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Indice

CAPITOLO 1
Lo specchio e l’ossimoro pag. 7
1.1 Lo specchio e l’ossimoro » 9
1.2 Exemplum et Imago Dei » 11
1.3 Prospettiva e anamorfosi » 11
1.4 Discordia concors: il campo retorico dell’ossimoro » 24

CAPITOLO 2
Il corpo dell’ossimoro: Titus Andronicus » 31
2.1 Llo specchio di Roma » 33
2.2 “O cruel, irreligious piety” » 38
2.3 Le forme della vendetta » 47
2.4 Lavinia e Tamora » 54
2.5 Alterità e specularità » 63
2.5 Il corpo dell’ossimoro » 67

CAPITOLO 3
L’enigma del riflesso: Richard II » 75
3.1 Ordine e teatro » 77
3.2 Richard II » 81
3.3 La corona e il teschio » 87
3.4 Lo specchio in scena » 91

CAPITOLO 4
La messinscena dell’interiorità: Hamlet » 101
4.1. “To be” and “not to be”: il non-essere del soggetto » 103
4.2. “Seems! Nay, it is”: fra essere e apparire » 106
4.3. “A crafty madness”: lo specchio di una verità » 111
4.4. “O, horrible! Most horrible”: sguardi nello specchio » 123

Bibliografia » 131

Indice dei nomi » 149


One face, one voice, one habit, and two persons!
A natural perspective, that is, and is not.
(W. Shakespeare, Twelfth Night, 5. 1. 208-9)

Con tanti specchi, quante son le stelle in cielo,


la verità dimostra.
(G. Bruno, Spaccio de la Bestia trionfante)

1.1. Lo specchio e l’ossimoro

Specchio e ossimoro afferiscono a due differenti ordini di


discorso. L’uno è l’oggetto che ha trasmesso metaforicamente,
nella letteratura, nelle arti visive e nella filosofia, sia un’idea di
esemplarità e di ammonimento morale, sia – ed è la sua valen-
za più moderna – il rapporto tra interiorità ed esteriorità di un
soggetto che si interroga sulla propria identità. L’altro è la figura
retorica che unisce due significati opposti, consentendo loro di
mantenere intatta la reciproca conflittualità semantica. Vi è un
momento nella storia della cultura, che per l’Inghilterra coinci-
de con la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, in cui tra
lo specchio e l’ossimoro si determina un avvicinamento logico
e figurale. È il momento in cui alla metafora del rispecchiamen-
to si sovrappone la materialità dell’oggetto in cui ci si guarda. È
il momento in cui lo specchio, come oggetto materiale e come
metafora, riflette un’immagine specifica o crea lo spazio illuso-
rio di una molteplicità di punti di vista, la compresenza di piani
diversi di realtà. All’interno di questo perimetro, l’elemento di
convergenza tra specchio e ossimoro è dato dalla dualità che
definisce tanto la natura del meccanismo speculare (originale e
riflesso), quanto quella del meccanismo ossimorico (una cosa e
il suo contrario). Su un piano più astratto (seppur con effetti e
scopi diversi), specchio e ossimoro rimandano entrambi a una
dialettica tra concetti di contiguità e opposizione. Nello spec-
chio, l’immagine riflessa ripete l’originale e lo inverte, creando
un ‘doppio differente’, appunto l’esempio concreto di cosa sia
10 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

l’ossimoro, che produce linguisticamente ciò che lo specchio


crea figurativamente e visualmente: una convergenza concet-
tuale tra contrari posti in relazione simmetrica e analogica.
Il motivo per cui in questo studio si esploreranno le signi-
ficazioni che specchio e ossimoro assumono in alcune ope-
re del corpus shakespeariano risiede nel convincimento che
essi esprimano particolari figure della transizione dal sistema
simbolico di matrice medievale, ancora pervasivo nel Rina-
scimento, a quello della modernità, che si conclama alla fi-
ne del secolo XVII1. L’azione drammatica, la caratterizzazione
dei personaggi, i registri espressivi, la struttura stessa delle
opere di Shakespeare, da un lato riattualizzano convenzioni
consolidate, dall’altro le decostruiscono, ancora più spesso
sovrappongono vecchio e nuovo in un rapporto di compre-
senza dialettica. Ciò presuppone un graduale slittamento della
metafora dello specchio dai suoi riferimenti abituali: a poco
a poco lo specchio comincia a riflettere non più una identi-
tà (traslata, idealizzata, modellizzata), ma una differenza, cui
si accompagna la contemporanea accentuazione di senso da
parte delle strutture retoriche del linguaggio che assurgono
a figure del discorso, figure di riorganizzazione concettuale
più che di ornamento elocutorio. Nello spazio immaginario
ed estetico della drammaturgia shakespeariana, i frammenti
dell’ordine simbolico in disfacimento convivono con i sintomi
dell’emergenza di qualcosa che rimane per lo più senza nome
nelle sue opere e che rimanda alla formazione di una nuova

1
Uno dei lavori più influenti sui passaggi tra epoche storiche e sui processi che
li determinano è senz’altro Les mots et les choses di Michel Foucault, il cui oggetto
è l’episteme della cultura occidentale, riguardo alla quale egli individua tre seg-
menti di lungo periodo (Rinascimento, Età classica e Modernità), con cesure che si
posizionano all’altezza della fine del XVII secolo e dell’inizio del XIX. La frattura
che maggiormente interessa l’ambito di cui stiamo qui discutendo è quella che
sancisce il tramonto dell’episteme rinascimentale. Cfr. M. Foucault, Les mots et les
choses, Paris, Éditions Gallimard, 1966, [trad. it.] Le parole e le cose. Un’archeologia
delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 2001, p. 12.
Lo specchio e l’ossimoro 11

cognitività, in cui visualità e parola si contendono il primato


espressivo.
Ma partiamo dalle significazioni connesse allo specchio
e alla specularità; toccheremo poi la questione degli usi che
Shakespeare ne fa e quella del campo retorico che disegna nei
suoi drammi.

