservatori, 12/11/1980 – 04/01/1981 e Venezia, Museo Correr, Sala Napoleonica, 15/01/1981 – marzo 1981, Silvana
Editoriale, Milano, 1980, p. 12:

Spirituale è un termine ereditato dal simbolismo, ma di fatto per Kandinsky non significa tanto trascendenza, quanto valore intellettuale
che non discende da idee a priori, ma si realizza con l’operazione tecnica dell’arte nella concreta realtà della forma.

Non solo il colore, ma anche gli elementi grafici del disegno sono studiati da Kandinsky secondo il principio della necessità interiore, come si
può vedere nel saggio del 1926 Punto e linea nel piano. Contributo all’analisi degli elementi pittorici (TS1, 1-113). Qui, punto, linea e piano di fondo
vengono analizzati nella purezza propria degli elementi costitutivi, originari della pittura e ognuno di essi esprime uno o più suoni interiori,
sui quali si fonda la pittura astratta. A questo proposito, sono esemplari le osservazioni che Piana sviluppa in relazione all’analisi del punto
fatta dall’artista russo: esse mostrano come il decorso immaginativo che sta alla base di questa analisi sia marcatamente orientato verso un esito
spiritualistico.
Il punto invisibile e immateriale, la cui origine si trova nel discorso, di cui esso è il respiro, diventa una figura concentrata, un simbolo della
vita interiore, di una spiritualità che non può che essere compromessa non appena entra in rapporto con l’esteriorità delle cose, con i loro
valori pratici, con l’utilità in genere. (Giovanni Piana, op. cit., p. 162-163)

Tutto ciò che, non essendo determinato dalla necessità interiore, ha a che fare con l’esteriorità è, per Kandinsky, inautentico e privo di
autonomia espressiva.

Su ciò si basa la distinzione tra l’artista creatore, che “nasce con un sogno proprio dell’anima” e si tiene in disparte dalle correnti del giorno e
l’artista virtuoso, che “possiede un talento brillante e poliedrico” e che, come lo stornello, non avendo un canto proprio, cerca di imitare più o meno
bene quello dell’usignolo. (TS2, 218-220). V. anche il breve saggio Dell’artista (TS2, 215-222), pubblicato in svedese a Stoccolma nel 1916.

È una vera e propria spiritualizzazione dell’estetica, attraverso la quale si insegue il sogno di un’arte pura, cioè di “un’arte in cui l’elemento
spirituale si isola rispetto all’elemento corporeo e si sviluppa in modo indipendente“. (Philippe Sers nella breve Introduzione al saggio La pittura come
arte pura, scritto nel settembre del 1913, in TS1, 137)

Spirito e materia, interiorità ed esteriorità costituiscono per Kandinsky due zone eterogenee, due luoghi dell’esperienza che si contrappongono
drasticamente allo stesso modo in cui il secolo XX, ricco di segni annuncianti la Nuova Età dello Spirito, si contrappone al secolo XIX, tutto
segnato dal materialismo. In quasi tutti i suoi saggi Kandinsky muove esplicite accuse all’Ottocento, secolo dell’esteriorità e della
specializzazione, della scienza positiva e dell’arte accademica. In Dove va l’arte nuova (TS2, 41-46), saggio del 1911 pubblicato in Russia, accusa il
materialismo dominante di aver fatto smarrire il senso della vita, di aver fatto ammalare l’anima e aver reso servili gli artisti.

Gli artisti interamente imbevuti di materialismo, dimentichi della propria vocazione, chiedono servilmente al pubblico: “Che cosa volete?”
[…] “Fammi un paesaggio” dice il compratore onnipossente, “un cespuglio […] vero e proprio! Che me ne importa della tua pittura!” E il
pittore si sforza e lo accontenta. Da profeta e guida è diventato pappagallo e schiavo. (TS2, 42)

Una precisa accusa viene formulata contro il mondo della tecnica e contro tutte le sue istanze pratico-utilitaristiche; lo spettatore è “assordato dal
rombo delle eliche. La vita reale lo ha accecato” (TS2, 244). Nell’arte le conseguenze si vedono con la diffusione del costruttivismo, che è una prassi
tutta volta a un assemblaggio esteriore di forme e attenta più ai rapporti quantitativi che qualitativi. Philippe Sers fa notare che le tendenze
antifunzionalistiche e più generalmente antitecnicistiche del pittore russo sono tali da rendere problematici sia i suoi rapporti con l’Istituto di
cultura artistica di Mosca (dove Kandinsky fu spesso isolato dalle tendenze “realistiche” degli altri membri) sia con la stessa Bauhaus,
soprattutto dopo l’ingresso del costruttivista Moholy Nagy. (Philippe Sers, L’insegnamento artistico di Kandinsky, in TS1, 211-228. Per quanto
riguarda i rapporti con la Bauhaus v. anche Giulio Carlo Argan, Kandinsky e la rivoluzione, cit., p. 13-14).

Che ruolo gioca la sensibilità in questo spiritualismo mistico? All’inizio del saggio Contenuto e forma (TS2, 37-39), apparso in Russia nel 1911,
Kandinsky riconosce ai sensi un ruolo di mediazione tra il materiale e l’immateriale.

