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BOTTICELLI

LA PRIMAVERA (T1)

La Primavera è un dipinto a tempera su tavola,databile per il 1478 circa. Realizzata


per la villa medicea di Castello, l’opera d’arte è conservata nella Galleria degli
Uffizi a Firenze. In un ombroso boschetto, che forma una sorta di semi-cupola di
aranci colmi di frutti e arbusti sullo sfondo di un cielo azzurrino, sono disposti
nove personaggi, in una composizione bilanciata ritmicamente e
fondamentalmente simmetrica attorno al perno centrale della donna col drappo
rosso e verde sulla veste setosa. Il suolo è composto da un verde prato,
disseminato da un’infinita varietà di specie vegetali e un ricchissimo campionario
di fiori (viole, gelsomini, margherite, papaveri etc). L’opera è ambientata nel
giardino delle Esperidi, e va letta da destra verso sinistra, forse perché la
collocazione dell’opera imponeva una visione preferenziale da destra[2]. Zefiro,
vento di nord ovest e di primavera che piega gli alberi, attira col suo soffio, rapisce
per amore la ninfa Clori (in greco Clorìs) e la mette incinta; da questo atto ella
rinasce trasformata in Flora, la personificazione della stessa primavera
rappresentata come una donna dallo splendido abito fiorito che sparge a terra le
infiorescenze che tiene in grembo. A questa trasformazione allude anche il filo di
fiori che già inizia a uscire dalla bocca di Clori durante il suo rapimento. Al centro
campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia
e dirige gli eventi, quale simbolo neoplatonico dell’amore più elevato[1]. Sopra di
lei vola il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovano le sue tre tradizionali
compagne vestite di veli leggerissimi, le Grazie, occupate in un’armoniosa danza
in cui muovono ritmicamente le braccia e intrecciano le dita. Chiude il gruppo a
sinistra un disinteressato Mercurio, coi tipici calzari alati, che col caduceo scaccia
le nubi per preservare un’eterna primavera.

LA NASCITA DI VENERE (T2)

La Nascita di Venere è un dipinto a tempera su tela di lino realizzata per la villa


medicea di Castello, e conservata attualmente nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
Rappresenta una delle creazioni più elevate dell’estetica del pittore fiorentino,
oltre che un ideale universale di bellezza femminile, così come il David è
considerato il canone di bellezza maschile. Contrariamente al titolo con cui
l’opera è nota, essa non raffigura la nascita della dea, ma il suo approdo sull’isola
di Cipro. Venere avanza leggera fluttuando su una conchiglia lungo la superficie
del mare increspata dalle onde, in tutta la sua grazia e ineguagliabile bellezza,
nuda e distante come una splendida statua antica. Viene sospinta e riscaldata dal
soffio di Zefiro, il vento fecondatore, abbracciato a un personaggio femminile con
cui simboleggia la fisicità dell’atto d’amore, che muove Venere col vento della
passione. Forse la figura femminile è la ninfa Clori, forse il vento Aura o Bora.
Sulla riva una fanciulla, una delle Ore che presiede al mutare delle stagioni, in
particolare la Primavera, porge alla dea un magnifico manto rosa ricamato di fiori
per proteggerla (mirti, primule e rose)[5]. Essa rappresenta la casta ancella di
Venere ed ha un vestito setoso riccamente decorato con fiori e ghirlande di rose e
fiordalisi. La posa della dea, con l’equilibrato bilanciamento del “contrapposto”,
deriva dal modello classico della Venus pudica (cioè che si copre con le braccia il
seno e il basso ventre) e Anadiomene (cioè “emergente” o nascente dalla spuma
marina).

L’opera nasconde un’allegoria neoplatonica basata sul concetto di amore come


energia vivificatrice, come forza motrice della natura. Sicuramente la nudità della
dea non rappresentava per i contemporanei una pagana esaltazione della bellezza
femminile, ma piuttosto il concetto di Humanitas, intesa come bellezza spirituale
che rappresenta la purezza, la semplicità e la nobiltà dell’anima. Non a caso è stato
fatto un parallelismo tra Venere e l’anima cristiana, che nasce dalle acque del
battesimo. Sarebbe dunque un’allegoria dell’amore inteso come forza motrice
della Natura e la figura della dea e la posa di Venus pudica (ossia mentre copre la
sua nudità con le mani ed i lunghi capelli rossi) rappresenterebbe la
personificazione della Venere celeste, simbolo di purezza, semplicità e bellezza
disadorna dell’anima.

