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International Journal of Psychoanalysis and Education - IJPE vol.

II, n° 1 (4), Giugno 2010


ISSN 2035-4630 (periodico semestrale pubblicato telematicamente su http://www.psychoedu.org)

International Journal of
Psychoanalysis and Education
(IJPE)
Rivista scientifica di Psicoanalisi e Gruppoanalisi
applicate alla relazione educativa e ai relativi e contesti socio-politico-culturali

Ulisse e Polifemo, Savinio (1950 ca., collezione privata)

Direttore Comitato Scientifico


(Editor in Chief) Annibale Bertola, Giancarlo Di Luzio
Rocco Filipponeri Pergola (APRE) Fabiola Fortuna, David Meghnagi
Carlo Nanni, Jaime Ondarza Linares
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Shlomo Mendlovic (Uni. Tel Aviv) Direttore responsabile: Mario Macciò

Sponsorizzato da Ass.ne di Psicoanalisi della Relazione Educativa Editor in Chief: R. F. Pergola


iscrizione al Tribunale di Roma n°142/09 del 4 maggio 2009 (copyright © APRE 2006)

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INDICE

GENITORIALITÀ

Influenze della depressione materna sulla qualità del legame madre-figlio.


Indagini nel contesto dell’alimentazione
Grazia Terrone…………………………………………………………………………3

Che “cosa” si trasmette in ciò che si trasmette?


Daniele Benini………………………………………………………………………….34

SCUOLA

Tanto ruminare per nulla: psicopatologia dell’apprendimento in “Rete”


Davide Barone ………………………………………………………..……...................49

Un caso di bullismo
Marzia Viviani ….………………………………………………………………….......59

CLINICA

Disturbi alimentari psicogeni: eclissi del Sé ed esperienza del corpo


Giancarlo Di Luzio….……………………………………………………………….…80

Complessità, Campo e Mentalizzazione


Angelo R. Pennella……………..…………………………………………………………….…93

Dall’idem transgenerazionale all’ipse, in un Sé perturbato dall’abuso,


nella situazione gruppoanalitica
Filippo Pergola…………………………………...........................................................108

CULTURA E SOCIETÀ

Il testamento spirituale di Freud: i tre saggi su “L’uomo Mosé e la religione


monoteistica”
David Meghnagi ………………………………………………………………………143

Transpersonale e transgenerazionale
Raffele Menarini, Francesca Marra, Veronica Montefiori.…………………......…163

organo ufficiale dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa A.P.R.E.


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Genitorialità

INFLUENZE DELLA DEPRESSIONE MATERNA SULLA


QUALITA’ DEL LEGAME MADRE-FIGLIO.
INDAGINI NEL CONTESTO DELL’ALIMENTAZIONE

Grazia Terrone
(Psicologo, PhD, ricercatrice di Psicologia Dinamica,
Facoltà di Scienze della Formazione, Università degli studi di Foggia)

Introduzione

Negli ultimi decenni l’Infant research e la Developmental Psychopathology hanno


messo in luce consistenti evidenze empiriche sull‟associazione tra la qualità del sistema
di caregiving e i fattori di protezione e di rischio nella psicopatologia dell‟infanzia.
La letteratura scientifica sulla psicopatologia materna (soprattutto depressione
materna) e sulla sua possibile influenza per la comparsa di disturbi emotivi e
comportamentali del bambino ha messo in luce che determinate caratteristiche
sintomatiche del caregiver rappresentano un fattore di rischio rilevante per lo sviluppo
nei primi anni di vita. In questo campo, alcuni autori hanno ipotizzato “il meccanismo
della trasmissione intergenerazionale”, in base al quale i disturbi precoci durante lo
sviluppo - come i disturbi alimentari infantili - possono essere collegati alla presenza
di uno status psicopatologico nel caregiver (Dodge, 1990; Zeanah, Zeanah, 1989).
In particolare, la psicopatologia materna, come i disturbi affettivi e di personalità,
possono interferire con le funzioni di caregiving e dar luogo a modalità relazionali
imprevedibili e incoerenti nella comunicazione emotiva con il bambino, che si associano

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spesso a disturbi infantili nella regolazione fisiologica e nella stabilizzazione dei ritmi
alimentari (Benoit, 2000; Carlson, Sroufe, 1995; Chatoor, 1989).
Sfortunatamente, se da un lato l'incidenza della sintomatologia depressiva materna
è stata largamente documentata, i meccanismi della trasmissione del disagio
psicopatologico nei bambini sono stati esplorati mediante approcci diversi, a volte solo
minimamente convergenti.
La depressione della madre, infatti, influenza direttamente sia la qualità
dell'interazione con il bambino, sia il livello di funzionamento globale familiare,
interagendo, a vari livelli, con numerosi fattori di rischio sociale. In aggiunta alla
componente genetica della trasmissione del rischio psicopatologico, è necessario, quindi,
considerare un ampio numero di fattori dell'ambiente di vita prossimale e distale del
bambino con madre depressa, che possono, moderare o, al contrario, acuire la sua
vulnerabilità nei confronti di successivi esiti disfunzionali o patologici.
Gli effetti negativi della depressione materna rilevati sul bambino includono:
disturbi comportamentali con tendenza all'aggressività; problemi nell'ambito della
regolazione affettiva; incompetenza sociale; disturbi ansiosi; deficit dell‟attenzione;
difficoltà temperamentali ; disorganizzazione emozionale; sintomatologia depressiva
subclinica o disturbi depressivi veri e propri; modelli di attaccamento di tipo
prevalentemente insicuro.
Malgrado l'enorme quantità di dati scientifici, risulta estremamente complicato
individuare il legame preciso tra i disturbi depressivi materni e gli esiti sul bambino, al
fine di spiegare le dinamiche che intercorrono nel processo di trasmissione del rischio
psicopatologico. Tale complessità deriva dal fatto che, in alcuni casi, le procedure
metodologiche delle varie ricerche non hanno tenuto conto dell'eterogeneità dei campioni
studiati: i gruppi includevano spesso un ampio range di condizioni depressive materne
(forme unipolari e bipolari, ma anche varie manifestazioni di tipo ansioso); i disturbi
materni differivano significativamente in termini di severità (campioni ospedalizzati,
sotto cura farmacologia e non); la durata dell'esposizione del bambino ai sintomi
depressivi della madre era variabile.

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I risultati dei numerosi studi condotti negli ultimi anni sulle implicazioni
psicopatologiche del bambino con madre depressa hanno evidenziato numerosi rischi
evolutivi.
Varie ricerche hanno messo in luce che i figli di madri depresse sono esposti al
rischio di insorgenza psicopatologica in modo significativamente maggiore rispetto a
quelli di genitori normali, manifestando, nello specifico, un'accentuata vulnerabilità nei
confronti dei problemi comportamentali, delle malattie fisiche e dei sintomi di tipo
depressivo (Weissman et al., 1984).
In molte ricerche, è emerso che gli effetti della depressione materna variano in
funzione dell‟età e dello stadio di sviluppo del bambino (Zuckerman & Beardslee, 1987).
Nei neonati è stato osservato uno scarso peso alla nascita, che correla positivamente con
la bassa classe sociale della famiglia e la severità/cronicità del disordine emotivo
materno. Nei bambini di 12 e 24 mesi, sono stati evidenziati disturbi sia della sfera
emotiva - con difficoltà a regolare gli stati affettivi - sia cognitiva - con carenza del gioco
simbolico. Nell‟età prescolare, sono stati rilevati bassi punteggi nel QI, disturbi del sonno
e sintomi psicosomatici. Nell‟età scolastica e durante l'adolescenza, si è evidenziata la
presenza di un'elevata incidenza di depressione maggiore, deficit dell‟attenzione, ansia da
separazione, eccessiva rivalità con i pari ed i fratelli, comportamenti di impazienza,
condotte devianti o di ritiro.
Gelfand e Teti (1990) hanno rilevato, sia nell‟infanzia che nell‟età prescolare
maggiori problemi nell‟attaccamento, nella regolazione emozionale, nel controllo degli
impulsi aggressivi, nella capacità di cooperare con gli altri ed uno sviluppo linguistico
problematico o ritardato. Nei bambini in età scolare, sono stati evidenziati i seguenti
quadri: bassa autostima; stili attributivi negativi simili a quelli delle proprie madri;
maggiore propensione per i disturbi depressivi o di ansia; difficoltà intellettive e nel
mantenere l'attenzione; scarso rendimento scolastico; accentuato rischio di insorgenza
psichiatrica non di tipo depressivo, soprattutto nel caso di depressione materna bipolare.
Lyons-Ruth e colleghi (1986), hanno analizzato coppie di madri depresse e bambini
in condizioni economiche svantaggiate, rilevando una correlazione significativa tra i

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modelli di attaccamento disorganizzato, bassi punteggi nello sviluppo mentale a 18 mesi


e presenza di comportamenti esternalizzanti del bambino a 7 anni; nel caso dei modelli di
attaccamento evitante è stata, invece, riscontrata una correlazione con i successivi
sintomi internalizzanti, la cui insorgenza poteva essere prevista a partire dalla continuità
degli alti livelli della sintomatologia depressiva materna durante i primi 5 anni.
Sebbene sia assodato che esiste un profondo legame tra la depressione unipolare o
bipolare materna e la compromissione dello sviluppo comportamentale, cognitivo ed
affettivo del bambino nel primo anno di vita (Dodge, 1990; Field, 1992; Rutter, 1981), le
specifiche modalità attraverso le quali il disturbo depressivo materno influisce sulla
risposta evolutiva infantile sono oggetto di svariate e controverse impostazioni teoriche.

Obiettivi

Il presente contributo i ricerca ha come obiettivo principale quello di rilevare


l‟influenza che la depressione materna possa avere sui pattern interattivi alimentari tra
madre e bambino e studiare se tale azione è indipendente o interagisca con il modello di
attaccamento della madre; come obiettivo secondario analizzare la valutazione materna
dei problemi emotivo - comportamentali del figlio.
In particolare, questo studio si è posto i seguenti obiettivi specifici:
 verificare se vi è una correlazione tra la depressione materna e la valutazione
materna dei problemi emotivo - comportamentali del bambino (misurate con la CBCL),
in quanto ci si attende che le madri depresse attribuiscano, maggiormente, ai loro figli
stati affettivi negativi.
 verificare se vi siano differenze tra madri depresse e non depresse sui pattern
interattivi nel contesto alimentare (misurati con la S.V.I.A.);
 verificare se vi è una relazione tra i modelli di attaccamento sicuro versus
insicuro (misurato con l‟AAI) e i pattern interattivi alimentari (misurati con la S.V.I.A.);

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 verificare se vi è un‟interazione tra attaccamento e depressione sui pattern


interattivi alimentari.

Metodo
Descrizione del campione
Il campione selezionato è composto da 40 madri, di cui 20 presentano una
Depressione Maggiore1 di età media di 31,5 anni (range 28-39 anni) (gruppo clinico)e dei
loro bambini di età media di 26 mesi (range 18-36 mesi), appaiato con 20 coppie di
madre-figlio che non presentano nessuna psicopatologia (gruppo di controllo).
L‟appaiamento dei soggetti appartenenti ai due gruppi è stato effettuato per età
delle madri, per il genere e l‟età del bambino e per il livello socio-economico (SES;
valutato secondo i criteri di Hollingshead) (1a1).
Il gruppo clinico è stato selezionato da una équipe di medico-psichiatrica
all‟interno dell‟Unità Operativa di Psichiatria del Policlinico Tor Vergata.
Per il reclutamento del gruppo di controllo sono stati contattati alcuni consultori
familiari della Aziende Sanitarie Locali e gli Asili nido del Comune di Roma.
In entrambi i gruppi, clinico e di controllo, il periodo gestazionale di tutti i bambini
esaminati ed il loro sviluppo psicomotorio si presentavano nella norma. La maggior parte
dei bambini nei due gruppi ha avuto un allattamento al seno (gruppo-clinico=74%;
gruppo-controllo=78%;).
Attraverso la somministrazione di un questionario socio-demografico è stato
possibile rilevare il livello socio-culturale delle coppie madre-bambino esaminate. La
maggior parte delle madri era coniugata (gruppo-Clinico=90%; gruppo-controllo=93%),
ed aveva conseguito un Diploma di scuola secondaria superiore (gruppo-clinico=74%;
gruppo-controllo=70%) o Laurea (gruppo-clinico=13%; gruppo-controllo=15%). Molte

1
L'intervista diagnostica strutturata utilizzata dall'équipe di psichiatri è stata la SCID. La quale ha permesso di
effettuare una selezione della popolazione da studiare e di garantire che tutti i soggetti studiati abbiano soltanto un
disturbo che soddisfi i criteri per la Depressione Maggiore del DSM IV (American Psychiatric Association, 1994).

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delle coppie appartengono ad un livello socio-economico medio (gruppo-clinico=69%;


gruppo-controllo=73%).

Strumenti

Valutazione dei problemi emotivo-comportamentali del bambino:


La Child Behavior Check List, CBCL 11/5-5 è uno strumento, elaborato da T.M.
Achenbach (1992), utile per valutare comportamenti ed emozioni di bambini in varie aree
del loro funzionamento. I dati di valutazione sono forniti dai genitori dei bambini e da
altre persone significative che, separatamente, sono chiamati ad esprimere una loro
valutazione sulle affermazioni della CBCL 11/5-5.
La CBCL 11/5-5 costituisce una procedura di indagine clinica standardizzata che
esplora ampie aree dell‟adattamento e del funzionamento quotidiano. Esse sono tradotte
nelle affermazioni dei 99 item che esplorano varie aree: l‟attività, l‟interesse,
l‟attenzione, la paura, il gioco, l'interazione con i pari e con gli adulti, lo stato d‟ansia, le
condizioni e i problemi somatici, lo stato dell‟umore, l‟aggressività e la responsività
affettiva, la risposta ai cambiamenti e convergono a definire sei sindromi all‟interno di
scale “internalizzanti”, "esternalizzanti" e "né internalizzanti né esternalizzanti". Le scale
intemalizzanti comprendono: le sindromi di Reattività emotiva, Ansia-depressione,
Ritiro; Problemi somatici.
Le scale dei problemi esternalizzanti includono: Problemi di attenzione e
Comportamento aggressivo; e infine le scale dei problemi né internalizzanti né
estemalizzanti identificano le sindromi dei Problemi del sonno e di Altri problemi non
esclusivamente associati ad altri sintomi delle scale internalizzanti o esternalizzanti.
Inoltre, è presente un ultimo item aperto che chiede ulteriori informazioni riguardanti
qualche eventuale aspetto non contenuto nei precedenti item.
Per ogni item chi valuta è chiamato ad esprimere un punteggio su una scala Likert a
3 punti (0= non vero, 1= in parte vero, 2= molto vero). I comportamenti contrassegnati da
1/5
chi compila la CBCL 1 5 devono riferirsi ad osservazioni avvenute non oltre i due

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mesi precedenti poiché i bambini piccoli sono soggetti a rapidi mutamenti insiti nel
processo evolutivo.
Lo strumento include l‟uso di scale orientate alle categorie e ai criteri diagnostici
del DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994), allo scopo di integrare la
misurazione che può essere ottenuta dalle Scale Internalizzanti, Esternalizzanti e dalle
Scale né Internalizzanti, né Esternalizzanti (Achenbach, Rescorla, 2000; 2001)

Valutazione dei pattern interattivi madre-bambino nel contesto


dell’alimentazione:
La Scala di Valutazione dell’interazione alimentare madre-bambino (S.V.I.A.)
misura una ampio spettro di comportamenti interattivi e identifica modalità relazionali
normali e/o a rischio tra la madre e il bambino durante gli scambi alimentari (Lucarelli et
al., 2002); la Scala è applicabile ai bambini di età compresa tra 1 e 36 mesi. Le diadi sono
state filmate una volta durante il pasto del bambino; per ricreare in laboratorio
l‟esperienza quotidiana dell‟alimentazione è stato chiesto alla madre di portare il tipo di
cibo abitualmente offerto al bambino. Le madri sono state invitate a comportarsi
spontaneamente con i loro bambini, così come generalmente accade nelle interazioni
giornaliere. Poiché la S.V.I.A si applica ai bambini da 1 a 36 mesi, le differenze di
sviluppo sul piano comportamentale sono valutate da item specifici per bambini più
piccoli o più grandi; ad esempio, l‟item che riguarda il comportamento - il bambino si
addormenta e smette di mangiare - si riferisce ai bambini piccoli, mentre l‟item che
descrive il comportamento - il bambino allontana o getta il cibo - interessa i più grandi.
Similmente alcuni comportamenti del caregiver - la madre è rigida nel tenere il
bambino, posiziona il bambino senza il sostegno di cui ha bisogno - possono essere
osservati nelle madri dei più piccoli. Gli studi condotti per valutare le proprietà
psicometriche della versione statunitense e italiana della Scala (Chatoor et al., 1996;
Chatoor et al., 1997; Lucarelli et al., 2002) hanno confermato una buona attendibilità tra
codificatori e una soddisfacente validità di costrutto e discriminante. La Scala creata per
la versione italiana si compone di 40 item raggruppati in quattro sottoscale: Stato

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affettivo della madre, Conflitto interattivo, Comportamenti di rifiuto alimentare del


bambino, Stato affettivo della diade. Per ciascun item è attribuito un punteggio su una
scala Likert a quattro punti (mai, poche volte, abbastanza, spesso); la somma dei punteggi
ottenuti dalla madre e dal bambino indicano il punteggio totale per ogni sottoscala, che
viene confrontato con i valori normativi della standardizzazione italiana. I dati
osservativi sono stati codificati da due esaminatori indipendenti, addestrati all‟uso dello
strumento, senza alcuna informazione sul gruppo di appartenenza della diade (in cieco).
L‟attendibilità tra codificatori, stimata tramite coefficienti di correlazione intraclasse, è
risultata compresa tra 0.82 and 0.92; l‟analisi discriminante usata per valutare la capacità
della Scala di classificare correttamente i bambini sulla base dell‟appartenenza al
Gruppo-NC e al Gruppo-C ha indicato un valore compreso tra 82% e 92% (Lucarelli et
al., 2002).
La sottoscala Stato affettivo della madre rileva sia le difficoltà del caregiver di
manifestare affetti positivi, come gioia e piacere, sia la frequenza e la qualità di affetti
negativi, come tristezza, distress e distacco emotivo; valuta, inoltre, le capacità di
interpretare i segnali del figlio e di facilitare scambi reciproci ed empatici durante
l‟interazione alimentare. Più è elevato il punteggio in questa sottoscala, maggiori sono le
difficoltà della madre di esprimere nella relazione affetti positivi e di leggere
correttamente i segnali comunicativi del bambino e di sintonizzarsi con essi. La
sottoscala Conflitto interattivo valuta sia la presenza, sia l‟intensità di scambi conflittuali
nella diade; il punteggio globale è elevato quando, ad esempio, la madre forza il bambino
nell‟alimentazione, non è flessibile nel regolare le pause e l‟alternanza dei turni con il
figlio e dirige il pasto lasciandosi guidare soltanto dai propri sentimenti e dalle proprie
intenzioni, piuttosto che dal feedback comunicativo dato dai segnali del bambino; dalla
parte del bambino, gli item di questo fattore valutano i comportamenti di distress, di
evitamento dell‟interazione e di rifiuto del cibo in risposta al controllo e all‟intrusività del
caregiver. La sottoscala Comportamenti di rifiuto alimentare del bambino include item
che esplorano le caratteristiche individuali dei pattern alimentari del bambino, che
indicano rifiuto alimentare, scarsa assunzione di cibo e una difficile regolazione di stato

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durante il pasto, come ad esempio l‟irritabilità, la facile distraibilità, l‟opposizione e il


negativismo; questa sottoscala esamina inoltre i comportamenti materni non contingenti.
Un alto punteggio indica la mancanza di un adattamento reciproco tra i due partner e
un‟elevata frequenza di rifiuto alimentare del bambino. La sottoscala Stato affettivo della
diade, infine, valuta ulteriormente la qualità affettiva della relazione madre-bambino; un
alto punteggio in questa sottoscala rileva un coinvolgimento negativo della diade, in cui
prevalgono affetti di rabbia e di ostilità.

Valutazione del modello di attaccamento della madre:


L‟Adult Attachment Interview, è un‟intervista semistrutturata ideata da Mary Main
e dai suoi collaboratori (Main, Kaplan, Cassidy, 1985).
L‟AAI, della durata di circa un‟ora, si articola in 18 domande che indagano sui
ricordi e sulle esperienze dell‟infanzia. Ai soggetti vengono chiesti cinque aggettivi che
descrivono la loro relazione nell‟infanzia con ognuno dei genitori e, poi, dei ricordi che
esemplifichino la scelta di ogni aggettivo. Viene chiesto, quindi, di indicare il genitore al
quale si sentivano più vicini e per quale motivo, e inoltre di dire se i genitori sono stati
minaccianti con loro in qualche modo. Vengono poi esplorate diverse aree esperienziali
concernenti la qualità delle prime relazioni con il caregiver, tra cui malattia fisica, disagio
emozionale, esperienze di separazione, perdita, rifiuto, abuso. Ai soggetti viene chiesto
poi di valutare come queste esperienze possano aver influenzato la loro personalità. Data
la specificità del campione esaminato nel presente contributo empirico è stata
somministrata una versione dell‟Adult Attachment Interview modificata, con domande
aggiuntive atte a rilevare in modo approfondito e specifico eventuali esperienze di abuso
vissute dal soggetto.
In generale, lo scopo di questo metodo narrativo è quello di fornire una valutazione
e una classificazione dello “stato mentale” attuale dell‟adulto rispetto all‟attaccamento. Il
sistema di codifica si basa sull‟ipotesi che le regole dei modelli operativi interni si
manifestino nell‟organizzazione del pensiero e del linguaggio sui temi relativi
all‟attaccamento affrontati nel corso dell‟intervista. La classificazione si fonda

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sull‟analisi della narrazione in base alla coerenza del pensiero e all‟integrazione degli
aspetti cognitivi e affettivi relativi all‟attaccamento. Più che i contenuti o la veridicità dei
ricordi, quello che è decisivo, ai fin della classificazione, è il grado di organizzazione
della narrazione. La codifica valuta l‟autoconsapevolezza riflessiva. Essa si focalizza
sulla capacità del soggetto di monitorare, nel corso dell‟intervista, la propria produzione
e di tenere in mente lo stato mentale dell‟ascoltatore.
Ciascuna intervista è stata audioregistrata e trascritta integralmente, così che i
giudici, che codificano in modo indipendente, hanno potuto lavorare esclusivamente sulla
trascrizione dell‟intervista.
Preliminarmente il trascritto viene letto per valutare la “probabile esperienza con le
figure di attaccamento durante l‟infanzia” (Scales for experience) e la qualità emotiva
attribuita al rapporto con i caregiver. Su ciascuna delle cinque scale – Affetto, Rifiuto,
Trascuratezza, Pressione a riuscire, Inversione di ruolo – vengono attributi punteggi su
scale a nove punti.
In seguito il trascritto viene letto nuovamente per valutare lo “stato attuale della
mente” rispetto all‟attaccamento (Scales for states of mind). Anche in questo caso i
punteggi sono attribuiti su scale a nove punti. Le scale sono le seguenti: Idealizzazione,
Rabbia, Insistenza sull’incapacità di ricordare l’infanzia, Processi metacognitivi,
Passività dei processi di pensiero, Paura della perdita, Mancata risoluzione del lutto-
trauma, Coerenza del trascritto, Coerenza globale della mente.
Al termine della valutazione, sulle singole scale viene attribuita una classificazione
generale che riflette l‟adesione o la violazione della coerenza del discorso come definita
da Grice: a) la qualità, essere veritieri e fornire evidenze per quanto affermato; b) la
quantità, essere succinto ma completo; c) la rilevanza, fornire risposte pertinenti
all‟argomento; d) il modo, essere chiari e ordinati nell‟esposizione. I protocolli delle
interviste sono stati integralmente trascritti e quindi classificati in base al sistema di
codifica elaborato da M. Main e R. Goldwin (1998), secondo le seguenti categorie:
sicuro-autonomo (F), distanziante (Ds), preoccupato/invischiato (E), irrisolto nei
confronti di traumi o lutti (U), Cannot Classify (CC). Le prime tre categorie sono a loro

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volta suddivise in sottocategorie che permettono di cogliere in maniera più precisa le


peculiarità di espressione del modello operativo prevalente.

Risultati

I risultati verranno esposti in relazione agli obiettivi specifici indicati:


1. Verificare se vi è una correlazione tra la depressione materna e la valutazione
materna dei problemi emotivo-comportamentali del bambino (misurate con la CBCL), in
quanto ci si attende che le madri depresse attribuiscano, maggiormente, ai loro figli stati
affettivi negativi.

Per valutare le eventuali differenze tra il gruppo di madri depresse e quello di


controllo rispetto alla valutazione materna dei problemi emotivo-comportamentali dei
loro figli è stata effettuata un‟Analisi della Varianza Univariata (ANOVA), che
evidenziato una differenza significativa in funzione della variabile Gruppo di
appartenenza per la scala dei Problemi Internalizzanti (F(1;38)=19,010; p>0,001): i figli
delle madri “Depresse” ottengono un punteggio medio più elevato nella Scala
Sindromica Internalizzante (14,6 vs 8,5) (Figura 1)

Figura 1: Punteggi medi alle scale dei Problemi Internalizzanti ed Esternalizzanti


della CBCL in funzione del Gruppo di appartenenza

25

20

15

10

0
Problemi Internalizzanti*** Problemi Esternalizzanti
madri "non depresse" madri "depresse"
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***=p<.001

Inoltre, è stata condotta un‟analisi esplorativa univariata (ANOVA) sull‟andamento


dei punteggi del CBCL in relazione al Gruppo di appartenenza (“depresse” – “non
depresse”). In particolare, sono emerse differenze statisticamente significative nelle
seguenti sottoscale: Ansia/Depressione (F(1;38)=8,546; p>0,01) e Problemi Somatici
(F(1;38)=23,925; p>0,001), in cui i figli di madri “depresse” presentano punteggi più
elevati. (Figura 2).

Figura 2: Punteggi medi alle sottoscale dei Problemi Internalizzanti della CBCL in
funzione del Gruppo di appartenenza.

10

0
Reattività Emotiva Ansia/Depressione Problemi Somatici Ritiro

madri "non depresse" madri "depresse"

**=p<.01
***=p<.001

Questo risultato conferma l‟ipotesi iniziale, in quanto le madri “depresse”


attribuiscono, maggiormente, stati affettivi più problematici ai loro figli rispetto alle
madri “non depresse”. In particolare, si evince che le madri “depresse” hanno attribuito
punteggi medi più elevati nelle sottoscale Ansia/Depressione e Problemi Somatici.

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2. Verificare se vi siano differenze tra madri depresse e non depresse sui pattern
interattivi nel contesto alimentare (misurati con la S.V.I.A.).

Per verificare se vi siano differenze tra madri “depresse” e “non depresse” sui
pattern interattivi nel contesto dell‟alimentazione è stata eseguita un‟Analisi della
Varianza Univariata (ANOVA).
Le analisi univariate hanno mostrato una differenza statisticamente significativa tra
i gruppi nelle sottoscale della S.V.I.A. Stato affettivo della madre (F(1;38)=37,335;
p<0,001), Conflitto interattivo (F(1;38)=31,454; p<0,001), Comportamenti di rifiuto
alimentare del bambino (F(1;38)=8,762; p<0,01), Stato affettivo della diade (F(1;38)=5,352;
p<0,01). (Figura 3)

Figura 3: Punteggi medi ottenuti alle quattro sottoscale della S.V.I.A. in funzione
del Gruppo di appartenenza.

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**=p<.01
***=p<.001

3. Verificare se vi è una relazione tra i modelli di attaccamento sicuro versus


insicuro (misurato con l‟AAI) e i pattern interattivi alimentari (misurati con la S.V.I.A.).

Per testare la terza ipotesi della ricerca è stata condotta un‟Analisi della Varianza
Univariata (ANOVA) sulle quattro sottoscale della S.V.I.A vs i Modelli di attaccamento
della madre (Sicuro - Insicuro).
Per poter effettuare l‟analisi statistica è stato necessario effettuare un bilanciamento
dei modelli di attaccamento, pertanto ogni singolo gruppo (clinico e di controllo) è
costituito per il 50% da madri con attaccamento sicuro e il restante 50% con
attaccamento insicuro.

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L‟analisi univariata ha evidenziato un effetto significativo dei modelli di


attaccamento (sicuro versus insicuro) sulle sottoscale: Stato affettivo della madre
(F(1;38)=4,401; p<0,05) e Comportamento di rifiuto alimentare del bambino (F(1;38)=3,235;
p<0,05). (Figura 4)

Figura 4: Punteggi medi ottenuti alle quattro sottoscale della S.V.I.A. in funzione
dei Modelli di attaccamento della madre.

*=p<.05

4. verificare se vi è un‟interazione tra attaccamento e depressione sui pattern


interattivi alimentari.

Per verificare l‟eventuale presenza di un‟interazione tra i modelli di attaccamento e


il gruppo di appartenenza sui pattern interattivi alimentari è stata condotta un‟Analisi
della Varianza Multivariata (MANOVA).
I risultati hanno rilevato un effetto non significativo dell‟interazione (=0,936;
Rao(4;33)=10,564; NS).

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Discussione

I risultati emersi hanno messo in luce interessanti evidenze empiriche che


confermano i principali obiettivi della ricerca, offrendo diversi elementi di
approfondimento e di riflessione.
I risultati dell‟obiettivo, analizzare la valutazione materna dei problemi emotivo-
comportamentali del figlio, forniscono dati interessanti relativamente ad una percezione
maggiormente elevata del figlio da parte delle madri, che presentano un disturbo
depressivo maggiore; in particolare, nelle sottoscale Ansia/Depressione e Problemi
somatici. È stato infatti evidenziato come le madri “depresse” descrivono i loro figli
come “difficili” sul piano relazionale attribuendogli stati d‟animo di rabbia, ostinazione,
tristezza e problemi somatici della sfera cardiovascolare e/o della sfera gastrointestinale.
Questi risultati trovano conferma in ulteriori ricerche che sottolineano come il
costrutto del “temperamento difficile” abbia un valore predittivo sulla psicopatologia
infantile, se studiato all‟interno di un modello interattivo che tenta di interpretare i
processi dinamici che promuovono, od ostacolano, uno sviluppo infantile ottimale
(Anders, 1994; Attili, Vermigli, 2002; Lindberg et al., 1994; Lengua, 2002; Sameroff,
Fiese, 1990; Vaughn et al., 1989; Zeanah et al., 1986).
In questi processi dinamici, tanto le differenze individuali nelle capacità di
autoregolazione, quanto le differenti relazioni di caregiving, possono influenzare gli stili
emotivo-comportamentali del bambino, incidendo sulle sue capacità di modulare l‟input
sensoriale, di mantenere uno stato affettivo calmo e positivo, e di sviluppare la capacità
di regolare affetti e comportamenti. Questo dato appare di particolare interesse perché
consente di ribadire il ruolo del bambino come pattern attivo e competente, capace di
influenzare la relazione con la madre, venendone inevitabilmente influenzato, in un
complesso sistema interattivo caratterizzato da reciprocità e mutua regolazione.
È emerso che la comprensione del bambino e dei suoi disturbi è inseparabile dal
contesto delle relazioni significative. All‟interno di questa prospettiva, qualsiasi

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disfunzione relazionale è considerata come un fattore che può limitare o distorcere le


esperienze cognitive, emotivo-affettive e sociali del bambino, mettendo a rischio le sue
potenzialità adattive nei contesti della quotidianità (Anders, 1989; Emde, 1989;
Sameroff, Emde, 1989).

L‟analisi della seconda ipotesi ha permesso di rilevare l‟influenza della depressione


materna sui pattern interattivi alimentari, mediante le sottoscale della S.V.I.A.,
mostrando punteggi medi più elevati nelle dimensioni relazionali valutate nel contesto
dell‟alimentazione.
La sottoscala Stato affettivo della madre rileva sia le difficoltà nell’espressione di
stati d’animo positivi come gioia e piacere, sia la frequenza e la qualità di affetti
negativi, come tristezza e distacco. Un caregiver che ottiene punteggi alti in questa scala
non riesce ad interpretare correttamente i segnali del figlio e a sintonizzarsi con essi,
come avviene in una madre depressa (Stein, et al., 1994; Weinberg e Tronick, 1997).
La sottoscala Conflitto interattivo permette di valutare la presenza di scambi
conflittuali, in cui la madre forza l’alimentazione del bambino e non regola l’alternanza
dei turni, lasciandosi guidare soltanto dai propri sentimenti; il figlio, a sua volta, rifiuta
il cibo in risposta al controllo e all’intrusività materna. Questa modalità relazionale è
stata osservata da vari autori nel quadro clinico dell’anoressia infantile (Benoit, 1993;
Chatoor, 1989; Kreisler, 1985).
La sottoscala Comportamenti di rifiuto alimentare del bambino indaga i pattern
alimentari del bambino nelle loro caratteristiche regolative o disregolative, con
particolare riferimento a dimensioni temperamentali, quali emozionalità e livello di
attivazione, irritabilità e negativismo; esamina inoltre i comportamenti materni
inappropriati e non contingenti durante gli scambi con il figlio (Chatoor, 2001;
Maldonado-Durán, et al., 2002).
La sottoscala Stato affettivo della diade, infine, analizza se, e in quale misura, i
modelli alimentari del bambino siano il risultato o meno di una regolazione diadica

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adeguata, volta principalmente a facilitare l’emergere di iniziative autonome da parte


del bambino (Chatoor, 1996; Gianino, Tronick, 1988).
Riassumendo, rispetto al gruppo di madri “non depresse”, queste coppie madri –
bambini in cui vi è la presenza di madri con un disturbo depressivo maggiore mostrano
una mancanza di comunicazione sintonica e collaborativa e un coinvolgimento negativo,
caratterizzato da tristezza, distacco emotivo, rabbia, distress; si evidenziano ripetuti
fallimenti interattivi nello scambio alimentare, in cui il bambino presenta comportamenti
oppositivi di rifiuto del cibo, denotati da negativismo e disimpegno (Chatoor, et. al.,
1996; Lucarelli, et. al., 2003; Stein, et. al., 1999).
Si può, quindi, affermare che queste coppie di madri “depresse” e dei loro bambini
hanno difficoltà ad esprimere nella relazione affetti positivi, a riconoscere e interpretare i
segnali reciproci e sintonizzarsi con essi; gli scambi della diade, nel contesto alimentare,
possono divenire intensamente conflittuali e a-sincroni.
Le strategie difensive controllanti di queste madri sarebbero all‟origine della
difficoltà di modulare e negoziare le interazioni conflittuali con i loro bambini nel
momento del pasto (Chatoor, et al., 2000; Stein, et al., 1999).
Infine, le analisi hanno evidenziato una relazione significativa tra le madri che
presentano un disturbo depressivo maggiore e la presenza di interazioni disfunzionali,
caratterizzate da bassa reciprocità diadica, da scarsa collaborazione empatica durante gli
scambi alimentari e da comportamenti di rifiuto alimentare e disimpegno del bambino.
Rispetto al gruppo di madri “non depresse”, sono quindi emerse modalità
relazionali maggiormente disfunzionali e problematiche nelle diadi dove la madre
presentava un disturbo depressivo maggiore, in cui il controllo materno, il conflitto
interattivo, i ripetuti fallimenti comunicativi e il coinvolgimento negativo della coppia
interferiscono con i pattern alimentari di sviluppo dei bambini, ostacolando la
stabilizzazione dei ritmi biologici di fame/sazietà e i processi di autonomia e di
individuazione.
I risultati della ricerca hanno messo in luce le interconnessioni e le reciproche
influenze tra le esperienze affettive e relazionali della coppia madre-bambino e i processi

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di sviluppo delle abilità alimentari durante i primi tre anni di vita nel contesto interattivo
dell‟alimentazione.
Nelle diadi di madri “depresse” le caratteristiche disfunzionali della relazione di
caregiving, maggiore controllo, intrusività, difficoltà nel riconoscimento empatico dei
segnali comunicativi e affetti negativi, sembrano mediare la trasmissione del rischio
psicopatologico dalla madre al bambino e costituire un terreno predisponente per
l‟esordio e per la persistenza di un disturbo alimentare nella prima infanzia.
La presente ricerca ha altresì voluto indagare il ruolo che le esperienze infantili
della madre e il suo attuale stato della mente rispetto ai modelli dell‟attaccamento
possono avere nel determinare il suo coinvolgimento nella relazione con il bambino.
La valutazione dello stato mentale nei confronti dell‟attaccamento delle madri
“depresse” valutate con l‟Adult attachment Interview ha rilevato un‟alta percentuale di
modelli di attaccamento distanzianti.
I risultati dei dati confermano l‟ipotesi secondo la quale le capacità genitoriali
possono essere influenzate dai modelli di attaccamento, in particolare sono stati
evidenziati punteggi medi alti nelle sottoscale Stato affettivo della madre e
Comportamento di rifiuto alimentare del bambino da parte di madri con attaccamenti
insicuro.
I progressi della psicologia e della psicopatologia dello sviluppo, dunque, hanno
messo in luce il ruolo degli affetti e dei comportamenti di caregiving nell‟organizzazione
della personalità del bambino e nella possibile trasmissione del rischio psicopatologico
dal genitore al figlio (Ainsworth et al., 1989; Main, 1999). In questa prospettiva, la teoria
dell‟attaccamento ha fornito linee guida fondamentali per la ricerca e per la clinica. Il
legame di attaccamento madre-figlio è stato considerato un‟esperienza fondamentale,
soprattutto perché il bambino, partecipando a scambi relazionali ripetuti, si costruisce
delle rappresentazioni mentali di se stesso e degli altri.
In breve, si è rilevato che una relazione di attaccamento sicuro funziona come un
fattore protettivo dello sviluppo psicologico infantile (effetto di buffering), mentre un
attaccamento insicuro rappresenta un fattore di rischio e di vulnerabilità

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nell‟organizzazione della personalità (Belsky, et al., 2002). Inoltre, diversamente


dall‟attaccamento sicuro, un sistema di caregiving non ottimale puo amplificare i fattori
di rischio psicopatologico che hanno origine da una varietà di fonti nel bambino (ad es.,
temperamento difficile) e nell‟ambiente (ad es., psicopatologia del genitore, povertà,
stressors psicosociali, conflittualità e instabilità nella relazione coniugale) (Sroufe,
2000).
Analizzando i dati si può considerare che le risposte evitanti del bambino possono
pertanto rappresentare strategie difensive e adattive nel mantenere un modello di
relazione con un caregiver che presenta scarsa regolazione emozionale e difficoltà nel
tollerare stati emotivi conflittuali e di disagio nella relazione con il bambino. Inoltre,
sembra come se il bambino avesse bisogno di controllare con il suo comportamento
alimentare la relazione con un caregiver scarsamente responsivo, confuso, emotivamente
poco sensibile e incoerente nelle risposte. Il bisogno di controllo sulla relazione ha la
conseguenza di limitare lo sviluppo di adeguati pattern di esplorazione, iniziativa e
autonomia del bambino.
Sebbene i modelli operativi interni sviluppati nel corso delle prime esperienze
relazionali con le figure d'attaccamento mostrino una sostanziale continuità, il modello
epigenetico formulato da J. Bowlby, postula la possibilità che, in ogni fase del ciclo
vitale, questi ultimi siano soggetti a cambiamenti evolutivi legati alle modificazioni del
sistema di attaccamento.
In questa prospettiva, J. Bowlby ha ipotizzato che tali cambiamenti possano
avvenire in periodi successivi all‟infanzia, grazie all‟influenza esercitata dalle nuove
relazioni d‟attaccamento.
La possibilità che le figure di attaccamento continuino a fornire "una base sicura",
dalla quale partire per esplorare l'ambiente, nonché la consapevolezza che tali figure
saranno comunque disponibili a fornire aiuto e supporto nei momenti di bisogno,
rimangono anche degli elementi importanti del sistema di attaccamento (Bowlby, 1988).
L'analisi della letteratura sull'argomento suggerisce che, nella costruzione dei
modelli operativi interni, un genitore (la figura d'attaccamento primaria), tende ad avere

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una maggiore influenza dell'altro (Main, et al., 1985; van Ijzendoorn, 1995). Dal
momento che la madre tende ad essere la figura d'attaccamento privilegiata, soprattutto
nella cultura occidentale, ci si potrebbe attendere che la qualità della relazione con lei
risulti maggiormente correlata allo sviluppo dell'intimità e della vicinanza nelle relazioni
sociali.
Uno dei concetti cardine della teoria dell‟attaccamento è quello che le esperienze
precoci sfavorevoli giochino un ruolo fondamentale nello sviluppo di disturbi
psicopatologi (Bowlby, 1969; 1973).

