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SURREALISMO

Renè Magritte
e
il gioco sottile dei nonsensi
Renè Magritte, 1898 – 1967
Renè François Ghislain Magritte nasce a Lessines, Belgio, studia
a Bruxelles all’Accademie Royale des Beaux Arts e inizia a
lavorare disegnando carte da parati.

Trasferitosi a Parigi nel 1927, entra in contatto con i Surrealisti,


nel 1930, lascia il gruppo francese per contrasti con Breton e
rientra in Belgio, stabilendosi a Bruxelles, attorno a lui si forma il
gruppo dei surrealisti belgi.

Nel 1940, quando le truppe naziste occupano il Belgio, Magritte


abbandona il suo Paese per rifugiarsi a Carcassonne, Francia;
successivamente rientra in Belgio.
La conferenza tenuta da Magritte
nel 1938, al Musée Royal des
Beaux-Arts di Anversa, testimonia
l’incontro avuto dall’artista con le
opere metafisiche di Giorgio De
Chirico.

É nel 1925 che Magritte viene a


conoscenza dei dipinti di De
Chirico, questi determineranno
l’adesione dell’artista belga al
Surrealismo.
Anche Andrè Breton riconosce in
De Chirico il precursore del
Le chant d’amour, il canto d’amore,
Surrealismo.
Giorgio De Chirico, 1914, olio su tela,
73x59,1 cm, Museum of Modern Art,
New York
In quella conferenza Magritte
parla del dipinto di De Chirico
“Le Chant d’amour”.
Il dipinto mostra tre oggetti senza
relazione tra loro: un calco della
testa dell’Apollo del Belvedere, un
rosso guanto di gomma da
chirurgo e una palla.
Le loro dimensioni sono fuori
scala, sono enormi, guanto e
calco invadono completamente il
fianco dell’edificio su cui sono
appesi.
I tre elementi non hanno alcun
Le chant d’amour, il canto d’amore,
nesso tra loro, né con il luogo
Giorgio De Chirico, 1914, olio su tela, dove sono riuniti che appare
73x59,1 cm, Museum of Modern Art, New silenzioso e inanimato.
York
Queste caratteristiche
sbalordiscono ed entusiasmano
Magritte che é colpito dal senso di
spaesamento che produce
l’accostamento di oggetti
dissimili in un luogo dove non ci
si aspetterebbe mai di trovarli.
Da quel momento la ricerca di
Magritte verterà sul nonsenso
delle cose, sui rapporti tra visione
e linguaggio, sulla creazione di
situazioni inattese e impossibili,
sulla valorizzazione degli oggetti
visuali che, decontestualizzati,
Le chant d’amour, il canto d’amore,
cioè sottratti al loro ambiente
Giorgio De Chirico, 1914, olio su tela, consueto, appaiono in tutta la loro
73x59,1 cm, Museum of Modern Art, novità e magia.
New York
Non sono il sogno e l’inconscio i protagonisti dei dipinti di
Magritte, ma è la veglia, nella quale gli oggetti sono reali ma
decontestualizzati e trattati con una nitidezza di linee e di colori
L’uso della parola I, Renè Magritte,
1928-1929, olio su tela, 54,5x72,5 cm,
Collezione privata, New York

L’uso della parola


È un dipinto raffigurante una pipa e recante la scritta “Ceci n’est
pas une pipe”, “Questo non è una pipa”,
Magritte vuole sottolineare la differenza fra l’oggetto reale, la
pipa, e la sua rappresentazione, la pipa dipinta.
La pipa e la sua immagine non coincidono, non sono la stessa
cosa.
L’uso della parola I, Renè Magritte,
1928-1929, olio su tela, 54,5x72,5 cm,
Collezione privata, New York