UN’ADORAZIONE DEI MAGI (T3)

Sandro Botticelli introdusse con quest’opera una grande novità a livello formale
nel frequentatissimo tema dell’Adorazione, ossia la visione frontale della scena,
con le figure sacre al centro e gli altri personaggi disposti prospetticamente ai lati;
prima di questa infatti, si usava svolgere la scena in maniera orizzontale, con la
Sacra Famiglia a un’estremità e i Magi col proprio seguito che procedevano verso
di essa dispiegandosi essenzialmente sul primo piano in una sorta di corteo, uno
dietro l’altro, ricordando l’annuale rievocazione della cavalcata dei Magi, una
rappresentazione sacra che si teneva per le vie fiorentine. Al centro, in posizione
ingegnosamente rialzata, si trova la capanna diroccata della natività, composta da
una roccia, un tetto ligneo retto da alcuni tronchi issati e da una parete a angolo in
rovina, richiamo all’antichità perduta ribadito anche dagli edifici crollati a
sinistra. La Vergine col Bambino, vegliata da dietro da san Giuseppe, viene a
trovarsi al vertice di un triangolo ideale a cui mirano le linee prospettiche delle
quinte laterali e lo scalare dei personaggi disposti. Dal vertice di questo triangolo
un moto ascensionale sposta l’occhio dello spettatore verso l’altro, tramite la
figura di Giuseppe, fino alla luce divina che spiove dall’alto. Un pavone,
appollaiato a destra, simboleggia l’immortalità, poiché fin dall’antichità le sue
carni erano ritenute immarcescibili. I tre Magi, che come al solito rappresentano
le tre età dell’uomo (gioventù, maturità e anzianità) si trovano in posizione
centrale. Quello più anziano è inginocchiato in adorazione del Bambino ed ha già
deposto il suo dono ai piedi della Vergine, mentre il secondo e il terzo attendono il
loro turno davanti, di spalle, con i loro preziosi doni ancora in mano, mentre le
corone sono già state deposte (una si vede davanti a quello vestito di bianco).

In queste tre figure sono ritratti rispettivamente Cosimo de’ Medici e i suoi figli
Piero il Gottoso (col mantello rosso foderato d’ermellino) e Giovanni. La loro
posizione davanti alla Vergine è rigidamente dinastica. Dietro di loro infatti si
trova Lorenzo de’ Medici, figlio di Piero, con una lunga veste bianca e una berretta
come cappello, a cui fa da contraltare, sul lato opposto in posizione simmetrica,
suo fratello minore Giuliano (che perì pochi anni dopo nella Congiura dei Pazzi),
ritratto col vestito corto nero e rosso bordato d’oro in un’espressione pensosa.
Trattandosi di una rappresentazione di discendenza, poco importa che già i tre
personaggi che formano i Magi fossero morti almeno al 1473, né è rilevante la
mancanza di somiglianza degli effigiati, molto più idealizzati nella solennità
dell’episodio. All’estrema destra il giovane in primo piano che guarda verso lo
spettatore, con un ampio mantello arancione, sarebbe un autoritratto dello stesso
Botticelli. Le rovine alludono a un episodio della Legenda Aurea di Cristo,
secondo cui l’imperatore Augusto, che si vantava di aver pacificato il mondo,
incontrò un giorno una Sibilla che gli predisse l’arrivo di un nuovo re, che sarebbe
riuscito a superarlo e ad avere un potere ben più grande del suo. Essi perciò
rappresentano simbolicamente il mondo antico e il paganesimo in declino,
mentre la cristianità raffigurata nella scena della Natività si trova in primo piano
perché essa costituisce il presente ed il futuro del mondo.

