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Alessandro Leogrande

Adriatico
Tra due sponde

Scrive Predrag Matvejević nel suo Breviario mediterraneo:


“l’Atlantico o il Pacifico sono i mari della distanza, il Mediterraneo è il
mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità.” Proprio nel
momento in cui i rapporti economici e politici sembrano essere
radicalmente rovesciati a favore dell’Europa continentale, e le sorti
dell’unità sovranazionale paiono appese a un filo, questo “mare
dell’intimità” (di cui Bari è la città rivierasca più popolosa) potrebbe
essere una lingua d’acqua fondamentale per le sorti dell’Europa sud-
orientale, o più in generale mediterranea, di domani. A lungo, per
secoli, è stato una sorta di grande golfo il cui epicentro era Venezia;
in seguito, uno dei punti di maggiore contatto-confronto-scontro fra
Oriente e Occidente. Lo è stato anche nella seconda metà del
Novecento: ideale linea di continuazione del Muro di Berlino, benché
i due paesi comunisti rivieraschi (la Jugoslavia e l’Albania) avessero
rotto per motivi tra loro diversi con l’Urss e il Patto di Varsavia. Poi ci
sono state le guerre dei Balcani e tutto è andato in frantumi
rovinosamente, sanguinosamente, lasciandoci un panorama di
micronazionalismi e microstatualismi. Oggi – dopo essere stato sul
finire del secolo scorso l’epicentro di nevralgiche vicende
geopolitiche – l’Adriatico appare un mare marginale e
marginalizzato. E a questa marginalizzazione si aggiunge la nostra
ignoranza, il nostro sostanziale voltargli le spalle.
Cosa sappiamo dei paesi che costituiscono la nostra frontiera
orientale? Cosa pensiamo dei paesi con cui condividiamo il “mare
dell’intimità”, mare di scambi, commerci, sincretismi culturali, guerre,
esodi, trasformazioni epocali? La difficoltà dell’Italia di trovare una
propria collocazione nel Mediterraneo del XXI secolo nasce, in parte,
dall’incapacità di mettere le relazioni inter-adriatiche al centro del
racconto, della riflessione, del progetto. E soprattutto – credo –
dall’incapacità di ascoltare il racconto di sé (e del rapporto con
l’Italia) che viene elaborato sulla riva orientale. Eppure Slovenia,
Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania sono paesi
(seppure diversi tra loro) con cui abbiamo relazioni strettissime e
secolari, che affondano nel passato e che sono parte del nostro
presente. Tali relazioni evocano l’imperialismo italiano nei Balcani, il
lungo dopoguerra, l’età della guerra fredda, il crollo dei muri, il
trauma degli anni novanta; ma soprattutto interrogano il nostro futuro
immediato. A chi guardano questi paesi: all’Italia, all’Europa o agli
Stati Uniti? Come è stato elaborato il rapporto con il passato
totalitario e con la transizione? Sono piene democrazie o paesi
ancora bloccati? Cosa è rimasto dei rapporti passati con l’Italia? Che
spazio hanno, al loro interno, la lingua italiana e le minoranze di
lingua italiana? Come questi temi vengono affrontati nel cinema e
nella letteratura?
A queste domande sul futuro dell’Adriatico (alla necessità di
trovarvi qualche risposta) la rubrica “Anni dieci” dedicherà
un’inchiesta a puntate. L’idea è quella di raccogliere paese per
paese spunti di riflessione, considerazioni critiche. Intravedere
interlocutori. Interrogarsi sulla struttura politica e sociale dei suoi
“nuovi” paesi. Analizzare lo stato delle arti, la lingua, il rapporto tra le
lingue.
Tre saranno le linee guida. 1) Far parlare gli altri. Non ricercare la
nostra visione sull’Adriatico, ma scorgere quale visione dell’Adriatico,
delle sue relazioni, dell’intreccio tra passato e futuro, si coltiva sulla
riva orientale. È una visione univoca? È frutto di un confronto
dialettico? È una visione appannata? 2) Non si tratta tanto di
ricercare delle identità condivise (termine sempre molto ambiguo)
ma di capire quali forme di terreno comune (di scambio e di
confronto) è possibile praticare nel XXI secolo. In questo la ricerca
storica “a sguardi incrociati” dovrebbe esercitare un ruolo di primo
piano. Alle spalle abbiamo letteralmente cumuli di macerie: le
mattanze degli anni novanta, il modo in cui hanno devastato intere
generazioni, e allo stesso tempo lasciato nell’aria i propri miasmi
mefitici, sono sotto il tappeto. Vanno raccontate, indagate, evitando
di rintuzzare la contrapposizione tra opposte barricate. Ma evitando
anche che lo sguardo dall’Italia sia uno sguardo miope, mosso
dall’autoindulgenza nei confronti delle proprie colpe e delle proprie
responsabilità che – ripeto – affondano le radici nel brutale
colonialismo fascista di cui oggi in molti (anche sul piano storico)
cercano di cancellare le tracce. 3) Il confronto tra generazioni. Un
ventenne croato o albanese è nato proprio negli anni in cui la guerra
nella ex-Jugoslavia andava infuriando o quella sorta di regime
cambogiano in riva all’Adriatico che è stato il comunismo albanese
stava cadendo. È cresciuto “dopo” quei fatti. Milioni di ragazzi sono
cresciuti “dopo”, negli anni successivi. Per capire come sarà fatto
l’Adriatico di domani è soprattutto loro che occorre interrogare. Quali
lingue parlano? Cosa sognano? Quali film vedono? Quale musica
ascoltano? Ma soprattutto: qual è il confronto tra generazioni, il
rapporto con i padri, intorno al passato doloroso e indicibile?
Ecco, abbiamo accumulato molte domande. Nelle prossime
settimane, partendo dal cuore dell’Istria per giungere alle soglie del
Canale d’Otranto, proveremo a recuperare – con le antenne rivolte
all’altra sponda – alcune risposte.
In Slovenia