1.2. Exemplum et imago Dei

Lo specchio in quanto oggetto ha da sempre veicolato, si di-


ceva, la complessa questione del rapporto tra il dentro e il fuori
del soggetto. La storia delle sue valenze metaforiche e degli usi
letterari, pittorici o filosofici è antichissima, persino più antica
della sua ‘invenzione’ materiale: “Sarebbe scorretto parlare di
un tempo precedente e di uno seguente all’invenzione dello
specchio poiché, fin dalla preistoria, l’uomo si è interessato
alla propria immagine e ha utilizzato ogni sorta di espediente,
pietre scure o levigate o pozze d’acqua, per osservare il proprio
riflesso. I miti di Narciso e di Perseo sono la prova di tale cu-
riosità di fronte alle superfici riflettenti”2. Questa curiosità per la
propria immagine si inscrive nel processo di formazione del sé
rispetto al mondo, processo nel quale intervengono, secondo
Lacan, meccanismi di identificazione ed estraniamento attivati
proprio della scoperta della propria immagine esteriore, l’im-
magine di un Altro che è contemporaneamente il Sé3. Una re-

2
S. Melchior-Bonnet, Histoire du Miroir, Paris, Éditions IMAGO, 1994, [trad. it.]
Storia dello specchio, Bari, Edizioni Dedalo, 2002, p. 21.
3
Lacan individua nella scoperta da parte del bambino della propria immagine
riflessa una tappa fondamentale della percezione di sé come un’unità. Tuttavia,
sottolinea Lacan, l’unità è acquisita attraverso una contemporanea dislocazione:
il soggetto, nell’identificarsi con la propria immagine si identifica con un Altro,
che nella proiezione visuale pone fine al senso di smembramento corporeo che
il soggetto avverte dall’interno. La forma del Sé paradossalmente si conquista al
prezzo di un decentramento. Cfr. J. Lacan, Le Stade du Miroir comme formateur
de la fonction du je, in «Revue française de psychanalyse», 13.4 (1949), pp. 449-
455, [trad. it.] Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io (1936,
12 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

lazione sfaccettata, complessa sino ai limiti della indecifrabilità:


“A partire dai territori del mito greco, l’enigma dello specchio
sarà […] l’enigma dell’Altro e dello Stesso, l’enigma dell’identità
e della differenza, il luogo in cui si genera la tensione istitutrice
del simbolo”4. Il pensiero e la letteratura occidentali sono intrisi
di metafore sulla specularità nelle quali, dalle origini e per lun-
go tempo, il rapporto dell’essere umano con il proprio riflesso
risulta triangolato da un elemento terzo, ossia il divino nelle
sue progressive specificazioni: “Tutti i riferimenti allo specchio
fino all’età barocca inviteranno al superamento delle apparenze
sensibili e al discernimento delle illusioni in vista del raggiun-
gimento della luce dello specchio puro. Non si deve gettare
discredito sul mondo sensibile: quest’ultimo però rimane un
riflesso di un’altra realtà; ogni creazione ha la propria origine
nello specchio di Dio”5. In epoca premoderna, lo specchio di-
viene uno strumento di conoscenza nel senso indicato dalle
Sacre Scritture, dal neoplatonismo e dalla patristica. La verità
assoluta rappresentata dal Dio giudaico-cristiano è l’originale
che irradia la sua luce verso l’umano secondo gradi discendenti
di perfezione. Dio e uomo sono collegati da un rapporto che
ricorda quello tra l’originale e la sua copia speculare, rapporto
che implica una dipendenza ontologica basata, da un lato, sulla
somiglianza (l’uomo è fatto a immagine di Dio) e, dall’altro, sul-
la indiscutibilità della posizione del divino. È grazie all’origina-
le/Dio che la copia può esistere come riflesso, o come riflesso
del riflesso, lungo una scala gerarchica che degrada verso la
densa e buia materia.
Da ciò deriva una forma di conoscenza in cui all’umano
è concesso un ruolo di passività declinata secondo i principi
dell’analogia e dell’imitatio e improntata alla ricerca dell’esempio

1949), in Scritti, Torino, Einaudi, 1974, pp. 87-94.


4
A. Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia sim-
bolica, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 22-23.
5
Melchior-Bonnet, op. cit., pp. 133-134.
Lo specchio e l’ossimoro 13

morale: “Poiché il peccato ha oscurato lo specchio, ciascuno


deve guardare il modello divino per ritornare alle sembianze
perdute”6. Per lunga tradizione, infatti, lo specchio era stato
assunto a emblema di esemplarità, in modo diretto, con il
richiamo ai grandi exempla di integrità, perfezione e bellezza,
maschile e femminile; o inverso, quale attributo iconografico
della Vanitas, in grado di rimandare l’immagine di ciò che
dovremmo o vorremmo essere, smascherando la vacuità del
peccato: proprio l’accezione con cui compare nei titoli di
molteplici libri (i vari specula e speculum) di istruzione morale.
D’altro canto, in chiave più secolarizzata ma non meno didattica,
e soprattutto in seguito al dibattito sulle qualità del giovane
nobile – in Inghilterra animato da umanisti quali Thomas Elyot,
Thomas Hoby e Roger Ascham7 –, lo specchio è invocato con
l’accezione di exemplum delle virtù morali ma anche sociali
dell’aristocratico. La corrispondenza fra dentro e fuori, che gli
specchi ammonitori presumono e predicano, si riverbera infine
nelle relazioni affettive secondo uno schema di reciprocità:
“Il vero specchio, fedele, costante, vivo, è l’amante o l’amico,
che offre il proprio occhio e la propria anima quale specchio
in cui riflettersi […]. Ci si può conoscere solo perché vi è