Questo lavoro di ricerca si conclude con l‟obiettivo teso a verificare se vi è la


presenza di un‟interazione tra attaccamento materno (sicuro versus insicuro) e
l‟appartenenza al gruppo (madri “depresse” versus madri “non depresse”) sui pattern
interattivi alimentari.
La non significatività statistica che è emersa da tale risultato non ci permette di
affermare che i pattern interattivi alimentari sono influenzati dalla combinazione dei due
fattori, ossia che le madri “depresse” con attaccamento insicuro hanno minori capacità
genitoriali delle madri “depresse” con attaccamento sicuro. Questa affermazione vale
anche per le madri “non depresse” con attaccamento sicuro e insicuro.
In particolare, si è verificato spesso che nell‟interazione con il bambino le madri
con attaccamento insicuro si sono mostrate assenti, assorte in pensieri estranei al contesto
interattivo, incapaci di tollerare e gestire i tentativi di autonomia del figlio che, nella
misura in cui contribuivano a “innescare ed esasperare” modelli operativi interni della
madre caratterizzati da incoerenza e da distacco, hanno determinato comportamenti
aggressivi, ostili ed oppositivi nel bambino.
Per approfondire l‟influenza esercitata dallo stato mentale della madre rispetto
all‟attaccamento sulla sua relazione con il bambino sono state considerate più nel
dettaglio le rappresentazioni mentali delle madri con disturbo depressivo maggiore ed è
stato evidenziato che, al di la di peculiarità proprie delle singole storie di vita, esistono
alcuni temi comuni con le madri “non depresse” che sembrano rappresentare un filo

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conduttore tra le esperienze relazionali precocemente vissute da queste donne e che,


quasi sorprendentemente, legano queste donne ad altre coinvolte in ricerche analoghe a
questa. Le parole delle donne intervistate dipingono un‟infanzia sterile di gioia, di cura,
di protezione e di conforto. Il tema sottostante che emerge maggiormente nelle madri
“depresse” è quello della perdita. Sebbene la maggior parte di loro sia cresciuta con la
propria madre naturale, questa viene descritta come incapace di assolvere adeguatamente
al suo ruolo genitoriale. L‟infanzia di molte di loro è caratterizzata dalla perdita, oltre che
di parenti anziani per cause naturali, anche di persone care (fratelli, amici, cugini), spesso
coetanee o comunque giovani, morti improvvisamente e/o violentemente (incidenti). Le
donne spesso hanno caratterizzato queste morti con un continuato senso di incredulità
non solo per la morte in se, ma anche per le circostanze in cui questa è avvenuta. I primi
anni di vita di queste donne sono stati caratterizzati da imprevedibilità e incoerenza, da
movimenti multipli attraverso luoghi e persone. Le loro interviste esprimono il dolore per
la perdita di stabilità nell'infanzia, che continua anche nelle loro vite da adulti.
Un altro tema ricorrente è rappresentato dal senso di rivalità con i fratelli, che
anima un profondo senso di rifiuto: la percezione è quella di essere amata meno degli
altri fratelli, preferiti e privilegiati dai genitori. Coerentemente con questo aspetto, è
frequente l‟idea di trovare presso altri “quello” che non si è avuto dai genitori. Il vuoto
emozionale e fisico determinato dall‟'avere madri essenzialmente assenti dalle loro vite
ha facilitato l'adozione informale di "madri sostitutive" capaci di soddisfare alcuni dei
loro bisogni affettivi e relazionali. Le donne del campione hanno descritto queste persone
in termini positivi, definendole comprensive, affettuose, pazienti, disponibili. Si tratta
spesso di nonni, zii, vicini di casa. Sebbene i contatti con queste persone potessero essere
infrequenti, il legame emotivo a stato caratterizzato come forte e valutato come
importante. Molte di queste donne hanno imparato presto ad essere delle “mamme
sostitutive” rispetto a fratellini più piccoli. Soprattutto quelle le cui madri erano affette da
disturbi mentali o problemi di alcool hanno esteso questo ruolo di cura anche alle loro
madri.

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A fronte di queste esperienze, colpisce la totale incapacità da parte delle madri


intervistate di considerare questi eventi come aspetti potenzialmente traumatici e in grado
di influenzare il loro sviluppo, la loro personalità e il loro modo di vivere e in seguito la
capacità genitoriale. Molte delle donne hanno riferito che queste prime esperienze di
attaccamento hanno loro consentito di diventare “più forti”, di “imparare a cavarsela,
contando sulle proprie capacità”. Le loro interviste esprimono l‟assenza della capacità di
riflettere sugli stati mentali propri o delle figure di attaccamento per dare un senso
all'esperienza vissuta. In molti casi questo prende la forma di un'estrema concretezza e
attenzione alle sole cose materiali. In generale, comunque, l‟assenza di funzione
riflessiva, cioè la fondamentale capacità di comprendere e interpretare il comportamento
degli altri sulla base di stati mentali sottostanti, sembra tradursi da una parte nella
difficoltà a dare senso all‟esperienza passata riferendosi a stati mentali e affettivi propri e
altrui, dall'altra a comprendere le ragioni che determinano la loro condizione attuale e la
qualità del loro maternage. L‟assenza di elaborazione del proprio passato sembra portare
queste donne ad attualizzare, inconsapevolmente, modalità di caregiving segnate da
insensibilità e assenza di attenzione e di comprensione per i bisogni psicologici e fisici
del loro bambino.

Conclusioni

In conclusione, sulla base dei risultati emersi, per comprendere e studiare i disturbi
alimentari infantili, sembra opportuno prendere in esame il complesso intreccio tra
caratteristiche del bambino, della madre, della loro relazione e i compiti evolutivi che
entrambi devono affrontare in considerazione dei processi di separazione-individuazione
e della crescente autonomia del bambino. Gradualmente, il bilanciamento fra
l‟attaccamento sicuro materno e l‟autonomia emergente del bambino dovrebbe essere
rispecchiato dal compito del caregiver di bilanciare in modo flessibile i comportamenti
protettivi con i comportamenti di “lasciar fare” al bambino, facilitando in lui le iniziative
di autonomia, l‟esperienza del Sé come agente, la spinta ad autoregolarsi e a

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padroneggiare le situazioni (mastery) (Ammaniti, 2001; Lieberman, Slade, 2001;


Speranza, 2001). Al contrario i modelli di attaccamento insicuro nelle coppie di madri e
di bambini sembrano influenzare in modo importante i pattern comunicativi
dell‟interazione e risultano essere all'origine non solo di una disturbata regolazione
alimentare del bambino, ma anche dell'emergere in quest‟ultimo di oppositività,
negativismo e disimpegno che possono ostacolare lo sviluppo di adeguati pattern di
esplorazione, autonomia e individuazione e di capacità nelle relazioni interpersonali.
I risultati emersi enfatizzano, quindi, l‟utilità clinica dello studio rispetto
all‟identificazione precoce dei bambini a rischio per l‟instaurazione di un disturbo
alimentare e una sindrome di non organic failure to thrive e confermano l‟importanza,
nell‟assessment clinico-diagnostico dei disturbi alimentari infantili, di monitorare la
qualità dei pattern relazionali della diade madre-bambino, al fine di analizzare le
connessioni possibili tra le varie psicopatologie materne e i disturbi alimentari infantili
nella formulazione di strategie di prevenzione e di intervento mirate ed efficaci.
Questo contributo riporta dati ancora in discussione e che richiedono ulteriori
verifiche empiriche su un campione più rappresentativo; pertanto ha messo in luce
l‟importanza di approfondire la valutazione sul funzionamento e sui modelli di sviluppo
del sistema di caregiving per la formulazione di strategie di intervento in modo adeguato
rispetto a delle problematiche complesse e multifattoriali, atte a prevenire eventuali
disfunzioni dello sviluppo psicologico del bambino.
Inoltre, l‟analisi della letteratura sull‟argomento dell‟attaccamento suggerisce che,
un genitore, ossia la figura d‟attaccamento primaria, tende ad avere una maggiore
influenza dell‟altro genitore nella costruzione dei modelli operativi interni del bambino
(Main et al., 1985; van Ijzendoorn, 1995). Dal momento che la madre tende ad essere la
figura d‟attaccamento privilegiata, soprattutto nella cultura occidentale, ci si potrebbe
attendere che la qualità della relazione con lei risulti maggiormente correlata allo
sviluppo dell‟intimità e della vicinanza nelle relazioni sociali.
Nondimeno, sebbene diversi studi abbiano messo in luce che l‟attaccamento alla
madre risulti essere un fattore maggiormente predittivo dell‟attaccamento del bambino e

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del suo sviluppo altre ricerche hanno sottolineato l‟importanza del ruolo giocato dalla
figura paterna (Kerns e Barth, 1995; Youngblade et al.,1993).
Inoltre, l‟attaccamento al padre e alla madre valutato complessivamente, risulta
essere più predittivo della competenza sociale nei bambini, di quanto non lo sia
l‟attaccamento alla madre valutato isolatamente (Suess et al., 1992). Il ruolo svolto dalla
figura paterna, pertanto, potrebbe essere più importante di quanto finora ritenuto, potendo
contribuire a determinare, insieme alla qualità dell‟attaccamento alla madre, il modo in
cui il bambino percepisce se stesso all‟interno delle nuove relazioni significative. È in
quest‟ottica che potrebbero essere dirette delle ricerche future.

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Genitorialità

CHE “COSA” SI TRASMETTE IN CIÒ CHE SI TRASMETTE?

Daniele Benini
psicoanalista

Was du ererbt von deinen Vätern hast,


erwirb es, um es zu besitzen!

Ciò che hai ereditato dai padri,


riconquistalo, se vuoi possederlo davvero.

Goethe, Faust, parte I, prima scena della Notte


Citato da Freud in Totem e tabù, Opere, vol. VII, p. 161

Alla ricerca del reale

Al termine di un convegno davvero molto interessante sul “Transgenerazionale”,


ricco di suggestioni e di spunti per ulteriori riflessioni, ne propongo una, a mio avviso
essenziale, ma, nel contempo, non facile da cogliere.

Nella trasmissione inter-generazionale infatti si è più portati a considerare ciò che


si trasmette di materiale o quantomeno di misurabile, di valutabile psicologicamente,
sociologicamente, storicamente, piuttosto che qualcosa d‟”altro”, che pure si trasmette in
ciò che si trasmette (attraverso ciò che si trasmette), ma in una maniera che il più delle
volte sfugge ad ogni tentativo di comprensione (anche perché i nostri tentativi di
comprensione si soffermano – ma insieme, il più spesso delle volte, si fermano, si

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arrestano – a quel che appare, cioè al “fenomenico” e non si pongono la questione se vi


sia un “oltre” o un “al di là”, una qualche “Cosa” oltre alle “cose”).
Partirei da qualche considerazione d‟ordine elementare per poi avviare
l‟elaborazione del tema che mi sono proposto sui due versanti su cui da anni ormai mi
sono incamminato, che poi preciserò, per cercare di afferrare2 non solo ciò che si può
afferrare, ma anche ciò che non si può afferrare, cioè ciò che sfugge alla presa; per
dirla nei termini hegeliani, ma contra Hegel: ciò che del reale sfugge alla presa del
razionale. Perciò l‟”afferrare” umanamente possibile, perché sia tale, deve tener conto di
ciò che non è afferrabile, sopportandone l‟angoscia.

Lacan nel sem. X, L’angoscia, dice (a proposito del “concetto di angoscia” di


Kierkegaard): “Non so se ci si renda ben conto dell‟audacia con cui Kierkegaard apporta
tale espressione. Che cosa può voler dire se non che la vera presa sul reale è data o dalla
funzione del concetto secondo Hegel, vale a dire dalla presa simbolica, oppure dalla
presa che ci dà l‟angoscia, unica apprensione ultima e, in quanto tale, apprensione di
qualsiasi realtà, e che fra le due si deve scegliere?”.

Detto in termini più elementari:

- o è vera la equazione tra reale e razionale posta da Hegel («Ciò che è razionale è
reale; e ciò che è reale è razionale»3) secondo cui tutto ciò che è reale può essere
“compreso” mediante il razionale;

2
È un verbo un po‟ pretenzioso, ma lo uso perché è il vero significato del tedesco greifen da cui deriva il sostantivo
Begriff, che significa concetto, costruito allo stesso modo dell‟italiano “comprendere”, da cum capio, cioè: afferrare
insieme, tutto insieme, senza che nulla possa sfuggire alla presa, termine fondamentale in Hegel in quanto riassume
l‟equazione tra reale e razionale: attraverso il Begriff, il “concetto”, tutto il reale viene “afferrato” dal razionale.
3
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (Prefazione), Laterza, Bari, 1954, pag.15.

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- oppure qualcosa del “reale” sfugge alla presa, alla com-prensione del razionale;
qualcosa del reale non si lascia catturare dal razionale ed è questo reale, razionalmente
non controllabile, che provoca angoscia.

Questa è una questione veramente cruciale. Le due posizioni sono ovviamente


agli estremi di un ideale continuum in cui se ne possono rinvenire anche di intermedie.
Ma nella pratica - non solo clinica, anche “scientifica” - o si opta per l‟una o per l‟altra.

Personalmente opto per la seconda ed è di questo “reale” che vorrei provare a


parlare.

Mi correggo: in realtà di questo “reale” non se ne può parlare adeguatamente,


proprio perché sfugge alla presa del razionale, cioè al controllo che possiamo esercitare
attraverso il pensiero, come anche alla presa dell‟immaginario. Lo si può solo “situare”,
preservarne cioè il posto vuoto, avendo cura di non riempire questo vuoto con la nostra
immaginazione o con le nostre razionalizzazioni.

Le due impossibilità: a pensare e a immaginare il reale.

Vorrei dare concretamente alcuni esempi, fra i tanti, per mostrare le due
impossibilità – quella del simbolico e quella dell‟immaginario – rispettivamente a
pensare e a immaginare il reale.

Il primo scacco che mi viene in mente è la prova ontologica dell‟esistenza di Dio


che nella sua formulazione risale a Sant‟Anselmo d‟Aosta ed è durata per secoli, fino a
Kant: id quod majus cogitari nequit (ciò di cui non si possa pensare niente di più grande).
San Tommaso per la verità riteneva che Dio fosse inimmaginabile o impensabile – in
effetti questa impossibilità attiene ad entrambe le due potenzialità dell‟uomo, simbolica e

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immaginaria – mentre Cartesio ne ha fatto largo uso nelle sue Meditationes per poter
sorreggere - sull‟esistenza così dimostrata e dimostrabile di Dio - il suo fragile, nascente
ego.
Kant, come si sa, ne segò sin dalle fondamenta la radice perché o l‟esistenza di
Dio è già contenuta nella proposizione iniziale – ciò che non è, perché la si vuol
dimostrare - oppure non può essere inferita lungo il percorso, posto che non ne è una
deduzione logica.

Anche il giovane B. Russell segò dalle fondamenta l‟impianto dei fondamenti (il
bisticcio è in re ipsa) della matematica pensati da G. Frege, è nota la lettera che gli
scrisse nel 1902 in cui formulò il noto paradosso di Russell; seguì poi un decennale
lavorìo attorno al formalismo in matematica che si può dire concluso dai due teoremi di
incompletezza di Kurt Gödel, del 1931, secondo cui vi sono nell‟ambito dei sistemi
formali delle proposizioni indecidibili, proposizioni cioè che potrebbero anche essere
vere ma che non sono verificabili con i criteri di verità del sistema formale stesso; esse
rappresentano dei veri e propri punti di fuga, un “reale” che sfugge, che non è solo una
caratteristica del sistema, ma la sua stessa condizione di sussistenza.

Uno scacco dal punto di vista dell‟immaginario è quello empiricamente


verificabile negli esiti nefasti dell‟etica della società dei consumi, in cui giocoforza
nuotiamo (se si assume la nota immagine della società liquida di Z. Bauman) per cercare
di restare a galla come soggetti pensanti e riuscire a mantenere relazioni
significativamente stabili con autrui4.

La seducente captazione dell‟immagine e il negativo influsso ch‟essa esercita è un


tema molto analizzato e dibattuto; mi limito qui a richiamarlo citando solo un testo, tra i
tanti, quello di un sociologo francese, A. Ehrenberg: La fatica di essere se stessi,
sottotitolo: Depressione e società, molto illuminante perché stabilisce una relazione

4
Impiego qui autrui nel senso in cui ce lo ha trasmesso, più in negativo che in positivo, E. Levinas.

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diretta tra le illusioni create dalla pubblicità e la depressione che è in crescita


esponenziale nelle società occidentali a capitalismo avanzato e questo per la semplice
ragione che certamente si vende di più se si riesce a convincere il fruitore del messaggio
pubblicitario che se beve, ad es., caffè Illy sarà se stesso (stando a uno spot pubblicitario
di qualche anno fa), solo che dopo che l‟ha bevuto non solo non è divenuto se stesso, ma
lo è ancora meno di prima, aumenta il gap, lo scarto, tra quel che vorrebbe essere e quel
che invece in effetti è.

Non sfugge, a chi ancora riesce a mantenere viva la propria soggettività pensante,
che la potente immagine pubblicitaria riesce a far presa sul potenziale consumatore
proprio grazie al vuoto-che-egli-è – in ciò consiste propriamente il reale – ed al “pieno”
che il prodotto di consumo assicura di poter dare. Solo che, a mano a mano che si
consuma, il vuoto si accentua sempre di più e parallelamente sfugge ancora di più il
reale. In Lacan: “il reale del soggetto”. Che si contrappone al soggetto cartesiano, pur
essendo lo stesso.

- Vi si contrappone: l‟oggetto di consumo è, se così si può dire, l‟ultima, in


ordine di tempo, rappresentazione dell‟oggetto come qualcosa di adeguato al soggetto: un
perceptum fatto apposta per il percipiens così da poter fare illusoriamente uno, sta in ciò
la cattura immaginaria, tipica del miraggio. Un miraggio che si ripete quotidianamente
con l‟infaticabile ri-presentazione di oggetti, in continuazione, al mattino nuovi, a sera
già obsoleti, per poter essere rimpiazzati l‟indomani da altri e così via; mentre il reale del
soggetto è l‟oggetto perduto, sta dietro al soggetto, non davanti, nell‟illusione
tipicamente ottica dello specchio che inutilmente il mito di Narciso ci ha tramandato, dal
momento che si ripete nel miraggio di poter trovare l‟oggetto cercato da questo soggetto
visto solo nel suo “aspetto” di soggetto conoscente e agente; mentre il vero soggetto è
altrove: perciò vi si contrappone.
- Ma, nel contempo, è lo stesso soggetto, quasi un Giano bifronte o, meglio,
più azzeccata, forse, come metafora: la luna che mostra al sole sempre e solo la stessa

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faccia, mentre l‟altra è perennemente in ombra; il soggetto è la luna nel suo insieme, se
così si può dire; Lacan accosta alla certezza cartesiana, basata sull‟io che pensa e dunque
esiste, la certezza freudiana secondo cui oltre all‟Io c‟è l‟Es, l‟inconscio, che riduce i
poteri della coscienza, anzi, li domina; l‟inconscio addirittura emargina la coscienza
(“L‟io non è più padrone in casa propria”), la decentra; è il reale del soggetto che occupa
il centro della struttura, psichica e non; si può provare a dire: allo stesso modo delle
proposizioni indecidibili di Gödel per le quali mancano i criteri di verità per la loro
verificabilità, anche per il reale del soggetto manca la possibilità di vederlo
immaginariamente o di nominarlo simbolicamente; in un ipotetico quadro della realtà, il
reale manca (ed è ciò che mostra lo schema R di Lacan), ma è proprio grazie al fatto che
non c‟è, che manca, che la realtà sussiste.

C‟è un testo di J. Derrida che mi ha sempre molto colpito e orientato nella ricerca;
si tratta di una conferenza risalente al 1966 dal titolo “La structure, le signe et le jeu dans
le discours des sciences humaines”, poi pubblicata nella raccolta La scrittura e la
differenza in cui viene proposta una lettura/interpretazione sintetica dell‟intera storia
dell‟occidente dal punto di vista della struttura e del suo centro. Struttura sempre vista e/o
pensata in parallelo all‟epistème – ad un sapere cioè che si sostenga da sé, senza
riferimento ad Altro, ad una qualche alterità inassimilabile, nel senso che il sapere preme
per conquistare l‟Altro da sé, per farlo diventare simile a sé.

Ebbene, ci dice Derrida, il centro di questa struttura per secoli è stata pensato
come un pieno: “La determinazione dell‟essere come presenza in tutti i sensi della
parola. Si potrebbe mostrare che tutti i nomi del fondamento, del principio o del centro
hanno sempre designato l‟invariante di una presenza (eidos, archè, telos, energia, ousìa
[essenza, esistenza, sostanza, soggetto] alètheia, trascendentalità, coscienza, Dio, uomo,
ecc)”5.

5
J. Derrida, La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane, in La scrittura e la differenza, TO,
Einaudi, 2002, pp. 360-361.

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Solo che ad un certo punto, nel gioco delle sostituzioni, della ripetizione di
sostituzioni, ci si è resi conto – qualcuno, ovviamente, qualche pensatore, si è aperta una
corrente di pensiero – “che forse non c‟era centro, o che, se c‟era, non poteva essere
pensato nella forma di un essere-presente, che il centro non aveva un posto naturale, che
non era un posto fisso bensì una funzione, una sorta di non-luogo nel quale si
producevano senza fine sostituzioni di segni”. “[…] l‟assenza di significato
trascendentale estende all‟infinito il campo e il gioco della significazione”6.

Se il centro non può più essere pensato come un pieno, ma come un vuoto, si
possono aprire almeno due possibilità di supposizioni:

1° che non esista nessuna Verità con la V maiuscola (posizione in Italia di Gianni
Vattimo);

2° oppure di pensare (non che “esista”, ma che “ex-sista”) una Verità di cui
nessuno possa dire di possederla, di poter giudicare gli altri in virtù di questa “supposta”
Verità7. Qui si aprirebbe anche tutta la questione dell‟autorità e del suo luogo d‟origine8;
autorità in declino oggi, di pari passo con l‟evaporazione della figura del padre: il venir
meno della figura tradizionale del “padre” come luogo da cui promana la voce autorevole
fa sì che l‟adagio latino “tot capita tot sententiae” acquisti un valore fino ad oggi
impensabile: estrema frammentazione delle varie soggettività, tutti hanno ragione, sono
sempre meno autorevoli le persone tradizionalmente investite dell‟autorità, a partire dal
padre di famiglia (D. Meghnagi al convegno ha detto che un tempo anche un padre

6
Ibidem, p. 361.
7
Come si sa, qui si aprirebbe il campo dell‟etica del discorso (i riferimenti a Karl-Otto Apel e Jürgen. Habermas sono
inevitabili) che in definitiva si contrappone a qualsiasi supposizione di un metalinguaggio (alla Alfred Tarski, ad es.),
con tutte le questioni relative, a cui non posso qui neppure accennare, perché mi porterebbero un po‟ fuori dal tema, ma
che nondimeno andrebbero oggi un po‟ più meditate e rivalutate, per mettere più precisamente a fuoco, ad es., questioni
come il nichilismo e il relativismo che, se definite dall‟alto di un “pensiero forte” contrapposto al “pensiero debole” di
G. Vattimo, non solo rischiano di non cogliere il nocciolo di ciò che è veramente in questione nella questione, ma di
collocarsi un bel po‟ indietro nella storia del pensiero, non riuscendo a nascondere la profonda nostalgia di un passato
che francamente non credo possa più tornare.
8
Su cui c‟è una straordinaria convergenza tra psicoanalisi e Sacra Scrittura, spero questo punto di poterlo approfondire
in altra occasione.

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balordo non aveva difficoltà ad essere padre, oggi anche un padre autorevole ha
viceversa notevoli difficoltà), dagli insegnanti, e via via fino alle autorità religiose.
Venendo meno la figura tradizionale dell‟autorità, prende sempre più piede il tipo di
identificazione di massa studiato da Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’Io ben
rappresentato dallo schema che si trova a p. 304 del IX Volume delle Opere:

Che è da leggersi nel senso che operando sempre meno l‟autodirezione (ovvero,
l‟ideale dell‟Io come erede del Super-Io paterno) e prevalendo dunque l‟eterodirezione9,
i singoli individui eterodiretti – fondamentalmente soli, isolati - si lasciano sempre più
guidare dalle mode, da ideali d‟ordine immaginario e da leaders che rappresentano
immaginariamente quell‟”oggetto esterno” che consente loro un‟identificazione d‟ordine
immaginario per loro strettamente indispensabile che viene dunque al posto del loro
“Ideale dell‟Io”, fragile, inconsistente.

Si apre qui una pluralità di temi e di percorsi tutti interessanti, variamente trattati,
su cui non posso soffermarmi; mi limito ad accennare alla vera questione del soggetto,
legata al suppositum medievale e, ancor prima, all‟hupokeimenon aristotelico, di cui
ritroviamo traccia nel soggetto supposto sapere di Lacan.

Quel che a me qui interessa, per poter fare il passo avanti sulla questione per me
centrale nel “transgenerazionale”, è che la vuotezza o assenza di questo centro - nel senso
di impensabilità e inimmaginabilità (perciò qualcuno è portato a dire che non-esiste) - è

9
Autodirezione ed eterodirezione sono categorie proposte da un sociologo americano, David Riesman, nel suo saggio
The Lonely Crowd, 1950; trad. it. La folla solitaria, BO, Il Mulino, 1967².

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questione cruciale per impostare correttamente ciò che più conta, sia in teologia sia in
psicoanalisi.

Ciò che più conta. Non a caso questa espressione la ritroviamo in Freud,
precisamente nella prefazione alla traduzione ebraica di Totem e tabù in cui ai lettori
della “lingua sacra” dice che non la conosce, che si sente estraneo alla religione dei padri
così come agli ideali nazionalistici, ma cionondimeno non ha mai rinnegato
l‟appartenenza al suo popolo e sente come ebraico il proprio particolare modo di essere.

“Ma, allora, cosa ti è rimasto di ebraico?”, emerge logicamente la domanda che


Freud stesso immagina possa essergli posta e la risposta che offre è: “Moltissimo,
probabilmente ciò che più conta”, cosa che al momento, aggiunge, non saprebbe
esplicitare “in cosa consista questa natura essenziale dell‟ebraismo” – ci verrebbe da
precisare: questa natura essenziale dell‟essere umano – ma confida che un giorno o l‟altro
essa diverrà intelligibile per la scienza.

Come sappiamo dallo sviluppo del pensiero centro del proprio


di Freud quel “ciò che più conta” è la questione del essere, è un
padre o, meglio, il padre come questione; questione vuoto, un buco,
centrale sia per la psicoanalisi sia per la Sacra allo stesso modo
Scrittura. Centrale, appunto, essendo essa la vera che la sua
questione umana al centro di ogni possibile discorso identità, sempre
serio sull‟uomo; un centro vuoto, come il nucleo cercata e mai
centrale di una cipolla, immagine cara sia a Freud veramente
che a Lacan per esprimere la con-formazione dell‟Io trovata, se non,
(Ich in Freud, moi in Lacan) costituito da strati, come appunto,
le foglie di una cipolla, ovvero dalle varie temporaneamente
identificazioni che identificano il soggetto, ma , in
attraverso tanti falsi sé, mentre il suo vero sé, il identificazioni

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più o meno provvisorie.

Allo stesso modo credo si possa dire per la questione-del-padre: il vero,


unico padre non-esiste (per la precisione: nel modo in cui esistono i tanti padri). Ma
i tanti padri (chiunque adempia alla funzione del padre, quindi anche le madri, le
insegnanti, ecc.), per essere veramente padri (non al modo dell‟Unico Padre, chè
questo è – o appare - umanamente impossibile), non possono che attingere
all‟Unico Padre o, per dirla con Lacan, al Nome del Padre.

Questione del padre e della trasmissione del “dono” del “padre”.

Dono del padre è espresso con il termine “patrimonio”; dal latino, patris
munus, dono del padre; oggi con questo termine si tende ad esprimere piuttosto
qualcosa di materiale che non di spirituale.
Nel diritto ereditario, se è negativo, è prevista la rinuncia; come sappiamo
non è allo stesso modo possibile la rinuncia nella trasmissione psichica, al
convegno se ne è parlato.

Con l‟ausilio delle scienze umane (più correttamente “congetturali”, direbbe


Lacan) si può descrivere la trasmissione intergenerazionale non solo di cose
materiali, ma anche di cose spirituali, come i valori, ecc.

Ma è “ciò che più conta” che sfugge a qualsiasi descrizione. Perché quel
che più conta è proprio ciò che non si può contare. Ma è, nel contempo, ciò che
rappresenta il nucleo centrale della trasmissione intergenerazionale, quanto c‟è di
più prezioso nella trasmissione ereditaria. Il vero munus del padre.

Per usare un‟immagine evangelica: è il tesoro nel campo, la dracma


perduta.

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In psicoanalisi è l‟oggetto perduto, ovvero l‟essenza che l‟uomo


forzatamente perde, entrando nell‟esistenza.

L’eterna lotta tra eros e thànatos.

È in questo campo – campo del reale del soggetto - che la eterna lotta tra
eros e thànatos si presenta con maggior vigore, anzi, credo si possa dire che è il
campo in cui nella sua essenza si radica una tale lotta: tutto ciò che può rientrare in
qualsiasi altro campo, come antitesi tra eros e thànatos, è da questo campo che trae
la propria linfa.

Come si sa in Freud, dopo la svolta degli anni ‟20, il dualismo delle


pulsioni di vita (eros) e di morte (thànatos) prende il sopravvento sul precedente
dualismo pulsionale che contrapponeva la pulsione di autoconservazione (o dell‟io)
a quella di conservazione della specie.

Ma se si leggono attentamente i testi di Freud ci si accorge che c‟è un


elemento di continuità tra le due teorie pulsionali: l’individuo più di tanto non si
può conservare, mentre la specie sì; allo stesso modo, nella seconda teoria delle
pulsioni, Freud accenna alla teoria di August Weismann i cui lavori rivestono per
lui un grandissimo interesse: “per aver introdotto la differenziazione della sostanza
vivente in due metà, una mortale e una immortale; quella destinata a morire è il
corpo, il soma, quella immortale è il plasma germinale che si pone al servizio della
conservazione della specie”10.

10
Freud, Opere, vol. IX, pp. 230-231.

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È un tenue filo che si oppone a che la morte, thànatos, sia per la


psicoanalisi l‟ultima parola, sia nella storia dei singoli individui che nella storia
umana, intesa quest‟ultima nel senso del termine tedesco Geschichte di
heideggeriana memoria11.

Lacan coglie l‟estrema importanza di questo tenue filo freudiano e lo


sviluppa attraverso un lavorìo di scavo tra Hegel, nella versione trasmessagli da A.
Kojève, Heidegger, per giungere a dire che, certamente, ogni singolo individuo è di
per se destinato a morire, nella “catena dell‟essere”12; ma solo come singolo
individuo, come ogni anello della catena, come tale è destinato a soccombere,
mentre “ciò che più conta” è la trasmissione del desiderio, questo è vitale e non
muore, questo è l‟elemento di eros che può sopravvivere a thànatos.

A patto che vi si creda! A patto che si faccia spazio alla trasmissione di “ciò
che più conta”.

Le tre professioni “impossibili”.

Freud in Analisi terminabile e interminabile fa un breve accenno alle tre


professioni “impossibili” (tra virgolette in Freud stesso: “unmöglichen” Berufe),
precisando che l‟impossibilità attiene al raggiungimento dello scopo, Freud scrive:
“L‟esito insoddisfacente è scontato in anticipo”13.

11
L‟ultima parola è quella che dà il senso, retrospettivamente, a tutto il discorso, come l‟ultimo coro dell‟Edipo
Re, da cui tutta l‟importanza di questo tenue filo che lascia ipotizzare che quella che appare come l‟inesorabile
tendenza verso l‟inanimato, in sostanza il trionfo di thànatos, sia appunto solo un‟apparenza, perché occorre
saper cogliere, in un certo senso anticipare, l‟ultima parola, quella che conferisce “senso” al tutto.
12
Per usare un‟espressione nota, anche se non lacaniana, ma qui la uso perché la “storia delle idee” è sempre in
realtà storia di significanti e il reale del soggetto passa, si trasmette, di significante in significante, attraverso la
catena; come anello non può vedersi che morto, individualmente, ma il proprio desiderio lo supera, va al di là
della sua morte individuale, si trasmette agli altri individui e così via, di generazione in generazione, se tale
desiderio ovviamente viene alimentato e non interrotto.
13
Freud, Opere, vol. XI, p. 531.

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Lacan riprende queste tre professioni “impossibili”, in particolare nel cap.


XII (intitolato “L’impotenza della verità”) del sem. XVII Il rovescio della
psicoanalisi, disponibile in italiano14.

“Impossibili”, ci dice Lacan, perché hanno a che fare con il reale del
soggetto, cioè con ciò che più conta per il soggetto, la sua Realität, che il soggetto
vorrebbe che diventasse interamente Wirklichkeit, realtà effettiva, come
nell‟illusione hegeliana della perfetta sovrapposizione fra razionale e reale, ma la
psicoanalisi sa che ciò non è possibile. Ed è il suo continuo, ininterrotto monito alla
scienza e alle sue pretese scientistiche, nonché ai tentativi di chiusura
dell‟inconscio ad opera dell‟etica della società dei consumi, come ha molto bene
messo in luce Massimo Recalcati nel suo ultimo saggio15.

Una tendenziale chiusura che non potrà giungere sino alla fine, sino alla
eliminazione dell‟inconscio, perché il soggetto continua a cercare…che cosa?
L‟impossibile, appunto e non sarebbe soggetto (dell‟inconscio) se arrestasse questa
sua ricerca.

Ricerca del reale, dell‟oggetto perduto, della essenza perduta entrando


nell‟esistenza (questa è l‟affermazione che Lacan fa nel sem. V, Le formazioni
dell’inconscio) di cui non si può né pensare né immaginare alcunché (Lacan nel
sem. VII L’etica della psicoanalisi ricorda l‟importanza essenziale dell‟antica
prescrizione ebraica di non farsi immagini di JHWH, perché fondamentalmente
fuorvianti: l‟unica immagine possibile è il suo unico Figlio), ma di cui occorre
preservare il posto, posto vuoto, di cui si tende a vedere la negatività proprio perché
sfugge a qualsiasi rappresentazione, ma è da questo posto vuoto che vengono
ordinate le rappresentazioni, tutte le rappresentazioni possibili (si potrebbe dire: è
14
J. Lacan, Il rovescio della psicoanalisi, TO, Einaudi, 2001.
15
M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Cortina, MI, 2010.

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da questo fondamentale non-valore – in quanto privo di rappresentazione - che si


ordinano tutti i valori).

In ciò consiste il difficilissimo compito delle tre professioni “impossibili”:


educare, governare e psicoanalizzare; “impossibili” quanto allo scopo, diceva
Freud, perché impossibile da raggiungere, impossibili quanto al reale del soggetto,
dice Lacan, reale irraggiungibile, in-comprensibile, che sfugge alla presa, alla
cattura del concetto.

Ma solo se se ne riesce a mantenere il posto – vuoto – la realtà può essere


sostenuta, allo stesso modo della dimostrazione dei due teoremi di incompletezza di
Gödel.

Per mantenere il posto – vuoto – del reale.

In ciò consiste la “chiamata”, ovvero la “vocazione professionale”, ciò che


fa sì che si possa attribuire alle tre professioni, propriamente, il termine tedesco
Beruf16 usato da Freud: chi si sente chiamato ad esercitare l‟una o l‟altra di queste
tre professioni o con i suoi atti – educativi, governativi, psicoanalitici – riesce a
mantenere il posto vuoto del reale, oppure tradisce la sua vocazione professionale.

Occorre in sostanza mettere in atto l‟indicazione che c‟è un al di là nell‟al di


qua, non come una presenza, bensì solo come un‟assenza, ma un‟assenza che
mantiene aperta la questione sull‟essenza della realtà umana. Un po‟ come
raffigurato nel quadro di Leonardo da Vinci “San Giovanni Battista” conservato al
Louvre, recentemente esposto a Milano.

16
Che, come si sa, risale a Lutero e significa “professione” ma con forte accentuazione religiosa, quindi
propriamente: vocazione professionale.

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In psicoanalisi questa “trasmissione” – che è la trasmissione di padre in


figlio, figlio che a sua volta sarà padre e così via, ma dal punto di vista della
trasmissione sempre figlio (perché il padre simbolico è quello originario, morto da
sempre, il cui posto vuoto si tratta di mantenere) – si chiama “trasmissione del
desiderio”, nella Sacra Scrittura “trasmissione della promessa”.

L‟inizio del vangelo di Matteo ne è una preziosa testimonianza quando


narra la genealogia di Gesù Cristo, promessa del Padre, che si trasmette di
generazione in generazione; ovvero: nella morte – thànatos – dei singoli individui,
dei singoli anelli della catena, si compie la vita – eros – della trasmissione della
promessa, che è ciò che conta, ciò che vale, ciò che i padri sono chiamati a
trasmettere (e non assolvono alla funzione paterna, se vengono meno alla loro
chiamata), ma che i figli sono chiamati ogni volta a riconquistare, se vogliono
possedere davvero l‟eredità promessa, il vero “patrimonio” (e, in qualche modo, si
può veramente dire che il possesso di ciò che conta – cioè del reale - viene meno se
si opta per il possesso delle cose della realtà, perché la realtà si sostiene, la storia si
sostiene, solo se si mantiene vuoto il posto del reale; come, in negativo, ha
dimostrato Hegel).

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Scuola

TANTO RUMINARE PER NULLA:


PSICOPATOLOGIA DELL’APPRENDIMENTO IN “RETE”

Davide Barone
(psicologo clinico, counsellor, educatore, collaboratore Area Ricerca e Formazione dell‟Istituto
Atmos-artiterapeutiche di Roma)

Introduzione: il sintomo è messaggio

Gianbattista Presti definisce L‟Internet dipendenza una… «dipendenza da


ambienti creati digitalmente e da relazioni mediate da strumenti di comunicazione
digitale” osservando che: “i dati emersi dalle ricerche empiriche rivelano che la
dipendenza dei soggetti sembra non derivare dallo strumento in sè ma dalle
relazioni che lo strumento veicola» (2001). In sostanza l‟autore considera la “Rete”
un‟insieme di possibilità suscettibili di diventare oggetto di dipendenza.
Credo che questo tipo di definizioni, sebbene abbia un fondamento innegabile di
verità e utilità ai fini della ricerca, riveli, a volte, una propensione riduttivistica che
è tipica di una psicologia pragmatica fedele ad una lettura dei problemi in termini
comportamentistici. Considerare internet solo come un‟agglomerato di funzioni
analizzabili al di fuori di un contesto di significazione quale potrebbe essere il
nostro modo di rappresentarci la rete; l‟immagine soggettiva-collettiva mitizzata
che ne abbiamo; non consente di interpretare una serie di possibili nessi
“simbolico-affettivi”(Fornari 1976) tra il comportamento (l‟abuso di internet) e il
pensiero inconscio.
Il “sintomo” cyberdipendenza può essere svelato nella sua reificazione,

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ricollegato alla matrice originaria, al “codice sorgente” di significazione.