Nessuno potrebbe mai fumare una pipa dipinta, l’oggetto reale e la sua
rappresentazione non hanno le stesse funzioni ed hanno proprietà e
caratteri diversi, anche se chiunque guardando l’immagine di una pipa,
alla domanda “cos’è?” Risponde “è una pipa”.
Per sottolineare la rottura dalle convenzioni del suo dipinto, Magritte ha
aggiunto anche una didascalia in corsivo che richiama l’alfabetiere,
quelle tavole che si utilizzano per imparare a leggere, in cui si guarda
un’immagine nota il cui nome inizia con la lettera da imparare a scrivere
e a leggere.
L’uso della parola I, Renè Magritte,
1928-1929, olio su tela, 54,5x72,5 cm,
Collezione privata, New York

Questa contraddizione genera uno stato di shock, il messaggio che


il dipinto trasmette invita a riflettere.
Per la prima volta scopo dell’arte non è più l’arte di per sé, ma
una riflessione sull’arte stessa.
Il quadro prende di mira una delle convenzioni estetiche più antiche,
quella secondo cui il pregio di un'opera sta nel rappresentare la
realtà.
L’uso della parola I, Renè Magritte,
1928-1929, olio su tela, 54,5x72,5 cm,
Collezione privata, New York

Magritte avverte lo spettatore che ciò che è rappresentato è solo


rappresentato come lo sono le rappresentazioni di una parola o di
un pensiero; l'arte non copia la natura, nè tantomeno la ricrea.
La pittura è un linguaggio convenzionale esattamente come la
scrittura; quel che è raffigurato con mezzi pittorici è un
ragionamento, non un'emozione.
La condizione umana
Nel dipinto Magritte fonde due
suoi modi di fare arte:
•  destare stupore
•  porre problemi
In una stanza un cavalletto è
collocato davanti ad una finestra
aperta.
Sul cavalletto è appoggiata una
tela su cui è dipinto il paesaggio
che si vede attraverso la finestra,
schermata lateralmente da due
tende.
Un dipinto nel dipinto, tema non
nuovo.
La condizione umana, Renè Magritte,
1933, olio su tela, 100x81 cm, National
Gallery of Art, Washington
Un primo senso di stupore si ha
per la possibilità di vedere allo
stesso tempo e dal medesimo
punto di vista sia l’oggetto reale
sia la sua rappresentazione
pittorica, c’è una perfetta
continuità tra l’uno e l’altra.

La condizione umana, Renè Magritte,


1933, olio su tela, 100x81 cm, National
Gallery of Art, Washington
Il paesaggio esiste
simultaneamente nella mente di
chi osserva, nella realtà, sulla
tela, anche se lo vediamo una
sola volta.
Riflettendo meglio ci si
accorge che tale
considerazione poggia su un
equivoco che consiste nel
ritenere che ci sia un
paesaggio che è stato copiato
sulla tela, ma in realtà, non
esiste alcun paesaggio se
grattiamo via il colore, dietro
non c’è nulla.
Infatti il cavalletto, la tela e il paesaggio
non sono altro, nel loro insieme, che
parte di uno stesso dipinto, quello che
si sta osservando.

A volte al tema del quadro nel quadro,


l’artista aggiunge elementi di sorpresa
che rimettono in discussione l’idea che
ci si è fatti di un determinato soggetto.
Les Amants, Gli Amanti,
René Magritte, 1928,
olio su tela, 54 × 73 cm,
MOMA, New York

Les Amants, Gli Amanti


Dell’opera esistono due versioni, entrambe datate 1928, la prima
attualmente è conservata presso la National Gallery of Australia,
mentre la seconda si trova al Moma di New York.
La versione del Moma è la più famosa di un tema, che ricorre
spesso nella pittura di Magritte di quegli anni.
Les Amants, Gli Amanti,
René Magritte, 1928,
olio su tela, 54 × 73 cm,
MOMA, New York

In molte rappresentazioni realizzate dal pittore belga si può vedere


un uomo e una donna, o con il volto scoperto oppure, e sono in
numero maggiore, con il volto coperto da panni bianchi.
Il filo conduttore di queste opere sarebbe da rintracciare nel
suicidio della madre del pittore, che all’epoca aveva solo 14 anni.
La donna si gettò nel fiume Sambre con una camicia da notte
avvolta sulla testa.
Les Amants, gli Amanti,
René Magritte, 1928,
olio su tela, 54 × 73 cm,
MOMA, New York

