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International Journal of
Psychoanalysis and Education
(IJPE)
Rivista scientifica di Psicoanalisi e Gruppoanalisi
applicate alla relazione educativa e ai relativi e contesti socio-politico-culturali
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International Journal of Psychoanalysis and Education - IJPE vol. II, n° 2 (5), Dicembre 2010
ISSN 2035-4630 (versione telematica pubblicata all’indirizzo www.psychoedu.org)
INDICE
GENITORIALITÀ
SCUOLA
Un caso di bullismo
Marzia Viviani ….………………………………………………………………….......59
CLINICA
CULTURA E SOCIETÀ
Transpersonale e transgenerazionale
Raffele Menarini, Francesca Marra, Veronica Montefiori.…………………......…163
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Genitorialità
Grazia Terrone
(Psicologo, PhD, ricercatrice di Psicologia Dinamica,
Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli studi di Foggia)
Introduzione
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spesso a disturbi infantili nella regolazione fisiologica e nella stabilizzazione dei ritmi
alimentari (Benoit, 2000; Carlson, Sroufe, 1995; Chatoor, 1989).
Sfortunatamente, se da un lato l'incidenza della sintomatologia depressiva materna
è stata largamente documentata, i meccanismi della trasmissione del disagio
psicopatologico nei bambini sono stati esplorati mediante approcci diversi, a volte solo
minimamente convergenti.
La depressione della madre, infatti, influenza direttamente sia la qualità
dell'interazione con il bambino, sia il livello di funzionamento globale familiare,
interagendo, a vari livelli, con numerosi fattori di rischio sociale. In aggiunta alla
componente genetica della trasmissione del rischio psicopatologico, è necessario, quindi,
considerare un ampio numero di fattori dell'ambiente di vita prossimale e distale del
bambino con madre depressa, che possono, moderare o, al contrario, acuire la sua
vulnerabilità nei confronti di successivi esiti disfunzionali o patologici.
Gli effetti negativi della depressione materna rilevati sul bambino includono:
disturbi comportamentali con tendenza all'aggressività; problemi nell'ambito della
regolazione affettiva; incompetenza sociale; disturbi ansiosi; deficit dell‟attenzione;
difficoltà temperamentali ; disorganizzazione emozionale; sintomatologia depressiva
subclinica o disturbi depressivi veri e propri; modelli di attaccamento di tipo
prevalentemente insicuro.
Malgrado l'enorme quantità di dati scientifici, risulta estremamente complicato
individuare il legame preciso tra i disturbi depressivi materni e gli esiti sul bambino, al
fine di spiegare le dinamiche che intercorrono nel processo di trasmissione del rischio
psicopatologico. Tale complessità deriva dal fatto che, in alcuni casi, le procedure
metodologiche delle varie ricerche non hanno tenuto conto dell'eterogeneità dei campioni
studiati: i gruppi includevano spesso un ampio range di condizioni depressive materne
(forme unipolari e bipolari, ma anche varie manifestazioni di tipo ansioso); i disturbi
materni differivano significativamente in termini di severità (campioni ospedalizzati,
sotto cura farmacologia e non); la durata dell'esposizione del bambino ai sintomi
depressivi della madre era variabile.
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I risultati dei numerosi studi condotti negli ultimi anni sulle implicazioni
psicopatologiche del bambino con madre depressa hanno evidenziato numerosi rischi
evolutivi.
Varie ricerche hanno messo in luce che i figli di madri depresse sono esposti al
rischio di insorgenza psicopatologica in modo significativamente maggiore rispetto a
quelli di genitori normali, manifestando, nello specifico, un'accentuata vulnerabilità nei
confronti dei problemi comportamentali, delle malattie fisiche e dei sintomi di tipo
depressivo (Weissman et al., 1984).
In molte ricerche, è emerso che gli effetti della depressione materna variano in
funzione dell‟età e dello stadio di sviluppo del bambino (Zuckerman & Beardslee, 1987).
Nei neonati è stato osservato uno scarso peso alla nascita, che correla positivamente con
la bassa classe sociale della famiglia e la severità/cronicità del disordine emotivo
materno. Nei bambini di 12 e 24 mesi, sono stati evidenziati disturbi sia della sfera
emotiva - con difficoltà a regolare gli stati affettivi - sia cognitiva - con carenza del gioco
simbolico. Nell‟età prescolare, sono stati rilevati bassi punteggi nel QI, disturbi del sonno
e sintomi psicosomatici. Nell‟età scolastica e durante l'adolescenza, si è evidenziata la
presenza di un'elevata incidenza di depressione maggiore, deficit dell‟attenzione, ansia da
separazione, eccessiva rivalità con i pari ed i fratelli, comportamenti di impazienza,
condotte devianti o di ritiro.
Gelfand e Teti (1990) hanno rilevato, sia nell‟infanzia che nell‟età prescolare
maggiori problemi nell‟attaccamento, nella regolazione emozionale, nel controllo degli
impulsi aggressivi, nella capacità di cooperare con gli altri ed uno sviluppo linguistico
problematico o ritardato. Nei bambini in età scolare, sono stati evidenziati i seguenti
quadri: bassa autostima; stili attributivi negativi simili a quelli delle proprie madri;
maggiore propensione per i disturbi depressivi o di ansia; difficoltà intellettive e nel
mantenere l'attenzione; scarso rendimento scolastico; accentuato rischio di insorgenza
psichiatrica non di tipo depressivo, soprattutto nel caso di depressione materna bipolare.
Lyons-Ruth e colleghi (1986), hanno analizzato coppie di madri depresse e bambini
in condizioni economiche svantaggiate, rilevando una correlazione significativa tra i
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Obiettivi
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Metodo
Descrizione del campione
Il campione selezionato è composto da 40 madri, di cui 20 presentano una
Depressione Maggiore1 di età media di 31,5 anni (range 28-39 anni) (gruppo clinico)e dei
loro bambini di età media di 26 mesi (range 18-36 mesi), appaiato con 20 coppie di
madre-figlio che non presentano nessuna psicopatologia (gruppo di controllo).
L‟appaiamento dei soggetti appartenenti ai due gruppi è stato effettuato per età
delle madri, per il genere e l‟età del bambino e per il livello socio-economico (SES;
valutato secondo i criteri di Hollingshead) (1a1).
Il gruppo clinico è stato selezionato da una équipe di medico-psichiatrica
all‟interno dell‟Unità Operativa di Psichiatria del Policlinico Tor Vergata.
Per il reclutamento del gruppo di controllo sono stati contattati alcuni consultori
familiari della Aziende Sanitarie Locali e gli Asili nido del Comune di Roma.
In entrambi i gruppi, clinico e di controllo, il periodo gestazionale di tutti i bambini
esaminati ed il loro sviluppo psicomotorio si presentavano nella norma. La maggior parte
dei bambini nei due gruppi ha avuto un allattamento al seno (gruppo-clinico=74%;
gruppo-controllo=78%;).
Attraverso la somministrazione di un questionario socio-demografico è stato
possibile rilevare il livello socio-culturale delle coppie madre-bambino esaminate. La
maggior parte delle madri era coniugata (gruppo-Clinico=90%; gruppo-controllo=93%),
ed aveva conseguito un Diploma di scuola secondaria superiore (gruppo-clinico=74%;
gruppo-controllo=70%) o Laurea (gruppo-clinico=13%; gruppo-controllo=15%). Molte
1
L'intervista diagnostica strutturata utilizzata dall'équipe di psichiatri è stata la SCID. La quale ha permesso di
effettuare una selezione della popolazione da studiare e di garantire che tutti i soggetti studiati abbiano soltanto un
disturbo che soddisfi i criteri per la Depressione Maggiore del DSM IV (American Psychiatric Association, 1994).
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Strumenti
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mesi precedenti poiché i bambini piccoli sono soggetti a rapidi mutamenti insiti nel
processo evolutivo.
Lo strumento include l‟uso di scale orientate alle categorie e ai criteri diagnostici
del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994), allo scopo di integrare la
misurazione che può essere ottenuta dalle Scale Internalizzanti, Esternalizzanti e dalle
Scale né Internalizzanti, né Esternalizzanti (Achenbach, Rescorla, 2000; 2001)
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sull‟analisi della narrazione in base alla coerenza del pensiero e all‟integrazione degli
aspetti cognitivi e affettivi relativi all‟attaccamento. Più che i contenuti o la veridicità dei
ricordi, quello che è decisivo, ai fin della classificazione, è il grado di organizzazione
della narrazione. La codifica valuta l‟autoconsapevolezza riflessiva. Essa si focalizza
sulla capacità del soggetto di monitorare, nel corso dell‟intervista, la propria produzione
e di tenere in mente lo stato mentale dell‟ascoltatore.
Ciascuna intervista è stata audioregistrata e trascritta integralmente, così che i
giudici, che codificano in modo indipendente, hanno potuto lavorare esclusivamente sulla
trascrizione dell‟intervista.
Preliminarmente il trascritto viene letto per valutare la “probabile esperienza con le
figure di attaccamento durante l‟infanzia” (Scales for experience) e la qualità emotiva
attribuita al rapporto con i caregiver. Su ciascuna delle cinque scale – Affetto, Rifiuto,
Trascuratezza, Pressione a riuscire, Inversione di ruolo – vengono attributi punteggi su
scale a nove punti.
In seguito il trascritto viene letto nuovamente per valutare lo “stato attuale della
mente” rispetto all‟attaccamento (Scales for states of mind). Anche in questo caso i
punteggi sono attribuiti su scale a nove punti. Le scale sono le seguenti: Idealizzazione,
Rabbia, Insistenza sull’incapacità di ricordare l’infanzia, Processi metacognitivi,
Passività dei processi di pensiero, Paura della perdita, Mancata risoluzione del lutto-
trauma, Coerenza del trascritto, Coerenza globale della mente.
Al termine della valutazione, sulle singole scale viene attribuita una classificazione
generale che riflette l‟adesione o la violazione della coerenza del discorso come definita
da Grice: a) la qualità, essere veritieri e fornire evidenze per quanto affermato; b) la
quantità, essere succinto ma completo; c) la rilevanza, fornire risposte pertinenti
all‟argomento; d) il modo, essere chiari e ordinati nell‟esposizione. I protocolli delle
interviste sono stati integralmente trascritti e quindi classificati in base al sistema di
codifica elaborato da M. Main e R. Goldwin (1998), secondo le seguenti categorie:
sicuro-autonomo (F), distanziante (Ds), preoccupato/invischiato (E), irrisolto nei
confronti di traumi o lutti (U), Cannot Classify (CC). Le prime tre categorie sono a loro
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Risultati
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0
Problemi Internalizzanti*** Problemi Esternalizzanti
madri "non depresse" madri "depresse"
organo ufficiale dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa A.P.R.E.
iscr. Tribunale di Roma n°142/09 4/9/09 (copyright © APRE 2006) editor in chief: R. F. Pergola
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***=p<.001
Figura 2: Punteggi medi alle sottoscale dei Problemi Internalizzanti della CBCL in
funzione del Gruppo di appartenenza.
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0
Reattività Emotiva Ansia/Depressione Problemi Somatici Ritiro
**=p<.01
***=p<.001
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2. Verificare se vi siano differenze tra madri depresse e non depresse sui pattern
interattivi nel contesto alimentare (misurati con la S.V.I.A.).
Per verificare se vi siano differenze tra madri “depresse” e “non depresse” sui
pattern interattivi nel contesto dell‟alimentazione è stata eseguita un‟Analisi della
Varianza Univariata (ANOVA).
Le analisi univariate hanno mostrato una differenza statisticamente significativa tra
i gruppi nelle sottoscale della S.V.I.A. Stato affettivo della madre (F(1;38)=37,335;
p<0,001), Conflitto interattivo (F(1;38)=31,454; p<0,001), Comportamenti di rifiuto
alimentare del bambino (F(1;38)=8,762; p<0,01), Stato affettivo della diade (F(1;38)=5,352;
p<0,01). (Figura 3)
Figura 3: Punteggi medi ottenuti alle quattro sottoscale della S.V.I.A. in funzione
del Gruppo di appartenenza.
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**=p<.01
***=p<.001
Per testare la terza ipotesi della ricerca è stata condotta un‟Analisi della Varianza
Univariata (ANOVA) sulle quattro sottoscale della S.V.I.A vs i Modelli di attaccamento
della madre (Sicuro - Insicuro).
Per poter effettuare l‟analisi statistica è stato necessario effettuare un bilanciamento
dei modelli di attaccamento, pertanto ogni singolo gruppo (clinico e di controllo) è
costituito per il 50% da madri con attaccamento sicuro e il restante 50% con
attaccamento insicuro.
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Figura 4: Punteggi medi ottenuti alle quattro sottoscale della S.V.I.A. in funzione
dei Modelli di attaccamento della madre.
*=p<.05
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Discussione
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di sviluppo delle abilità alimentari durante i primi tre anni di vita nel contesto interattivo
dell‟alimentazione.
Nelle diadi di madri “depresse” le caratteristiche disfunzionali della relazione di
caregiving, maggiore controllo, intrusività, difficoltà nel riconoscimento empatico dei
segnali comunicativi e affetti negativi, sembrano mediare la trasmissione del rischio
psicopatologico dalla madre al bambino e costituire un terreno predisponente per
l‟esordio e per la persistenza di un disturbo alimentare nella prima infanzia.
La presente ricerca ha altresì voluto indagare il ruolo che le esperienze infantili
della madre e il suo attuale stato della mente rispetto ai modelli dell‟attaccamento
possono avere nel determinare il suo coinvolgimento nella relazione con il bambino.
La valutazione dello stato mentale nei confronti dell‟attaccamento delle madri
“depresse” valutate con l‟Adult attachment Interview ha rilevato un‟alta percentuale di
modelli di attaccamento distanzianti.
I risultati dei dati confermano l‟ipotesi secondo la quale le capacità genitoriali
possono essere influenzate dai modelli di attaccamento, in particolare sono stati
evidenziati punteggi medi alti nelle sottoscale Stato affettivo della madre e
Comportamento di rifiuto alimentare del bambino da parte di madri con attaccamenti
insicuro.
