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Munera. Rivista europea di cultura.

2/2012

Comitato scientifico

Maria Rosa Antognazza, Renato Balduzzi, Alberto Bondolfi, Gianantonio Borgonovo,


Paolo Branca, Pierre-Yves Brandt, Angelo Caloia, Annamaria Cascetta, Carlo Cirotto,
Maria Antonietta Crippa, Gabrio Forti, Giuseppe Gario, Marcello Giustiniani,
Andrea Grillo, Gabriella Mangiarotti, Virgilio Melchiorre, Francesco Mercadante,
Paolo Mocarelli, Bruno Montanari, Mauro Maria Morfino, Paolo Prodi, Ioan Sauca,
Adrian Schenker, Marco Trombetta, Ghislain Waterlot, Laura Zanfrini.

Redazione

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Girolamo Pugliesi, Elena Raponi, Monica Rimoldi, Laura Rossi,
Elena Scippa, Anna Scisci, Cristina Uguccioni, Elisa Verrecchia (segretaria).

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critico d’arte, appassionato fotografo, ha realizzato diversi volumi fotografici e iniziative espositive. Vive
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Munera. Rivista europea di cultura. Pubblicazione quadrimestrale a cura dell’Associazione L’Asina di


Balaam. Rivista registrata presso il Tribunale di Perugia (n. 10 del 15 maggio 2012). ISSN: 2280-5036

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sulla pubblicazione di ogni saggio compete alla redazione.
rivista europea di cultura
cittadella editrice

               
2/2012
m ∙ u ∙ n ∙ e ∙ r ∙a
Indice 2/2012

L’inferno e gli inferni. Editoriale di Stefano Biancu 5

***

Gianantonio Borgonovo
La retribuzione alla prova della Scrittura 9

Giacomo Canobbio
L’inferno e la teologia cristiana 23

Ignazio Sanna
Gesù Cristo mio giudice e mio salvatore 37

Fulvio Ferrario
Salvezza universale?
Sulla necessità di una domanda pericolosa 51

Alberto Bondolfi
Ripensare il retributivismo cristiano 67

Virgilio Melchiorre
Mysterium iniquitatis: la disperazione diabolica 81

Silvano Petrosino
L’«impossibile» modo d’essere della tenebra 95

Maria Antonietta Crippa


Abitare all’inferno: architetture diaboliche 101

Gabrio Forti
Nuovi riverberi “infernali”
Le politiche penali securitarie di esclusione
e criminalizzazione dell’“Altro oscuro” 121
Virgilio Melchiorre*

Mysterium iniquitatis:
la disperazione diabolica 1

M
ysterium iniquitatis. La debolezza e l’impegno di ogni
antropologia filosofica si raccolgono proprio in que-
sta formula: nell’inesplicabile che essa confessa e nel
sentiero che tuttavia essa pur dischiude alla ragione.
Non si tratta, a ben vedere, soltanto del male, ma del
problema che si sporge sino alla radice o alla persona che nell’evento
del male supera l’essere stesso dell’uomo. Che s’intende qui per per-
sona? Dobbiamo dirne nel senso originario del termine, come della
maschera in cui risuona o si fa risuonare la voce di un altro? La stes-
sa definizione boeziana di persona potrebbe supporre quest’origine:
una natura razionale che sia determinata in una sostanza individuale
non è in fondo il risuonare e l’apparire dell’universale (rationalis na-
turae) in una singolarità sostanziale (individua substantia)? La persona
radicale dell’iniquità non è allora la maschera in cui a volta a volta
risuona, distorta e alienata, la voce dell’Essere?

Il male come inesplicabile non senso

La debolezza dell’antropologia filosofica sta proprio nell’avvertire


che questa domanda tenta di precisare quel che nel male è inesplica-
bile: la sua origine e la causalità che da ultimo presiede al suo evento.
*
Professore Emerito di Filosofia morale all’Università Cattolica di Milano.
1
Il saggio riprende uno scritto già apparso più di trent’anni fa, e dunque ormai
di difficile reperibilità, in V. Melchiorre, Ideologia, utopia, religione, Rusconi, Milano
1980, pp. 305-321. Ringraziamo l’Autore per la gentile concessione (NdR).

