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Adriatico
Tra due sponde
Una volta Pasolini ha detto più o meno che il Terzo mondo iniziava
nelle borgate di Roma. Ho pensato lo stesso passeggiando per
Tirana. Non serve andare nella periferia estrema. Basta allontanarsi
un centinaio di metri dal reticolo delle strade centrali: già alle spalle
dell’ambasciata americana inizia un altro mondo, profondamente
diverso da quello del Blok e del Boulevard. Un dedalo di stradine
confuse, palazzi diroccati, asfalto che si disfa, pozzanghere... Ma
anche tantissimi negozietti che vendono di tutto, ambulanti, caffè
popolari affollati a ogni ora del giorno e della notte: un brulicare di
vita levantina.
L’Albania è un sovrapporsi di piani temporali e urbanistici
differenti. Forse sarà eccessivo usare la categoria di Terzo mondo
(in fondo, lo era anche per la periferia romana). Di sicuro, però, c’è
un altro mondo che preme alle porte dello sviluppo distorto che a
volte sembra aver avvolto il paese. Un mondo fatto di uomini e
donne che arrancano.
Con Fatos Lubonja (scrittore che, condannato ai lavori forzati dal
regime, ha vissuto diciassette anni in un gulag) ho discusso a lungo
dell’ultimo numero della rivista da lui diretta, “Përpjekja”: un numero
monografico che decostruisce il mito nazionale di Giorgio Castriota
Skanderbeg, colui che nel XV secolo resistette per oltre due decenni
alle forze soverchianti dell’Impero ottomano. Il numero è uscito
proprio nelle settimane in cui andavano intensificandosi i
festeggiamenti per il centenario dell’indipendenza albanese (che
cade il 28 novembre), e il suo forte impianto anti-nazionalista non
poteva non stridere in questi giorni di euforia patriottica. La tesi
sostenuta da Lubonja è interessante. Skanderbeg, dice, è stato il
principale mito intorno a cui si è costruito il nazional-comunismo
albanese, ideologia di regime sempre più asfittica, ma necessaria,
via via che Enver Hoxha rompeva – a uno a uno – con tutti gli altri
stati dell’universo marxista-leninista e serrava il paese all’interno dei
suoi confini. Oggi quell’iconografia, continua Lubonja, non è stata
rigettata. Anzi, in una singolare forma di continuità, viene utilizzata
per altri scopi. Dal nazional-comunismo si è passati al nazional-
europeismo (alimentandone tra l’altro i tratti antioccidentali). Il mito di
Skanderbeg diviene funzionale alla richiesta dell’ingresso nell’Ue. Un
gioco di specchi davvero paradossale.
Eppure ho l’impressione che il nuovo nazionalismo albanese, oltre
a celare la crisi sociale del paese, nasconda posticciamente altre
differenze regionali. “La lotta politica si sta regionalizzando,” mi
confidano in molti. Sali Berisha è sempre più percepito come un
uomo del nord, ed è proprio nel Nord rurale, ai confini con il Kosovo,
che ha la sua roccaforte. Viceversa, il Partito socialista, da sempre
forte al sud, “meridionalizza” ulteriormente la propria visione
dell’Albania. La cartina politica del paese è sempre più spaccata in
due, e queste divisioni sembrano tra l’altro ricalcare le differenze
linguistiche. Tirana, la capitale mutata tumultuosamente, sommo
oggetto del contendere politico, è nel mezzo.
Che il nazionalismo copra un forte regionalismo, lo si può cogliere
anche girando per il paese. A Valona, ad esempio, la città da cui ha
avuto inizio il processo di indipendenza nel 1912, ricordare quegli
eventi vuol dire ricordare quasi unicamente Ismail Qemali, una sorta
di Mazzini albanese, originario proprio di qui. Il suo faccione è
ovunque nella città in riva al mare. Per converso, mi pare che il suo
ricordo sia fortemente ridimensionato nella capitale.
Sono stato a Valona, per un’altra presentazione del mio libro. Con
i ragazzi della casa editrice Dudaj abbiamo attraversato tutto il paese
in macchina: una lunga autostrada senza pedaggio congiunge ormai
l’Albania da nord a sud. A destra e sinistra, tra innumerevoli pompe
di benzina Taçi Oil (Rezart Taçi è il petroliere albanese che voleva
acquistare il Bologna calcio) scorre un paese molto diverso da
Tirana. Durazzo è una città che ha distrutto il suo litorale, con una
serie infinita di alberghi e palazzoni che arrivano giù giù fino al mare.