I progressi della psicologia e della psicopatologia dello sviluppo, dunque, hanno
messo in luce il ruolo degli affetti e dei comportamenti di caregiving nell‟organizzazione
della personalità del bambino e nella possibile trasmissione del rischio psicopatologico
dal genitore al figlio (Ainsworth et al., 1989; Main, 1999). In questa prospettiva, la teoria
dell‟attaccamento ha fornito linee guida fondamentali per la ricerca e per la clinica. Il
legame di attaccamento madre-figlio è stato considerato un‟esperienza fondamentale,
soprattutto perché il bambino, partecipando a scambi relazionali ripetuti, si costruisce
delle rappresentazioni mentali di se stesso e degli altri.
In breve, si è rilevato che una relazione di attaccamento sicuro funziona come un
fattore protettivo dello sviluppo psicologico infantile (effetto di buffering), mentre un
attaccamento insicuro rappresenta un fattore di rischio e di vulnerabilità
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una maggiore influenza dell'altro (Main, et al., 1985; van Ijzendoorn, 1995). Dal
momento che la madre tende ad essere la figura d'attaccamento privilegiata, soprattutto
nella cultura occidentale, ci si potrebbe attendere che la qualità della relazione con lei
risulti maggiormente correlata allo sviluppo dell'intimità e della vicinanza nelle relazioni
sociali.
Uno dei concetti cardine della teoria dell‟attaccamento è quello che le esperienze
precoci sfavorevoli giochino un ruolo fondamentale nello sviluppo di disturbi
psicopatologi (Bowlby, 1969; 1973).
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Conclusioni
In conclusione, sulla base dei risultati emersi, per comprendere e studiare i disturbi
alimentari infantili, sembra opportuno prendere in esame il complesso intreccio tra
caratteristiche del bambino, della madre, della loro relazione e i compiti evolutivi che
entrambi devono affrontare in considerazione dei processi di separazione-individuazione
e della crescente autonomia del bambino. Gradualmente, il bilanciamento fra
l‟attaccamento sicuro materno e l‟autonomia emergente del bambino dovrebbe essere
rispecchiato dal compito del caregiver di bilanciare in modo flessibile i comportamenti
protettivi con i comportamenti di “lasciar fare” al bambino, facilitando in lui le iniziative
di autonomia, l‟esperienza del Sé come agente, la spinta ad autoregolarsi e a
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del suo sviluppo altre ricerche hanno sottolineato l‟importanza del ruolo giocato dalla
figura paterna (Kerns e Barth, 1995; Youngblade et al.,1993).
Inoltre, l‟attaccamento al padre e alla madre valutato complessivamente, risulta
essere più predittivo della competenza sociale nei bambini, di quanto non lo sia
l‟attaccamento alla madre valutato isolatamente (Suess et al., 1992). Il ruolo svolto dalla
figura paterna, pertanto, potrebbe essere più importante di quanto finora ritenuto, potendo
contribuire a determinare, insieme alla qualità dell‟attaccamento alla madre, il modo in
cui il bambino percepisce se stesso all‟interno delle nuove relazioni significative. È in
quest‟ottica che potrebbero essere dirette delle ricerche future.
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Genitorialità
Daniele Benini
psicoanalista
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- o è vera la equazione tra reale e razionale posta da Hegel («Ciò che è razionale è
reale; e ciò che è reale è razionale»3) secondo cui tutto ciò che è reale può essere
“compreso” mediante il razionale;
2
È un verbo un po‟ pretenzioso, ma lo uso perché è il vero significato del tedesco greifen da cui deriva il sostantivo
Begriff, che significa concetto, costruito allo stesso modo dell‟italiano “comprendere”, da cum capio, cioè: afferrare
insieme, tutto insieme, senza che nulla possa sfuggire alla presa, termine fondamentale in Hegel in quanto riassume
l‟equazione tra reale e razionale: attraverso il Begriff, il “concetto”, tutto il reale viene “afferrato” dal razionale.
3
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (Prefazione), Laterza, Bari, 1954, pag.15.
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- oppure qualcosa del “reale” sfugge alla presa, alla com-prensione del razionale;
qualcosa del reale non si lascia catturare dal razionale ed è questo reale, razionalmente
non controllabile, che provoca angoscia.
Vorrei dare concretamente alcuni esempi, fra i tanti, per mostrare le due
impossibilità – quella del simbolico e quella dell‟immaginario – rispettivamente a
pensare e a immaginare il reale.
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immaginaria – mentre Cartesio ne ha fatto largo uso nelle sue Meditationes per poter
sorreggere - sull‟esistenza così dimostrata e dimostrabile di Dio - il suo fragile, nascente
ego.
Kant, come si sa, ne segò sin dalle fondamenta la radice perché o l‟esistenza di
Dio è già contenuta nella proposizione iniziale – ciò che non è, perché la si vuol
dimostrare - oppure non può essere inferita lungo il percorso, posto che non ne è una
deduzione logica.
Anche il giovane B. Russell segò dalle fondamenta l‟impianto dei fondamenti (il
bisticcio è in re ipsa) della matematica pensati da G. Frege, è nota la lettera che gli
scrisse nel 1902 in cui formulò il noto paradosso di Russell; seguì poi un decennale
lavorìo attorno al formalismo in matematica che si può dire concluso dai due teoremi di
incompletezza di Kurt Gödel, del 1931, secondo cui vi sono nell‟ambito dei sistemi
formali delle proposizioni indecidibili, proposizioni cioè che potrebbero anche essere
vere ma che non sono verificabili con i criteri di verità del sistema formale stesso; esse
rappresentano dei veri e propri punti di fuga, un “reale” che sfugge, che non è solo una
caratteristica del sistema, ma la sua stessa condizione di sussistenza.
4
Impiego qui autrui nel senso in cui ce lo ha trasmesso, più in negativo che in positivo, E. Levinas.
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Non sfugge, a chi ancora riesce a mantenere viva la propria soggettività pensante,
che la potente immagine pubblicitaria riesce a far presa sul potenziale consumatore
proprio grazie al vuoto-che-egli-è – in ciò consiste propriamente il reale – ed al “pieno”
che il prodotto di consumo assicura di poter dare. Solo che, a mano a mano che si
consuma, il vuoto si accentua sempre di più e parallelamente sfugge ancora di più il
reale. In Lacan: “il reale del soggetto”. Che si contrappone al soggetto cartesiano, pur
essendo lo stesso.
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faccia, mentre l‟altra è perennemente in ombra; il soggetto è la luna nel suo insieme, se
così si può dire; Lacan accosta alla certezza cartesiana, basata sull‟io che pensa e dunque
esiste, la certezza freudiana secondo cui oltre all‟Io c‟è l‟Es, l‟inconscio, che riduce i
poteri della coscienza, anzi, li domina; l‟inconscio addirittura emargina la coscienza
(“L‟io non è più padrone in casa propria”), la decentra; è il reale del soggetto che occupa
il centro della struttura, psichica e non; si può provare a dire: allo stesso modo delle
proposizioni indecidibili di Gödel per le quali mancano i criteri di verità per la loro
verificabilità, anche per il reale del soggetto manca la possibilità di vederlo
immaginariamente o di nominarlo simbolicamente; in un ipotetico quadro della realtà, il
reale manca (ed è ciò che mostra lo schema R di Lacan), ma è proprio grazie al fatto che
non c‟è, che manca, che la realtà sussiste.
C‟è un testo di J. Derrida che mi ha sempre molto colpito e orientato nella ricerca;
si tratta di una conferenza risalente al 1966 dal titolo “La structure, le signe et le jeu dans
le discours des sciences humaines”, poi pubblicata nella raccolta La scrittura e la
differenza in cui viene proposta una lettura/interpretazione sintetica dell‟intera storia
dell‟occidente dal punto di vista della struttura e del suo centro. Struttura sempre vista e/o
pensata in parallelo all‟epistème – ad un sapere cioè che si sostenga da sé, senza
riferimento ad Altro, ad una qualche alterità inassimilabile, nel senso che il sapere preme
per conquistare l‟Altro da sé, per farlo diventare simile a sé.
Ebbene, ci dice Derrida, il centro di questa struttura per secoli è stata pensato
come un pieno: “La determinazione dell‟essere come presenza in tutti i sensi della
parola. Si potrebbe mostrare che tutti i nomi del fondamento, del principio o del centro
hanno sempre designato l‟invariante di una presenza (eidos, archè, telos, energia, ousìa
[essenza, esistenza, sostanza, soggetto] alètheia, trascendentalità, coscienza, Dio, uomo,
ecc)”5.
5
J. Derrida, La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane, in La scrittura e la differenza, TO,
Einaudi, 2002, pp. 360-361.
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Solo che ad un certo punto, nel gioco delle sostituzioni, della ripetizione di
sostituzioni, ci si è resi conto – qualcuno, ovviamente, qualche pensatore, si è aperta una
corrente di pensiero – “che forse non c‟era centro, o che, se c‟era, non poteva essere
pensato nella forma di un essere-presente, che il centro non aveva un posto naturale, che
non era un posto fisso bensì una funzione, una sorta di non-luogo nel quale si
producevano senza fine sostituzioni di segni”. “[…] l‟assenza di significato
trascendentale estende all‟infinito il campo e il gioco della significazione”6.
Se il centro non può più essere pensato come un pieno, ma come un vuoto, si
possono aprire almeno due possibilità di supposizioni:
1° che non esista nessuna Verità con la V maiuscola (posizione in Italia di Gianni
Vattimo);
2° oppure di pensare (non che “esista”, ma che “ex-sista”) una Verità di cui
nessuno possa dire di possederla, di poter giudicare gli altri in virtù di questa “supposta”
Verità7. Qui si aprirebbe anche tutta la questione dell‟autorità e del suo luogo d‟origine8;
autorità in declino oggi, di pari passo con l‟evaporazione della figura del padre: il venir
meno della figura tradizionale del “padre” come luogo da cui promana la voce autorevole
fa sì che l‟adagio latino “tot capita tot sententiae” acquisti un valore fino ad oggi
impensabile: estrema frammentazione delle varie soggettività, tutti hanno ragione, sono
sempre meno autorevoli le persone tradizionalmente investite dell‟autorità, a partire dal
padre di famiglia (D. Meghnagi al convegno ha detto che un tempo anche un padre
6
Ibidem, p. 361.
7
Come si sa, qui si aprirebbe il campo dell‟etica del discorso (i riferimenti a Karl-Otto Apel e Jürgen. Habermas sono
inevitabili) che in definitiva si contrappone a qualsiasi supposizione di un metalinguaggio (alla Alfred Tarski, ad es.),
con tutte le questioni relative, a cui non posso qui neppure accennare, perché mi porterebbero un po‟ fuori dal tema, ma
che nondimeno andrebbero oggi un po‟ più meditate e rivalutate, per mettere più precisamente a fuoco, ad es., questioni
come il nichilismo e il relativismo che, se definite dall‟alto di un “pensiero forte” contrapposto al “pensiero debole” di
G. Vattimo, non solo rischiano di non cogliere il nocciolo di ciò che è veramente in questione nella questione, ma di
collocarsi un bel po‟ indietro nella storia del pensiero, non riuscendo a nascondere la profonda nostalgia di un passato
che francamente non credo possa più tornare.
8
Su cui c‟è una straordinaria convergenza tra psicoanalisi e Sacra Scrittura, spero questo punto di poterlo approfondire
in altra occasione.
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balordo non aveva difficoltà ad essere padre, oggi anche un padre autorevole ha
viceversa notevoli difficoltà), dagli insegnanti, e via via fino alle autorità religiose.
Venendo meno la figura tradizionale dell‟autorità, prende sempre più piede il tipo di
identificazione di massa studiato da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io ben
rappresentato dallo schema che si trova a p. 304 del IX Volume delle Opere:
Che è da leggersi nel senso che operando sempre meno l‟autodirezione (ovvero,
l‟ideale dell‟Io come erede del Super-Io paterno) e prevalendo dunque l‟eterodirezione9,
i singoli individui eterodiretti – fondamentalmente soli, isolati - si lasciano sempre più
guidare dalle mode, da ideali d‟ordine immaginario e da leaders che rappresentano
immaginariamente quell‟”oggetto esterno” che consente loro un‟identificazione d‟ordine
immaginario per loro strettamente indispensabile che viene dunque al posto del loro
“Ideale dell‟Io”, fragile, inconsistente.
Si apre qui una pluralità di temi e di percorsi tutti interessanti, variamente trattati,
su cui non posso soffermarmi; mi limito ad accennare alla vera questione del soggetto,
legata al suppositum medievale e, ancor prima, all‟hupokeimenon aristotelico, di cui
ritroviamo traccia nel soggetto supposto sapere di Lacan.
Quel che a me qui interessa, per poter fare il passo avanti sulla questione per me
centrale nel “transgenerazionale”, è che la vuotezza o assenza di questo centro - nel senso
di impensabilità e inimmaginabilità (perciò qualcuno è portato a dire che non-esiste) - è
9
Autodirezione ed eterodirezione sono categorie proposte da un sociologo americano, David Riesman, nel suo saggio
The Lonely Crowd, 1950; trad. it. La folla solitaria, BO, Il Mulino, 1967².
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questione cruciale per impostare correttamente ciò che più conta, sia in teologia sia in
psicoanalisi.
Ciò che più conta. Non a caso questa espressione la ritroviamo in Freud,
precisamente nella prefazione alla traduzione ebraica di Totem e tabù in cui ai lettori
della “lingua sacra” dice che non la conosce, che si sente estraneo alla religione dei padri
così come agli ideali nazionalistici, ma cionondimeno non ha mai rinnegato
l‟appartenenza al suo popolo e sente come ebraico il proprio particolare modo di essere.
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Dono del padre è espresso con il termine “patrimonio”; dal latino, patris
munus, dono del padre; oggi con questo termine si tende ad esprimere piuttosto
qualcosa di materiale che non di spirituale.