Per capire il futuro dell’Adriatico occorre partire dalla Slovenia, il


paese “orientale” più a nord, quello che ha sofferto decisamente di
meno la dissoluzione della federazione jugoslava. Nel 1978, anche
per volere del governo italiano, venne costituita la comunità Alpe-
Adria: un’organizzazione internazionale di cui facevano parte la
Slovenia, la Croazia, le regioni italiane Veneto e Friuli-Venezia
Giulia, i länder austriaci della Carinzia, della Stiria e dell’Austria
superiore. In seguito si sarebbero aggregate la Baviera, il Trentino
Alto-Adige, la Lombardia, alcune contee ungheresi. Grazie a questa
singolare area di scambio e di dialogo, la Croazia e soprattutto la
Slovenia svilupparono una propria autonoma politica estera già
prima della caduta del Muro. Strinsero relazioni che sarebbero
divenute decisive al momento dell’indipendenza, fornendo una
protezione internazionale alle loro richieste. Che ne è oggi di quella
prospettiva alpino-adriatica?
Ne ho parlato con Stefano Lusa, italiano di Slovenia,
caporedattore del programma informativo di Radio Capodistria,
assiduo collaboratore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso e autore
de La dissoluzione del potere, ampia ricostruzione del processo di
democratizzazione nel suo paese, pubblicata in Italia dalla casa
editrice udinese Kappa Vu. “Oggi la Slovenia ha riscoperto la sua
identità centro-europea,” dice Lusa. “Dagli anni ottanta ha cercato di
svincolarsi dai Balcani. L’obiettivo era chiaro: non essere più uno
stato del Sud Europa, e quindi non essere uno stato mediterraneo.”
La Slovenia ha con l’Adriatico un rapporto conflittuale: “Da una parte
fa di tutto per avere anche una dimensione marittima; dall’altra è
evidente che il paese è molto più alpino che mediterraneo. Oggi,
come ieri, si guarda più all’Austria e alla Germania che non al mare”.
Lungo il litorale c’è una comunità italiana di poche migliaia di
persone, di cui Radio e Tv Capodistria sono la massima espressione
culturale. Sicuramente gli italiani di Slovenia sono più “adriatici” che
“alpini”, eppure – spiega Lusa – “anche loro, più che al mare
guardano all’Istria, alla vecchia Venezia Giulia, all’orizzonte di un
mini-mondo che va da Trieste a Pola.”
Oggi questo mini-mondo (ancora attraversato dal ricordo delle
ferite della Storia) è profondamente mutato. Dopo l’ingresso della
Slovenia nell’Unione europea, si può andare tranquillamente da
Capodistria a Trieste, ma per andare da Capodistria a Pola bisogna
tirare fuori il passaporto, mentre fino a vent’anni fa le due città
appartenevano a due repubbliche dello stato jugoslavo. Insomma, se
da una parte ci sono confini che saltano, dall’altra se ne creano di
nuovi.
Radio e Tv Capodistria (che fanno parte del servizio pubblico
sloveno) continuano a costituire una finestra informativa del Nord
Adriatico, ugualmente seguita in Italia settentrionale, Slovenia,
Croazia. Nei giorni dell’indipendenza slovena, durante il breve
conflitto con l’Armata popolare jugoslava, furono importantissime. In
molti pensavano che le truppe indipendentiste sarebbero state
liquidate in poche ore. Invece Lubiana puntò tutto sull’effetto Cnn. E
Capodistria contribuì a trasmettere immagini e voci dei
combattimenti, spostando buona parte dell’opinione pubblica
occidentale a fianco degli sloveni.
Poi la guerra vera, quella con decine di migliaia di morti, si spostò
in Croazia e in Bosnia, mentre la Slovenia sperimentò la propria
indipendenza all’interno di un relativo benessere centro-europeo.
Oggi, però, anche il governo di Lubiana è alle prese con la crisi
economica. “La disoccupazione è aumentata, i tagli alla spesa
pubblica sono destinati a crescere. I giovani fanno fatica a inserirsi
nel mercato del lavoro, a superare tutte le gabbie del precariato. La
prospettiva di vivere peggio dei propri genitori è più che concreta.”
Per capire la nuova Slovenia occorre guardare soprattutto a questi
ragazzi. E più che alle generazioni dei padri o dei nonni avvitati nel
ricordo del passato (come Boris Pahor), ai giovani scrittori e registi
che sanno descriverli. Quest’anno al Medfilm Festival di Roma la
Slovenia era ospite d’onore. È stato proiettato un bel film di Nejc
Gazvoda (regista nato nel 1985): Izlet, cioè Un viaggio. Vi si narra
una breve vacanza sull’Adriatico di tre ex compagni di liceo: un
giovane militare in licenza che deve tornare in Afghanistan (anche la
Slovenia vi ha mandato un piccolo contingente), un perdigiorno che
ha abbandonato gli studi, una ragazza cui hanno asportato un seno.
In questa sorta di Jules e Jim dei giorni nostri estremamente
delicato, girato con camera a mano, prorompe sulla scena una
generazione spaesata: sono i primi nati dopo la morte di Tito, ma
anche i primi a vivere le stesse identiche incertezze e “paranoie” dei
propri coetanei europei.
Altro autore da tenere d’occhio è lo scrittore Goran Vojnović, nato
nel 1980. Il suo Čefurji raus! (Terroni fuori!, non ancora tradotto in
italiano) è un romanzo sarcastico e amaro ambientato in un quartiere
della capitale popolato da immigrati provenienti dalle ex repubbliche
meridionali della Jugoslavia. L’indipendenza slovena, come tutte le
indipendenze nei Balcani, oltre che della voglia di liberarsi dalla
gabbia del comunismo, si è nutrita del vagheggiamento di una
compattezza etnica, linguistica e territoriale. Ma l’Europa di cui il
paese vuole essere parte è il meticciato, è fatta di milioni di
immigrati. Che impatto hanno le differenze sulla piccola Slovenia?
Ogni discorso sulle tradizioni e sull’identità diventa un terreno di
conflitto piuttosto aspro, che rimescola costantemente il campo dei
conservatori e quello dei progressisti. Non è difficile capire da che
parte stiano i nuovi narratori sloveni; tuttavia la partita è ancora
aperta. Intanto a Pirano, sulle rive dell’Adriatico, è stato eletto nel
2010 il primo sindaco nero di tutta l’Europa centro-orientale. Si
chiama Peter Bossman, fa il medico e viene dal Ghana. Vive lì da
trent’anni.
In Croazia