6
Ibid., p. 130.
7
Thomas Elyot, Thomas Hoby e Roger Ascham avevano contribuito al dibattito
sull’educazione di principi e cortigiani rispettivamente con The Book Named the
Governour (1531), la traduzione de Il Cortegiano (1513) di Baldassar Castiglione,
e The Schoolmaster (1570). Mi sembra interessante riportare un brano da The
Courtier (1561), nel quale la parola ‘specchio’ è utilizzata proprio con la valenza di
exemplum nel senso di fashioning, un modello di virtù sociale: “To yonge Gentle-
men, an encouraging to garnishe their minde with morall vertues, and their bodye
with comely exercises, and both the one and the other with honest qualities to
attaine unto their noble ende: To Ladyes and Gentlewomen, a mirrour to decke
and trimme themselves with vertuous conditions, comely behaviours and honest
enterteinment toward al men: And to them all in general, a storehouse of most
necessary implements for the conversation, use, and training up of mans life with
Courtly demeaners”. T. Hoby, The Book of the Courtier (1561), London, David Nutt,
1900, p. 16.
14 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

somiglianza”8. Non solo l’amico, dunque, ma l’amata, celebrata


nella figura della donna cortese e idealizzata soprattutto dal
sonetto di ispirazione petrarchesca: “In accordance with the
Petrarchan tradition in love-poetry, the verses written by the
poet-lover reflect the virtuous beauty of his beloved, and the
superiority of the mirror-image that results derives entirely
from the elevated status of the original that is reflected […]”9.
In definitiva, lo specchio sembra più che uno strumento
di conoscenza del sé, un mezzo di individuazione del pro-
prio posto nel mondo, capace di captare, proprio come un
dispositivo ottico, la rete dei significati che determinano la
giustezza dei valori, la moralità dei comportamenti e la liceità
delle azioni.
A rinsaldare questa concezione interviene quella che, in
ambito inglese, E.M.W. Tillyard ha formalizzato come world
picture elisabettiana, ossia un sistema di matrice medievale co-
stituito da ‘catene’ gerarchiche e da corrispondenze, di chiara
ascendenza neoplatonica, tra micro e macrocosmo. Una con-
catenazione che agisce sia verticalmente sia orizzontalmente,
nel senso che i vertici di ogni serie di sotto-ordini sono a loro
volta concettualmente e discorsivamente correlati. Fra i ter-
mini disposti sul piano sintagmatico, orizzontale, sussiste un
rapporto di similitudine e/o di equivalenza simbolica; i termi-
ni opposti della scala, quelli cioè dislocati verticalmente, sul

8
Melchior-Bonnet, op. cit., pp. 126, 132.
9
H. Grabes, Mirror und Looking-glass: Kontinuität und Originalität der Spie-
gelmetapher in den Buchtiteln des Mittelalters und der englischen Literatur, Tübin-
gen, Max Niemeyer Verlag, 1973, [trad. ingl.] The Mutable Glass. Mirror-imagery in
titles and texts of the Middle Ages and English Renaissance, Cambridge, Cambridge
University Press, 1982, p. 97. L’elaborazione dei dati forniti da Herbert Grabes in
questo suo studio consente di tracciare un diagramma di ‘gradimento’ della figura
dello specchio dal Medioevo fino quasi alle soglie del Settecento. All’interno di
tale percorso, proprio nel Rinascimento si registra un picco di frequenza nel suo
utilizzo e un marcato processo di condensazione semantica. In Inghilterra, è nel
Rinascimento che la metafora dello specchio acquisisce una nuova complessità,
combinando vecchi e nuovi tropi.
Lo specchio e l’ossimoro 15

piano paradigmatico, si trovano invece in un rapporto oppo-


sitivo, di antinomia10. Marcello Pagnini ha ricondotto questo
fitto sistema di equivalenze a un paradigma di specularità che,
stavolta non sul piano metaforico della imagery ma su quello
strutturale, attraversa la letteratura dell’epoca e soprattutto i
drammi di Shakespeare. La specularità, in questo caso, inte-
ressa proprio la relazione tra cose e persone e, parafrasando
Foucault, tra parole e cose:

[I]n sostanza si può parlare di un fascio di serie di rapporti vertica-


li che dalla più infima e inerte materia salgono per gradi a Dio; e
di infinite serie di rapporti orizzontali che pongono gli elementi di
ogni serie verticale in naturale opposizione – come, ad esempio, il
Sole, che è il vertice della catena tellurico-siderale, viene a trovarsi in
equivalenza con Dio, che è all’apice della catena dell’intero cosmo, o
con il monarca, che è il vertice del corpo politico, o con l’oro che è
il metallo supremo della serie minerale; così come vengono a trovarsi
in rapporto sinonimico, ai gradi infimi, diciamo il fango, il serpente,
Satana, e via dicendo; o in rapporto antinomico il cielo e la terra, Dio
e Satana, l’acqua e il fuoco11.

Lo specchio, allora, oltre a rappresentare lo strumento che


al penitente rivela o il tratto di rettitudine che lo rende riflesso
di Dio oppure la colpa che lo allontana dalla Verità, è proprio
il simbolo dell’episteme medievale-rinascimentale: ogni cosa è
posta in relazione alle altre secondo un rapporto di identità o
opposizione stabilito da un’essenza che è dentro le cose stes-
se12. La corrispondenza speculare traccia una rete simbolica in
cui tutto è il riflesso di qualcos’altro, in cui i recessi dell’anima

10
E.M.W. Tillyard, The Elizabethan World Picture (1943), Harmondsworth, Pen-
guin, 1988. Tillyard riprende lo studio di Arthur O. Lovejoy, che per primo aveva
parlato di ‘grande catena dell’Essere’. Cfr. A.O. Lovejoy, The Great Chain of Being,
Cambridge, Cambridge University Press, 1936.
11
M. Pagnini, Shakespeare e il paradigma della specularità, Pisa, Pacini, 1976,
pp. 125-126.
12
Foucault, op. cit., p. 51.
16 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

e l’apparenza sensibile, il dentro e il fuori, il macrocosmo e il


microcosmo, devono guardarsi e comporsi.

1.3. Prospettiva e anamorfosi

Le funzioni rappresentative dello specchio finora descritte


fanno riferimento agli aspetti medievali che ancora resistono
nel Rinascimento, aspetti costruiti su base teologica e sostenuti
dai centri di potere ecclesiastici e secolari. La passività del sog-
getto, che ne è il corollario, è postulata dalle teorie della co-
noscenza di matrice religiosa – per cui conoscere il Logos-Dio
significa annullarsi abbracciando la salvezza della trascendenza
– e finisce per diventare la modalità discorsiva che prescrive e
normalizza una condizione di sudditanza politica, esistenziale
e ontologica:

To know God was not to master an object of knowledge, but to ap-


prehend a meaning which was also truth. […] and fully to know God
was not to differentiate oneself from the objects of knowledge but,
on the contrary, to become absorbed in total presence, to be trans-
formed and ultimately dissolved […]. Knowledge was also practice,
uniting meaning and being in submission to the discourse and the
discipline of salvation. It was thus absorption into the institution of
the church and the body of the faithful. Knowledge was released into
dispossession13.