Munera, 2/2012, pp. 81-93


82 Virgilio Melchiorre

Kierkegaard, a questo riguardo, avrebbe detto che il paradosso deve


qui imporsi come “categoria”:2 si tratta di comprendere con tutta
chiarezza che qualcosa qui non può essere compreso. Comprendere,
infatti, vuol dire dar conto, far emergere un senso o una struttura
essenziale di senso. Ma come dar senso all’irrazionale, al non senso?
Dar senso equivarrebbe in questo caso a non riconoscere l’irrazio-
nalità del male, a non ritenere che col male si produce la contraddi-
zione di affermare e volere il non essere come essere. Comprendere
significherebbe qui accedere all’impresa idealistica che nel lógos ten-
ta di raggiungere il soggetto stesso dell’irrazionale. Ma l’impresa è in
ogni caso impossibile. Se, infatti, nell’attribuzione dell’irrazionale al
lógos, l’irrazionale è tenuto come tale, allora esso finisce col costituire
una contraddizione assoluta, in definitiva neppure pensabile. Se inve-
ce nell’attribuzione l’irrazionale è tolto alla sua irrazionalità, se viene
ridotto a un momento del processo razionale, allora la sua irraziona-
lità viene anche ridotta a mera illusione della coscienza finita: ma in
tal caso come togliere l’irrazionalità stessa dell’illusione? Se la nostra
angoscia o il nostro timore dell’irrazionale fossero privi di contenuto,
non sarebbe poi irrazionale questo apparirci di ciò che non è, questo
timore dell’inesistente? Il dilemma agostiniano ritorna qui come ine-
ludibile e perentorio: o quel male che vediamo e temiamo esiste, o è
male l’illusione del nostro vedere e del nostro temere.3
In ogni caso, dunque, la realtà del male rimane incontestabile e,
nella sua incontestabilità, incomprensibile: un non senso di cui, pro-
prio perché tale, non si può dare alcun senso ultimo. Il male – per
dirla con Ricoeur – resta in definitiva «un corpo estraneo all’eidetica

S. Kierkegaard, Diario, VIII A 11.


2

«Allora dov’è il male e donde e per qual via s’è insinuato qui? Quale la sua
3

radice, la sua semenza? O piuttosto il male non esiste affatto? E allora perché te-
miamo e scansiamo ciò che non esiste? Che se temiamo a vuoto, il timore stesso è
un male, che punge e tormenta senza motivo il nostro cuore, anzi un male tanto
più grave, in quanto non esiste ragione di temere e tuttavia temiamo. Perciò o il
male che si teme esiste, o il fatto stesso del temere è un male» (Ubi ergo malum et
unde est qua irrepsit? Quae radix eius et quod semen eius? An omnino non est?
Cur ergo timemus et cavemus quod non est? Aut, si inaniter timemus, certe vel
timor ipse malum est, quo incassum stimulatur et excruciatur cor et tanto gravius
malum, quanto non est quod timeamus et timemus. Idcirco aut est malum quod
timemus aut hoc malum est, quia timemus): Agostino, Confessioni, VII, 5, trad. it.
di O. Tescari, SEI, Torino 1932.
Mysterium iniquitatis: la disperazione diabolica 83

dell’uomo»,4 qualcosa di cui si può dire soltanto che c’è e com’è, ma


di cui non si può render conto: qualcosa di cui non è «possibile una
descrizione eidetica, ma solo una descrizione empirica».5 Eppure,
anche nella prospettiva della semplice descrizione empirica, il male
non è un mistero che la ragione possa dispensarsi dal considerare.
Proprio con la sua oscurità e con la sua incontestabilità, esso conti-
nua a riproporsi come problema. La stessa brutalità empirica del suo
esserci implica almeno una questione trascendentale: qual è la con-
dizione di possibilità per questo suo esserci? O, in altri termini, quale
statuto ontologico dobbiamo pensare perché l’esserci del male risulti
possibile? La questione dell’origine viene così a riproporsi, se non
nei termini di una causa ultimamente determinabile, nei termini di
uno spazio ontico che sia capace di accogliere una qualche causalità
e in cui possa risuonare la maschera del male, qualunque sia la sua
determinazione.

La maschera del serpente

La nostra riflessione, come ogni riflessione, non nasce da zero,


ma si leva su un fondo remoto di pensieri e di notizie: in particolare,
quelle che già tentarono di trascendere la singolarità o la soggettività
dell’evento e che, sin dal principio, ne cercarono un significato og-
gettivo, universale, tramandabile da tutti e per tutti. Tale, alle origini
della riflessione, è la coscienza mitica con i suoi racconti emblematici
e con le sue pretese eziologiche: possiamo oggi dimetterne le figure
e appunto i tropi eziologici, ma non le domande e le certezze che nei
suoi racconti sono depositate. La nostra riflessione deve così costitu-
irsi, almeno inizialmente, come ermeneutica.
Il punto da cui dobbiamo partire è forse proprio quello che Ri-
coeur ravvisò come patrimonio comune di ogni confessione mitica,
biblica o babilonese, greca o sumerica: l’intuizione di una radice del
male che in qualche modo precede l’evento stesso della colpa uma-
na, senza per altro annullarne il peso e la responsabilità. L’Altro, il

