Alessandra Buccheri. The Spectacle of Clouds, 1439-1650.
Italian Art and
Theatre. Farnham Surrey: Ashgate, 2014. Pp. 216. Il libro di Alessandra Buccheri affronta una questione, quella dei rapporti tra arti figurative e spettacolo, poco frequentata dalla più recente storiografia dell’arte. La prospettiva assunta dall’autrice è quella di analizzare congiuntamente arte e teatro come parte d’una stessa cultura visiva, infrangendo gli artificiali confini disciplinari vigenti in ambito accademico, e ricollegandosi a una linea d’indagine che ha avuto i suoi massimi pionieri in studiosi quali George Kernodle, Pierre Francastel e, in Italia, Ludovico Zorzi. Il tema specifico della ricerca, mai precedentemente considerato sotto questo angolo visuale, è quello dell’evoluzione della raffigurazione delle nuvole nell’arte rinascimentale e barocca, che viene ripercorsa con lo sguardo rivolto alla tradizione degli “ingegni” fiorentini, affermatisi dapprima sulla scena religiosa, quindi sui palcoscenici del teatro di corte, e ritenuti dall’autrice una delle fonti principali dei cieli dipinti della prima età moderna. L’argomento, di per sé affascinante, è reso ancor più stimolante dal fatto che la studiosa, avvalendosi d’una pluralità di testimonianze iconografiche e letterarie, invita a riflettere sulle problematiche della ricezione della comunicazione visiva e sull’effetto fascinatorio che essa doveva esercitare anche sullo spettatore più smaliziato, in sintonia con le riflessioni sul potere delle immagini svolte nell’ormai classica opera di David Freedberg. Dopo un’introduzione che ripercorre scrupolosamente lo status quaestionis, delineando al contempo l’ambito dello studio, la sua genesi e i suoi postulati metodologici, il percorso del volume si snoda in nove capitoli. Di essi, il primo, il secondo e il quarto toccano più da vicino la storia della scenotecnica teatrale, mentre gli altri vertono principalmente sulla figurazione pittorica; i due piani sono comunque costantemente interrelati, grazie anche ai numerosi e puntuali rimandi interni. L’approccio alla materia è originale, e questo aspetto si evidenzia particolarmente laddove la studiosa, pur prendendo spunto da analisi compiute da altri autori, ne offre personali reinterpretazioni. Emblematica, in tal senso, appare la classificazione della morfologia delle nuvole, che John Shearman aveva distinto in cinque diverse tipologie e che l’autrice riconduce a due varietà, denominate rispettivamente nuvole a piattaforma (“platform-clouds”) e nuvole a bolla (“bubble-clouds”). Le prime, utilizzate da Raffaello, piatte, solide, adatte a fungere da supporto ai personaggi, appartengono alla tradizione tosco-romana e si suppongono ispirate alla macchineria scenica fiorentina o a una produzione iconografica da essa direttamente dipendente. Le seconde, utilizzate da Correggio, soffici, tondeggianti, più simili alle nubi atmosferiche naturali, appartengono alla tradizione lombardo-emiliana e sono ritenute d’ispirazione pittorica. Ai due diversi modi di raffigurare le nuvole corrispondono due differenti concezioni spaziali, la prima basata sulla struttura, cioè sulla costruzione architettonica dello spazio, la seconda sull’illusionismo ottenuto mediante giustapposizione di volumi. Entrambe queste concezioni confluiranno nella decorazione delle cupole barocche. Il principale assunto del libro di Alessandra Buccheri, infatti, consiste nella messa in discussione del ruolo egemone comunemente attribuito in quest’ambito all’eredità correggesca. Il secolo intercorso tra la realizzazione dell’affresco dell’Assunzione della Vergine nella cupola del duomo di Parma (1523-1530 ca.) e la rivisitazione del soggetto da parte di Giovanni Lanfranco nella cupola della chiesa romana di S. Andrea della Valle (1626-1628), fu, come dimostra la studiosa, un secolo di sperimentazioni e di intense riflessioni teoriche nel campo della cosiddetta pittura “di sotto in su”. La sfida principale che gli artisti dovettero fronteggiare fu quella di coniugare l’effetto illusionistico dei cieli di Correggio con le esigenze di chiarezza e leggibilità che procedevano dalla lezione di Raffaello. Le due tendenze coesistettero nella Roma dei primi tre decenni del Seicento e, prima di congiungersi nella magistrale sintesi del capolavoro lanfranchesco, interagirono nelle opere di altri pittori: Cristoforo Roncalli negli affreschi realizzati alla Santa Casa di Loreto (1605-1615), Ludovico Cardi da Cigoli nell’Assunzione della Vergine della cupola della Cappella Paolina in S. Maria Maggiore (1612), Giovanni da San Giovanni nella Gloria dei santi del catino absidale della basilica dei Santi Quattro Coronati (1621-1623 ca.), offrirono sostanziali contributi alla definizione dello stile tipico delle architetture di nuvole barocche. Toscani di nascita e formazione, essi avrebbero trasferito nei propri dipinti, contaminandoli con elementi provenienti dalla tradizione settentrionale, i modelli desunti dalle sperimentazioni scenotecniche di Giorgio Vasari, Bernardo Buontalenti e Giulio Parigi. Alle stesse esperienze, a giudizio dell’autrice, si sarebbero ispirate anche le creazioni effimere di Gian Lorenzo Bernini e le soluzioni adottate da Pietro da Cortona sia sulla scena teatrale, sia in opere ad affresco come l’Assunzione della Vergine del catino absidale della Chiesa Nuova degli Oratoriani (1647-1660). Gli studi disposti a cimentarsi col difficile compito di analizzare in un’ottica interdisciplinare le interferenze tra teatro e pittura, come si accennava, sono rari. Appare quindi meritorio un libro come questo, capace di ravvivare l’interesse per un campo di ricerca tanto trascurato, quanto nevralgico. Va però detto che gli esiti della ricognizione non risultano sempre persuasivi. La bibliografia appare complessivamente poco aggiornata, oltre a presentare inesplicabili omissioni: ad esempio, di Vincenzo De Bartholomaeis non viene citata una pietra miliare come Le origini della poesia drammatica italiana (Torino, SEI, 19522), che avrebbe consentito una più esatta ricostruzione dell’emergenza delle prime forme di teatro in volgare. Riguardo all’evoluzione della scenotecnica fiorentina, sarebbe stata forse auspicabile una maggiore cautela nell’allineare episodi eterogenei come le feste religiose descritte nel 1439 da Abramo di Suzdal e gli spettacoli a committenza cortigiana che coinvolsero Leonardo a Milano nel 1490 e Vasari a Firenze nel 1566, difficilmente assimilabili a stadi successivi d’uno stesso continuum. Appare pure poco comprensibile la scelta di restringere il focus al teatro fiorentino senza valutare il possibile peso delle tradizioni locali: quale eco destarono a Roma, ad esempio, il “paradiso” e le macchine aeree utilizzate nelle “devozioni” dell’Arciconfraternita del Gonfalone, come la rinomata Passione allestita al Colosseo fino al divieto pontificio del 1539? Il problema va almeno posto. E, da ultimo, tra le ascendenze delle scene del S. Alessio al teatro Barberini (1632), che siano da ascrivere a Bernini o a Pietro da Cortona, non sarebbe forse da includere l’immediato precedente dell’inaugurazione del teatro Farnese (1628), non foss’altro che per la partecipazione alle feste parmensi dei cardinali nipoti di Urbano VIII?