Nel diritto ereditario, se è negativo, è prevista la rinuncia; come sappiamo
non è allo stesso modo possibile la rinuncia nella trasmissione psichica, al
convegno se ne è parlato.
Ma è “ciò che più conta” che sfugge a qualsiasi descrizione. Perché quel
che più conta è proprio ciò che non si può contare. Ma è, nel contempo, ciò che
rappresenta il nucleo centrale della trasmissione intergenerazionale, quanto c‟è di
più prezioso nella trasmissione ereditaria. Il vero munus del padre.
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È in questo campo – campo del reale del soggetto - che la eterna lotta tra
eros e thànatos si presenta con maggior vigore, anzi, credo si possa dire che è il
campo in cui nella sua essenza si radica una tale lotta: tutto ciò che può rientrare in
qualsiasi altro campo, come antitesi tra eros e thànatos, è da questo campo che trae
la propria linfa.
10
Freud, Opere, vol. IX, pp. 230-231.
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A patto che vi si creda! A patto che si faccia spazio alla trasmissione di “ciò
che più conta”.
11
L‟ultima parola è quella che dà il senso, retrospettivamente, a tutto il discorso, come l‟ultimo coro dell‟Edipo
Re, da cui tutta l‟importanza di questo tenue filo che lascia ipotizzare che quella che appare come l‟inesorabile
tendenza verso l‟inanimato, in sostanza il trionfo di thànatos, sia appunto solo un‟apparenza, perché occorre
saper cogliere, in un certo senso anticipare, l‟ultima parola, quella che conferisce “senso” al tutto.
12
Per usare un‟espressione nota, anche se non lacaniana, ma qui la uso perché la “storia delle idee” è sempre in
realtà storia di significanti e il reale del soggetto passa, si trasmette, di significante in significante, attraverso la
catena; come anello non può vedersi che morto, individualmente, ma il proprio desiderio lo supera, va al di là
della sua morte individuale, si trasmette agli altri individui e così via, di generazione in generazione, se tale
desiderio ovviamente viene alimentato e non interrotto.
13
Freud, Opere, vol. XI, p. 531.
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“Impossibili”, ci dice Lacan, perché hanno a che fare con il reale del
soggetto, cioè con ciò che più conta per il soggetto, la sua Realität, che il soggetto
vorrebbe che diventasse interamente Wirklichkeit, realtà effettiva, come
nell‟illusione hegeliana della perfetta sovrapposizione fra razionale e reale, ma la
psicoanalisi sa che ciò non è possibile. Ed è il suo continuo, ininterrotto monito alla
scienza e alle sue pretese scientistiche, nonché ai tentativi di chiusura
dell‟inconscio ad opera dell‟etica della società dei consumi, come ha molto bene
messo in luce Massimo Recalcati nel suo ultimo saggio15.
Una tendenziale chiusura che non potrà giungere sino alla fine, sino alla
eliminazione dell‟inconscio, perché il soggetto continua a cercare…che cosa?
L‟impossibile, appunto e non sarebbe soggetto (dell‟inconscio) se arrestasse questa
sua ricerca.
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Che, come si sa, risale a Lutero e significa “professione” ma con forte accentuazione religiosa, quindi
propriamente: vocazione professionale.
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Scuola
Davide Barone
(psicologo clinico, counsellor, educatore, collaboratore Area Ricerca e Formazione dell‟Istituto
Atmos-artiterapeutiche di Roma)
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1
Nella concezione di Bromberg le esperienze dissociate non vengono comunicate a parole ma possono
essere osservate nei patterns di comportamento.
2
La carenza di un holding primario in grado di accogliere e restituire bonificate le emozioni negative
incontenibili (come l‟ansia, la depressione, la gelosia, l‟invidia, la rabbia, l‟ira) limita la possibilità che il vissuto
interno sia accettato dal bambino e quindi distinto dalla realtà esterna. Permane in questi casi “un modo non
differenziato di rappresentare l‟esperienza interna ed esterna” (Fonagy & Target, 2001) con un impatto negativo
sullo sviluppo delle capacità di autoosservazione, di riflessione, di riconoscere che ci sono differenti modi di
vedere le cose.
3
La metacognizione si distingue dalla semplice cognizione in quanto quest'ultima è implicita e irriflessa,
mentre la prima prende le distanze dall'identificazione immediata con gli stati mentali per osservarli e riflettere
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Ritengo che, nella misura in cui accettiamo l‟ idea di una matrice simbolica
originaria tra nutrizione ed apprendimento, digestione ed elaborazione intellettiva,
relazione oggettuale e oralità; l‟interpretazione “gaddiniana”, della sindrome
mericistica,5 possa rappresentare una chiave di lettura metaforica interessante di
alcune particolari dinamiche psicopatologiche sottese all‟ Internet dipendenza.
su di essi. Grazie alla metacognizione diamo significato e valore all'esperienza, distinguendo il vero dal falso, il
giusto dall'ingiusto, il reale dall'immaginario.
4
Termine coniato da Bion per descrivere un modo di procedere della mente già presente nella vita
intrauterina (attività mentali elementari) che rimane presente come modalità processuale anche nell‟individuo
adulto. Secondo il modello psicofisiologico di V Ruggieri (1997) non esiste alcuna contraddizione tra ciò che
chiamiamo mentale ed il biologico, anche l‟atto del trattenere espellere originariamente concreto non si libera
mai completamente della sua componente corporea.
5
Renata ed Eugenio Gaddini condussero una ricerca negli anni 1950-1958 su sei bambini ricoverati per
mericismo presso la Clinica pediatrica dell‟Università di Roma. La ruminazione o mericismo era allora descritta
come un quadro poco noto ai pediatri e pressochè sconosciuto a molti analisti, molto grave per la sua mortalità
elevata. Questo disturbo precoce dell‟alimentazione si manifestava non prima del terzo mese di vita, ed era
spesso preceduto da altri due stadi, il primo dei quali caratterizzato da un disturbo della nutrizione con diarrea e
vomito prolungato e il secondo dalla graduale trasformazione del vomito in ruminazione. I risultati di questa
ricerca mostrarono che la maggior parte dei bambini erano stati sottoposti a un regime di deprivazione fisica o
psichica. Dopo un periodo in cui il rapporto con la madre era stato relativamente gratificante questi lattanti
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Gaddini osservò che alcuni neonati, deprivati bruscamente delle cure materne, si
autoprovocavano delle contrazioni dell‟epigastrio, stimolando attivamente ed in
modo ritmico l‟interno della bocca e del palato con il pollice. Grazie a questo
espediente, dopo aver interrotto ogni contatto con il mondo esterno, sembravano
vivere una sensazione di intenso benessere accompagnata dal rigurgito del latte
dalla bocca: la loro espressione di beatitudine, che li rendeva simili ai bambini che
terminano la poppata al seno, indusse Gaddini a ipotizzare che questa attività fosse
accompagnata da una fantasia in cui veniva imitato l‟allattamento.
In pratica, con la ruminazione i bambini cercavano di nutrirsi da sé, riattuando
quell‟ aspetto gratificante dell'allattamento che gli era stato tolto di colpo;
nell‟impossibilità di fare affidamento su una figura d‟accudimento,
autoproducevano la sensazione della suzione al seno e, attraverso questo
comportamento imitativo, negavano l‟assenza della madre diventando essi stessi la
madre assente.
Un particolare aspetto paradossale che emerge dall‟osservazione del
comportamento mericistico è che, a dispetto di una bocca e di uno stomaco sempre
pieni del latte rigurgitato, il bambino rischia di morire di inedia.
La stessa paradossalità mi sembra riscontrabile nel comportamento di alcuni
cyber dipendenti che utilizzano l‟accelerazione ipermediale di internet per
occupare, in modo ossessivo, la loro mente con informazioni, dati ed esperienze
digitali limitando, in questo modo, proprio un‟elaborazione soggettivamente
significativa dell‟informazione.
Lo scopo dell‟autosovraccaricamento potrebbe essere quello di impedire una
“digestione” emozionale che trasforma il dato grezzo in esperienza. In tal senso la
ricerca di “information overload” (ma anche quella di relazioni interpersonali
veloci, frammentarie e superficiali nelle Chat o nei Mud) emula un‟attività
avevano subito delle frustrazioni orali relative, e non assolute. Le madri erano descritte come personalità
immature, la loro relazione con i bambini era caratterizzata da ambivalenza, angoscia di morte, e soprattutto un
sentimento di inadeguatezza nei confronti dei loro bambini.
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Per questa sua ricorsività priva di senso, per questo suo dimostrarsi
illogicamente necessario, il comportamento “simil-mericistico” di alcuni “internet-
dipendenti” rimanda all‟insensatezza, alla incongruenza del rituale ossessivo-
compulsivo, d‟altronde anche questo modo di usare la “Rete” potrebbe avere una
funzione di compromesso difensivo per cui la“fame d‟oggetto”, connessa ad una
pulsione orale insublimata, risulta essere soddisfatta solo, simbolicamente, in un‟
area della coscienza dissociata, disgiunta; ottenendo così, attraverso il processo
dissociativo, che sia denegata ed impedita la reale consapevolezza di un bisogno di
relazione fintanto che questa stessa consapevolezza risulti, “catastroficamente”,
associata al trauma di un‟esperienza di attaccamento primario affettivamente
frustante e disgregante: «Ad ogni passo successivo della crescita.. afferma Gaddini
..è come se si ripetesse nella mente il pericolo vissuto al momento del primo
distacco: ci si può annientare, si può scomparire, si può andare in pezzi. Questo
pericolo originario è tanto più invadente, quanto più il distacco è stato vissuto in
modo traumatico. Una persona che ha dovuto attrezzarsi nella mente per non
evolvere nella separazione, continuerà a vivere in modo onnipotente, soprattutto a
scapito dell'intero sviluppo del rapporto oggettuale» (Gaddini 1985).
6
Secondo Gaddini “nello sviluppo intellettivo, I'imitazione favorisce l'apprendimento rapido, “per contatto”,
quel tipo di apprendimento che altrettanto rapidamente si perde, e che altre volte invece si accumula, come il
grasso superfluo nell'obesità, senza poter essere integrato” (Gaddini 1985)
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Gaddini descrive nel suo lavoro "Sulla imitazione" (1968) due aree di esperienza mentale. La più antica quella
psicosensoriale, è connessa ad una percezione primitiva: attraverso il soma; le esperienze psicosensoriali tendono
ad allontanare il riconoscimento dell‟oggetto come "altro da sé" ed esprimono la disposizione ad "essere"
l‟oggetto; la attività di questa area si sviluppa secondo un modello funzionale "imitare per essere" che è
l‟equivalente psichico del modello biologico della percezione primitiva (imitare per percepire) e conduce
all‟immagine allucinatoria alle fantasie di fusione attraverso l‟identità magica con l‟oggetto e alle imitazioni,
nella direzione di "essere" l‟oggetto, e quindi di non riconoscerlo come esterno e separato; la seconda, l‟area
psico-orale, invece opera il graduale riconoscimento percettivo di stimoli esterni al Sé, come avviene attraverso
l‟attività orale. Questa area si sviluppa attraverso il modello funzionale della introiezione, equivalente psichico
del modello biologico della incorporazione e conduce alle fantasie di fusione attraverso l‟immissione
dell‟oggetto nel proprio Sé, nella direzione di "possedere" l‟oggetto; ciò comporta il graduale riconoscerlo come
esterno al Sé e il dover confrontarsi con la dipendenza reale dall‟oggetto. Secondo Gaddini all‟inizio la psiche si
manifesta nel corpo attraverso sensazioni di piacere-dispiacere ed in seguito raggiunge una organizzazione più
complessa rappresentata dalla relazione oggettuale, tale percorso dal somatico al mentale non è lineare e nelle
relazioni oggettuali possono coesistere scambi continui tra livello più arcaici e più differenziati. Per un
approfondimento della visione "processuale" del processo di crescita in Gaddini, si veda .Lambertucci-Mann
(1999), pp.25-28.
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Bibliografia
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Scuola
UN CASO DI BULLISMO
Marzia Viviani
(Psicologa, Psicoterapeuta, Psicodrammatista)
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ripetutamente nel corso del tempo ad azioni offensive messe in atto da uno o più
compagni. (Olweus, 1996, p. 12)
Olweus traccia un profilo dei persecutori e delle vittime. Le vittime sono
generalmente più deboli, più ansiose e insicure degli studenti in generale. Sono
spesso caute, sensibili e calme. Se attaccate da altri studenti in genere reagiscono
piangendo (almeno nelle prime classi) e chiudendosi in se stesse. Soffrono di scarsa
autostima e hanno un‟opinione negativa di sé e della propria situazione.
Solitamente hanno un basso livello di popolarità fra i compagni, vivono a scuola
una condizione di solitudine e di abbandono e non hanno un buon amico in classe.
Alcuni dati indicano che hanno avuto nella prima infanzia, rispetto ai ragazzi in
generale, rapporti più intimi e più positivi con i genitori, in particolare con la
madre. Si può quindi concludere che ciò che caratterizza la vittima è la
combinazione di un modello reattivo ansioso associato a debolezza fisica. Per
quanto riguarda i bulli essi sono solitamente più forti della media dei ragazzi e, in
particolare, delle vittime. Oltre ad essere aggressivi verso i compagni lo sono
spesso anche verso gli adulti, sia genitori che insegnanti. Tendenzialmente sono
impulsivi, hanno un forte bisogno di dominare gli altri e mostrano scarsa empatia
nei confronti delle vittime. Si può quindi concludere che ciò che caratterizza il
bullo è la combinazione di un modello reattivo aggressivo associato a forza fisica.