4
P. Ricoeur, Finitude et culpabilité, Montaigne, Paris 1960, vol. I, p.  10 s.;
cfr. trad. it. di M. Girardet, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 56.
5
P. Ricoeur, Philosophie de la volonté. Le volontaire et l’involontaire, Aubier, Paris
1949, p. 27.
84 Virgilio Melchiorre

non posto nella posizione del male: «Le non-posé dans la position du
mal, le toujours déjà là du mal, l’autre de la tentation».6
Qui non ci è possibile ripercorrere l’ampio ventaglio del mito. Pos-
siamo però avvalerci della tesi ricoeuriana e svilupparla pensando ai
nodi centrali della confessione biblica, quella appunto che costitu-
isce più intimamente il passato della nostra riflessione. Potremmo
partire da Genesi 3, ove il racconto del male si lega simbolicamente
alla figura del serpente. Si ricordi, al riguardo, la nota ermeneutica
già formulata da Kant: qui l’uomo sta all’origine del proprio male,
ma la sua decisione è frutto di un traviamento; il serpente è il segno
di questa antecedenza, di questa iniquità che l’uomo trova come già
esistente, appello o controfigura di Dio stesso.7 Ricoeur ha eviden-
temente tenuto presente la lezione kantiana quando scrive: «Se si
segue sino in fondo l’intenzione del tema del serpente, si deve dire
che l’uomo non è l’iniquo in assoluto; non è che l’iniquo in seconda,
l’iniquo per seduzione; non è il cattivo, il Maligno, in senso sostanti-
vo se così si può dire, ma il cattivo, il malvagio per epiteto; si rende
malvagio con una sorta di contropartecipazione, di controimitazio-
ne, per consenso a una sorgente di male che l’ingenuo autore del
racconto biblico dipinge come astuto animale. Peccare è cedere».8

6
P. Ricoeur, Finitude et culpabilité, cit., vol. II, p. 301; cfr. trad. it. cit., p. 597. Per
una più ampia analisi della confessione mitica si deve qui rinviare appunto all’ope-
ra di Ricoeur. Personalmente ho cercato di individuarne lo statuto metodologico
nel saggio Il metodo fenomenologico di P. Ricoeur, introduttivo alla traduzione italiana,
Finitudine e colpa, cit.
7
I. Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, 1,4; trad. it. La re-
ligione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Roma-Bari 20103.
8
P. Ricoeur, Finitudine et culpabilité, cit., vol. II, pp. 242-243; cfr. trad. it. cit.,
p. 526. Si deve qui dire che accordiamo alla figura del serpente un valore eccessivo?
G. von Rad, a esempio, ritiene che la figura del serpente abbia per lo scrittore sacro
un valore del tutto secondario rispetto all’asse antropologico della narrazione. Non
v’è dubbio che la novità del racconto adamitico, rispetto alle diverse tradizioni re-
ligiose, consiste proprio nel sottolineare la responsabilità della scelta umana. Ma si
può per questo dire che la figura del serpente «dipendeva quasi più da un’esigenza
della narrazione che dalla necessità di presentare il male come qualcosa che sta al
di là dell’uomo» (G. von Rad, Das erste Buch Mose (Genesis 1-12,9), Vandenhoeck-
Ruprecht, Göttingen 1951, tradzione di G. Moretto, Genesi, Paideia, Brescia 1969,
p. 104)? Perché un’esigenza narrativa si serve d’una figura così tipica nell’Oriente?
Del resto, quale valore deve avere l’identificazione operata dalla tradizione biblica
fra il potere del serpente e quello di Satana? Si confronti al riguardo Sapienza 2,24:
«Per invidia del diavolo è entrata la morte nel mondo»; Giovanni 8,44: «Questi fu
Mysterium iniquitatis: la disperazione diabolica 85

Il male dell’uomo, dunque, rinvia a una potenza, a una sorgente di


iniquità in qualche modo estranea all’uomo. Dicevo prima del male
come d’un corpo estraneo a ogni comprensione, come un non senso
che l’uomo può trovare ma non comprendere. Ed è in questo signi-
ficato che va letta la stessa interpretazione kantiana: l’uomo non è
costituzionalmente perverso, il male non appartiene al suo statuto
essenziale; la colpa dunque va intesa come alienazione della propria
identità fondamentale, come il cedimento di fronte a una estraneità
radicale che tuttavia ci seduce e ci contamina. Questa estraneità ha
voce nella coscienza dell’uomo e risuona con un appello assoluto:
«Diventerete come Dio». Il serpente parla, così, con una logica teo-
logale: non sembra trascinare verso la pura finitezza ma illude questa
verso un potere assoluto.
Quale può essere lo spazio di questa estraneità, di questa potenza
che risuona con parole assolute? Avvertiamo qui che il nostro punto
di partenza non può consistere semplicemente nella figura del ser-
pente. Si tratta, del resto, d’una figura in certo senso tardiva e co-
munque non originaria nella stessa tradizione biblica, forse d’un’ac-
cettazione della dottrina iraniana relativa al Principio del male, pur
con la insistita correzione che traduce questo principio in creatura.9
L’accettazione corrisponde forse al bisogno di non riportare a Dio
stesso la radice del male e della tentazione. In tal senso la figura del
serpente comporta un acquisto teoretico di tutto rilievo, ma d’altra
parte non si può sottacere la convinzione biblica, più antica e for-
se più ricorrente, secondo la quale è Dio stesso che tenta l’uomo.
Comunque venga letta, la domanda inclusa nel Padre Nostro di non
essere indotti o di non essere abbandonati nella tentazione non fa
che raccogliere il filo di questa tradizione antichissima: si pensi alla
prova di Abramo10 o alla stessa promulgazione della legge, quale pro-