La cementificazione della costa, spesso perseguita con veri e propri
gioielli del non-finito, è uno dei massimi scempi dell’Albania
contemporanea. L’altro è quello dello smaltimento dei rifiuti. In un
paese in cui la metà dei suoi abitanti vive ancora nei villaggi, la
stragrande maggioranza dell’immondizia viene bruciata alla luce del
sole. Ciò poteva ancora essere sostenibile trent’anni fa. Ma oggi,
con un paese invaso dalla plastica in ogni suo anfratto, si stanno
gettando le basi per un disastro ecologico.
A Fier è ancora possibile riconoscere molti tratti della vecchia
Albania. I piccoli chioschi male illuminati, le bancarelle con i tacchini
ancora vivi bene in mostra, i poveri bar in cui si beve raki o caffè alla
turca... “Ti piace l’esotismo,” mi apostrofa la mia editrice Arlinda
Dudaj, smascherando in poche parole quello che Edward Said
avrebbe bollato come pessimo orientalismo. Eppure, pochi chilometri
dopo la fine della città, non posso non rimanere stupefatto davanti a
una vecchia serra di vetro che si estende per qualche ettaro. La
serra è ormai in disuso, ma il vetro è ancora lì, al suo posto: una
cattedrale di ingegneria agricola in mezzo ai campi. A sud, l’Albania
è un susseguirsi di ulivi, non molto dissimile dalla costa al di là del
mare, quella salentina.
Nel corso dell’ultima edizione del Torino Film Festival è stato
presentato Anija (La nave), un film di Roland Sejko che racconta gli
ultimi trent’anni di storia albanese attraverso i viaggi della speranza
verso l’Italia: si partiva proprio dalla costa lungo la quale
discendiamo. Moltissime sono le immagini e le interviste che
ricordano ad esempio i primi sbarchi albanesi a Brindisi, nel marzo
del 1991, cinque mesi prima della arrivo della Vlora nel porto di Bari.
È un film molto bello, quello di Sejko, soprattutto perché fa un
largo uso di vecchi materiali della tv albanese: materiali che ci
permettono di percepire un mondo (la vita sotto la cappa del
totalitarismo, il desiderio di fuggire) oggi scomparso. Ci sono, poi,
delle immagini in bianco e nero che tolgono il fiato. Riprendono un
processo popolare tenutosi a Berat nel gennaio del 1978. Alcuni
ragazzi (“persone degradate nella vita privata e sociale”) vengono
condannati a morte per il solo fatto di amare la musica italiana e aver
organizzato (così almeno dice l’accusa) un viaggio per espatriare.
Penso ai loro sguardi gelati dalla paura, nel momento in cui la
sentenza viene emessa, mentre attraversiamo la periferia di Valona.
Qui la presenza dell’Italia e della lingua italiana sembra essere
ancora forte, più forte che in qualsiasi altra città dell’Albania. Eppure,
anche qui, guardando la costa mutata, le costruzioni sulla scogliera, i
villaggi per i turisti che d’estate provengono dal nord del paese o
dall’altra parte dell’Adriatico, penso che quegli sguardi terrorizzati
siano un reperto archeologico.
Dopo la presentazione del libro, non abbiamo il tempo di
proseguire ulteriormente verso sud, in serata dobbiamo tornare a
Tirana. Peccato... Sollecitato da quanto mi raccontava in macchina
Artan Puto, avrei voluto vedere Ksamil, il punto più a sud
dell’Albania, dieci chilometri dopo Saranda, proprio di fronte all’isola
di Corfù. “Prima,” mi dice Puto, intendendo “ai tempi del regime”,
“c’era un bellissimo giardino di aranci, uno spettacolo della natura e
della mano dell’uomo. Oggi non c’è più: è stato sradicato
dall’industria del turismo, come tante altre cose nella nuova Albania.”