L’anima, essendo legata al corpo, può in genere intendere qualsiasi vibrazione per mezzo dei sensi, che costituiscono una sorta di ponte tra
l’immateriale e il materiale (l’artista) e tra il materiale e l’immateriale (lo spettatore). Emozione-senso-opera-senso-emozione. La vibrazione
spirituale dell’artista deve perciò, come mezzo d’espressione, trovare una forma materiale capace di essere intesa. E questa forma materiale
è anche una seconda cosa, cioè l’elemento esteriore dell’opera d’arte. L’opera d’arte è unione piena, necessaria, inevitabile, inscindibile di
elementi interiori ed esteriori, ovvero di forme e contenuti. (TS2, 37)

Philippe Sers definisce platonica questa concezione della sensibilità (Philippe Sers, Kandinsky e la coerenza in pittura (TS1, VII-XXIV), p. XII) e,
nelle brevi note introduttive alla Conferenza di Colonia (testo del 1914 nel quale Kandinsky ricostruisce il suo itinerario pittorico verso
l’astrazione. (TS1, 143-150) coglie nello spiritualismo del pittore un fondamento cosmico: l’opera d’arte, in quanto opera dello spirito, esiste
indipendentemente dalla sua materializzazione; la forma, infatti, ha una funzione di mera accessibilizzazione del contenuto artistico ai sensi
dell’uomo. È facile notare come la sensibilità non sappia andare oltre un ruolo di pura mediazione, come essa non sia altro che il filtro di una
verità che non le appartiene. Non a caso ho parlato più sopra di spiritualizzazione dell’estetica: il valore autentico è assegnato all’interiorità,
allo spirito o, per parlare in termini di opera d’arte, al contenuto.

In tal senso va intesa la famosa frase di Kandinsky: “Non esiste in linea di principio una questione della forma” (TS1, 127). Ogni forma, astratta o
reale che sia, è legittima se causata dal principio di necessità interiore. La forma non è altro che veicolo del contenuto e quindi a essa non
appartiene alcuna autonomia: esiste per il solo fatto che l’uomo, “purtroppo”, è un essere sensibile e quindi ha bisogno di materializzare le
emozioni. Per la sua minore compromissione con il mondo oggettivo, la forma astratta permette un accesso più diretto ai valori immateriali.

Parlando di arte naturalistica e arte astratta non si può dimenticare un testo che, apparso nel 1908 presso l’editore Piper di Monaco, ebbe una
grande influenza sul gruppo del Cavaliere Azzurro. Si tratta di Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia, Einaudi, Torino, 1975. Worringer
contrappone la tendenza imitativo-naturalistica di identificazione con l’oggetto, nella quale si realizza l’empatia o Einfühlung (tendenza che
appartiene al mondo classico) alla tendenza verso l’astrazione, tipica delle civiltà primitive e del mondo nordico. Al di là dell’uso fattone dalle
avanguardie, il ruolo del saggio come documento teorico delle tendenze astratte nella pittura moderna è messo in discussione nell’ Introduzione
all’edizione italiana di Jolanda Nigro Covre (v. p. VII-VIII). Analoga perplessità è espressa in Guido Ballo, op. cit., p. 19-20. Per una breve
discussione sul saggio di Worringer, v. Arturo Carlo Quintavalle, Astrazione e organicità nella storia dell’arte, in Anna Cavallaro, op. cit., p. 38-39.
Qui si sottolinea il ruolo del saggio nel recupero estetico di culture primitive e popolari:

si potevano apprezzare queste culture non più come subalterne, ma anche come alternative all’occidentale, alla classica e, nell’ottica degli
artisti moderni, le si potevano ormai leggere come culture rivoluzionarie. […] Raggiungere le culture arcaiche, toccare i punti focali
dell’intera civiltà escludendo quella classica, portava la rivoluzione all’interno del sistema della percezione, permetteva una riduzione e
trasformazione profonda della sintassi e del linguaggio.

L’astrattismo di Kandinsky mantiene nei confronti della sensibilità un rapporto profondamente precario e nei confronti della natura una
diffidenza molto spesso preconcetta. Perciò egli è molto più vicino di quanto non sembri al rigore razionalistico di Mondrian o al
suprematismo eidetico di Malevic, piuttosto che al mondo fantastico di Klee.

Il significato filosofico della crisi dell’oggetto nell’astrattismo di Kandinsky


Sguardo al passato è un’autobiografia del pittore pubblicata in tedesco nel 1913 con il titolo Rückblicke. Questa autobiografia venne pubblicata a
Mosca nel 1918 a cura della Sezione Arti Figurative del Commissariato del Popolo col titolo Testo del pittore. La versione russa presenta varianti
spesso notevoli sia nel testo che nelle note. Nel Catalogo della mostra Vassily Kandinsky. 43 opere dai Musei Sovietici, cit., compare da pagina 15 a
pagina 28 una traduzione dell’edizione sovietica condotta da un testo inglese con il titolo Sguardo sul passato. In questa autobiografia (TS2, 153-
182), Kandinsky racconta come fu condotto alla forma astratta di espressione.