La guerra, la tragedia di Vukovar, il nazionalismo esasperato a


volte sembrano una nebulosa del passato. La Croazia si appresta a
diventare il ventottesimo stato membro dell’Unione europea:
l’adesione è prevista per il primo luglio del 2013, benché proprio la
Germania – principale sponsor dell’indipendenza croata vent’anni fa
– oggi si mostri sempre più scettica verso ulteriori allargamenti
dell’Unione.
Parlo di tutto questo con Jurica Pavičić, lucido intellettuale
spalatino, giornalista, critico cinematografico, romanziere e autore di
un notevole libro di racconti, Il collezionista di serpenti, appena edito
da Besa. “In Croazia,” mi dice, “dopo la guerra sono successe molte
cose: il boom economico, una crisi rovinosa, l’esplosione di una
enorme corruzione che ha riguardato anche esponenti di primo
piano dell’esecutivo... La guerra in realtà appartiene a un passato
remoto, il passato prossimo riguarda tutti questi episodi avvenuti
dopo l’indipendenza.” Eppure quel passato remoto torna sotto due
forme: o come commemorazione dei caduti, o attraverso il Tribunale
dell’Aia. Il Tribunale è qualcosa che sta sempre lì, come una
macchia indelebile: “È difficile vivere con questa schizofrenia. La
nuova Croazia ha glorificato una guerra che ha vinto, ma allo stesso
tempo i leader politici di quella guerra sono tutti condannati e
incarcerati”. A cominciare da Franjo Tudjman, presidente della
repubblica fino alla fine dei suoi giorni, nel 1999, e “post mortem”
riconosciuto come il principale criminale di guerra croato. “La
schizofrenia”, continua Pavičić, “è accresciuta dal fatto che il
governo attuale, presieduto da Zoran Milanović, appoggia l’azione
del Tribunale come passo fondamentale per l’ingresso in Europa,
cioè per favorire il compimento dello stesso processo di
indipendenza.”
Il collezionista di serpenti è un libro venato da una profonda
amarezza. Non solo la memoria della guerra è sempre lì, incisa sul
corpo dei reduci, nella coscienza dei sopravvissuti. È la Croazia che
ha vinto, un concentrato di individualismo e liberismo, a non avere
un bel volto. “Sono molti gli sconfitti,” prosegue lo scrittore. “Con tutti
i suoi fallimenti, il socialismo era un tipo di società che guardava ai
deboli, ai meno capaci di trasformarsi. Ormai viviamo in un mondo in
cui è impossibile sopravvivere per chi è incapace di trasformarsi. La
gente umile ha perduto molto: proprio coloro i quali hanno favorito il
nazionalismo ne sono stati distrutti. Quelli che hanno vinto non sono
solo i ’berlusconiani’ come il sindaco di Spalato, un imprenditore
passato con successo alla politica. L’esercito dei veri vincenti è
costituito soprattutto da una nuova borghesia che lavora per le
banche, per le telecomunicazioni. Si tratta di una oligarchia liberale
tipica dell’Europa orientale, e come in tutta l’Europa orientale sono
per lo più di centrosinistra. Non sono nazionalisti, non sono
conservatori. Sono cool, istruiti, cosmopoliti, a favore dei diritti civili e
dell’Europa, ma fortemente neoliberisti in economia. Per i partiti
conservatori votano le regioni più povere, compresa la Dalmazia.”
Già, la Dalmazia, la regione meridionale che si affaccia
sull’Adriatico e che oggi è il cuore dello scombussolamento
economico croato. Anche qui, lungo il litorale, si ha la sensazione
che il cuore delle decisioni politiche si sia spostato altrove, molto più
a nord. Non solo nel Nord del paese (a Zagabria), ma a Bruxelles, a
Berlino.
Come nel Sud Italia, anche in Dalmazia c’è stata una forte
discontinuità nello sviluppo. Nel Novecento era un’area agricola. Poi
c’è stata l’industrializzazione voluta dallo stato socialista. Vennero
edificati grandi stabilimenti industriali, i contadini divennero operai e
andarono ad abitare nei tipici palazzoni in stile sovietico. Ma l’onda
dello sviluppo si è dissolta negli anni novanta, con la crisi di tutta
l’industria europea e con il crollo dell’industria post-comunista. Città
come Spalato si sono ritrovate piene di gente senza lavoro. “Negli
anni novanta c’era anche molta eroina, e molto estremismo politico.
In una decina di anni Spalato si è trasformata da città comunista
(veniva chiamata la Spalato rossa, anche perché aveva dato
quattordicimila partigiani alla Resistenza) in una fortezza
dell’estrema destra.”
A me questa ricostruzione ricorda in pieno gli anni bui di Taranto.
Fatto sta che dalle ceneri si è creata, a cavallo dei due secoli, una
nuova onda di sviluppo: il turismo. “Il turismo ha portato uno sviluppo
privo di controllo, particolarmente pernicioso nel momento in cui è
diventato l’unico antidoto alla povertà. Questa nuova monocultura è
il vero problema della Croazia adriatica. Si punta tutto sul turismo,
benché sia un tipo di economia che non produce una reale crescita
collettiva, e che dipende troppo dalle stagioni climatiche e dalla
stabilità politica.”
Nel panorama post-jugoslavo ci sono due forze contrapposte: una
corre verso il locale, l’altra verso una dimensione transnazionale. In
Croazia le diversità regionali sono molto forti, e si assiste a un
significativo ritorno dell’uso del dialetto, anche sui giornali, nel
cinema, in tv. “È una risposta al nazionalismo astratto dell’epoca di
Tudjman,” riflette Pavičić. “La separazione dalla Jugoslavia è stata
edificata su un’idea astratta di Croazia e dell’essere croati.” Così le
diversità oggi si prendono la loro rivincita: è un fenomeno evidente
proprio nelle regioni adriatiche, linguisticamente diverse dal centro,
dall’Istria alla Dalmazia. Su un altro versante, invece, si sta ricreando
una “jugosfera”: il neologismo è stato coniato da Tim Judah,
giornalista dell’“Economist”, per indicare la creazione di uno spazio
economico comune ai nuovi stati dopo il crollo della Jugoslavia. “I
primi che hanno cominciato a creare questa area comune, come
sempre”, sorride Pavičić, “sono stati i contrabbandieri, i mafiosi, i
trafficanti di droga. Dopo c’è stata una seconda fase che ha
riguardato la cultura ’bassa’: le sit-com, i cantanti turbo-folk... È
interessante notare come la cultura ’bassa’ si sia dimostrata molto
più aperta di quella ’alta’ (la letteratura), che invece spesso ha alzato
gli steccati e creato piccoli imperi nazionali.”
La “jugosfera” esiste innanzitutto a livello economico.
“L’esperienza di vita comune in fondo è stata molto forte. Tuttora lo
vedi nei supermercati: tu compri ancora cose che vengono dall’altra
parte, e quasi sempre esistevano già all’epoca della Jugoslavia.
Cioccolata, caffè, formaggi... sono parte di una cultura consumistica
comune, nonostante la guerra. Lo stesso vale per il cinema e la
musica, per quegli autori che erano già famosi ai tempi della
Jugoslavia. Lo sono ancora oggi in Croazia, Serbia, Bosnia-
Erzegovina e Montenegro.”
Poi ci sono quelli venuti dopo. Oggi il regista croato più
interessante è forse Vinko Brešan, autore tra l’altro di Svjedoci (I
testimoni, 2003) tratto proprio da un romanzo di Pavičić, Ovce od
Gipsa (Pecore di gesso), in cui si irride la cultura nazionalista degli
anni novanta. Ma vanno anche ricordati Crnci (I negri, 2008) di
Goran Dević e Zvonimir Jurić, e Metastaze(Metastasi, 2009) di
Branko Schmidt sugli ultras neofascisti di Zagabria. Sul versante del
graphic novel, va segnalato Mare inquieto di Helena Klakočar (edito
in Italia dalla triestina Comunicarte), ricordo per immagini di un
viaggio-fuga in catamarano, da un porto all’altro dell’Adriatico,
durante i primi mesi della guerra.
“Ogni volta che vado a Sarajevo,” mi racconta ancora Pavičić,
“trovo tutti i giornali croati. I legami con la Croazia sono ancora molti
forti. I croati di inverno vanno in Bosnia a sciare; i bosniaci vengono
sull’Adriatico per i bagni. Non hai bisogno del passaporto, basta la
carta di identità.” Tutto questo è sopravvissuto alla Jugoslavia. Il
problema è vedere cosa accadrà con l’ingresso della Croazia
nell’area Schengen. Allora tutto potrebbe cambiare, perché la
frontiera tra ciò che è Unione europea e ciò che non lo è passerà
proprio lungo il confine tra la Croazia e la Bosnia.
In Montenegro

Soffia un vento nuovo, da un anno a questa parte, in Montenegro.