Da questa stessa matrice di conoscenza, però, scaturisce e


arriva a maturazione – a fine Cinquecento – un contro-discorso
che trova le sue radici in quella pratica esegetica necessaria
per scovare le corrispondenze più sofisticate, per rinvenire nel
‘libro della natura’ i significati, le analogie e i nessi, che sono
espressione della volontà di Dio e che, sotto lo sguardo re-

13
C. Belsey, The Subject of Tragedy. Identity and Difference in Renaissance
Drama, London and New York, Methuen, 1985, p. 56.
Lo specchio e l’ossimoro 17

golatore della Chiesa cattolica, erano stati funzionali all’ordine


simbolico: “Tali relazioni davano al mistico e al poeta la possi-
bilità di riconoscere numerose similitudini e allegorie; le quali
venivano anche ricavate in grazia dell’altra concezione della
Natura come specchio materiale di corrispondenze spirituali
(visibile vs invisibile) decodificabile mediante la scrittura nella
prospettiva ermeneutica dei Padri”14. Un immenso serbatoio di
equivalenze e corrispondenze che il letterato, o lo studioso,
poteva liberamente elaborare, muovendosi in un contesto in
cui l’acquisizione della conoscenza, come già accennato, era
regolata dal principio della somiglianza, dell’analogia, dell’imi-
tatio di un ordine dato.
A tale forma mentis, però, progressivamente si affianca e
si sovrappone una diversa attitudine, volta all’indagine e alla
ricerca, una sorta di empirismo ante litteram sviluppatosi come
evoluzione dell’esegesi della natura, ma nel quale un ruolo non
marginale giocano la Riforma Protestante e le controversie sulla
corretta interpretazione delle Sacre Scritture, nell’ambito del-
la quale si affinano specifici approcci e procedimenti euristici
filologici e retorici15. È in questo modo che al soggetto viene
gradualmente conferito il potere di formulare delle ipotesi al di
fuori del perimetro conoscitivo tracciato dalla teologia: “[T]he
ideological and institutional uncertainties which immediately
followed the breakdown of control by the Catholic church of-
fered a space in which empirical knowledge, not apparently in
conflict with either Catholic or Protestant orthodoxy, was devel-
oped and modified to the point where experience was finally
to supplant discourse as the source of truth”16. La coincidenza

14
Pagnini, op. cit., p. 126.
15
Cfr. L. Innocenti, Modalità del visibile e modalità dell’udibile nella poesia re-
ligiosa del Seicento inglese, in Rites of Passage: Rational/Irrational, Natural/Super-
natural, Local/Global, Atti del XX Convegno Nazionale dell’Associazione Italiana
di Anglistica (Catania-Ragusa, 4-6 ottobre 2001), a cura di C. Nocera - G. Persico
- R. Portale, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 13.
16
Belsey, op. cit., p. 65.
18 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

nel Logos tra oggetto e soggetto decade – “The subject is


now defined as that which knows, in contradistinction to
that which is known” –, ma soprattutto comincia un’epoca
in cui “[T]he promise of salvation is also addressed to em-
pirical knowledge but, then as now, more evasively met. (Or
perhaps more plurally met, since now the promise held out
to the social body by empirical knowledge is alternatively
the mastery of nature, imperial power, boundless economic
growth or mutually assured destruction)”17. In breve, si avvia
il processo che avrebbe portato alla formazione di quello
che Belsey definisce il soggetto liberal-umanista, il soggetto
borghese protagonista della modernità, “unified, knowing
and autonomous”18.
Se il vecchio ordine era rappresentato dallo specchio,
il nuovo è espresso dalla metafora dell’anatomia, assurta
a simbolo di un atteggiamento conoscitivo che scarnifica,
scava sotto la superficie, smembra le parti di un Tutto fino
ad allora intangibile:
Si potrebbe vedere […] nelle due metafore dello ‘specchio’ e del-
l’‘anatomia’, da una parte la costanza e la continuità del gusto per
l’allegoria e per il linguaggio figurato, dall’altra una variazione di
atteggiamento con l’avanzar degli anni. Prima lo specchio, ossia
una rappresentazione obiettiva di fatti in cui il lettore possa ritro-
varsi a trarne ammonimento ed edificazione. Poi l’anatomia, ossia
non più l’accettazione di modelli e di esempi posti sotto i suoi
occhi senza discuterne la validità, ma l’indagine precisa, la disse-
zione di quegli stessi fatti per scoprirne la natura. Non si tratta
più di accettare principi fissati dogmaticamente, ma di esaminarli

17
Ibidem.
18
Ibid., p. 8. Utilizzo la terminologia di Belsey con la cautela che richiede la
consapevolezza della illusorietà dello statuto di unitarietà riferito dalla studiosa
al soggetto moderno dei secoli XVIII, XIX e XX; un tema che esula dall’ambito
specifico di questo saggio. Quel che preme sottolineare qui è la differenza tra il
soggetto rinascimentale, diviso fra istanze medievali e premoderne, e il soggetto
del Settecento, ormai entrato all’interno di nuove coordinate epistemiche.
Lo specchio e l’ossimoro 19

e discuterli, per cercare di comprenderli. La superficie polita dello


specchio era infranta: si doveva cercare ben più addentro19.
Lo specchio si infrange a fine Cinquecento e le sue schegge
vengono ricomposte in un diverso ordine epistemico nella se-
conda metà del Seicento, facendosi portatrici di punti di vista,
prospettive, declinazioni del pensiero che lo studioso, il lette-
rato e l’artista attivano attraverso processi analitici. Si potrebbe
anche dire che per il soggetto si passa dalla posizione di spec-
chio riflettente dell’ordine costituito alla posizione di individuo
che usa lo specchio come strumento di indagine, passaggio nel
quale, oltre a motivazioni di carattere interno (la trasformazio-
ne dell’esegesi in empirismo), intervengono molteplici influen-
ze esterne: Copernico, Machiavelli, Montaigne, Lutero, aprono
la strada a inattese frontiere del pensiero, in cosmologia, politi-
ca, filosofia, teologia. La morfologia del sapere si allarga paral-
lelamente alla morfologia della Terra e del cosmo: le scoperte
geografiche modificano la percezione dello spazio, imponendo
la necessità di ridefinire la posizione e l’identità dell’Europeo
rispetto ai nuovi mondi e, in senso più generale, dell’essere
umano rispetto al Globo.
Un’analoga corrispondenza si verifica tra cosmologia e filo-
sofia: a partire dalla rivoluzione copernicana di cui sarà tenace
assertore Galileo Galilei, si delinea un percorso scientifico che
trova la sua controparte filosofica nelle teorie sull’universo in-
finito e infinitamente popolato di ‘mondi’ proclamate da Gior-
dano Bruno. La speculazione filosofica reclama l’estensione dei
confini del pensiero, i cui territori vengono ridisegnati anche
da nuove o rinnovate pratiche, quali la cartografia e lo studio
del passato storico come eredità culturale da gestire in vista del
nascente ‘istinto’ colonialista. Così, per esempio, la cartografia
condotta con strumenti tecnologici e improntata alla matema-