Molto più tardi, già a Monaco, fui affascinato da uno spettacolo inatteso nel mio studio. Era l’ora dell’inizio del crepuscolo. Stavo tornando
a casa con la cassetta dei colori dopo aver dipinto uno schizzo, ancora trasognato e immerso nel lavoro fatto, quando vidi d’improvviso un
quadro di una bellezza indescrivibile, imbevuto di un ardore interno. Mi fermai colpito, poi mi avvicinai rapidamente a questo quadro
misterioso su cui non vedevo altro che forme e colori e il cui contenuto mi era incomprensibile. Trovai subito la chiave del mistero: era un
mio quadro che era appoggiato alla parete di lato. […] Seppi ora il modo preciso che l’oggetto nuoce ai miei quadri. (TS2, 162)

Al di là del significato specifico di questo aneddoto, cui va attribuito un valore di pura documentazione, è importante analizzare le motivazioni
profonde che hanno determinato la scelta dell’astrazione, sia nella forma mentale e ideologica del pittore che nella situazione storico-culturale
dell’epoca.

Il privilegio che l’artista accorda all’interiorità e alla spiritualità sta alla radice della dissoluzione dell’oggetto nella sua pittura. L’oggetto è,
infatti, il corrispettivo di uno sguardo concreto, percettivo, cioè di un rapporto con il mondo in cui la sensibilità opera come facoltà
strutturante. Lo sguardo interiore di Kandinsky, invece, punta al valore, all’immateriale, a una realtà-verità noumenica che l’oggetto, anziché
evocare, tende a sopraffare. La materia (forma) è tollerata come veicolo impuro ma necessario di una verità spirituale (contenuto) che in essa
non può abitare. L’oggetto, referente esterno di una sensibilità non gregaria ad altre facoltà, è troppo carico di valore autonomo, di significati
incorporati, per prestarsi agilmente al ruolo di significante puro. In pittura, l’oggetto porta sempre con sé il rischio dell’adesione supina al suo
significato (imitazione) e allontana l’artista da un rapporto con il materiale espressivo in sé, motivato dal solo principio della necessità interiore
(creazione). In altri termini, il rifiuto dell’oggetto si configura, in Kandinsky, come il tentativo di trovare un senso oltremondano della realtà e
di cogliere un’interiorità accessibile solo a un ipertrofico sentimento desensualizzato. Da questo punto di vista va letta la diffidenza di
Kandinsky verso la natura come effettualità, verso i suoi prodotti. L’arte deve emanciparsi dalla dipendenza diretta della natura (TS2, 121)
anzi, se ne sta al di sopra (TS2, 128). Arte e natura costituiscono due mondi indipendenti, privi di comunicazione, affini solo nelle leggi
fondamentali che li governano. L’autonomia dell’arte che Kandinsky sostiene è perfettamente legittima ma essa si inserisce in un contesto
spiritualistico che ne compromette la reale portata: l’arte, che giustamente non si richiama a modelli a essa esterni, è pesantemente investita di
significati e funzioni mistiche.

I fenomeni naturali, espressi da suoni occasionali, da macchie, da linee (tutto nel mondo ha un suono, un colore, una linea) si ripercuotono
nell’uomo alla rinfusa e in modo scoordinato. Essi somigliano alla congerie di parole di un dizionario. È necessaria una forza che,
imperiosamente, costringa questi suoni casuali del mondo in una combinazione ordinata che eserciti un’ordinata influenza sull’anima.
Questa forza è l’arte, combinazione ordinata di elementi isolati, cioè una combinazione quanto più possibile conforme a un determinato
scopo per essere la “bellezza”. (TS2, 44)

Alla natura, al mondo esteriore, alla sensibilità, non appartiene dunque un significato: questo deve venire imposto dall’arte, grazie alla sua
omogeneità con lo spirito. Quella sensibilità-ponte già incontrata, mortificata in una funzione di pura trasmissione, si svela in realtà molto più
compromessa: non tramite, ma diaframma fra l’interiore e l’esteriore e perciò responsabile di questo dualismo.

Anche per Kandinsky viene naturale trarre una conclusione familiare per ogni posizione sia razionalistica che spiritualistica: se l’uomo non
avesse un corpo, se non fosse un essere sensibile, il suo accesso alla verità interiore sarebbe spontaneo. È necessario, quindi destrutturare i
sensi, destabilizzarne la specificità. È questa la motivazione reale della vocazione sinestetica kandinskyana. La destrutturazione dell’oggetto
nella percezione e il dissolvimento della rappresentazione in pittura sono le logiche conseguenze di questa impostazione. Il quadro, non più
oggetto del mondo e nel mondo, diventa spazio simbolico, in cui spirito e interiorità sono evocati da una pura orchestrazione di significanti, il
cui suono giunge direttamente all’anima. In questa visione essenzialistica, eidetica, non c’è spazio per la concrezione materiale, per l’oggetto
con tutto il peso della sua compromissione esistenziale.