Una nuova generazione di scrittori, giornalisti, attivisti ha iniziato a
mettere in discussione le basi del potere nel piccolo stato adriatico
indipendente dal 2006, l’enorme corruzione, il ruolo dei tycoon
nell’economia, la loro traballante idea di sviluppo.
Visto da Bari o da Brindisi, è difficile scindere il Montenegro e il
suo nome dalla stagione del contrabbando di sigarette, quando ogni
notte gli scafi controllati dalla Sacra corona unita facevano la spola
tra le due coste, scaricando decine di migliaia di casse di sigarette
all’anno. Quel ramificato miscuglio tra nuove mafie, exploit di un
traffico internazionale, dissoluzione dei Balcani, compromissione
delle grandi corporation del tabacco, coinvolgimento delle centrali
del riciclaggio, che ha segnato il salto di qualità della criminalità
pugliese, aveva il proprio retroterra nel Montenegro che si avviava
all’indipendenza da Belgrado. Francesco Prudentino, il re delle
bionde, si è spesso vantato di essere un benefattore del
Montenegro. E – come dimostrato dalle inchieste della Dda di Bari, e
riportato in reportage come McMafia (Mondadori) di Misha Glenny o
Le male vite (Fandango) di chi scrive – un’intera classe economica e
politica della regione balcanica è cresciuta prolifica intorno al traffico.
Quelle inchieste, che hanno visto coinvolto l’entourage del padre-
padrone del Montenegro, Milo Djukanović, si sono arrestate davanti
all’anticamera della sua stanza, cioè della stanza dei bottoni: benché
le prove raccolte contro di lui fossero più che imbarazzanti, nel
maggio del 2009 la sua posizione è stata definitivamente archiviata
grazie all’immunità diplomatica di cui godono i capi di stato.
Negli ultimi quindici anni Djukanović ha mantenuto saldamente
nelle proprie mani le leve del potere. Eppure, dalla stagione del
contrabbando conclusasi una decina di anni fa, molta acqua è
passata sotto i ponti. Come puntualmente documentato in
Narconomics, a cura di Matteo Tacconi (edito da Lantana), dopo la
stagione anarcoide dei contrabbandieri, è venuto il turno dei tycoon
russi che hanno cambiato il volto del paese, costruendo alberghi,
casino e resort di lusso lungo la costa, alimentando il boom della
cementificazione, riciclando un’enorme mole di denaro. Poi, con la
crisi economica, feroce come in tutta l’area mediterranea, anche
questa parentesi si è chiusa. Ora è il turno dei colletti bianchi del
traffico internazionale di cocaina, i cui carichi – basta fare un rapido
calcolo – rendono circa venti volte di più dei carichi di sigarette di un
tempo.
In Montenegro c’è chi ha detto no a tutto questo e ha preso a
scendere in piazza con regolarità dall’inizio del 2012, dando vita a un
coraggioso movimento antimafia. Dalla galassia di associazioni,
Ong, gruppi raccolti in rete spicca l’organizzazione Mans, diretta da
Vanja Ćalović, che al grido “Vrijeme je” (“È ora”) ha messo in
discussione le fondamenta del nuovo corso.
In un’intervista concessa di recente a Francesco Martino per il sito
“Osservatorio Balcani e Caucaso”, Ćalović è stata molto chiara:
“Quel movimento di protesta, credo, ha segnato la nascita in
Montenegro di quella che potremmo definire ’società civile’, l’unione
di persone di orientamento politico diverso, ma consapevoli di avere
problemi comuni, con la voglia di agire per trovare risposte. Sono le
prime manifestazioni in cui la gente non è scesa in piazza su
questioni legate alla statualità del Montenegro, ma per protestare
contro criminalità organizzata e corruzione. Per la prima volta, i
montenegrini hanno sperimentato che è davvero possibile mostrare
pubblicamente il dissenso”.
Mans (“Mreže za afirmaciju nevladinog sektora”, cioè “Rete per la
crescita delle associazioni non governative”) si è sviluppata in fretta,
con l’aiuto di fondi della Commissione europea e di fondazioni
private occidentali. Oggi ci sono almeno una cinquantina di attivisti
che a vario titolo lavorano assiduamente nei suoi uffici. “Nel corso
degli anni”, ha detto ancora Vanja Ćalović, “abbiamo guadagnato la
fiducia di una fetta crescente dei montenegrini, che ci coinvolgono
sempre più spesso con le loro denunce e segnalazioni.” Piccolo
segnale del cambiamento dei tempi: nelle ultime elezioni politiche
del 14 ottobre scorso, la coalizione guidata da Djukanović ha vinto
ma non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi. Sarà quindi
costretta a nuove alleanze.
Per comprendere come il Montenegro sia in bilico tra passato e
futuro, e come – anche qui – la memoria dei conflitti degli anni
novanta è sempre pronta a riaccendersi, basta citare il caso
Nikolaidis.
Andrej Nikolaidis è un giornalista e scrittore nato a Sarajevo nel
1974 in una famiglia di origini greco-montenegrine e trasferitosi,
dopo lo scoppio della guerra nel 1992, a Ulcinj (cioè Dulcigno), la
città adriatica più a sud del Montenegro, quasi al confine con
l’Albania. È uno degli scrittori più interessanti della sua generazione.
Nel gennaio scorso ha pubblicato sul portale web “e-Novine” un
articolo intitolato Cosa rimane della Grande Serbia che ha acceso
una vibrante polemica tra Serbia e Montenegro, con tanto di
minacce, appelli di scrittori di entrambi i paesi e dimissioni di
papaveri delle istituzioni culturali serbe che avevano preso le sue
difese. Cosa ha scritto di tanto clamoroso Nikolaidis, proprio nei
giorni in cui si celebravano in pompa magna i vent’anni di esistenza
della Repubblica Serba di Bosnia? Ha scritto senza mezzi termini
che questa è un’entità “fondata sul genocidio”. Essa “non è mai stata
e non sarà mai un progetto autonomo dei serbi bosniaci”. È solo una
macchina costruita a Belgrado, parte del progetto della élite
nazionalista serba il cui fine è piuttosto chiaro: rinfocolare la fiamma
del nazionalismo per oscurare le drammatiche questioni sociali (il
vero problema di questa area). Lo ha detto con un tono
particolarmente duro, e le polemiche sono divampate.
Eppure nello stesso articolo Nikolaidis ha scritto qualcosa di molto
interessante anche riguardo al Montenegro. “C’è un parallelo,” ha
sottolineato, “tra la legittimazione ideologica della Repubblica Serba
di Bosnia e la brutale delegittimazione dell’indipendenza del
Montenegro”. Chi considera un genocidio come base del tutto lecita
per la costituzione di un nuovo stato, allo stesso tempo ha
stigmatizzato il ruolo del contrabbando di sigarette nella formazione
di un altro. “L’indipendenza del Montenegro,” scrive Nikolaidis, “non
è stata creata né dai contrabbandieri né dai tycoon. È stata
perseguita da una minoranza della società montenegrina contraria
alla guerra e filo-occidentale.”
Nikolaidis non minimizza la corruzione del suo paese. Al contrario,
sostiene che solo qualora Pogdorica si deciderà a combattere alla
radice la grande “rapina” del paese e ad arrestare “la feccia dei
tycoon”, le pressioni di Belgrado perderanno la loro ragion d’essere.
Fino ad allora la confusione, la corruzione, la debolezza della classe
dirigente montenegrina (e in parte anche bosniaca) continueranno a
essere funzionali alle ricostruzioni parziali e negazioniste della
mattanza degli anni novanta.
Quello individuato dallo scrittore montenegrino è il cuore del
problema, il nodo scorsoio della transizione. Di Andrej Nikolaidis
finora è stato tradotto in italiano solo un breve racconto all’interno di
un’antologia edita da Besa, Dalla montagna nera. Scrittori e poeti
montenegrini contemporanei. I suoi romanzi però sono già stati
pubblicati in inglese. In Sin (Il figlio), il protagonista (uno scrittore
fallito, lasciato dalla moglie e in guerra con il padre) si aggira nella
sua Ulcinj, uno dei tanti porti adriatici in cui l’Europa, il levante e il
passato comunista si mescolano tra loro in ogni anfratto. Andare
avanti, tornare indietro. Ricordare il passato, dimenticarlo. Cantare le
nazioni, criticarle. Adattarsi ai nuovi tempi, rifiutare di farlo... Una
nuova generazione di montenegrini si ritrova a fronteggiare questioni
che paiono universali.
In Albania