L‟incapacità discriminatoria (principio di simmetria di Matte Blanco) della
modalità di pensiero inconscia potrebbe rendere possibile, ad esempio,
un‟equazione “privata” tra onnipotenzialità in ambiente tecnologico cyberspaziale e
onnipotenza in ambiente biologico primario giustificando, eventualmente, anche
una ridefinizione della cyberdipendenza in termini di riattualizzazione
compensativa di un esperienza di attaccamento carenziale. La dipendenza da
internet, dunque, come tentativo di protesizzare una mancanza originaria, un vuoto
strutturale, una carenza del senso della propria esistenza residuata da ferite e
frustrazioni narcisistiche nella prima infanzia.
L‟accumulo di una stimolazione elettronica non elaborata; la ricerca incessante di
un immersione e di un assorbimento totalizzante nel cyberworld, costituirebbe, in
pratica, l”agito” compensativo di quel desiderio narcisistico di essere
fantasmaticamente sempre in contatto e colmi dell‟oggetto d‟amore primario; a
questo livello di realizzazione inconscia non si avverte discontinuità tra desiderio,
attesa ed eventuale soddisfazione del desiderio, tutto rimane sospeso in una
dimensione “nirvanica” di continuo accesso e possesso dell‟“oggetto”.
In qualità di “agito”, drammatizzazione1 inconsapevole di un desiderio,
“l‟internet dipendenza” potrebbe essere sintomatica di un‟incapacità a
rappresentare, simbolicamente, in modo non dissociato, l‟affetto di un‟ esperienza
relazionale di attaccamento traumatica, disfunzionale per lo sviluppo
psicoaffettivo2. Tale incapacità (Fonagy e Target 2001) si correla, circolarmente, ad
una difficoltà a pensare “metacognitivamente”3, ossia in termini metaforici non

1
Nella concezione di Bromberg le esperienze dissociate non vengono comunicate a parole ma possono
essere osservate nei patterns di comportamento.
2
La carenza di un holding primario in grado di accogliere e restituire bonificate le emozioni negative
incontenibili (come l‟ansia, la depressione, la gelosia, l‟invidia, la rabbia, l‟ira) limita la possibilità che il vissuto
interno sia accettato dal bambino e quindi distinto dalla realtà esterna. Permane in questi casi “un modo non
differenziato di rappresentare l‟esperienza interna ed esterna” (Fonagy & Target, 2001) con un impatto negativo
sullo sviluppo delle capacità di autoosservazione, di riflessione, di riconoscere che ci sono differenti modi di
vedere le cose.
3
La metacognizione si distingue dalla semplice cognizione in quanto quest'ultima è implicita e irriflessa,
mentre la prima prende le distanze dall'identificazione immediata con gli stati mentali per osservarli e riflettere

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“degradati”, distinguendo tra significante e significato, soggettivo e oggettivo,


illusione e verità, virtuale e reale.
Il deficit metacognitivo sarebbe alla base, insomma, della tendenza di alcuni
“cyberdipendenti” a mettere sullo stesso piano simbolico, confondendole,
l‟esperienza di ricevere nutrimento e protezione dalla figura d‟accudimento e quella
di introiettare, assorbire incessantemente con la mente, informazioni ed esperienze
virtuali durante la connessione ad Internet attualizzando, così, un‟”equivalenza
simbolica” il cui nesso associativo origina nel protomentale4; affonda le radici
nell‟intersezione tra modelli di funzionamento fisiologici e mentali, laddove
l‟introiezione, in tutte le sue forme, condivide la memoria procedurale del “mettere
in bocca”, incorporare per via orale.

Il mericismo digitale: una lettura “gaddiniana” dell’internet -dipendenza

Ritengo che, nella misura in cui accettiamo l‟ idea di una matrice simbolica
originaria tra nutrizione ed apprendimento, digestione ed elaborazione intellettiva,
relazione oggettuale e oralità; l‟interpretazione “gaddiniana”, della sindrome
mericistica,5 possa rappresentare una chiave di lettura metaforica interessante di
alcune particolari dinamiche psicopatologiche sottese all‟ Internet dipendenza.

su di essi. Grazie alla metacognizione diamo significato e valore all'esperienza, distinguendo il vero dal falso, il
giusto dall'ingiusto, il reale dall'immaginario.
4
Termine coniato da Bion per descrivere un modo di procedere della mente già presente nella vita
intrauterina (attività mentali elementari) che rimane presente come modalità processuale anche nell‟individuo
adulto. Secondo il modello psicofisiologico di V Ruggieri (1997) non esiste alcuna contraddizione tra ciò che
chiamiamo mentale ed il biologico, anche l‟atto del trattenere espellere originariamente concreto non si libera
mai completamente della sua componente corporea.
5
Renata ed Eugenio Gaddini condussero una ricerca negli anni 1950-1958 su sei bambini ricoverati per
mericismo presso la Clinica pediatrica dell‟Università di Roma. La ruminazione o mericismo era allora descritta
come un quadro poco noto ai pediatri e pressochè sconosciuto a molti analisti, molto grave per la sua mortalità
elevata. Questo disturbo precoce dell‟alimentazione si manifestava non prima del terzo mese di vita, ed era
spesso preceduto da altri due stadi, il primo dei quali caratterizzato da un disturbo della nutrizione con diarrea e
vomito prolungato e il secondo dalla graduale trasformazione del vomito in ruminazione. I risultati di questa
ricerca mostrarono che la maggior parte dei bambini erano stati sottoposti a un regime di deprivazione fisica o
psichica. Dopo un periodo in cui il rapporto con la madre era stato relativamente gratificante questi lattanti

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Gaddini osservò che alcuni neonati, deprivati bruscamente delle cure materne, si
autoprovocavano delle contrazioni dell‟epigastrio, stimolando attivamente ed in
modo ritmico l‟interno della bocca e del palato con il pollice. Grazie a questo
espediente, dopo aver interrotto ogni contatto con il mondo esterno, sembravano
vivere una sensazione di intenso benessere accompagnata dal rigurgito del latte
dalla bocca: la loro espressione di beatitudine, che li rendeva simili ai bambini che
terminano la poppata al seno, indusse Gaddini a ipotizzare che questa attività fosse
accompagnata da una fantasia in cui veniva imitato l‟allattamento.
In pratica, con la ruminazione i bambini cercavano di nutrirsi da sé, riattuando
quell‟ aspetto gratificante dell'allattamento che gli era stato tolto di colpo;
nell‟impossibilità di fare affidamento su una figura d‟accudimento,
autoproducevano la sensazione della suzione al seno e, attraverso questo
comportamento imitativo, negavano l‟assenza della madre diventando essi stessi la
madre assente.
Un particolare aspetto paradossale che emerge dall‟osservazione del
comportamento mericistico è che, a dispetto di una bocca e di uno stomaco sempre
pieni del latte rigurgitato, il bambino rischia di morire di inedia.
La stessa paradossalità mi sembra riscontrabile nel comportamento di alcuni
cyber dipendenti che utilizzano l‟accelerazione ipermediale di internet per
occupare, in modo ossessivo, la loro mente con informazioni, dati ed esperienze
digitali limitando, in questo modo, proprio un‟elaborazione soggettivamente
significativa dell‟informazione.
Lo scopo dell‟autosovraccaricamento potrebbe essere quello di impedire una
“digestione” emozionale che trasforma il dato grezzo in esperienza. In tal senso la
ricerca di “information overload” (ma anche quella di relazioni interpersonali
veloci, frammentarie e superficiali nelle Chat o nei Mud) emula un‟attività

avevano subito delle frustrazioni orali relative, e non assolute. Le madri erano descritte come personalità
immature, la loro relazione con i bambini era caratterizzata da ambivalenza, angoscia di morte, e soprattutto un
sentimento di inadeguatezza nei confronti dei loro bambini.

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d‟apprendimento6 e un desiderio di conoscenza nello stesso modo in cui la


ruminazione sembra emulare un comportamento alimentare. In entrambi i casi,
comunque, l‟atto appare privo della sua funzionalità naturale, si cortocircuita,
diventando autoreferenziale rispetto allo scopo originale.

l’ipotesi di un’evitamento schizoide e ossessivo-compulsivo


dell’”esperienza”

Per questa sua ricorsività priva di senso, per questo suo dimostrarsi
illogicamente necessario, il comportamento “simil-mericistico” di alcuni “internet-
dipendenti” rimanda all‟insensatezza, alla incongruenza del rituale ossessivo-
compulsivo, d‟altronde anche questo modo di usare la “Rete” potrebbe avere una
funzione di compromesso difensivo per cui la“fame d‟oggetto”, connessa ad una
pulsione orale insublimata, risulta essere soddisfatta solo, simbolicamente, in un‟
area della coscienza dissociata, disgiunta; ottenendo così, attraverso il processo
dissociativo, che sia denegata ed impedita la reale consapevolezza di un bisogno di
relazione fintanto che questa stessa consapevolezza risulti, “catastroficamente”,
associata al trauma di un‟esperienza di attaccamento primario affettivamente
frustante e disgregante: «Ad ogni passo successivo della crescita.. afferma Gaddini
..è come se si ripetesse nella mente il pericolo vissuto al momento del primo
distacco: ci si può annientare, si può scomparire, si può andare in pezzi. Questo
pericolo originario è tanto più invadente, quanto più il distacco è stato vissuto in
modo traumatico. Una persona che ha dovuto attrezzarsi nella mente per non
evolvere nella separazione, continuerà a vivere in modo onnipotente, soprattutto a
scapito dell'intero sviluppo del rapporto oggettuale» (Gaddini 1985).

6
Secondo Gaddini “nello sviluppo intellettivo, I'imitazione favorisce l'apprendimento rapido, “per contatto”,
quel tipo di apprendimento che altrettanto rapidamente si perde, e che altre volte invece si accumula, come il
grasso superfluo nell'obesità, senza poter essere integrato” (Gaddini 1985)

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A tal proposito mi sembra opportuno ricordare che Bollas, immaginando un


continuum costituito da quattro modalità di fruizione dell‟oggetto: Ossessione,
Preoccupazione, Passione e Concentrazione, ognuna discriminata in base ai gradi di
libertà che concede all‟elaborazione inconscia, colloca proprio l‟“Ossessione”
all‟estremo negativo, considerandola la più intensa «forma di riluttanza schizoide
ad affidarsi al lavorio dell’inconscio» (Bollas 1995).
Più specificamente egli definisce l‟“Ossessione”: «Una presenza mentale
ripetitiva che impedisce qualsiasi utilizzazione inconscia dell’oggetto» (1995). E‟
altresì interessante notare che la definizione di Bollas dell‟oggetto dell‟ossessione
patologica: «contenitore meramente proiettivo, entro il quale l’individuo evacua la
propria vita psichica per impedirsi di avere un contatto con essa» (1995), può
essere usata, in modo analogo, al fine di descrivere una solidificazione difensiva
del cyberspazio nei termini di “rifugio della mente.”
Per John Steiner (1993) i “rifugi della mente” sono esperienze di isolamento e
sottrazione del sé funzionali all‟evitamento di sensazioni angosciose. Essi
rappresentano una medicazione per l‟Io che si sente danneggiato quando deve
affrontare il lutto e il dolore psichico collegato con la paura e con l‟esperienza della
perdita. Si tratta di oggetti scelti tra quelli preesistenti nell‟ambiente oppure di
oggetti creati dall‟individuo, di luoghi mentali, ma anche di comportamenti
ripetitivi o di riti personali (Lingiardi 2002).
In ogni caso, sia come strumento di una “riluttanza ad affidarsi al lavorio
dell‟inconscio” che in rapporto a temi evocati, già impliciti nel concetto stesso di
“rifugio mentale” quali: distacco, ritiro, autosufficienza; la “dipendenza da
internet,” specificamente quella particolare dipendenza che ho descritto attraverso
la metafora del “mericismo infantile”, pare presentare una trama psicopatologica di
fondo, prevalentemente, schizoide oltre che ossessivo-compulsiva. Questo ci
conduce quasi inevitabilmente ad un confronto con il pensiero di Fairbairn (1954),
l‟autore che maggiormente si è occupato dell‟argomento. Lo psicanalista inglese
individua nell‟ atteggiamento rifiutante di una madre non sintonizzata sui bisogni

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del bambino, il principale fattore eziopatogenetico del disturbo schizoide di


personalità.
Secondo Fairbairn il bambino, affettivamente deprivato, sceglie di ritirarsi dal
mondo oggettuale nonostante il suo bisogno di relazione non sia placato e, anzi, si è
ipertrofizzato trasformandosi in un‟avidità che, a sua volta, egli stesso percepisce
come pericolosa in quanto teme che potrebbe indurlo a divorare l‟oggetto di cui ha
maggior bisogno. Questa stessa avidità è anche proiettata sulla figura materna che
viene, pertanto, vissuta come persecutoria. Alla fine, quando il congelamento nel
tempo di queste paure ingenera uno stallo nelle relazioni oggettuali: una sorta di
“doppio legame” tra il desiderio di avvicinarsi agli altri e il timore di essere
rifiutato; il distacco diventa l‟unica difesa possibile.
L‟immagine metaforica con cui Fairbairn descrive questa condizione
psicopatologica è quella di un mondo visto attraverso un vetro, uno scudo
protettivo che “distacca” e frena desideri incompatibili e pericolosi.
Possiamo immaginare, allora, che il cyberdipendente, con disturbo schizoide,
guardi il mondo dall‟interno del computer; attraverso la faccia interna di uno
schermo elettronico che separa una realtà virtuale, onnipotentemente controllabile,
nella quale si è ritirato e una realtà oggettiva, resistente al desiderio e
potenzialmente disgregativa per il Sé.
Vittorio Lingiardi descrivendoci Luis un paziente con tratti schizoidi e
cyberdipendente ne rileva il bisogno di affidare “il contenimento del proprio sé a
luoghi e oggetti sostituitivi-riparativi della carenza empatica materna e dell’esito
negativo dello sviluppo dei processi di idealizzazione. Poiché, ci spiega… le
carenze dell’“holding” sembrano infatti essere all’origine, per Luis, sia del rifugio
nell’autosufficienza schizoide sia del tentativo (difensivo ma anche riparativo) di
creare-cercare intimità e contenimento in corpi-macchina (computer)” (Lingiardi
2002).

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La ricerca della continuità: se disconnettersi significa separarsi

È possibile comunque ipotizzare un livello “psicosensoriale8” (Gaddini 1989) o


“contiguo-autistico” (Ogden 1989) più primitivo di espressione della difesa
schizoide, complementare e alternativo a quello orale o psico-orale fin qui
considerato laddove, piuttosto che l‟investimento oggettuale, il ricollocamento
della “libido” sottratta alla realtà e riversata in un “ambiente-oggetto”
“telematicamente” controllabile; si verifica, su un piano di coscienza presimbolico,
l‟aderenza “psicosensoriale” alla “superficie” elettronica del cyberspazio
finalizzata alla “imitazione” di quel senso di continuità con il corpo materno
sperimentato fin quando, anche dopo la nascita, la madre resta una parete uterina,
un contenitore non distinto dal sé al di là del quale non è concepibile nulla.
La ricerca di una connessione e una stimolazione elettronica ininterrotta ab-
reagisce, insomma, il trauma di una seconda nascita, definita da Gaddini
“psicologica”, che avviene quando, passando dalla sensazione che rende tutto
uguale a Sè alla percezione che pone qualcosa oltre il Sè, il bambino viene travolto
da una primitiva consapevolezza di essere separato e assolutamente dipendente da
un mondo esterno che non riesce a comprendere e padroneggiare, tale trauma,
qualora non contenuto in una relazione primaria sintonica, può quindi rappresentare

8
Gaddini descrive nel suo lavoro "Sulla imitazione" (1968) due aree di esperienza mentale. La più antica quella
psicosensoriale, è connessa ad una percezione primitiva: attraverso il soma; le esperienze psicosensoriali tendono
ad allontanare il riconoscimento dell‟oggetto come "altro da sé" ed esprimono la disposizione ad "essere"
l‟oggetto; la attività di questa area si sviluppa secondo un modello funzionale "imitare per essere" che è
l‟equivalente psichico del modello biologico della percezione primitiva (imitare per percepire) e conduce
all‟immagine allucinatoria alle fantasie di fusione attraverso l‟identità magica con l‟oggetto e alle imitazioni,
nella direzione di "essere" l‟oggetto, e quindi di non riconoscerlo come esterno e separato; la seconda, l‟area
psico-orale, invece opera il graduale riconoscimento percettivo di stimoli esterni al Sé, come avviene attraverso
l‟attività orale. Questa area si sviluppa attraverso il modello funzionale della introiezione, equivalente psichico
del modello biologico della incorporazione e conduce alle fantasie di fusione attraverso l‟immissione
dell‟oggetto nel proprio Sé, nella direzione di "possedere" l‟oggetto; ciò comporta il graduale riconoscerlo come
esterno al Sé e il dover confrontarsi con la dipendenza reale dall‟oggetto. Secondo Gaddini all‟inizio la psiche si
manifesta nel corpo attraverso sensazioni di piacere-dispiacere ed in seguito raggiunge una organizzazione più
complessa rappresentata dalla relazione oggettuale, tale percorso dal somatico al mentale non è lineare e nelle
relazioni oggettuali possono coesistere scambi continui tra livello più arcaici e più differenziati. Per un
approfondimento della visione "processuale" del processo di crescita in Gaddini, si veda .Lambertucci-Mann
(1999), pp.25-28.

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un esperienza catastrofica che, sostiene Gaddini: «Viene tenuta a bada e paventata


come un pericolo continuo: il pericolo di andate in pezzi e di perdersi per sempre.
Cosi, in molti casi, I'esperienza della catastrofe può spingere la mente del
bambino, che teme di non riuscire a tenere insieme i frammenti di cui è costituita, a
restaurare e potenziare il funzionamento magico dell'assimilazione al sé e
dell'estensione di sé, caratteristico dei mesi precedenti» (Gaddini 1985).
Alla base di questo funzionamento primitivo della mente, lo psicoanalista
italiano, individua il processo psichico dell‟ “imitazione”: «Un meccanismo
elementare che tende a soverchiare lo stato di separazione, perpetuando, a livello
mentale, il vissuto infantile di fusione attraverso il contatto nutritivo di sé.
L'imitazione consente magicamente di “essere” ciò che altrimenti andrebbe
riconosciuto come “altro da sé” (come oggetto) ed è perciò destinato a un
particolare sviluppo e affidamento nello scontro con le richieste della realtà che la
crescita impone» (Gaddini 1985).

Bibliografia

Bion W. (1962) Apprendere dall’esperienza Tr.it. Armando, Roma,1972.


Bion W. (1963) Gli elementi della psicoanalisi Tr. It Armando, Roma 1979
Bollas C. (1995) Cracking Up. Raffaello Cortina, Milano, 1996.
Bromberg P.M. (1998) Standing in the Spaces: Essays on Clinical Process,
Trauma & Dissociation The Analytic Press, Hillsdale, NJ.
Fairbarn W.R.D (1954) An object relation Theory of the personality Basic Books
New York
Fonagy P. Target M. (2001) Attaccamento e funzione riflessiva. Raffaello Cortina
Editore, Milano.
Fornari F. (1976): Simbolo e Codice. Feltrinelli, Milano

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Gabbard G.O. (2001) “Psichiatria psicodinamica” Raffaello Cortina, Milano.


Gaddini E. (1968) Sull'imitazione Riv. Psicoanalisi n 3
Gaddini E (1985) Intervista ad Eugenio Gaddini in Dieci analisti spiegano il tema
centrale della vita A cura di Rossini S, Ed. Rizzoli Milano (Testo reperito
su internet al sito www.prova.espressonline.it)
Gaddini E. (1989) Scritti 1953-1985 Raffaello Cortina, Milano
Lambertucci-Mann S. (1999) Eugenio Gaddini, Psychanalystes d’aujourd’ hui
Presses Universitaires de France (PUF) Parigi
Lingiardi V. (2002) Noli me tangere: il cybernauta e la rêverie Pubblicato
in:“Nella stanza dell’analista junghiano” A cura di M.I.Wuehl, Vivarium
Editore
Matte Blanco I. (1975) L'inconscio come sistemi infiniti, saggio sulla bi-logica
trad. it. Einaudi, Torino
Neri C., Correale A., Fadda P. (a cura di) (1994) Lettue Bioniane. Borla, Roma
Ogden T.H. (1989), Il limite primigenio dell’esperienza. Tr.it. Astrolabio, Roma,
1992.
Khan M. (1960) Aspetti clinici della personalità schizoide: affetti e tecnica. Tr.it. in
Lo spazio privato del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1979
Presti G.B (2001) Lo psicologo nella rete. McGraw-Hill, Milano
Ruggieri V. (1997) L' esperienza estetica. Fondamenti psicofisiologici per
un'educazione estetica. Armando editore, Roma
Steiner J. (1993) I rifugi della mente, Tr.it. Bollati Boringhieri, Torino, 1996.

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Scuola

UN CASO DI BULLISMO

Marzia Viviani
(Psicologa, Psicoterapeuta, Psicodrammatista)

In questo articolo presento il caso di Francesco, un preadolescente seguito dal


Centro Clinico in cui da alcuni anni conduco, insieme ad una collega, un gruppo di
psicodramma analitico su giovani pazienti di età compresa fra gli 11 e i 14 anni.
Francesco ha 12 anni quando giunge al Centro (circa un anno e mezzo fa). È
stato inviato dal pediatra per delle crisi che lo portano a urlare in maniera
incontrollata, oppure a chiudersi nella sua camera a piangere. Dice di sentire “un
nervosismo dentro” che attribuisce a compiti scolastici percepiti come troppo
onerosi e ad un mancato riconoscimento dei suoi bisogni in famiglia. A causa di
queste crisi da due mesi non frequenta la scuola. Fa una richiesta di aiuto per
controllare la rabbia che sente emergere. Dopo circa dieci mesi di terapia
comincia a raccontare gli episodi di bullismo di cui è stato vittima l‟anno in cui
frequentava la seconda media.
Il bullismo è senza dubbio un fenomeno di vecchia data, basti pensare al
personaggio di Franti nel libro “Cuore”, ma uno studio sistematico è iniziato solo
negli anni Settanta, in Norvegia, ad opera di Dan Olweus, professore di Psicologia
all‟Università di Bergen. Il suo primo libro sul bullismo risale al 1973.
Lo psicologo norvegese definisce così il bullismo: uno studente è oggetto di
azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto

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ripetutamente nel corso del tempo ad azioni offensive messe in atto da uno o più
compagni. (Olweus, 1996, p. 12)
Olweus traccia un profilo dei persecutori e delle vittime. Le vittime sono
generalmente più deboli, più ansiose e insicure degli studenti in generale. Sono
spesso caute, sensibili e calme. Se attaccate da altri studenti in genere reagiscono
piangendo (almeno nelle prime classi) e chiudendosi in se stesse. Soffrono di scarsa
autostima e hanno un‟opinione negativa di sé e della propria situazione.
Solitamente hanno un basso livello di popolarità fra i compagni, vivono a scuola
una condizione di solitudine e di abbandono e non hanno un buon amico in classe.
Alcuni dati indicano che hanno avuto nella prima infanzia, rispetto ai ragazzi in
generale, rapporti più intimi e più positivi con i genitori, in particolare con la
madre. Si può quindi concludere che ciò che caratterizza la vittima è la
combinazione di un modello reattivo ansioso associato a debolezza fisica. Per
quanto riguarda i bulli essi sono solitamente più forti della media dei ragazzi e, in
particolare, delle vittime. Oltre ad essere aggressivi verso i compagni lo sono
spesso anche verso gli adulti, sia genitori che insegnanti. Tendenzialmente sono
impulsivi, hanno un forte bisogno di dominare gli altri e mostrano scarsa empatia
nei confronti delle vittime. Si può quindi concludere che ciò che caratterizza il
bullo è la combinazione di un modello reattivo aggressivo associato a forza fisica.
I dati che emergono dagli studi compiuti dallo psicologo norvegese pongono
l‟accento su alcuni fattori risultati importanti nello sviluppo di tale modello. Un
primo fattore riguarda l‟atteggiamento emotivo dei genitori, in particolare quello
della persona che si occupa maggiormente del bambino nei primi anni di età (di
solito la madre). Un atteggiamento negativo di fondo, caratterizzato da mancanza
di calore e di coinvolgimento aumenta il rischio che il ragazzo diventi in futuro
aggressivo e ostile verso gli altri. Una seconda componente chiama in causa gli stili
educativi. L‟educatore generalmente permissivo e tollerante, non ponendo chiari
limiti al comportamento aggressivo del bambino verso i coetanei, verso i fratelli e
verso gli adulti, crea le condizioni per lo sviluppo di condotte aggressive. Una terza

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causa è l‟uso coercitivo del “potere” da parte del genitore in forma di punizioni
fisiche e violente esplosioni emotive. Le condizioni socioeconomiche della
famiglia non sono risultate determinanti per lo sviluppo di un modello reattivo
aggressivo (bisogna però tenere conto del fatto che nei paesi scandinavi c‟è una
relativa omogeneità socioeconomica della popolazione).
In Italia, negli anni Novanta, è stata effettuata una ricerca da parte di Ada Fonzi,
docente di Psicologia dello Sviluppo all‟Università di Firenze. Oggetto
dell‟indagine sono stati 1.379 alunni delle ultime tre classi della scuola elementare
e delle tre della scuola media di Firenze e Cosenza. La scelta di queste città è stata
determinata, oltre che da ragioni pratiche e contingenti, dall‟obiettivo di iniziare
una prima esplorazione in due aree del paese tra loro diverse, per ragioni culturali,
sociali ed economiche.
I dati ottenuti sono sconcertanti. Il fenomeno del bullismo a scuola è risultato, in
entrambe le zone, a un livello notevolmente più elevato che in altri paesi, come la
Norvegia, l‟Inghilterra, la Spagna, il Giappone, il Canada, l‟Australia, la Finlandia.
Abbiamo detto che Francesco giunge circa un anno e mezzo fa al Centro
Clinico, ha 12 anni e frequenta la seconda media. Ha un fratello di 14 anni che
frequenta il primo liceo scientifico. La madre, 40 anni, lavora come impiegata; il
padre, 42 anni, è idraulico presso una ditta. Di Francesco e del fratello si occupano
spesso i nonni, sia paterni che materni, soprattutto per quanto riguarda il pranzo,
dal momento che la madre rientra dall‟ufficio nel pomeriggio e il padre solo verso
sera.
I genitori si conoscono fin dalle scuole superiori. Si sono fidanzati 18 anni fa e
dopo tre anni di fidanzamento si sono sposati. Ambedue le gravidanze sono state
volute. Tutti e due i figli sono nati a termine con parto naturale.
Francesco è stato allattato al seno fino a sei mesi, quando è stato svezzato senza
difficoltà. Ha iniziato la quadrupedica a nove mesi e camminato a dodici. Non è
stato inserito al nido (fino a un anno è rimasto con la madre che ha preso
un‟aspettativa sul lavoro e fino a tre anni è stato tenuto dai nonni). A tre anni ha

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iniziato a frequentare la scuola materna, con difficoltà di relazione con i coetanei e


rifiuto nei confronti del cibo della mensa scolastica.
Ha avuto il ciuccio fino a due anni e l‟oggetto transizionale (un orsacchiotto) da
cinque mesi a cinque anni (è stato perso durante un trasloco con grandi crisi di
pianto di Francesco).
Dopo un primo colloquio con un neuropsichiatra infantile vengono programmati
gli incontri per la diagnostica familiare e la somministrazione dei test (Rorschac e
test grafici).
Si presentano all‟incontro di diagnostica familiare padre, madre, Luca e
Francesco. La famiglia risulta vicina emotivamente con tendenze
all‟invischiamento. La dinamica familiare, perpetuata da generazioni, prevede lo
“svincolo impossibile” dei figli rispetto alla famiglia. La coppia coniugale è
strutturata secondo una dinamica rigidamente complementare con la moglie one-up
e il marito down e sembra funzionare unicamente nell‟area della genitorialità.
Il padre accede con facilità al dialogo e presenta un senso di colpa per quanto
sta accadendo. Pone mille interrogativi rispetto al proprio ruolo genitoriale. Figlio
unico, invischiato con la famiglia d‟origine, risulta tuttavia periferico nella
relazione di coppia e nella famiglia attuale. Sembra non consapevole del ruolo
genitoriale e si pone in relazione filiale rispetto alla moglie: risulta quindi una
figura poco presente per i figli e che necessita di attenzioni e cure “materne” dalla
moglie.
La madre manifesta un‟ansia dilagante. Accede con estrema facilità al dialogo e
mostra, al contrario, un‟immensa difficoltà a rispettare gli spazi altrui, anche a
livello di solo ascolto. Tende a riempire ogni silenzio, ogni spazio, ogni titubanza,
ogni pensiero altrui. Figura dominante all‟interno della famiglia, riferisce
un‟infanzia e un‟adolescenza faticosa con un padre dominante che non le lasciava
nessuna possibilità di scelta. Descrive una relazione di coppia iniziata in maniera
turbolenta a causa del disimpegno del marito davanti alle responsabilità.

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La relazione con i figli risulta centrale e sostitutiva rispetto a quelle con il


marito e con gli amici, ma la signora non sembra esserne consapevole. Il rapporto
con i figli è basato su un ipercontrollo materno, una continua intrusione che viene
definita in termini di “affetto”. In particolare il rapporto con Francesco è
caratterizzato da una forte simbiosi.
Luca accede con difficoltà al dialogo e appare piuttosto periferico, in questo
frangente, rispetto alla dinamica familiare. Riferisce poco di sé, ma esprime
preoccupazione per il fratello.
Per quanto riguarda i test grafici la loro realizzazione appare piuttosto semplice
e povera, più compatibile con un‟età cronologia inferiore a quella di Francesco,
lasciando ipotizzare sia una generale immaturità psichica che una precaria
dotazione delle risorse di base.
Si evidenziano forti tendenze regressive, una problematica nella gestione delle
pulsioni, vissuti di insicurezza accompagnati da un bisogno di sostegno emotivo e
di riconoscimento. In particolare il contatto con l‟imago familiare suscita un
bisogno di vicinanza con il maschile paterno e sentimenti di rivalità fraterna. Al
tempo stesso non è escluso che Francesco percepisca l‟ambiente familiare come
costrittivo e non in grado di sostenere, ma di impedire, eventuali tentativi di
autonomia e crescita.
Al test di Rorschach si evidenzia un mondo interno dominato da una diffusa
conflittualità emotiva, in cui spiccano il permanere di una simbiosi con il materno a
fronte di un maschile percepito come minaccioso e una sessualità “pietrificata”,
anche per via di spinte omosessuali probabilmente latenti. Ne deriva una forte
problematica nella definizione dell‟identità personale e sessuale, con un arresto dei
processi di crescita.
Nella riunione d‟equipe successiva agli incontri descritti viene fatta una diagnosi
di aggressività e fobia scolare e proposto un piano di intervento che prevede una
terapia familiare ogni quindici giorni e il gruppo di psicodramma analitico con
cadenza settimanale. Dopo circa sei mesi c‟è un primo monitoraggio. Francesco ha

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cambiato classe, sta andando a scuola, ma fa molte assenze dovute a mal di pancia
o forte mal di testa la mattina quando si sveglia. Le crisi sono diminuite, ma non
cessate completamente. Viene accolta la sua richiesta e si decide di aggiungere
anche una terapia individuale.
Prima di parlare di cosa è successo nel gruppo in questo anno e mezzo vorrei
dire alcune cose sullo psicodramma analitico.
Moreno, dopo alcune esperienze fatte con i grandi giochi collettivi
improvvisati coi bambini nei giardini di Vienna e, in seguito, con le prostitute della
stessa città, approda nel 1923 allo psicodramma. Fin dalle sue origini lo
psicodramma moreniano si basava soprattutto sulla catarsi e sulla “presa di ruolo”.
Il concetto di catarsi è abbastanza familiare, per quanto riguarda invece la “presa di
ruolo”, per Moreno, essa consiste soprattutto nella possibilità di calarsi in un ruolo
nuovo, spontaneo, diverso da quelli prefabbricati che la società ci costringe ad
assumere.
Moreno racconta di aver avuto un incontro con Freud nel 1912 e di avergli
detto: “Io inizio dove lei finisce; lei mette le persone in una situazione artificiale,
nel suo studio, io le incontro nella loro casa e nel loro ambiente naturale; lei
analizza i loro sogni, io cerco di dare loro il coraggio di sognare ancora….
Insegno alla gente come si gioca ad essere Dio”.
Questo discorso fa ormai parte della leggenda e forse non è del tutto attendibile,
sta di fatto, però, che questo giocare ad essere Dio o il Re dell‟universo è un tema
ricorrente nei ricordi e negli scritti di Moreno e rappresenta un punto centrale per
comprendere la differenza fra lo psicodramma moreniano e quello analitico, o
“freudiano”.
Dopo la seconda guerra mondiale alcuni analisti, per lo più francesi, incontrano
Moreno in America, effettuano un periodo di formazione con lui e, quindi, portano
lo psicodramma in Francia, Olanda, Belgio, Inghilterra. Tale esperienza si
trasforma rapidamente attraverso l‟elaborazione e l‟interpretazione di analisti e di
psicologi, la cui formazione e la cui storia sono estremamente varie, producendo

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nuove forme di psicodramma che si allontanano sempre più dall‟originaria forma,


assumendo diverse denominazioni. Una di queste è lo psicodramma analitico,
messo a punto da Eugénie e Paul Lemoine agli inizi degli anni Sessanta nell‟ambito
della S.E.P.T. (Società d‟Etudes de Psychodrame Thérapeutique) di Parigi e che ha
come riferimento le teorie freudiane, o meglio, la rilettura che di queste ha fatto
Lacan.
Il punto di partenza dell‟insegnamento di Lacan è la discriminazione strutturale
tra l‟io e il soggetto dell‟inconscio. La distinzione tra io e soggetto permette, in
effetti, di riprendere il significato decisivo della sovversione freudiana, “l’io non è
più padrone nemmeno in casa propria”, diceva Freud, mostrando la natura
secondaria, derivata, immaginaria di quell‟io che la ragione filosofica classica e la
psicologia accademica avevano concepito, invece, come nucleo sostanziale, come
luogo di sintesi, essenza psichica del soggetto.
La grande trilogia freudiana costituita da L’interpretazione dei sogni,
Psicopatologia della vita quotidiana, Il motto di spirito, aveva messo in luce non
tanto l‟esistenza dell‟inconscio, ma la sua operatività simbolica, la sua logica
interna, la sua modalità retorico-linguistica di funzionamento. L‟inconscio
freudiano appariva, a tutti gli effetti, come un nuovo soggetto, come una ragione
simbolicamente produttiva e non come il luogo di una irrazionalità barbara,
semplicemente contrapposta negativamente alla ragione.
L‟io rispetto al soggetto dell‟inconscio si mostra nel discorso freudiano come
una riduzione, una cristallizzazione alienata del soggetto e non come il suo nucleo
sintetico sostanziale. La sua genesi narcisistica, che Freud dettaglia in Introduzione
al narcisismo e in Psicologia delle masse e analisi dell’io evidenzia il suo carattere
puramente immaginario e identificatorio. Ed è proprio nel solco di questa
distinzione freudiana tra il soggetto dell‟inconscio e l‟io che Lacan intende
mantenere l‟esperienza psicoanalitica. Una psicoanalisi, essendo propriamente
l‟esperienza del soggetto dell‟inconscio, non può e non deve ridursi ad una

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ortopedia dell‟io, ad un suo progressivo rafforzamento e adattamento, come viene


invece sostenuto da gran parte della psicoanalisi post-freudiana.
Nel 1936 Lacan teorizza il cosiddetto Stadio dello specchio che compendia le
maggiori tesi lacaniane sul problema del narcisismo e della funzione
dell‟identificazione e costituisce il primo grande contributo originale di Lacan alla
teoria psicoanalitica del dopo Freud.
Per Freud il Narcisismo indica il rapporto del soggetto con la propria immagine
ideale, o più precisamente la funzione che l‟immagine ideale di sé svolge nella
formazione dell‟io. Nella genesi del soggetto, tratteggiata in Introduzione al
narcisismo, il soggetto si istituisce attraverso due oggetti fondamentali: il corpo
della madre (e le cure che esso dispiega) e l‟immagine del proprio corpo. Questi
due diversi oggetti d‟amore danno luogo a due differenti forme d‟amore: quella
anaclitica, caratterizzata dalla funzione di sostegno esercitata dall‟oggetto, ovvero
dalle cure materne e quella narcisistica, caratterizzata dalla funzione idealizzante
dell‟oggetto che è amato solo in quanto restituisce al soggetto un‟immagine ideale
di sé. Quest‟ultima modalità di scelta dell‟oggetto si connota, secondo Freud, in
termini propriamente narcisistici. La passione narcisistica del bambino si specifica
come una passione per l‟immagine ideale del proprio corpo, che per Freud si
produce primariamente attraverso le attese immaginarie dei genitori, ossia la
tendenza ad attribuirgli tutte le perfezioni possibili e a cancellarne i difetti.
L‟intreccio tra il narcisismo del bambino e il narcisismo dei genitori, che tende a
idealizzare il bambino come nuovo oggetto narcisistico, finisce per dar luogo
all‟edificazione di una sorta di monumento con il quale il soggetto, alienandosi in
esso, si identifica. Si tratta di quella costituzione statuaria dell‟io che per Freud si
condensa nella formazione immaginaria dell‟Io Ideale, espressione di un
narcisismo infantile, primario, fissato a un‟immagine esaltata di sé.
Lacan riprende la funzione costitutiva del narcisismo nella formazione
immaginaria dell‟io, sostenuta da Freud in Introduzione al narcisismo. Si tratta di
un ritorno alla problematica freudiana dell‟identificazione e del suo potere di

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plasmazione del soggetto. Per Freud, infatti, l‟identificazione si configura come il


luogo di una causalità psichica inconscia precisa; essa indica come l‟assunzione
inconscia di un‟immagine esprima un potere di trasformazione sull‟essere del
soggetto. In questo senso Lacan riconosce la funzione dell‟immagine come una
funzione “morfogena”, ossia capace di esercitare un‟azione (de)formativa sul
soggetto e focalizza proprio per questa ragione nell‟imago l‟oggetto specifico della
teoria psicoanalitica, teoria che ha il merito di mostrare il carattere non
autofondato, ma eterofondato dell‟io, la sua origine eteronoma. Per Freud, in
effetti, l‟io si forma attraverso immagini, attraverso l‟assorbimento identificatorio
dell‟immagine dell‟altro (del proprio corpo, dell‟immagine dei genitori, ecc).
Nella psicologia accademica e nella filosofia razionale l‟io viene descritto come
una forza positiva di sintesi, come il centro trascendentale, la sostanza più propria
specifica del soggetto. L‟io è potere di sintesi e di unificazione; esso appare come
una pura interiorità contrapposta all‟esteriorità delle cose. Lacan, al contrario,
coglie l‟essenza dell‟io nella metafora della cipolla: “L’io è un soggetto fatto come
una cipolla; lo si potrebbe pelare e si troverebbero le identificazioni successive che
lo hanno costituito”. (Lacan, 1978, p. 213). La raffigurazione lacaniana dell‟io-
cipolla mette in evidenza due questioni: la prima è che l‟io non è la sostanza del
soggetto, perché l‟io stesso non ha una sostanzialità propria, ma si disfa in una
molteplicità di identificazioni, per cui non c‟è un centro, un cuore della cipolla, ma
soltanto una stratificazione di identificazioni successive; la seconda è che l‟io non è
il soggetto, perché l‟io è innanzi tutto un oggetto, un oggetto composto da
un‟aggregazione di identificazioni.
Al centro della riformulazione lacaniana del narcisismo freudiano è la
dimensione di alienazione immaginaria che inerisce alla funzione dello specchio in
cui il soggetto si vede dove non è e come non è; in altri termini il soggetto si vede
come un altro. L‟esperienza dello specchio definisce un momento essenziale dello
sviluppo psichico del bambino, che Lacan colloca tra i sei e i diciotto mesi. E‟
questo il momento in cui il bambino può riconoscersi allo specchio, ma lo può fare

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solo sorretto dalla madre, e attraverso le parole della madre. La funzione dello
specchio è quella di produrre uno sdoppiamento del soggetto, per cui questo può
oggettivarsi nell‟immagine speculare, nell‟altro da sé, al fine di potersi riconoscere
in un‟alterità che lo identifica, in una esteriorità che lo riflette.
Nella teorizzazione dello stadio dello specchio questa funzione dialettica del
riconoscimento di sé attraverso l‟Altro si realizza nel rapporto del soggetto con la
propria immagine riflessa. Il riconoscimento dell‟immagine come propria, come
forma che rende possibile l‟individuazione, costituisce la forma inaugurale del
soggetto in quanto “Io”.
Questa forma nella quale il soggetto si virtualizza come un essere compiuto e
determinato è il modo con cui Lacan interpreta l‟Io Ideale di Freud, la sua natura è
squisitamente narcisistica poiché essa si produce nell‟istante della fascinazione che
l‟immagine produce sul soggetto e attraverso la quale lo cattura e lo costituisce in
una “linea di finzione”, di illusione. E infatti l‟essere del soggetto al di qua dello
specchio si trova in condizioni reali di frammentazione e di dipendenza, che la
Gestalt ideale del processo speculare sembra invece abolire. La funzione
dell‟immagine svela qui tutto il suo potere narcisistico incantatorio: il soggetto
trova nella sua immagine-oggetto una rappresentazione narcisistica di sé, che
compensa lo stato di frammentazione in cui si trova, in un periodo evolutivo
marcato dall‟onnipotenza dell‟Altro e dall‟impotenza fondamentale del soggetto.
L‟immagine del corpo proprio sutura la mancanza che affligge il soggetto.
Quindi, lontano dall‟essere l‟istanza orientativa della personalità, l‟io si rivela
nella sua genesi speculare come un derivato dell‟immagine.
Nello stadio dello specchio si realizza un‟unità ideale che però arriva, possiamo
dire, troppo in anticipo, producendosi su una “linea di finzione” che cattura il
soggetto in una fascinazione tragica perché, come indica il mito di Narciso,
fondamentalmente suicidaria.
Quindi la formazione dell‟io dipende da un‟immagine extracettiva,
dall‟esteriorità dell‟immagine. Niente potrà riassorbire lo scarto aperto dalla

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dissociazione tra il soggetto e la sua rappresentazione alienata nell‟immagine. La


natura tragica dello stadio dello specchio trova a livello di questa dissociazione una
sua prima definizione: essa si manifesta soprattutto come lacerazione originale che
separa l‟essere del soggetto dalla sua proiezione ideale, ma essa si produrrà con
ancora più forza laddove l‟unità ideale, che l‟immagine speculare restituisce in
forma virtuale al soggetto, non può che configurarsi come una forma di
alienazione.
Questo significa che se è vero che lo stadio dello specchio offre al soggetto la
possibilità di individuarsi come un io, è anche vero che questo riconoscimento, in
quanto si rende possibile sulla base di uno sdoppiamento, di una disgiunzione tra
l‟io e l‟altro, tra il soggetto stesso e l‟io, è la fonte primaria dello statuto alienato
del soggetto umano. L‟immagine che lo istituisce come io è già in se stessa
l‟immagine che lo separa da sé, che lo rappresenta in un altro da sé, che lo divide
irrimediabilmente. È un‟immagine che determina sì il senso dell‟identità dell‟io,
ma solamente producendone un‟alienazione irreversibile, perché il soggetto non
arriverà mai a congiungersi con l‟immagine ideale che lo rappresenta. Nella forma
di uno sdoppiamento alienante fa dunque la sua apparizione l‟idea lacaniana del
soggetto come strutturalmente diviso, che darà luogo negli anni successivi del suo
insegnamento alla celebre scrittura del soggetto sbarrato.
La discriminazione strutturale fra l‟io e il soggetto dell‟inconscio ci porta a
parlare di reale, simbolico e immaginario, i tre registri che annodati
topologicamente nella forma del nodo Borromeo17 definiscono, secondo Lacan, la
posizione del soggetto nella struttura. Il soggetto è posizionato esattamente
nell‟annodamento di questi tre registri: non vi è dunque soggetto al di fuori di
questa struttura e, al contempo, non vi è struttura senza soggetto. Semplificando al
massimo è possibile definire l‟immaginario come il campo delle identificazioni
soggettive, del narcisismo, della specularità, delle relazioni duali empatiche. Il

17
Il nodo prende il nome da uno degli stemmi usati dalla famosa famiglia lombarda ed è costituito da tre nodi
intrecciati. Esso è dotato di una particolare proprietà che consente di liberare tutti i suoi anelli tagliandone uno
qualsiasi.