I dati che emergono dagli studi compiuti dallo psicologo norvegese pongono
l‟accento su alcuni fattori risultati importanti nello sviluppo di tale modello. Un
primo fattore riguarda l‟atteggiamento emotivo dei genitori, in particolare quello
della persona che si occupa maggiormente del bambino nei primi anni di età (di
solito la madre). Un atteggiamento negativo di fondo, caratterizzato da mancanza
di calore e di coinvolgimento aumenta il rischio che il ragazzo diventi in futuro
aggressivo e ostile verso gli altri. Una seconda componente chiama in causa gli stili
educativi. L‟educatore generalmente permissivo e tollerante, non ponendo chiari
limiti al comportamento aggressivo del bambino verso i coetanei, verso i fratelli e
verso gli adulti, crea le condizioni per lo sviluppo di condotte aggressive. Una terza
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causa è l‟uso coercitivo del “potere” da parte del genitore in forma di punizioni
fisiche e violente esplosioni emotive. Le condizioni socioeconomiche della
famiglia non sono risultate determinanti per lo sviluppo di un modello reattivo
aggressivo (bisogna però tenere conto del fatto che nei paesi scandinavi c‟è una
relativa omogeneità socioeconomica della popolazione).
In Italia, negli anni Novanta, è stata effettuata una ricerca da parte di Ada Fonzi,
docente di Psicologia dello Sviluppo all‟Università di Firenze. Oggetto
dell‟indagine sono stati 1.379 alunni delle ultime tre classi della scuola elementare
e delle tre della scuola media di Firenze e Cosenza. La scelta di queste città è stata
determinata, oltre che da ragioni pratiche e contingenti, dall‟obiettivo di iniziare
una prima esplorazione in due aree del paese tra loro diverse, per ragioni culturali,
sociali ed economiche.
I dati ottenuti sono sconcertanti. Il fenomeno del bullismo a scuola è risultato, in
entrambe le zone, a un livello notevolmente più elevato che in altri paesi, come la
Norvegia, l‟Inghilterra, la Spagna, il Giappone, il Canada, l‟Australia, la Finlandia.
Abbiamo detto che Francesco giunge circa un anno e mezzo fa al Centro
Clinico, ha 12 anni e frequenta la seconda media. Ha un fratello di 14 anni che
frequenta il primo liceo scientifico. La madre, 40 anni, lavora come impiegata; il
padre, 42 anni, è idraulico presso una ditta. Di Francesco e del fratello si occupano
spesso i nonni, sia paterni che materni, soprattutto per quanto riguarda il pranzo,
dal momento che la madre rientra dall‟ufficio nel pomeriggio e il padre solo verso
sera.
I genitori si conoscono fin dalle scuole superiori. Si sono fidanzati 18 anni fa e
dopo tre anni di fidanzamento si sono sposati. Ambedue le gravidanze sono state
volute. Tutti e due i figli sono nati a termine con parto naturale.
Francesco è stato allattato al seno fino a sei mesi, quando è stato svezzato senza
difficoltà. Ha iniziato la quadrupedica a nove mesi e camminato a dodici. Non è
stato inserito al nido (fino a un anno è rimasto con la madre che ha preso
un‟aspettativa sul lavoro e fino a tre anni è stato tenuto dai nonni). A tre anni ha
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cambiato classe, sta andando a scuola, ma fa molte assenze dovute a mal di pancia
o forte mal di testa la mattina quando si sveglia. Le crisi sono diminuite, ma non
cessate completamente. Viene accolta la sua richiesta e si decide di aggiungere
anche una terapia individuale.
Prima di parlare di cosa è successo nel gruppo in questo anno e mezzo vorrei
dire alcune cose sullo psicodramma analitico.
Moreno, dopo alcune esperienze fatte con i grandi giochi collettivi
improvvisati coi bambini nei giardini di Vienna e, in seguito, con le prostitute della
stessa città, approda nel 1923 allo psicodramma. Fin dalle sue origini lo
psicodramma moreniano si basava soprattutto sulla catarsi e sulla “presa di ruolo”.
Il concetto di catarsi è abbastanza familiare, per quanto riguarda invece la “presa di
ruolo”, per Moreno, essa consiste soprattutto nella possibilità di calarsi in un ruolo
nuovo, spontaneo, diverso da quelli prefabbricati che la società ci costringe ad
assumere.
Moreno racconta di aver avuto un incontro con Freud nel 1912 e di avergli
detto: “Io inizio dove lei finisce; lei mette le persone in una situazione artificiale,
nel suo studio, io le incontro nella loro casa e nel loro ambiente naturale; lei
analizza i loro sogni, io cerco di dare loro il coraggio di sognare ancora….
Insegno alla gente come si gioca ad essere Dio”.
Questo discorso fa ormai parte della leggenda e forse non è del tutto attendibile,
sta di fatto, però, che questo giocare ad essere Dio o il Re dell‟universo è un tema
ricorrente nei ricordi e negli scritti di Moreno e rappresenta un punto centrale per
comprendere la differenza fra lo psicodramma moreniano e quello analitico, o
“freudiano”.
Dopo la seconda guerra mondiale alcuni analisti, per lo più francesi, incontrano
Moreno in America, effettuano un periodo di formazione con lui e, quindi, portano
lo psicodramma in Francia, Olanda, Belgio, Inghilterra. Tale esperienza si
trasforma rapidamente attraverso l‟elaborazione e l‟interpretazione di analisti e di
psicologi, la cui formazione e la cui storia sono estremamente varie, producendo
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solo sorretto dalla madre, e attraverso le parole della madre. La funzione dello
specchio è quella di produrre uno sdoppiamento del soggetto, per cui questo può
oggettivarsi nell‟immagine speculare, nell‟altro da sé, al fine di potersi riconoscere
in un‟alterità che lo identifica, in una esteriorità che lo riflette.
Nella teorizzazione dello stadio dello specchio questa funzione dialettica del
riconoscimento di sé attraverso l‟Altro si realizza nel rapporto del soggetto con la
propria immagine riflessa. Il riconoscimento dell‟immagine come propria, come
forma che rende possibile l‟individuazione, costituisce la forma inaugurale del
soggetto in quanto “Io”.
Questa forma nella quale il soggetto si virtualizza come un essere compiuto e
determinato è il modo con cui Lacan interpreta l‟Io Ideale di Freud, la sua natura è
squisitamente narcisistica poiché essa si produce nell‟istante della fascinazione che
l‟immagine produce sul soggetto e attraverso la quale lo cattura e lo costituisce in
una “linea di finzione”, di illusione. E infatti l‟essere del soggetto al di qua dello
specchio si trova in condizioni reali di frammentazione e di dipendenza, che la
Gestalt ideale del processo speculare sembra invece abolire. La funzione
dell‟immagine svela qui tutto il suo potere narcisistico incantatorio: il soggetto
trova nella sua immagine-oggetto una rappresentazione narcisistica di sé, che
compensa lo stato di frammentazione in cui si trova, in un periodo evolutivo
marcato dall‟onnipotenza dell‟Altro e dall‟impotenza fondamentale del soggetto.
L‟immagine del corpo proprio sutura la mancanza che affligge il soggetto.
Quindi, lontano dall‟essere l‟istanza orientativa della personalità, l‟io si rivela
nella sua genesi speculare come un derivato dell‟immagine.
Nello stadio dello specchio si realizza un‟unità ideale che però arriva, possiamo
dire, troppo in anticipo, producendosi su una “linea di finzione” che cattura il
soggetto in una fascinazione tragica perché, come indica il mito di Narciso,
fondamentalmente suicidaria.
Quindi la formazione dell‟io dipende da un‟immagine extracettiva,
dall‟esteriorità dell‟immagine. Niente potrà riassorbire lo scarto aperto dalla
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Il nodo prende il nome da uno degli stemmi usati dalla famosa famiglia lombarda ed è costituito da tre nodi
intrecciati. Esso è dotato di una particolare proprietà che consente di liberare tutti i suoi anelli tagliandone uno
qualsiasi.
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partecipavano le stesse persone che avevano preso parte alla vicenda reale.
Secondo Moreno riprendere gli elementi di realtà il più direttamente possibile
avrebbe permesso una maggiore intensità dell‟esperienza emotiva aumentando la
rilevanza del momento catartico, cosa che se può assumere un valore e un
significato nella prospettiva moreniana, in una prospettiva analitica risulta invece
secondaria e al limite decisamente antieconomica, se si tiene conto degli aumentati
rischi per i pazienti di confondere il piano immaginario con quello della realtà.
La posizione di Moreno è strettamente collegata anche al fatto che egli svaluta
al massimo la nozione di transfert, fenomeno che considera più o meno patologico
e non necessario, ponendo invece alla base dei rapporti umani il fenomeno di tele
(termine mutuato dal greco) cioè la possibilità che i rapporti possano essere diretti,
spontanei, senza mediazione.
Nello psicodramma analitico quindi i protagonisti reali della scena non sono
presenti materialmente salvo naturalmente il paziente. La scelta degli ego ausiliari
o degli antagonisti con i quali giocare la scena del ricordo non può avvenire,
quindi, che attraverso l‟investimento di uno o più tratti unari che collegano, più o
meno illusoriamente, il personaggio attuale, presente nel gruppo, a quello del
racconto.
Ogni gioco nello psicodramma può nascere solo da esperienze in cui il soggetto
si è trovato veramente coinvolto, sia pure in sogno. Contrariamente a quanto
avviene nello psicodramma moreniano e in altri tipi di psicodramma non viene,
infatti, promosso il gioco delle scene tabulate, dei sogni ad occhi aperti, delle
proiezioni future.
Considerando i tre registri in cui si articola la condizione umana secondo Lacan
si può dire che nello psicodramma analitico si va dall‟immaginario al simbolico,
escludendo per quanto possibile ogni valutazione pratica di efficienza e ogni
tentativo di intervenire direttamente nella realtà sociale esterna dei pazienti.
Tuttavia il reale è sempre presente come voragine del nulla, per lo meno nella
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importanza). Francesco inserisce in alto il padre, che per lui è la persona più
importante, perché è “il capo”. Racconta di andare molto d‟accordo con lui, spesso
giocano a carte o a scacchi (dice che gli scacchi sono il suo gioco preferito). Subito
sotto inserisce la madre e il fratello. Anche la madre, dice, è importante, ma un po‟
meno e spesso litigano.
In un incontro successivo viene proposto al gruppo di inventare una storia da
rappresentare. Ecco la storia: in un ristorante frequentato da molte persone entrano
dei rapinatori. Cominciano a girare fra i tavoli per farsi dare soldi e gioielli. Il
proprietario riesce, di nascosto, a chiamare la polizia. Quando questa arriva c‟è una
sparatoria. Alcuni banditi e alcuni poliziotti rimangono uccisi. Quando la scena
viene giocata Francesco sceglie di fare il poliziotto che deve arrestare i banditi.
Uno dei banditi gli spara più di una volta, ma lui continua a sparare gridando:
“Tanto non mi potete fare niente, io sono immortale!”
A fine giugno Francesco dice di essere stato promosso. Cambierà classe ed è
contento di questo cambio perché conoscerà nuovi compagni e spera di trovarsi
bene.
Racconta un sogno fatto tre giorni prima: “A casa mia veniva un medico pazzo
con degli animali al guinzaglio. Gli animali erano un canguro e un coccodrillo. Il
coccodrillo mi voleva mangiare. Eravamo in camera di mamma e papà (ma loro
non c’erano). Io chiamavo il medico pazzo perché mi aiutasse, ma lui non veniva”.
Dopo le vacanze estive nel gruppo vengono inseriti quattro nuovi piccoli
pazienti: due maschi e due femmine.
Nel primo incontro Francesco racconta un sogno: “A scuola i miei compagni
non mi volevano e mi prendevano in giro. Quando sono tornato a casa ho
raccontato a mia madre l’accaduto, ma lei se ne è fregata”.
Nell‟incontro successivo racconta di aver cominciato la scuola e che la sua
nuova classe gli piace.
Dopo circa dieci mesi dal suo inserimento nel gruppo racconta il vero motivo
per cui in seconda media non è più andato a scuola: diversi episodi di bullismo da
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“Lui è il più forte della famiglia, io lo sfido perché voglio vedere se riesce a
fermarmi”.
Prima della chiusura per le vacanze estive Francesco dice di essere stato
promosso agli esami di terza media e di volersi iscrivere allo scientifico.
Devo ammettere che quello verso di Francesco non è stato un ”amore a
prima vista”. Il suo continuo muoversi e disturbare e le sue battute di spirito che
scatenavano ilarità nel gruppo, sono stati faticosi da gestire. Oltre la fatica sentivo
anche un senso di fastidio.
Quando sono emersi gli episodi di bullismo ho capito che quel senso di fastidio
era in realtà rabbia. Rabbia nei confronti dei genitori che sembrava non vedessero
quel figlio vestito male, con i capelli troppo lunghi: una vittima ideale.
Forse avevo intuito qualcosa, ma non avevo dato retta al mio istinto. E allora la
rabbia era un po‟ anche verso di me, unita ad un senso di colpa.
Quando nell‟a solo del gioco, Francesco, nel posto del padre, ha parlato di un
barista che vede il cliente per la prima volta mi si è stretto il cuore. E non nascondo
di aver provato un certo piacere nel vedere, successivamente, la rabbia di Francesco
che finalmente usciva fuori.
Francesco quest‟anno frequenta il primo liceo scientifico. Dice di trovarsi
abbastanza bene con i suoi compagni di classe, anche se ogni tanto emergono ansie
e paure. E‟ un ragazzino solo, con difficoltà di relazione con i coetanei. La madre
continua ad essere iperprotettiva, non facilitandone lo svincolo, e il padre
tendenzialmente assente. Gli agiti aggressivi di Francesco nei suoi confronti fanno
ipotizzare un bisogno di essere visto, oltre che essere contenuto.
Certo alcuni passi sono stati compiuti in questo anno e mezzo. Si poteva fare di
più? Quando ho visto Francesco per la prima volta lo pensavo: il delirio di
onnipotenza è sempre in agguato dietro l‟angolo, ma il lavoro con i piccoli è
un‟ottima palestra per allenare ad una tolleranza alla frustrazione, che deve
necessariamente sostituirlo. Un primo granello di sabbia è stato, però, spostato e
chissà che granello dopo granello……
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Clinica
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Giancarlo Di Luzio
(Psichiatra, Psicoanalista SPI-IPA, Membro Docente COIRAG-IAGP)
Premessa
Premetto per chiarezza alcuni chiarimenti sui termini usati e l‟ ordine degli i
argomenti trattati .