Leggere Böll a Tirana

“Il fascino austero della Tirana di un tempo,” mi dice Artan Puto,


giovane storico albanese, redattore della rivista “Përpjekja”, “non c’è
più”. Una crescita edilizia senza capo né coda sembra aver
fagocitato la città. Dalla terrazza del grattacielo della Coin, uno di
quei luoghi in cui – sotto un sole ancora tiepido di fine novembre – la
recente “alta società” albanese ama sedersi ai tavolini e ordinare un
cappuccino, la burrascosa trasformazione della capitale si scorge
nitidamente. Ci vorrebbe un grande film come L’età dell’innocenza di
Scorsese, mi dice ancora Puto, per descrivere i riti della singolare
upper class che ci circonda, i suoi codici, i suoi vestiti, i suoi status
symbol, le sue case, le sue vacanze… Tra essa e le immagini dello
sconquasso dei primi anni novanta corre di mezzo una galassia.
“Chi sono i nuovi ricchi?” gli chiedo. “Come si è creata la nuova
ricchezza?” “Con il flusso di denaro proveniente dalle organizzazioni
internazionali, innanzitutto. E poi con l’edilizia. Vent’anni fa Tirana
aveva 250 mila abitanti, adesso ne ha quasi un milione.” I signori di
questa radicale trasformazione urbanistica sono i veri padroni
dell’Albania contemporanea. Ma ora, dopo aver prosperato per un
quindicennio, il loro piccolo impero comincia a scricchiolare sotto la
crisi del mattone. Molti soccombono, i più lesti e rapaci riescono a
reinvestire altrove. Ad esempio nelle grandi concentrazioni editoriali
(note per il fatto di pagare una miseria il lavoro dei giornalisti) oppure
nel business tutto albanese delle scuole e delle università private.
Tirana ne conta almeno trenta (di università private), con rette che si
aggirano intorno ai duecento-trecento euro mensili (più o meno lo
stipendio di un dipendente statale). Molte sono dispensatrici di un
pezzo di carta (e noi italiani, con la triste vicenda di Renzo Bossi e
dell’entourage leghista, ne sappiamo qualcosa). Alcune, le più serie,
formano la nuova classe media. I figli dell’élite, invece, vanno a
studiare direttamente a Londra o negli Stati Uniti.
Sono a Tirana per la Fiera del libro. Il naufragio, il mio libro
sull’affondamento della Kater I Rades al largo delle coste pugliesi nel
1997, è stato appena tradotto in albanese. Benché sia stato accolto
positivamente dalla stampa “liberal”, ho l’impressione che una lunga
opera di rimozione su tutte le vicende degli anni novanta (e in
particolare proprio sul cataclisma del 1997) si sia abbattuta sulla
nuova Albania. Ne ho conferma chiacchierando con lo scrittore
Ardian Vehbiu, autore di racconti sul periodo totalitario e di un saggio
intitolato Kundër purizmit (Contro il purismo, 2012, Botimet Dudaj)
sul dilagare del nazionalismo identitario. “I drammi del passato
interessano solo una ristretta minoranza di intellettuali.” Tutti gli altri
vogliono dimenticare certe vicende perché sinonimo di povertà,
miseria, caos. Non solo i nuovi ricchi: anche la ristrettissima classe
media o il popolo delle periferie che preme alle porte del centro e
stenta ad arrivare alla fine del mese. Vogliono rimuovere anche gli
studenti che si affollano numerosi tra gli stand della Fiera: guardano
avanti, sognano altro.
Questa rimozione ha due conseguenze. La prima è che la
presenza dell’Italia (ancora evidente nei nomi delle banche, dei
ristoranti o sugli scaffali dei supermercati) sembra evaporare. Non
siamo più la terra promessa, ed è davvero molto difficile trovare un
albanese al di sotto dei venticinque anni che comprenda l’italiano:
una cosa impensabile fino a dieci anni fa. Ora i ragazzi parlano un
inglese perfetto, molto più dei loro coetanei al di là dell’Adriatico.
(Ovviamente, la nostra incapacità di intessere un reale dialogo
transnazionale, e di comprendere le trasformazioni radicali del paese
vicino, è il principale alleato di questa evaporazione.)
La seconda è che, con la rimozione di una memoria critica degli
anni novanta, si è cancellata anche la possibilità di un’indagine
obiettiva sulle responsabilità politiche. Oggi l’Albania sembra uno dei
paesi più liberi del mondo, eppure sono al potere le stesse persone
che, provenendo dalle file del vecchio partito comunista (le terze, le
quarte file), erano già al potere nella prima metà degli anni novanta.
Mi dice Vehbiu: “La struttura del linguaggio pubblico, la costruzione
sintattica delle frasi pronunciate dai ministri o dai leader politici, è la
stessa di trenta o quarant’anni fa. Cambiano i soggetti delle frasi
(invece che del comunismo si parla magari dell’Europa), ma il modo
di parlare è il medesimo”.
Quasi a celare questo continuismo, e i problemi che affliggono i
nove decimi della società, la capitale è avvolta da un numero
spropositato di bandiere nazionali. Si celebra il centenario
dell’indipendenza albanese del 1912, ma non ci sono solo i drappi
ufficiali appesi ai palazzi del potere lungo il Boulevard. Da ogni
condominio ne spuntano sei-sette, quasi fossimo alla vigilia di una
finale dei Mondiali.
La Fiera del libro è ospitata nel Palazzo dei Congressi, in un
angolo della città il cui impianto urbanistico è ancora quello
dell’occupazione fascista. Pare di essere all’interno di una piccola
riproduzione dell’Eur. Ampi spazi, imponenti colonnati razionalisti.
Tra i libri venduti sono molti gli autori italiani. Sia i classici del
Novecento (Calvino, Buzzati, Silone, Levi…) sia quelli più recenti
(Eco, Tabucchi, Ammaniti, Saviano, Carmine Abate, Michela
Murgia…). Ma in generale salta subito agli occhi come gli albanesi
siano un popolo di grandi traduttori. Non c’è autore europeo o
americano più o meno noto che non sia stato tradotto. Eppure – mi
fa notare un giornalista – la qualità delle traduzioni lascia spesso a
desiderare: “Molti hanno rovinato anche i premi Nobel…”.
Il mio editore, Arlinda Dudaj (punto di riferimento per le case
italiane, dalla Mondadori alla Feltrinelli) mi confida che la crisi
dell’editoria inizia a sentirsi anche qui, nelle stesse forme e con gli
stessi numeri impietosi dell’Italia. Molti accusano perdite del 20-30%.
Probabilmente saranno in pochi a sopravvivere nei prossimi anni, in
un paese la cui crisi economica sembra dipendere innanzitutto dalla
crisi economica dei due vicini più grandi, l’Italia e la Grecia.
Tra i libri che acquisto, quello che più colpisce la mia attenzione è
la traduzione albanese di Opinioni di un clown di Heinrich Böll. L’ha
curata Ardian Klosi, scrittore cosmopolita, giornalista, raffinato
editore, ecologista, una delle voci più interessanti e acute
dell’Albania post-totalitaria. Nella primavera scorsa Klosi si è
suicidato, e il suo suicidio – per il profondo shock che ha provocato
in un’ampia cerchia di amici, intellettuali, compagni di strada, militanti
politici – mi ha ricordato quello di Alex Langer. Sono rimasto colpito
dalla sua traduzione di Böll, pubblicata tre anni fa, perché una
pagina su cinque del libro è su sfondo grigio. Quando ho chiesto alla
nipote il perché, mi ha risposto che la “pagine grigie” (una
cinquantina) sono quelle censurate dal regime nella prima edizione
del 1985. Parlano di sesso, religione, amore… (“temi allora proibiti”).
Klosi ha voluto pubblicare in questa forma editoriale la nuova
edizione. E non poteva esserci fotografia più impietosa della follia
della dittatura: uno dei libri più feroci contro il pachidermico processo
di denazificazione della Germania censurato per ottuso moralismo.
Di sera, passeggio da solo per le strade del Blok, un tempo
cittadella proibita in cui abitavano circondati dai soldati il dittatore, i
membri del Politburo e le loro famiglie. Oggi è rimasto in piedi solo
qualche edificio, in particolare la residenza di Enver Hoxha, ormai
disabitata. Il Blok è il cuore della trasformazione edilizia della
capitale. Ci vive la nuova upper class. E di notte i suoi locali, le sue
discoteche, i suoi lounge bar (presenti in una quantità eccessiva,
manco fossimo a Trastevere) si riempiono di gente che arriva in Suv
o in Mercedes. Eccolo il cuore del potere socio-economico, e
soprattutto estetico, della nuova Albania: la presa del Palazzo
d’Inverno è avvenuta a colpi di drink e musica chiassosa.