Gli elementi primari della pittura parlano un linguaggio ricco di risonanze, adatto all’espressione pura di ogni contenuto spirituale. Il punto è
la forma interiormente più concisa, espressione di un microcosmo; la linea introduce il valore temporale, porta dinamismo dove prima era
staticità. Ma con sé porta anche altri valori, come quello della mobilità fredda (retta orizzontale) o calda (retta verticale), quello della gioventù
irriflessiva (retta ad angolo) o dell’energia matura (linea curva). Lo stesso piano di fondo interviene attivamente nella composizione, portando
note di scioltezza e libertà nella parte alta o di addensamento e gravità in quella bassa, evocando sensazioni di intimità e raccoglimento che
ricordano la casa nella parte destra o stimolando tendenze all’estroversione e all’impegno mondano (avventura) in quella sinistra.

L’assegnazione alle forme non figurative di un significato intrinseco sta alla base della definizione dell’arte non oggettiva come arte concreta. A
questo proposito, in uno scritto del 1938 intitolato Astratto o concreto? (TS2, 251-252), Kandinsky afferma:

L’arte astratta colloca accanto al mondo reale un nuovo mondo, che esteriormente non ha nulla a che fare con la realtà. Interiormente questo
nuovo mondo è soggetto alle leggi generali del “mondo cosmico”. […] Perciò io personalmente preferisco chiamare la cosiddetta arte
astratta arte concreta .

In Gillo Dorfles, Discorso tecnico delle arti, cit., la nota b), dal titolo A proposito di astratto e concreto nell’arte moderna affronta lo stesso argomento
affermando che gli artisti chiamati astratti (Van Doesburg, Mondrian, Vantongerloo, Kandinsky, ecc.)

non cercavano di creare le proprie opere togliendo lo spunto o il pretesto al mondo esterno e “astraendone” una successiva immagine
pittoresca ma anzi andavano alla ricerca di forme pure, primordiali, primigenie, da porre alla base del dipinto o della statua, […] miravano
quindi a creare un’arte concreta. (p. 226)

Sullo stesso argomento v. il paragrafo Sul termine astrattismo, in Guido Ballo, op. cit., p. 5-6.

Un discorso molto importante sulla crisi dell’oggetto nelle avanguardie artistiche del primo Novecento è fatto da Guido Ballo nel saggio
Origini dell’astrattismo. 1885-1919 (testo nato a seguito della mostra dal titolo omonimo tenutasi a Milano a Palazzo Reale, ottobre 1979 – gennaio 1980),
dove si prendono in considerazione tutti i fattori che, secondo l’autore, hanno concorso a mettere definitivamente in crisi la tradizionale arte
rappresentativa. Le grandi trasformazioni che investono il campo economico e scientifico mettono in crisi il costume di vita e molte altre
certezze mentre, sull’onda di questo disorientamento, proliferano filosofie irrazionalistiche e ondate di spiritualismo esoterico. In campo
architettonico e costruttivo, il diffondersi di materiali insoliti come il ferro, il vetro, ecc., conduce allo sviluppo di un “linearismo carico di
energia” che già si prefigura come arte non oggettiva. Lo stesso vale per il design, che si avvia sempre più “verso una essenzialità che a suo modo
rende astratto l’oggetto astratto“. Anche la fine della scenografia illusionistica tradizionale, sostituita dagli impianti scenografici cinetico-visivi dei
riteatralizzatori Appia e Craig, si può leggere in quest’ottica di opposizione a ogni naturalismo descrittivo. V. Guido Ballo, op. cit., p. 14-19.
Sullo stesso argomento v. Umberto Artioli, Teorie della scena dal naturalismo al surrealismo. I. Dai Meininger a Craig, Sansoni, Firenze, 1972.

A tutto ciò, va aggiunta l’influenza esercitata sugli artisti dalla riscoperta dell’arte popolare e primitiva, cioè di espressioni alternative alla
civiltà classica e occidentale. V. Guido Ballo, op. cit., p. 28-31. Il ruolo centrale che la riscoperta dell’arte primitiva e popolare ha giocato nelle
avanguardie artistiche è stato ben evidenziato nel Catalogo della mostra Il Cavaliere Azzurro (su progetto e realizzazione di Luigi Carluccio)
tenutasi a Torino presso la Galleria Civica di Arte Moderna, 19 marzo – 9 maggio 1971 (ed. Associazione Amici Torinesi dell’Arte
Contemporanea). Degna di nota è poi l’edizione italiana di W. Kandinsky – F. Marc, Il Cavaliere Azzurro (con appendice critica Storia
dell’Almanacco di Klaus Lankheit), De Donato, Bari, 1976, la quale riproduce con poche varianti l’edizione tedesca di Piper del 1965
dell’Almanacco di Kandinsky del 1912. Qui, le stampe popolari e le raffigurazioni di arte primitiva appaiono significativamente accostate a
esempi di arte contemporanea. Da ricordare in particolare il saggio di August Macke, Le maschere (p. 49-55). Sempre su questo argomento v.
inoltre Antonino Buttita, Il recupero borghese dell’arte popolare, in Anna Cavallaro, op. cit., p. 88-89.