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simbolico, invece, è il luogo dell‟Altro, del linguaggio, del significante, della


Cultura; si tratta del campo che precede il soggetto ed entro il quale il soggetto si
trova inscritto inevitabilmente. Il reale, infine, irriducibile all‟immaginario e al
simbolico, è definibile come il registro della pulsione. Entrando nel luogo
dell‟Altro il soggetto subisce un‟inesorabile perdita di godimento: das Ding,
godimento mitico e originario, viene perduta, cancellata a partire dalla presa nel
campo dell‟Altro. Questa perdita lascia tuttavia un resto che Lacan nominerà
l‟oggetto (a), traccia di das Ding, ma non equivalente a essa. Questa traccia è ciò
che Lacan indica essere l‟oggetto causa del desiderio del soggetto, e nello stesso
tempo il resto di godimento che determina l‟economia pulsionale del soggetto. Il
reale, dunque, indica il campo del godimento del soggetto, godimento che non è
riducibile né al senso né al significante.
Torniamo ora allo psicodramma analitico in cui il gioco è l‟elemento centrale e
qualificante. Il gioco psicodrammatico, secondo Eugénie e Paul Lemoine, ha il suo
prototipo nel gioco del fort-da, “inventato” dal nipotino di Freud e descritto dallo
stesso autore in “Al di là del principio di piacere”. Come il gioco del fort-da il
gioco psicodrammatico, in quanto rappresentazione, esige la rinuncia alla
soddisfazione immediata che viene invece sostituita da una soddisfazione in
qualche modo sublimata. Nessun tentativo o progetto di insegnare alla gente a
giocare ad essere Dio, ma piuttosto l‟offerta di un dispositivo in cui sia promossa al
massimo la possibilità di fare i conti con la castrazione simbolica.
Ogni gioco ha le sue regole e quello psicodrammatico non si sottrae a questa
legge. La regola del gioco non solo costituisce uno stimolante elemento di
chiarezza e di sfida rispetto agli strumenti con i quali l‟Io del soggetto si trova a
confrontarsi, ma nella regola il gioco è definito e protetto attraverso una limitazione
dell‟arbitrario variare delle azioni, secondo un piacere che non frenato potrebbe
portare chissà dove. Il gioco ci libera almeno parzialmente e momentaneamente
dalle conseguenze delle nostre decisioni relative alla vita quotidiana, ma attraverso

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le sue regole inevitabili può arrivare paradossalmente a liberarci per un attimo


perfino del peso e dei rischi di una libertà percepita come troppo grande.
Possiamo dire che il gioco nello psicodramma funziona come una “cerniera”,
dal momento che spazio ludico e spazio della vita quotidiana non si costituiscono
come compartimenti stagni ed è proprio, probabilmente, nella qualità dialettica
della separazione e del contrasto fra questi due spazi che risiede il problema, prima
di tutto etico e poi anche tecnico, dell‟efficacia della terapia.
Nello psicodramma la “cerniera” funziona sia appoggiandosi al corpo dei
giocatori sia su elementi che costituiscono la struttura del setting, per dar luogo ad
una realtà provvisoria, singolare, unica, anche se labile, destinata a cadere e a
“morire”, come il seme deve morire per poter generare una pianta. Con il gioco si
produce una realtà transizionale capace di agire su altre realtà a lei esterne, e
pertanto anche sulla realtà quotidiana, provocandovi trasformazioni. Garante di
questa separazione tra irrealtà ludica e altri livelli di realtà, e della loro possibilità
di influenzarsi e trasformarsi reciprocamente è, nel setting dello psicodramma
analitico, la funzione dello psicoterapeuta, in quanto supporto del transfert
“verticale” e responsabile della cura. Quindi il gioco è una “cerniera” poiché
suggerisce la possibilità e la non pericolosità dei passaggi da uno spazio all‟altro.
Al contrario di quanto ha pensato per lungo tempo Moreno, non è ritenuto
vantaggioso che lo psicodramma avvenga nello stesso luogo in cui si sono svolti gli
avvenimenti reali a cui si riferisce il discorso del soggetto-protagonista.
Lo spazio in cui si svolge lo psicodramma deve essere il più semplice e il più
neutro possibile, secondo la prospettiva immaginaria e simbolica di ciascuno: una
sedia può funzionare da letto, un‟altra può aiutare i presenti a immaginare una
tavola imbandita o una scrivania. L‟impiego di suppellettili che potrebbero
aggiungere un tocco realistico alla scena è vivamente sconsigliato. Del resto si
evita accuratamente la partecipazione allo stesso gruppo di persone che abbiano tra
loro rapporti reali, mentre Moreno, almeno nei primi tempi, teorizzava che lo
psicodramma avrebbe potuto raggiungere il massimo della sua efficacia se vi

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partecipavano le stesse persone che avevano preso parte alla vicenda reale.
Secondo Moreno riprendere gli elementi di realtà il più direttamente possibile
avrebbe permesso una maggiore intensità dell‟esperienza emotiva aumentando la
rilevanza del momento catartico, cosa che se può assumere un valore e un
significato nella prospettiva moreniana, in una prospettiva analitica risulta invece
secondaria e al limite decisamente antieconomica, se si tiene conto degli aumentati
rischi per i pazienti di confondere il piano immaginario con quello della realtà.
La posizione di Moreno è strettamente collegata anche al fatto che egli svaluta
al massimo la nozione di transfert, fenomeno che considera più o meno patologico
e non necessario, ponendo invece alla base dei rapporti umani il fenomeno di tele
(termine mutuato dal greco) cioè la possibilità che i rapporti possano essere diretti,
spontanei, senza mediazione.
Nello psicodramma analitico quindi i protagonisti reali della scena non sono
presenti materialmente salvo naturalmente il paziente. La scelta degli ego ausiliari
o degli antagonisti con i quali giocare la scena del ricordo non può avvenire,
quindi, che attraverso l‟investimento di uno o più tratti unari che collegano, più o
meno illusoriamente, il personaggio attuale, presente nel gruppo, a quello del
racconto.
Ogni gioco nello psicodramma può nascere solo da esperienze in cui il soggetto
si è trovato veramente coinvolto, sia pure in sogno. Contrariamente a quanto
avviene nello psicodramma moreniano e in altri tipi di psicodramma non viene,
infatti, promosso il gioco delle scene tabulate, dei sogni ad occhi aperti, delle
proiezioni future.
Considerando i tre registri in cui si articola la condizione umana secondo Lacan
si può dire che nello psicodramma analitico si va dall‟immaginario al simbolico,
escludendo per quanto possibile ogni valutazione pratica di efficienza e ogni
tentativo di intervenire direttamente nella realtà sociale esterna dei pazienti.
Tuttavia il reale è sempre presente come voragine del nulla, per lo meno nella

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mente del terapeuta, con la funzione principale di impedire la chiusura ermetica


dell‟illusione, ossia dello spazio di gioco.
Al terapeuta, sia che occupi la posizione dell‟animatore che quella
dell‟osservatore, viene affidata la direzione della cura, con tutto ciò che questa
comporta circa il dovere della neutralità e dell‟astinenza, per cui è importante che
egli non caschi nell‟illusione di trovarsi veramente nella posizione di un
partecipante o di partner di questo o di quel paziente o del gruppo, posizione in cui
potrebbero volerlo mettere talvolta i pazienti stessi o il gruppo in questione.
Il significato dello sguardo risulta nello psicodramma molto più intenso e
bruciante che non in altri tipi di gruppo e in particolare le possibilità dialettiche
dello sguardo degli altri. Nella misura in cui sono recepite dal soggetto, possono
dare conforto, in quanto può esservi proiettata una possibilità di riconoscimento o
dare angoscia, in quanto può esservi proiettato il pericolo di divisione e lacerazione
della propria immagine.
Il fatto di alzarsi in piedi in mezzo agli altri e tentare di organizzare la messa in
scena di un momento significativo della propria problematica pone nella posizione
di fare, inevitabilmente, i conti con alcuni aspetti del proprio narcisismo.
Per quanto riguarda gli strumenti tecnici specifici dello psicodramma quelli più
noti sono: lo scambio di ruoli, il doppiaggio e l‟a solo.
1. Cambiare ruolo con un ego ausiliario permette di conoscere meglio le
proprie proiezioni e permette di identificare meglio il posto (del padre, della madre,
ecc.) dal quale ciascuno può credere sia possibile desiderare o avere il diritto di
farlo. Significa pertanto andare soprattutto a fare i conti con l‟illusione puerile che
esista, da qualche parte, una posizione di potere assoluta della quale siamo stati
defraudati.
2. Nel doppiaggio, invece, chiunque, paziente o terapeuta, può mettersi
dietro le spalle di qualunque personaggio e parlare al suo posto. Ciò può rafforzare
la posizione o metterla in crisi o addirittura far scaturire elementi inattesi e aprire
quindi nuovi interrogativi. Anche l‟animatore come si è detto può doppiare e in

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questo caso il doppiaggio assume il significato di un intervento analitico vero e


proprio.
3. L‟a solo consiste in un monologo che si colloca, di solito, al termine di
una sequenza di gioco, per cui il protagonista siede al centro del gruppo e riflette a
voce alta su quanto è avvenuto nella rappresentazione, continuando a rimanere nel
ruolo, proprio o quello dell‟altro, in cui si è trovato alla fine del gioco. La funzione
dell‟a solo non è quella di concludere o trovare un significato o tanto meno una
morale a quanto si è svolto, piuttosto quella di ritardare il rientro del protagonista
nello spazio del gruppo, lasciandolo ancora qualche istante in un‟area intermedia in
cui può parlare direttamente a se stesso. Spesso l‟a solo può costituire il momento
della verità e di maggior contatto con parti trascurate di se stessi, anche se talvolta
l‟inibizione rende il protagonista completamente muto.
Nello psicodramma analitico non si fa gruppo, nel senso che non si fa leva in
alcun modo sull‟unità del gruppo come fantasma o come sistema per fondare il
lavoro terapeutico. Inoltre nello psicodramma il gruppo è aperto ai quattro venti,
per cui sono previsti nuovi inserimenti di pazienti senza preavviso alcuno per il
resto dei partecipanti, ed è necessario tener presente in ogni istante che si ha a che
fare con tanti gruppi quanti sono i partecipanti, terapeuti compresi.
Ciascuno arriva al gruppo con una sua domanda individuale, nella misura in cui
è in grado di formularla, quindi non è l‟identificazione ma il desiderio la molla
principale del processo terapeutico e il gruppo è formato da una serie di individui
giustapposti, anche se reciprocamente condizionati. L‟obiettivo dello psicodramma,
peraltro, non consiste in nessun modo in una promozione dell‟appartenenza: la
finalità del dispositivo è in un certo senso l‟opposto, in quanto si può dire che
vengono fatte cure individuali in gruppo.
Nello psicodramma la valenza terapeutica opera essenzialmente attraverso un
percorso che lasci da parte ogni illusione di fusione, più o meno amorosa, e
sottolinea, magari dolorosamente, ogni volta che sia possibile, la divisione
all‟interno del soggetto stesso e la sua irrimediabile separatezza rispetto all‟altro.

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Nel gruppo di psicodramma manca un campo, manca un obiettivo comune: un


animatore non sta al centro del gruppo ma ai bordi e non si offre mai né come
modello ideale né come partner dell‟uno o dell‟altro paziente o del gruppo. Se
l‟animatore occupasse un posto in qualche modo centrale potrebbe costituire un
polo troppo facile di attrazione o di repulsione, con promozione di identificazioni
intensamente centripete. Soprattutto per questo in ogni gruppo gli psicodrammatisti
sono di regola due e si alternano ogni volta nell‟animazione e nell‟osservazione che
ha luogo alla fine di ciascuna seduta. Così la funzione analitica nello psicodramma
viene distribuita su due persone reali, ciascuna delle quali, ovviamente, presenta
un‟immagine, un temperamento, uno stile di ascolto o di intervento completamente
diversi. Colui che in una determinata seduta viene a trovarsi nel posto
dell‟osservatore ascolta in disparte per tutta la durata della seduta stessa, senza mai
intervenire. Solo alla fine tocca brevemente i punti secondo lui nodali, rovesciando
ancora una volta il discorso manifesto e mettendo in discussione le certezze
raggiunte.
Torniamo ora a Francesco che viene inserito nel gruppo di psicodramma a
maggio del 2009. Da questa data, fino alla chiusura per le vacanze estive, i piccoli
pazienti sono quattro, tutti di sesso maschile, di età compresa dagli 11 ai 13 anni.
Francesco ha un aspetto trasandato: i pantaloni arrivano solo alla caviglia, la
felpa è stropicciata e stinta, i capelli lunghi e trascurati. Durante il gruppo (questa
modalità rimane invariata in tutto questo anno e mezzo) si muove continuamente
sulla sedia, fa rumore strusciando i piedi per terra, interviene continuamente nei
discorsi degli altri con battute ironiche. Quando viene ripreso chiede scusa, si
calma per circa un quarto d‟ora e poi ricomincia.
Nel primo incontro racconta che, a causa delle sue crisi, da Pasqua non sta
andando più a scuola. I professori devono decidere se promuoverlo o fargli ripetere
l‟anno. Dice di essere contento di venire al gruppo perché a casa si annoia un po‟.
Nel secondo incontro viene proposto di disegnare un albero e di inserire sui
suoi rami i componenti della famiglia dall‟alto in basso (secondo la loro

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importanza). Francesco inserisce in alto il padre, che per lui è la persona più
importante, perché è “il capo”. Racconta di andare molto d‟accordo con lui, spesso
giocano a carte o a scacchi (dice che gli scacchi sono il suo gioco preferito). Subito
sotto inserisce la madre e il fratello. Anche la madre, dice, è importante, ma un po‟
meno e spesso litigano.
In un incontro successivo viene proposto al gruppo di inventare una storia da
rappresentare. Ecco la storia: in un ristorante frequentato da molte persone entrano
dei rapinatori. Cominciano a girare fra i tavoli per farsi dare soldi e gioielli. Il
proprietario riesce, di nascosto, a chiamare la polizia. Quando questa arriva c‟è una
sparatoria. Alcuni banditi e alcuni poliziotti rimangono uccisi. Quando la scena
viene giocata Francesco sceglie di fare il poliziotto che deve arrestare i banditi.
Uno dei banditi gli spara più di una volta, ma lui continua a sparare gridando:
“Tanto non mi potete fare niente, io sono immortale!”
A fine giugno Francesco dice di essere stato promosso. Cambierà classe ed è
contento di questo cambio perché conoscerà nuovi compagni e spera di trovarsi
bene.
Racconta un sogno fatto tre giorni prima: “A casa mia veniva un medico pazzo
con degli animali al guinzaglio. Gli animali erano un canguro e un coccodrillo. Il
coccodrillo mi voleva mangiare. Eravamo in camera di mamma e papà (ma loro
non c’erano). Io chiamavo il medico pazzo perché mi aiutasse, ma lui non veniva”.
Dopo le vacanze estive nel gruppo vengono inseriti quattro nuovi piccoli
pazienti: due maschi e due femmine.
Nel primo incontro Francesco racconta un sogno: “A scuola i miei compagni
non mi volevano e mi prendevano in giro. Quando sono tornato a casa ho
raccontato a mia madre l’accaduto, ma lei se ne è fregata”.
Nell‟incontro successivo racconta di aver cominciato la scuola e che la sua
nuova classe gli piace.
Dopo circa dieci mesi dal suo inserimento nel gruppo racconta il vero motivo
per cui in seconda media non è più andato a scuola: diversi episodi di bullismo da

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parte di tre suoi compagni di classe che lo costringevano ad andare dietro la


lavagna per picchiarlo. Non ne aveva parlato con nessuno, né con i professori, né
con i genitori per paura che un eventuale intervento da parte di figure adulte lo
avrebbe esposto ancora di più agli atti di bullismo.
Poco tempo dopo Francesco racconta un episodio: la madre è uscita per
accompagnare il fratello a rugby e lui, dopo essersi fatto la doccia va a prendere nel
suo cassetto la biancheria pulita, ma non la trova. Prova a chiamare la madre sul
cellulare che non risponde. A quel punto chiede al padre di aiutarlo nella ricerca,
ma il padre non trova la biancheria pulita e Francesco ha un‟esplosione di rabbia
incontrollata e comincia ad inveire contro il padre che non sa aiutarlo.
Viene giocato l‟episodio e il gioco si svolge secondo copione, sia nella prima
parte che nel cambio di ruolo. Nella sua posizione Francesco si mostra molto
arrabbiato con il padre. Urla: “Sei un cretino! Non sei proprio capace a fare niente,
non riesci neppure a aiutarmi a trovare i calzini e le mutande!”. Al posto del padre
rimane quasi muto di fronte alla rabbia del figlio e riesce a malapena a balbettare:
“Mi dispiace, ma non sono da nessuna parte”.
Nella mia posizione di osservatrice mi domando come mai Francesco sia tanto
arrabbiato con il padre e non con la madre che non ha messo a posto la biancheria,
è uscita per accompagnare Luca, di cui Francesco è molto geloso, e si è dimenticata
a casa il cellulare.
Ma nell‟a solo finale qualcosa succede, perché nella posizione del padre
Francesco rimane in silenzio per circa dieci/quindici secondi, poi con una voce
molto fievole dice “Io devo avere un rapporto migliore con Francesco, devo stargli
più vicino, non devo trattarlo come un barista tratta un cliente sconosciuto che
entra nel suo locale”.
Da quel momento comincia a parlare della sua rabbia nei confronti dei genitori,
ma soprattutto del padre da cui non si è sentito protetto quando ha subito gli episodi
di bullismo. Racconta anche che spesso questa sua rabbia viene agita perché dice:

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“Lui è il più forte della famiglia, io lo sfido perché voglio vedere se riesce a
fermarmi”.
Prima della chiusura per le vacanze estive Francesco dice di essere stato
promosso agli esami di terza media e di volersi iscrivere allo scientifico.
Devo ammettere che quello verso di Francesco non è stato un ”amore a
prima vista”. Il suo continuo muoversi e disturbare e le sue battute di spirito che
scatenavano ilarità nel gruppo, sono stati faticosi da gestire. Oltre la fatica sentivo
anche un senso di fastidio.
Quando sono emersi gli episodi di bullismo ho capito che quel senso di fastidio
era in realtà rabbia. Rabbia nei confronti dei genitori che sembrava non vedessero
quel figlio vestito male, con i capelli troppo lunghi: una vittima ideale.
Forse avevo intuito qualcosa, ma non avevo dato retta al mio istinto. E allora la
rabbia era un po‟ anche verso di me, unita ad un senso di colpa.
Quando nell‟a solo del gioco, Francesco, nel posto del padre, ha parlato di un
barista che vede il cliente per la prima volta mi si è stretto il cuore. E non nascondo
di aver provato un certo piacere nel vedere, successivamente, la rabbia di Francesco
che finalmente usciva fuori.
Francesco quest‟anno frequenta il primo liceo scientifico. Dice di trovarsi
abbastanza bene con i suoi compagni di classe, anche se ogni tanto emergono ansie
e paure. E‟ un ragazzino solo, con difficoltà di relazione con i coetanei. La madre
continua ad essere iperprotettiva, non facilitandone lo svincolo, e il padre
tendenzialmente assente. Gli agiti aggressivi di Francesco nei suoi confronti fanno
ipotizzare un bisogno di essere visto, oltre che essere contenuto.
Certo alcuni passi sono stati compiuti in questo anno e mezzo. Si poteva fare di
più? Quando ho visto Francesco per la prima volta lo pensavo: il delirio di
onnipotenza è sempre in agguato dietro l‟angolo, ma il lavoro con i piccoli è
un‟ottima palestra per allenare ad una tolleranza alla frustrazione, che deve
necessariamente sostituirlo. Un primo granello di sabbia è stato, però, spostato e
chissà che granello dopo granello……

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Bibliografia

Croce E.B. (1990), Il volo della farfalla, Edizioni Borla, Roma.


Croce E.B. (2001), La realtà in gioco. Reale e realtà in psicodramma analitico,
Edizioni Borla,
Roma 2001
Di ciaccia A., Recalcati M. (2000), Jaques Lacan, Bruno Mondadori, Milano.
Lacan J. (1953-1954), Il Seminario. Libro I. Gli scritti tecnici di Freud, 1953-1954,
Einaudi Editore, Torino, 1978.
Lemoine G., Lemoine P. (1972), Lo psicodramma. Moreno riletto alla luce di
Freud e Lacan, Feltrinelli Editore, Milano 1973.
Olweus D. (1993), Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono,
Giunti Editore, Firenze, 1996.
Palombi F. (2009), Jaques Lacan, Carocci Editore, Roma.

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Clinica
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DISTURBI ALIMENTARI PSICOGENI:


“ECLISSI” DEL SÉ
ED ESPERIENZA DEL CORPO

Giancarlo Di Luzio
(Psichiatra, Psicoanalista SPI-IPA, Membro Docente COIRAG-IAGP)

Premessa
Premetto per chiarezza alcuni chiarimenti sui termini usati e l‟ ordine degli i
argomenti trattati .
Utilizzerò il termine Disturbi Alimentari Psicogeni (DAP) anziché Disturbi
del Comportamento Alimentare (DCA), la denominazione più comune nel nostro
paese per definire l‟area dell‟anoressia, bulimia e dei DCA non altrimenti
specificati (DCA-NAS), perchè tale denominazione, a mio avviso, ponendo al
centro un comportamento, mette in secondo piano il dato, rilevante dal punto di
vista psicodinamico , che la malattia coinvolge in realtà l‟intera personalità e non
solo la condotta alimentare, aspetto parziale anche se spesso grave. In questo
senso, H. Bruch,( parlando della Anoressia Nervosa, AN), definisce il disturbo
alimentare come manifestazione tardiva di un disturbo di personalità presente
molti anni prima. Anche la estesa letteratura psicoanalitica18, sembra riconfermare
l‟ ipotesi che il disturbo abbia origine nel cuore della personalità ( ovvero, dal
punto di vista della Psicoanalisi del Sé, nel suo centro, nel Sé);

18
Thoma ( v. bibliografia), che ha curato una raccolta di 60 casi curati con l‟ analisi nel corso di quasi un secolo
( almeno 60 anni), sottolinea la lunga esperienza della psicoanalisi in questo campo, anche se questo ha
portato alla produzione di “case-reports” anzichè studi longitudinali verificati secondo i criteri della “evidence
based medicine”, la qual cosa però non è sufficiente motivo per considerarli di valore nullo.

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Come ogni psicoterapeuta può rilevare l‟ esperienza soggettiva di questi


pazienti ruota quasi costantemente attorno ad un sentimento di inadeguatezza di
Sé; tale fenomenologia però risulta a tal punto variegata da caso a caso, che mi
sono sentito, in questo scritto, spinto a definire il sentimento di base comune,
essendo la percezione di “deficit” quello che li accomuna, con il termine, seppur
generico, di “sentimento negativo di Sé”, in attesa di trovarne altro più
soddisfacente.
Richiamandomi ad una possibile ipotesi sulla genesi psicodinamica di tale
sentimento, ho qui denominato la configurazione strutturale del Sé che sottende il
“sentimento negativo di Sé”, con metafora “astrofisica”: “Eclissi del Sé”.
Con tale metafora intendo evocare l‟esperienza soggettiva del paziente che
sente”oscurato”, inesistente, paralizzato, il nucleo di Sé che promuove
l‟individuazione (il “vero Sé” di Winnicott, il Sé potenziale sano ), ovvero quello
che dovrebbe fargli percepire identità, senso di efficacia, autostima, etc.,…
I riflessi di questa “eclissi” del Sé sulla corporeità , nei DAP, sono molteplici
e complessi e solo alcuni aspetti verranno qui toccati. Un aspetto senz‟ altro
centrale è lo spostamento sul corpo, anche con funzione di meccanismo di difesa,
di questo nucleo “negativo”, dallo psichico al somatico, fatto questo che
contribuisce probabilmente anche alla creazione della “immagine negativa del
corpo” 19, oltre che ad un vissuto più generale, diffuso e persistente della propria
corporeità come negativa.

Il “sentimento negativo di Sè”

Come già detto, un dato che non può non colpire qualsiasi psicoterapeuta
che si occupi dei DAP, è la presenza quasi costante di un sentimento “negativo”del
Sé, centrale, pervasivo e persistente. Questo fatto era stato già puntualmente
rilevato dalla Bruch decenni fa, nei suoi studi pionieristici sulla AN e sull‟obesità e

19
Vedi in bibliografia Bruch , “Patologia del Comportamento Alimentare”.

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nelle magistrali descrizioni dei vissuti soggettivi delle sue pazienti. Nonostante la
sua originaria formazione biologica20 ella è fin dall‟inizio è stata convinta della
rilevanza dei fattori psicodinamici, sulla scorta di una esperienza su centinaia di
casi, comprendenti anche l‟area della obesità, che nella sua cornice teorica è solo
il polo opposto della AN, in un “continuum” di uno stesso spettro patologico,
ipotesi ripresa dalle più recenti prospettive “trans-nosografiche”21. Pur non
sottovalutando la portata dei meccanismi di difesa riguardanti la pulsionalità
(specie libidica) descrive , nel caso della AN, una fragilità della personalità che
riguarda l‟identità, il concetto di sé, il sentimento efficacia, il senso di autonomia,
il diritto a decidere della propria vita e a percepire la mente e corpo come aree su
cui poter aver diritto di attivita‟ e sviluppo proprii. Da questo punto di vista la
malattia viene fatta risalire, in un‟ottica eziopatogenetica multifattoriale, ad un
disturbo della personalità22 associato ad una radicata disfunzione percettiva sia
della immagine corporea che dei segnali di fame sazietà, sviluppatisi
precocemente, in conseguenza di deficit di accudimento dei “care-givers”23;

20
La sua iniziale attività era stata di endocrinologa.
21
Vedi Fairburn in bibliografia.
22
Il termine usato usato dalla Bruch, che compare nel titolo della sua opera principale “Eating disorders and the
person within” è dunque “person” ed, essendo stato scritto in epoca pre-DSM IV-R, non è possibile fare
collegamenti con tale classificazione nosografia.. E‟ da notare che la traduzione italiana del titolo, “Patologia del
Comportamento Alimentare” introduce il termine comportamento non presente nell‟originale ed omette il termine
“person”., ovvero il concetto più globale di persona, personalità.
23
La relazione madre-bambino occupa naturalmente un posto di primo piano. In un precedente articolo avevo
usato il termine di “campo transgenerazionale” per indicare il fatto che, al di là di tale rapporto, alle genesi del
deficit di personalità poteva concorrere una psicopatologia che si era trasmessa attraverso più generazioni. Tale
impressione si è in me sedimentata nel corso della terapia di alcuni casi, seguiti per anni, in cui è stato possibile
ricostruire la strutturazione della personalità nei primi anni di vita, prima della comparsa del DAP, in relazione al
contesto familiare ed in cui si è potuto comprendere come il bambino, per fini adattativi, si era posto ed era stato
posto,come “contenitore”, funzionale alla “omeostasi” familiare, di stati psichici ( il più spesso di coloritura
“negativa” “autosvalutativa”) propri di genitori che a loro volta li avevano “ricevuti” dalla precedente generazione.
In particolare in un caso di grave bulimia è risultato evidente che la bulimia era tra l‟altro una tecnica di
tamponamento di antiche angosce infantili. Da piccola era insonne ed in particolare aveva incubi in cui “un uomo
cencioso e pazzo la inseguiva e minacciava di portarle via i genitori. Nella ricostruzione era emerso l‟esistenza di
forti angosce di povertà, follia e morte specie nella madre, “ereditate” dai propri genitori, che erano state captate e
fatte proprie dalla paziente, figlia quindi “stressata” ad essere un piccola adulta. Le ansie avevano preso la forma
di una insonnia con incubi. Il cibo poi era diventato un suo calmante fino però a generare una obesità infantile. In
adolescenza aveva reagito a questa sorta di “passivizzazione” controllando il peso con una restrizione fino alla
anoressia. La ribellione alla anoressia era stata la bulimia con cui aveva continuato a controllare l‟angoscia
ereditata dall‟infanzia..

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invece la successiva organizzazione della psicopatologia dell‟alimentazione,


spesso di anni più tardiva, viene considerata, almeno in parte, come un tentativo,
seppur malato, di riequilibrare e riparare il diffuso sentimento di incapacità e di
mancanza di identità che caratterizza il disturbo di personalità.
Anche nella mia esperienza di psicoterapeuta, dopo che si sia instaurato un
rapporto di sufficiente fiducia ed intimità, queste persone riferiscono, quale
principale fonte di sofferenza sottostante al comportamento alimentare, il sentirsi,
fin dall‟ infanzia, “inadeguate, non sentirsi all‟altezza”, etc.,…con connotazioni
assai varie; in alcuni casi il sentimento viene declinato nel sentirsi “diversi”, “non
presentabili” al confronto con gli altri; in altri la accentuazione del sentimento di
negatività può arrivare fino al punto di sentirsi portatori di una oscura “difettosità”,
“mostruosità”24 .
A volte tale sensazione acquista una forte pregnanza fantasmatica del
tipo: “ in me c‟è un buco nero, un ombra, qualcosa di molto negativo…”. E‟ molto
frequente inoltre la descrizione quasi fisica di un “vuoto”, un “buco” che in genere
viene collocato all‟interno dell‟addome e costituisce, una volta “somatizzato”, il
motivo “ fisiologico” del perché uno abbia la necessità di abbuffarsi. Al contrario
un “pieno negativo”, una “negatività interna”, una sorta di “ mostruosità” interna,
cui si accennava prima, è ciò che deve venir eliminato con il vomito autoindotto. Di
frequente il pieno”schifoso” ed il “vuoto” angosciante sono riferiti come sequenze
di uno stesso scenario. Per illustrare questo aspetto riporto il caso di una grave
paziente bulimica che dopo anni di terapia, con notevoli progressi nella capacità di
“insight”, mi aveva portato questo sogno: “…mi trovavo davanti ad uno specchio
e mi osservavo…ad un certo punto notavo come un brufolo, un sorta di “cunicolo”
nella pelle del viso…”scandagliavo” questo punto , grattandomi con le unghie…
scoprivo con disgusto che sotto c’era un lungo verme schifoso…andando ancora
più in profondo vedevo che sotto la pelle non c’era nulla…ma solo un enorme
spazio bianco, senza niente, come un enorme stanza bianca…”. La paziente per

24
Vedi in bibliografia .Pallier per il tema della mostruosità.

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anni aveva fronteggiato il “sé-schifoso-verme”, inconsapevolmente, ricercando con


la restrizione alimentare di raggiungere un ideale fisico ” magro”, percependo ”
annidato” nel grasso il “sè schifoso”; il danno del Sé aveva comportato uno stato
“alexetimico” con la sopravvivenza di sole due emozioni forti, la rabbia e il
sentimento di “vuoto” . Le abbuffate, favorite fisiologicamente dalla restrizione
nutrizionale, le riempivano il “vuoto” in momenti in cui era intollerabile, per
esempio in occasione di frustrazioni e abbandoni ma repentinamente , a causa dello
stato dispercettivo, si sentiva repentinamente ingrassata. A questo punto il cibo
introdotto, trasformatosi “magicamente” in “ grasso”, le faceva percepire in tutta la
sua intensità il “Sé-schifoso” ed allora esso doveva essere espulso con violenza
attraverso il vomito. Nel corso della terapia come in un processo di
“alfabetizzazione” aveva allargato” la conoscenza delle proprie emozioni;
progressivamente la persecuzione da parte del “Sé onnipotente-perfezionistico” si
era ridotta e così il sentimento autosvalutativo ( “il sé verme”) e nuove emozioni
avevano attenuato il sentimento di vuoto. Dopo anni- la paziente è tuttora in
terapia- la crisi bulimiche sono completamente scomparse.
A volte è proprio l‟ esperienza nucleare di sé, il fondamento dell‟identità,
che viene presentata come molto precaria. Le pazienti nel riferire fatti e sentimenti,
esprimono contenuti più o meno impliciti del genere: “ io ho sempre sentito di non
meritare di esistere… non credo di aver diritto ad avere una esistenza autonoma..
non valgo nulla…non merito nulla, etc.,…”. In questi casi i pensieri sono
accompagnati da vissuti molto penosi, il senso di inesistenza e di inconsistenza è
accompagnato da angosce esistenziali profonde, viene espresso un senso di
impresentabilità di fronte al genere umano25; il sentimento di vergogna è forte,

25
il mito di Filottete, riportatomi più volte nel corso dell‟analisi di una grave paziente bulimica,per esprimere i
suoi sentimenti, mi sembra rappresentare questo stato. Filottete eroe greco, durante il viaggio in mare verso Troia
contrae una malattia diffusa della pelle, molto repellente e maleodorante. I compagni di spedizione lo
abbandonano solo su in isola. Per anni nessun essere umano gli si avvicinerà ed egli svilupperà un forte senso di
fragilità per l‟isolamento subito e di bisognosità di rapporto umano. Dopo anni Ulisse, che per vincere la guerra
ritiene importante acquisire l‟arco di Ercole, allora in possesso di Filottette , raggiunge l‟isola e si finge essere un
amico che lo vuole rivedere. Ma ottenuto l‟arco, subito dopo l‟abbandonerà con gran dolore di Filottete per la
delusione e l‟inganno.

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spesso devastante ed è causa della necessità di un progressivo isolamento dagli


altri, stato che le pazienti nascondono, quasi per un inconscio “alibi”, con
l‟attribuire il non uscire allo stato di malessere conseguente alle condotte
bulimiche, spesso devastanti sia sul piano fisico che psichico. In questi casi il
diritto ed il valore del proprio esistere sono vissuti con dolorosa precarietà e
sembra che il disturbo alimentare dìa comunque dignità di una ”identità” di
persona ” malata” risparmiando loro la vergogna e l‟angoscia di mostrare a sé e al
“ mondo” una “identità” senza meriti nè diritti, gravida di oscure ed indefinite
negatività, insomma una “identità impresentabile“.
La Bruch sottolinea il fatto che in queste pazienti è come se pensieri ed
emozioni, così come del resto il proprio corpo non appartengano a sé stessi e
quindi essi non si sentano nella condizione di poter disporre di sé né nello spazio
reale della propria vita; solo nel “teatro del corpo”26 e nel mondo del cibo essi
sembrano poter trovare una forma di espressione di sè. Nel caso di una grave
anoressica, Ilenia, solo dopo qualche anno di terapia analitica, ella si rende conto
che i pensieri ed il punto di vista da cui giudica il mondo e gli altri non sia il suo
ma quello della madre; esclama in una seduta:”… ma io penso con la mente di mia
madre!”
In un'altra paziente bulimica, Giulia, emerge in terapia il rapporto tra le
sue crisi bulimiche e la sua difficoltà ad esprimere con rabbia ma con efficacia la
sua assertività nei confronti di un capoufficio che tende a svalutarla; le crisi
sembrano essere una modalità di scarica di una frustrazione avvenuta nel rapporto
“inter-umano” attraverso uno spostamento in una area di relazione con oggetti “non
umani” (il cibo ) degli affetti ( es. la rabbia è tramutata nella violenza delle
condotta bulimica”)27; in questo caso risulta evidente che il suo “apparato orale”

26
Vedi Resnik in bibliografia.
27
In un precedente articolo ( v. bibliografia) ho ipotizzato, come evidenziato anche da altri Autori, che i DAP,
sarebbero in realtà più disturbi dell‟ esperienza interpersonale ( vedi gli approcci nordamericani ai DAP della
ITP, la Psicoterapia Interpersonale) che dell‟alimentazione. La fragilità del Sé di queste persone li porta ad
evitare l‟esperienza interpersonale e a sostituirla con quella con oggetti “non-umani”, più “padroneggiabili”,

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non può riempirsi di parole che escano e si indirizzino con efficacia e rabbia ad
una altra persona; infatti, a causa di un Sé troppo autosvalutato, ella non si sente in
diritto di difendersi né in grado di sostenere ed esprimere emozioni intense né di
avere il coraggio di assumersene il carico nei confronti di una altra persona; per tale
motivo nell‟ apparato orale alle parole viene sostituito il cibo e questo poi viene
espulso con violenza al posto di un energica comunicazione.
Tenendo conto di tale varietà della fenomenologia soggettiva possiamo
ipotizzare che la patologìa del Sé si estenda, a seconda dei casi , con una
graduazione di gravità, da una parte più “centrale” in cui sono state compromesse,
in fasi più precoci (per es. attraverso alterate “esperienze speculari arcaiche”28), il
sentimento del diritto all‟esistenza, la percezione dell‟appartenenza a sé della
mente e del corpo, il meritare valore e spazio nella propria esistenza, a parti più
“periferiche”: in questi casi è come se il Sé non permeasse sufficientemente le
azioni del soggetto, le sue qualità, i suoi talenti. Tali pazienti non riescono ad
esprimere con efficacia le proprie attitudini e capacità, spesso elevate, come se non
ne potessero disporne a pieno titolo o non fosse consentito loro di apprezzarne
tutto il loro valore né potessero farle valere. Per es ., come poi riportato, Ilenia,
paziente anoressica, laureata in economia a pieni voti lavora come commessa e
quando le viene riconosciuto un aumento di stipendio per le sue capacità si stupisce
che questo sia accaduto.
Quindi in una sorta di classificazione fenomenologica, che va dal centro alla
periferia, potremmo così raggruppare, le forme di “sentimento negativo di Sé “.
 Sentimenti di mancanza di diritto all‟esistenza, all‟ espressione e realizzazione di
Sé, alla progettazione della propria vita, sentimenti di inesistenza, di invisibilità;
 Sentimenti di diversità, alienità, sentimenti di difettosità/mostruosità;
 Sentimenti di vergogna, impresentabilità, autosvalutazione, autodisistima
 Sentimenti di colpa, di indegnità;

quali il cibo e l‟immagine fisica. Con un riferimento alla terminologia di S.Resnick in essi assistiamo ad una
sostituzione del “teatro della vita” con il “teatro del corpo”.
28
V. per” esperienze speculari” Kohut in bibliografia.