19
G. Melchiori, Introduzione a J. Donne, Liriche sacre e profane: Anatomia del
mondo; Duello della morte, Milano, Mondadori, 1983, pp. xxix-xxx.
20 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

tizzazione dei territori inaugura l’attitudine a pensare in termini


di spazio astratto e a porsi di fronte al mondo come di fronte
a una mappa, cioè da una distanza che rende oggetto ciò che
è guardato, lo stesso punto di osservazione dell’anatomista ri-
spetto al corpo umano (non a caso spesso descritto come un
luogo geografico)20.
All’interno dell’immenso paradigma della visualità, costituti-
vo della cognitività Rinascimentale, un capitolo non seconda-
rio è occupato dalla sperimentazione ottica e dalle tecniche di
costruzione e rappresentazione pittorica e architettonica dello
spazio, che problematizzano ulteriormente la posizione di chi
guarda e di chi è guardato. La prospettiva lineare – codificata
da Brunelleschi e dall’Italia diffusasi in tutta Europa – aveva
contribuito a naturalizzare l’artificiosità delle figurazioni simbo-
liche medievali, costruendo lo spazio visivo intorno a un unico
punto di fuga, centrale e opposto specularmente all’osserva-
tore: “Più la prospettiva conduce un discorso di naturalezza
prospettica, più dimostra ‘scientificamente’ l’unicità del punto
di osservazione e l’unicità del punto di fuga, più dichiara la

20
Philip Armstrong inquadra così la portata della rivoluzione cartografica e
cosmologica: “[W]ith the displacement of the medieval religious cosmology, with
‘man’ at its centre under the gaze of God, comes the installation of the new subject
[…] who takes ‘his’ bearings from an astronomical cosmos centred on the sun,
and which places the earth under a powerful gaze of ‘his own’”. P. Armstrong,
Spheres of Influence: Cartography and the Gaze in Shakespeare’s Roman Plays,
in Shakespeare’s Tragedies, ed. by S. Zimmerman, New York, St. Martin’s Press,
1998, p. 70. Per le nuove concezioni spaziali si vedano invece, B. Klein, Maps and
the Writing of Space in Early Modern England and Ireland, New York, Palgrave,
2001; D.K. Smith, The Cartographic Imagination in Early Modern England. Re-
Writing the World in Marlowe, Spenser, Raleigh and Marvell, Burlington, Ashgate,
2008; D. Turnbull, Cartography and Science in Early Modern Europe: Mapping
the Construction of Knowledge Spaces, in «Imago Mundi», 48 (1996), pp. 5-24.
Per una discussione sull’anatomia e sulla sua influenza nell’ambito letterario
dell’epoca si rimanda alla lettura di M. Del Sapio Garbero, Anatomy, Knowledge
and Conspiracy: in Shakespeare’s Arena with the Words of Cassius, in Questioning
Bodies in Shakespeare’s Rome, ed. by M. Del Sapio Garbero - N. Isenberg - M.
Pennacchia, Goettingen, V&R Unipress, 2010, pp. 33-56; U. Bern, Performing
Anatomy in Shakespeare’s Julius Caesar, in Ibid., pp. 95-108.
Lo specchio e l’ossimoro 21

difficoltà di veder dietro, di sbirciare la deformazione di ciò che


sta alla periferia dell’individuo centrale”21.
L’inattaccabilità della prospettiva centrale, però, è presto
messa in discussione, anzi relativizzata dall’invenzione, a opera
di Leonardo, dell’anamorfosi, che consiste nella deformazione
del piano prospettico allo scopo di creare una figura visibile
unicamente da un punto di fuga marginale: “Nel gioco ana-
morfico si creano comunque le condizioni del relativismo, le
coordinate di una […] epistemologia decentrata, come nell’u-
niverso copernicano, quindi indefinitamente decentrabile per
la fuga dei punti di vista e dei punti di fuga”22. Se, come sugge-
risce Brusatin, “Per il principe lo spazio prospettico è lo spazio
dove la volontà di potenza può essere riguardata e misurata”23,
nell’anamorfosi può essere individuato lo strumento della sua
decostruzione. Con l’anamorfosi si esperisce la possibilità di
un doppio (e potenzialmente plurimo) punto di vista (in sen-
so letterale oltre che figurato) e ciò segna un’ulteriore tappa
nel processo di profonda trasformazione epistemica che, se da
un lato conferma la nascita di un soggetto conoscitore attivo,
dall’altro sfocia in una crisi irreversibile del modello ermeneu-
tico:

Con la scoperta della prospettiva centrale, il Rinascimento riconcet-


tualizzava la nuova visione del mondo col porre al centro, per la pri-
ma volta, lo sguardo unitario e totalizzante di un individuo, punto di
vista relativo al tempo stesso. […] [T]ra quindicesimo e diciassettesimo
secolo la cultura visiva europea fu sottoposta a shock senza prece-
denti: la distanza tra vero e falso e la presenza di continui paradossi