LEONARDO DA VINCI

VITA (T1)

Leonardo nacque a Vinci il 15 aprile del 1452. Nel 1469 si trasferì con tutta la
famiglia a Firenze, quì entrò a far parte della bottega del Verrocchio dove vi rimase
per otto anni e dove apprese l’arte del disegno, l’uso della prospettiva e
dell’anatomia. Questo è ben attestato nel suo intervento nel Battesimo di Cristo
del Verrocchio, dove realizzò l’angelo con estrema sapienza compositiva ed
equilibrio ed inoltre in una delle sue prime realizzazioni: l’Annunciazionedi
Monteoliveto oggi alla galleria degli Uffizi a Firenze, dipinta tra il 1475 e il 1478,
nella quale abbiamo una straordinaria qualità cromatica, e uno studio attento
verso i particolari soprattutto naturali. Abilissimo nel disegno, questa sua dote è
evidente in due opere iniziate nel 1482 circa e rimaste incompiute: San Girolamo e
l’Adorazione dei Magi. In quest’ultima, rimasta incompiuta per la sua partenza per
Milano, interpreta in modo nuovo il soggetto: intorno alla figura della Vergine col
Bambino si raccoglie una folla gesticolante che ci lascia intendere l’emozione per
l’evento sacro. Ancora del periodo fiorentino sono il Ritratto di Ginevra Benci il
cui volto è delineato da delicati effetti chiaroscurali mentre sullo sfondo si staglia
un paesaggio di acqua e piante. Leonardo arrivò a Milano nel 1482 e vi rimase per
ben sedici anni al servizio di Ludovico il Moro e dove si occupò dei diversi campi
delle scienza e delle arti, ma si dedicò prevalentemente all’attività di pittore,
infatti, qui realizzò opere molto importanti tra le quali la Vergine delle rocce in cui
ambienta i suoi personaggi in un’atmosfera quasi irreale, in un luogo ombroso e
chiuso da grosse rocce in cui la luce filtra a malapena, l’atmosfera è resa in modo
magistrale grazie anche alla sua particolare tecnica di chiaroscuro sfumato che è
uno degli elementi caratteristici della sua arte. Eseguì molte altre opere tra cui la
Dama con l’ermellino di Cracovia, ilRitratto di dama del Louvre, ma il capolavoro
dell’attività svolta a Milano è considerato l’Ultima Cena che realizza intorno al
1495-1497 nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie. Il soggetto è
trattato in maniera innovativa, rappresentando il momento in cui Cristo annuncia
che verrà tradito. Nel trattato della pittura Leonardo scrive:" il bono pittore ha da
dipingere due cose principali, cioè l’homo e il concetto della mente sua. Il primo è
facile, il secondo difficile perché s’ha a figurare con gesti e movimenti delle
membra. Nel Cenacolo Leonardo realizzò in pieno questa sua idea,
rappresentando il Cristo come fulcro della composizione, intorno a cui si
distribuiscono gli Apostoli in atteggiamenti diversi che lasciano trasparire il loro
pensiero e le loro emozioni. Nel 1499 Ludovico il Moro fuggì da Milano, dopo
l’invasione del ducato da parte dei francesi, e Leonardo intraprese una serie di
viaggi, si recò a Mantova, a Venezia, e poi ritornò a Firenze. Qui gli venne
commissionato un’affresco per il salone di Palazzo Vecchio che rappresenta la
Battaglia di Anghiari, in gara con Michelangelo che doveva affrescare nella parete
opposta la Battaglia di Cascina. Il dipinto purtroppo però è andato perduto. In
questi anni iniziò anche il famoso ritratto della Gioconda, un dipinto a lui caro
che portò con se anche in Francia dove rimane tutt’oggi, al museo del Louvre. E’ il
ritratto di una gentildonna fiorentina, identificata con Monna Lisa di Giocondo,
rappresentata a mezza figura e di tre quarti sullo sfondo di un paesaggio roccioso
con due laghi posti su un diverso livello. L’atmosfera suggestiva e il sentimento di
malinconia che suscita sia il paesaggio che la figura è accentuato dall’uso dello
sfumato leonardesco. Nel 1506 si recò nuovamente a Milano, negli ultimi anni
della sua vita l’artista alternò il suo soggiorno in questa città con brevi viaggi a
Firenze. Le sue ultime opere sono Sant’Anna con Madonna e Bambino, di cui
aveva già preparato un cartone nel 1501e il San Giovanni Battista. Nella Sant’anna
con Madonna e Bambino rappresenta i personaggi in una composizione
piramidale il cui vertice è rappresentato dal volto di Sant’Anna, lo sfondo è ancora
una volta rappresentato da un paesaggio rupestre in lontananza. Nel 1516 accettò
l’invito del re di Francia e si recò ad Amboise dove trascorre gli ultimi anni della
sua vita e dove morì nel 1519