In viaggio verso sud

Una volta Pasolini ha detto più o meno che il Terzo mondo iniziava
nelle borgate di Roma. Ho pensato lo stesso passeggiando per
Tirana. Non serve andare nella periferia estrema. Basta allontanarsi
un centinaio di metri dal reticolo delle strade centrali: già alle spalle
dell’ambasciata americana inizia un altro mondo, profondamente
diverso da quello del Blok e del Boulevard. Un dedalo di stradine
confuse, palazzi diroccati, asfalto che si disfa, pozzanghere... Ma
anche tantissimi negozietti che vendono di tutto, ambulanti, caffè
popolari affollati a ogni ora del giorno e della notte: un brulicare di
vita levantina.
L’Albania è un sovrapporsi di piani temporali e urbanistici
differenti. Forse sarà eccessivo usare la categoria di Terzo mondo
(in fondo, lo era anche per la periferia romana). Di sicuro, però, c’è
un altro mondo che preme alle porte dello sviluppo distorto che a
volte sembra aver avvolto il paese. Un mondo fatto di uomini e
donne che arrancano.
Con Fatos Lubonja (scrittore che, condannato ai lavori forzati dal
regime, ha vissuto diciassette anni in un gulag) ho discusso a lungo
dell’ultimo numero della rivista da lui diretta, “Përpjekja”: un numero
monografico che decostruisce il mito nazionale di Giorgio Castriota
Skanderbeg, colui che nel XV secolo resistette per oltre due decenni
alle forze soverchianti dell’Impero ottomano. Il numero è uscito
proprio nelle settimane in cui andavano intensificandosi i
festeggiamenti per il centenario dell’indipendenza albanese (che
cade il 28 novembre), e il suo forte impianto anti-nazionalista non
poteva non stridere in questi giorni di euforia patriottica. La tesi
sostenuta da Lubonja è interessante. Skanderbeg, dice, è stato il
principale mito intorno a cui si è costruito il nazional-comunismo
albanese, ideologia di regime sempre più asfittica, ma necessaria,
via via che Enver Hoxha rompeva – a uno a uno – con tutti gli altri
stati dell’universo marxista-leninista e serrava il paese all’interno dei
suoi confini. Oggi quell’iconografia, continua Lubonja, non è stata
rigettata. Anzi, in una singolare forma di continuità, viene utilizzata
per altri scopi. Dal nazional-comunismo si è passati al nazional-
europeismo (alimentandone tra l’altro i tratti antioccidentali). Il mito di
Skanderbeg diviene funzionale alla richiesta dell’ingresso nell’Ue. Un
gioco di specchi davvero paradossale.
Eppure ho l’impressione che il nuovo nazionalismo albanese, oltre
a celare la crisi sociale del paese, nasconda posticciamente altre
differenze regionali. “La lotta politica si sta regionalizzando,” mi
confidano in molti. Sali Berisha è sempre più percepito come un
uomo del nord, ed è proprio nel Nord rurale, ai confini con il Kosovo,
che ha la sua roccaforte. Viceversa, il Partito socialista, da sempre
forte al sud, “meridionalizza” ulteriormente la propria visione
dell’Albania. La cartina politica del paese è sempre più spaccata in
due, e queste divisioni sembrano tra l’altro ricalcare le differenze
linguistiche. Tirana, la capitale mutata tumultuosamente, sommo
oggetto del contendere politico, è nel mezzo.
Che il nazionalismo copra un forte regionalismo, lo si può cogliere
anche girando per il paese. A Valona, ad esempio, la città da cui ha
avuto inizio il processo di indipendenza nel 1912, ricordare quegli
eventi vuol dire ricordare quasi unicamente Ismail Qemali, una sorta
di Mazzini albanese, originario proprio di qui. Il suo faccione è
ovunque nella città in riva al mare. Per converso, mi pare che il suo
ricordo sia fortemente ridimensionato nella capitale.
Sono stato a Valona, per un’altra presentazione del mio libro. Con
i ragazzi della casa editrice Dudaj abbiamo attraversato tutto il paese
in macchina: una lunga autostrada senza pedaggio congiunge ormai
l’Albania da nord a sud. A destra e sinistra, tra innumerevoli pompe
di benzina Taçi Oil (Rezart Taçi è il petroliere albanese che voleva
acquistare il Bologna calcio) scorre un paese molto diverso da
Tirana. Durazzo è una città che ha distrutto il suo litorale, con una
serie infinita di alberghi e palazzoni che arrivano giù giù fino al mare.
La cementificazione della costa, spesso perseguita con veri e propri
gioielli del non-finito, è uno dei massimi scempi dell’Albania
contemporanea. L’altro è quello dello smaltimento dei rifiuti. In un
paese in cui la metà dei suoi abitanti vive ancora nei villaggi, la
stragrande maggioranza dell’immondizia viene bruciata alla luce del
sole. Ciò poteva ancora essere sostenibile trent’anni fa. Ma oggi,
con un paese invaso dalla plastica in ogni suo anfratto, si stanno
gettando le basi per un disastro ecologico.
A Fier è ancora possibile riconoscere molti tratti della vecchia
Albania. I piccoli chioschi male illuminati, le bancarelle con i tacchini
ancora vivi bene in mostra, i poveri bar in cui si beve raki o caffè alla
turca... “Ti piace l’esotismo,” mi apostrofa la mia editrice Arlinda
Dudaj, smascherando in poche parole quello che Edward Said
avrebbe bollato come pessimo orientalismo. Eppure, pochi chilometri
dopo la fine della città, non posso non rimanere stupefatto davanti a
una vecchia serra di vetro che si estende per qualche ettaro. La
serra è ormai in disuso, ma il vetro è ancora lì, al suo posto: una
cattedrale di ingegneria agricola in mezzo ai campi. A sud, l’Albania
è un susseguirsi di ulivi, non molto dissimile dalla costa al di là del
mare, quella salentina.
Nel corso dell’ultima edizione del Torino Film Festival è stato
presentato Anija (La nave), un film di Roland Sejko che racconta gli
ultimi trent’anni di storia albanese attraverso i viaggi della speranza
verso l’Italia: si partiva proprio dalla costa lungo la quale
discendiamo. Moltissime sono le immagini e le interviste che
ricordano ad esempio i primi sbarchi albanesi a Brindisi, nel marzo
del 1991, cinque mesi prima della arrivo della Vlora nel porto di Bari.
È un film molto bello, quello di Sejko, soprattutto perché fa un
largo uso di vecchi materiali della tv albanese: materiali che ci
permettono di percepire un mondo (la vita sotto la cappa del
totalitarismo, il desiderio di fuggire) oggi scomparso. Ci sono, poi,
delle immagini in bianco e nero che tolgono il fiato. Riprendono un
processo popolare tenutosi a Berat nel gennaio del 1978. Alcuni
ragazzi (“persone degradate nella vita privata e sociale”) vengono
condannati a morte per il solo fatto di amare la musica italiana e aver
organizzato (così almeno dice l’accusa) un viaggio per espatriare.
Penso ai loro sguardi gelati dalla paura, nel momento in cui la
sentenza viene emessa, mentre attraversiamo la periferia di Valona.
Qui la presenza dell’Italia e della lingua italiana sembra essere
ancora forte, più forte che in qualsiasi altra città dell’Albania. Eppure,
anche qui, guardando la costa mutata, le costruzioni sulla scogliera, i
villaggi per i turisti che d’estate provengono dal nord del paese o
dall’altra parte dell’Adriatico, penso che quegli sguardi terrorizzati
siano un reperto archeologico.
Dopo la presentazione del libro, non abbiamo il tempo di
proseguire ulteriormente verso sud, in serata dobbiamo tornare a
Tirana. Peccato... Sollecitato da quanto mi raccontava in macchina
Artan Puto, avrei voluto vedere Ksamil, il punto più a sud
dell’Albania, dieci chilometri dopo Saranda, proprio di fronte all’isola
di Corfù. “Prima,” mi dice Puto, intendendo “ai tempi del regime”,
“c’era un bellissimo giardino di aranci, uno spettacolo della natura e
della mano dell’uomo. Oggi non c’è più: è stato sradicato
dall’industria del turismo, come tante altre cose nella nuova Albania.”
In fondo, penso tra me e me, meglio non averlo visto. Da qualche
parte ho letto che la distruzione di un agrumeto è uno dei peggiori
crimini contro la civiltà. Ma pur sforzandomi, lungo la strada che ci
riporta verso la capitale imbandierata per la festa dell’indipendenza
nazionale, non riesco a ricordare dove.