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 Sentimenti di incapacità rispetto a specifiche funzioni ( comprensione,


intelligenza, eloquio, femminilità, esecuzione di compiti, etc.,…)

Eclissi del Sé

L‟eclissi solare, è un evento, che anche se eccezionale, quando è totale, ci fa


sperimentare una situazione inquietante: seppure la fonte di energia esterna più
essenziale per la nostra vita, il sole, è presente, tuttavia, un corpo celeste (es. la
luna), frapponendosi tra l‟astro ed il nostro pianeta , ne riesce ad annullare in gran
parte l‟ effetto luminoso, fino al punto da poter aver l‟impressione angosciante che
il sole si “sia spento”. L‟immagine suggeritaci da questa definizione metaforica ci
può aiutare, come già detto, a capire quello che provano questi pazienti: l‟energia
del ( “vero”) Sé sano potenziale (il sole) risulta (nel loro caso assai ben più
durevolmente!) oscurato( inibito) da un nucleo ( il pianeta privo di luce che si
interpone), privo di energia positiva ( il Sé adattivo “svalutato”, “inadeguato”), la
qual cosa determina così‟ nel soggetto il “sentimento negativo di Sè”.
La mia ipotesi è quindi e che tale sentimento di sé rifletta anche un deficit
del Sé e che proprio attorno a tale deficit si strutturi la gran parte della
fenomenologia patologica.
Come già descritto dalla D.ssa Lydia Pallier29 in tali situazioni di deficit
del Sé, presenti anche in altre sintomatologie, due fenomeni tipici si presentano
all‟ analista: uno è il fenomeno del “bluff” ed il secondo, strettamente collegato,
potrebbe essere denominato “fenomeno del rimbalzo”. Infatti si assiste al fatto che
quando la paziente è riconosciuta positivamente, sia apprezzata fisicamente o per
altre sue qualità, ella pensa in realtà di essere in realtà un “bluff” , ovvero in realtà
che ella non crede di avere quelle qualità, ma esse sono in realtà un “trucco”e
quindi ella si attende di essere smascherata da un momento all‟altro con sua grande
29
In realtà tali “descrizioni” mi sono giunte da comunicazioni orali ricevute in corso di supervisione, mentre
sono in forma più che altro implicita nei suoi scritti.

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vergogna: per es, un ragazzo si interessa a lei ma ella è sicura che questi si stia
sbagliando nell‟apprezzarla, . Quindi quando sono in gioco capacità che vengano
esplicitamente riconosciute da qualcuno alla paziente che ella però non può
riconoscersi, il “rispecchiamento” positivo le “rimbalza” addosso, non le può
sentire come realmente sue, accrescendo così la propria autostima; per es., come
nel caso citato di Ilenia, il capoufficio le riconosce un aumento di stipendio non
richiesto per l‟ottimo rendimento ma tuttavia ella non può attribuirsi tali elevate
doti professionali e quindi rafforzare il senso di sé; quindi i riconoscimenti positivi
“rimbalzano” anziché penetrare nel sentimento di sè e rafforzarlo. E‟ proprio questa
incapacità a “nutrire” il Sé “carente” con esperienze interpersonali che avrà un
ruolo importante nello sviluppo del disturbo alimentare; si può infatti ricondurre
l‟asse portante della patologia ad un tentativo di elaborare questa percezione
dolorosa di una difettosità Sé e di cercare di ripararla.

I riflessi della “Eclissi” del Sé sulla esperienza corporea

Così come l‟ eclissi del sole è difficile da sopportare a lungo così possiamo
immaginare che tale vissuto negativo, affinché la persona possa psichicamente
sopravvivere , debba essere in qualche modo fronteggiato. Questo è forse uno dei
motivi per cui avviene lo spostamento sul corpo ed il suo coinvolgimento.
Gli aspetti psichici, a mio avviso, clinicamente più evidenti
nell‟esperienza corporea dei DAP sono : lo spostamento del sentimento negativo
di Sé e della “riparazione” del Sé con il Sé ideale perfezionistico dall‟area
psichica a quella del corpo, la immagine corporea negativa, la dispercezione dei
segnali di fame-sazietà, la condizione alexetimica.
Lo spostamento del sentimento negativo di Sé sul corpo costituisce il
meccanismo di difesa con cui il Sé fragile cerca di rappresentarsi il sentimento
negativo di sè deviandolo in auto-percezione dell‟immagine fisica, in immagine

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corporea negativa. Il Sé inadeguato diventa un corpo inadeguato, brutto, “ grasso”,


il ” vuoto” psichico un “vuoto” fisico etc.,…e in tal modo il confronto con una
problematica fisica sembra più affrontabile, ; il nemico è il grasso; la soluzione
magica allora diventa la ricerca di un corpo ideale magro; il perfezionismo diventa
la correzione del “sé imperfetto”. Il vuoto divenuto vuoto fisico viene colmato con
quantità non controllate di cibo; quando i meccanismi di compenso ( vomito
etc.,… ) vengono a mancare, il corpo aumenta di peso ed il grasso viene a
rappresentare il Sé “mostruoso”.
L‟immagine corporea negativa è dunque l‟immagine mentale del corpo che i
pazienti con DAP percepiscono “negativa” . I fantasmi interni determinano
percezioni abnormi (dispercezioni) del corpo di vario genere: dal sentirsi grassi a
rappresentazioni di difetti in altre aree del corpo, per es. pancia, cosce, gambe,
etc.,…: la ipo- o la iper-alimentazione dovranno appunto tentare di riparare o
attaccare questo corpo negativo. Ma essendo l‟obiettivo una corpo ideale non verrà
mai raggiunto. Le anoressiche si vedranno sempre grasse anche in condizioni di
massima restrizione e le obese penseranno di contenere una sé stessa magra a
qualunque peso arrivino.
La dispercezione dei segnali di fame-sazietà si insedia molto precocemente
all‟interno di una relazione patologica di accudimento in cui viene impedito lo
sviluppo fisiologico del ritmo fame-sazietà in quanto il cibo viene utilizzato
dall‟accudente( spesso la madre) per regolare proprie stati emotivi e fantasie ed in
tal modo viene “esportato” nel figlio un modello di alimentazione funzionale ad
esigenze di controllo delle “emozioni” e viene strutturato una inibizione del
collegamento fisiologico tra alimentazione/ digiuno e fame/sazietà .
La condizione alexetimica30, la mancata lettura delle emozioni, si struttura
all‟interno dello stesso quadro di accudimento sfavorevole all‟ individuazione; un
Sé confuso su di Sé sarà anche confuso sulle proprie emozioni. Le emozioni per un

30
Dal greco, incapacità di “leggere” le proprie emozioni.

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Sé fragile e con scarsa autostima sono fonti di angoscia persecutorie e pertanto


tendono a rimanere indistinte e “non-lette” nella area delle percezioni corporea.

Conclusioni

I DAP sono disturbi del Sé in cui la lotta per la sopravvivenza psichica, per
il senso di identità, per l‟autostima, per l‟ideale di Sé, avviene nel corpo,
attraverso l‟alimentazione, con una relazione nei confronti del cibo, significativa
nel senso che in essa sono “travasati”, con tutte le loro ambivalenze, gli affetti del
mondo interpersonale da cui ci si è ritirati.
La terapia analitica, in un contesto di intervento interdisciplinare integrato (
in un “team” costituito da medici nutrizionisti, dietisti, psichiatri, etc…) ha il
compito di riconoscere questa lotta e la sua dignità e liberare il Sé nascosto nel
corpo sofferente e nel disturbo alimentare e di riavviare un processo di
individuazione attraverso un lungo e doloroso passaggio dai fantasmi corporei alle
rappresentazioni psichiche.

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Clinica

COMPLESSITÀ, CAMPO E MENTALIZZAZIONE

Angelo R. Pennella

(Psicologo, psicoterapeuta, docente di Psicoterapia presso la Scuola di Specializzazione in


Psicologia della Salute della Facoltà di Psicologia 1 dell‟Università “ La Sapienza” di Roma)

Una volta che abbiamo aperto gli occhi,


possiamo pensare a un nuovo modo di vedere il mondo,
ma non potremo più tornare indietro alla vecchia visione.
(Sir Arthur Eddington, 1927)

Probabilmente ricorderete “Il borghese gentiluomo”, un‟opera che Molière


scrisse nel 1670 ed in cui si narra di un bravo borghese – monsieur Jourdain – che
invece di godersi le ricchezze conquistate nel corso di una vita di lavoro decide di
frequentare i salotti dell‟aristocrazia francese, diventando l‟involontario oggetto di
burla per una nobiltà che ammira ma che non riesce tuttavia a comprendere. Nel
corso di una conversazione in cui si discuteva di prosa e poesia, Jourdain si rende
improvvisamente conto di aver sempre parlato in prosa: questa inaspettata scoperta
lo stupisce e lo entusiasma.
La reazione del buon Jourdain ricorda un po‟ quella che a volte si ha
quando ci si scontra con la complessità dei rapporti esistenti tra le cose, anche
quelle che a noi sembrano tra loro distanti ed indipendenti.
Prendiamo, ad esempio, la globalizzazione.

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Sebbene il termine, come ha notato Ulrich Beck (1999), abbia molteplici


significati, è spesso utilizzato per indicare il processo che ha condotto il mercato,
una dimensione cioè squisitamente economica, a sostituirsi all‟azione politica: in
tale accezione, questa parola esprime l‟idea del primato che l‟economia sembra
aver acquisito nei confronti della politica, tant‟è che oggi, citando ancora Beck
(2007), si può tranquillamente affermare che il mezzo di coercizione più efficace
“non è la minaccia di invasione, bensì la minaccia di non invasione da parte degli
investitori, oppure la loro partenza. Come a dire, c‟è solo una cosa peggiore di
essere sommersi dalle multinazionali, e cioè quella di non esserlo”.
Il termine ha però anche un altro significato, forse più congruente allo
stupore di cui si diceva, quello in cui la parola è usata per segnalare
l‟interdipendenza che lega le diverse componenti del mondo e che si concretizza,
tra l‟altro, nella nascita di una serie di organismi e sistemi trans-nazionali deputati a
gestire le relazioni tra stati, enti ed organizzazioni produttive. In questa seconda
accezione, il termine esprime dunque l‟idea di una “società-mondo” in cui non
sono più pensabili spazi chiusi e realtà autonome e indipendenti ed in cui nulla, sia
essa un‟innovazione tecnologica o una catastrofe ambientale, può avere un
carattere meramente locale.
Come Jourdain, ci troviamo quindi spesso a meravigliarci, ad esempio
guardando l‟etichetta di un capo di abbigliamento di un noto brand italiano
fabbricato dall‟altra parte del mondo o scoprendo che i bond di un lontanissimo
Paese incidono sull‟investimento fatto con la banca sotto casa: tutto ci appare
improvvisamente collegato.
Da questo punto di vista, il concetto di globalizzazione, con il suo richiamo
ai processi di reciproco influenzamento ed interdipendenza che caratterizzano le
entità politiche ed economiche del nostro globo, può essere inteso come l‟ennesima
declinazione di un modo di guardare la realtà in cui il focus non sono più (o solo) i
singoli eventi – siano essi economici, politici o sociali – quanto le relazioni
esistenti tra il tutto e le parti.

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È evidente che ci si sta riferendo agli studi interdisciplinari dei sistemi


complessi adattivi e dei fenomeni che sono ad essi associati, in altre parole alla
cosiddetta teoria o epistemologia della complessità (Ceruti, 1986). In questo modo
di considerare il mondo, sia che si tratti di turbolenze atmosferiche, di colonie di
insetti o di altre popolazioni animali sottoposte a fluttuazioni erratiche, dello
sviluppo delle malattie epidemiche, dell‟evoluzione dei regimi politici, di reti di
telecomunicazioni, di movimenti sociali o di andamento dei mercati azionari, [si
sostiene che] i sistemi complessi dinamici – insiemi aperti e instabili – non possono
essere descritti attraverso l‟analisi classica, che consiste nel segmentare il tutto e
nel cercare di comprenderlo attraverso la scomposizione delle sue funzioni
elementari. (Benkirane, 2002, p. 9) .
Nella visione complessa31 della realtà si attribuisce un ruolo privilegiato a
termini e concetti quali entropia, casualità, caos e, non ultimo, appunto,
interdipendenza.
Un‟utile esemplificazione, in questo senso, ci viene dal cosiddetto effetto
farfalla.
Sebbene l‟origine di questa fortunata espressione non sia del tutto chiara, è
tuttavia assodato che in una pubblicazione apparsa negli anni Sessanta a firma di
Edward Lorenz si dichiarò che anche il battito delle ali dei gabbiani può incidere
sui mutamenti meteorologici. Il concetto fu riaffermato nel 1979 nel corso di una
comunicazione effettuata da Lorenz all‟annuale convegno dell‟American
Association for the Advancement of Science in cui fu però utilizzata la più
suggestiva immagine del battito delle ali di una farfalla (Gleick, 1987).
L‟effetto, che esprime la cosiddetta “dipendenza sensibile dalle condizioni
iniziali”, afferma che ad infinitesime variazioni delle condizioni di contorno o, se

31
Può essere interessante evidenziare le differenze esistenti tra due aggettivi – complesso e complicato – spesso
utilizzati erroneamente come sinonimi; mentre il primo deriva infatti dal latino cum plexum (tessuto insieme),
suggerendo quindi l‟idea dell‟intreccio delle parti o delle componenti di un sistema – sia esso fisico, biologico o
sociale – il secondo deriva da cum plicum ed indica pertanto la piega di un foglio. “La complicatezza rimanda
quindi alla linearità del plicum, mentre la complessità ci fa percepire l‟interconnessione del plexum.” (De Toni,
Comello, 2005, p.13)

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preferisce, di ingresso, corrispondono notevoli variazioni, sia pure sempre finite, in


uscita. Nei sistemi complessi, come quello climatico, se si modificano cioè in modo
anche minimo i dati di input, si incide consistentemente sul processo e pertanto sul
risultato finale32.
Nonostante il carattere scientificamente innovativo dell‟affermazione di
Lorenz, il concetto non era però ignoto, tant‟è che nel folklore si possono
rintracciare molti aneddoti e storie, come quella citata da Gleick (1987) e Smith
(2007), in cui eventi assolutamente marginali producono, grazie ad
interconnessioni “improbabili”, conseguenze inimmaginabili33.
Tornando al concetto di globalizzazione, e facendo tesoro di quanto detto a
proposito dell‟effetto farfalla, è evidente che ogni realtà “locale”, intendendo con
questo termine uno spazio – si pensi ad un quartiere, un piccolo paese o una zona
del pianeta piuttosto isolata – geograficamente e territorialmente identificabile, è
sempre all‟interno di circuiti più vasti e dunque anche quello più isolato non è che
un microambiente di un sistema globale che non può che influenzarne le
caratteristiche ed esserne naturalmente influenzato34: in sostanza, nulla è scindibile
dal sistema a cui appartiene.
L‟interdipendenza di cui si sta parlando richiama ovviamente anche logiche
causali diverse da quella lineare, così cara alla scienza classica (Pennella, 2003,
2005).
Se si ragiona infatti in termini di globalizzazione o, se si preferisce, di
sistema, non si può più pensare di poter spiegare i fenomeni – poco importa se
naturali o culturali, ammesso che questa distinzione possa essere ancora sostenuta –

32
L‟effetto farfalla ci consente, tra l‟altro, di comprendere le difficoltà dei meteorologi a formulare previsioni a
lungo termine attendibili per i fenomeni atmosferici: la questione, infatti, è che qualsiasi modello finito che tenti
di simulare un sistema complesso deve necessariamente escludere alcune informazioni sulle condizioni iniziali,
informazioni che, pur minime, incidono tuttavia in modo rilevante sulla previsione in quanto, cumulando
progressivamente il loro effetto, fanno sì che l‟errore residuo nella simulazione superi il risultato stesso.
33
La storia a cui ci si riferisce è la seguente: “Per colpa di un chiodo si perse lo zoccolo; per colpa di uno
zoccolo si perse il cavallo; per colpa di un cavallo si perse il cavaliere; per colpa di un cavaliere si perse la
battaglia; per colpa di una battaglia si perse un regno!”
34
Lampante, in questa prospettiva, il problema dello smaltimento dei rifiuti solidi lasciati dagli alpinisti
occidentali sulle pendici dell‟Everest.

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all‟interno di semplici connessioni lineari in cui l‟evento “A” determina l‟evento


“B”, in cui cioè qualcosa è sempre e solo l‟esito di un‟unica causa, ma si deve
prendere in considerazione meccanismi fondati sulla retroattività, l‟iterazione, ecc.
Giunti a questo punto il lettore potrebbe chiedersi il motivo di questi
richiami ad ambiti disciplinari piuttosto distanti da quello proprio di chi scrive: in
fondo, il mutamento prospettico indotto dall‟epistemologia della complessità è
ormai noto e soffermarsi così a lungo su di esso per avviare un discorso lo
renderebbe un ipertrofico artificio retorico. In realtà, quanto detto finora non è un
mero incipit, al contrario, aiuta a tratteggiare lo scenario in cui inscrivere le nostre
riflessioni in merito al tema della mentalizzazione e a fornire ad esse interessanti
supporti analogici. D‟altro canto, come ci ha ricordato Edgar Morin, è sempre
necessario contestualizzare ogni evento, ogni fatto, invece di isolarlo. Tutti gli
sforzi volti non tanto a isolare un‟informazione o un oggetto di conoscenza, quanto
ad inserirlo nel suo contesto, possono essere d‟aiuto. Credo che ogni sollecitazione
a contestualizzare e a globalizzare possa essere estremamente utile a ciascuno di
noi, tanto nella vita quotidiana quanto nelle riflessioni riguardanti i grandi problemi
mondiali. (Morin, 2002, p. 26).
Per saldare quanto detto al concetto di mentalizzazione iniziamo col dire
che il processo culturale e scientifico a cui ci si sta riferendo non ha caratterizzato
solo le scienze nomotetiche ma anche quelle idiografiche, in modo particolare
alcuni settori della psicologia clinica, della psicoterapia e della psicoanalisi. Anche
in queste discipline si è infatti affiancata ad una prospettiva centrata sull‟individuo,
coerente ad un paradigma monopersonale in cui il fenomeno “locale” viene scisso
dalle relazioni in cui è inscritto, una visione in cui si è attenti anche all‟interazione
psicologo-cliente o psicoterapeuta-paziente e al contesto – nello specifico il setting
(Pennella, 2002; 2004) – in cui e con cui si sviluppa l‟interazione stessa.
A questo punto, parliamo brevemente di mentalizzazione.
In linea con Fonagy e coll. (cfr. Fonagy, Target, 2000; Fonagy, 2002; Allen,
Fonagy, 2006) possiamo intenderla come una serie di processi psicologici che

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rinviano alla capacità di effettuare ipotesi e riflessioni sul proprio e sull‟altrui


comportamento considerando questo ultimo l‟espressione di stati mentali, quali
sentimenti, convinzioni, intenzioni, desideri, ecc. In sostanza, il termine
mentalizzazione si riferisce alla capacità di “percepire in modo immaginativo e
interpretare il comportamento come connesso a stati mentali intenzionali” (Allen,
2006, p. 37).
Naturalmente si tratta di un processo sia esplicito che implicito, si può
infatti riflettere e parlare degli stati mentali in modo consapevole, ma li si può
anche cogliere in modo automatico ed intuitivo, tant‟è che si parla di affettività
mentalizzata per indicare proprio la capacità di vivere i propri affetti continuando
ad essere immersi in essi.
Di fatto, il concetto di mentalizzazione evoca una serie di altri costrutti da
tempo utilizzati in psicologia, basti pensare all‟introspezione e al mindfulness, alla
capacità cioè di vivere pienamente l‟esperienza durante il suo evolversi, di essere
nel momento presente, per dirla con Daniel Stern (2004), ma anche alla
alexithymia, termine coniato da Sifneos nella prima metà degli anni Settanta per
denominare un disturbo affettivo-cognitivo che si esprime proprio in una
particolare difficoltà a vivere, identificare e comunicare le emozioni. La marcata
difficoltà a descrivere le emozioni e ad esserne consapevoli, la riduzione delle
attività mentali connesse all‟immaginazione con una parallela e consistente
centratura sugli aspetti più concreti dell‟ambiente esterno e del proprio corpo sono
infatti tutti elementi che Sifneos ha rilevato nei pazienti psicosomatici e che
possono essere ricondotti all‟interno di un deficit della funzione riflessiva (Amadei,
2006).
Si può inoltre considerare il concetto di mentalizzazione una sorta di ponte
tra lo psichico e il somatico. Nel momento infatti in cui se ne dichiara il carattere
sia esplicito che implicito (Allen, 2006) non si può che istituire una connessione tra
la funzione riflessiva ed il concetto di coscienza.

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In effetti, quando si parla oggi di coscienza come funzione propria agli


esseri umani, non si fa riferimento solo alla consapevolezza di ciò che accade nel
momento in cui accade, ma ci si riferisce anche e specialmente alla
autoconsapevolezza o autocoscienza, alla possibilità cioè di poter pensare le
proprie percezioni ed emozioni, di poterle collocare nel presente e nel passato, di
inserirle in una rappresentazione integrata di Sé. La coscienza, così come la
intendiamo normalmente, è quindi molto di più della semplice consapevolezza dei
nostri stati interni, è una funzione continua di accoppiamento che raccorda, in una
costante oscillazione, gli stati attuali e pregressi del Sé con quelli correnti del
mondo esterno (Chiodi, 2004).
Per fare un esempio piuttosto banale, quando si inizia a percepire un dolore
fisico, la coscienza non consente solo di coglierne l‟insorgenza ma ne individua
anche la sede e la possibile causa, ricorda l‟ultima volta in cui si è avvertito
qualcosa di analogo – cosa che agevola l‟istituzione di nessi e di possibili
significazioni per quella specifica sensazione – e sviluppa previsioni sul suo
possibile futuro.
Ciò che indichiamo come coscienza è pertanto un fenomeno che si radica in
una serie di elementi (non coscienti) relativi allo stato dell‟organismo, che si
sviluppa in una fugace e transitoria consapevolezza degli eventi esperiti nel “qui ed
ora” e che si organizza infine in una articolata rappresentazione delle esperienze
individuali declinate in un continuum temporale in cui il presente è sempre
associato ad un passato e ad un possibile futuro.
Questa concezione della coscienza, in cui è facile rintracciare il lavoro di
Damasio (1999), evoca però anche la teoria di Matte Blanco (1975) e ci potrebbe
indurre a riflettere sulla possibilità di intendere la mentalizzazione come l‟esito di
una mente in grado di coniugare la “sensazione-sentimento” che lega l‟emozione
alla fisicità – cioè ai suoi inevitabili correlati corporei – ed entrambe al pensiero,
funzione in grado di collegare, grazie alla sua continua istituzione di relazioni, gli
affetti all‟oggetto.

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Fermiamoci tuttavia qui.


Sia pure con brevi note, riteniamo infatti di aver fornito elementi sufficienti
a segnalare ciò che ci interessava e cioè la tendenza ad inscrivere il concetto di
mentalizzazione all‟interno di una prospettiva monopersonale.
In effetti, sembra emergere una diffusa propensione a considerare la
funzione riflessiva una competenza individuale e ciò nonostante ampie evidenze
empiriche dimostrino quanto essa sia in realtà l‟esito di una scarsa qualità delle
relazioni precoci tra il bambino ed il proprio caregiver. Riprendendo quanto detto
nella prima parte del presente lavoro, la mentalizzazione sembra dunque spesso
affrontata nei termini di una “realtà locale” scindibile dal sistema in cui è inserita.
Sebbene questo approccio possa avere una sua utilità sul piano della ricerca
empirica, ci sembra tuttavia legittimo interrogarci sulla sua congruenza con una
prospettiva epistemologica improntata alla complessità e con una prassi clinica
orientata alle relazioni. In sostanza, non potrebbe essere interessante spostare
l‟attenzione dagli individui, in questo caso dalle loro capacità metacognitive, alla
relazione ma anche al campo in cui si sviluppano le interazioni?
Allo scopo di fornire a questa domanda una sia pure parziale e provvisoria
risposta ci sembra utile effettuare una rapida incursione nell‟ambito della fisica.
Seguendo in questo un interessante lavoro di Riolo (1997), è possibile
affermare che per lungo tempo – fino a Newton, per intenderci – si era convinti che
l‟unico modo con cui un corpo poteva incidere su un altro corpo era il contatto, si
affermava cioè che un oggetto poteva influenzarne un altro solo attraverso una
spinta, una trazione o un urto. La teoria della gravitazione universale dimostrò
invece che due oggetti possono interagire tra loro ed influenzarsi reciprocamente
anche a distanza, in assenza cioè di una relazione diretta. Il fenomeno dell‟azione a
distanza tra corpi trovò una spiegazione solo alla fine dell‟Ottocento grazie alla
teoria dei campi elettromagnetici di Farady e Maxwell, il cui assunto è che lo
spazio non è qualcosa di inerte, un mero recipiente di oggetti, bensì un luogo
perturbato soggetto ad intense variazioni di energia.

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Lo spostamento dell‟attenzione dagli oggetti alle relazioni esistenti tra gli


oggetti appare ancora più evidente nella teoria della relatività. Einstein ed Infeld
affermarono infatti che ogni interazione (elettrica, magnetica, gravitazionale) può
essere descritta in termini di campo, con cui non si indica però una regione dello
spazio (ad esempio la regione intorno ad una carica elettrica) ma l‟insieme dei
valori che una determinata grandezza fisica assume in una particolare sezione dello
spazio-tempo: il campo non è cioè un luogo in cui avvengono degli eventi ma è una
distribuzione di intensità.
In tempi immediatamente successivi, grazie alla teoria quantistica, la fisica
giunse a considerare i corpi ed il campo fenomeni complementari: la materia può
essere infatti descritta in termini di stati energetici discontinui – i “quanti” appunto
– che possono manifestarsi sia come particelle, corpi o sostanze, sia come onde,
radiazioni o campi.
Applicando in termini analogici quanto appena detto alla pratica clinica,
potremmo pensare che ciò che appare come un fenomeno meramente individuale –
le competenze metacognitive del soggetto – potrebbe essere considerata
un‟espressione del campo. Potremmo cioè dire che la capacità a mentalizzare è sì
una competenza individuale ma anche uno stato discontinuo del campo bipersonale
che si manifesta nella maggiore o minore capacità della coppia ad elaborare un
pensiero sugli stati mentali. In sostanza, la mentalizzazione sarebbe espressione di
un campo in perenne trasformazione, che implica un‟impossibilità che qualcosa
rimanga al di fuori di esso, una volta che ci sia quel Big Bang che prende vita dai
mondi possibili generati dall‟incontro di paziente ed analista all‟interno del setting
[…] Il campo ha dunque una natura oscillatoria tra continua apertura di senso […]
da un lato e ineluttabile chiusura di senso e rinuncia a tutte le storie possibili a
favore di quella che maggiormente urge di essere raccontata. (Ferro, 2007, p. 65).
In questa prospettiva, le difficoltà che si evidenziano in alcune relazioni
cliniche e che si concretizzano in un soffocante invischiamento sui “fatti” e nella
incapacità a sviluppare associazioni, raccontano un campo in cui la funzione

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riflessiva della coppia risulta insufficiente a sviluppare ipotesi e riflessioni sugli


stati mentali. Questa defaillance ostacola l‟accesso alla natura rappresentativa del
proprio e dell‟altrui pensiero incrementando la vulnerabilità di entrambi i soggetti
alla eterogeneità fenomenica dei comportamenti espressi nel corso della relazione.
In questa condizione, ci si trova nella impossibilità di andare oltre la realtà
immediata dell‟esperienza, a cogliere quindi le differenze esistenti tra apparenza e
significato, tra comportamento e stato mentale sotteso.
In questo assetto, che può caratterizzare il campo in modo momentaneo o
durevole, ci si trova nella impossibilità a sviluppare un‟effettiva alleanza
terapeutica (Lingiardi, 2002; Pennella, Grasso, 2009) e, conseguentemente, una
relazione produttiva fondata sul miglioramento della propria capacità di
comprendere ed intervenire sulla relazione all‟interno di un contesto (setting) che si
condivide con l‟altro.
Quanto detto non stupisce se si considera il fatto che la mentalizzazione
concorre all‟adattamento nell‟ambito delle relazioni sociali, in cui ovviamente
rientra anche il colloquio clinico.
Fonagy (2006), ad esempio, ci ricorda che ogni essere vivente può adattarsi
e sopravvivere solo se è in grado di fronteggiare con successo le forze ostili della
natura e la competizione con i propri conspecifici. La possibilità di aggregarsi in
gruppi più o meno estesi, di costituire cioè una rete di relazioni fondata sulla
condivisione di comportamenti e strategie, offre a tutti gli esseri viventi un
vantaggio competitivo che può essere ulteriormente rinforzato laddove si riesca a
perfezionare la capacità di comprendere interessi, obiettivi ed intenzioni dell‟altro.
Nel momento in cui si raggiunge una buona capacità comunicativa e si riesce a
formulare inferenze sugli stati mentali dell‟altro è infatti possibile non solo
condividere meglio all‟interno del proprio gruppo una specifica rappresentazioni
della realtà, ma è anche possibile elaborare in modo anticipato e più efficace le
contro-strategie da attuare nei confronti di chi si ritiene nemico. Partendo quindi
dall‟assunto che è la mente a governare le nostre azioni “la possibilità di

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interpretare e anticipare il comportamento permette la cooperazione, offre un


vantaggio competitivo e seleziona continuamente nella direzione di livelli sempre
più alti di capacità interpretativa sociale” (Fonagy, 2006, p. 95).
Se dunque dal vertice individuale la capacità di riconoscere nell‟altro
emozioni, desideri, intenzioni può aiutare la persona ad elaborare una teoria della
mente con cui spiegare il proprio e l‟altrui comportamento, dal punto di vista delle
relazioni sociali la funzione riflessiva consente lo sviluppo di progetti e strategie
comuni e condivise, di definire obiettivi in cui ciascuno può riconoscersi ma anche
riconoscere l‟altro. Per questo motivo, riteniamo possibile considerare la
mentalizzazione un indicatore della competenza sociale ad istituire relazioni in cui
l‟altro non è un oggetto che può o deve essere controllato o distrutto – come accade
al buon Jourdain nel suo rapporto con gli aristocratici – ma un soggetto che si
comprende e con cui è possibile una proficua relazione di scambio. Non a caso,
quando interagiamo in una modalità mentalizzante, cerchiamo di capirci l‟un l‟altro
come persone autonome e di influenzarci a vicenda sulla base di ciò che abbiamo
capito. In una modalità non mentalizzante, possiamo disumanizzarci e trattarci l‟un
l‟altro come oggetti, diventando coercitivi e controllanti. Se mentalizziamo
possiamo persuadere l‟altro a desistere; se non riusciamo a mentalizzare possiamo
solo metterlo da una parte con una spinta. (Allen, 2006, p. 38).
Nel momento in cui non è possibile pensare i nostri e gli altrui stati mentali,
elaborare inferenze sui bisogni, i desideri e le motivazioni di noi stessi e degli altri
non c‟è infatti altra strada che agire le emozioni, cosa che svuota però le persone di
ogni “umanità” rendendo il campo un luogo in cui è possibile solo evacuare in
allucinazioni, malattie psicosomatiche, comportamenti delinquenziali le emozioni
che non si è stati in grado di elaborare grazie e all‟interno della relazione.

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Clinica

DALL’IDEM TRANSGENERAZIONALE ALL’IPSE, IN UN SÉ


PERTURBATO DALL’ABUSO,
NELLA SITUAZIONE GRUPPOANALITICA

Rocco Filipponeri Pergola


(psicoterapeuta, gruppoanalista
presidente dell‟Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa)

Introduzione

Chi ha oltrepassato una volta la soglia del proprio condominio fa


esperienza della sua esistenza in quanto progetto proprio, ma necessariamente
sperimenta il proprio smarrirsi in quello spazio aperto del possibile, del non
prevedibile.
[Napolitani, 2006, 13]

Intendo premettere che, dal punto di vista, le teorie devono servire solo ad
aiutarci verosimilmente nella comprensione dell‟altro e non devono mai essere
delle strutture identificatorie, degli “oggetti narcisistici”: la verità è nel paziente,
che occorre andare a trovare lì dove egli è; la psicoterapia è infatti una “danza” da
svolgere nell‟incontro tra due o più gruppalità interne, è un evento intersoggettivo,
ove i transfert sono solo trasferimenti di scene, ove occorre aver ipotesi multiple e
non risposte precostituite. La psiche umana, soprattutto nella sua dimensione

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inconscia, nel suo essere configurata “come insieme infiniti”, che rispondono ad
una bi-logica (per parafrasare Matte Blanco) non può che essere approcciata che
attraverso il paradigma della complessità: per cui l‟avventura analitica non è più
pensabile come semplice nevrosi di transfert, ma coproduzione del vivente
(Racamier, 1990); in tale senso occorre non illudersi circa il capire le cause, il
trovare un‟eziologia identificabile, dal momento che le variabili nella costituzione
dell‟esistere umano sono così tante che sarebbe un delirio pretendere di conoscerle.
Come analista cerco d‟individuare le motivazioni personali (consce ed
inconsce) che stanno all‟origine di una data situazione, presentata dal paziente
come dovuta al caso o determinata da fattori indipendenti dalla sua volontà e dal
suo desiderio; spesso è utile cambiare, temporaneamente, punto di vista ed
interrogarsi se il paziente non abbia invece a che fare con qualcosa che non gli
appartiene, o, meglio, che non appartiene al proprio vero-Sé, al Soggetto e che,
quindi, lo mantiene in cattività, sotto tirannia: coattandolo a vivere secondo i
pensieri, i detti, le pre-dizioni, i pre-giudizi, le aspettative degli altri che sono stati
gli oggetti di relazione fin da quando l‟identità personale si iniziava a strutturare
nel ventre materno; spesso infatti si vive seguendo un destino predefinito,
transgenerazionalmente incistato nella propria matrice identitaria.
Il cammino che porta alla possibilità di prendersi il diritto ad esistere,
all‟individuazione, all‟appropriazione soggettiva (come cercherò di chiarire più
avanti) passa anzitutto attraverso l‟avvento alla coscienza e la messa in parola degli
stati mentali interni, di fronte altri occhi e altre orecchie. “In psicoanalisi la
rimozione non è rimozione di una cosa, ma della verità. Cosa succede quando si
rimuove la verità? L‟intera storia della tirannia è là per darci la risposta: si esprime
altrove, in un altro registro, in un linguaggio cifrato. La verità, rimossa, persisterà
ma trasposta in un altro linguaggio, il linguaggio nevrotico” (J. Lacan, 1957). Ecco
perché “un sano sviluppo mentale sembra dipendere dalla verità, come l‟organismo
vivente dipende dal cibo. Se la verità manca o è incompleta, la personalità si
deteriora” (Bion, 1965, 60).