Queste spinte verso le più imprevedibili libertà di espressione, mentre fanno dunque guardare con occhi nuovi opere che un tempo erano
considerate minori, o non artistiche, finiscono col dare anche nuovo valore al significante e non più al significato, alla espressività non del
motivo, ma al colore, alla luce, alle linee, che costituiscono l’immagine, inventate con coerente fantasia. (Guido Ballo, op. cit., p. 29)

La spinta verso l’astrattismo come nuova forma di figurazione è, dunque, il tratto distintivo di un’epoca in rapida evoluzione, dove i valori si
consumano velocemente e le certezze teoriche si frustrano nel flusso esistenziale. L’astrattismo radicale è la risposta di Kandinsky, ma anche di
Mondrian, a questa atmosfera, è il tentativo di isolare l’arte dalla “vita reale che acceca” e corrompe, di sottrarla alla natura vorace e straniante
per consegnarla allo spazio asettico e adamantino della pura contemplazione eidetica. (Sulla vocazione eidetica dell’arte primonovecentesca v.
Renato Barilli, Informale, oggetto, comportamento, 2 voll., Feltrinelli, Milano, 1979). È ciò che non farà Klee, il quale approfondirà, invece, il suo
contatto con la natura, con il vissuto, con l’inconscio, e da ciò trarrà ispirazione la sua arte emozionata ed emozionante, sensitiva e fantastica.

È ora il momento di analizzare quell’elemento che, per la pittura di Kandinsky, ha avuto l’effetto maggiormente dirompente nei confronti
dell’oggetto: il colore.

La teoria dei colori di Kandinsky

Kandinsky affronta organicamente il tema del colore solo nel saggio Dello spirituale nell’arte. È bene dire subito che non si tratta di una vera e
propria teoria dei colori, mancando completamente qualunque osservazione riguardante la natura materiale del colore e riducendosi, in ultima
analisi, a una serie di note non sempre convincenti sulla sua azione morale e sensibile.

Secondo Kandinsky il colore produce sull’uomo due effetti diversi, uno puramente fisico e uno psichico. Con l’effetto fisico, l’occhio viene
colpito dalla bellezza del colore e chi guarda si trova soddisfatto “come un amante della buona cucina che gusta una ghiottoneria“. Ma si tratta di
una sensazione superficiale, che non lascia dietro di sé “impressioni durevoli finché l’anima rimane chiusa” (TS2, 93). L’effetto fisico del colore gioca
un ruolo positivo solo quando sa “approfondirsi” e rendersi strumento di un’impressione ben più alta e smaterializzata, quella psichica.
Parlando dell’effetto psichico del colore, Kandinsky affronta un tema ricorrente nell’ambito della sua produzione teorica, quello della
sinestesia, intesa come contaminazione dei sensi. L’artista parla del sapore o del profumo di un colore, o della capacità che esso ha di influire in
senso terapeutico sull’organismo umano. Con la perdita dell’individualità e della specificità, la sensibilità può spiritualizzarsi e “contattare”
non più le concrezioni materiali del mondo fenomenico, ma il flusso spirituale della realtà in sé. Il ruolo strumentale del colore è chiaramente
definito da questo famoso passo.

In generale, il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull’anima. Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è
il pianoforte delle nostre corde. L’artista è la mano che toccando questo o quel tasto, mette “opportunamente” in vibrazione l’anima umana.
È chiaro pertanto che l’armonia dei colori deve fondarsi solo sul principio della giusta stimolazione dell’anima umana! Questa base deve
essere designata come il principio della necessità interiore. (TS2, 96)

Kandinsky ritiene che, riguardo al colore, sia possibile individuare due coppie fondamentali di contrasti.

Prima coppia di contrasti: riguarda il carattere interiore come effetto psichico e comprende l’opposizione caldo-freddo e chiaro-scuro. Il
contrasto caldo-freddo è assimilato a quello tra giallo e blu ed è caratterizzato da due movimenti, uno fisico e orizzontale verso lo spettatore
(giallo) o spirituale via dallo spettatore (blu) e l’altro circolare, che per il giallo è eccentrico e per il blu concentrico. Il contrasto chiaro-scuro
richiama quello tra bianco e nero ed è ugualmente caratterizzato da due movimenti, quello della resistenza, che per il bianco è “resistenza
perpetua e nondimeno possibilità (nascita)” e per il nero “assoluta mancanza di resistenza e nessuna possibilità (morte)“, e il movimento eccentrico e
concentrico come nel giallo e nel blu, ma in forma irrigidita.
Seconda coppia di contrasti: riguarda i colori complementari ed è di carattere fisico. Vi è l’opposizione tra rosso e verde, alla quale
appartiene solo un movimento in sé del rosso, che esprime mobilità in potenza o immobilità, mentre mancano totalmente i movimenti
eccentrico e concentrico. Ultimo contrasto è quello tra l’arancione e il viola, che deriva dal primo contrasto grazie alla presenza
dell’elemento attivo del giallo e di quello passivo del blu nel rosso.

Kandinsky organizza queste due coppie di contrasti nel cerchio dei colori, al quale attribuisce un accentuato carattere simbolico: le tre coppie
bipolari cromatiche giallo-blu, rosso-verde, arancione-viola si presentano, nella forma del cerchio, “come un serpente che si morde la coda (il
simbolo dell’infinità e dell’eternità)“. A destra e a sinistra del cerchio si pone la coppia nero e bianco, che indica le due grandi possibilità del
silenzio, quello della morte e quello della nascita (TS2, 115).