In fondo, penso tra me e me, meglio non averlo visto. Da qualche
parte ho letto che la distruzione di un agrumeto è uno dei peggiori
crimini contro la civiltà. Ma pur sforzandomi, lungo la strada che ci
riporta verso la capitale imbandierata per la festa dell’indipendenza
nazionale, non riesco a ricordare dove.
Voglio essere più preciso. Di tutte le cose che hanno colpito la mia
attenzione in questo ultimo viaggio albanese, la rimozione della
rivolta del ’97 (cruenta esplosione di violenza che provocò tremila
morti in pochi mesi) è quella che più mi ha stupito. Su tutte le
emittenti televisive albanese, pubbliche e private, mi è capitato
spesso di vedere in questi giorni uno spot propagandistico fatto
realizzare dal governo Berisha. In pochi secondi si ricordano
cent’anni di storia albanese, dall’indipendenza del 1912 ai
festeggiamenti che ci circondano nel 2012. Ci sono tutti i protagonisti
della storia nazionale: perfino Enver Hoxha sembra essere
recuperato nel pantheon (come se noi, nel corso del
centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, avessimo ricordato allo stesso
modo Cavour, Manzoni e Mussolini...). Ampio spazio iconografico
viene dato ai moti contro il regime (con Berisha allora leader delle
opposizioni) e al viaggio della Vlora verso le coste pugliesi. Poi si
salta alle date del nuovo secolo. Nel mezzo, un enorme buco
sembra avvolgere il 1997 e le sue responsabilità politiche. Quasi
fossimo in un libro di Dick, una parte del passato nazionale è stata
risucchiata nel nulla.
Sono passati quindici anni dal 1997, dal crollo delle piramidi
finanziarie e dal caos che ne seguì, un caos che noi percepimmo
unicamente come pericolo di una nuova ondata di sbarchi. In realtà
quei mesi sono un momento chiave per capire la storia albanese
contemporanea. Un paese uscito dal più rigido sistema stalinista
sembrava crollare all’improvviso sotto le illusioni della finanza facile.
Un evento casuale? No, tutt’altro. Vi erano delle precise, radicate
responsabilità politiche. C’erano un governo e un presidente della
repubblica (lo stesso Sali Berisha), spalleggiati da molte ambasciate
occidentali, che avevano esortato la gente comune a investire nelle
finanziarie: quando manifestazioni sempre più oceaniche chiesero
loro di dimettersi, si arroccarono al potere. Di contro, i partiti di
opposizione non si dimostrarono all’altezza degli eventi. La crisi
albanese del ’97 nasce da qui, dall’intreccio tra bizantinismo politico
e sconquasso economico. Dopo la violenta repressione di una
sacrosanta rivolta sociale e politica, l’Albania piombò nel caos e,
specie nel Sud, il controllo fu assunto per alcuni mesi da bande
armate.
A quei mesi, proprio Fatos Lubonja ha dedicato un romanzo,
1997. Apokalipsi i rremë (1997. Una falsa apocalisse, 2010, Marin
Barleti), uno di quei libri che mi sono portato dietro in Albania quasi
fosse una cartina storico-geografica. Non un saggio, non un libro di
memorie, ma un romanzo storico che ruota intorno all’alter ego
Fatos Qorri: un romanzo in cui pagine di diario del protagonista si
alternano a una narrazione in terza persona che tiene conto delle
convulsioni di tutto il paese. Ciò che si racconta nel libro è
drammaticamente vero: l’apocalisse del titolo è negli eventi che si
susseguirono sempre più traumatici. Se suona “falsa”, è perché le
proteste sfuggirono di mano. La rivolta divenne anarchia, e alla fine
una cappa si richiuse gattopardescamente su se stessa, senza che
nulla cambiasse.
Lubonja ebbe allora un ruolo attivo nella società civile. Insieme a
Kurt Kola e Daut Gumeni fu tra i principali animatori del Forum per la
democrazia: un cartello eterogeneo di associazioni, ex perseguitati
politici, semplici oppositori che pretendeva una svolta. Nel nuovo
corso instauratosi intorno a Sali Berisha (ritornato poi al potere
anche nel nuovo secolo) c’era in realtà molto di vecchio.