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1. Un Sé perturbato dall’abuso

Le vicende di un abusato sono preparate da un contesto transgenerazionale


abusante, con il conseguente desiderio di preservare la famiglia, come nel mito di
Edipo, che è spinto a riabilitare il suo Sé percepito come mostruoso; ciò,
ovviamente, rischia di bloccare la possibilità di elaborazione, metabolizzazione e
bonifica successiva; occorre perciò facilitarne la comunicazione, per poter
mentalizzare gli aspetti emotivo-affettivi collegati al trauma dell‟abuso.
L‟abuso è come uno specchio che si rompe, che, da quel momento,
diventerà uno specchio deformante, in maniera indelebile; tale rottura è qualcosa
che ha una storia, in quel luogo, in quel tempo, è successo qualche cosa, più
complessa del dato fisico, e noi dobbiamo riallacciare questo Sé con ciò che è
successo. È sempre un abuso della totalità del Sé: produce una tale lesione del Sé
che influenza tutta la persona; da qui la comorbilità con il disturbo borderline, i
disturbi dissociativi, la bulimia, ma anche le psicosi (Di Luzio, 2010).
L‟abuso, che è spesso non rivelato per paura di non essere creduti, resta non
rivelato anche per non creare problemi a chi riceve la rivelazione. Spesso sembra
essere effettivamente la cosa meno traumatica che l‟abuso rimanga nascosto. Si
tratta di un non detto che diviene, per i bambini portatori del segreto taciuto
(segreto criptato), una sofferenza rappresentabile ma indicibile (che non si ha il
diritto di raccontare), che si inscrive, “s‟incripta nell‟inconscio come una struttura
interna”. Spesso “si tratta di un “segreto di famiglia” taciuto volontariamente,
affinché non si abbia conoscenza di qualcosa di vergognoso” (Schützenberger,
2006, 85) ove ciò che diventa dannoso sono proprio “le interedizioni a sapere e a
lasciare che qualcuno sappia.
Il perturbamento lesivo del Sé da parte dell‟abuso, compromette la totalità
del Sé. Mollon (2001) afferma che l‟abuso danneggia tutte le sette dimensioni
funzionali dell‟esperienza del Sé: la differenziazione del Sé, il Sé soggettivo (senso
di essere causa delle proprie azioni), il Sé oggettivo (immagine di sé e autostima; la

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struttura e organizzazione del Sé (senso di coesione, coerenza e integrità del Sé),


l‟equilibrio tra Sé soggettivo e Sé oggettivo (grado di adattamento eccessivo verso
l‟altro; il senso illusionale di autosufficienza; il senso di continuità (connessione
temporale al senso della propria origine). Per quanto esposto appare evidente come
l‟abuso sia sempre un evento lesivo della totalità della persona con conseguenze
gravi e permanenti sullo sviluppo psichico e con esito in disturbi psichiatrici severi.
Il senso di negativizzazione del Sé, è un colonizzatore che ti alienizza tutto:
“niente è tuo!”Nel disturbo di attribuzione soggettiva (Cahn, 1999) la persona non
si attribuisce delle cose, il Sé non si da attribuzione di valore di parti di Sé. Perciò
qui c‟è in gioco l‟intero Sé.
Il confondimento che la relazione perversa genera in una psiche ancora non
matura, determina l‟immissione di contenuti ed esperienze di difficile
elaborazione. La sopravvivenza dell‟integrità psichica richiede l‟intervento
massiccio di meccanismi difensivi, tra cui quelli “classici”: rimozione, negazione,
scissione,isolamento, etc. (Di Luzio, 2010). Gli esiti psicopatologici a volte
derivano più dai meccanismi di difesa che si strutturano rigidamente che dalla
violenza stessa del trauma.
Il fenomeno che in genere si osserva è che le figure abusanti sono
idealizzate positivamente dalla vittima che invece idealizza se stesso
negativamente, cosa che contribuisce all‟ esperienza del “Sé negativo- mostro” (Di
Luzio, 2010). Il gruppo può rimandare una visione diversa: “Ma dov‟è questo
mostro?”, così sminuendo tale fantasia di mostruosità, di inadeguatezza,
d‟impresentabilità del proprio Sé, in un nuovo rispecchiamento, capace di
costituirsi come esperienza alternativa a quello specchio rotto di cui ho fatto cenno
sopra, in riferimento a quanto avviene per un Sé abusato (Di Luzio, 2010).
Il disagio e/o la malattia psichica, va vista come la trasformazione
sintomatica dell‟angoscia dovuta al perseguitante familiare, al com-plexus (Foulks,
1975, 26, 30) che attacca l‟individuazione: anziché riconoscere mostruoso il
familiare, diventa mostruosa l‟individuazione, essendo troppo difficile, da soli,

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vedere le parti patologiche del familiare (come Edipo non voleva vedere il
figlicidio di Laio).
Altro aspetto particolarmente rilevante dell‟abuso è quello di essere
soggetto ad un fenomeno di minimizzazione/negazione” sia intra-psichica che
extrapsichica contesto relazionale (fenomeni collegati sono la“normalizzazione”, la
“negazione culturale” degli abusi; la scotomizzazione dell‟abuso in Psicoanalisi,
come nel caso di Edipo di cui Di Luzio (2010) propone una lettura come mito
dell‟abuso. La Schützenberger (2006) fa notare come sia anche proibito parlarne,
tal che la persona che dovesse percepire le cose correttamente, rischia di essere
punita, di sentirsi in colpa, di essere designata come cattiva o folle, proprio per aver
mostrato che esiste una discordanza tra ciò che vede (percepisce) e ciò che
“dovrebbe” vedere o sentire; questo perché turberebbe l‟omeostasi familiare.
Pertanto, la comprensione e il trattamento debbono comprendere il contesto
relazionale abusante, il com-plexus.
Come ipotizzato da Di Luzio (2010 la perturbazione psichica da abuso
determina la strutturazione di una configurazione del Sé definibile come “Sé
negativo”, a cui consegue una perdita del diritto all‟esistenza e del valore di Sé.
Occorre, in tali casi, focalizzarsi sull‟analisi del “Sé negativo” e il processo di
disidentificazione da esso, i meccanismi di difesa relativi al trauma, l‟analisi del
contesto abusante).
Come abbiamo notato nel caso di G., in situazioni di abuso, si struttura
anche un Super-Io arcaico, particolarmente persecutorio, come legge contenente il
tabù arcaico all‟individuazione. Come Edipo, ci si sente mostruoso, omicida: in
realtà perché ti viene proibito il diritto alla vita secondo il proprio vero-Sé. (Di
Luzio, 2010). Edipo, infatti, , si ritrova da vittima di genitori abusanti (il padre ha
tentato di ucciderlo, la madre lo costretto a nascere ubriacando un padre che non
lo voleva) a diventare il “mostro parricida ed incestuoso”. Sembra esserci un
capovolgimento: da vittima di una mostruosità transgenerazionale egli diventa il
mostro nei confronti di quel transgenerazionale che lo ha abusato. Il mito sembra

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rispecchiare il fatto che i nostri pazienti, ugualmente vittime di accudimenti


patologicamente “mostruosi” da parte di familiari, anch‟essi come Edipo, si
percepiscano spesso come portatori di una “mostruosità”, la quale, anziché venir
collocata nella storia relazionale familiare viene ad essere iscritta nella loro
identità.

2. Il caso di G.

G., operatore sanitario nel campo nella salute mentale, trentacinquenne,


tutt‟ora in analisi in setting bimodale (una seduta individuale e una di gruppo) è
stato sessualmente abusato dalla madre e ripetutamente dallo zio materno, dall‟età
di otto all‟età di dieci anni. La madre gli faceva toccare la vagina, e fare la doccia
con lei “mettendogli la vagina sulla testa”, dalla quale esperienza, dichiara, gli è
derivata “nausea per il corpo femminile”.
Si è presentato, all‟inizio dell‟analisi, con una situazione di franca
identificazione omosessuale, anche se non agita, e con un estremo sentimento di
impresentabilità e di inadeguatezza di sé; attualmente sta esplorando l‟area
dell‟eterosessualità.
Il padre, alcoolista, era morto anni prima, allontanato e disprezzato per il
suo disturbo dalla madre, la quale si era servita del figlio come “maschio
sostituto”, sia per rimpiazzare il padre sollevandosi dalla sua depressione, sia per
proteggersi da tale marito, tanto che G. è stato anche fisicamente usato dalla madre,
venendo interposto, nel letto, tra lei e il marito quando questi, tornando a casa
ubriaco, voleva avere rapporti sessuali con lei: lui scalciava, era anche enuretico e
la madre presentava questo letto intriso di urina come ostacolo al rapporto con il
marito. Le sedute sono sempre state ricolme del dolore e del vuoto dovuto al
l‟assenza della figura paterna.

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Il resto del com-plexus familiare è composto da: un fratello più grande, che
G. riferisce di averlo sempre svalutato, minimizzando ogni suo successo negli studi
e nella professione (G. è l‟unico che riesce a laurearsi e specializzarsi, dopo essersi
mantenuto negli studi con il proprio lavoro); da una sorella, sempre più grande,
che, come G. riferisce, avrebbe voluto una sorellina con cui giocare e che lo
trattava come un “cicciobello” da piccolo, baciandolo continuamente e portandolo
in giro dalle sue amiche, con grande suo fastidio; c‟è poi lo zio materno, non
sposato e anch‟esso disprezzato dalla madre (di cui è il fratello minore) da cui G.
ha subito continuativi abusi.

2.1. All’inizio del trattamento

La storia di relazioni sopra accennata, in gran parte perverse, subite nella


preadolescenza, avevano condotto G. ad una radicata sofferenza caratterizzata da:
identificazione omosessuale, percezione di un Sé spregevole e colpevole, rilevanti
difficoltà di rapporto con le figure maschili, sentimenti di inadeguatezza
nell‟affrontare il rapporto con donne per quanto esso non venisse del tutto escluso
ed infine deficit di regolazione dell‟autostima nella sua espressione lavorativa.
All‟inizio del trattamento, l‟immagine di sé di G. risultava compromessa
nell‟autovalorizzazione positiva (autostima) e connotata da profonda vergogna e
spinte autolesionistiche. Infatti, in casi di abuso intrafamiliare (Di Luzio, 2010)
come nel caso di G, l‟integrazione e la coesione del Sé è frammentata in scissioni
verticali che danno luogo a stati dissociativi fino alla comparsa di Sé multipli, come
meglio cercheremo di spiegare nel successivo capitolo di carattere più teorico; c‟è
uno squilibrio del soggetto verso l‟altro con la strutturazione di un Sé compiacente
verso i desideri e progetti dell‟altro; il grado di autosufficienza è di tipo
onnipotente illusorio con ritiro dal campo interpersonale; il senso di continuità con

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le proprie origini è interrotto vista la difficoltà di sentire di appartenere ad un


mondo familiare abusante o in-quietante/familiare (Di Luzio, 2010).
Il nostro paziente si era identificato con il mostro transgenerazionale: da
vittima di un accudimento mostruoso da parte di familiari abusanti, per anni si è
percepito come portatore di una mostruosità, che invece di venire collocata in una
storia relazionale familiare, veniva iscritta nella propria identità.
G. da bambino ha subito un terremoto psichico, per l‟abuso subito da parte
di persone idealizzate: nel sistema motivazionale dell‟attaccamento, è stato
brutalmente introdotto il sistema motivazionale della sessualità, una cosa adulta,
estremamente forte, creando uno spiazzamento, un terremoto psichico in un sistema
psiconeurale in evoluzione, un‟esplosione, che ha distrutto la comprensione di quel
che stava avvenendo nel mondo.
In G. si è poi attuato un meccanismo di “secretamento” (Di Luzio, 2010) ,
con tutta la complessità di una strutturazione del Sé caratterizzato da un sentimento
d‟impresentabilità e inadeguatezza. G., per sopravvivere, elaborava tutta la vicenda
come una colpa, iscritta nel Sé, prendendo la macchia che gli veniva messa addosso
e lasciandola divenire propria identità.

2.2. Il “Sé negativo” e il Super-Io arcaico

Mi focalizzerò su un aspetto limitato ma centrale della lesione del Sé, quella


che riguarda l‟immagine a l‟autovalutazione di sé. Nel caso di G. l‟abuso ha
determinato una particolare strutturazione del Sé definibile come “Sé negativo”.
Con questa denominazione Di Luzio (2010) si riferisce “al sentimento diffuso,
persistente e radicato di avere, dentro di sé, una negatività variamente descritta
come, macchia oscura, difettosità, bruttezza, mostruosità, colpa, una inadeguatezza,
impresentabilità, diversità, iscritta nel cuore della propria identità, nel proprio Sé”.

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L‟abuso, come quasi sempre avviene, nel nostro caso, è stato trasformato in
un‟istanza moralistica che impedisce di vivere il diritto ad esistere. “Lui,
l‟abusante, è sbagliato”, viene trasformato in un istanza superegoica arcaica,
tirannica, che in realtà incorpora un deficit da accudimento (Neri, Tagliacozzo et
alii, 1989).
G. viveva un‟identità impresentabile, per questo l‟analisi si è focalizzata sul
Sé negativo e sul processo di disidentificazione da esso e sul contesto abusante. G.
all‟inizio era identificato con un ruolo omosessuale ma successivamente si è
progressivamente avvicinato all‟ area della eterosessualità e ha elaborato le angosce
riguardanti il femminile, comprendendo la funzione difensiva della sua
omosessualità e si è distaccato dall‟autosvalutazione.
G., all‟inizio del processo terapeutico, è apparso profondamente
condizionato da questo Sé negativo, risultatandone compromesso soprattutto il
sentire di aver diritto all‟esistenza ed il sentire di essere dotati di consistenza e
valore (Di Luzio, 2010). Inoltre il paziente soffre, da questo punto di vista, di una
vera menomazione psichica: non si sente degno di “presentarsi” e di “lasciarsi
vedere” dal mondo e di lì deriva una strutturata tendenza autolesionistica, in alcuni
casi sotto forma di masochismo morale in altri di agiti auto-lesivi (cutting, agiti
autodistruttivi, ecc.,...); sul piano relazionale, un paziente del genere, sovente può
essere indotto verso rapporti in cui verrà di nuovo abusato e svalutato. La propria
immagine psichica e, nel caso dei disturbi alimentari anoressico-bulimici, anche
quella fisica, viene percepita come difettosa, brutta, mostruosa, inadeguata,
inaccettabile (Di Luzio, 2010).
In persone che hanno subito tale tipo di abuso, tutte le altre manifestazioni
psicopatologiche sembrano esprimere, con modalità ambivalente, o la
rappresentazione di questa immagine negativa contro cui agire in modo
autodistruttivo e autopunitivo (vedi in Edipo l‟auto-accecazione) o al contrario la
riparazione di essa attraverso un falso-Sé, compiacente, idealizzato, perfezionista.

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Anche l‟area della sessualità ed il lavoro risentono di questa dinamica oscillando


tra stati di autosvalutazione e di autoidealizzazione (Di Luzio, 2010).
Come già rilevato, in G., che si vive come portatore di una colpa, c‟è una
colpevolizzazione come esito dell‟abuso, in cui la mostruosità diventa il mostro,
attivando una funzione di riparazione della donna-madre depressa perché delusa
dall‟uomo; così come l‟attuale ragazza, che aveva voglia di avere un figlio con G.,
il quale, però, ha preferito prendere in affidamento, come riprenderò più avanti, un
ragazzo diciottenne, “come figlio”; ragazza che, in collusione, aspetta solo la sua
partita di posta, mentre lui sembra non riconoscersi il diritto ad avere una sua
partita di giro, risentendo delle sue scelte come deludente.
G. è portato a riparare la colpa, da cui l‟ideale perfezionistico, incastrato
nella famiglia, per attoppare le qualità dell‟uomo che è il padre, nella relazione col
femminile ripete tale situazione trovandosi una donna che ha aspettative ideali di
fusione e generatività; tanto che, con il ragazzo preso, ha commesso un‟insanabile
colpa non rivelandosi adeguato al compito potente perfezionistico.
G. ha avuto una limitazione del diritto ad esistere secondo i propri desideri,
dovendo compiacere gli altri per farsi accettare. Durante la pausa estiva, si sono
amplificate, ad esempio, le ansie che la terapia alimenta, in un primo momento, del
tipo: “Mi hai abilitato a venire nel mondo, ma ora come ci rimango, senza
protezione?”; con la ripresa, ultimamente, si evidenzia invece quella che Di Luzio
definisce la “sindrome del bluef” (vedi più avanti il paragrafo 1.4.2.) per cui, di
fronte a troppi cambiamenti positivi, c‟è un ritiro, causato da una sensazione che
quanto si è raggiunto, non sia mai sufficientemente vero e accettabile, ma solo, per
l‟appunto, un “bluef” di cui vergognarsi. La terapia, d‟altronde, è bene precisarlo,
toglie solo le nebbie, disinquina il campo, poi la persona è chiamata ad affrontare
da sola le frustrazioni della vita.

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2.3. Il Sé transgenerazionale e l’identificazione omosessuale

In G. l‟identificazione con la posizione omosessuale ha la funzione,


nell‟economia psichica, di mantenere l‟abuso: lui aveva accettato l‟imprinting di
“bambolotto sessuale”, il lavoro analitico sembra sia servito anche per “togliere”
l‟interdizione all‟eterosessualità. Per il nostro paziente, infatti, l‟identificazione
omosessuale sembra configurarsi come un residuo della struttura ereditata dal suo
transgenerazionale, in cui lui poi si è incistato, per proteggere il Sé; un Sé
svalutato, che si sarebbe disgregato, se si fosse presentato ad una donna, con il
sentimento di inadeguatezza, mostruosità, impresentabilità; pertanto tale struttura
ha avuto il compito di tenerlo lontano dall‟oggetto. In questo senso ci sembra di
poter pensare che G. non sia omosessuale, ma abbia attraversato un‟inibizione
all‟eterosessualità e un‟identificazione omosessuale cor-rispondente al mandato
transgenerazionale matrilineare.
Kohut (1977) sostiene che in alcuni casi l‟attività sessuale comprende il
tentativo disperato di ristabilire l‟integrità e la coesione del Sé in assenza di
risposte empatiche da oggetto-Sé da parte degli altri (idem). Alcune fantasie e
comportamenti sessuali, secondo Kohut, aiutano il paziente che teme
inconsciamente l‟abbandono o la separazione, permettendogli di sentirsi vivo e
integro. Per lo psicologo del Sé, la pulsione agita risulta essere la conseguenza
della disintegrazione dell‟unità interna e viene quindi utilizzata nella ricerca di
recuperare la fusione (riparazione del Sé) naturalmente in modo patologico,
parziale o illusorio.
A questo punto occorre precisare che non condivido alcun tipo di terapia
ripartiva dell‟omosessualità in quanto tale, per chi è omosessuale. Lo stesso Kohut
sostiene infatti che i soggetti omosessuali hanno suscettibilità ad eventuali
problemi, né più e né meno di gran parte dei soggetti eterosessuali. Infatti “ci sono
alcuni tipi di relazione eterosessuale con componenti fortemente narcisistiche”,
mentre “si incontrano rapporti stabili e duraturi tra omosessuali in cui il partner è

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riconosciuto ed amato senza dubbio come un essere umano indipendente a cui è


concesso un certo grado di diversità da sé” (Kohut, 1987, 51). Chiarisco perciò
espressamente, a scanso di equivoci, che il “focus” dell‟attenzione, ossia la
preoccupazione per uno sviluppo ideale del nostro caso, non è pertanto
l‟orientamento sessuale, ma il considerare la conservazione del senso d‟identità e
continuità personale, in base al significato e all‟intensità delle esperienze sessuali al
servizio di tale conservazione. Come tutti gli studi certificano, credo, infatti che la
persona omosessuale può avere un‟identità psichica integrata, matura e suscettibile
alla patologia né più né meno di quella eterosessuale, e che ogni tentativo di
modificare l‟orientamento sessuale avrebbe conseguenze dolorose e dannose per
l‟individuo e per la società.
Il fatto è che, nel nostro caso, non ci è sembrato trattarsi di una
strutturazione omosessuale, ma piuttosto, ribadisco, di un‟identificazione
omosessuale non appartenente al vero-Sé di G., reattiva, nonché depositaria di un
transgenerazionale, nei sensi che cerco di precisare di seguito. Inoltre, l‟incastro tra
identificazione narcisistica con la madre ed esclusione del padre (Chasseguet-
Smirgel, 1985) sembra piuttosto evidente nella storia di G..
Tale identificazione, con cui G. si è presentato all‟inizio, è stata espressione
di un suo modo di avere il padre, per quanto deteriorato dalla madre, quindi come
tentativo di colmare il buco nell‟esperienza paterna vissuta come quasi inesistente,
tentativo attualizzato anche nel cedere, colludendo nel rapporto con lo zio, come
sessualizzazione del desiderio. D‟altronde, nel contesto abusante, avviene sempre
qualcosa che s‟incastra tra la vulnerabilità del bambino e la patologia del contesto.
Lo zio rientrava nella concezione del maschile visto come schifezza: idea attinta
dalla cultura della madre, per cui non era possibile un maschile, se non svalutato.
L‟identificazione omosessuale è stata anche un modo per svincolarsi dal
soffocante abbraccio della madre che gli aveva pro-posto un femminile oppressivo
e incestuoso; in tal senso abbiamo ipotizzato trattarsi più propriamente di
un‟inibizione all‟eterosessualità. Tale identificazione sarebbe frutto di una

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rappresentazione di un Sé inadeguato, come conferma di un maschile


transgenerazionalmente degradato, mostruoso, patologico; tanto che la terapia ha
vertito sulla disidentificazione a tale Sé mostruoso maschile, che gli è stato
incistato transgenerazionalmente.
Per G. è difficile vedersi diversamente da come si è stati visti in famiglia e
il processo di disidentificazione dal posto assegnato nella trama familiare, porta con
sé ansie e angosce persecutorie notevoli, all‟inizio, che obbligano a inscenare vari
meccanismi di difesa. Ad esempio, dopo il primo bacio con colei che è stata la sua
prima, effettiva, ragazza, è dovuto fuggire di corsa a casa per andare in bagno con
scariche diarroiche, lamentando anche successivi problemi intestinali: l‟ansia si è
espressa con il sentirsi intossicati da qualcosa dentro, perciò è occorsa
un‟espulsione, anche fisica. Giova forse far cenno che tale processo espulsivo è
tipico di un altro componente del gruppo, che ha continui problemi con la
defecazione: in momenti di ansia, per più e più volte al giorno, “se la fa,
letteralmente, sotto”. Inoltre, è interessante rilevare il tipo di ragazza che G. si è
trovato una compagna con cui vive una situazione transferale ripetitiva; la ragazza,
infatti, sembra vederlo solo in funzione dei suoi bisogni: per procreare un figlio e
avere un tamponamento alle sue esigenze affettive, un po‟ come la madre e la
sorella, che volevano un “bambolotto bello” da coccolare.
Solo ad un certo punto il processo di autoriflessione stigmatizzabile
nell‟espressione: “Io mi sono visto sempre così, ma sarò così?”, mette in moto il
processo di ri-valutazione dell‟immagine di Sé; anche se molto difficilmente si
riesce a rinunciare a tale parte del Sé che è il figlio che è stato amato. In ogni caso,
per G.. aver facilitato l‟esplorazione dell‟eterosessualità, ha avuto lo scopo di
evitare la concretizzazione del fantasma familiare veicolato dalla linea matrilineare,
stigmatizzabile nel monito: “Che vuoi diventare come tuo padre?”.

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2.4. Lo sviluppo di un Sé rinnovato nel processo gruppoanalitico

La terapia di G. è stata processata all‟interno di una dinamica tra vero-Sé e


falso-Sé, all‟interno dell‟esperienza amorosa con l‟altro sesso, come una possibilità
di amare il Sé concreto: la terapia gli ha dato la possibilità di conoscere un Sé altro,
rispetto alla progettazione della famiglia patologica che gli aveva dato quel ruolo,
scardinando le identificazioni proiettive che gli derivavano dal nomos del suo
condominio familiare, attraverso la “trasgressione” di cui ho fatto cenno più sopra.
Attraverso il percorso terapeutico è stato possibile, per G., accedere ad una
successiva fase della vita in cui la persona, dopo che aver vissuto un atto di
autopunizione (come l‟accecamento, nel mito di Edipo, per non vedere il proprio
transgenerazionale) può riuscire a rielaborare il distacco dal Sé colpevole e
mostruoso.
L‟analista e il gruppo hanno rappresentato una nuova relazione che è
riuscita ad aprire la cisti dell‟abuso, a prendere questo Sé negativo e a
disindentificare il paziente da questo destino segnato. Il danno rimarrà sempre,
quello che è possibile è creare delle strutture che riescano a tamponare questa ferita
originaria, ma la lesione non potrà mai essere cancellata: l‟augurio è che rimanga
un rumore di fondo, coperto da una musica creativa. La gravità nell‟abuso è che
viene usata la relazione più delicata, ossia quella di attaccamento. L‟incesto
s‟inserisce in una psicopatologia della famiglia.

2.4.1. L‟accesso alla posizione eterosessuale

G. racconta il seguente sogno: «Ero in una casa nel palazzo dove abitavo da
bambino, ma la casa era più grande, sono a letto, mi alzo perché so che sta
arrivando un terremoto. Il terremoto arriva e fa tremare tutta la casa mentre M. [la
sua attuale, nonché prima, compagna] mi sta chiamando. Lascio la porta di casa

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aperta per poter scappare, poi ci ripenso e la richiudo, considerando che sarebbero
potuti venire dei ladri, poi non ricordo se ci ripenso nuovamente e la riapro, avevo
delle chiavi nuove. Nella stanza c‟è una finestra con un balcone, che il vento forte
fa aprire. Ritorno a dormire; nel buio viene un uomo, probabilmente entrato dalla
finestra, che mi salta addosso e mi tiene fermo; io non riesco a chiedere aiuto,
respiro sempre più affannosamente e forte, e sempre più parlo a voce crescente fino
a gridare, grido realmente, tanto che M. mi sveglia».
Il terremoto è quel che vive G. nel suo mondo interno in questa fase di
transito: dall‟identificazione con la trama transgenerazionale – per cui ha vissuto
fin ora seguendo le voci e il posto assegnatogli secondo il proprio “condominio
interno” (si veda più avanti il terzo capitolo relativo in cui spiego questa metafora
proposta da Napolitani, 2006) - all‟agire secondo il desiderio del vero se stesso, ri-
chiamato a tale desiderio dalla voce della sua compagna, con cui vivere
egosintonicamente il proprio desiderio eterosessuale. Un terremoto che avviene
quando si trova in uno nuovo scenario abitativo, pur collocato nel “palazzo”
familiare di origine: come dire che è possibile effettuare questo tras-gressivo
passaggio verso l‟individuazione completa, se non troppo svincolato dalla trama
d‟origine.
Il dilemma se stare con le conseguenti angosce persecutorie o no, sembra
essere configurato nell‟indecisione, se lasciare la porta aperta o meno per evitare
l‟entrata di quest‟uomo; ma G. ha delle chiavi nuove, nuovi punti di vista, nuove
risorse; l‟entrata dell‟uomo poi è permessa comunque dall‟apertura della finestra da
parte del vento: è la paura/speranza, ambivalentemente, che l‟analista e il gruppo,
nell‟esercizio di una funzione paterna (vedi paragrafo successivo) entrino e lo tirino
via dal suo posto in cui, da piccolo, dormiva accanto alla madre, nel letto
matrimoniale, che lo tirino via dal suo posto nell‟identificazione omosessuale
“forzata” transgenerazionalmente; è il terrore che la funzione paterna, entrata in
analisi, attraverso il gruppo, lo porti via da questo legame nostalgico, intenso,
finora mantenuto, con la madre, e reiterato nella scelta di un certo tipo di

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compagna, nel senso che ho già cercato di precisare e che svolgerò meglio più
avanti. Quel legame per il quale aveva sviluppato la sua identificazione narcisistica
omosessuale e che ora, con la comparsa in scena della funzione paterna, sente
pericolosamente incrinarsi.
Gli opposti coincidono molto spesso nello psichico: tanto che, se l‟essersi
messo con una donna, sembra assumere il senso di uno svincolamento; è comunque
una trasgressione alla matrice transgenerazionale sempre includente anche aspetti
di una ripetizione transferale; d‟altronde, è la prima volta, è solo l‟inizio. Il vento
potrebbe, in una delle tante ermeneutiche verosimili e utilizzi possibili, configurare
l‟emissione di parola, il processo di verbalizzazione nel setting analitico, nel senso
che cercherò di chiarire più avanti.
Sta di fatto che G., nell‟esplorare l‟eterosessualità, fa un salto, lacerando la
matrice transgenerazionale, evitando così di concretizzare il fantasma familiare;
attraverso il suo piacere erotico verso le donne, dal momento che questo non è nella
trama familiare per lui progettata; a differenza di Edipo, il quale è una persona che
lotta contro il sentimento di estraneità: nell‟adolescenza, quando altri vedono che
lui, Edipo, è estraneo ai propri genitori, cercherà sempre di salvaguardare il
familiare (Di Luzio, 2010).
La malattia è la trasformazione sintomatica dell‟angoscia dovuta al
perseguitante familiare che attacca l‟individuo: anziché essere mostruoso il
familiare, diventa mostruosa l‟individuazione: la difficoltà è vedere le parti
patologiche del familiare (Edipo, ad esempio, non voleva vedere il figlicidio di
Laio). In terapia analitica tu puoi usare la parola e metterla in connessione con i
tuoi stati mentali interni: processo che inverte il blocco nell‟individuazione. Il
linguaggio diventa strumento di differenziazione, fa entrare l‟estraneità, per essere
di più soggetto, esprimendo stati dell‟animo, cosicché la persona diventa, a livello
sociale, una che ha il diritto ad esprimere i suoi stati interni, sia rispetto ai punti di
vista, sia rispetto alle attese degli altri.

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Nel nostro caso appare piuttosto evidente come la possibilità di elaborare


l‟abuso e il Sé incastrato nel contesto abusante transgenerazionale, permette dei
grossi cambiamenti nel rapporto con se stessi e con gli altri. Ad esempio, come ho
accennato sopra, all‟inizio di quest‟ultimo anno, la compagna manifesta l‟idea di
generare un figlio con lui e non le va bene che G. ha preso in affidamento il
ragazzo diciottenne che prima era nella sua comunità: ma G. è comunque riuscito a
rivendicare il suo diritto ad attuare tale desiderio e a portarlo avanti in concretezza,
attualmente G. convive con la sua “ragazza” e questo giovane “figlio”, come li
chiama lui. Nella relazione con il ragazzo, G. si prende un‟esperienza paterna
attiva, in una sorta di esperienza di gemellarità, attraverso la quale può prendersi
cura di un altro se stesso a cui evitare i problemi avuti per una carenza di funzione
paterna. Rilevo anche un fatto curioso (coincidenza o cos‟altro): G. riferisce di aver
trovato molto giovamento dalla lettura di un libro In attesa del padre.
Psicodinamica della funzione paterna che ho curato io (Pergola, 2010) lì dove G.,
non conoscendo il mio nome, non mi collega al testo.
G. riferisce spesso di avere una dipendenza dalla pornografia via internet, “è
come se ne fossi schiavo”, afferma. Tale comportamento sembra il tentativo di
darsi quelle “coccole” che non gli da qualcun altro, nel modo in cui veniva
coccolato, abituato a coccolare l‟altro: è ovviamente un modo di “coccolarsi” di chi
ha un‟immagine negativa e svalorizzata di sé, come se non meritasse altro,
sentendosi “una schifezza” e, in qualche modo, immaginandosi di farsi trattare
come un “bambolotto” sessuale, così ripetendo anche lo scenario dell‟abuso. “A me
serve che uno mi ascolti, mi capisca, non che mi dica che sono bello”, ha detto più
volte in seduta.
Tale ricorso alla pornografia, come i prevedibili movimenti “regressivi”
rispetto ai cambiamenti positivi raggiunti, può essere ricondotta anche a quella che
Di Luzio definisce la “sindrome del bluef”. Quando, infatti, i cambiamenti sono
talmente forti, si crea come una “bolla” in cui la persona, mettendo in gioco il
proprio “Sé concreto”, va a scontrarsi con la parte perseguitante; da qui una sorta di

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accelerazione dimostrativa, maniacale, rispetto ai cambiamenti, che gonfia, per


l‟appunto, la sensazione che “sia tutto un bluef”. L‟effetto sortito è quello di un
ulteriore allontanamento dal Sé concreto, con la conseguente paura di non riuscire a
sostenere quanto si è messo in gioco: subentra l‟angoscia di non essere in grado di
portare avanti i cambiamenti, che gli altri rimandino che “tutto è un bluef” frutto
della parte grandiosa di sé. C‟è quindi il ritiro, di fronte a troppi cambiamenti: il
deficit del Sé fa sì che non sia mai sufficientemente vero e accettabile quel che si
fa, con il conseguente senso di vergogna; a meno di non diventare un personaggio
come un Hitler, o qualcun altro governante, che, in una delirante spinta
dimostrativa, cerca di dimostrare che il sogno diventa realtà, ma non è certo il caso
di G., che si attesta, invece, a quanto descritto prima.

2.4.2. Con-testo gruppale e riappropriazione soggettiva

Nella “situ-azione” gruppoanalitica ho potuto constatare come l‟effetto


trasformativo arrivi quando ciascuno dei membri del gruppo può mettere a
disposizione la propria presenza reale, presentarsi così come si è di fronte agli
sguardi degli altri, sdoganando il proprio vero-Sé. Il gruppo di cui G. è parte è
stato lo spazio/tempo protetto in cui finalmente dare voce alla proprie angosce,
ansie, persecutori interni, disperazione, per potersi prendere il diritto da esistere
secondo il desiderio del Soggetto dell‟Inconscio, mutuando espressioni di Lacan. I
vari membri si sono effettivamente sentiti parte di un complesso vivente che li
eccede e che permette la soddisfazione dei loro più vari bisogni e ciò li ha portati a
privilegiare il gruppo.
Giova anzitutto, a mio parere, qualche brevissimo cenno sugli altri
componenti del gruppo in cui è inserito G., il nostro caso, come punti nodali di una
rete in cui si sviluppa una nuova matrice dinamica: nella convinzione che ciascun

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membro del gruppo rappresenta parti di G., così come G. rappresenta, con i suoi
comportamenti, parti del gruppo.
Tale gruppo, attivo da circa quattro anni, è composto, oltre a G., da altre
quattro persone: una donna, M., di trentaquattro anni, con disturbo bipolare; A., un
giovane di ventiquattro anni, studente universitario con disturbo paranoide; un
giovane di ventitre anni, studente universitario, F.; un uomo di trentaquattro anni,
R.. In V., con trascorsi di seri disturbi alimentari, il percorso si è articolato nella
bipolarità tra un Sé molto piccolo, bisognoso, imperfetto, impotente di fronte
all‟attaccamento, oscillante tra Sé grandioso e Sé disprezzantesi; nel momento in
cui gli viene tolto il sogno che i genitori non muoiono e che lei possa rimanere
figlia eterna.
Per A., venuto in gruppo dopo un breve trattamento in setting individuale, a
seguito di un ricovero per schizofrenia e con un disturbo paranoide, il gruppo ha
sortito l‟effetto, incredibile, ma osservato e perdurante, di aver bonificato
notevolmente la paranoia: quando viene sdoganato il vero Sé, esce l‟aspetto
persecutorio interno; la paranoia è l‟altra faccia della grandiosità (i grandi sogni
sono l‟altra faccia della paranoia). Il passaggio dalla paranoia alla confusione è già
un passo in avanti; unire il desiderio, la faccia e la frustrazione, angoscia per la
paura che non riesci a sostenere la faccia. Il punto di vista su di sé di se stessi e
degli altri. C‟è una percezione sempre più reale di quest‟impatti di sé. Il passo
successivo consiste nel trasformare il desiderio in una spinta a fare delle cose,
convivendo con la paura della frustrazione.
C‟è poi R., impigliato nella rete familiare di origine, da cui non riesce a
svincolarsi: la sua difettosità fisica è stata, dall‟infanzia all‟adolescenza, qualcosa
che ha rimandato un‟immagine di sé di cui vergognarsi; ciò è sintomo di quella
difettosità psichica divenuta pervasiva e destrutturante; in tal senso la difettosità
fisica serve per coprire il segreto sul proprio transgenerazionale.
F. invece è venuto in trattamento dichiarando di soffrire di attacchi di
panico che bloccano gran parte della sua vita sociale.

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Tutti i componenti del gruppo hanno affrontato, in quest‟ultimo anno, la


paura di esporsi con un proprio timbro: “Questo sono io e vado bene così”, non
lasciandosi frammentare in tale processo d‟individuazione, mantenendo un punto
tuo di vista capace di sostenere lo sguardo degli altri e del proprio ideale arcaico
grandioso. Il processo di disvelamento della realtà ha sottratto spazio al transfert.
Mi pare importante rilevare è il fatto che nel nostro campo non si guarisce,
ma si fa un‟operazione di decontaminazione, di disinquinamento. Nelle patologie
gravi (Mollon, 2001) c‟è un imprigionamento e attacco del Sé grandioso. La
psicoterapia fa guerra alla paranoia, alla seduzione, all‟ipnosi. Quando una persona
esce dalla malattia e incomincia ad esprimere normalità, il mondo se ne accorge.
Ma quando queste bozze del Sé sono molto fragili, la persona ha paura che
vengano subito usati, frustrati, resi dipendenti. Con tale sdoganamento di un Sé mai
esistito (quindi estremamente fragile) inizia una fase contemplativa, di
un‟esperienza di un Sé vitale. La psicoterapia permette una riappropriazione di
parti della mente. “Io ho dei pensieri, dei desideri, perché non possono valere?”, si
esprime liberamente, parla delle sue relazioni d‟amore e interviene offrendo il suo
punto di vista su quelle degli altri, con fluidità.
Il processo terapeutico ha reso G., il nostro caso, sempre più idoneo a
prendersi le parti valorizzate, normali di Sé, di contro al persecutore esterno e
interno. Un‟idoneità all‟individuazione, all‟appropriazione di queste parti, come si
trovasse un altro specchio che rimanda tali nuove possibilità. Inizialmente è stato
importante capire la natura di questo persecutore che vietava il diritto
all‟individuazione, il diritto ad essere qualcun altro vivendo esperienza di Sé
mancanti nella famiglia d‟origine. Si tratta di un processo di soggettivazione, per
cui tutta la tua vita mentale può diventare tua e quindi la puoi valorizzare, utilizzare
(Cahn, 1999.). Un altro autore (Mollon, 2001) parla di Sé-agente, intendendo con
ciò la proprietà di sentire, di essere attivo nelle proprie attività mentali.
Si è partiti da una fase in cui i rapporti rispecchiavano vecchie identità, per
giungere a trovare una donna che funzionasse come specchio diverso, che ti fa

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vedere altre cose che potresti avere ed essere. Nel gruppo G. si è potuto permettere
di separarsi da ciò che prima si prendeva per aspettativa di ruolo. In un contatto con
se stesso ora G. vuole, finalmente, che gli altri riconoscano, pur nella difficoltà ad
essere riconosciuto per quello che uno è, dal momento che, finora, nella vita, si è
stati abituati o a percepirsi come una “schifezza”, o a mettersi nel ruolo. Nel gruppo
si riescono a mettere da parte ciò, a superare la paura di metter fuori se stesso,
lavorando sulle parti più reali di se stesso, apprendendo a difendere i confini reali
di sé, pur nella ferita per la scoperta di non essere quella fantasia ideale, superiore:
ciò rende concrete le decisioni, si mettono i piedi per terra
Con l‟apporto e il rispecchiamento di altri occhi, non giudicanti, e altre
orecchie, il lavoro analitico ha permesso una disidentificazione attraverso,
soprattutto, un controtransfert di rispecchiamento, per far emergere le potenzialità
del vero Sé di G.

2.4.3. La funzione paterna nel setting

Nel disagio come nella malattia psichica c‟è un blocco del linguaggio: la
parola si salda con l‟individuazione della mente, la differenziazione dal sociale
familiare. Nel setting il paziente può usare la parola e, mettendola in connessione
con i suoi stati mentali interni, inverte il processo nell‟individuazione. In tal senso
il terapeuta e il gruppo svolgono anche una funzione paterna, nel senso che colui
che esercita tale funzione, è colui che ri-conosce il figlio, lì dove riconoscere
significa conferire a qualcuno la propria personalità; e il riconoscimento è operato
mediante la parola: occorre che qualcuno pronunzi tale riconoscimento in piena
libertà, attraverso il simbolo della parola; non è un grido né di soccorso né di
desiderio; in esso si attua questo fatto unico, che umanizza l‟uomo: l‟assunzione, in
completa libertà, della propria esistenza, e la formazione intenzionale d‟un nesso

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consapevole con l‟altro, processo fondamentale per saturare la propria ricerca di


senso (Pergola, 2010).
L‟analisi, proprio per il fatto di introdurre in un ordine simbolico tramite le
regole del setting, fin dagli inizi implica anche una dimensione di limite, di
distacco dal materno, dal legame con la madre. Il setting, insomma, implica di per
sé una rinuncia, già l‟entrare in analisi comporta un percepire inconsapevolmente
che si sta entrando in una dimensione che significherà una rinuncia particolare: la
rinuncia alla madre. Dunque il setting analitico configura da subito, ad un certo
livello, la prospettiva di un confronto con il padre e di un distacco dalla madre e
dall‟investimento nostalgico sul suo corpo (Rosenfeld, 1995, 22-23).
Attraverso tali caratteristiche, il gruppo permette di togliere la corazza
dell‟aggressività, denuda e fa mettere i piedi per terra. Ad esempio, nella paranoia,
caratteristica di più di un componente del nostro gruppo, il Sé è staccato dal
mondo; il contrario è la metanoia: la mente che sta nel e con il mondo; l‟amore è il
contrario della paranoia. Il gruppo fa a volte anche arrabbiare i suoi membri perché
fa attiva la ruota della vita. In un cammino che conduca alla consapevolezza della
propria storia, in modo da poterla rappresentare in modo coerente, cogliendone il
filo e il senso, uscendo dal caos, dall‟impensato, dall‟indicibile, dal non-detto e
dalla ripetizione; solo così si potrà assumere su di sé la propria storia familiare e il
proprio passato. “Non si può ripartire con il piede giusto e voltar pagina, se non
quando la pagina è stata messa in evidenza e il debito cancellato o “metabolizzato”.
Attraverso l‟interrogarsi dal punto di vista emotivo si possono trovare nuovi
significati e nuovi punti di vista. Attraverso altri occhi e altre orecchie, si possono
visualizzare le fantasie transgenerazionali vedendole da un altro punto di vista,
svincolando il proprio Sé dall‟essere proprietà della famiglia, acquisendo così il
diritto alla‟appropriazione soggettiva di Sé (Cahn, 1999). Si può sviluppare un
processo di presentificazione di Sé, nonostante le inadeguatezze, bagnandosi
nell‟esperienza con il sentimento stesso di inadeguatezza: ciò permette la

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trasformazione nel modo di vedersi. Nel gruppo si attraversano vicissitudini fra se


stesso e stima di sé e otherness, ossia l‟essere significativo per gli altri
Nel caso di G. si è così potuto lavorare a deidealizzare il proprio familiare,
aprendo le resistenze che impediscono di vedere al storia transgenerazionale
abusante e attuando un certo ruolo ricostruttivo ampliando la conoscenza della
propria storia. Inizialmente, nel rapporto con la sua ragazza, o viveva
l‟inadeguatezza o l‟immagine di uomo ideale. G. non poteva convivere con i suoi
sentimenti di inadeguatezza in un rapporto autentico, vivendo secondo il diritto ad
essere com‟è: o doveva incarnare l‟ideale di uomo perfetto o dell‟omosessuale. Il
suo verbalizzare: “Non mi ci so vedere, né in una figurazione, né in un‟altra”, in
gruppo, gli ha dato il permesso di iniziare un processo di vita secondo il proprio
vero-Sé, pur con le conseguenti angosce separative-individuative che però sono, a
questo punto, sottostanti e non sovrastanti, per la frattura rispetto al mondo
interiorizzato familiare. Infatti, nel cammino identificativo del vero-Sé, ti distacchi
da un tipo di persona che, o nel contrario, o nella compiacenza, ha a che fare con
l‟ideale della famiglia, o l‟ideale di Sé per quella famiglia (due facce della stessa
medaglia). In una dinamica tra falso-Sé compiacente e falso-Sé ribelle si attua il
distacco da quel figlio concepito in un certo modo dalla famiglia, “nato parlato”,
per usare un‟espressione lacaniana, in un certo modo, per i pensieri, detti, affetti,
idee, miti e leggende familiari, più o meno inconsciamente trasmessigli fin da
quando era un “Io-feto” e, successivamente, espressione piena del “condominio”
familiare. Tale distacco è vissuto come uccisione della famiglia. Quando gli altri
riconoscono tale vero-Sé che si aggrega, si scatenano ansie ed angosce per un senso
iniziale di depersonalizzazione.
Uno ha delle cose e non se le può prendere, come non ne potesse disporre e
quando ci arroghiamo la possibilità di prenderci qualcosa negli altri sorge l‟invidia.
G. ha realizzato qualcosa, ha dato spazio ad un desiderio. Le difficoltà non
permettono nemmeno di sognare; il sogno è il primo passo del desiderio: dal sogno
si passa alla fantasia, dalla fantasia si passa alla strategia. G. ha messo in crisi la

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sua identità che non si poteva prendere nulla per sé; prima poteva essere amato
perché poteva essere preso, ma non poteva prendersi delle cose per sé.