LA GIOCONDA (T2)

Il dipinto ritrae a metà figura una giovane donna con lunghi capelli scuri. È
inquadrata di tre quarti, il busto è rivolto alla sua destra, il volto verso
l’osservatore. Le mani sono incrociate in primo piano e con le braccia si appoggia
a quello che sembra il bracciolo di una sedia. Indossa un sottile abito scuro che si
apre sul petto in un’ampia scollatura. Il capo è coperto da un velo trasparente e
delicatissimo che ricade sulle spalle in un drappeggio. I capelli sono sciolti e
pettinati con una scriminatura centrale, i riccioli delicati ricadono sul collo e sulle
spalle. Gli occhi grandi e profondi ricambiano lo sguardo dello spettatore con una
espressione dolce e serena. Le labbra accennano un sorriso. Non indossa alcun
gioiello, sulle vesti non appare nessun ricamo prezioso. La semplicità con cui si
presenta esalta la sua bellezza naturale a cui, evidentemente, non necessita alcun
orpello.

Alle sue spalle è visibile la linea retta di una balaustra. Il balcone si affaccia su un
paesaggio limpido e lontanissimo. Sulla sinistra del quadro si scorge una strada
che si snoda attraverso una valle, fiancheggiata da ripide montagne, quindi uno
specchio d’acqua, probabilmente un lago a giudicare dall’andamento dei riflessi,
quindi ancora formazioni montuose sullo sfondo. Sul lato destro ancora una linea
serpentinata descrive il corso di un fiume impetuoso, sono visibili rapide e cascate
e un ponte su tre arcate. Il corso del fiume si perde in un altopiano aldilà del quale
si scorge un altro lago, posto ad una quota più elevata rispetto al primo. Quindi
ancora montagne che in modo graduale si innalzano fino a raggiungere altissimi
ghiacciai. La linea dell’orizzonte taglia la figura all’incirca all’altezza della fronte,
che risulta quindi essere quasi del tutto immersa nel paesaggio.
Nell’esecuzione di questo ritratto Leonardo ha posto un’attenzione maniacale
nello studio di ogni dettaglio: nella trasparenza del velo come nella terra rossa che
ricopre la strada; nell’incarnato delle mani e del collo come nei riflessi dell’acqua;
nello studio delle ombre sul volto come nella resa atmosferica. Lo studio
dell’anatomia e dell’espressione umana si sposa perfettamente con l’indagine
paesaggistica e geologica.

Alla perfezione tecnica si unisce poi quell’elemento di moto che costituisce la vera
e propria magia del dipinto: la figura è stante ma non immobile. La morbidezza
delle carni lascia percepire il leggero movimento del respiro. Il volto, non in asse
con le spalle, lascia intendere una delicata rotazione della testa. Una rotazione che
ancora non si è conclusa, come suggerisce lo sguardo che compie un passo
ulteriore rispetto alle spalle e al viso. Il sorriso e l’ovale dai contorni sfumati
suggeriscono che le labbra e le guance stanno delicatamente cambiando
espressione. Il moto è anche nella natura che la avvolge e accoglie: le rocce sono
ora aspre ora erose, l’apparente immobilità dei ghiacciai si scioglie nelle acque
tranquille dei laghi e in quelle rapide del fiume. È la vita stessa Il miracolo che si
rivela in questo dipinto.

CONTRAPPOSTO

Il miracolo della vita o della natura naturans, si esprime nell’opera di Leonardo


attraverso sofisticate elaborazioni tecniche. Il contrapposto, introdotto da
Leonardo e Michelangelo, e largamente usato da tutti i pittori del ‘500, consiste
nella rotazione in direzioni opposte delle gambe, del busto e della testa. Questa
torsione, che può essere più o meno evidente, infonde movimento alla figura
seduta e consente al pittore di ricavare dal corpo umano la massima potenza
espressiva.

SFUMATO

Lo sfumato, di cui si fa largo uso nella Gioconda, consiste in un passaggio soffuso


e graduale dalle superfici che descrivono i volti e gli incarnati a ciò che li circonda.
Nel suo Trattato della Pittura Leonardo raccomanda di non tracciare il viso con
contorni netti, perché questo li renderebbe rigidi e spigolosi. Nel viso di Monna
Lisa, l’impossibilità di individuare una precisa linea di contorno delle gote, del
mento e delle labbra fa sì che l’espressione appaia cangiante, in divenire.