In una intervista recentemente rilasciata alla rivista albanese
“Mapo”, e tradotta in italiano sul sito “Albanianews”, Lubonja ha
ammesso: “Forse il mio punto di vista era un po’ troppo idealista:
portare a termine nel ’97 ciò che non fummo in grado di fare nel ’91,
abbattere i residui della dittatura da soli, non solo tramite la caduta
del Muro di Berlino”. E ancora: “Io considero quel disfacimento la
pietra miliare di tutto ciò che è avvenuto in seguito: del fatto che
abbiamo una classe politica che pensa solo a se stessa, si
arricchisce, fa tutto ciò che vuole, dove ci sono omicidi, distruzioni,
ricostruzioni, e alla fine nessuno viene punito”.
Al di là dei duri giudizi politici, peraltro pienamente condivisibili,
1997 è un libro capace di restituire un’epoca, e di spiegare quanto di
quel passato obliato è ancora incistato nelle viscere dell’Albania che
corre verso un incerto futuro. In un punto Lubonja scrive a proposito
dei giorni più cruenti di Valona: “Sparavano tutti contro il cielo. Il
maggior pericolo era la follia e il panico delle persone che non
sapevano cosa stava succedendo e cosa sarebbe accaduto loro
l’indomani. Sembrava un evento apocalittico, ma era una falsa
apocalisse. Non avrebbe portato nessuna novità. Avrebbe
semplicemente lasciato le cose com’erano”.
C’è una domanda che mi frulla sempre più nella testa: è possibile
creare le basi per una storia condivisa tra le due sponde
dell’Adriatico? È possibile farlo davvero? Romanzi, racconti e
inchieste che provano a sollevarsi dall’io più minuto, e a guardare al
di là della propria parte, sembrano andare proprio in questa
direzione. Non sono molti forse, ma ci sono. A volte sono le uniche
armi di cui disponiamo contro le truppe della rimozione.
Susan Sontag a Bari
Gli articoli raccolti in questo eBook sono usciti sul “Corriere del
Mezzogiorno” tra il 25 ottobre e il 6 dicembre 2012. Ringrazio
Maddalena Tulanti e Fabrizio Versienti per avermi esortato a
scriverli. Il reportage In Albania verrà pubblicato in tale versione sul
numero 114 della rivista “Lettera internazionale”, in uscita alla fine di
gennaio 2013 e interamente dedicato all’Adriatico e ai Balcani, con
scritti, tra gli altri, di Predrag Matvejević, Slavenka Drakulić, Jurica
Pavičić, Fatos Lubonja, Franco Botta, Italo Garzia, Chiara Zamboni.
Ringrazio il direttore Biancamaria Bruno per aver concesso la sua
pubblicazione.
Alessandro Leogrande (Taranto 1977) è vicedirettore del mensile
“Lo straniero”. Cura una rubrica settimanale sul “Corriere del
Mezzogiorno” e collabora con quotidiani e riviste. Dopo l’esordio con
Un mare nascosto (L’ancora del Mediterraneo 2000), un’inchiesta
sulla sua città d’origine, stretta fra crisi industriale, inquinamento e
ascesa del telepredicatore Giancarlo Cito, Alessandro Leogrande ha
raccontato con reportage narrativi le nuove mafie, i movimenti di
protesta, lo sfruttamento dei braccianti stranieri nelle campagne: Le
male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali (L’ancora del
Mediterraneo 2003; nuova edizione Fandango 2010); Nel paese dei
vicerè. L’Italia tra pace e guerra(L’ancora del Mediterraneo 2006);
Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del
Sud(Mondadori 2008, con cui ha vinto il Premio Napoli – Libro
dell’Anno, il Premio della Resistenza Città di Omegna, il Premio
Sandro Onofri, il Premio Biblioteche di Roma). Ha curato le antologie
Nel Sud senza bussola. Venti voci per ritrovare l’orientamento
(L’ancora del Mediterraneo 2002, insieme a Goffredo Fofi), Ogni
maledetta domenica. Otto storie di calcio(minimum fax 2010) e, per
Feltrinelli, Il naufragio (2011, con cui ha vinto i premi Volponi e
Kapuściński).
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione nella collana “Zoom” dicembre 2012
ISBN: 9788858851043
INDICE
In Slovenia
In Croazia
In Montenegro
In Albania
Ringraziamenti
L’autore