3. Dall’Idem transgenerazionale all’Ipse

Prendo a prestito l‟espressione di Lacan (1954-55), “Io-cipolla”, per


evidenziare come ciò che noi chiamiamo “Io” sia costituito da una sorta di vari
strati di identificazioni multiple, risultanti delle introiezioni dei rapporti oggettuali
significativi fin dal periodo della gestazione. Per indicare tale molteplicità di voci
che animano in modo perentorio e per lo più contraddittorio l‟esperienza di sé,
Napolitani (2006), riportando a sua volta l‟espressione di un suo paziente, usa la
metafora di un “condominio interno”, come configurazione dell‟identità di
ciascuno. Tale autore, usa il temine idem per denotare quell‟esperienza di sé in
quanto proprio “condominio” originario incarnato, che ripropone nell‟arco della
propria esistenza l‟ordine in cui il bambino è stato parte integrante: le “voci” che di
volta in volta si alternano nella propria coscienza alienata sono quelle delle figure
diversamente dominanti nel proprio condominio, ivi compresa la voce di sé come
figlio (Napolitani, 2006, 9-15).

3.1. L’idem come teatro dell’Io

L‟idem non è solo incarnato nella propria memoria implicita, ma “si” agisce
nelle relazioni interpersonali, attraverso “figure” che interpretano le parti di copioni
inscritti nella originaria esperienza identitaria di ciascun individuo: appunto
ripetendo antiche trame che si avvalgono, di volta in volta, di persone nuove, cose,
fatti concreti come artefatti scenici; si mette così in scena una storia che va
conosciuta il più approfonditamente possibile, invece di subirla passivamente. “La

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relazione transferale è quella in cui le gruppalità interne di ciascuno colludono tra


loro nella costituzione di gruppalità sociali a forte connotazione conservativa,
imperniate sulla logica del dominio, in cui il binomio bisognosità/provvidenza la fa
da padrone” (Napolitani, 2006, 10).
Il tutto configura una teatro in cui “il presente è asservito (congruentemente
alla logica del dominio) al passato, è questa inattualità consegna l‟esperienza in
quel che definisco universo immaginario (idem, 11). La persona assume come
elemento costitutivo della sua identità tale contesto gruppale in cui si trova
immerso fin dal concepimento: cosa che ha il suo supporto neuronale nella
funzione delle “cellule specchio”, che organizzano una mappatura
neuronica,specularmente corrispondente alle caratteristiche, per l‟appunto,
dell‟ambiente “condominiale”; sottolineo, fin dal concepimento, allorquando inizia
a strutturarsi l‟“Io-feto”; per cui anche la lacaniana intuizione che il “bambino
nasce parlato” con una determinata struttura di personalità, può essere intesa come
un processo frutto di apprendimenti precocissimi, durante la gestazione (Manfredi
– Manfredi, Imbasciati, 2004).

3.2. Il com-plexus transgenerazionale

Anzitutto è da evidenziare il fatto che il paziente individuale, nella


prospettiva gruppoanalitica, è, “in essenza, semplicemente il sintomo di un disturbo
nell‟equilibrio della rete intima di cui fa parte” (Foulks, 1975, 26) da cui il termine
“rete” utilizzato da Foulks (ibidem) ove la persona in trattamento è solo un “punto
nodale”, parte di un com-plexus: “un gruppetto di persone, se si collocano nell‟area
di trattamento solo coloro che hanno avuto un significato diretto per i conflitti del
paziente e per la loro possibile soluzione o che impediscono una tale soluzione”
(ibidem). Una rete che Foulks propone di considerare anche nella sua sequenza
cronologica, “così come viene tramandata dai genitori ai figli, dai nonni ai genitori,

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e così via, attraverso diverse generazioni” (Foulks, 1975, 30) in un processo trans
personale di comunicazioni inconsce interattive (ibidem).
Lo spazio originario della trasmissione psichica intersoggettiva è la
gruppalità familiare ed è qui che si colloca la trasmissione transgenerazionale, con i
suoi effetti sul piano intrapsichico e su quello intersoggettivo o interpersonale. Nei
miti, nelle leggende e nelle tragedie, ad esempio, il crimine non è mai un evento
isolato di un individuo singolo. Esso è, al contrario, al centro di un groviglio
collettivo di multiple azioni del campo familiare (com-plexus per usare
un‟espressione di Foulks, 1975, 26) ove ognuno svolge una parte precisa.
Ad esempio nella tragedia di Eschilo, che narra la vendetta di Oreste contro
sua madre Clitemnestra e contro Egisto, per vendicare l‟uccisione del padre
Agamennone, Oreste, che potrebbe essere considerato il rappresentante di una
tragedia psicotica, si sente l‟esecutore materiale di questi omicidi, più che
l‟ideatore; si sente intrappolato in una rete che, passando attraverso la madre e il
suo amante e il dio Apollo, che aveva ordinato la vendetta e le Furie, arriva fino
allo stesso Agamennone che da vittima della moglie si rivela essere stato nel
passato il suo primo persecutore.
I miti sono poi anche quelli non pubblici, ma privati, intesi come fantasie
inconsce gruppali transgenerazionali. Miti che fanno parte dell‟universo simbolico
familiare e riguardano in genere la storia di famiglia, rimodellandosi nel corso del
tempo, pur lasciando un nucleo intatto all‟origine, che a volte resta segreto nel
corso delle generazioni. Alla loro costituzione e permanere contribuiscono tutti i
membri della famiglia, di generazione in generazione, organizzando così la
continuità della cultura del gruppo familiare e perpetuando nelle situazioni
patologiche un funzionamento traumatogeno per l‟individuo. Soffrire in un altro,
soffrire al posto di un altro, diventa, da questo punto di vista, possibile soprattutto
se l‟altro è un membro di un‟altra generazione.
Da quanto esposto scaturiscono due prospettive nel considerare il processo
della trasmissione transgenerazionale:

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- una sorta di “situazione universale che in un momento o l‟altro dell‟analisi


potrebbe essere interpretabile a condizione che l‟analista ne tenga conto”
(Faimberg, 1985);
- una patologia della soggettività, individuando la presenza nello spazio
psichico di fattori ego-alieni (Winnicott, 1969) o di visitatori dell‟Io (De Mijolla,
1985) o di oggetti che fanno impazzire, che ostacolano la capacità elaborativa e
costituiscono una vera intrusione e espropriazione della psiche.
Gli avvenimenti indicibili, per tornare alla citazione di Rilke proposta al
secondo capitolo, proprio perché si compiono in uno spazio che mai parola ha
varcato, si esprimono a livello psicosomatico, somatopsichico, cinestesico,
attraverso le sindromi da anniversario, ecc. (per la cui più ampia trattazione
rimando al volume che uscirà a breve a mia cura sulla trasmissione psichica tra le
generazioni). Il segreto che non si può rivelare, inviolabile, spesso perché troppo
vergognoso, può trasmettersi dall‟inconscio del genitore all‟inconscio del figlio,
transgenerazionalmente. Si costituisce così il “fantasma”, come interiorizzazione in
un sepolcro segreto, una cripta, portato nella psiche o nel corpo di un membro della
famiglia designato, che, con il suo disturbo sintomatico. Nel caso di G. una elevata
responsabilità investe l‟analista nei casi in cui è presente un abuso: egli può essere
per il paziente fonte di una nuova relazione di consapevolizzazione trasformativa
che gli permetta l‟elaborazione del trauma ma egli può anche colludere con lo
scenario inconscio del paziente e divenire la ri-presentazione della figura
dell‟abusante.

3.3. Il passaggio all’Ipse

Il bambino “è intenzionato come disappartenente alla sua comunità, come


cattivo [dal latino captivus, schiavo] quando trasgredisce le regole condominiali, e
nella misura in cui egli sperimenta la sua apertura al mondo, al sua curiosità, il

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proprio tendenziale andare verso (ad-gredi) ogni eccitante diversità, egli sa di un


suo ontologico trans-gredi: egli è colpevole” (ibidem) così svincolandosi dal suo
essere oggetto passivo di cattività.
Il problema si fa rilevante quando la necessità di acquisire uno stato di
autonomia e separatezza comporta un processo di disidentificazione o di
trasformazione creativa delle precedenti identificazioni, come nel caso di G.
presentato. Questo processo comporta una selezione, una trasformazione, forse un
abbandono delle precedenti eredità fantasmatiche che abbiamo ricevuto dagli altri,
specialmente dai nostri genitori. Il lavoro su questi aspetti è complesso e difficile
perché essi non sono corpi estranei che un chirurgo può isolare e rimuovere.
Se da una parte parassitano il soggetto e la vita di relazione, dall‟altra sono
costitutivi della sua identità e di quella della famiglia. Una loro elaborazione nel
corso del processo analitico può equivalere pertanto ad una rinuncia ad aspetti vitali
e ad una perdita di identità e imporrebbe un doppio lutto, quello di parti di sé e
quello di parti del genitore o dell‟antenato o della famiglia con cui la persistenza di
queste problematiche funziona come legame potente.
Ma solo così si può riuscire a passare dall‟idem alla soggettualità, all‟ipse,
dalla condizione di captivus alla libertà. La coniugazione tra il momento
dell‟identificazione (essere identico alle intenzioni di un “altro” che ci attraversa
nelle nostre origini) e il momento della soggettualità potrebbe esaurientemente
compiersi proprio nella scoperta della verità. Ma quanta sofferenza ne
conseguirebbe. Questo fa scandalo e di fronte allo scandalo si arretra, ci si acceca,
ci si uccide, o si manda in esilio il proprio pensiero riflessivo, la propria saggezza.
Il mito di Edipo si configura come un dramma generazionale ridotto alle “colpe”
dei singoli protagonisti riaffondati nella confusione fra il Sé e il non-Sé (o fra il
vero e i falsi Sé).
Il dramma della conoscenza, come apertura a un sapere nuovo, configura un
processo di separazione riflessiva dalle proprie origini. Prendiamo, ad esempio, il
mito di Edipo, una sorta di mito fondativo della psicoanalisi: la conoscenza della

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verità avrebbe potuto riscattare tutti i suoi protagonisti, nel momento in cui fossero
riusciti a distinguere la parte da ciascuno transgenerazionalmente giocata, in
quanto, cioè, portatori del desiderio dell‟altro, da quanto essi avrebbero potuto
assumere come espressione di proprie scelte responsabili (Napolitani, 2006, 91).

3.4. La “situ-azione” gruppoanalitica

Nel “training del Sé” attraverso il processo analitico, il Sé Individuale e


Gruppale vengono configurati in una specifica esperienza che permette uno
sviluppo inedito del Sé (Ondarza Linares, 2009). Come già ho scritto sopra, il
gruppo si configura come una struttura temporo-spaziale che permette una
comunicazione (common-action) come “comune azione”. Il personale senso del Sé
viene da altri confermato in un processo reticolare di scoperta del Sé.
Il gruppo è una situazione complessa nella quale interagiscono livelli
diversi delle relazioni interpersonali (rete), con un‟integrazione dinamica fra l‟intra
e l‟inter-personale: si tratta infatti di una “forma di psicoterapia praticata dal
gruppo nei confronti del gruppo, ivi incluso il suo conduttore” (Foulks, 1975, 2)
quest‟ultimo è “guardiano e guida del gruppo gruppoanalitico” (ibidem).
Quello gruppoanalitico è un cammino che conduce alla consapevolezza
della propria storia, in modo da poterla rappresentare in modo coerente,
cogliendone il filo e il senso, uscendo dal caos, dall‟impensato, dall‟indicibile, dal
non-detto e dalla ripetizione; solo così si potrà assumere su di sé la propria storia
familiare e il proprio passato. “Non si può ripartire con il piede giusto e voltar
pagina, se non quando la pagina è stata messa in evidenza e il debito cancellato o
“metabolizzato”.
La specificità terapeutica gruppale è dovuta, tra l‟altro, all‟effetto
specchio, per cui un individuo impara a conoscere se stesso attraverso l‟azione che
esercita sugli altri e attraverso l‟immagine che essi si fanno di lui. Altro processo

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rilevante è quello della risonanza, concetto che evidenzia la capacità dei


partecipanti a un gruppo di cogliere le emozioni ed il vissuto degli altri membri.
Ondarza Linares (1994) sottolinea come nel gruppo la struttura spazio-
temporale costituisca un contenitore all‟interno del quale può realmente avvenire
un confronto tra il tempo vissuto dal singolo e il tempo come rappresentazione
costantemente rinnovata o ricreata per il gruppo (Ondarza Linares, 1994). La rete
(intesa come il sistema totale di persone che ne costituiscono i punti nodali,
mantenendosi unite e appartenendosi in una comune e reciproca interazione) ha a
che fare con i concetti di tempo, temporalità, contemporaneità, storia individuale,
romanzo familiare: “Tre sono i tempi: il presente del passato, il presente del
presente, il presente del futuro” (Agostino, 397): la rete è la cerniera in cui i diversi
tempi si incontrano il “qui e adesso”, con l‟“ivi e allora”, realtà interna e realtà
esterna, ecc. La spirale del tempo attraversa quel continuum che dall‟individuo va
al gruppo e all‟individuo ritorna, cercando in un polo fusionalità, appartenenza e
sicurezza, e nell‟altro originalità, differenziazione, autonomia” In tutto ciò
troviamo una risonanza per cui il tempo di ciascuno si innesca col tempo dell‟altro,
con possibilità reciprocamente trasformative (Ondarza Linares, 1994). Le vicende
personali degli individui si collocano, in tal senso, all‟interno della storia del
gruppo e ne diventino parti costitutive.
Il circolo gruppoanalitico come struttura temporo-spaziale, sostiene e
contiene, permettendo così una comunicazione (common-action) come “comune-
azione”. Il personale senso del Sé viene da altri confermato in un processo
reticolare di scoperta del Sé.

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Conclusioni

In sintesi estrema, durante il processo terapeutico, fin qui, si è proceduto


secondo i seguenti aspetti individuati da Di Luzio (2010) come i più rilevanti
nell‟analisi di tali casi.
- la rilevazione del Sé negativo e la comprensione empatica della sua
declinazione nel vissuto soggettivo ( difettosità, mostruosità, colpa ) e gli agiti
consci e inconsci collegati (autolesionismo, masochismo morale, relazioni
distruttive, tendenza rimettersi in relazioni abusanti);
- il rispecchiamento nel controtransfert del vero Sé potenziale ed il
riconoscimento del diritto all‟individuazione, all‟appropriazione soggettiva e alla
ricerca della auto valorizzazione; alla disidentificazione dall‟ identità negativa,
collusiva con i ruoli patologici familiari indotti dal transgenerazionale patologico;
- l‟analisi del contesto abusante e del transgenerazionale familiare
- la disidentificazione dall‟identità negativa, collusiva con i ruoli
patologici familiari indotti dal transgenerazionale patologico;
- l‟autoriflessione su proprio controtransfert mobilizzato in senso collusivo
ed identificativo con la vittima o con l‟agente dell‟ abuso
- l‟analisi dei meccanismi di difesa del paziente e dell‟ analista nei
confronti della presa di contatto con il vissuto d‟abuso.
Il gruppo è stato, per G., lo spazio/tempo per la bonifica delle ansie
persecutorie conseguenti al processo di “trasgressione” di cui ho trattato nel I
capitolo: in modo che, sbloccati, si può essere pronti a generare.
In tal modo G. ha potuto cambiare i suoi occhi su di sé: il gruppo, nel
riconoscerlo come positivo, fungendo come specchio per riappropriarsi delle parti
normali, lo ha rinforzato nella possibilità di affrontare passaggi nuovi, come quello
dell‟accesso al rapporto con una donna, in cui rivendicare anche il proprio diritto ad
avere un giro di posta. Un passaggio che ha vertito dalla persecuzione, alla

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vergogna, ossia a qualcosa di ancor più sottostante e devastante, fino ad accedere


ad un Sé possibilmente e stabilmente re-integrato.
La speranza per G. è che continui a saper trasformare uno svantaggio in
vantaggio: “le ferite dell‟anima possono trasformarsi in principi attivatori del
nostro risveglio psicologico, capaci di innescare la nostra rinascita, il cambiamento
a cui tutte le esperienza vissute ci hanno preparato” (Carotenuto, 2001, 14).
Mi è sembrato particolarmente appropriato l‟approccio gruppoanalitico, dal
momento che “la gruppoanalisi assume, come fondamento dei processi mentali,
l‟incompiutezza ontologica dell‟uomo, per la quale non si dà oggetto che possa
porvi rimedio” (Napolitani, 2006, 13). Tale mancanza porta l‟essere umano alla
produzione creativa, a cambiare il mondo intorno a lui per qualcosa che ha a che
fare con la bellezza. “E non c‟è esperienza di bellezza che non si coniughi con una
pratica di libertà che è agli antipodi rispetto al polo della cattività, della cattura”
(ibidem).
Il modo in cui è stato condotto l‟intervento terapeutico gruppoanalitico nel
caso presentato, è paradigmatico di come, in psicoterapia, occorra coraggio per
superare la sofferenza che consegue al vedere il rimosso. Edipo, di fronte allo
scandalo, arretra, si acceca, si esilia ed esilia il proprio pensiero riflessivo, la
propria saggezza. Come già scrivevo sopra, il mito di Edipo si configura come un
dramma generazionale ridotto alle “colpe” dei singoli protagonisti riaffondati nella
confusione fra il Sé e il non-Sé (o fra il vero e i falsi Sé).
Il cammino di terapia analitica permette di non essere più prigionieri del
passato, captivus, ossia schiavo, attraverso la conoscenza della verità, l‟esperienza
emotiva correttiva, la trasmutazione di parti di Sé, in una prospettiva terapeutica di
Identità, Senso e Significato.
Chioso continuando la citazione di Napolitani (2006, 14) con cui ho aperto
il presente articolo: « Quando le voci della coscienza (condominiale) tacciono
emerge il silenzio di un atto concepitivo, nella contemplazione e nella riflessione,
che è il grembo di ogni divenire della propria esistenza. È qui che si delinea il

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progettarsi come autopoiesi simbolica, che è quella emergenza specificatamente


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Cultura e Società

IL TESTAMENTO SPIRITUALE DI FREUD: I TRE SAGGI SU


L’UOMO MOSÈ E LA RELIGIONE MONOTEISTICA

David Meghnagi•

(Professore di psicologia clinica all‟Università degli studi Roma Tre, dove dirige il Master
internazionale in didattica della Shoah; Full member dell‟International Psychoanalytical Association
(IPA); membro ordinario della Società psicoanalitica italiana (SPI); già vicepresidente dell‟Unione
delle comunità ebraiche italiane. È membro della Delegazione italiana presso la ITFR)

“Ciò che hai ereditato dai padri, Riconquistalo se vuoi possederlo davvero”
(J.W Goethe, Faust, parte prima, Scena della Notte)

“Persino nel giudicare lo stile di un autore, abbiamo il diritto e l’abitudine di


applicare quello stesso principio esplicativo di cui non possiamo fare a meno nel
dedurre il singolo errore verbale. Un modo di scrivere chiaro e inequivocabile ci
apprende che l’autore è convinto di quanto dice, mentre dove troviamo espressioni
artificiose e contorte che, possiamo ben dire, occhieggiano in molte direzioni
possiamo capire che c’è di mezzo un pensiero non risolto a sufficienza che
complica le cose, oppure si può udire la voce soffocata dell’autocritica
dell’autore”

(S. Freud 1901, Psicopatologia della vita quotidiana)

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Delle opere di Freud i tre saggi sul L‟uomo Mosè sono i più enigmatici.
Nelle intenzioni di Freud i tre saggi su “L‟Uomo Mosè” dovevano chiarire il
segreto dell‟ebraismo e le ragioni profonde dell‟antisemitismo. (Freud ad A.
Zweig, 30 settembre 1934, in Lettere sullo sfondo di una tragedia, cit.). In realtà
l‟intera argomentazione dei tre saggi poteva fare a meno dei postulati di partenza
secondo cui Mosè sarebbe stato un principe egizio, in seguito assassinato. Che non
ne avesse sostanzialmente bisogno, Freud lo fa surrettiziamente pensare nelle
pieghe di una scrittura carica di ambiguità, i cui rimandi e le ricapitolazioni creano
il sospetto e il dubbio, anziché diradarlo. Come insegna Freud, la tortuosità
dell‟argomentazione riflette “la presenza di un pensiero non risolto a sufficienza
che complica le cose”, oppure “la voce soffocata di un‟autocritica dell‟autore”
(Freud, 1901).
Come ha rilevato Peter Gay, “leggere quest‟opera è come partecipare alla
sua elaborazione, alle pressioni interne e di carattere politico cui Freud è sottoposto
in quegli anni e cogliere l‟eco di tempi lontani e meno strazianti” (P. Gay, 1988, p.
549). Per comprendere il Mosè occorre avere presente il contesto storico in cui fu
concepito e scritto, le opere e gli autori da cui Freud attinge, le letture e i
riferimenti a una storiografia che dell‟emancipazione dal giogo del giudaismo
sembrava aver fatto il suo scopo principale e di cui Freud proponeva un
rovesciamento di significati- nel momento in cui ne accoglieva i risultati. Occorre
riferirsi anche a quanto egli ha scritto prima, dopo e durante quegli anni, nelle
opere scientifiche e in quelle divulgative, nelle interviste e nelle lettere ai corri-
spondenti; alle sue scelte personali e alle azioni concrete da lui ispirate.
Obiettivo della polemica dei lumi era l‟emancipazione dall‟oppressione e
dal controllo della Chiesa in ogni sfera della vita e della cultura. Per ottenere questo
senza correre eccessivi rischi, si preferiva colpire alla fonte e questa fonte era
l‟ebraismo e gli ebrei da sempre ridotti alla condizione di paria e dunque
impossibilitati di rispondere o difendersi. Sono stati rari i filosofi della libertà

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(vanno lodevolmente ricordati Diderot e Montesquieu) che si sono astenuti da


questa pratica.
Quest‟atteggiamento costituì nei decenni dell‟emancipazione un luogo
comune, si trattò di un topos da cui hanno attinto tutti, anche quelli che credevano
in buona fede di difendere i diritti degli ebrei e della libertà. Non è eccessivo
affermare che gli ebrei si sono trovati nel momento in cui erano aperti i ghetti di
fronte a un fuoco incrociato: quello di un anticristianesimo laico che
contrassegnava l‟ebraismo come l‟origine dei mali prodotti per due millenni da una
“morale da schiavi” (Nietzsche); quello di un antimodernismo clericale che faceva
degli ebrei i responsabili di tutti i mali del tempo (è il caso della rivista gesuita “La
Civiltà Cattolica”); infine l‟antisemitismo di matrice anticapitalista che sulla scia
degli stereotipi antigiudaici iniettati per secoli dalla polemica cristiana vedeva
nell‟ebraismo il simbolo dell‟egoismo. In Germania è il caso della sinistra
hegeliana che metteva in discussione i diritti degli ebrei all‟emancipazione. In
Francia di una numerosa schiera che porta i nomi di Fourier e del capo della
Comune di Parigi, Proudhon, il cui odio contro gli ebrei era eguagliato solo da
quello nutrito per le donne.
L‟idea che Mosè fosse un principe egizio non era nuova. Si ritrova sia
nell‟opera di un pensatore profondo come Max Weber (M. Weber, 1921), sia in un
rappresentante del pensiero razzista quale Houston Stewart Chamberlain. Nella
forma di racconto fantastico compare nelle Fantasie di un realista di Joseph Popper
Lynkeus, ingegnere di professione, noto in Austria per i suoi scritti in sostegno di
un‟ampia riforma sociale, di cui Freud conosceva l‟opera avendone riconosciuti nel
„23 certi legami con la sua teoria del sogno (S. Freud, 1923 pp. 575-577).
Facendo nascere la vera conoscenza nella valle del Nilo, se ne rendesse
conto o meno, Freud faceva propria una vecchia tesi polemica della filosofia dei
lumi che si ritrova in certe credenze massoniche. In seguito, come rileva Poliakov,
soprattutto tra i metafisici tedeschi, sarebbero stati gli indù e i persiani a occupare il

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posto degli “antichi nel disputare agli ebrei i loro titoli” (Poliakov, 1973b, pp. 314-
315.) .
A sostegno alla sua tesi, Freud si appoggiò alla ricostruzione di Ernst Sellin,
storico archeologo e biblista, che in un‟ottica di rifiuto dell‟assunto evolutivo della
ricerca storiografica di quegli anni, affermava che il monoteismo era già
pienamente formato all‟epoca di Mosé. Secondo Sellin, dopo “l‟assassinio” di
Mosè, desunto arbitrariamente da alcuni passi oscuri di Osea (12:15; 13:1-2),
l‟insegnamento monoteistico si conservò nella forma di una dottrina segreta presso
una cerchia ristretta di seguaci, che lo trasmise come insegnamento esoterico sino a
che non s‟impose.
Per vie diverse, specularmente opposte, tanto Sellin, con la sua
rivendicazione dell‟insegnamento originario di Mosè, quanto la maggioranza di chi
poneva l‟accento sulla gradualità evolutiva del processo che dal politeismo ha poi
condotto al monoteismo vero e proprio, vedeva nell‟avvento del cristianesimo il
compimento di un ciclo. In entrambi i casi, l‟ebraismo appariva come un
anacronistico resto, superato dagli eventi storici e culturali.
L‟analisi di Freud si distacca da queste conclusioni affidando al contrario
agli ebrei il ruolo di unici veri eredi dei valori del monoteismo. Ciò che Freud
sembrava apparentemente voler concedere all‟apologetica cristiana, come ai suoi
continuatori secolarizzati, affermando che “per ciò che attiene alla storia della
religione, cioè in riguardo al ritorno del rimosso”, il cristianesimo costituiva “un
progresso”, e da allora in poi “la religione ebraica fu in un certo modo un fossile”, è
parte di una lettura che rinfaccia alla religione cristiana di aver costituito “una
nuova vittoria dei seguaci dei sacerdoti di Ammone sul dio di Ekhnaton dopo un
intervallo di millecinquecento anni e su una scena storica più vasta” (S. Freud,
1934-38, pp. 409-410). I limiti della religione ebraica sono per Freud l‟altra faccia
delle vette morali e intellettuali raggiunte dagli ebrei con cui Freud s‟identifica
apertamente (ibid., 434-435).

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Se non fosse per l'argomentazione tragica, saremmo tentati di pensare a un


Witz mancato, di quelli che più sarebbero piaciuti a Freud per la capacità di
sciogliere nel riso i drammi dell'esistenza ebraica. In l‟Io e l’Es ave descritto l‟Io
come un campo di battaglia di spinte opposte provenienti dall‟Es e dal Super Io.
Trasponendo i problemi riscontrati nell‟individuo nel disagio della civiltà, Freud
era giunto a vedere in questo il vero grande problema di un‟umanità civilizzata, alle
prese con un fardello di colpa immaginaria insostenibile. Facendoci partecipi delle
sue convinzioni più intime, che prima si era guardato bene dal mostrare così
chiaramente, Freud ci informa ora che è questo il vero problema dell‟ebraismo, il
suo tratto distintivo rispetto ad altre forme di civilizzazione, la ragione profonda
per cui gli ebrei sono da sempre oggetto di ostilità.
L‟odio contro gli ebrei è per Freud odio di sé proiettato sull‟immagine
primigenia del padre. Non potendo, o non volendo entrare nel regno della
simbolizzazione, i popoli che da sempre opprimono gli ebrei, li considerano
colpevoli di avere imposto loro una morale troppo alta. Il problema degli ebrei è il
problema dell‟uomo civilizzato che antepone la rimozione all‟aggressione contro il
suo simile e per ciò stesso è oppresso da un sentimento di colpa inconscio non
dovuto ad azioni malevole commesse.
Per argomentare le sue tesi, Freud fa ricorso a un'operazione discutibile di
omologazione e sovrapposizione arbitrarie di dati fra loro non riducibili. Confonde
l’enoteismo egizio, l‟esistenza di una divinità suprema incentrata sul culto solare
col monoteismo (Il Dio ebraico non è un Motore immobile posto sopra il mondo, è
un Dio dialogico che partecipa alle sofferenze dell‟uomo). Procede per analogie fra
storia individuale e storia collettiva, sovrapponendo categorie concettuali differenti
di razza, nazione e lingua, con ipostasi e fughe lamarckiane nel filogenetico, che
richiamano semmai le tesi di Carl Gustav Jung (D. Meghnagi, 2004, p. 123).
La scienza biologica, afferma Freud, non vuole sentir parlare “di proprietà
acquisite dai discendenti per eredità”. Ciononostante “in tutta modestia” egli non
può rinunciare a “questo fattore di partenza nello sviluppo biologico”. Mescolando

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la trasmissione per via culturale e quella per via biologica, Freud afferma che “nei
due casi” non si tratta dello stesso meccanismo. Nel primo caso si tratta “di
proprietà difficile a cogliersi”, nell‟altro di tracce mnestiche, “d‟impressioni
esterne, per così dire palpabili”. Si tratta in ogni caso di un processo combinato in
cui la trasmissione per via di un insegnamento segreto si combina alla fissazione di
una traccia mnestica. Rompendo ogni prudenza Freud afferma che la struttura
psichica ebraica si trasmette “identica” da secoli (S. Freud, 1934-1938, p. 420). È
un‟idea che lo accompagna da sempre. E a conferma di questa scelta non esita a
utilizzare con riferimento alla riduzione della frattura “che i vecchi tempi
dell‟umana arroganza hanno allargato tra l‟uomo e l‟animale”, il termine
inconsueto per lui di Instinkt (Freud 1934-38, cit. pp. 420 e 449).
Proprio in quegli anni, con la formulazione del concetto di costruzione
(Freud, 1937, pp. 536-552), egli aveva impresso una svolta all‟ermeneutica e al
significato dell‟interpretazione nella pratica clinica. È la dimostrazione che
approcci diversi al sapere clinico e alla storia convivevano in lui e che il passaggio
da un modello a un altro non comportava una rinuncia totale. Il Freud
“novecentesco” che rivoluziona il sapere conviveva con quello “ottocentesco” in un
difficile equilibrio. Il Freud che si dichiara darwiniano resta nel profondo
lamarckiano.

Affermare che Mosè era un nobile egizio, ucciso nel corso di una rivolta di
gente per la quale egli era vissuto e in cui aveva creduto, non era per Freud un
gesto facile. Mosè egizio poteva essere l‟ultimo e il più doloroso (perché condotto
da uno dei figli) attacco a un‟etnia già provata e alle prese con problemi terribili,
che presto si sarebbe trovata braccata in ogni angolo d‟Europa. Era l‟ultima ferita
al narcisismo: il più venerato dei profeti, figlio de suoi oppressori! Freud confessa
in apertura del primo saggio il suo disagio. Ciò che sta per fare non era per lui
“gradevole”, né “facile”: sta per “privare un popolo”, dell‟uomo “che esso celebra

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come il più grande dei suoi figli” ed egli “appartiene a quel popolo”. (Freud, 1934-
38 cit., p. 337).
Freud non era nuovo a questo tipo di operazioni. Con Shakespeare non si
era comportato meglio, e non vi era ragione per pensare che con gli ebrei si sarebbe
comportato diversamente. Come avrebbe affermato per giustificarsi, era una
prerogativa ebraica difendere sino in fondo la verità.
Che per Freud si trattasse di una preoccupazione reale e non di una
semplice figura retorica, lo attestano i dubbi espressi un ventennio prima sul fatto
di dare alle stampe col proprio nome il saggio Il Mosè di Michelangelo.
(Freud,1913, pp. 293-328).
“Perché screditare Mosè ponendo il mio nome al saggio?”, così Freud aveva
scritto all‟incredulo Jones che con Ferenczi aveva insistito perché il saggio su Mosè
di Michelangelo non uscisse anonimo, tanto più che dallo stile sarebbe stato
comunque facile risalire all‟autore. Ad Abraham, Freud dette altre ragioni: a) “è
solo uno scherzo”; b) vergogna per l‟evidente carattere dilettantistico del saggio; c)
infine perché i miei dubbi circa le mie conclusioni sono più forti del solito: è solo
per le insistenze di Rank e Sachs che ho acconsentito a pubblicarlo” (E. Jones, cit.,
vol. II. p. 440). Accanto al disagio vi era però anche la certezza, che la
trasgressione contenesse un elemento di fedeltà che avrebbe compensato la perdita
operata con la ferita arrecata al narcisismo ebraico. All‟influenza esercitata da
Mosè sulla psiche ebraica, si doveva, “l‟immanentizzazione della concezione della
vita e il superamento del pensiero magico, la rinuncia al misticismo” (S. Freud,
Lettera a N. N. del 14 dicembre 1937; Lettera a E. Freud,17 gennaio 1938).
In Totem•e Tabù (1912-13) il mito dell'orda e del parricidio primitivo era
stato utilizzato da Freud per spiegare qualcosa che sta al di qua della storia. Nel
parlare di parricidio primitivo Freud sapeva di parlare di un avvenimento che si era
ripetuto innumerevoli volte: la civiltà nata a un certo momento perché la
colpa prese il sopravvento rendendo possibile uno spazio per la simbolizzazione di

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quel primitivo atto di barbarie. In Mosè e il monoteismo ci troviamo dentro la


storia e c'è un avvenimento che segna una diversa evoluzione storica e culturale.
L'insufficienza delle prove e la preoccupazione di non esporre il movimento
psicoanalitico viennese all‟ostilità della Chiesa, spinge Freud a utilizzare uno
pseudonimo per pubblicare la prima parte dell‟opera. Quando decide a pubblicare
la parte più significativa e dirompente nell‟esilio londinese, non fa niente per
nascondere o mascherare le contraddizioni del testo sin nella struttura della
composizione e nei titoli stessi dei saggi: il titolo del primo saggio, Mosè egizio
(Freud, 1934-1938, pp. 337-345), che in tedesco è espresso nella forma di
domanda, esprime le idee di Freud nella forma d‟ipotesi da dimostrare. Il titolo del
secondo, Se Mosè era egizio (ibid. 346-378), sembra essere stato concepito per
respingere al livello di mere ipotesi ciò che s‟intendeva dimostrare. Si potrebbe
continuare col sottolineare la conclusione del primo dei tre saggi "ma tal prova non
è stata trovata, e faremo quindi meglio a non parlare delle altre illazioni che
procedono dal convincimento che Mosè fu egizio" (ibid., 345)- che suona come
una dichiarazione di impossibilità e rinuncia, e la decisione invece di procedere alla
stesura degli altri due saggi. Il seguito, per usare le parole di Marthe Robert, è un
susseguirsi di se e ma che sembrano volte più a rafforzare il dubbio che a
eliminarlo (M. Robert, 1974). •
"Nulla di ciò che è a disposizione su l'Uomo Mosè, scrive •Freud
nell'Avvertenza inedita del '34, può definirsi sicuro" (Freud, 1934-1938, pp. 334-
335). La scrittura freudiana si aggira tra i frammenti della tradizione, rivelandosi
agli occhi dello stesso autore, come "una ballerina in equilibrio sulla punta di un
piede" (Freud, giugno 1938, ibid., p. 382). Si cercano punti di appiglio, ma alla fine
ci si deve rassegnare a dare la preferenza a “ogni ipotesi, cui si possa ascrivere la
maggiore verosimiglianza" (Freud, 1934, ibid., p. 1938, p. 335). Freud cerca la
verità, ma deve confessare che le conclusioni cui è pervenuto sono al più
verosimili: un‟interpretazione che si basa su fatti materiali inaffidabili, può al più
essere inverosimile. Se non avesse trovato “un sostegno nell'interpretazione

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analitica del mito dell'esposizione” e non si fosse potuto collegare “di qui alla
congettura di Sellin sulla fine di Mosè”, l‟intera “meditazione non avrebbe potuto
essere scritta …” (Freud, Avvertenza del giugno1938, ibid., p. 382). Dichiarazione
più esplicita d‟impossibilità non poteva darsi. Ciononostante Freud non esita a
difendere alla lettera le conclusioni cui perviene, reagendo con fierezza contro chi
lo invita a desistere dalla decisione di dare alle stampe il libro, contro chi avrebbe
voluto proporre una lettura puramente romanzesca: “Il dado è tratto” (ibid., p. 382).
Tornare indietro non è più possibile. La storia dell‟Esodo è interamente a partire da
alcune analogie fra il racconto biblico di Mosè, il mito dell‟esposizione e il
“romanzo famigliare” dei nevrotici.
Nella prefazione all'edizione ebraica di Totem e Tabù Freud aveva espresso
la speranza di potere un giorno rendere accessibile “all'esame scientifico” quella
“cosa essenziale” che lo fa sentire ebreo, nonostante la rinuncia alle tradizionali
forme d‟identificazione ebraica (Freud, 1930, pp. 8-9). Ora che la morte era vicina,
questa “cosa” diviene il centro della sua meditazione, un'ossessione che lo spinge a
scrivere e riscrivere la stessa opera. Dopo aver pubblicato separatamente i primi
due saggi, Freud affida, non a caso, un paragrafo che considera particolarmente
prezioso e rilevante alla figlia “Antigone-Anna”, che considera fedele erede e
continuatrice, perché lo legga al Congresso internazionale di Parigi dell'estate 1938
(Freud 1934-1938, pp. 430-434). Il paragrafo tratta del progresso della spiritualità
ed è un vero testo apologetico dell'ebraismo farisaico e della sua etica. Letto nella
massima assise del movimento suona come un testamento spirituale dell'autore, una
risposta al dilagante estendersi delle restrizioni antiebraiche, che ormai non sono
più prerogativa del Reich tedesco (nello stesso anno il regime fascista promulga il
“Manifesto della razza").
Negli anni in cui Freud medita sull'uomo Mosé sdoppiandone la persona
(un nobile egizio e un ebreo seguace di un culto vulcanico) egli è conquistato dalla
figura di uno dei leader più autorevoli del movimento farisaico all'epoca dell'as-
sedio delle legioni romane contro Gerusalemme (S. Freud, 1938, cit. in E. Jones,