Utilizzerò il termine Disturbi Alimentari Psicogeni (DAP) anziché Disturbi
del Comportamento Alimentare (DCA), la denominazione più comune nel nostro
paese per definire l‟area dell‟anoressia, bulimia e dei DCA non altrimenti
specificati (DCA-NAS), perchè tale denominazione, a mio avviso, ponendo al
centro un comportamento, mette in secondo piano il dato, rilevante dal punto di
vista psicodinamico , che la malattia coinvolge in realtà l‟intera personalità e non
solo la condotta alimentare, aspetto parziale anche se spesso grave. In questo
senso, H. Bruch,( parlando della Anoressia Nervosa, AN), definisce il disturbo
alimentare come manifestazione tardiva di un disturbo di personalità presente
molti anni prima. Anche la estesa letteratura psicoanalitica18, sembra riconfermare
l‟ ipotesi che il disturbo abbia origine nel cuore della personalità ( ovvero, dal
punto di vista della Psicoanalisi del Sé, nel suo centro, nel Sé);
18
Thoma ( v. bibliografia), che ha curato una raccolta di 60 casi curati con l‟ analisi nel corso di quasi un secolo
( almeno 60 anni), sottolinea la lunga esperienza della psicoanalisi in questo campo, anche se questo ha
portato alla produzione di “case-reports” anzichè studi longitudinali verificati secondo i criteri della “evidence
based medicine”, la qual cosa però non è sufficiente motivo per considerarli di valore nullo.
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Come già detto, un dato che non può non colpire qualsiasi psicoterapeuta
che si occupi dei DAP, è la presenza quasi costante di un sentimento “negativo”del
Sé, centrale, pervasivo e persistente. Questo fatto era stato già puntualmente
rilevato dalla Bruch decenni fa, nei suoi studi pionieristici sulla AN e sull‟obesità e
19
Vedi in bibliografia Bruch , “Patologia del Comportamento Alimentare”.
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nelle magistrali descrizioni dei vissuti soggettivi delle sue pazienti. Nonostante la
sua originaria formazione biologica20 ella è fin dall‟inizio è stata convinta della
rilevanza dei fattori psicodinamici, sulla scorta di una esperienza su centinaia di
casi, comprendenti anche l‟area della obesità, che nella sua cornice teorica è solo
il polo opposto della AN, in un “continuum” di uno stesso spettro patologico,
ipotesi ripresa dalle più recenti prospettive “trans-nosografiche”21. Pur non
sottovalutando la portata dei meccanismi di difesa riguardanti la pulsionalità
(specie libidica) descrive , nel caso della AN, una fragilità della personalità che
riguarda l‟identità, il concetto di sé, il sentimento efficacia, il senso di autonomia,
il diritto a decidere della propria vita e a percepire la mente e corpo come aree su
cui poter aver diritto di attivita‟ e sviluppo proprii. Da questo punto di vista la
malattia viene fatta risalire, in un‟ottica eziopatogenetica multifattoriale, ad un
disturbo della personalità22 associato ad una radicata disfunzione percettiva sia
della immagine corporea che dei segnali di fame sazietà, sviluppatisi
precocemente, in conseguenza di deficit di accudimento dei “care-givers”23;
20
La sua iniziale attività era stata di endocrinologa.
21
Vedi Fairburn in bibliografia.
22
Il termine usato usato dalla Bruch, che compare nel titolo della sua opera principale “Eating disorders and the
person within” è dunque “person” ed, essendo stato scritto in epoca pre-DSM IV-R, non è possibile fare
collegamenti con tale classificazione nosografia.. E‟ da notare che la traduzione italiana del titolo, “Patologia del
Comportamento Alimentare” introduce il termine comportamento non presente nell‟originale ed omette il termine
“person”., ovvero il concetto più globale di persona, personalità.
23
La relazione madre-bambino occupa naturalmente un posto di primo piano. In un precedente articolo avevo
usato il termine di “campo transgenerazionale” per indicare il fatto che, al di là di tale rapporto, alle genesi del
deficit di personalità poteva concorrere una psicopatologia che si era trasmessa attraverso più generazioni. Tale
impressione si è in me sedimentata nel corso della terapia di alcuni casi, seguiti per anni, in cui è stato possibile
ricostruire la strutturazione della personalità nei primi anni di vita, prima della comparsa del DAP, in relazione al
contesto familiare ed in cui si è potuto comprendere come il bambino, per fini adattativi, si era posto ed era stato
posto,come “contenitore”, funzionale alla “omeostasi” familiare, di stati psichici ( il più spesso di coloritura
“negativa” “autosvalutativa”) propri di genitori che a loro volta li avevano “ricevuti” dalla precedente generazione.
In particolare in un caso di grave bulimia è risultato evidente che la bulimia era tra l‟altro una tecnica di
tamponamento di antiche angosce infantili. Da piccola era insonne ed in particolare aveva incubi in cui “un uomo
cencioso e pazzo la inseguiva e minacciava di portarle via i genitori. Nella ricostruzione era emerso l‟esistenza di
forti angosce di povertà, follia e morte specie nella madre, “ereditate” dai propri genitori, che erano state captate e
fatte proprie dalla paziente, figlia quindi “stressata” ad essere un piccola adulta. Le ansie avevano preso la forma
di una insonnia con incubi. Il cibo poi era diventato un suo calmante fino però a generare una obesità infantile. In
adolescenza aveva reagito a questa sorta di “passivizzazione” controllando il peso con una restrizione fino alla
anoressia. La ribellione alla anoressia era stata la bulimia con cui aveva continuato a controllare l‟angoscia
ereditata dall‟infanzia..
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Vedi in bibliografia .Pallier per il tema della mostruosità.
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il mito di Filottete, riportatomi più volte nel corso dell‟analisi di una grave paziente bulimica,per esprimere i
suoi sentimenti, mi sembra rappresentare questo stato. Filottete eroe greco, durante il viaggio in mare verso Troia
contrae una malattia diffusa della pelle, molto repellente e maleodorante. I compagni di spedizione lo
abbandonano solo su in isola. Per anni nessun essere umano gli si avvicinerà ed egli svilupperà un forte senso di
fragilità per l‟isolamento subito e di bisognosità di rapporto umano. Dopo anni Ulisse, che per vincere la guerra
ritiene importante acquisire l‟arco di Ercole, allora in possesso di Filottette , raggiunge l‟isola e si finge essere un
amico che lo vuole rivedere. Ma ottenuto l‟arco, subito dopo l‟abbandonerà con gran dolore di Filottete per la
delusione e l‟inganno.
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Vedi Resnik in bibliografia.
27
In un precedente articolo ( v. bibliografia) ho ipotizzato, come evidenziato anche da altri Autori, che i DAP,
sarebbero in realtà più disturbi dell‟ esperienza interpersonale ( vedi gli approcci nordamericani ai DAP della
ITP, la Psicoterapia Interpersonale) che dell‟alimentazione. La fragilità del Sé di queste persone li porta ad
evitare l‟esperienza interpersonale e a sostituirla con quella con oggetti “non-umani”, più “padroneggiabili”,
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non può riempirsi di parole che escano e si indirizzino con efficacia e rabbia ad
una altra persona; infatti, a causa di un Sé troppo autosvalutato, ella non si sente in
diritto di difendersi né in grado di sostenere ed esprimere emozioni intense né di
avere il coraggio di assumersene il carico nei confronti di una altra persona; per tale
motivo nell‟ apparato orale alle parole viene sostituito il cibo e questo poi viene
espulso con violenza al posto di un energica comunicazione.
Tenendo conto di tale varietà della fenomenologia soggettiva possiamo
ipotizzare che la patologìa del Sé si estenda, a seconda dei casi , con una
graduazione di gravità, da una parte più “centrale” in cui sono state compromesse,
in fasi più precoci (per es. attraverso alterate “esperienze speculari arcaiche”28), il
sentimento del diritto all‟esistenza, la percezione dell‟appartenenza a sé della
mente e del corpo, il meritare valore e spazio nella propria esistenza, a parti più
“periferiche”: in questi casi è come se il Sé non permeasse sufficientemente le
azioni del soggetto, le sue qualità, i suoi talenti. Tali pazienti non riescono ad
esprimere con efficacia le proprie attitudini e capacità, spesso elevate, come se non
ne potessero disporne a pieno titolo o non fosse consentito loro di apprezzarne
tutto il loro valore né potessero farle valere. Per es ., come poi riportato, Ilenia,
paziente anoressica, laureata in economia a pieni voti lavora come commessa e
quando le viene riconosciuto un aumento di stipendio per le sue capacità si stupisce
che questo sia accaduto.
Quindi in una sorta di classificazione fenomenologica, che va dal centro alla
periferia, potremmo così raggruppare, le forme di “sentimento negativo di Sé “.
Sentimenti di mancanza di diritto all‟esistenza, all‟ espressione e realizzazione di
Sé, alla progettazione della propria vita, sentimenti di inesistenza, di invisibilità;
Sentimenti di diversità, alienità, sentimenti di difettosità/mostruosità;
Sentimenti di vergogna, impresentabilità, autosvalutazione, autodisistima
Sentimenti di colpa, di indegnità;
quali il cibo e l‟immagine fisica. Con un riferimento alla terminologia di S.Resnick in essi assistiamo ad una
sostituzione del “teatro della vita” con il “teatro del corpo”.
28
V. per” esperienze speculari” Kohut in bibliografia.
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Eclissi del Sé
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vergogna: per es, un ragazzo si interessa a lei ma ella è sicura che questi si stia
sbagliando nell‟apprezzarla, . Quindi quando sono in gioco capacità che vengano
esplicitamente riconosciute da qualcuno alla paziente che ella però non può
riconoscersi, il “rispecchiamento” positivo le “rimbalza” addosso, non le può
sentire come realmente sue, accrescendo così la propria autostima; per es., come
nel caso citato di Ilenia, il capoufficio le riconosce un aumento di stipendio non
richiesto per l‟ottimo rendimento ma tuttavia ella non può attribuirsi tali elevate
doti professionali e quindi rafforzare il senso di sé; quindi i riconoscimenti positivi
“rimbalzano” anziché penetrare nel sentimento di sè e rafforzarlo. E‟ proprio questa
incapacità a “nutrire” il Sé “carente” con esperienze interpersonali che avrà un
ruolo importante nello sviluppo del disturbo alimentare; si può infatti ricondurre
l‟asse portante della patologia ad un tentativo di elaborare questa percezione
dolorosa di una difettosità Sé e di cercare di ripararla.
Così come l‟ eclissi del sole è difficile da sopportare a lungo così possiamo
immaginare che tale vissuto negativo, affinché la persona possa psichicamente
sopravvivere , debba essere in qualche modo fronteggiato. Questo è forse uno dei
motivi per cui avviene lo spostamento sul corpo ed il suo coinvolgimento.
Gli aspetti psichici, a mio avviso, clinicamente più evidenti
nell‟esperienza corporea dei DAP sono : lo spostamento del sentimento negativo
di Sé e della “riparazione” del Sé con il Sé ideale perfezionistico dall‟area
psichica a quella del corpo, la immagine corporea negativa, la dispercezione dei
segnali di fame-sazietà, la condizione alexetimica.
Lo spostamento del sentimento negativo di Sé sul corpo costituisce il
meccanismo di difesa con cui il Sé fragile cerca di rappresentarsi il sentimento
negativo di sè deviandolo in auto-percezione dell‟immagine fisica, in immagine
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Dal greco, incapacità di “leggere” le proprie emozioni.
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Conclusioni
I DAP sono disturbi del Sé in cui la lotta per la sopravvivenza psichica, per
il senso di identità, per l‟autostima, per l‟ideale di Sé, avviene nel corpo,
attraverso l‟alimentazione, con una relazione nei confronti del cibo, significativa
nel senso che in essa sono “travasati”, con tutte le loro ambivalenze, gli affetti del
mondo interpersonale da cui ci si è ritirati.
La terapia analitica, in un contesto di intervento interdisciplinare integrato (
in un “team” costituito da medici nutrizionisti, dietisti, psichiatri, etc…) ha il
compito di riconoscere questa lotta e la sua dignità e liberare il Sé nascosto nel
corpo sofferente e nel disturbo alimentare e di riavviare un processo di
individuazione attraverso un lungo e doloroso passaggio dai fantasmi corporei alle
rappresentazioni psichiche.
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Bibliografia
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Clinica
Angelo R. Pennella
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Può essere interessante evidenziare le differenze esistenti tra due aggettivi – complesso e complicato – spesso
utilizzati erroneamente come sinonimi; mentre il primo deriva infatti dal latino cum plexum (tessuto insieme),
suggerendo quindi l‟idea dell‟intreccio delle parti o delle componenti di un sistema – sia esso fisico, biologico o
sociale – il secondo deriva da cum plicum ed indica pertanto la piega di un foglio. “La complicatezza rimanda
quindi alla linearità del plicum, mentre la complessità ci fa percepire l‟interconnessione del plexum.” (De Toni,
Comello, 2005, p.13)
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L‟effetto farfalla ci consente, tra l‟altro, di comprendere le difficoltà dei meteorologi a formulare previsioni a
lungo termine attendibili per i fenomeni atmosferici: la questione, infatti, è che qualsiasi modello finito che tenti
di simulare un sistema complesso deve necessariamente escludere alcune informazioni sulle condizioni iniziali,
informazioni che, pur minime, incidono tuttavia in modo rilevante sulla previsione in quanto, cumulando
progressivamente il loro effetto, fanno sì che l‟errore residuo nella simulazione superi il risultato stesso.
33
La storia a cui ci si riferisce è la seguente: “Per colpa di un chiodo si perse lo zoccolo; per colpa di uno
zoccolo si perse il cavallo; per colpa di un cavallo si perse il cavaliere; per colpa di un cavaliere si perse la
battaglia; per colpa di una battaglia si perse un regno!”
34
Lampante, in questa prospettiva, il problema dello smaltimento dei rifiuti solidi lasciati dagli alpinisti
occidentali sulle pendici dell‟Everest.