Questa concezione dei colori presenta una struttura teorica abbastanza inconsistente, infarcita com’è di arbitrarie implicazioni mistiche. Prima
di individuarne i punti più deboli, affrontiamo le osservazioni di Kandinsky sull’azione sensibile e morale dei colori. Il giallo è indicato come il
tipico colore terreno e perciò non può essere portato a grandi profondità. Esso ha proprietà eccitanti e stimolanti che si possono portare
all’eccesso: “È come il folle spreco delle ultime forze dell’estate nel vivace fogliame autunnale, da cui scompare l’azzurro, che sale in cielo” (TS2, 109-110).
Caratteristiche nettamente opposte a quelle del giallo appartengono al blu, il colore della profondità, della nostalgia, della purezza e del
sovrasensibile. È il tipico colore del cielo. Nei suoi toni più chiari assomiglia al suono del flauto, mentre scurendosi assume via via quelli del
violoncello, del contrabbasso, fino ai toni gravi dell’organo ((TS2, 110). Il verde assoluto, che deriva dall’unione del giallo con il blu, ha come
proprietà caratteristica la passività.
Il verde assoluto è perciò nel mondo dei colori ciò che, nel mondo umano è la cosiddetta borghesia: è un elemento immobile, soddisfatto di
sé, limitato in tutte le direzioni. Questo verde è come una vacca grassa, che sprizza salute da tutti i pori, la quale giace immobile, e, capace
solo a ruminare, osserva il mondo con occhi ottusi e indifferenti. Il verde è il colore principale dell’estate, quando la natura ha superato la
primavera, la stagione dello Sturm und Drang dell’anno, e si immerge in una quiete soddisfatta di sé. (TS2, 110-111)

Il verde ha la sua corrispondenza musicale nei toni quieti di media profondità del violino. Il bianco agisce sull’anima umana come un grande
silenzio e il suo suono interiore corrisponde alle pause della musica; è un “nulla giovane“, un silenzio ricco di possibilità, com’è quello che
precede la nascita. Al contrario, il nero è un nulla privo di possibilità, “un eterno silenzio senza futuro“, un rogo combusto fino in fondo e,
musicalmente, rappresenta la pausa conclusiva. La meccanica mescolanza di bianco e nero produce il grigio, colore dell’immobilità desolata. Il
rosso porta sempre con sé una forte nota di un’energia immensa, “un’agitazione e un ardore, rivolti principalmente verso di sé e poco verso l’esterno“,
in cui si esprime una maturità virile. Esso ricorda i toni “appassionati, medi e gravi del violoncello“. In mescolanza con il nero forma il marrone,
“colore ottuso, duro, poco incline al movimento, in cui il rosso suona come un borbottio appena percettibile” (TS2, 114). L’arancione e il viola, infine,
conservano alcune caratteristiche del rosso modificate dall’apporto del giallo e del blu.

Sulla base di queste poche note, vediamo di stabilire un breve confronto con la teoria dei colori di Goethe. La dovizia di esperienze empiriche
raccolte nella Farbenlehre, l’attenzione costante e appassionata dedicata al colore come fenomeno naturale, la grandiosa e coraggiosa intenzione
di elaborare una teoria qualitativa della natura che restituisca all’uomo un mondo concreto, si contrappongono drasticamente alle affrettate e
superficiali istanze che animano il Dello spirituale. La struttura della teoria kandinskyana non deriva da una ricerca attiva condotta all’interno
del fenomeno colore, ma si costituisce sotto la pesante ipoteca di due pregiudiziali: l’accoglienza dei risultati storicamente conseguiti dalle
varie teorie qualitative sul colore (la Farbenlehre di Goethe innanzitutto) senza però condividerne o comprenderne le istanze filosofiche di
fondo, e la subordinazione di tutto il discorso alla sua concezione spiritualistica. Il cerchio dei colori era, in Goethe, una figura estremamente
significativa, capace di esplicare tanto la struttura materiale quanto quella simbolica del colore, di dare cioè di questo fenomeno una
spiegazione unitaria e pregnante: nulla ci dà il senso dell’arbitrario nelle descrizioni che troviamo nella Farbenlehre sull’azione sensibile e
morale del colore. Il cerchio cromatico di Kandinsky, invece, assomiglia molto di più a un’allegoria della sua filosofia spiritualistica che a
un’effettiva rappresentazione del fenomeno reale. Nell’ambito di una trattazione più specificamente artistica, Kandinsky fa alcune
considerazioni riguardanti il rapporto tra colore e forma nel saggio Punto e linea nel piano (TS1, 9-113), pubblicato a Monaco nel 1926. Qui, il
pittore mette in relazione le linee spezzate con le forme e i colori primari: la linea ad angolo acuto richiama il triangolo, il quale a sua volta si
associa come tono fondamentale al giallo, quella ad angolo retto il quadrato e il rosso, quella ad angolo ottuso il cerchio e il blu (TS1, 46).