Secondo altre interpretazioni invece, il volto coperto deve essere


associato all’ossessione che il pittore aveva di coprire i volti anche
nella vita reale. Il quadro raffigura due amanti che si baciano, con
le teste coperte da un panno bianco che impedisce loro di vedersi
e comunicare, suscitando una certa inquietudine e angoscia.
Les Amants, gli Amanti,
René Magritte, 1928,
olio su tela, 54 × 73 cm,
MOMA, New York

Uno sfondo fortemente contrastato di tonalità blu ed una cornice


sulla parete rossa. I due panni sono resi con un’abile uso del
chiaroscuro, che sembra riecheggiare i panneggi dei
pepli della scultura ellenistica, e sono anche fonte di luce
dell’intera opera. I drappeggi appaiono leggeri e appena
appoggiati sui volti dei due amanti.
Les Amants, gli Amanti,
René Magritte, 1928,
olio su tela, 54 × 73 cm,
MOMA, New York

La composizione è ben equilibrata anche attraverso il rapporto


che il pittore crea tra il rosso del muro e il rosso della camicia
della donna. Questo rosso che spicca, però sempre in secondo
piano rispetto alla luce del bianco dei lenzuoli, richiama il rosso
del sangue e quindi della morte, altro riferimento al suicidio della
madre.
Les Amants, gli Amanti,
René Magritte, 1928,
olio su tela, 54 × 73 cm,
MOMA, New York

Tra le due figure quella più emblematica è la figura maschile:


giacca scura, camicia bianca e cravatta, che alla vista non resta
impressa. Un soggetto qualunque. Magritte rappresenta di
continuo individui anonimi, associabili ad una certa idea figurativa
di borghesia, con il volto coperto, o addirittura senza volto, senza
un’identità che li caratterizzi.
Les Amants, gli Amanti,
René Magritte, 1928,
olio su tela, 54 × 73 cm,
MOMA, New York

Il bacio fra i due amanti è un’immagine che parla di morte e di


impossibilità di comunicare. Nascosti dietro i loro sudari, si
scambiano un amore muto incapace di un linguaggio diverso da
quello del corpo. Si può considerare il “bacio della morte” o il
bacio tra due defunti, così privati dal senso della vista.
Nell’opera Gli Amanti troviamo
dei riferimenti all’opera di De
Chirico Ettore e
Andromaca del 1917, in cui
due manichini a figura intera
tentano un analogo, impossibile
abbraccio in
un'atmosfera metafisica.
Ma, se i manichini tengono una
certa distanza dallo spettatore,
ne Gli amanti di Magritte
l’angoscia è difficilmente
evitabile: non siamo più di
fronte a un’umanità simulata da
manichini, ma siamo di fronte a
Ettore e Andromaca, Giorgio De Chirico,
una realtà.
1917
I protagonisti incontrastati sono
ovviamente i due manichini al
centro della scena, Ettore e
Andromaca. La scena
rappresentata è citata nel sesto
libro dell’Iliade.

L’abbraccio tra i due avviene


davanti alle porte Scee appena
prima che l’eroe troiano si
immoli per la patria affrontando
Achille, in uno scontro che lo
avrebbe visto uscire sconfitto.

Ettore e Andromaca, Giorgio De Chirico,


1917,
E’ rappresentato l’ultimo bacio
tra i due, ad aumentare la
tragicità della scena, i due
manichini sono privi degli arti
superiori, e di conseguenza
rimangono impossibilitati ad
abbracciarsi in quest’ultimo
estremo saluto.
Oltretutto è l’impossibilità di
cambiare un destino già scritto,
è il fato che decide la sorte di
Ettore. L’eroe è consapevole di
andare verso una morte certa,
ma nonostante tutto non si tira
indietro al suo destino crudele,
Ettore e Andromaca, Giorgio De Chirico, lo affronta coraggiosamente.
1917,
La quinta scenica è
apparentemente composta da
geometrie semplici e perfette,
ma con maggiore attenzione si
nota che le prospettive sono
volutamente deformate per
creare delle quinte inedite.