Ancora sulla rimozione del 1997

Voglio essere più preciso. Di tutte le cose che hanno colpito la mia
attenzione in questo ultimo viaggio albanese, la rimozione della
rivolta del ’97 (cruenta esplosione di violenza che provocò tremila
morti in pochi mesi) è quella che più mi ha stupito. Su tutte le
emittenti televisive albanese, pubbliche e private, mi è capitato
spesso di vedere in questi giorni uno spot propagandistico fatto
realizzare dal governo Berisha. In pochi secondi si ricordano
cent’anni di storia albanese, dall’indipendenza del 1912 ai
festeggiamenti che ci circondano nel 2012. Ci sono tutti i protagonisti
della storia nazionale: perfino Enver Hoxha sembra essere
recuperato nel pantheon (come se noi, nel corso del
centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, avessimo ricordato allo stesso
modo Cavour, Manzoni e Mussolini...). Ampio spazio iconografico
viene dato ai moti contro il regime (con Berisha allora leader delle
opposizioni) e al viaggio della Vlora verso le coste pugliesi. Poi si
salta alle date del nuovo secolo. Nel mezzo, un enorme buco
sembra avvolgere il 1997 e le sue responsabilità politiche. Quasi
fossimo in un libro di Dick, una parte del passato nazionale è stata
risucchiata nel nulla.
Sono passati quindici anni dal 1997, dal crollo delle piramidi
finanziarie e dal caos che ne seguì, un caos che noi percepimmo
unicamente come pericolo di una nuova ondata di sbarchi. In realtà
quei mesi sono un momento chiave per capire la storia albanese
contemporanea. Un paese uscito dal più rigido sistema stalinista
sembrava crollare all’improvviso sotto le illusioni della finanza facile.
Un evento casuale? No, tutt’altro. Vi erano delle precise, radicate
responsabilità politiche. C’erano un governo e un presidente della
repubblica (lo stesso Sali Berisha), spalleggiati da molte ambasciate
occidentali, che avevano esortato la gente comune a investire nelle
finanziarie: quando manifestazioni sempre più oceaniche chiesero
loro di dimettersi, si arroccarono al potere. Di contro, i partiti di
opposizione non si dimostrarono all’altezza degli eventi. La crisi
albanese del ’97 nasce da qui, dall’intreccio tra bizantinismo politico
e sconquasso economico. Dopo la violenta repressione di una
sacrosanta rivolta sociale e politica, l’Albania piombò nel caos e,
specie nel Sud, il controllo fu assunto per alcuni mesi da bande
armate.
A quei mesi, proprio Fatos Lubonja ha dedicato un romanzo,
1997. Apokalipsi i rremë (1997. Una falsa apocalisse, 2010, Marin
Barleti), uno di quei libri che mi sono portato dietro in Albania quasi
fosse una cartina storico-geografica. Non un saggio, non un libro di
memorie, ma un romanzo storico che ruota intorno all’alter ego
Fatos Qorri: un romanzo in cui pagine di diario del protagonista si
alternano a una narrazione in terza persona che tiene conto delle
convulsioni di tutto il paese. Ciò che si racconta nel libro è
drammaticamente vero: l’apocalisse del titolo è negli eventi che si
susseguirono sempre più traumatici. Se suona “falsa”, è perché le
proteste sfuggirono di mano. La rivolta divenne anarchia, e alla fine
una cappa si richiuse gattopardescamente su se stessa, senza che
nulla cambiasse.
Lubonja ebbe allora un ruolo attivo nella società civile. Insieme a
Kurt Kola e Daut Gumeni fu tra i principali animatori del Forum per la
democrazia: un cartello eterogeneo di associazioni, ex perseguitati
politici, semplici oppositori che pretendeva una svolta. Nel nuovo
corso instauratosi intorno a Sali Berisha (ritornato poi al potere
anche nel nuovo secolo) c’era in realtà molto di vecchio.
In una intervista recentemente rilasciata alla rivista albanese
“Mapo”, e tradotta in italiano sul sito “Albanianews”, Lubonja ha
ammesso: “Forse il mio punto di vista era un po’ troppo idealista:
portare a termine nel ’97 ciò che non fummo in grado di fare nel ’91,
abbattere i residui della dittatura da soli, non solo tramite la caduta
del Muro di Berlino”. E ancora: “Io considero quel disfacimento la
pietra miliare di tutto ciò che è avvenuto in seguito: del fatto che
abbiamo una classe politica che pensa solo a se stessa, si
arricchisce, fa tutto ciò che vuole, dove ci sono omicidi, distruzioni,
ricostruzioni, e alla fine nessuno viene punito”.
Al di là dei duri giudizi politici, peraltro pienamente condivisibili,
1997 è un libro capace di restituire un’epoca, e di spiegare quanto di
quel passato obliato è ancora incistato nelle viscere dell’Albania che
corre verso un incerto futuro. In un punto Lubonja scrive a proposito
dei giorni più cruenti di Valona: “Sparavano tutti contro il cielo. Il
maggior pericolo era la follia e il panico delle persone che non
sapevano cosa stava succedendo e cosa sarebbe accaduto loro
l’indomani. Sembrava un evento apocalittico, ma era una falsa
apocalisse. Non avrebbe portato nessuna novità. Avrebbe
semplicemente lasciato le cose com’erano”.
C’è una domanda che mi frulla sempre più nella testa: è possibile
creare le basi per una storia condivisa tra le due sponde
dell’Adriatico? È possibile farlo davvero? Romanzi, racconti e
inchieste che provano a sollevarsi dall’io più minuto, e a guardare al
di là della propria parte, sembrano andare proprio in questa
direzione. Non sono molti forse, ma ci sono. A volte sono le uniche
armi di cui disponiamo contro le truppe della rimozione.
Susan Sontag a Bari