In questa prospettiva iniziatica, Kandinsky introduce il suo importante discorso sulla sinestesia e sull’arte monumentale e lo collega
strettamente al colore. Tra suono e colore vi sarebbe un’accidentale differenza esterna, ma una sostanziale identità interiore: scala cromatica e
scala musicale possono identificarsi. È appena il caso di ricordare la diversa opinione di Goethe su questo argomento. Con l’analisi di questo
punto concludo le annotazioni su Kandinsky: esso si presta molto bene a evidenziare il carattere spiritualistico ed esoterico della sua
concezione, il suo desiderio di liberare l’uomo da quella degradazione sensibile che si esprime nella specializzazione sensoriale.

Alcune osservazioni sul concetto di sinestesia e arte monumentale in Kandinsky

Che l’arte monumentale sia il punto di arrivo di tutta la sua ricerca artistica ed estetica Kandinsky lo dimostra con il grande numero di pagine
che dedica a questo argomento. A questo proposito, di particolare interesse sono i due saggi Sulla composizione scenica (TS2, 265-270) e Sulla
sintesi scenica astratta (TS2, 271-273), dove il pittore affronta da un punto di vista teorico la problematica della sintesi delle arti. Il saggio Sulla
composizione scenica appare nell’Almanacco del Cavaliere Azzurro assieme allo scritto Il suono giallo (TS2, 281-288); quello Sulla sintesi scenica
astratta è del 1923. Oltre al citato Il suono giallo, Kandinsky ha composto altre opere sinestetiche: Suono verde (TS2, 289-291), Nero e bianco (TS2,
293-296), Viola (TS2, 297-315). In Kandinsky-Marc, Il cavaliere azzurro, cit., si trovano alcuni articoli dedicati all’arte monumentale: L. Sabaneev, Il
Prometeo di Skrjabin è il più importante; da ricordare anche A. Schönberg, Il rapporto con il testo. Infine merita un cenno il breve saggio di Luigi
Rognoni, L’espressionismo in musica, in Anna Cavallaro, op. cit., p. 52-53.

La possibilità dell’arte monumentale si basa sul fatto che “nel loro fondamento interiore ultimo i mezzi artistici sono perfettamente uguali: il fine ultimo
dissolve le differenze esteriori e svela l’identità interiore” (TS2, 265). Il materialismo ottocentesco si pone in antitesi a qualunque serio tentativo di
realizzare la composizione scenica in quanto è responsabile, in questo campo, di due gravi conseguenze.

1. La prima è quella della “specializzazione e della connessa ulteriore elaborazione esteriore delle singole parti“, che porta alla fossilizzazione di tre
gruppi di opere teatrali: il dramma, che si presenta sotto la forma dell’evento esteriore e della concatenazione esteriore dell’azione; l’opera,
che “è costituita dall’azione esteriore, e dalla concatenazione esteriore delle sue singole parti e dei due mezzi (dramma e musica)“; e il balletto, la cui
forma “è costituita dall’azione esteriore, dalla concatenazione esteriore delle singole parti e dei tre mezzi (dramma, musica e danza)“. (TS2, 267-268)
2. La seconda è quella dell’addizione positiva dei mezzi artistici, cioè della loro connessione basata solo sul criterio dell’andamento parallelo
dei mezzi,  come ad esempio sottolineare una forte emozione con un fortissimo in musica, oppure accompagnare un suono acuto con un
colore chiaro e luminoso. In tutto ciò, domina la ricerca dell’effetto esteriore, che si risolve nella mortificazione delle varie arti.

Ne consegue, come logico risultato, la delimitazione, l’unilateralità (= l’impoverimento) delle forme e dei mezzi. Essi diventano
gradualmente ortodossi e ogni mutamento, per quanto piccolo, appare rivoluzionario. (TS2, 269)

Solo il ritorno al principio della necessità interiore può arrestare la decadenza del teatro e permetterne il raggiungimento della forma astratta,
che è la somma dei suoni astratti del colore (pittura), del suono (musica) e del movimento (danza) nel suono comune della figurazione
architettonica. Sulle applicazioni alla scena delle teorie sinestetiche nelle avanguardie artistiche vedi, tra gli altri, il paragrafo Magia verbale e
tentazione sinestetica: Il Théatre d’art di Paul Fort, in Umberto Artioli, op. cit., p. 170-179.