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Bibliografia
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Clinica
Introduzione
Intendo premettere che, dal punto di vista, le teorie devono servire solo ad
aiutarci verosimilmente nella comprensione dell‟altro e non devono mai essere
delle strutture identificatorie, degli “oggetti narcisistici”: la verità è nel paziente,
che occorre andare a trovare lì dove egli è; la psicoterapia è infatti una “danza” da
svolgere nell‟incontro tra due o più gruppalità interne, è un evento intersoggettivo,
ove i transfert sono solo trasferimenti di scene, ove occorre aver ipotesi multiple e
non risposte precostituite. La psiche umana, soprattutto nella sua dimensione
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inconscia, nel suo essere configurata “come insieme infiniti”, che rispondono ad
una bi-logica (per parafrasare Matte Blanco) non può che essere approcciata che
attraverso il paradigma della complessità: per cui l‟avventura analitica non è più
pensabile come semplice nevrosi di transfert, ma coproduzione del vivente
(Racamier, 1990); in tale senso occorre non illudersi circa il capire le cause, il
trovare un‟eziologia identificabile, dal momento che le variabili nella costituzione
dell‟esistere umano sono così tante che sarebbe un delirio pretendere di conoscerle.
Come analista cerco d‟individuare le motivazioni personali (consce ed
inconsce) che stanno all‟origine di una data situazione, presentata dal paziente
come dovuta al caso o determinata da fattori indipendenti dalla sua volontà e dal
suo desiderio; spesso è utile cambiare, temporaneamente, punto di vista ed
interrogarsi se il paziente non abbia invece a che fare con qualcosa che non gli
appartiene, o, meglio, che non appartiene al proprio vero-Sé, al Soggetto e che,
quindi, lo mantiene in cattività, sotto tirannia: coattandolo a vivere secondo i
pensieri, i detti, le pre-dizioni, i pre-giudizi, le aspettative degli altri che sono stati
gli oggetti di relazione fin da quando l‟identità personale si iniziava a strutturare
nel ventre materno; spesso infatti si vive seguendo un destino predefinito,
transgenerazionalmente incistato nella propria matrice identitaria.
Il cammino che porta alla possibilità di prendersi il diritto ad esistere,
all‟individuazione, all‟appropriazione soggettiva (come cercherò di chiarire più
avanti) passa anzitutto attraverso l‟avvento alla coscienza e la messa in parola degli
stati mentali interni, di fronte altri occhi e altre orecchie. “In psicoanalisi la
rimozione non è rimozione di una cosa, ma della verità. Cosa succede quando si
rimuove la verità? L‟intera storia della tirannia è là per darci la risposta: si esprime
altrove, in un altro registro, in un linguaggio cifrato. La verità, rimossa, persisterà
ma trasposta in un altro linguaggio, il linguaggio nevrotico” (J. Lacan, 1957). Ecco
perché “un sano sviluppo mentale sembra dipendere dalla verità, come l‟organismo
vivente dipende dal cibo. Se la verità manca o è incompleta, la personalità si
deteriora” (Bion, 1965, 60).
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1. Un Sé perturbato dall’abuso
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vedere le parti patologiche del familiare (come Edipo non voleva vedere il
figlicidio di Laio).
Altro aspetto particolarmente rilevante dell‟abuso è quello di essere
soggetto ad un fenomeno di minimizzazione/negazione” sia intra-psichica che
extrapsichica contesto relazionale (fenomeni collegati sono la“normalizzazione”, la
“negazione culturale” degli abusi; la scotomizzazione dell‟abuso in Psicoanalisi,
come nel caso di Edipo di cui Di Luzio (2010) propone una lettura come mito
dell‟abuso. La Schützenberger (2006) fa notare come sia anche proibito parlarne,
tal che la persona che dovesse percepire le cose correttamente, rischia di essere
punita, di sentirsi in colpa, di essere designata come cattiva o folle, proprio per aver
mostrato che esiste una discordanza tra ciò che vede (percepisce) e ciò che
“dovrebbe” vedere o sentire; questo perché turberebbe l‟omeostasi familiare.
Pertanto, la comprensione e il trattamento debbono comprendere il contesto
relazionale abusante, il com-plexus.
Come ipotizzato da Di Luzio (2010 la perturbazione psichica da abuso
determina la strutturazione di una configurazione del Sé definibile come “Sé
negativo”, a cui consegue una perdita del diritto all‟esistenza e del valore di Sé.
Occorre, in tali casi, focalizzarsi sull‟analisi del “Sé negativo” e il processo di
disidentificazione da esso, i meccanismi di difesa relativi al trauma, l‟analisi del
contesto abusante).
Come abbiamo notato nel caso di G., in situazioni di abuso, si struttura
anche un Super-Io arcaico, particolarmente persecutorio, come legge contenente il
tabù arcaico all‟individuazione. Come Edipo, ci si sente mostruoso, omicida: in
realtà perché ti viene proibito il diritto alla vita secondo il proprio vero-Sé. (Di
Luzio, 2010). Edipo, infatti, , si ritrova da vittima di genitori abusanti (il padre ha
tentato di ucciderlo, la madre lo costretto a nascere ubriacando un padre che non
lo voleva) a diventare il “mostro parricida ed incestuoso”. Sembra esserci un
capovolgimento: da vittima di una mostruosità transgenerazionale egli diventa il
mostro nei confronti di quel transgenerazionale che lo ha abusato. Il mito sembra
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2. Il caso di G.
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Il resto del com-plexus familiare è composto da: un fratello più grande, che
G. riferisce di averlo sempre svalutato, minimizzando ogni suo successo negli studi
e nella professione (G. è l‟unico che riesce a laurearsi e specializzarsi, dopo essersi
mantenuto negli studi con il proprio lavoro); da una sorella, sempre più grande,
che, come G. riferisce, avrebbe voluto una sorellina con cui giocare e che lo
trattava come un “cicciobello” da piccolo, baciandolo continuamente e portandolo
in giro dalle sue amiche, con grande suo fastidio; c‟è poi lo zio materno, non
sposato e anch‟esso disprezzato dalla madre (di cui è il fratello minore) da cui G.
ha subito continuativi abusi.
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L‟abuso, come quasi sempre avviene, nel nostro caso, è stato trasformato in
un‟istanza moralistica che impedisce di vivere il diritto ad esistere. “Lui,
l‟abusante, è sbagliato”, viene trasformato in un istanza superegoica arcaica,
tirannica, che in realtà incorpora un deficit da accudimento (Neri, Tagliacozzo et
alii, 1989).
G. viveva un‟identità impresentabile, per questo l‟analisi si è focalizzata sul
Sé negativo e sul processo di disidentificazione da esso e sul contesto abusante. G.
all‟inizio era identificato con un ruolo omosessuale ma successivamente si è
progressivamente avvicinato all‟ area della eterosessualità e ha elaborato le angosce
riguardanti il femminile, comprendendo la funzione difensiva della sua
omosessualità e si è distaccato dall‟autosvalutazione.
G., all‟inizio del processo terapeutico, è apparso profondamente
condizionato da questo Sé negativo, risultatandone compromesso soprattutto il
sentire di aver diritto all‟esistenza ed il sentire di essere dotati di consistenza e
valore (Di Luzio, 2010). Inoltre il paziente soffre, da questo punto di vista, di una
vera menomazione psichica: non si sente degno di “presentarsi” e di “lasciarsi
vedere” dal mondo e di lì deriva una strutturata tendenza autolesionistica, in alcuni
casi sotto forma di masochismo morale in altri di agiti auto-lesivi (cutting, agiti
autodistruttivi, ecc.,...); sul piano relazionale, un paziente del genere, sovente può
essere indotto verso rapporti in cui verrà di nuovo abusato e svalutato. La propria
immagine psichica e, nel caso dei disturbi alimentari anoressico-bulimici, anche
quella fisica, viene percepita come difettosa, brutta, mostruosa, inadeguata,
inaccettabile (Di Luzio, 2010).
In persone che hanno subito tale tipo di abuso, tutte le altre manifestazioni
psicopatologiche sembrano esprimere, con modalità ambivalente, o la
rappresentazione di questa immagine negativa contro cui agire in modo
autodistruttivo e autopunitivo (vedi in Edipo l‟auto-accecazione) o al contrario la
riparazione di essa attraverso un falso-Sé, compiacente, idealizzato, perfezionista.
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G. racconta il seguente sogno: «Ero in una casa nel palazzo dove abitavo da
bambino, ma la casa era più grande, sono a letto, mi alzo perché so che sta
arrivando un terremoto. Il terremoto arriva e fa tremare tutta la casa mentre M. [la
sua attuale, nonché prima, compagna] mi sta chiamando. Lascio la porta di casa
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aperta per poter scappare, poi ci ripenso e la richiudo, considerando che sarebbero
potuti venire dei ladri, poi non ricordo se ci ripenso nuovamente e la riapro, avevo
delle chiavi nuove. Nella stanza c‟è una finestra con un balcone, che il vento forte
fa aprire. Ritorno a dormire; nel buio viene un uomo, probabilmente entrato dalla
finestra, che mi salta addosso e mi tiene fermo; io non riesco a chiedere aiuto,
respiro sempre più affannosamente e forte, e sempre più parlo a voce crescente fino
a gridare, grido realmente, tanto che M. mi sveglia».
Il terremoto è quel che vive G. nel suo mondo interno in questa fase di
transito: dall‟identificazione con la trama transgenerazionale – per cui ha vissuto
fin ora seguendo le voci e il posto assegnatogli secondo il proprio “condominio
interno” (si veda più avanti il terzo capitolo relativo in cui spiego questa metafora
proposta da Napolitani, 2006) - all‟agire secondo il desiderio del vero se stesso, ri-
chiamato a tale desiderio dalla voce della sua compagna, con cui vivere
egosintonicamente il proprio desiderio eterosessuale. Un terremoto che avviene
quando si trova in uno nuovo scenario abitativo, pur collocato nel “palazzo”
familiare di origine: come dire che è possibile effettuare questo tras-gressivo
passaggio verso l‟individuazione completa, se non troppo svincolato dalla trama
d‟origine.
Il dilemma se stare con le conseguenti angosce persecutorie o no, sembra
essere configurato nell‟indecisione, se lasciare la porta aperta o meno per evitare
l‟entrata di quest‟uomo; ma G. ha delle chiavi nuove, nuovi punti di vista, nuove
risorse; l‟entrata dell‟uomo poi è permessa comunque dall‟apertura della finestra da
parte del vento: è la paura/speranza, ambivalentemente, che l‟analista e il gruppo,
nell‟esercizio di una funzione paterna (vedi paragrafo successivo) entrino e lo tirino
via dal suo posto in cui, da piccolo, dormiva accanto alla madre, nel letto
matrimoniale, che lo tirino via dal suo posto nell‟identificazione omosessuale
“forzata” transgenerazionalmente; è il terrore che la funzione paterna, entrata in
analisi, attraverso il gruppo, lo porti via da questo legame nostalgico, intenso,
finora mantenuto, con la madre, e reiterato nella scelta di un certo tipo di
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compagna, nel senso che ho già cercato di precisare e che svolgerò meglio più
avanti. Quel legame per il quale aveva sviluppato la sua identificazione narcisistica
omosessuale e che ora, con la comparsa in scena della funzione paterna, sente
pericolosamente incrinarsi.
Gli opposti coincidono molto spesso nello psichico: tanto che, se l‟essersi
messo con una donna, sembra assumere il senso di uno svincolamento; è comunque
una trasgressione alla matrice transgenerazionale sempre includente anche aspetti
di una ripetizione transferale; d‟altronde, è la prima volta, è solo l‟inizio. Il vento
potrebbe, in una delle tante ermeneutiche verosimili e utilizzi possibili, configurare
l‟emissione di parola, il processo di verbalizzazione nel setting analitico, nel senso
che cercherò di chiarire più avanti.
Sta di fatto che G., nell‟esplorare l‟eterosessualità, fa un salto, lacerando la
matrice transgenerazionale, evitando così di concretizzare il fantasma familiare;
attraverso il suo piacere erotico verso le donne, dal momento che questo non è nella
trama familiare per lui progettata; a differenza di Edipo, il quale è una persona che
lotta contro il sentimento di estraneità: nell‟adolescenza, quando altri vedono che
lui, Edipo, è estraneo ai propri genitori, cercherà sempre di salvaguardare il
familiare (Di Luzio, 2010).
La malattia è la trasformazione sintomatica dell‟angoscia dovuta al
perseguitante familiare che attacca l‟individuo: anziché essere mostruoso il
familiare, diventa mostruosa l‟individuazione: la difficoltà è vedere le parti
patologiche del familiare (Edipo, ad esempio, non voleva vedere il figlicidio di
Laio). In terapia analitica tu puoi usare la parola e metterla in connessione con i
tuoi stati mentali interni: processo che inverte il blocco nell‟individuazione. Il
linguaggio diventa strumento di differenziazione, fa entrare l‟estraneità, per essere
di più soggetto, esprimendo stati dell‟animo, cosicché la persona diventa, a livello
sociale, una che ha il diritto ad esprimere i suoi stati interni, sia rispetto ai punti di
vista, sia rispetto alle attese degli altri.
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membro del gruppo rappresenta parti di G., così come G. rappresenta, con i suoi
comportamenti, parti del gruppo.
Tale gruppo, attivo da circa quattro anni, è composto, oltre a G., da altre
quattro persone: una donna, M., di trentaquattro anni, con disturbo bipolare; A., un
giovane di ventiquattro anni, studente universitario con disturbo paranoide; un
giovane di ventitre anni, studente universitario, F.; un uomo di trentaquattro anni,
R.. In V., con trascorsi di seri disturbi alimentari, il percorso si è articolato nella
bipolarità tra un Sé molto piccolo, bisognoso, imperfetto, impotente di fronte
all‟attaccamento, oscillante tra Sé grandioso e Sé disprezzantesi; nel momento in
cui gli viene tolto il sogno che i genitori non muoiono e che lei possa rimanere
figlia eterna.