I colori sono innaturali, lo si


capisce dal riflesso sui
manichini che prendono un
colore inconsueto e rendono
l’atmosfera unica, fermandola
nel tempo.

Ettore e Andromaca, Giorgio De Chirico,


1917,
Una porta scea è un'apertura sghemba, obliqua, che presenta il
lato destro più avanzato e a quota superiore rispetto a quello
sinistro; in tal modo non è possibile arrivare al suo fornice secondo
una direzione perpendicolare e quindi con la massima forza d'urto.
In questo modo il nemico mostra il lato del corpo non protetto dallo
scudo, che dovendo brandire la spada con la mano destra, è
portato dal braccio sinistro, ed è quindi più facilmente vulnerabile.
La porta scea quindi, permetteva un maggiore controllo dagli
attacchi esterni.
L’impero delle luci
È un’opera a cui Magritte torna.
Un paesaggio notturno è
raffigurato con un cielo in pieno
giorno. La rievocazione del
giorno e della notte ha il potere
di stupire e di incantare, cioè di
creare una poesia. Di questo era
convinto Magritte.

L’impero delle luci, Renè Magritte, 1954,


olio su tela, 146x113,7 cm, Musée
Royaux des Beaux-Arts de Belgique
Una casa sul limitare di uno
specchio d’acqua ha le imposte
chiuse.
Da alcune finestre del primo
piano traspare la luce artificiale.
Un lampione illumina la casa
riflettendosi nell’acqua tremula.
Alberi frondosi circondano
l’abitazione e si protendono
verso il cielo.
La parte superiore del dipinto è
occupata da un chiaro e
brillante cielo mattutino che non
si specchia nell’acqua
sottostante.
In questo dipinto manca
l’acqua e la luce del
lampione rischiara il
selciato e le finestre
illuminate sono in numero
maggiore.

L’impero delle luci, Renè Magritte, 1950, olio su


tela, 78,8x99,1 cm, Museum of Modern Art New
York
SURREALISMO
Salvator Dalì
e
il torbido mondo della
paranoia
Salvador Dalì, 1904 – 1989
È il personaggio in cui il Surrealismo trova l’espressione più
esasperata e che porta la provocazione ai limiti della decenza.

Salvador Felipe Jacinto Dalì nasce a Figueres, in Catalogna è


ammesso alla Real Accademia de Bellas Artes de San
Fernando, la stessa che ha frequentato nel 1897 il giovane
Picasso.
Il suo comportamento provocatorio gli costa la sospensione
prima per un anno e poi successivamente viene radiato per
indegnità.

Insieme al regista spagnolo Luis Buñuel stenderà la


sceneggiatura surrealistica di un paio di film che desteranno
scandalo.
Nel 1927 si reca a Parigi dove frequenta Picasso.
Tramite Mirò entra in contatto con i Surrealisti, nei confronti dei
quali, pur condividendo molte delle loro motivazioni artistiche,
mantiene sempre un altezzoso distacco.

Imprevedibile ed enigmatico, stravagante con i suoi baffetti


all’insù, estroso.

Nel 1940 a causa dell’occupazione nazista della Francia, Dalì si


rifugia negli Stati Uniti, dove rimane per un decennio, amato e
richiesto.

Negli ultimi anni della sua vita finisce per diventare prigioniero
del suo stesso personaggio, sempre più scostante, altezzoso e
imprevedibile.
Muore a Figueres e con lui muore l’ultimo grande protagonista
dell’avanguardia artistica del Novecento.
Il metodo paranoico-critico
Egli mette a punto una tecnica che definisce “metodo
paranoico-critico”.
La paranoia è una malattia mentale cronica caratterizzata da
delusioni sistematiche dovute a manie di persecuzione o di
grandezza e di ambizione.