omicida fin dall’inizio»; 1Giovanni 3,8: «Fin dal principio il diavolo è peccatore»;
Apocalisse 12,9 e 20,2: «Il serpente antico, che è il diavolo, Satana».
9
Genesi 3,1 parla della «più astuta di tutte le bestie selvatiche che Jhwh aveva
fatto». Si veda poi la maledizione del serpente in Genesi 3,14 ss.; cfr. a questo riguar-
do la voce péira, in Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, hrsg. von G. Kit-
tel  –  G. Friedrich, Kohlhammer, Stuttgart 1933-1979; edizione italiana a cura
di F. Montagnini e G. Scarpat: Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia
1965-1992, vol. IX, pp. 1418-1420 (H. Seesemann).
10
Genesi 22,1-9.
86 Virgilio Melchiorre

va voluta da Dio.11 È dunque Dio stesso il tentatore? Se c’è una verità


in questo paradosso e se va anche mantenuta la correzione introdotta
con la figura del serpente, comprendiamo meglio quell’altra figura
di Satana che, nella tradizione biblica, sembra raccogliere in una le
due affermazioni: Satana come creatura, ma anche come accusatore
che siede presso la corte di Dio e che da Dio è inviato a tentare.12
Ritorniamo così al nostro inizio: l’evento del male rinvia a un esse-
re-già-lì del male, un essere che risuona nella coscienza con accenti
teologali, con un linguaggio che pur travisato appartiene alla corte
di Dio. È forse in questo senso che in alcuni frammenti di Qumran
leggiamo che le vie della luce vanno cercate guardando verso le te-
nebre: Dio ha creato gli spiriti della luce e delle tenebre e in essi rin-
viene ogni opera.13 Testi che forse richiamano Isaia 46,6-7: «Fuori di
me c’è il nulla. Io sono Jhwh: non ce n’è altri. Io ho formato la luce
e creato le tenebre».14 Ma se la luce non può esser tenebra, se Dio in
persona non può essere il tentatore, qual è dunque lo spazio in cui
può abitare la potenza dell’iniquità? E in che senso questo spazio
scaturisce dalla dimora della luce ed è costituito, in definitiva, da Dio
stesso? Le due linee di questa domanda si sciolgono forse, e contro
ogni apparenza, nella grande affermazione della lettera di Giacomo:
«Nessuno, quand’è tentato, dica: “Sono tentato da Dio”, perché Dio
non può essere tentato e lui non tenta nessuno. Ciascuno invece è
tentato dalla propria concupiscenza, adescato e sedotto».15 La dualità
che corre fra la potenza di seduzione e l’uomo sedotto viene qui ritra-
scritta all’interno dell’uomo: la voce del serpente è ora chiaramente

11
Esodo 20,20 e prima 16,4. Ma si confronti poi 2Samuele 24 (Dio che tenta David
al censimento di Israele), corretto poi da 1Cronache 21,1: «Satana sedusse David
perché numerasse Israele». E ancora Sapienza 3,5: «È Dio che li ha provati e li ha
trovati degni di sé»; 11,10: «Provavi gli uni come padre che richiama, ma vagliavi gli
altri come re severo che condanna»; Giuditta 8,25: «Ringraziamo il nostro Dio che
prova noi come i nostri padri».
12
Giobbe 1,12 e 2,5; Zaccaria 3,1 ss.; nel Nuovo Testamento: Luca 22,31; Apocalisse
12,10; e poi il drammatico potere dato alla fiera dominatrice e blasfema in Apoca-
lisse 13,5.7.
13
Cfr. 1QS 3,3; 3,25: The Dead Sea scrolls Hebrew, Aramaic, and Greek texts with En-
glish translations, ed. by J. H. Charlesworth and F. M. Cross, Mohr-Westminster
John Knox Press, Tübingen-Louisville 1994, pp. 12, 16.
14
Per una lettura in questo senso del brano di Isaia si veda la nota di K. Leh-
mann, Il mistero del male, «Communio», 45 (1979), p. 49.
15
Giacomo 1,13-14.
Mysterium iniquitatis: la disperazione diabolica 87

una voce che risuona dal cuore dell’uomo. Ma, di nuovo, qual è il si-
gnificato di questa epithymía: se essa non è la voce di Dio, in che senso
tuttavia appartiene a una creatura di Dio? E in che senso si contrap-
pone, pur nell’interno dell’uomo, come una potenza di seduzione?
Ancora, come può dirsi questa potenza scaturita dalla dimora della
luce e come può, in quanto tenebra, essere il rovescio della luce e
della sua logica assoluta?