In stretta connessione al concetto di sintesi delle arti vi è quello di sinestesia, secondo il quale ogni stimolo sensoriale è tale da coinvolgere la
sensibilità nel suo complesso. Nei corsi teorici tenuti alla Bauhaus, Kandinsky ci dà l’esempio di associazioni multiple evocate dal colore. Il
giallo, ad esempio, è, da un punto di vista tattile, duro e pungente, ha un gusto acido, un odore pungente che richiama la cipolla, o l’aceto, o gli
acidi e il suo suono è acuto e penetrante come quello del canarino. Per quanto riguarda le arti, nella scultura si associa alla resistenza,
nell’architettura alla scheggia, al chiodo, al coltello, alla spina, alla flessibilità, nella musica alla fanfara. Il blu, invece, al tatto è dolce, semplice,
senza resistenza, il suo gusto è insipido come quello dei fichi immaturi, l’odore aromatico, di violetta o di rosa, oppure simile a quello
dell’ozono prodotto mediante procedimento elettrico, all’udito risulta basso, racchiuso come il canto del cuculo. Nella scultura richiama il
velluto, nell’architettura, se chiaro, la mancanza di profondità, nella musica i suoni profondi dell’organo. (TS1, 256)
Con due articoli comparsi sulla rivista ‘Alfabeta’ Claudia Monti affronta il problema della sinestesia nelle avanguardie artistiche
primonovecentesche e nella cultura contemporanea (v. Claudia Monti, Elettriche sinestesie, “Alfabeta”, 1981, n. 20, p. 20-21. Claudia Monti,
Suono giallo, “Alfabeta”, 1981, n. 26-27, p. 11). Nel primo articolo, contrappone due concezioni sinestetiche, quella esoterica dell’avanguardia,
collegata alla pratica artistica dell’astrazione e al pensiero teosofico di Kandinsky, tutta giocata su sottili corrispondenze interiori tra i vari
mezzi artistici e risolta nello spazio magico e catartico della scena, e quella wagneriana, “monumentale accumulazione sommativa di linguaggi
artistici, accostati secondo corrispondenze puramente esteriori“, animata non più dall’energia “alchemico-animistica” dello spirito, ma dall’esaltante
energia elettrica dei futuristi, eredi legittimi dello spettacolarismo wagneriano.

Tesa com’è a cogliere la sottile forza immateriale (“interiore”) prima del suo fossile sedimentarsi in limiti e forme concluse o del suo greve
posarsi su oggetti e figure, l’alba dell’astrazione incontra spontaneamente anche quel punto sospeso nel quale le energie ancora sin-
esteticamente si rispondono e corrispondono (prima di divaricarsi in ben separati sensi e ben separate arti) in una sintesi estetica nel senso
primo e secondo del termine: sensoriale e artistica. (Claudia Monti, Elettriche sinestesie, cit., p. 20)

Con il rovesciamento dell’interiore nell’esteriore e l’assunzione totale della tecnica e dei mass-media, la sinestesia assume un tono nuovo,
non più sacrale e ieratico, ma buffonesco e pagliaccesco: […] quel che muove l’interesse sinestetico, nei futuristi, piuttosto che la mitica
ricchezza originaria del sensorio sono le luminarie e il baccano delle metropoli. (ibid. p.21)

Il secondo articolo prende in considerazione il “poi” di Kandinsky e quello di Marinetti per vedere quale dei due progetti si sia  realizzato nella
nostra società contemporanea, indubbiamente bersagliata da sollecitazioni sensoriali varie. Non vi è dubbio che è il progetto sinestetico
popolar-demagogico wagneriano-marinettiano che si è imposto. Seguendo Baudrillard, la Monti sostiene che

viene stravolto e deformato il senso stesso della sinestesia: dalla trasgressione all’organizzazione del consenso, dallo spazio del desiderio a
quello del potere, dalla liberazione alla manipolazione, dalla totalità del “senso”, insomma, alla totalità del “con-senso”. (Claudia Monti,
Suono giallo, cit., p. 11)

Da questo punto di vista, il fraintendimento o la mistificazione della sinestesia come mera sollecitazione sensoriale ne ha stravolto il significato,
spostandola da un ruolo essenzialmente eversivo a una funzione di totale amministrazione.

Ma è effettivamente così? Oppure anche nella proposta kandinskyana si possono rintracciare i germi di una concezione inadeguata,
metastorica della realtà? Io sono convinto che la sensibilità di cui parla Kandinsky non riguardi veramente i sensi dell’uomo come essere
naturale, ma sia una forma sublimata e spirituale di realtà. L’interiore di Kandinsky, dove la verità si realizza e i sensi si contaminano e si
confondono fino a perdersi come realtà specifica, e l’esteriore wagneriano-futurista, dove gli stimoli più vari concorrono a spettacolarizzare e
manipolare la realtà umana, sono ambedue luoghi inautentici di esperienza. Ciò che viene soppresso è proprio l’ambito estetico, quello spazio
reale di definizione dell’uomo che rifiuta qualunque arbitraria distinzione tra interno ed esterno. Dietro al concetto di sinestesia, iniziatica o
demagogia che sia, si nasconde sempre il vero obiettivo, che è l’aggressione alla sensibilità come facoltà di riconoscimento e di discriminazione.
La crisi dell’oggetto in Kandinsky e nell’astrattismo artistico o il ruolo ambiguo che esso gioca nella cultura contemporanea, sempre in bilico
tra santificazione araldica (o perversione feticista) e indifferente alienazione, stanno a indicare la perdita della dimensione sensibile dell’uomo.

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Pubblicato da Giuliano Antonello

Alcune mie pubblicazioni - Prospettiva Deleuze. Filosofia, arte, politica, ombre corte, 2011 - Il problema dell’individuazione in “Differenza e
ripetizione”, "aut aut", 277-278/1997 - L'aver luogo dell'individuo, Chiasmi International, 7/2005 Molti dei materiali proposti sono testi di miei
seminari o corsi tenuti all'Università di Verona, Facoltà di Lettere e Filosofia dal 1986 al 2010 Mostra tutti gli articoli di Giuliano Antonello

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