PROSPETTIVA AEREA

Per i pittori del ‘400 la prospettiva è una rigida questione matematica. Si fissa un
punto di fuga coerente con il punto di vista e si fanno convergere verso questo
punto tutte le linee che nella visione geometrica della realtà sono tra loro
parallele. Questo determina il rimpicciolimento proporzionale degli oggetti, dei
corpi, delle architetture e dà all’occhio l’illusione della profondità. Leonardo, da
investigatore qual è della natura, non può accontentarsi di questa visione tutta
teorica. Il senso della distanza e della lontananza passano anche attraverso il
colore e la luce. L’aria, che ha una sua consistenza, frapponendosi tra l’occhio e
l’oggetto sbiadisce il primo e aumenta il tono della seconda. Ecco dunque che le
rocce scure di cui si compongono le montagne in primo piano diventano in
lontananza sempre più chiare arrivando quasi a confondersi con il cielo.

VERGINE DELLE ROCCE (T3)

La Madonna avvolge con la mano destra la spalla di San Giovannino inginocchiato


mentre Gesù Bambino accenna una benedizione nei confronti del cugino.
L’angelo dipinto dietro al Bambino osserva in direzione dello spettatore e sorride
indicando il Battista. Sopra la mano dell’angelo si dispone quella di Maria, aperta
in atto di proteggere il capo di Gesù. Il terreno sul quale sono disposti i personaggi
è roccioso, umido e ricoperto di muschi. Il paesaggio è occupato dalla costruzione
rocciosa che ricorda l’interno di una caverna. Tra le rocce che spuntano dal
terreno e quelle che scendono dall’alto si intravedono lontananze rocciose. Il
paesaggio, oltre la costruzione rocciosa, è dipinto con l’uso della prospettiva
aerea. I colori vengono modulati in lontananza e diventano più chiari, meno
saturi, più offuscati e tendenti al grigio azzurro. Le figure umane sono
amalgamate al paesaggio attraverso la tecnica dello sfumato, definito, appunto,
leonardesco. I contorni dei corpi e degli abiti si fondono con la materia pittorica
dello sfondo. Lo sfumato permette, così, di ottenere una resa atmosferica e
integrare le figure con l’ambiente. Sfumato e prospettiva aerea saranno
magistralmente utilizzati nella Gioconda. Le forme anatomiche sono apprezzabili
nei corpi dei bambini. Da notare la grande attenzione verso le mani dei personaggi
che vengono rappresentate secondo diverse angolature. Soprattutto la mano della
Vergine è stata rappresentata da Leonardo utilizzando un forte scorcio di non
facile costruzione. Il colore che ricopre l’intero dipinto è una risultante di verde e
marrone tendenti al grigio. Su questa base emergono i toni dorati degli incarnato
dei volti e dei corpi. Il colore che domina per intensità è il rosso del mantello
indossato dall’angelo seguito dalla piccola porzione di blu del manto di Maria. Nel
dipinto sono presenti due fonti di illuminazione. Quella calda e proveniente da
sinistra che colpisce le figure e quella fredda e brumosa del paesaggio di fondo.
Leonardo concepì la prospettiva aerea utilizzandola già parzialmente
nell’Annunciazione dipinta nel periodo giovanile. Lo spazio non è costruito con la
prospettiva lineare. Infatti non sono presenti le menti architettonici che possano
creare fughe prospettiche. A costruire la profondità dello spazio sono la
sovrapposizione dei corpi e la progressiva diminuzione della dimensione delle
rocce e della vegetazione. Contribuisce, sullo sfondo, anche, la prospettiva aerea e
la prospettiva di innalzamento rispetto alla campo del piano dipinto. Le forme più
lontane sono dipinte più in alto, verso sommità del piano pittorico. Il primo piano
è occupato interamente dal gruppo di figure disposte in modo simmetrico. I due
bambini, infatti, si specchiano sull’asse verticale creando una linea obliqua. Il
Battista e l’Angelo sono posti sullo stesso piano e, per ultima, la Vergine. La loro
disposizione crea una figura trapezoidale che corrisponde all’unione delle teste
dei personaggi. Le mani creano un movimento circolare di rimandi. Prima, quella
indicante dell’angelo, la mano che benedice di Gesù Bambino, poi, le mani giunte
del Battista e, infine, la mano protesa in avanti della Vergine. Ne La Vergine delle
rocce le figure si dispongono secondo una piramide dalla base molto allargata.
ULTIMA CENA (T4)