Le immagini che l’artista fissa sulla tela nascono dal torbido


agitarsi del suo inconscio, la paranoia, e prendono forma
pittorica grazie alla razionalizzazione del delirio, momento
critico.
Il metodo paranoico-critico consiste nell’interpretazione e nella
rappresentazione dei fenomeni deliranti.

L’artista sintetizza il processo paranoico-critico come:


Paranoico = molle
e
Critico = duro
Dal punto di vista della psicanalisi questo significa mettere in
rapporto il paranoico, cioè il molle, con il critico, cioè il duro,
attribuendo così consistenza plastica agli elementi con
significato temporale e consistenza rigida a quelli con
significato spaziale.
Dalì vorrebbe riuscire ad esprimersi pienamente come un
paranoico ma, non essendolo, si percepisce che il momento
critico riesce a prendere il sopravvento.

Così gli elementi onirici, i tabù sessuali, i desideri di potenza e le


fobie emergono dagli abissi della coscienza e si materializzano
sulla tela con una perfezione tecnica da sfiorare l’Iperrealismo o,
come lo stesso artista lo definisce, fantasticherie
supernaturalistiche.

Iperrealismo: movimento artistico nato negli Stati Uniti nei primi anni
Settanta, caratterizzato dalla proposta di una riproduzione meccanica della
realtà: la pittura si sviluppa da un originale fotografico fortemente ingrandito,
la scultura da calchi ottenuti direttamente, con risultati di sconvolgente
realismo.
Il delirio trova le più raccapriccianti espressioni in esseri
ripugnanti, animali mostruosi, frammenti anatomici, forme
ambigue dai mille significati, figure inquietanti che, a
secondo come si guardano possono sembrare cose diverse.

È un linguaggio artistico complesso, in cui Dalì si esprime


mediante un repertorio di forme impossibili.
Costruzione molle con
fave bollite: presagio di
guerra civile
L’incombere della
violenza della guerra è il
tema di quest’opera di
Dalì, una tela dalla quale
emergono inquietudini
angoscianti.

Le forme anatomiche,
pur avendo caratteri
naturalistici, vengono
usate per comporre un
Costruzione molle con fave bollite: presagio di abominevole essere
guerra civile, Salvator Dalì, 1936, olio su tela, immaginario, evidente
100x99 cm, Philadelphia Museum of Art,
Filadelfia
allegoria della guerra.
Una gigantesca mano
nodosa strizza con furia
violenta un seno di donna.
Un’altra mano poggia a
terra, scarnificata e
deforme…
mentre un microscopico
uomo le si affaccia
incuriosito da dietro.
Un piede scheletrito
poggia su un abbozzo
anatomico di bacino, a
sua volta sorretto da un
altro piede ossuto e
rattrappito.
Al limite superiore del
dipinto, contro un cielo
carico di nubi si staglia
un volto orribilmente
ghignante volge in alto
lo sguardo.
Al suolo un caotico
affastellarsi di ossa, di
fave bollite e di strane
concrezioni minerali, tra
cui spunta, assolutamente
fuori contesto, un
armadio.
La macabra architettura
pietrificata fatta di
frammenti anatomici
esprime violenza, angoscia,
paura.

La tecnica pittorica
realistica contribuisce ad
aumentare il senso di
irrealtà della scena.