Per A., venuto in gruppo dopo un breve trattamento in setting individuale, a
seguito di un ricovero per schizofrenia e con un disturbo paranoide, il gruppo ha
sortito l‟effetto, incredibile, ma osservato e perdurante, di aver bonificato
notevolmente la paranoia: quando viene sdoganato il vero Sé, esce l‟aspetto
persecutorio interno; la paranoia è l‟altra faccia della grandiosità (i grandi sogni
sono l‟altra faccia della paranoia). Il passaggio dalla paranoia alla confusione è già
un passo in avanti; unire il desiderio, la faccia e la frustrazione, angoscia per la
paura che non riesci a sostenere la faccia. Il punto di vista su di sé di se stessi e
degli altri. C‟è una percezione sempre più reale di quest‟impatti di sé. Il passo
successivo consiste nel trasformare il desiderio in una spinta a fare delle cose,
convivendo con la paura della frustrazione.
C‟è poi R., impigliato nella rete familiare di origine, da cui non riesce a
svincolarsi: la sua difettosità fisica è stata, dall‟infanzia all‟adolescenza, qualcosa
che ha rimandato un‟immagine di sé di cui vergognarsi; ciò è sintomo di quella
difettosità psichica divenuta pervasiva e destrutturante; in tal senso la difettosità
fisica serve per coprire il segreto sul proprio transgenerazionale.
F. invece è venuto in trattamento dichiarando di soffrire di attacchi di
panico che bloccano gran parte della sua vita sociale.
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vedere altre cose che potresti avere ed essere. Nel gruppo G. si è potuto permettere
di separarsi da ciò che prima si prendeva per aspettativa di ruolo. In un contatto con
se stesso ora G. vuole, finalmente, che gli altri riconoscano, pur nella difficoltà ad
essere riconosciuto per quello che uno è, dal momento che, finora, nella vita, si è
stati abituati o a percepirsi come una “schifezza”, o a mettersi nel ruolo. Nel gruppo
si riescono a mettere da parte ciò, a superare la paura di metter fuori se stesso,
lavorando sulle parti più reali di se stesso, apprendendo a difendere i confini reali
di sé, pur nella ferita per la scoperta di non essere quella fantasia ideale, superiore:
ciò rende concrete le decisioni, si mettono i piedi per terra
Con l‟apporto e il rispecchiamento di altri occhi, non giudicanti, e altre
orecchie, il lavoro analitico ha permesso una disidentificazione attraverso,
soprattutto, un controtransfert di rispecchiamento, per far emergere le potenzialità
del vero Sé di G.
Nel disagio come nella malattia psichica c‟è un blocco del linguaggio: la
parola si salda con l‟individuazione della mente, la differenziazione dal sociale
familiare. Nel setting il paziente può usare la parola e, mettendola in connessione
con i suoi stati mentali interni, inverte il processo nell‟individuazione. In tal senso
il terapeuta e il gruppo svolgono anche una funzione paterna, nel senso che colui
che esercita tale funzione, è colui che ri-conosce il figlio, lì dove riconoscere
significa conferire a qualcuno la propria personalità; e il riconoscimento è operato
mediante la parola: occorre che qualcuno pronunzi tale riconoscimento in piena
libertà, attraverso il simbolo della parola; non è un grido né di soccorso né di
desiderio; in esso si attua questo fatto unico, che umanizza l‟uomo: l‟assunzione, in
completa libertà, della propria esistenza, e la formazione intenzionale d‟un nesso
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sua identità che non si poteva prendere nulla per sé; prima poteva essere amato
perché poteva essere preso, ma non poteva prendersi delle cose per sé.
L‟idem non è solo incarnato nella propria memoria implicita, ma “si” agisce
nelle relazioni interpersonali, attraverso “figure” che interpretano le parti di copioni
inscritti nella originaria esperienza identitaria di ciascun individuo: appunto
ripetendo antiche trame che si avvalgono, di volta in volta, di persone nuove, cose,
fatti concreti come artefatti scenici; si mette così in scena una storia che va
conosciuta il più approfonditamente possibile, invece di subirla passivamente. “La
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e così via, attraverso diverse generazioni” (Foulks, 1975, 30) in un processo trans
personale di comunicazioni inconsce interattive (ibidem).
Lo spazio originario della trasmissione psichica intersoggettiva è la
gruppalità familiare ed è qui che si colloca la trasmissione transgenerazionale, con i
suoi effetti sul piano intrapsichico e su quello intersoggettivo o interpersonale. Nei
miti, nelle leggende e nelle tragedie, ad esempio, il crimine non è mai un evento
isolato di un individuo singolo. Esso è, al contrario, al centro di un groviglio
collettivo di multiple azioni del campo familiare (com-plexus per usare
un‟espressione di Foulks, 1975, 26) ove ognuno svolge una parte precisa.
Ad esempio nella tragedia di Eschilo, che narra la vendetta di Oreste contro
sua madre Clitemnestra e contro Egisto, per vendicare l‟uccisione del padre
Agamennone, Oreste, che potrebbe essere considerato il rappresentante di una
tragedia psicotica, si sente l‟esecutore materiale di questi omicidi, più che
l‟ideatore; si sente intrappolato in una rete che, passando attraverso la madre e il
suo amante e il dio Apollo, che aveva ordinato la vendetta e le Furie, arriva fino
allo stesso Agamennone che da vittima della moglie si rivela essere stato nel
passato il suo primo persecutore.
I miti sono poi anche quelli non pubblici, ma privati, intesi come fantasie
inconsce gruppali transgenerazionali. Miti che fanno parte dell‟universo simbolico
familiare e riguardano in genere la storia di famiglia, rimodellandosi nel corso del
tempo, pur lasciando un nucleo intatto all‟origine, che a volte resta segreto nel
corso delle generazioni. Alla loro costituzione e permanere contribuiscono tutti i
membri della famiglia, di generazione in generazione, organizzando così la
continuità della cultura del gruppo familiare e perpetuando nelle situazioni
patologiche un funzionamento traumatogeno per l‟individuo. Soffrire in un altro,
soffrire al posto di un altro, diventa, da questo punto di vista, possibile soprattutto
se l‟altro è un membro di un‟altra generazione.
Da quanto esposto scaturiscono due prospettive nel considerare il processo
della trasmissione transgenerazionale:
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verità avrebbe potuto riscattare tutti i suoi protagonisti, nel momento in cui fossero
riusciti a distinguere la parte da ciascuno transgenerazionalmente giocata, in
quanto, cioè, portatori del desiderio dell‟altro, da quanto essi avrebbero potuto
assumere come espressione di proprie scelte responsabili (Napolitani, 2006, 91).
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Conclusioni
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Cultura e Società
David Meghnagi•
(Professore di psicologia clinica all‟Università degli studi Roma Tre, dove dirige il Master
internazionale in didattica della Shoah; Full member dell‟International Psychoanalytical Association
(IPA); membro ordinario della Società psicoanalitica italiana (SPI); già vicepresidente dell‟Unione
delle comunità ebraiche italiane. È membro della Delegazione italiana presso la ITFR)
“Ciò che hai ereditato dai padri, Riconquistalo se vuoi possederlo davvero”
(J.W Goethe, Faust, parte prima, Scena della Notte)
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Delle opere di Freud i tre saggi sul L‟uomo Mosè sono i più enigmatici.
Nelle intenzioni di Freud i tre saggi su “L‟Uomo Mosè” dovevano chiarire il
segreto dell‟ebraismo e le ragioni profonde dell‟antisemitismo. (Freud ad A.
Zweig, 30 settembre 1934, in Lettere sullo sfondo di una tragedia, cit.). In realtà
l‟intera argomentazione dei tre saggi poteva fare a meno dei postulati di partenza
secondo cui Mosè sarebbe stato un principe egizio, in seguito assassinato. Che non
ne avesse sostanzialmente bisogno, Freud lo fa surrettiziamente pensare nelle
pieghe di una scrittura carica di ambiguità, i cui rimandi e le ricapitolazioni creano
il sospetto e il dubbio, anziché diradarlo. Come insegna Freud, la tortuosità
dell‟argomentazione riflette “la presenza di un pensiero non risolto a sufficienza
che complica le cose”, oppure “la voce soffocata di un‟autocritica dell‟autore”
(Freud, 1901).
Come ha rilevato Peter Gay, “leggere quest‟opera è come partecipare alla
sua elaborazione, alle pressioni interne e di carattere politico cui Freud è sottoposto
in quegli anni e cogliere l‟eco di tempi lontani e meno strazianti” (P. Gay, 1988, p.
549). Per comprendere il Mosè occorre avere presente il contesto storico in cui fu
concepito e scritto, le opere e gli autori da cui Freud attinge, le letture e i
riferimenti a una storiografia che dell‟emancipazione dal giogo del giudaismo
sembrava aver fatto il suo scopo principale e di cui Freud proponeva un
rovesciamento di significati- nel momento in cui ne accoglieva i risultati. Occorre
riferirsi anche a quanto egli ha scritto prima, dopo e durante quegli anni, nelle
opere scientifiche e in quelle divulgative, nelle interviste e nelle lettere ai corri-
spondenti; alle sue scelte personali e alle azioni concrete da lui ispirate.
Obiettivo della polemica dei lumi era l‟emancipazione dall‟oppressione e
dal controllo della Chiesa in ogni sfera della vita e della cultura. Per ottenere questo
senza correre eccessivi rischi, si preferiva colpire alla fonte e questa fonte era
l‟ebraismo e gli ebrei da sempre ridotti alla condizione di paria e dunque
impossibilitati di rispondere o difendersi. Sono stati rari i filosofi della libertà
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posto degli “antichi nel disputare agli ebrei i loro titoli” (Poliakov, 1973b, pp. 314-
315.) .
A sostegno alla sua tesi, Freud si appoggiò alla ricostruzione di Ernst Sellin,
storico archeologo e biblista, che in un‟ottica di rifiuto dell‟assunto evolutivo della
ricerca storiografica di quegli anni, affermava che il monoteismo era già
pienamente formato all‟epoca di Mosé. Secondo Sellin, dopo “l‟assassinio” di
Mosè, desunto arbitrariamente da alcuni passi oscuri di Osea (12:15; 13:1-2),
l‟insegnamento monoteistico si conservò nella forma di una dottrina segreta presso
una cerchia ristretta di seguaci, che lo trasmise come insegnamento esoterico sino a
che non s‟impose.
Per vie diverse, specularmente opposte, tanto Sellin, con la sua
rivendicazione dell‟insegnamento originario di Mosè, quanto la maggioranza di chi
poneva l‟accento sulla gradualità evolutiva del processo che dal politeismo ha poi
condotto al monoteismo vero e proprio, vedeva nell‟avvento del cristianesimo il
compimento di un ciclo. In entrambi i casi, l‟ebraismo appariva come un
anacronistico resto, superato dagli eventi storici e culturali.
L‟analisi di Freud si distacca da queste conclusioni affidando al contrario
agli ebrei il ruolo di unici veri eredi dei valori del monoteismo. Ciò che Freud
sembrava apparentemente voler concedere all‟apologetica cristiana, come ai suoi
continuatori secolarizzati, affermando che “per ciò che attiene alla storia della
religione, cioè in riguardo al ritorno del rimosso”, il cristianesimo costituiva “un
progresso”, e da allora in poi “la religione ebraica fu in un certo modo un fossile”, è
parte di una lettura che rinfaccia alla religione cristiana di aver costituito “una
nuova vittoria dei seguaci dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnaton dopo un
intervallo di millecinquecento anni e su una scena storica più vasta” (S. Freud,
1934-38, pp. 409-410). I limiti della religione ebraica sono per Freud l‟altra faccia
delle vette morali e intellettuali raggiunte dagli ebrei con cui Freud s‟identifica
apertamente (ibid., 434-435).
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la trasmissione per via culturale e quella per via biologica, Freud afferma che “nei
due casi” non si tratta dello stesso meccanismo. Nel primo caso si tratta “di
proprietà difficile a cogliersi”, nell‟altro di tracce mnestiche, “d‟impressioni
esterne, per così dire palpabili”. Si tratta in ogni caso di un processo combinato in
cui la trasmissione per via di un insegnamento segreto si combina alla fissazione di
una traccia mnestica. Rompendo ogni prudenza Freud afferma che la struttura
psichica ebraica si trasmette “identica” da secoli (S. Freud, 1934-1938, p. 420). È
un‟idea che lo accompagna da sempre. E a conferma di questa scelta non esita a
utilizzare con riferimento alla riduzione della frattura “che i vecchi tempi
dell‟umana arroganza hanno allargato tra l‟uomo e l‟animale”, il termine
inconsueto per lui di Instinkt (Freud 1934-38, cit. pp. 420 e 449).
Proprio in quegli anni, con la formulazione del concetto di costruzione
(Freud, 1937, pp. 536-552), egli aveva impresso una svolta all‟ermeneutica e al
significato dell‟interpretazione nella pratica clinica. È la dimostrazione che
approcci diversi al sapere clinico e alla storia convivevano in lui e che il passaggio
da un modello a un altro non comportava una rinuncia totale. Il Freud
“novecentesco” che rivoluziona il sapere conviveva con quello “ottocentesco” in un
difficile equilibrio. Il Freud che si dichiara darwiniano resta nel profondo
lamarckiano.
Affermare che Mosè era un nobile egizio, ucciso nel corso di una rivolta di
gente per la quale egli era vissuto e in cui aveva creduto, non era per Freud un
gesto facile. Mosè egizio poteva essere l‟ultimo e il più doloroso (perché condotto
da uno dei figli) attacco a un‟etnia già provata e alle prese con problemi terribili,
che presto si sarebbe trovata braccata in ogni angolo d‟Europa. Era l‟ultima ferita
al narcisismo: il più venerato dei profeti, figlio de suoi oppressori! Freud confessa
in apertura del primo saggio il suo disagio. Ciò che sta per fare non era per lui
“gradevole”, né “facile”: sta per “privare un popolo”, dell‟uomo “che esso celebra
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come il più grande dei suoi figli” ed egli “appartiene a quel popolo”. (Freud, 1934-
38 cit., p. 337).