Autonomia del finito e appropriazione dell’infinito.

Se vogliamo riprendere il discorso in termini più propriamente


speculativi, possiamo risalire al nostro problema partendo dal basso.
L’esperienza del male – dicevamo – non consente un’eidetica: ciò che
si manifesta in se stesso come un non senso non è riportabile a una
radice di razionalità. Ma proprio questa osservazione permette, a ben
vedere, di trascendere una pura empirica dell’irrazionale verso una
duplice conclusione metafisica. Per un verso possiamo dire che l’irri-
ducibilità del male viene riconosciuta dal fondo di una coscienza che
è costituzionalmente aperta sull’assoluto: la proposizione, secondo la
quale l’irrazionale non può essere spiegato razionalmente, implica
infatti che lo “spiegare” sia inteso in senso radicale, in riferimento a
un senso ultimo e come tale assoluto. Non si tratta, cioè, di negare
che l’irrazionale sia attribuibile a una qualche realtà razionale, ciò
che del resto l’esperienza ci impedirebbe di dire, e dunque non si
tratta di negare che l’irrazionale si dispieghi con una qualche coeren-
za e con un qualche uso della razionalità, ma si tratta appunto di ne-
gare che questa parzialità razionale possa ultimamente legittimarsi,
possa cioè fondarsi in una assoluta razionalità, in un senso assoluto e
definitivo dell’essere. Già la coscienza della negatività morale si erige
dunque sulla base di un riferimento ultimo: la coscienza del male ha
la sua condizione di possibilità nella coscienza e nella partecipazione
di un assoluto, infinito bene.
Per altro verso l’irriducibilità del male, la sua non attribuibilità
a un soggetto assoluto, comporta una differenza qualitativa rispetto
all’assoluto, una trascendenza metafisica dell’infinito stesso.
Nel cuore di un’esperienza di negazione, ritroviamo così quel-
lo che è stato chiamato il teorema della creazione: un parteciparsi
dell’assoluto, un darsi finitamente dell’infinito, e in questo anche la
88 Virgilio Melchiorre

posizione d’una differenza qualitativa o d’una alterità ontologica. In


termini positivi, questo deve significare che l’infinito consegna il fini-
to a se stesso e lo lascia essere in sé. Ciò vuol dire che il finito, per es-
sere se stesso, dev’essere attratto dalla propria identità, da una intra-
montabile concupiscenza del suo sé: una pulsione eccentrica rispetto
all’origine appartiene dunque allo statuto della finitezza.
Il finito non può che nascondere l’infinito: non è questo il pec-
cato ontologico che, da Anassimandro a Schopenhauer, risuona nel-
la storia del pensiero occidentale? Dobbiamo allora dire, come ha
da ultimo fatto Ernst Bloch, che la creazione è in se stessa cattiva?
Avremmo, così, raggiunto quel male in sé che l’uomo trova e che per
sé non fa che riprendere e ripetere sempre. La conclusione sarebbe
tuttavia tanto rapida quanto infondata. Che il finito debba cercare
se stesso, deve questo comportare il nascondimento o il tradimento
dell’infinito? Che vuol dire nascondere e tradire? I verbi manifesta-
no un evidente antropomorfismo: ciò che è nascosto è tolto alla vi-
sta; il nascondimento esige dunque una visione e una coscienza. Il
tradimento a sua volta comporta una volontà di abbandono e una
coscienza di distacco. L’infinito dunque non è sottratto dalla finitez-
za che, pur essendo se stessa, ne partecipa e ne deriva, ma da quella
finitezza che può ignorare questa partecipazione e che ignorandola
cerca di essere se stessa assolutamente. Essere assolutamente se stessi
vuol dire poi fondarsi in sé, appropriarsi del Fondamento. Questo
è in definitiva quanto esigeva la tentazione del serpente: «Divente-
rete come Dio». Una parola che, per contrappunto, risuona anco-
ra nell’inno di Filippesi 2,6, ove l’essere “uguale a Dio” viene inteso
come una “rapina”.
Questa appropriazione potrebbe essere descritta – come indicavo
all’inizio – nel significato di una maschera di perversione: una con-
trofigura della logica teologale, un “travestimento” della luce, com’è
detto in 2Corinzi 11,14 appunto a riguardo di Satana. In tal senso,
potremmo rileggere soprattutto il quarto vangelo come una fenome-
nologia di questa logica travestita: chi non riconosce Dio, non per
questo ha rinunciato a un radicamento assoluto; l’alternativa che si
pone alla paternità di Dio è allora quella che dispone di un’altra to-
talizzazione o di un’altra paternità. La dottrina delle due origini, da
Dio e dal diavolo, si inscrive appunto in tale prospettiva: le due ori-
gini implicano – come sappiamo – due logiche opposte, assolute e,
Mysterium iniquitatis: la disperazione diabolica 89