21
M. Brusatin, Voce: Disegno/progetto, in Enciclopedia, vol. 4, Torino, Einaudi,
1978, p. 1110, cit. in A. Serpieri, Retorica e immaginario, Parma, Pratiche, 1986, p.
150. È interessante notare come parte del map-making tardorinascimentale sfrutti
la stessa prospettiva centralista, ma con uno scopo del tutto opposto, ossia quello
di denaturalizzare lo spazio e di distanziarlo dal soggetto, in modo da presentarlo
come un ‘vuoto’ astratto e bidimensionale da colonizzare.
22
Serpieri, Retorica e immaginario, cit., p. 151.
23
Brusatin, cit. in Ibid., p. 150.
22 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

visivi minarono alla radice la fiducia del soggetto che ciò che vedeva
fosse la realtà24.
Fra Cinque e Seicento, lo specchio svolge una funzione
importante nell’ambito degli esperimenti di ottica; parimenti
lo troviamo impiegato in numerosi giochi prospettici in voga
all’epoca, come i cabinets di specchi, che presentano la stessa
figura da diversi punti di vista, oppure i disegni catottrici, in cui
è affidata a una superficie riflettente la funzione di ricomporre
un’immagine disgiunta25. A questo proposito, Herbert Grabes
suggerisce che: “[T]he perspective-cabinets of the sixteenth-
century savants expressed a new consciousness of subjectivity
and of the problem of appearance and reality: the multiple ima-
ges of one original correspond to the multiplicity of subjective
interpretations of a phenomenon – and if human cognition and
judgment are merely subjective, the separation of appearance
from reality becomes problematical”26. L’apparenza si svincola
dalla realtà, il riflesso perde la corrispondenza con l’originale,
ed è a questo punto che, in letteratura, a livello figurale, lo
specchio si associa a nuove significazioni, a una conoscenza
che non si rivela per analogia ma per differenza, rimandando
un’immagine enigmatica, forse ingannevole, forse rivelatrice di
una verità (non più della Verità). La diffusione di specchi di ve-
tro, dalla superficie più liscia e nitida27, paradossalmente, con-

24
C. Mucci, I corpi di Elisabetta. Sessualità, potere e poetica della cultura al
tempo di Shakespeare, Pisa, Pacini, 2009, p. 146.
25
Una accurata descrizione di come funzionassero i giochi ottici e di come la
letteratura li trasformasse in omologhi giochi verbali è contenuta in A. Schickman,
The “Perspective Glass” in Shakespeare’s Richard II, in «Studies in English Litera-
ture, 1500-1900», 18.2 (1978), pp. 217-228.
26
Grabes, op. cit., p. 113.
27
Le tecniche di realizzazione degli specchi di vetro si erano perfezionate in
Europa (nella Lorena e a Venezia) a partire dalla fine del Quattrocento, consen-
tendo una visione più limpida rispetto ai comuni specchi di metallo largamente
usati già da molti secoli. Riguardo all’Inghilterra, A.F. Kinney scrive: “Mirrors […]
became commonplace in England during the early Tudor period, and were thus
known both to spectators in the galleries and in the yard at the curtain and the
Lo specchio e l’ossimoro 23

sente l’individuazione di sé, ma di un sé che non si riconosce,


che deve essere interpretato, ricomposto, studiato, che forse ha
bisogno di una prospettiva obliqua per essere realmente colto:

Tutto ciò rientra nella sensibilità tardorinascimentale, manieristica, e


poi barocca, in cui nasce il relativismo moderno ed emerge la poetica
dell’illusorio, per autoriflessione della rappresentazione disancorata
dal rigido sistema medievale e poi rinascimentale delle somiglianze e
del senso ontologico di tutti i comparti del reale. La vita è sempre più
illusione, teatro, sogno. Essere e sembrare si scambiano indefinita-
mente le parti, e non più tanto, secondo la lezione platonica, in senso
verticale-idealistico, quanto in senso orizzontale empirico28.

L’altra faccia della medaglia del processo di smantellamento


degli aspetti residuali del Medioevo, allora, è lo smarrimento
dinanzi a orizzonti conoscitivi che affinano e allo stesso tem-
po mettono in discussione la percezione della realtà. La dua-

theatre, and later at the Globe. Largely imported from Venice and Antwerp, glass
mirrors still held the hint of luxury. They were the sign of fashionable men and
women, who carried them at their sides, in their pockets, or inserted them into
their fans. […] Tin mirrors, however, were cheap, everyday objects that could be
bought at haberdashers’ shops, open stalls, and country fairs; they were part of
a pedlar’s stock in trade. The more expensive mirrors of glass could do grand,
if predictable things: they could lighten up dark rooms, lighten a thick wall, or
simulate a window. Often, they were hung opposite windows to replace tapestries
in order to bring the outdoors inside.” A.F. Kinney, Shakespeare’s Webs. Networks
of Meaning in Renaissance Drama, New York and London, Routledge, 2004, p.
4. D. Shuger sottolinea come: “Venetian glass spread throughout Europe; by the
early seventeenth century, cheap crystal mirrors, now of English manifacture, had
become widely available…”. D. Shuger, The “I” of the Beholder. Renaissance Mir-
rors and the Reflexive Mind, in Renaissance Culture and the Everyday, ed. by P.
Fumerton - S. Hunt, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1999, p. 21.
Herbert Grabes, invece, definisce l’invenzione dello specchio di vetro: “the tech-
nological marvel of the age”. Grabes, op. cit., p. 4. Per maggiori dettagli sulla dif-
fusione dello specchio come oggetto materiale si vedano anche Melchior-Bonnet,
op. cit., pp. 21-42; S.J. Schechner, Between Knowing and Doing: Mirrors and their
Imperfections in the Renaissance, in «Early Science and Medicine», 10. 2 (2005),
pp. 137-162.
28
Serpieri, Retorica e immaginario, cit., p. 153.
24 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

lità tra Originale e Copia, che caratterizzava il Neoplatonismo,


a fine Cinquecento si metamorfosa, decentrando la posizione
mediana occupata dall’uomo nella scala gerarchica (punto di
congiunzione tra il divino e il bestiale) e riformulandola in ter-
mini di soggetto e oggetto di conoscenza, disposti ai poli di un
nuovo asse epistemico. Al centro di questo sistema ridisegna-
to rimane solo l’umano sguardo indagatore, competitore dello
sguardo di Dio ma smarrito nella moltitudine dei propri punti
di vista.