Il Cenacolo vinciano o Ultima cena è la raffigurazione dell’Ultima Cena di Cristo


più famosa della storia dell’arte occidentale. La scena dell’Ultima Cena
rappresentata nel Cenacolo vinciano è ambientata all’interno di uno spazio
architettonico chiuso. Il soffitto è decorato con un cassettone a lacunari. Sulle
pareti invece sono appesi alcuni arazzi ora non più visibili. Sulla parete di fondo vi
sono poi tre finestre. Sul tavolo sono presenti pietanze e stoviglie curate nei
minimi dettagli. La grande tavola dietro la quale sono seduti gli apostoli e Cristo
occupa tutta la porzione orizzontale. Gesù si trova al centro da solo. Le sue braccia
sono posate sul tavolo e il viso è reclinato. Gli occhi sono semiaperti e le labbra
appena scostate.

Gli apostoli sono disposti a gruppi di tre alla sua destra e alla sua sinistra.
L’apostolo Pietro è il quarto da sinistra. L’uomo si sporge in avanti impugnando un
coltello con la destra. Giuda ha con se una borsa con del denaro e nella sorpresa
rovescia una saliera. A destra si trovano Matteo, Giuda Taddeo e Simone. Il quinto
da destra è Giacomo Maggiore mentre Filippo stringe le mani al petto
dichiarandosi innocente. Leonardo da Vinci non seguì la tradizionale
rappresentazione dell’Ultima Cena. Infatti il tema veniva solitamente
rappresentato con una precisa interpretazione iconografica. Il maestro si
concentrò sul tentativo di rappresentare la sorpresa degli apostoli. In seguito
all’annuncio del tradimento ognuno ha una propria reazione che si esprime con la
postura, il gesto e l’espressione del viso. Inoltre l’apostolo Pietro anticipa il taglio
dell’orecchio di Malco, il servo del Sommo Sacerdote, al momento dell’arresto di
Cristo. L’apostolo infatti impugna un coltello in modo minaccioso
apparentemente rivolto al traditore seduto tra i commensali. Giuda non è
rappresentato come nella tradizione isolato e all’opposto degli altri apostoli.
L’uomo è in mezzo ai compagni. L’apostolo Giovanni che di solito è raffigurato
adagiato sul petto o sul grembo di Cristo, da Leonardo viene dipinto in atto di
ascoltare le parole di Pietro.

DAMA CON ERMELLINO (T5)

In quest’opera lo schema del ritratto quattrocentesco, a mezzo busto e di tre


quarti, venne superato da Leonardo, che concepì una duplice rotazione, con il
busto rivolto a sinistra e la testa a destra. Vi è corrispondenza tra il punto di vista
di Cecilia e dell’ermellino; l’animale infatti sembra identificarsi con la fanciulla,
per una sottile comunanza di tratti, per gli sguardi dei due, che sono intensi e allo
stesso tempo candidi. La figura slanciata di Cecilia trova riscontro armonico
nell’animale.

La dama sembra volgersi come se stesse osservando qualcuno sopraggiungente


nella stanza, e al tempo stesso ha l’imperturbabilità solenne di un’antica statua.
Un impercettibile sorriso aleggia sulle sue labbra: per esprimere un sentimento
Leonardo preferiva accennare alle emozioni piuttosto che renderle esplicite.
Grande risalto è dato alla mano, investita dalla luce, con le dita lunghe e affusolate
che accarezzano l’animale, testimoniando la sua delicatezza e la sua grazia.
L’abbigliamento della donna è curatissimo, ma non eccessivamente sfarzoso, per
l’assenza di gioielli, a parte la lunga collana di granati, che sono simbolo di amore
fedele (la collana era probabilmente un dono di Ludovico il Moro) e nel contempo
fanno un bel contrasto con la bella carnagione chiara della giovane. Come tipico
nei vestiti dell’epoca, le maniche sono le parti più elaborate, in questo caso di due
colori diversi, adornate da nastri che, all’occorrenza, potevano essere sciolti per
sostituirle. Un laccio nero sulla fronte tiene fermo un velo dello stesso colore dei
capelli raccolti.