proprio in quanto tali, incomunicabili.16 Il diavolo viene così definito


con i caratteri della signoria, anche se, alla radice, questa signoria è
solo in apparenza originaria ma in realtà – lo si è già visto – solo data
o tollerata da Dio: in ogni caso il demonio è, però, indicato come il
«principe di questo mondo».17 I sinottici avevano già parlato a tale
riguardo di un principato che vive di una sua coerenza rigorosa,18
una coerenza che lega con la sua forza e con la sua apparente asso-
lutezza.19 Anche Paolo aveva parlato in tal senso dei pensieri o delle
cogitationes (noémata) di Satana,20 il dio di questo secolo che acceca le
menti e i pensieri.21
Questi rinvii a una potenza logica di perversione, o a una contro-
figura della logica di Dio, ci riportano al cuore del nostro problema.
Il finito – dicevo – per la stessa costituzione che gli viene dall’infi-
nito non può che cercare se stesso, ma questa sua ricerca non può
giungere in ogni caso ad appropriarsi dell’infinito: lo può solo quel
finito che in se stesso, in quanto coscienza del senso, è aperto all’in-
finito e a una ricomprensione assoluta di sé. Tale è appunto l’uomo,
come la stessa coscienza del male testimoniava. Ma come può appa-
rire l’infinito a questa finitezza che, in quanto tale, è chiamata verso
la propria determinazione? Come può apparire quest’infinito che,
in sé, abbiamo ravvisato quale Altro? Non appare proprio nella forza
dell’infinito, come quel nulla vertiginoso e angosciante di cui hanno
parlato Kierkegaard e Heidegger: il più vicino fra i vicini, ma anche
il più lontano fra i lontani per l’uomo che vive nella consuetudine
della propria finitezza e in questa è chiamato a cercarsi?22 La costitu-
16
Giovanni 8,42 ss.; cfr. 1Giovanni 3,10.
17
Giovanni 12,31; 14,30; 16,11.
18
Marco 3,23-26: «Come Satana può scacciare Satana? Se un regno è in discordia
contro se stesso, questo regno non può sussistere. E se una casa è in discordia con-
tro se stessa, questa casa non può sussistere. Se, dunque, Satana è insorto contro se
stesso ed è in discordia, non può sussistere; anzi è giunto alla fine».
19
Marco 3,27; Luca 11,16.
20
2Corinzi 2,11.
21
2Corinzi 4,4.
22
Cfr. di M. Heidegger, Einleitung a Was ist Metaphysik?, Klostermann, Frankfurt
a.M. 1955, p. 21. Ma prima ancora cfr. Sein und Zeit, paragrafo 40 (trad. it. Esse-
re e tempo, Longanesi, Milano 20083); e di S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia
(trad. it. Milano, SE 2007), cap. I, paragrafo 5. L’ambiguità dell’uomo, che in forza
della ragione è costituzionalmente teso all’universale, ma che in forza della sua fini-
tezza può cercare l’universale solo cercando se stesso, esige ancora un chiarimento.
Dicevo prima di una pulsione centripeta che costituisce ogni finito: una pulsione
90 Virgilio Melchiorre

zione dell’uomo implica, dunque, questa fondamentale ambiguità:


per un lato deve darsi una duplice tensione verso l’infinito e verso la
propria finitezza che è ciò che ha da essere, ciò che primitivamente
deve cercarsi; ma, per altro lato, questo apparire e questo ricercarsi
in sé della finitezza comportano un nascondimento dell’infinito. Si
può dire che la tensione che si rapporta all’infinito, e che lo contiene
nella propria determinatezza, è esposta a ritorcersi appunto su di sé,
a cercare l’infinito solo in quel che positivamente e immediatamente
essa è, nella propria finitezza. Tornando alla logica diabolica descritta
dal Nuovo Testamento, possiamo pensare a quel passo in cui Gesù
rimprovera Pietro. Pietro proponeva un progetto di salvezza e offriva
un’immagine assoluta del Figlio dell’Uomo, ma lo faceva in termini
che restavano alla portata dell’uomo: la sua logica, proprio in quanto
era declinata in un contesto escatologico, era così satanica. «Vattene
da me, Satana! Tu non ti preoccupi delle cose di Dio, ma di quelle
degli uomini».23