Mostri così ributtanti


esistono solo nella nostra
psiche, non esistono nella
realtà, la natura umana è
Costruzione molle con fave bollite: presagio di invece capace di generare
guerra civile, Salvator Dalì, 1936, olio su tela, l’orrore della guerra.
100x99 cm, Philadelphia Museum of Art,
Filadelfia
Sogno causato dal volo di
un’ape
L’atmosfera è nitida e tersa.
Lo spunto è banale, l’artista sta
dormendo quando un ape che gli
ronza intorno lo punge.
All’avvenuta puntura, con
l’automatismo tipico dei
Surrealisti, Dalì fissa la serie di
visioni che il suo inconscio gli
ha comunicato, in una frazione
di secondo.
Sdraiata con il corpo nudo e
sensuale Gala, compagna
dell’artista, è sollevata
Sogno causato dal volo di un’ape,
magicamente, su uno scoglio
Salvador Dalì, 1944, olio su tela, 51x41
cm, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid piatto e frastagliato.
Gala Elluard è l’ingrediente
erotico più ricorrente nei sogni di
Dalì.
Una baionetta appuntita sta per
trafiggerle il braccio destro, è
l’istante che precede la
sensazione del dolore.
La baionetta è anche un simbolo
sessuale.
La percezione della puntura
dell’ape, che ronza intorno ad
una melagrana sospesa in basso
a destra, viene ingigantita ed
assume la forma di due tigri
feroci che balzano fuori dalle
fauci di un pesce che a sua
Sogno causato dal volo di un’ape, volta è scaturito da una grossa e
Salvador Dalì, 1944, olio su tela, 51x41 rossa melagrana spaccata.
cm, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
Sullo sfondo un assurdo elefante
dalle scheletriche zampe di
ragno regge un obelisco sulla
groppa e riesce a camminare
sull’acqua con la leggerezza di una
libellula, senza neanche increspare
la piattezza di un impossibile mare
senza onde.

Il dipinto anche se inverosimile, ha


una sua logica solo se visto nel
complesso dell’attività onirica.

Al gusto fumettistico con cui


l’artista rappresenta le tigri e il
pesce si contrappone la perfezione
Sogno causato dal volo di un’ape, di un nudo realistico.
Salvador Dalì, 1944, olio su tela, 51x41
cm, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid
In questo come in altri
dipinti di Dalì non c’è
unitarietà, ciò dipende
dalla natura stessa
dell’ispirazione, che,
attingendo alle dimensioni
del sogno o della
paranoia, è
necessariamente
frammentaria, visionaria
e incoerente.
La persistenza della memoria, Salador Dalì,
1931, olio su tela, 24x39 cm, Mueum of Modern
Art, New York
La persistenza della memoria,
Salador Dalì, 1931, olio su tela, 24x39
cm, Mueum of Modern Art, New York

La persistenza della memoria


Ambientato in riva al mare, sulla costa catalana, con una spiaggia
deserta. Non vi sono presenze umane riconoscibili, ad esclusione
della strana forma stesa a terra al centro dell’opera, che
probabilmente riproduce il profilo dell’artista.
I protagonisti di questo dipinto sono alcuni orologi molli, che
sembrano materia fluida.
La persistenza della memoria,
Salador Dalì, 1931, olio su tela, 24x39
cm, Mueum of Modern Art, New York

Il primo orologio pende dal bordo di un volume squadrato, il


secondo è appeso a un ramo, un terzo è steso sul volto che è a
terra con l’occhio chiuso e le lunghe ciglia. Un quarto orologio
che diversamente dagli altri è chiuso e mantiene la sua forma, è
assalito da un gruppo di formiche brulicanti, insetti per cui l’artista
ha una fobia che risale all’infanzia. Sullo sfondo le scogliere della
costa catalana, dove Dalì trascorre le sue estati.
La persistenza della memoria,
Salador Dalì, 1931, olio su tela, 24x39
cm, Mueum of Modern Art, New York

Il contrasto tra forme molli e forme dure, da sempre è interesse


di Dalì.
L’artista asserisce di aver realizzato il quadro dopo una cena a
base di camembert. Assopitosi, tra sonno e veglia ha concepito
l’immagine degli orologi molli, suggerita alla sua mente dalla
consistenza del formaggio che ha appena mangiato. Così ha
inserito gli orologi molli nel paesaggio che stava dipingendo.
La persistenza della memoria,
Salador Dalì, 1931, olio su tela, 24x39
cm, Mueum of Modern Art, New York

L’immagine degli orologi che si sciolgono evoca una riflessione


sul tempo. L’orologio, strumento che misura il tempo in modo
oggettivo, perde consistenza nella soggettività della percezione, e
ai meccanismi incontrollabili della memoria.

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