1.4. Discordia concors: il campo retorico dell’ossimoro

Ho fin qui ripercorso in maniera progressiva alcune del-


le tappe che interessano l’origine e le principali significazioni
orbitanti intorno alla metafora dello specchio (dalla captatio
divina, all’exemplum, all’emblema dell’illusione e dell’inganno);
il quadro emerso è di una estrema complessità, certamente non
riducibile a una contrapposizione netta tra vecchio e nuovo,
quanto piuttosto a una irregolare compresenza di istanze con-
flittuali. Il modello simbolico tramonta mentre si va formaliz-
zando un modello sintagmatico ancora disarticolato e incoeren-
te, un passaggio che si rivela dinamico e controverso anche e
soprattutto sul piano linguistico:

È appunto nella tensione che si sprigiona fra una semiosi del mondo
solida, perché divinamente ordinata, e le forze relativistiche, alterna-
tive al modello, che affiora un’importante riflessione metalinguistica
e metadiscorsiva: quella che contrappone la lingua motivata a una
arbitraria, tragicamente distante dal senso sicuro del mondo. Il mo-
dello simbolico e quello sintagmatico corrispondono, non a caso, al
passaggio da un tipo all’altro di interpretazione dei segni29.

29
S. Bigliazzi, Nel prisma del nulla. L’esperienza del non-essere nella dramma-
turgia shakespeariana, Napoli, Liguori, 2005, p. 14.
Lo specchio e l’ossimoro 25

In relazione al Rinascimento inglese, Silvia Bigliazzi appro-


fondisce proprio il momento di passaggio (che coincide con la
drammaturgia shakespeariana) da un sistema che presuppone
un legame indivisibile tra parole e cose (analogia) a uno basa-
to, invece, sull’arbitrarietà della sovrapposizione significante-
significato (differenza), così che a una logica associativa si af-
fianca e si sostituisce una logica tendenzialmente dissociativa
e nominalista, che la studiosa definisce “asse del non-essere”30.
L’essere, allineato e riflesso nell’ordine simbolico, entra in un
sistema altro in cui la “rete di corrispondenze verticali” è disgre-
gata dal potere del non-essere, il “principio formalizzante di
tipo relazionale e orizzontale” che infrange e nega “ancor prima
di affermare e costruire”31. La decostruzione che il non-essere
attua sull’essere, però, non si configura tanto come un’oppo-
sizione asciutta e netta, quanto nei termini di uno spazio di
destrutturazione semiotica all’interno del quale la negazione
segnala da un lato la contrapposizione al simbolo, dall’altro,
il potenziale creativo di nuovi segni in via di formalizzazione,
che superano la binarietà scaturita per differenza, collocandosi
nelle regioni più estreme e sofisticate del senso, che Bigliazzi
individua nella categoria del “non-nulla”.
La semiosi dell’essere, del non-essere e soprattutto del non-
nulla – con una accezione che eccede i percorsi scanditi dalle
occorrenze della costellazione di lemmi legata a nothing (che è
il percorso specifico di analisi condotto da Bigliazzi) – informa
la sfera connessa allo specchio come luogo di conservazione,
negazione e riarticolazione del simbolico e trova una partico-

30
Scrive Bigliazzi: “[I]l periodo elisabettiano registra una sorta di terremoto se-
miotico, caratterizzato dal fronteggiarsi di due prospettive fortemente contrastanti
nei confronti del linguaggio: riconducibili, una, a un atteggiamento realistico,
volto ad attribuire alle parole una straordinaria corrispondenza con le cose, l’altra,
a un deciso scetticismo nominalistico, che, al contrario, individua un’incolmabile
distanza fra la lingua e il mondo”. Ibid., p. 15; per la definizione e articolazione
del concetto di “asse del non-essere”, cfr. p. 18.
31
Ibid., p. 14.
26 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

lare forma di espressione retorica nella figura dell’ossimoro. È


nell’ossimoro che si replica la struttura analogica su cui insi-
ste l’ordine simbolico: sul piano retorico e sistemico l’ossimoro
contiene sia l’“essere” sia il “non essere”, lasciando però con-
temporaneamente libere di agire tutte le possibili disarticola-
zioni di senso che possono derivare da una tale congiunzione.
Prova definitiva dell’arbitrarietà del segno linguistico, l’ossimo-
ro consiste tecnicamente in una “unione paradossale di due
termini antitetici. [Un] cortocircuito semantico [che] si forma
in quanto uno dei due componenti esprime una predicazione
contraria o contraddittoria rispetto al senso dell’altro, al quale
è strettamente unito da [un] rapport[o] sintattic[o]”32. Non siamo
di fronte a una enantiosemia, cioè a una parola che rimanda a
significati contrari, bensì a un costrutto nel quale due elementi
opposti – con significati precisi ma relativizzati dalla congiun-
tura sintattica – coesistono, mantenendo nitide le marche di
distinzione accanto a quelle di contiguità. Lo statuto di tale
congiuntura non è una mera funzionalità logica attribuibile alla
volontà di ornare la frase, come i retori del passato solevano
affermare; si tratta, invece, della formulazione di una contro-
grammatica che si serve del codice per relativizzarne lo statuto
simbolico33. Così inteso, l’ossimoro rivela non l’allargamento

32
B. Mortara Garavelli, Il parlar figurato. Manualetto di figure retoriche, Roma-
Bari, Laterza, 2010, pp. 47-48. Si veda anche Y. Shen, On the Structure and Under-
standing of Poetic Oxymoron, in «Poetics Today», 8.1 (1987), pp. 105-122.
33
Mi rifaccio alla concezione di figura retorica come figura discorsiva e con-
cettuale in un senso vicino a quello attribuitole dalla scuola di Retorica Generale
Testuale nata negli anni Ottanta del Novecento, secondo cui la retorica si definisce
come modalità di produzione e di lettura del mondo e non quale ornamento
applicato a un grado zero della lingua (visione ancora presente per esempio nella
ricerca del Gruppo µ di Liegi). Al limite tra cognitività e culturalismo, la retorica
generale testuale considera le figure retoriche elementi costitutivi di un sistema
linguistico non posteriore alla formazione di un pensiero o di una visione del
mondo, ma strutturale ad esso. Scrive Stefano Arduini in Retorica e traduzione:
“[L]’attività figurale che si manifesta nel linguaggio ma anche in altri sistemi, non
permette tanto di esprimere in un certo modo (quello figurato da quello neutro)
il mondo che già conosciamo ma piuttosto permette che esso sia conosciuto, lo
Lo specchio e l’ossimoro 27