eccentrica rispetto all’origine. Potremmo aggiungere che non è questa pulsione


che specifica l’uomo, ma piuttosto proprio la sua tensione all’universale, all’infi-
nito. E tuttavia questa specificazione non sarebbe umana se non si desse nel limite
dell’uomo, se non fosse inscritta all’interno di una ricerca del sé finito. Senza que-
sta ambigua unità o questa inscrizione dell’infinito nel finito, l’umanità dell’uomo
sarebbe mera apparenza. E apparenza che nasconderebbe un reale disprezzo o una
indifferente pietà per il destino della finitezza. Proprio come accade nel Siddharta
di Hermann Hesse, ove il figlio del Brahmino e la sua maestra in amore sono tanto
distanti dal proprio sé, tanto sapienti dell’universale, da non sapere dell’amore che
la perfetta esteriorità dei gesti e del mimo: «Forse le persone come noi non posso-
no amare. Lo possono solo gli uomini-bambini: questo è il loro segreto» confessa
infine Siddharta, e di qui si partirà alla ricerca di una finitezza reale, capace di cer-
carsi e di amarsi in se stessa e, solo nel fondo di questa ricerca, capace a un tempo
di sapersi realmente aperta sull’infinito. Del resto, per riprendere una citazione
più classica, come non pensare al Cristo di Hegel? Un Cristo che, per la propria
coscienza infinita, e in realtà solo infinita, deve dileguare in Dio e per questo non
può amare: «Non poté amare una moglie, generare dei figli, divenire un padre di
famiglia o un concittadino che godesse con gli altri la vita comune» (G.W.F. Hegel,
Theologische Jugendschriften, hrsg. von H. Nohl, Mohr, Tübingen 1907, p. 328). Qui è
forse superfluo ricordare le conclusioni estreme del monofisismo, quelle che dalla
pura universalità del Cristo devono appunto inferire il carattere soltanto apparente
della sua finitezza.
23
Marco 8,33. Quanto sia attuale e sempre incombente questa forma di inversio-
ne demoniaca, questo declinarsi del male nella forma suprema degli asserti teolo-
gici, lo abbiamo inteso con accenti inconsueti nelle parole di Ernst Bloch: «Il male
non si manifesta più come orgoglio, ma assume la forma assai più tremenda del
Mysterium iniquitatis: la disperazione diabolica 91

Abbiamo prima ricordato la lettera di Giacomo con il suo sforzo di


demitizzare il tentatore: lo spazio della tentazione era indicato nella
concupiscenza. Ora sappiamo che questa concupiscenza corrisponde
a una possibilità inscritta nello statuto stesso dell’uomo: una dupli-
cità tesa fra finito e infinito e che nella propria identità di finito ha
una pulsione trainante; questa pulsione implica non che il rappor-
to all’infinito possa essere tolto, ma che nel suo occultamento possa
essere riportato alla finitezza stessa. In questo senso Heidegger ha
detto che l’uomo è sempre originariamente colpevole, non perché
commetta questa o quella determinata colpa, ma perché, pur non
essendo fondamento a se stesso, è d’altra parte chiamato a essere il
fondamento della propria possibilità: in quanto posto, gettato, fonda-
to nell’essere, l’uomo non può non essere il fondamento del proprio
esserci, non può che volere le possibilità che gli sono date a partire
da sé. Ma, proprio in quanto è costituito su una radicalità che non
potrà mai adeguare e che sarà sempre ultimamente nascosta dal suo
esserci, e dunque proprio perché non potrà “insignorirsi” del pro-
prio fondamento, l’uomo è anche esposto a essere un “fondamento
nullo” di tutte le proprie possibilità, a porsi come una fondazione
che sempre tradisce il Fondamento originario: un esistere che ripete
l’iniziativa assoluta della fondazione, senza mai poterla adeguare e
anzi sempre dovendola ridurre alla dimensione dell’ente.24 Potrem-
mo aggiungere che la colpevolezza originaria non va senz’altro intesa
nel senso della negatività o della colpa morale: l’esistenza autentica
sta anzi proprio nell’assumere questa inevitabile colpevolezza e nel
farne lo spazio di un riconoscimento. L’umano fondare, mentre si sa
come non assoluto, si traduce allora in una incessante apertura sulla
trascendenza che ci costituisce e insieme ci supera e che, in questa
sua duplicità, richiede il nostro abbandono e la nostra fede.

sonno, della debolezza, dell’occultarsi dell’Io e della deformazione dell’aldilà; giac-


ché ciò che permette l’assoluto trionfo del Nemico e facilita la sua vendetta è che si
è persa la fede nel diavolo pur continuando a credere in Dio, è che si è perso ogni
senso dell’eliminato trascendente. Siamo quindi entrati nel malvagio momento
dell’odio e della vendetta, dove Satana si nasconde in Dio» (E. Bloch, Geist und Uto-
pie, 1923, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1964, pp. 334-335. Cito dalla traduzione, forse
non troppo aderente al testo ma bella e sostanzialmente fedele, di F. Cappellotti,
in E. Bloch, Religione in eredità, Queriniana, Brescia 1979, p. 119; corsivo mio).
I termini usati da Bloch per Satana esprimono molto bene l’inversione teologica
del demoniaco: «il Nemico» (Widersacher) e, poco più oltre, l’«Antidio» (Gegengott).
24
Heidegger, Sein und Zeit, cit., paragrafo 58.
92 Virgilio Melchiorre