Freud non era nuovo a questo tipo di operazioni. Con Shakespeare non si
era comportato meglio, e non vi era ragione per pensare che con gli ebrei si sarebbe
comportato diversamente. Come avrebbe affermato per giustificarsi, era una
prerogativa ebraica difendere sino in fondo la verità.
Che per Freud si trattasse di una preoccupazione reale e non di una
semplice figura retorica, lo attestano i dubbi espressi un ventennio prima sul fatto
di dare alle stampe col proprio nome il saggio Il Mosè di Michelangelo.
(Freud,1913, pp. 293-328).
“Perché screditare Mosè ponendo il mio nome al saggio?”, così Freud aveva
scritto all‟incredulo Jones che con Ferenczi aveva insistito perché il saggio su Mosè
di Michelangelo non uscisse anonimo, tanto più che dallo stile sarebbe stato
comunque facile risalire all‟autore. Ad Abraham, Freud dette altre ragioni: a) “è
solo uno scherzo”; b) vergogna per l‟evidente carattere dilettantistico del saggio; c)
infine perché i miei dubbi circa le mie conclusioni sono più forti del solito: è solo
per le insistenze di Rank e Sachs che ho acconsentito a pubblicarlo” (E. Jones, cit.,
vol. II. p. 440). Accanto al disagio vi era però anche la certezza, che la
trasgressione contenesse un elemento di fedeltà che avrebbe compensato la perdita
operata con la ferita arrecata al narcisismo ebraico. All‟influenza esercitata da
Mosè sulla psiche ebraica, si doveva, “l‟immanentizzazione della concezione della
vita e il superamento del pensiero magico, la rinuncia al misticismo” (S. Freud,
Lettera a N. N. del 14 dicembre 1937; Lettera a E. Freud,17 gennaio 1938).
In Totem•e Tabù (1912-13) il mito dell'orda e del parricidio primitivo era
stato utilizzato da Freud per spiegare qualcosa che sta al di qua della storia. Nel
parlare di parricidio primitivo Freud sapeva di parlare di un avvenimento che si era
ripetuto innumerevoli volte: la civiltà nata a un certo momento perché la
colpa prese il sopravvento rendendo possibile uno spazio per la simbolizzazione di
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analitica del mito dell'esposizione” e non si fosse potuto collegare “di qui alla
congettura di Sellin sulla fine di Mosè”, l‟intera “meditazione non avrebbe potuto
essere scritta …” (Freud, Avvertenza del giugno1938, ibid., p. 382). Dichiarazione
più esplicita d‟impossibilità non poteva darsi. Ciononostante Freud non esita a
difendere alla lettera le conclusioni cui perviene, reagendo con fierezza contro chi
lo invita a desistere dalla decisione di dare alle stampe il libro, contro chi avrebbe
voluto proporre una lettura puramente romanzesca: “Il dado è tratto” (ibid., p. 382).
Tornare indietro non è più possibile. La storia dell‟Esodo è interamente a partire da
alcune analogie fra il racconto biblico di Mosè, il mito dell‟esposizione e il
“romanzo famigliare” dei nevrotici.
Nella prefazione all'edizione ebraica di Totem e Tabù Freud aveva espresso
la speranza di potere un giorno rendere accessibile “all'esame scientifico” quella
“cosa essenziale” che lo fa sentire ebreo, nonostante la rinuncia alle tradizionali
forme d‟identificazione ebraica (Freud, 1930, pp. 8-9). Ora che la morte era vicina,
questa “cosa” diviene il centro della sua meditazione, un'ossessione che lo spinge a
scrivere e riscrivere la stessa opera. Dopo aver pubblicato separatamente i primi
due saggi, Freud affida, non a caso, un paragrafo che considera particolarmente
prezioso e rilevante alla figlia “Antigone-Anna”, che considera fedele erede e
continuatrice, perché lo legga al Congresso internazionale di Parigi dell'estate 1938
(Freud 1934-1938, pp. 430-434). Il paragrafo tratta del progresso della spiritualità
ed è un vero testo apologetico dell'ebraismo farisaico e della sua etica. Letto nella
massima assise del movimento suona come un testamento spirituale dell'autore, una
risposta al dilagante estendersi delle restrizioni antiebraiche, che ormai non sono
più prerogativa del Reich tedesco (nello stesso anno il regime fascista promulga il
“Manifesto della razza").
Negli anni in cui Freud medita sull'uomo Mosé sdoppiandone la persona
(un nobile egizio e un ebreo seguace di un culto vulcanico) egli è conquistato dalla
figura di uno dei leader più autorevoli del movimento farisaico all'epoca dell'as-
sedio delle legioni romane contro Gerusalemme (S. Freud, 1938, cit. in E. Jones,
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1972, p. 266). Freud - Mosè che si ferma davanti alla Terra promessa... Freud -
Jochanan che, nell'imminenza della catastrofe, si fa trasportare in una bara fuori
dalle mura della città santa, per salvare il giudaismo dall‟estinzione, fanno parte
della stessa storia. Destino individuale e destino collettivo, storia dell'ebraismo e
vicende del movimento psicoanalitico si saldano nel discorso qui riportato come
nell'antico detto talmudico secondo cui ogni ebreo, di qualsiasi tempo e in ogni
luogo, deve raccontare ai propri figli la storia dell'esilio e dell'esodo come se
fossero state scritte per quella generazione (Talmud babilonese, Trattato di
Pesachim 116b). L‟odio antiebraico è rivolto contro l‟idea biblica dell‟unità del
genere umano. La principale colpa degli ebrei è di avere diffuso questa idea tra i
popoli. Come affermerà la figlia molti anni dopo resignificando il dolore, l‟accusa
alla psicoanalisi di essere “una scienza ebraica”, dal quale Freud cercò invano di
difendersi, “nelle odierne circostanze” poteva “considerarsi” un “titolo d‟onore”
(A. Freud, 1978). Ascoltando quelle parole a Gerusalemme, c‟era da chiedersi se la
figlia Anna alla quale nel ‟38 aveva affidato il compito di esplicitare il suo mito,
non parlasse anche questa volta a suo nome (H. Yerushalmi, 1996, p. 148).
Dal punto di vista storico, Freud ci tiene a rilevarlo, gli ebrei non sono
"stranieri". Abitano da tempi più antichi nelle terre da cui sono costretti a fuggire.
Si tratta al contrario di un sentimento psicologico che ha come sfondo la
riattivazione di un'angoscia arcaica propria delle origini della specie, e del
passaggio alla condizione umana, riattivata e resa più acuta dalle condizioni
storiche in cui vivono gli ebrei in quanto gruppo minoritario accusato di essere
diverso e non assimilabile. In questo gioco di specchi, Freud non esita a
rintracciare gli elementi del rifiuto cristiano nella struttura del mistero della doppia
morte, del sacrificio e della trasfigurazione del Cristo. "Fu come se l'Egitto"
rovesciando il senso di un un'antica credenza antigiudaica, che si più far risalire a
epoca pre-cristiana al sacerdote egizio Manetone- si fosse preso "un'altra volta ven-
detta degli eredi di Ekhnaton”. “Scaturito “da una religione del padre”, il
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“cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di
doversi sbarazzare del padre.”. (Freud, 1934-1938, Terzo saggio, 452).
La strada percorsa dall‟ebraismo fu quella della rimozione (e Freud si
rassegna a dichiarare la sua impotenza a spiegare perché ciò sia accaduto (Freud,
1934-1938, p. 453), sino a quando una nuova intuizione (la psicoanalisi), anch‟essa
scaturita dall‟interno dell‟ebraismo, non fosse venuta a dire come realmente
stavano le cose e indicare la strada. È questo uno dei significati da attribuire alle
considerazioni che Freud svolge nella conferenza al B’nai B’rith, sugli “oscuri
ricordi dell‟umanità” che l‟ebraismo ha “accuratamente tenuto in disparte” e “forse
per questo si è dequalificato come religione mondiale” (Freud cit. in D. Meghnagi,
2004, p. 190). Un‟affermazione che egli collega al silenzio delle Scritture ebraiche
sulla vita ultraterrena (ibid., pp. 191-192).
I dilemmi dell‟uomo civilizzato oppresso dal senso di colpa, analizzati nel
saggio sul disagio, nella strategia dei tre saggi assumono un carattere
paradigmatico per definire l‟essenza dell‟ebraismo e le cause profonde dell‟ostilità
di cui è oggetto.
Nel processo di civilizzazione umana, la religione monoteistica, che Freud
identifica esplicitamente con l‟ebraismo, ha svolto un ruolo fondamentale al prezzo
di un fardello di colpa che la psicoanalisi ha il compito di alleviare. In questa
complessa dialettica la psicoanalisi è un nuovo sviluppo della coscienza “religiosa”
ebraica, un suo frutto duraturo.
Si può qui cogliere il senso profondo della domanda retorica e polemica di
una lettera di Freud al pastore protestante Oscar Pfister, amico e allievo, del
“perché fra tanti uomini pii nessuno” abbia creato la psicoanalisi, e si sia dovuto
“aspettare che fosse un ebreo affatto ateo?” (Freud a Pfister, 9 ottobre 1918). Come
dire che per fare le sue scoperte bisognava essere insieme “ebrei” e “atei”: ebrei
perché nell‟ebraismo, più che in ogni altra civiltà religiosa, era stata
psicologicamente approfondita, secondo Freud, la tragedia delle origini. “Atei”,
perché solo attraverso la rottura operata da Spinoza e dalla secolarizzazione era
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Bibliografia
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1939), Venezia, Marsilio, edizione italiana a cura di D. Meghnagi, traduz. di M.
Meghnagi.
Freud A. (1978), Inaugural Lecture for the Sigmund Freud Chair at the
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Cultura e Società
TRANSPERSONALE E TRANSGENERAZIONALE
Raffaele Menarini
(Psicoterapeuta, Gruppoanalista, Docente di Psicologia Dinamica Uni. LUMSA di Roma, già docente
Uni. Cattolica S. C., Didatta Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG)
Marra Francesca
(Psicologa, Ricercatrice)
Montefiori Veronica
(Psicologa, Ricercatrice)
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Transgenerazionale e nascita
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donare senso all‟universo e quindi di porsi nella prospettiva della creazione dei valori.
Il comportamento umano ha come referente il campo degli eventi o campo mentale.
La funzione di matrix è un‟articolazione affettiva coinemica che “produce” il mentale
in termini di spazio-tempo poiché permette la nascita psichica del sociale. Il codice
materno attiva la funzione di matrix quale organizzatore affettivo naturale, nel senso
di una definizione naturale-familiare dell‟inconscio. La nascita della mente e della
cultura è sempre concepita quale evento familiare. I coinemi sono il luogo della
trasformazione del transpersonale, racchiudente tutta la cultura possibile, in sagome
simboliche familiari. Questa trasformazione è supportata dall‟ideazione affettiva
„Bambino‟ quale assioma di pensiero affettivo familiare. La qualità dell‟evento
familiare è fondata da codici affettivi: il Buono ed il Cattivo, il Giusto e l‟Ingiusto.
Queste proprietà degli oggetti interni coi nemici, emergenti dalla funzione di matrix,
riguardano la funzione di pattern, la quale introduce nello spazio mentale della matrix
i codici affettivi di riconoscimento dell‟identità familiare. Grazie alla funzione di
matrix e di pattern i coinemi istituiscono dei personaggi delle relazioni di parentela in
termini di „Buoni‟ o „Cattivi‟, „Positivi‟ o „ Negativi‟. La struttura degli eventi, a
livello affettivo, è dunque quella di enti che possiedono una proprietà affettiva per cui
si costituiscono quale classe corrispondente a detta proprietà: Buono o Cattivo. A
livello del mondo interno psichico, gli oggetti interni sono eventi familiari
diversificabili in base alle loro proprietà affettive. Da questo punto di vista , gli
eventi, per definizione, sono sempre presenti come entità Buone o Cattive: non esiste
qualcosa al di fuori di esse. Ciò significa che le coppie oppositive prelinguistiche
(codici affettivi Buono/Cattivo) costituite dalle relazioni coinemiche elementari non
possono divenire linguaggio a meno che non venga istituito uno scenario esperenziale
che renda significanti le opposizioni affettive Buono/Cattivo. Questo scenario
esperenziale è offerto dai temi culturali. Miti di origine, sogni ed opere artistiche sono
i principali esempi di temi culturali. La funzione svolta da questi temi è quella di far
trasparire il mondo interno in termini di eventi del mondo esterno che rimandano a
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sistemi di valori, esattamente come abbiamo potuto osservare nel caso delle statuine
del periodo Paleolitico.
Dal punto di vista antropologico, è possibile individuare, a livello
biopsicoculturale, due impostazioni da cui partire per studiare l‟evoluzione umana:
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carisma, cioè il potere del capo stesso. È una forza che riesce a promuovere un forte
consenso di massa.
Il perturbante (1919): Freud collega il Mana all‟onnipotenza dei pensieri,
poiché avere la capacità di capire improvvisamente tutti i significati non è solo un
fatto semantico ma fa scaturire anche una sensazione di onnipotenza.
Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921): in questo saggio Freud
omologa il Mana al potere sulla massa, esso rappresenta la capacità di muovere le
masse. In questo caso anche la massa appare investita dal Mana poiché essa si
identifica con il capo portatore di potere. Un esempio storico è rappresentato dalla
figura di Hitler, un uomo portatore di un Mana incredibile, che è riuscito a
trasformare la Germania nel transpersonale nazista.
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psichiatra svizzero il transpersonale non era affatto la coazione a ripetere del rimosso
originario bensì la presenza archetipica “portavoce” di nuove forme culturali. Si
trattava basilarmente dell‟archetipo di Dio, carico di energia creativa e forma a priori
dei futuri modelli culturali. L‟impostazione junghiana è decisamente pagana nella
misura in cui tratta Dio come se fosse un archetipo. In Freud, invece, la fondazione
dei modelli culturali sarebbe la dimostrazione eloquente di una trasformazione del
transpersonale in transgenerazionale.
BIBLIOGRAFIA
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