Lo sfondo è scuro (ma lo era molto meno prima di un restauro operato nel XIX
secolo); inoltre, dall’analisi ai raggi X emerge che dietro la spalla sinistra della
dama era originariamente dipinta una finestra.

ADORAZIONE DEI MAGI (T6)

Leonardo riuscì a rivoluzionare il tema tradizionale sia nell’iconografia che


nell’impostazione compositiva. Innanzitutto, come in altre sue famose opere,
decise di centrare l’episodio in un momento ben preciso, ricercandone il più
profondo senso religioso, cioè nel momento in cui il Bambino, facendo un gesto di
benedizione, rivela la sua natura divina agli astanti quale portatore di Salvezza,
secondo il significato originario del termine “epifania” (“manifestazione”). Ciò è
chiaro nella reazione degli astanti, presi in un vorticoso rutilare di gesti, attitudini
ed espressioni di sorpresa e turbamento, al posto della tradizionale compostezza
del corteo dove i pittori erano soliti sfoggiare dettagli ricchi ed esotici[3]. L’effetto
è quello di uno sconvolgimento interiore di fronte al manifestarsi della divinità.
Da un punto di vista compositivo Leonardo fece sue le innovazioni impostate da
Sandro Botticelli nell’Adorazione dei Magi di Santa Maria Novella (1475 circa),
ponendo la Sacra Famiglia al centro e i Magi alla base di un’ideale piramide che ha
come vertice la figura di Maria. La forma pressoché quadrata della tavola gli
permise infatti di organizzare la composizione lungo le direttrici diagonali, con il
centro nel punto di incontro, dove si trova la testa della Vergine. La figura di
Maria, collocata in posizione leggermente arretrata, accenna un movimento
rotatorio, con le gambe orientate a sinistra e il busto, nonché il volto, verso il
Bambino a destra[8].

Sviluppò inoltre ulteriormente tale novità disponendo il corteo a semicerchio


dietro alla Vergine, lasciando uno spazio vuoto, di forma più o meno circolare,
nell’ideale centro dello spazio, dove si trova una roccia con un albero. Il leggero
moto della Vergine sembra così propagarsi per cerchi concentrici, come un’onda
generata dalla rivelazione divina. Il risultato è una scena estremamente moderna
e dinamica, dove solo le figure in primo piano sono relativamente statiche, con
uno studio intenso dei moti dell’animo e delle manifestazioni “corporee”[3].

Lo sfondo è diviso in due parti dai due alberi, il primo un alloro simbolo di trionfo
sulla morte (resurrezione) e il secondo una palma, simbolo della passione di
Cristo, che dirigono lo sguardo dello spettatore in profondità. Qui si trovano
alcune architetture in rovina (il Tempio di Gerusalemme), rimando tradizionale al
declino dell’Ebraismo e del Paganesimo (quest’ultimo sottolineato pure dalla lotta
convulsa dei cavalli in secondo piano, che non ha ancora ricevuto la lieta Novella)
da cui si originò la religione cristiana[7]. L’edificio con le scale è stato paragonato
al presbiterio della chiesa di San Miniato al Monte; su di esso si trovano alcuni
arbusti, come si vedono talvolta su alcune costruzioni delle quali la natura ha
avuto tutto il tempo di impadronirsi nuovamente. Secondo altri autori, invece, il
modello fu la villa medicea di Poggio a Caiano che allora doveva essere un
cantiere in divenire con il solo piano porticato e la doppia scalinata parallela oggi
non più esistente. A destra si trova una zuffa di armati, uomini disarcionati e
cavalli che s’impennano, come simbolo della follia degli uomini che non hanno
ancora ricevuto il messaggio cristiano, e un abbozzo di rocce svettanti tipiche del
paesaggio leonardesco. Secondo alcuni esperti inoltre, il fanciullo all’estrema
destra del quadro, che guarda verso l’esterno, potrebbe essere un autoritratto
giovanile di Leonardo; più probabilmente è da mettere in relazione con l’uomo
che medita sul lato opposto, come invito a riflettere sul mistero dell’Incarnazione.

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