Rovistando tra le carte, ho ritrovato un vecchio articolo di Susan


Sontag, “Why Are We In Kosovo?”, uscito sul “New York Times
Magazine” il 2 maggio del 1999. In quelle settimane si era nel pieno
della guerra del Kosovo: il progetto di pulizia etnica voluto da
Milosevic aveva raggiunto il culmine ed erano iniziati i
bombardamenti della Nato. L’articolo della Sontag, ricordo, venne
pubblicato in italiano anche su “la Repubblica”. Iniziava così: “L’altro
giorno, un’amica di New York mi ha telefonato a Bari, dove mi trovo
per un soggiorno di alcuni mesi; desiderava notizie della mia salute,
e mi ha chiesto tra l’altro se da qui sentivo esplodere le bombe. L’ho
rassicurata spiegandole che il rumore dei bombardamenti su
Belgrado, Novi Sad o Pristina non arriva fino al centro di Bari; anzi,
da qui non si sentono neppure decollare gli aerei dalla vicina base
Nato di Gioia del Colle”.
Susan Sontag in quei mesi era Bari. Ne ho parlato con Paolo
Dilonardo, docente di letteratura angloamericana all’Università degli
Studi di Bari e traduttore di tutte le sue opere uscite in italiano dalla
metà degli anni novanta in poi, che la ospitava durante i suoi lunghi
soggiorni pugliesi. Sontag veniva spesso a Bari, quasi ogni anno
praticamente, fino all’anno prima della morte, avvenuta nel dicembre
del 2004. A Bari si rifugiava per scrivere romanzi, testi più meditati,
per tirarsi fuori dal caos newyorkese. “Nel 1999”, ricorda Dilonardo,
“lavorava al suo ultimo romanzo che sarebbe uscito l’anno
successivo, In America. Anche Davanti al dolore degli altri, uscito
qualche anno dopo, fu scritto in parte a Bari.”
Il ragionamento di Susan Sontag, in quell’articolo idealmente
collegato alle tesi contenute proprio in Davanti al dolore degli altri,
può essere raccolto in queste poche parole: “La verità è che
un’Europa nata per gli affari, costruita con il consenso entusiastico
delle élite ’responsabili’, economiche e professionali, è destinata
precisamente a ritrovarsi incapace di rispondere alla minaccia
costituita da un dittatore come Milosevic. Non è una questione di
’debolezza’, anche se viene percepita come tale. È una questione di
ideologia”.
Fa un certo effetto rileggerle ora, in tempi in cui si assiste alla crisi
dell’Europa economica e all’impossibilità, quasi, di creare un’Europa
politica su basi più solide. Eppure, nelle tragedie degli anni novanta
– tragedie europee, benché classificate come “balcaniche” –
vennero al pettine molti dei nodi oggi ancora saldamente intricati.
Nodi morali, non solo politici. Di fronte al massacro di cittadini inermi
perpetrato da uno stato all’interno dei suoi stessi confini, è lecito
rimanere con le mani in mano? Come si risponde al “male radicale”?
Quali forme di intervento sono lecite e quali no?
A ben vedere, tutti questi temi, saliti alla ribalta proprio dopo la
caduta del Muro di Berlino, in un mondo non più diviso per blocchi,
molto più disordinato e difficile da comprendere, hanno nelle
tragedie dell’Adriatico orientale – dal bombardamento di Dubrovnik
alla pulizia etnica in Kosovo – il loro primo dispiegarsi.
Susan Sontag, fortemente segnata dall’esperienza di Sarajevo,
dove aveva vissuto per diverso tempo durante la guerra, tutto ciò lo
capiva appieno. E si stupiva – ricorda Dilonardo – di quanto poco lo
percepissero gli italiani, appollaiati sull’altra sponda dell’Adriatico a
poche decine di chilometri di distanza. Ovviamente, di fronte alle
mattanze, di fronte alle violenze, spesso il discrimine tra vicinanza e
lontananza è molto soggettivo. Muta a seconda di molti fattori.
Sempre nel suo articolo Sontag scriveva: “È vero che qui non si
sentono decollare gli aerei della Nato dalla loro base pugliese; ma si
può andare a piedi al molo dei traghetti di Bari, dove si assiste al
quotidiano affluire di fiumane di albanesi e kosovari: famiglie che
arrivano con le navi provenienti da Durazzo. Di notte, a un centinaio
di chilometri da Bari si può vedere la Guardia costiera dare la caccia
ai gommoni stipati di profughi illegali che salpano di notte da Valona,
affrontando la perigliosa traversata dell’Adriatico. Ma se uscissi di
casa soltanto per vedere gli amici, mangiare una pizza, andare al
cinema o a sedermi al tavolo di un caffè, qui a Bari non sarei più
vicina alla guerra di quanto lo siano i telegiornali e i quotidiani che
trovo ogni mattina davanti alla mia porta. Come se fossi già tornata a
New York”.
Non ci può essere percezione del dolore degli altri senza aver
prima condiviso almeno una parte della loro storia (o senza, al
contrario, avere prima riscoperto brandelli di storia condivisa).
Altrimenti tutto viene ridotto a esperienza televisiva, a un cumulo di
immagini verso cui ci mostriamo già in parte anestetizzati –
assuefatti come siamo dall’abbondanza del flusso mediatico.
Ricordare tutto questo oggi può apparire anacronistico. Eppure,
per quanto nei paesi dell’Adriatico orientale ci siano giovani
generazioni che guardano avanti, gli strascichi irrisolti delle guerre e
delle crisi degli anni novanta covano ancora sotto la cenere. Forse
un processo di autocoscienza profonda richiederà ancora molti anni.
Il discrimine tra vicinanza e lontananza diviene soggettivo anche in
relazione al tempo, non solo in relazione allo spazio. Tuttavia, solo
nel momento in cui queste vicende (che a lungo sono state percepite
come “internazionali”) non vengono confinate in un asfittico ambito
“locale” tale processo di comprensione può continuare. Sia qui che
lì.
Dilonardo, che della scrittrice americana ha curato anche Nello
stesso tempo. Saggi di letteratura e politica (Mondadori 2008, uscito
postumo), ricorda di aver accompagnato Susan Sontag a Tirana, per
un breve viaggio in Albania in cui incontrò scrittori, giornalisti, politici:
“Conosceva bene la situazione albanese. Era stata varie volte in
Albania. Di una cosa era sorpresa: che conoscessimo molto poco
l’Albania; che non sentisse curiosità da parte nostra, che eravamo
così vicini, nei confronti di questo paese”.
Susan Sontag è stata tra più acuti intellettuali americani della
seconda metà del Novecento e dell’inizio del nuovo secolo (si pensi,
ad esempio, ai suoi interventi dopo l’11 settembre). La sua curiosità
e il suo profondo internazionalismo (parola desueta, ma sempre
efficace, credo) costituiscono ancora una bussola da seguire. Per
continuare a interrogarsi sull’Europa in cui viviamo, sulle sorti
allargate dell’Adriatico (orientale e occidentale) e quindi del sud-est
Europa, sull’intreccio tra locale e globale, presente e passato
prossimo, eredità delle guerre (o del passato totalitario) e sviluppo
economico successivo, fuochi nazionalisti e nuove élite, vecchie e
giovani generazioni, corruzione e crisi della politica, confini da
attraversare e muri da abbattere. Ancora da abbattere. Questo
compito è lasciato a chiunque abbia il coraggio e la sensibilità di
farsene carico.
Ringraziamenti

Gli articoli raccolti in questo eBook sono usciti sul “Corriere del
Mezzogiorno” tra il 25 ottobre e il 6 dicembre 2012. Ringrazio
Maddalena Tulanti e Fabrizio Versienti per avermi esortato a
scriverli. Il reportage In Albania verrà pubblicato in tale versione sul
numero 114 della rivista “Lettera internazionale”, in uscita alla fine di
gennaio 2013 e interamente dedicato all’Adriatico e ai Balcani, con
scritti, tra gli altri, di Predrag Matvejević, Slavenka Drakulić, Jurica
Pavičić, Fatos Lubonja, Franco Botta, Italo Garzia, Chiara Zamboni.
Ringrazio il direttore Biancamaria Bruno per aver concesso la sua
pubblicazione.
Alessandro Leogrande (Taranto 1977) è vicedirettore del mensile
“Lo straniero”. Cura una rubrica settimanale sul “Corriere del
Mezzogiorno” e collabora con quotidiani e riviste. Dopo l’esordio con
Un mare nascosto (L’ancora del Mediterraneo 2000), un’inchiesta
sulla sua città d’origine, stretta fra crisi industriale, inquinamento e
ascesa del telepredicatore Giancarlo Cito, Alessandro Leogrande ha
raccontato con reportage narrativi le nuove mafie, i movimenti di
protesta, lo sfruttamento dei braccianti stranieri nelle campagne: Le
male vite. Storie di contrabbando e di multinazionali (L’ancora del
Mediterraneo 2003; nuova edizione Fandango 2010); Nel paese dei
vicerè. L’Italia tra pace e guerra(L’ancora del Mediterraneo 2006);
Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del
Sud(Mondadori 2008, con cui ha vinto il Premio Napoli – Libro
dell’Anno, il Premio della Resistenza Città di Omegna, il Premio
Sandro Onofri, il Premio Biblioteche di Roma). Ha curato le antologie
Nel Sud senza bussola. Venti voci per ritrovare l’orientamento
(L’ancora del Mediterraneo 2002, insieme a Goffredo Fofi), Ogni
maledetta domenica. Otto storie di calcio(minimum fax 2010) e, per
Feltrinelli, Il naufragio (2011, con cui ha vinto i premi Volponi e
Kapuściński).
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione nella collana “Zoom” dicembre 2012

ISBN: 9788858851043
INDICE

Tra due sponde

In Slovenia

In Croazia

In Montenegro

In Albania

Leggere Böll a Tirana

In viaggio verso sud

Ancora sulla rimozione del 1997

Susan Sontag a Bari

Ringraziamenti

L’autore

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