della forbice tra linguaggio e mondo (visione che presuppor-


rebbe la preesistenza di una realtà anteriore alla formulazione
linguistica), bensì l’esistenza di una zona di destrutturazione
semiotica. All’interno di quest’area, a una azione centrifuga che
spinge agli estremi l’instabilità del rapporto tra significante e
significato, ridisegnando i contorni delle enunciazioni assiolo-
giche e perfino ontologiche del sistema, se ne contrappone una
centripeta che, relativizzando entrambi i termini a confronto,
finisce per svolgere anche una funzione di contenimento e at-
tenuazione dell’instabilità.
Per tornare all’ambito più circoscritto di questa ricerca, l’ossi-
moro segnala – da un punto di vista diverso da quello affrontato
nella sezione precedente – il medesimo problema ermeneutico,
prospettando e organizzando linguisticamente la possibilità di
presentare gli opposti come realtà distinte ma continue, che
assumono valore e significato dalla reciproca composizione e
condensazione. Nel contesto rinascimentale, dunque, la disgre-
gazione degli assoluti concettuali che ordivano il sistema è per-
formata e allo stesso tempo esorcizzata dall’ossimoro.
È in virtù di tale ambivalenza che l’ossimoro diviene una fi-

rende leggibile, interpretabile, offre il quadro possibile tramite il quale ordinarlo.


Dunque la figura non è un rivestimento ma uno strumento indispensabile di co-
noscenza e in quanto tale non può essere immaginata come un dopo rispetto ad
un momento creativo costituito da intellectio e inventio”. S. Arduini, Retorica e
traduzione, Urbino, Quaderni dell’Istituto di Linguistica dell’Università di Urbino,
1996, p. 85. Ne deriva una tendenza ad abbattere la distinzione fra denotazione e
connotazione linguistica: la figura retorica struttura il senso, che proprio in virtù
di ciò può essere inferito: “La parola può perdere nella coscienza dei parlanti la
cognizione di essere in origine figura, ma resta che questa è l’aspetto creativo e
innovativo del linguaggio: è senza figure che non avremmo il linguaggio standard,
non il contrario”. Ibid., p. 88. Mi sembra utile riportare a questo punto una defi-
nizione di Paolo Valesio che completa il quadro finora delineato: “La retorica è la
dimensione funzionale del discorso umano (non è, dunque, ristretta a questa o a
quella funzione, non è costretta entro i confini della comunicazione ben riuscita –
nemmeno entro i confini della comunicazione conscia; la retorica è una struttura
integrata (che abbraccia i tòpoi, le argomentazioni, e le figure – senz’essere limi-
tata ad una sola di queste componenti)”. P. Valesio, Ascoltare il silenzio, Bologna,
il Mulino, 1986, p. 73.
28 Lo specchio e l’ossimoro: la messinscena dell’interiorità nel teatro di Shakespeare

gura particolarmente pregnante nell’età di Shakespeare e all’in-


terno del corpus delle sue opere. Rosalie Colie, per esempio,
quasi a margine della sua approfondita indagine sul paradosso
rinascimentale, afferma: “[T]he world was then a discordia con-
cors, a composition to which oxymoron was the most appro-
priate figure of rhetoric”34. Da una prospettiva diversa Catherine
Fromilhague considera, invece, l’ossimoro come una modalità
funzionale a cogliere “a contrastive piece of information there-
by developing a double or ‘binocular’ vision of reality”35. Forse,
più indicato sarebbe parlare di una visione speculare e ana-
morfica della realtà.
Da questo punto di vista il corpus shakespeariano offre,
naturalmente, materiale cospicuo e prezioso per indagare la
discontinuità e le riformulazioni degli statuti simbolici e socio-
culturali che il cambio di secolo registra. Il passaggio dal Cin-
quecento al Seicento, in Inghilterra reso burrascoso anche da
irrisolti conflitti interni di carattere religioso e politico, trova nel
teatro elisabettiano, in generale, e di Shakespeare in particola-
re, il luogo elettivo di rappresentazione delle sue dinamiche e
delle sue contraddizioni.
Le tre opere selezionate in questo studio – Titus Andronicus,
Richard II e Hamlet – coprono l’arco di tempo che va all’incirca
dal 1593 al 1601 e si muovono all’interno dei sottogeneri della
revenge tragedy, della history e del dramma dialettico. Tutte e
tre illustrano, da angolature diverse, la potenza che lo spec-
chio e la specularità da un lato e l’ossimoro dall’altro possono
acquisire se assunti come paradigmi interpretativi. Nello speci-

34
R. Colie, Paradoxa Epidemica. The Renaissance Tradition of Paradox,
Princeton and New Jersey, Princeton University Press, 1966, p. 313.
35
C. Fromilhague, Les figures de style (1995), Paris, Nathan Université, 2003, p.
54, cit. in M. Ravassat, Oxymoron, hendiadys and co-ordinate structures: Shake-
speare from duality to indivision, in «Bulletin de la Société de Stylistique Anglaise»,
28 (2006), pp. 95-110.
URL: http://stylistique-anglaise.org/document.php?id=548 (Ultimo accesso 19
Settembre 2012).
Lo specchio e l’ossimoro 29

fico, attraverso di essi si è cercato di far emergere e indagare


lo spazio embrionale di una interiorità in via di definizione,
ma già luogo di manifestazione di forze fra loro in contrasto.
Titus Andronicus interpreta il conflitto tragico soprattutto nei
termini di una esplorazione del genere e dei suoi meccanismi,
sui quali si innesta la problematicità della visione shakespea-
riana della storia. La specularità strutturale e caratteriale inter-
viene qui a puntellare una instabilità rappresentata nel play
dalla compresenza di opposti culturali e di razza, cristallizzata
in una potente figuralità ossimorica. Richard II mette in scena
il tragico momento di snodo in cui l’Io del Sovrano (rappresen-
tante dell’ordine simbolico) incontra il suo volto umano e non
lo riconosce, ponendo apertamente la questione del rapporto
fra apparenza e sostanza, fra essere e non-essere. Questione
che sarà ripresa e approfondita in Hamlet, dove vedremo agire
lo specchio e l’ossimoro come forze rispettivamente finalizzate
alla verifica di una verità enunciata, ma ancora non esperita, e
allo smascheramento della natura multiforme di quanti entre-
ranno nella sfera di riflessione di Amleto. Verità e falsificazio-
ne. Sostanza e ombra. Specchi e ossimori.

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