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1972, p. 266). Freud - Mosè che si ferma davanti alla Terra promessa... Freud -
Jochanan che, nell'imminenza della catastrofe, si fa trasportare in una bara fuori
dalle mura della città santa, per salvare il giudaismo dall‟estinzione, fanno parte
della stessa storia. Destino individuale e destino collettivo, storia dell'ebraismo e
vicende del movimento psicoanalitico si saldano nel discorso qui riportato come
nell'antico detto talmudico secondo cui ogni ebreo, di qualsiasi tempo e in ogni
luogo, deve raccontare ai propri figli la storia dell'esilio e dell'esodo come se
fossero state scritte per quella generazione (Talmud babilonese, Trattato di
Pesachim 116b). L‟odio antiebraico è rivolto contro l‟idea biblica dell‟unità del
genere umano. La principale colpa degli ebrei è di avere diffuso questa idea tra i
popoli. Come affermerà la figlia molti anni dopo resignificando il dolore, l‟accusa
alla psicoanalisi di essere “una scienza ebraica”, dal quale Freud cercò invano di
difendersi, “nelle odierne circostanze” poteva “considerarsi” un “titolo d‟onore”
(A. Freud, 1978). Ascoltando quelle parole a Gerusalemme, c‟era da chiedersi se la
figlia Anna alla quale nel ‟38 aveva affidato il compito di esplicitare il suo mito,
non parlasse anche questa volta a suo nome (H. Yerushalmi, 1996, p. 148).
Dal punto di vista storico, Freud ci tiene a rilevarlo, gli ebrei non sono
"stranieri". Abitano da tempi più antichi nelle terre da cui sono costretti a fuggire.
Si tratta al contrario di un sentimento psicologico che ha come sfondo la
riattivazione di un'angoscia arcaica propria delle origini della specie, e del
passaggio alla condizione umana, riattivata e resa più acuta dalle condizioni
storiche in cui vivono gli ebrei in quanto gruppo minoritario accusato di essere
diverso e non assimilabile. In questo gioco di specchi, Freud non esita a
rintracciare gli elementi del rifiuto cristiano nella struttura del mistero della doppia
morte, del sacrificio e della trasfigurazione del Cristo. "Fu come se l'Egitto"
rovesciando il senso di un un'antica credenza antigiudaica, che si più far risalire a
epoca pre-cristiana al sacerdote egizio Manetone- si fosse preso "un'altra volta ven-
detta degli eredi di Ekhnaton”. “Scaturito “da una religione del padre”, il

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“cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di
doversi sbarazzare del padre.”. (Freud, 1934-1938, Terzo saggio, 452).
La strada percorsa dall‟ebraismo fu quella della rimozione (e Freud si
rassegna a dichiarare la sua impotenza a spiegare perché ciò sia accaduto (Freud,
1934-1938, p. 453), sino a quando una nuova intuizione (la psicoanalisi), anch‟essa
scaturita dall‟interno dell‟ebraismo, non fosse venuta a dire come realmente
stavano le cose e indicare la strada. È questo uno dei significati da attribuire alle
considerazioni che Freud svolge nella conferenza al B’nai B’rith, sugli “oscuri
ricordi dell‟umanità” che l‟ebraismo ha “accuratamente tenuto in disparte” e “forse
per questo si è dequalificato come religione mondiale” (Freud cit. in D. Meghnagi,
2004, p. 190). Un‟affermazione che egli collega al silenzio delle Scritture ebraiche
sulla vita ultraterrena (ibid., pp. 191-192).
I dilemmi dell‟uomo civilizzato oppresso dal senso di colpa, analizzati nel
saggio sul disagio, nella strategia dei tre saggi assumono un carattere
paradigmatico per definire l‟essenza dell‟ebraismo e le cause profonde dell‟ostilità
di cui è oggetto.
Nel processo di civilizzazione umana, la religione monoteistica, che Freud
identifica esplicitamente con l‟ebraismo, ha svolto un ruolo fondamentale al prezzo
di un fardello di colpa che la psicoanalisi ha il compito di alleviare. In questa
complessa dialettica la psicoanalisi è un nuovo sviluppo della coscienza “religiosa”
ebraica, un suo frutto duraturo.
Si può qui cogliere il senso profondo della domanda retorica e polemica di
una lettera di Freud al pastore protestante Oscar Pfister, amico e allievo, del
“perché fra tanti uomini pii nessuno” abbia creato la psicoanalisi, e si sia dovuto
“aspettare che fosse un ebreo affatto ateo?” (Freud a Pfister, 9 ottobre 1918). Come
dire che per fare le sue scoperte bisognava essere insieme “ebrei” e “atei”: ebrei
perché nell‟ebraismo, più che in ogni altra civiltà religiosa, era stata
psicologicamente approfondita, secondo Freud, la tragedia delle origini. “Atei”,
perché solo attraverso la rottura operata da Spinoza e dalla secolarizzazione era

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stato reso possibile il disvelamento di ogni tradizione religiosa, compiuto dalla


psicoanalisi (Meghnagi, 1985, 1987; 1992, 2004; Yerushalmi, 1992). Il che non
significa per Freud l‟abbandono dei valori che la fondano. Quanto piuttosto la
ricerca disperata di una nuova fondazione che li riaffermi oltre la sfera strettamente
religiosa. Sta qui forse uno dei motivi psicologici della sua adesione alle teorie di
Lamarck. Il lamarckismo forniva a Freud una via di uscita all‟enigma che lo aveva
tormentato e inseguito lungo l‟intera esistenza. In questo modo Freud non aveva
più bisogno di trovare una spiegazione religiosa o culturale per la sua appartenenza
all‟ebraismo in quanto era già data. L‟adesione consapevole non faceva che
esplicitare ciò che nel profondo già esisteva e che bisognava riconquistare (cfr.
Meghnagi, 1985, 1987; 1992, 2004; Yerushalmi, 1996).
Ciò che il cristianesimo aveva storicamente contenuto nella forma di
compromesso ambivalente, tornava, secondo Freud, con il nazismo in forma
brutale. Freud sembra qui voler rispondere a quanto scriveva negli stessi anni l‟ex
amico e seguace, Carl Gustav Jung, sull‟ “imponente fenomeno del
nazionalsocialismo” che “il mondo intero guarda con occhi attoniti” (C. G. Jung,
1934, pp. 236-237).
I dilemmi della condizione ebraica occidentale, che sembrava giunta a un
vicolo cieco, tra marginalità creativa e impossibilità reale di contare, tra
attaccamento alle origini e sentimento d‟impotenza che derivava dall‟appartenere a
una condizione altra - per quanto Freud avesse reagito a questo sentimento
d‟isolamento tramite l‟autoesaltazione dell‟uomo “che sta solo”-, toccano in queste
pagine punte drammatiche. Arroccato nelle proprie rappresentazioni umanitarie,
l‟ebraismo rischiava, secondo Freud, di non avere un‟adeguata percezione del
grado di rifiuto di cui era oggetto per opera di una società pericolosamente
attraversata da una psicosi antiebraica.

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Cultura e Società

TRANSPERSONALE E TRANSGENERAZIONALE

Raffaele Menarini
(Psicoterapeuta, Gruppoanalista, Docente di Psicologia Dinamica Uni. LUMSA di Roma, già docente
Uni. Cattolica S. C., Didatta Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG)
Marra Francesca
(Psicologa, Ricercatrice)
Montefiori Veronica
(Psicologa, Ricercatrice)

Dall’antropologia alla psicoanalisi

Ripercorrendo l‟evoluzione della specie sapiens, è interessante notare in che


modo la definizione dell‟Homo sapiens sapiens ritrovi le ragioni del proprio successo
nella cultura e che essa, per certi versi, provenga da un‟assenza, prodotta dalle
angoscianti condizioni climatiche alle quali furono sottoposte le specie viventi
durante l‟epoca delle grandi glaciazioni. Questa assenza ha implicato una evoluzione
straordinaria. Due milioni di anni fa, dunque, inizia il ciclo delle ere glaciali, l‟ultima
fu la glaciazione di Wurm, affrontata dall‟Homo sapiens. Tali shock climatici hanno
contribuito all‟evoluzione della specie, dal punto di vista cerebrale, ma hanno anche
isolato i nostri antenati (le scimmie antropomorfe) nelle foreste, oppure nella savana
dall‟Etiopia al Sud Africa. Locus importante è la Reef Valley, grande solco che
impediva un collegamento tra le origini prossime (nella savana) e quelle remote (nelle
foreste).
Il processo di difficile adattamento, inoltre, ha comportato l‟evoluzione e la
trasformazione anatomica in modo radicale (dai quadrumani ai bipedi), la quale ha
prodotto il vantaggio inerente il procacciarsi il cibo e manipolare gli oggetti. La

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bipedia comportò, inoltre, conseguenze a cascata, sollevando anche il problema del


parto, comportando la procreazione di “cuccioli immaturi”.
A tale proposito, l‟Homo sapiens, come prima accennato, sviluppa la
caratteristica neotenica, ovvero la conservazione dei tratti fetali e il lento sviluppo del
cervello. Partorire creature fetalizzate comportò anche l‟esigenza di investire in un
iperaccudimento dei neonati, sviluppando una necessaria identità di coppia e di
gruppo. Tale processo implica anche una forte identità individuale. Queste molteplici
identità sono in perenne tensione dando luogo alla cultura, all‟autorealizzazione e allo
sviluppo della mente. Detto in altri termini, identità di gruppo, di coppia e di
individuo hanno importanza e dignità perché costituiscono la più ampia identità
umana, rappresentando le sue identità originarie.
La dilatazione dell‟apprendimento postnatale, oltre all‟aumento
dell‟intelligenza, comporta la necessità di una ristrutturazione dei processi affettivi di
affiliazione e cura, i quali richiedono, a loro volta, una attribuzione di significati
affettivi al mondo circostante. Inoltre, il meccanismo di accudimento sviluppato dalla
specie sapiens garantisce un tempo di apprendimento che dura per tutta la vita, altro
fattore determinante dell‟aspetto neotenico, rilevato da quei processi che causano un
mantenimento della plasticità fetale negli stadi di sviluppo postnatale dell‟individuo.
Ribadendo il concetto di neotenia, il termine intende quel processo mediante il quale i
tratti primari fetali sono conservati anche nello sviluppo adulto. Il processo neotenico,
da questo punto di vista, comprende due processi fondamentali: la fetalizzazione e la
pedomorfosi, i quali riguardano un ritardo nello sviluppo corporeo. La fetalizzazione,
ovvero la conservazione delle caratteristiche infantili, ha permesso all‟uomo di
perdere molti dei suoi tratti animaleschi promuovendo il vantaggio del gruppo che
protegge l‟infante garantendogli la possibilità di ampliare il proprio bagaglio di
conoscenze in un apprendimento continuo. Siamo destinati a crescere in corpo,
spirito, sentimenti e comportamenti sviluppando, anziché eliminando, le nostre
caratteristiche infantili (Menarini, Neroni, 2002).

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L‟investimento parentale, in questo senso, rappresenta l‟energia spesa dal


gruppo familiare verso i figli, al fine di aumentarne le possibilità di sopravvivenza. La
selezione naturale, infatti, sembra aver favorito i piccoli che maggiormente hanno
ricevuto cure parentali per un tempo considerevole. L‟insorgenza del gruppo sarebbe,
dunque, collegata ad una predominanza del modello basato su una coppia che genera
più figli, i quali vengono sottoposti a numerevoli cure parentali, in cui il padre,
bipede, procaccia il cibo, la madre li accudisce lungo un arco di tempo considerevole
entro il quale essi sono completamente dipendenti e massimamente orientati alla
inculturazione. Psichismo ed infanzia sono intimamente intrecciati: la fonte della
creatività è nella psiche quale configurazione infantile corporeo-mentale produttrice
di cultura.
Lo sviluppo, in questo senso, rappresenta un adattamento culturale
all‟ambiente, il quale, nel caso degli esseri umani, è costituito dalla cultura e dalla
storia. Allora, l‟adattamento è l‟esito dell‟interazione tra le risorse individuali e le
caratteristiche ambientali in cui si trova a vivere il soggetto. Ecco che ritorna la
matrice neotenica, per la quale gli aspetti infantili vengono ad esprimersi
nell‟interazione con l‟ambiente mediante le trasformazioni culturali (Menarini,
Neroni, 2002).
Come è stato accennato precedentemente, la genesi e lo sviluppo della cultura,
derivati dal processo evolutivo appartenente alla specie sapiens, porta con sé una
serie di considerazioni che trovano, oggi, esplicazione e rilevanza nell‟approccio ad
opera della psichiatria transculturale e, dal nostro punto di vista, permette di
comprendere il nucleo fondamentale delle sindromi etniche. Esse, infatti, esprimono a
pieno titolo, quelle che sono le radici epistemologiche delle teorizzazioni affrontate
intorno alle diversità e alle costruzioni biopsicoculturali specifiche dell‟essere umano.
L‟ultimo periodo del Paleolitico (Paleolitico superiore), assiste alla
scomparsa dell‟Homo neanderthalensis e alla progressiva diffusione dell‟Homo
sapiens sapiens, appartenente alla razza Cro-Magnon. Tale processo viene a
svilupparsi a cavallo della glaciazione di Wurm e dell‟era postglaciale, periodo

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contrassegnato da tre culture principali: quella Aurignaciana, Perigordiana e


Magdaleniana, giunte a noi attraverso numerosi reperti di carattere artistico tra i più
vari, dalle statuine alle pitture. Nell‟Aurignaciano emergono segni vulvali incisi su
pietra (ritrovati a Abri Cellier dell‟Aurignaciano I e La Ferrassie dell‟Aurignaciano
II). Nel giacimento ucraino di Kostjenki abbiamo reperti di sculture intagliate in
pietra che si configurano come rappresentazioni simboliche vulvari. Durante
l‟Aurignaciano, si trovano anche torsi femminili scolpiti nell‟osso. Si tratta
dell‟emersione della tradizione culturale di figurette muliebri con esasperazione delle
parti corporee connesse con la fecondità. La loro dimensione simbolica è
probabilmente di tipo religioso e connessa al far nascere. Nel periodo Magdaleniano
sono importanti i graffiti su pietra raffiguranti corpi femminili, di La Roche Lalinde
(Francia). Le pitture nelle grotte del Magdaleniano sono spesso simboli femminili, a
Trou Magrite (Belgio) abbiamo una figura muliebre stilizzata di tipo fallico.
Elemento particolarmente rilevante, soprattutto all‟interno della cultura Aurignaciana
è rappresentato dalle figure femminili che assomigliano a donne gravide dai seni
cadenti. Sembrerebbe che tali raffigurazioni rappresentino la prima grande
manifestazione simbolica della cultura, come se stessero ad esprimere la natura
intrinseca di essa. Infatti, le donne incinte rappresentano il mistero del far nascere,
elemento di carattere culturale ma anche psichico che presiede e fonda, nel suo
richiamo alla certezza dell‟esistere tramite il concepimento, la matrice culturale-
antropologica dell‟identità personale. Detto in altri termini, le produzioni artistiche
riferiscono significati e significanti testimoni della rappresentazione fantasmatica del
“far nascere”. Ciò significa che l‟evento mentale del concepimento, richiamato dalla
statuina, rappresenta il mistero biunivoco della certezza del bambino di far nascere a
sua volta la madre, come se la produzione artistica fosse connessa alla codificazione
psichica di una esperienza derivata da un collettivo familiare che viene a costruirsi
nella mente infantile.

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Transgenerazionale e nascita

Dalle considerazioni sviluppate finora viene a delinearsi la connessione che


esiste a livello bio-psico-culturale. Essa si esprime in maniera preponderante nel
momento in cui, all‟interno dell‟arte paleolitica, il concepimento assume una veste
religiosa. Il modello evolutivo neotenico si attualizza come psichismo nella sua
dimensione simbolopoietica. Dunque, il pensiero familiare e il mondo interno
sarebbero tutte dimensioni psichiche infantili volte al mantenimento di una continua
plasticità mentale. Tale osservazione è supportato dalla dimostrazione scientifica
secondo la quale la selezione avrebbe favorito quei piccoli i quali hanno goduto di
cure parentali per un tempo considerevole, permanendo più a lungo in uno stadio
infantile, il quale avrebbe garantito la possibilità di usufruire del contesto parentale
sia in termini fisici che psichici. In tal senso, infatti, Franco Fornari (1981) individua
la dimensione denominata Codice Materno.
Il concepimento inteso come “far nascere” rappresenta il referente mitico di
quelle espressioni chiamate da Fornari “coinemi”, essenzialmente forme insature di
significazione o unità elementari della significazione affettiva. In questo senso i
coinemi vengono ad essere investiti quali codici inculturativi d‟identità culturale.
Formalmente si tratta di sagome familiari: bambino, madre, padre, fratelli (come nel
caso delle statuine paleolitiche).
I coinemi potrebbero esprimere una teoria inconscia che pre-concepisce
l‟universo sub specie familiari attraverso oggetti interni che trovano la loro
rappresentazione in corrispettivi individuabili a livello cognitivo, come il corpo del
bambino e il corpo dei genitori. In questo senso il livello cognitivo può comprendere
formalmente i personaggi della relazione di parentela.
Tale processo può essere individuato come processo psichico della
significazione, nel senso che gli oggetti del mondo esterno si istituiscono come
simbolizzanti rispetto agli oggetti del mondo interno (simbolizzati). Quindi, a livello
cognitivo gli infiniti oggetti del mondo (invenzioni linguistiche del pensiero) sono

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infantilmente predisposti da un dispositivo di significazione affettiva. Da questo


punto di vista, la cultura, attraverso la metaforizzazione, si delinea quale creazione
originaria dell‟emersione di un simbolizzato il cui referente originario è il “far
nascere”: Progetto Generativo (Menarini, 2009).
Secondo la nostra impostazione, si tratta della caratteristica generativa delle
strutture culturali e della loro possibilità di rigenerarsi nel continuum
transgenerazionale sottoforma di eventi mentali. Il “far nascere” rappresenta quella
dimensione affettiva che presiede alla formazione dei gruppi umani ed è denominata
codice materno, così come inteso da Fornari. Il codice materno istituisce una costante
psichica inconscia rendendo equivalente il parto nascita ad un Progetto del Bene per il
nascituro. Tale prospettiva garantisce la centralità del narcisismo fisiologico, in cui il
bambino è posto al centro del pensiero familiare e ne fonda le rappresentazioni. Il
codice materno permette una sostanziale omogeneità tra il “familiare” e il mondo
interiore. Le figure che popolano il mondo familiare, trovano dei corrispettivi psichici
nel mondo interiore del bambino, i quali, a loro volta, rappresentano eventi mentali
fondativi emergenti da una dimensione transgenerazionale.
La coppia, a livello antropologico e psicologico, si evolve con la madre ed il
padre, i quali si esprimono come gruppo a due, cioè come sistema psichico e dunque
condivisione di mondi interiori. Ciò significa che la coppia diviene un oggetto
relazionale (si tratta di due soggetti che, allo stesso tempo, costituiscono un‟unità,
ovvero la coppia).
La coppia, in questa prospettiva, genera se stessa come primo bambino,
esprimendo la creatività della mente come trasformazione ed autotrasformazione
(noopoiesi). La coppia pone al centro del proprio mondo psichico il bambino. Il
primo bambino della coppia è la coppia stessa.
Quando nella psiche diventa centrale il bambino si sviluppa la creatività e di
conseguenza si genera quello che può essere definito “narcisismo fisiologico”. La
coppia nasce in funzione del bambino. Il padre e la madre, in qualità di fantasmi
familiari che sono oggetti-Sé del bambino, esistono solo se il bambino li fa nascere.

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La possibilità creativa viene ad essere definita “matrice insatura”, la quale permette al


mondo interiore del bambino di creare la propria famiglia e di configurarsi come
matrice del Sé. Per quanto riguarda il concetto di Sé, Stephen A. Mitchell (1992)
ritiene che il termine “Sé” è molto difficile da definirsi chiaramente. In effetti trattare
il Sé come fosse un‟entità è una reificazione e cioè un uso scorretto del pronome
riflessivo che fa riferimento alla persona: me stesso, te stesso, se stesso. Lo stesso
Freud non usava in maniera sistematica alcun termine traducibile come Sé. Freud
utilizzava il termine “Ego” riferito alla persona nel suo complesso. Da questo punto di
vista, non esisterebbe un Sé come tale, ma solo la persona e le sue pulsioni. Secondo
Mitchell, è opportuno parlare di esperienza soggettiva del Sé che i pazienti hanno,
evitando ogni reificazione che trasformi il Sé in qualcosa che esiste di fatto. Il Sé non
è altro che il vissuto soggettivo emergente dalle matrici relazionali dell‟individuo.
Il figlio, invece, è espressione del narcisismo patologico nel quale al centro
non c‟è il bambino, ma quel particolare tipo di coppia, che sancisce a priori il destino
del figlio che non è più il centro creativo, ma progetto rigenerativo della coppia. Il
figlio diventa proseguimento della coppia e la matrice è satura. I significati originari
di Madre, Padre, Bambino, Fratello, Coppia costituiscono i fantasmi originari inerenti
il mito d‟origine del Sé. Il fantasma familiare originario è una preconcezione del Sé,
in quanto collegato al mistero della sua nascita. Si tratta, da un punto di vista
psicoanalitico, della scena primaria o luogo dei fantasmi familiari, mentre, da un
punto di vista antropologico, è il tempo del mito d‟origine. Un altro elemento
fondante il Sé è il transgenerazionale e cioè l‟ideazione di un continuum che si
inabissa nel tempo e quindi lungo un asse verticale costituito da sistemi di filiazione
disposti uno di seguito all‟altro. Nella famiglia mitica, questa tavola genealogica
mentale giunge sino ai capostipiti e cioè agli archetipi degli antenati. Il processo di
psichizzazione che organizza i pensieri pensati dalla mente, viene organizzato
sottoforma di famiglia. La famiglia è un gruppo che trasforma il protomentale, e cioè
l‟equazione mente-cervello-cultura nelle relazionalità psichiche. Tale trasformazione
avviene attraverso la funzione di matrix e la funzione di pattern.

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La funzione di matrix forma uno spazio mentale nel quale nascono, da


identificazione e proiezione, oggetti mentali buoni e cattivi. La funzione di matrix
trasforma il transpersonale in pensieri caricati di qualità positive e negative negli
affetti. Quando questo non avviene si ha la sensazione di nascere in una situazione
terrificante, dove la mente si rifiuta di nascere (una dimensione assimilabile, a livello
clinico, a quella delle psicosi), la cui forma iniziale è l‟autismo: il bambino autistico,
per non entrare nel mondo mentale agghiacciante, crea degli oggetti autistici che lo
proteggono come una fortezza.
La funzione di pattern crea oggetti che permettono la costituzione dell‟identità
della mente, conferendo identità al soggetto. La famiglia, in questo senso, è la
costante psichica della cultura, che permette di costruire la mente come apparato che
pensa i pensieri (matrix) e di darle un‟identità (pattern).
La funzione di matrix, allora, crea uno spazio affettivo e la funzione di pattern
crea gli oggetti-Sé padre, madre, bambino, figlio, fratello, in qualità di oggetti
originari, che non corrispondono a nulla di reale ma che sono puramente mentali. Per
il bambino essi rappresentano oggetti-Sé, i quali consentono di individuare la propria
identità tramite la relazione che viene a costruirsi con essi a livello psichico.
Il bambino fantasmatizza i genitori con gli oggetti-Sé, rendendo i propri
genitori fantasmi familiari. Qualora questo non avvenisse, gli oggetti interni
assumerebbero una configurazione spettrale e persecutoria, svincolandosi dai legami
e investimenti affettivi e trasformando l‟universo familiare in universo minaccioso e
terrifico.
Kubrick, nel film Shining (1980) mette in scena una famiglia nella quale il
padre non è più un oggetto familiare e non riesce più a creare trame familiari (come
scrittore non scrive altro che “il mattino ha l‟oro in bocca”), fino a voler uccidere il
bambino. Il romanzo che il padre avrebbe dovuto scrivere, ma che, invece, si coagula
intorno ad una sorta di coazione a ripetere, impedisce di fatto la significazione del
mondo. Tale impossibilità di organizzazione mentale e culturale impedisce la
manifestazione dei legami transgenerazionali nella famiglia (il padre diviene un

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assassino persecutorio e madre e bambino sono costretti a scappare rinchiudendosi in


un labirinto), liberando il transpersonale nella sua veste di disorganizzazione psichica
e condensazione bio-psico-culturale.
La modificazione del campo dei significati, così come è accaduto nel film di
Kubrick, a livello clinico, caratterizza la psicopatologia paranoide, in cui gli antenati
non sono fantasmi familiari ma persone reali persecutorie e al posto della trama
familiare c‟è una trama persecutoria espressa attraverso un ambiente affettivamente
persecutorio.
Dal punto di vista della connessione che corre tra la dimensione psicologica e
quella culturale, è possibile affermare che il codice materno esercita la funzione di
matrix, prerogativa della Famiglia, intesa come costante psichica della cultura, nel
senso di un campo mentale accomunante generatore di coinemi. Il campo mentale è la
dimensione temporale del sistema identità-ambiente costituito da valori fondativi o
legami affettivi inerenti il transgenerazionale e cioè ciò che unisce le nuove con le
vecchie generazioni. L‟identità è la continuazione della mente nel tempo,
trasmissibile di generazione in generazione, per cui la personalità di un soggetto nel
suo sviluppo reca in sé tutte le influenze del passato familiare. L‟identità originaria è
una base affettiva dei modi di essere, pensare ed agire predisposta dal campo mentale
familiare quale dispositivo basico di concezione e significazione affettiva. Questi
modi di essere sono quindi regolati da una teoria affettiva sub specie familiae.
La famiglia è fondamentalmente la fonte dei contenuti inconsci affettivi del
pensiero, per cui tutti gli accadimenti dell‟universo sono ricondotti affettivamente alla
logica dei legami familiari. Gli eventi mentali possono allora essere definiti quali enti
semantici traducibili in modelli di comportamento, di significati affettivi e quindi di
valori. I valori costituenti il mondo interiore sono “valori originari di natura
fondativa” caratterizzati da un valore simbolico non basato sull‟oggetto
simbolizzante, bensì sulla proprietà del simbolizzato. I valori divengono Gestalten
familiari e cioè forme che permettono l‟istituzione delle categorie culturali in termini
affettivi. Per evento s‟intende allora la caratteristica basilare del sistema psichico di

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donare senso all‟universo e quindi di porsi nella prospettiva della creazione dei valori.
Il comportamento umano ha come referente il campo degli eventi o campo mentale.
La funzione di matrix è un‟articolazione affettiva coinemica che “produce” il mentale
in termini di spazio-tempo poiché permette la nascita psichica del sociale. Il codice
materno attiva la funzione di matrix quale organizzatore affettivo naturale, nel senso
di una definizione naturale-familiare dell‟inconscio. La nascita della mente e della
cultura è sempre concepita quale evento familiare. I coinemi sono il luogo della
trasformazione del transpersonale, racchiudente tutta la cultura possibile, in sagome
simboliche familiari. Questa trasformazione è supportata dall‟ideazione affettiva
„Bambino‟ quale assioma di pensiero affettivo familiare. La qualità dell‟evento
familiare è fondata da codici affettivi: il Buono ed il Cattivo, il Giusto e l‟Ingiusto.
Queste proprietà degli oggetti interni coi nemici, emergenti dalla funzione di matrix,
riguardano la funzione di pattern, la quale introduce nello spazio mentale della matrix
i codici affettivi di riconoscimento dell‟identità familiare. Grazie alla funzione di
matrix e di pattern i coinemi istituiscono dei personaggi delle relazioni di parentela in
termini di „Buoni‟ o „Cattivi‟, „Positivi‟ o „ Negativi‟. La struttura degli eventi, a
livello affettivo, è dunque quella di enti che possiedono una proprietà affettiva per cui
si costituiscono quale classe corrispondente a detta proprietà: Buono o Cattivo. A
livello del mondo interno psichico, gli oggetti interni sono eventi familiari
diversificabili in base alle loro proprietà affettive. Da questo punto di vista , gli
eventi, per definizione, sono sempre presenti come entità Buone o Cattive: non esiste
qualcosa al di fuori di esse. Ciò significa che le coppie oppositive prelinguistiche
(codici affettivi Buono/Cattivo) costituite dalle relazioni coinemiche elementari non
possono divenire linguaggio a meno che non venga istituito uno scenario esperenziale
che renda significanti le opposizioni affettive Buono/Cattivo. Questo scenario
esperenziale è offerto dai temi culturali. Miti di origine, sogni ed opere artistiche sono
i principali esempi di temi culturali. La funzione svolta da questi temi è quella di far
trasparire il mondo interno in termini di eventi del mondo esterno che rimandano a

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sistemi di valori, esattamente come abbiamo potuto osservare nel caso delle statuine
del periodo Paleolitico.
Dal punto di vista antropologico, è possibile individuare, a livello
biopsicoculturale, due impostazioni da cui partire per studiare l‟evoluzione umana:

 la prima considera l‟evoluzione dall‟Australopitecus fino al genere Homo


come una serie di tappe tecnologiche. La mente, in questo caso, è considerata come
una funzione cerebrale emergente da questa tipologia di evoluzione a tappe
tecnologiche. Per tecnologia si intende l‟utilizzazione di strumenti esterni al fine della
sopravvivenza, ad esempio le pietre appuntite per tagliare la carne di animale.
 la seconda teoria, invece, sottolinea come la caratteristica fondamentale del
passaggio dal pre-umano all‟umano sia la significazione dell‟ambiente, cioè
l‟ambiente viene categorizzato in maniera diversa: si crea il dominio semantico del
significato. Questa seconda impostazione è fondamentale poiché, pur non rifiutando
che il livello mentale sia collegato all‟attività cerebrale, sostiene che esso sia
prettamente connesso all‟apprendimento, al linguaggio, alla memoria, alle emozioni,
cioè a quelle attività che, organizzate, costituiscono il livello semantico, cioè la
capacità dell‟uomo di dare senso all‟ambiente e quindi a se stesso: questa
impostazione antropologica è maggiormente indirizzata verso la coscienza di sé. Nel
passaggio dal pre-umano all‟umano, quindi, è nato l‟universo dei significati.

Nella prima ipotesi evoluzionistica l‟evoluzione tecnologica è avvenuta per


caso, ad esempio, continuando a sbattere i ciottoli di pietra uno di essi si scheggia,
l‟ominide si ferisce e comprende che questo utensile potrebbe essere utilizzato per
tagliare la carne, quindi mente e cervello si sono evoluti per caso. In questa
prospettiva, però, manca la semanticizzazione dell‟ambiente e soprattutto è
completamente assente l‟ipotesi psicodinamica di un inconscio che produce dei
significati affettivi.

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Arthur C. Clarke nel 1968 scrisse un racconto di fantascienza intitolato 2001:


Odissea nello spazio, da cui Kubrick trasse l‟omonimo film. Lo scrittore immagina
che l’Australopitecus improvvisamente entra in contatto con il mondo del significato,
cioè con qualcosa che significa tutto. Entra in rapporto con qualcosa di misterioso,
riesce a capire il significato che prima di questo evento non esisteva, in altre parole,
improvvisamente, avviene una mutazione grazie alla quale qualcosa che non si
conosce entra nell‟universo del significato. Prima di girare il film Kubrick chiese ai
più grandi antropologi del suo tempo, per esempio Margaret Mead, se l‟ipotesi che
l‟evoluzione sia dovuta ad un rapporto con qualcosa di misterioso che crea il mondo
del significato potesse essere plausibile. Questa ipotesi fu accettata come presupposto
semantico dell‟evoluzione, più vicino alla psicologia che all‟antropologia. Questo
primo rapporto con un campo di significati enorme, con il mistero del significato, è
l‟emersione di un campo di significati inesplorato, incomprensibile, misterioso, in
psicologia si chiama numinoso (dal latino numen: “potenza divina”), esso è forse una
forma particolare di sacralità.
Si può dare a questo numinoso il nome di transpersonale, cioè qualcosa che
attraversa la persona, come se fosse dei raggi x, e va al di là della persona stessa, la
quale non si accorge da cosa è attraversata. Mentre il transgenerazionale può essere
considerato una matrice relazionale del Sé e quindi vissuto specifico della persona, il
transpersonale si pone al di là di ogni relazione e attraversa la persona senza alcuna
specificità relazionale. Il transpersonale è ben rappresentato nelle scene iniziali di
2001: Odissea nello spazio (1968).
Degli habilis entrano in contatto con qualcosa che non comprendono, un
monolito, figura geometrica incomprensibile, ma il contatto con esso produce il
rapporto con un universo di significato incredibile, come se di fronte si avessero tutti i
significati del mondo e questo rapporto con una cultura collassata a livello di
significato, permette agli habilis di acquisire un enorme potere distruttivo.
Nell‟analisi di questo evento si possono sposare entrambe le prospettive
antropologiche precedentemente esposte in quanto, da una parte, l‟ipotesi tecnologica

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è attendibile nella misura in cui l‟invenzione dell‟arma (femore di antilope) permette


l‟evoluzione verso il genere Homo, nello stesso tempo, però, questa tecnologia non
nasce per caso ma è il frutto della capacità di entrare in contatto con la totalità infinita
e simmetrica di ogni significato possibile.
Alberto Moravia scrisse, in una sua recensione, che il monolito è Dio: il
contatto diretto con la transpersonalità di Dio è invero clamoroso e straordinario.
Il contatto con qualcosa che può significare tutto è osservabile nel concetto di
Mana specifico di alcune popolazioni pre-letterate; per Mana si intende unna forza
misteriosa, incredibile, che dà senso a tutto: se una persona possiede il Mana è
necessariamente un capo carismatico.
Il Mana fu chiamato da Lévi-Strauss fonema zero, cioè quel fonema che
significa tutto ciò che si vuole. Ma il Mana, in realtà non significa nulla proprio
perché significa tutto: è una condensazione massima di significati che si manifesta
cioè con tutti i significati possibili e immaginabili. Da questo punto di vista può
essere considerato un campo semantico vuoto, come ad esempio il silenzio senza
significato, come in alcuni casi di silenzio autistico.
Per transpersonale intendiamo quindi un condensato collassante di significati,
incredibilmente travolgente e che probabilmente può essere considerato una prima
emersione del protomentale. A differenza del protomentale, se la mente fosse emersa
dopo la formazione del cervello essa sarebbe solo una manifestazione epifenomenica
del cervello stesso, invece, a nostro avviso, la mente ha avuto una lenta evoluzione e
si è sviluppata insieme al cervello: il livello mentale ha accompagnato l‟evoluzione
del livello cerebrale.
Anche Freud ha parlato indirettamente di transpersonale chiamandolo Mana,
questo concetto è stato sviluppato in tre saggi:

 Totem e tabù (1913): il Mana è una forza misteriosa che caratterizza il


potere di un capo e che attualmente possiamo tradurre nel termine sociologico di

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carisma, cioè il potere del capo stesso. È una forza che riesce a promuovere un forte
consenso di massa.
 Il perturbante (1919): Freud collega il Mana all‟onnipotenza dei pensieri,
poiché avere la capacità di capire improvvisamente tutti i significati non è solo un
fatto semantico ma fa scaturire anche una sensazione di onnipotenza.
 Psicologia delle masse e analisi dell’Io (1921): in questo saggio Freud
omologa il Mana al potere sulla massa, esso rappresenta la capacità di muovere le
masse. In questo caso anche la massa appare investita dal Mana poiché essa si
identifica con il capo portatore di potere. Un esempio storico è rappresentato dalla
figura di Hitler, un uomo portatore di un Mana incredibile, che è riuscito a
trasformare la Germania nel transpersonale nazista.

Il transpersonale, infatti, può essere compreso proprio attraverso lo studio dei


fenomeni di massa.
Bion ha chiamato questi fenomeni protomentale, visualizzando in esso ciò che
caratterizza la massa e la contrappone al gruppo, in quanto quest‟ultimo è mentale,
mentre la massa è protomentale. Il protomentale è caratterizzato da tre modalità
comportamentali che egli denomina assunti di base:

 dipendenza: sensazione di dipendere da un‟entità onnipotente, la massa si


unifica identificandosi nel capo;
 attacco-fuga: improvvisamente questa onnipotenza diventa qualcosa di
incomprensibile e terrificante, subentra il terrore, una situazione di pericolo
improvviso.
 accoppiamento: corrisponde alla sensazione di unirsi con qualcosa che darà
poi adito ad una potenza salvifica, ad un salvatore. Ad esempio Mussolini che si pone
come salvatore della patria o Hitler come salvatore della Germania; Hitler
accoppiandosi con la Madre Germania poteva far nascere la razza pura.

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Transgenerazionale e transpersonale in Freud

Freud accettò profondamente la credenza espressa nei saggi talmudici secondo


la quale tutti gli ebrei, nati o ancora da nascere, fossero stati presenti sul monte Sinai
per sancire, tramite Mosè, l‟alleanza con Dio. In particolare i saggi talmudici
introducono un curioso aspetto della nozione di transgenerazionale: sul Sinai erano
già presenti le anime non ancora nate di tutte le future generazione. In tal modo
sarebbe stata evitata la tragedia del bambino mai nato imprigionato nel caos
originario del transpersonale. Il transgenerazionale avrebbe la capacità di suscitare
ricordi ancestrali nelle generazioni. La tradizione religiosa permette di far riemergere
ricordi fin a quel momento inconsci di fatti reali grazie a questo suo muoversi nei
solchi temporali tracciati dal transgenerazionale. Mosè assume sul monte Sinai le
vesti dell‟antenato mitico di tutto il popolo ebraico poiché vicino a lui stanno le anime
della future generazioni. Allo stesso modo Mosè assume integralmente le funzioni di
matrix e di pattern trasformando il transpersonale in livello psichico. Una delle
implicazioni principali del pensiero di Freud è la nozione di rimozione originaria
intesa come transpersonale identificabile in una verità storica rimossa. In tal odo
emerge la contrapposizione dilaniante tra la tradizione “ebraica freudiana” e quella
“pagana junghiana”. In quest‟ultima, infatti, il transpersonale assumerebbe la
configurazione di archetipo in sé. Possiamo quindi sostenere che la concezione
freudiana di Mosè configuri quest‟ultima quale dramatis persona del mito di origine
del popolo ebraico e quindi primo abbozzo di una teoria del transgenerazionale. A
livello di inconscio rimosso, il transpersonale, invece, sarebbe l‟espressione
dell‟assenza originaria dell‟oggetto intesa quale assenza originaria di Dio. La verità
storica di tale assenza contenuta nei temi religiosi sarebbe l‟uccisione del Padre
Primigenio: Dio non esiste in quanto a priori cancellato dall‟uomo. Ma cancellando
Dio veniva automaticamente cancellata la creazione e quindi l‟uomo stesso si veniva
a porre come bambino mai nato. L‟inconscio archetipico di Jung entrò ben presto in
rotta di collisione con quello transpersonale-transgenerazionale freudiano. Per lo

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psichiatra svizzero il transpersonale non era affatto la coazione a ripetere del rimosso
originario bensì la presenza archetipica “portavoce” di nuove forme culturali. Si
trattava basilarmente dell‟archetipo di Dio, carico di energia creativa e forma a priori
dei futuri modelli culturali. L‟impostazione junghiana è decisamente pagana nella
misura in cui tratta Dio come se fosse un archetipo. In Freud, invece, la fondazione
dei modelli culturali sarebbe la dimostrazione eloquente di una trasformazione del
transpersonale in transgenerazionale.

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