Resta, però, che questa inevitabile colpevolezza costituisce a un tem-


po lo spazio possibile di ogni colpa: lo spazio in cui l’ineliminabile
tensione all’infinito o all’assoluto Fondamento può essere espropria-
ta e assunta dalla pulsione che chiama il finito a essere se stesso. Ab-
biamo parlato, a tale riguardo, di una concupiscenza che si leva nel
proprium dell’uomo. E ora possiamo anche intendere in che senso
questa affermazione demitizza ma non cancella quella più arcaica se-
condo cui è Dio stesso che tenta: è solo da Dio, la dimora della luce,
che viene costituito l’uomo con la sua apertura sull’assoluto e con la
sua autonomia. Ma proprio in quanto è costituito nella sua autono-
mia, l’uomo è anche esposto alla tentazione radicale che fraintende
il silenzio dell’infinito e si arroga il ruolo della fondazione assoluta.
Parlando in termini fortemente analogici e dunque con tanta impro-
prietà, potremmo dire che Dio, affidando l’uomo a se stesso, costitu-
isce a un tempo la possibilità del fraintendimento: Dio tenta dal mo-
mento che ha costituito l’uomo nella possibilità di tentare il proprio
creatore.25 La tentazione si traduce così nella maschera della parola
di Dio, nella controfigura o nell’alienazione della logica teologale.
L’uomo può peccare e prendere su di sé la colpa, ma la colpevolez-
za giace nella sua profondità e precede la sua stessa scelta: è – come
si ricordava – «il non-posto nella posizione del male, il già-lì del male,
l’Altro della tentazione». Questa “quasi-alterità”, con la sua logica as-
soluta ma ultimamente contraddittoria, porta anche il nome del de-
moniaco: dàimon vuol dire appunto una potenza che prevarica e pre-
cede la scelta dell’uomo e – come forse indica il significato originario
del termine – vuol anche dire una potenza che dilania e divora nella
contraddizione, e che perciò diventa un principato di morte.26 Come
poi questa contraddizione possa realizzarsi effettivamente e investire il
nome stesso di Dio, non possiamo dirlo: si tratta di quell’irrazionale
che nel suo esserci ci si manifestava come un in sé inesplicabile.
25
Esodo 17,1-7; Numeri 14,22; Deuteronomio 6,16 ss.; Siracide 18,23, ove l’uomo che
tenta Dio non è l’uomo irreligioso, ma l’uomo che esige un assoluto alla propria
portata, al servizio delle proprie pulsioni: si potrebbe dire, con un certo paradosso,
l’uomo che edifica una teologia antropocentrica. In tal senso vanno appunto intese
le richieste degli Ebrei nell’Esodo: richieste di un Dio fatto per la prosperità e per
la potenza del popolo che ha ritrovato se stesso nel rifiuto della schiavitù egiziana.
Le tentazioni che il Nuovo Testamento attribuisce a Gesù sono modellate ancora
nello stesso senso e Gesù risponde che Dio non può essere tentato per sorreggere
la potenza o la gloria terrena del Figlio dell’uomo.
26
Ebrei 2,1.
Mysterium iniquitatis: la disperazione diabolica 93

Abbiamo anche parlato, al riguardo, di persona nel significato


della maschera che nasconde e fa risuonare assurdamente la logica
dell’assoluto. Si può intendere questa persona come una singolarità
o come Qualcuno? Al discorso antropologico si poteva chiedere solo
di individuare lo spazio o la condizione ontologica della colpevolez-
za: una condizione che si è indicata come intima, ma anche come
precedente la stessa scelta dell’uomo, più ampia e più comprensiva
dell’evento e della singolarità che la manifestano. Il passo ulteriore,
quello che – al di là della possibilità trascendentale – volesse com-
prendere la realtà dell’irrazionale, non è poi a portata di ragione. Gli
stessi nomi che abbiamo tentato di usare per questa realtà sono diver-
si e sembrano connotare più che denotare, colgono più i predicati e
gli attributi che non una sostanza.
Di fronte al mistero dell’iniquità è forse più saggio dire che sia-
mo chiamati a romperne la logica, piuttosto che a comprenderne
il nome o l’eziologia. Vale qui l’atteggiamento di Gesù di fronte al
cieco nato o di fronte alla morte di Lazzaro: non chiedersi il donde
e il perché, ma riconoscere che tutto questo è da intendere come lo
spazio drammatico della testimonianza, come ciò che incontriamo
«per manifestare le opere di Dio».27 «Questa malattia non è per la
morte, ma per la gloria di Dio».28

27
Giovanni 9,3.
28
Giovanni 11,4.

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