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C'è molto di precristiano nel folklore e nelle feste che oggi ancora celebriamo. Il motivo è semplice:
i riti agresti, che affondano le loro radici in un passato remoto e ancestrale, sono rimasti per lungo
tempo profondamente radicati nella società rurale, dove tutto era regolato dai ritmi monotoni della
natura. Così radicati che l’avvento del Cristianesimo non solo non riuscì ad estirpali, ma dovette
convivere con essi adattandoli ai nuovi valori mutandone solo il significato più appariscente. In
queste pagine vedremo quali tracce hanno lasciato nel territorio bresciano le quattro feste dell'anno
celtico e come l'iconografia che rappresenta alcuni santi e la devozione ad essi legata rimandi a
figure e sensibilità tipiche del mondo precristiano. Per ragioni di spazio non parleremo del
Carnevale di Bagolino perché è fin troppo celebre ed è stato oggetto di ampi studi etnologici per cui
esiste una ricca ed esaustiva bibliografia alla quale rimandiamo 1. Quello che compiremo è dunque
un viaggio, ci auguriamo avvincente, alla riscoperta di una componente meno nota ma altrettanto
importante delle radici della nostra cultura.
La data di inizio di ogni mese e anno, così come il giorno esatto in cui si celebravano le feste, non
era fissa, come avviene ad esempio per il nostro Capodanno, Natale o Ferragosto. Poiché il
calendario celtico si basava sulle fasi lunari, ogni "cominciamento" doveva cadere, per motivi
1 Ad es. SORDI 1976 e CAPPELLETTO 1995.
rituali e come predicato dalle tradizioni, in corrispondenza del primo quarto. Tutte le feste dell'anno,
inoltre, erano dedicate (tranne Samonios) ad una divinità ben precisa del pantheon, e la data era
stabilita ogni volta dalla levata eliaca di una ben precisa stella 2 (cioè il primo giorno della sua
visibilità ad occhio nudo all'alba, in corrispondenza del sorgere del Sole), dai druidi prevista
ovviamente con largo anticipo. A Samonios, la stella attesa era la rossa Antares, l'astro più luminoso
della costellazione dello Scorpione. Imbolc era annunciata dalla levata eliaca di Capella,
appartenente alla costellazione dell'Auriga: durante la festa si celebrava la dea Birgit, divinità che,
tra le altre cose, aveva il compito di proteggere le messi, richiamate in maniera per i druidi evidente
dal colore giallo della stella. Beltaine, invece, era connessa alla visibilità di Aldebaran, stella rossa
della costellazione del Toro: una caratteristica, questa, che spiegava bene la sua connessione col dio
Belenos e con i riti legati al fuoco. Lughnasad infine era celebrata il giorno del primo sorgere di
Sirio, la stella in assoluto più luminosa, appartenente alla costellazione del Cane Maggiore, poco
lontano da Orione. Il suo colore bianco rifletteva le caratteristiche del dio Lug, il più importante del
pantheon celtico, che infatti era definito come il "luminoso" o il "brillante". La levata eliaca di
Antares e Aldebaran serviva ai Celti anche per delimitare le stagioni, che erano solo due, inverno ed
estate: dato, questo, che ben si accorda con il ciclo climatico (e quindi agricolo) proprio delle
latitudini centro e nord europee, quelle appunto da loro abitate.
Questo mondo spirituale era espressione di una religiosità schietta e sincera, ma non certo
"ortodossa", almeno per la Chiesa quando iniziò, intorno al V secolo, ad evangelizzare le campagne.
Due, a quel punto, erano le strade possibili: o procedere alla cancellazione, radicale e violenta, di
tutto il substrato esistente, oppure procedere per lenta assimilazione, cercando di adattare quel che si
poteva al nuovo credo. La prima via era più difficile e rischiosa, e fu scelta in pochi casi. In genere,
si preferì invece operare per sincretismo, reinterpretando figure di divinità o feste e dando ad esse
un volto cristiano. Nonostante gli sforzi, i culti pagani furono duri a morire soprattutto nelle aree
periferiche, nelle campagne e nelle valli, dove il ciclo delle stagioni e il rapporto con la natura era
molto sentito dai contadini. In tanti casi perciò non è stato possibile cancellare completamente tutti i
retaggi ancestrali legati a culti che si perdono nella notte dei tempi. Le feste collegate al fuoco e alla
luce vivono ancora oggi e il loro legame con l'osservazione astronomica, con i ritmi della vita
contadina e con le credenze pre-cristiane risulta ancora evidente. Riconoscerle non è facile. Per
questo risulta straordinario, per il territorio bresciano che qui ci interessa, il lavoro svolto da un
team di ricercatori coordinati da Giancorrado Barozzi e Mario Varini nel raccogliere, analizzare e
indicizzare l'enorme massa di documentazione iconografica e scritta e di testimonianze orali
relativamente a usanze, riti, feste e folklore locale. Lavoro confluito nel fondamentale 3 Atlante
Demologico Lombardo. Tradizioni popolari della Provincia di Brescia disponibile anche su
Internet, cui si rimanda anche per la monumentale bibliografia.
Le due ricorrenze principali del calendario erano Beltaine e Samonios: la prima spalancava le porte
all'estate, l'altra decretava l'inizio del lungo e freddo inverno. Essendo occasione di fiere e di
assemblee politiche e giudiziarie, entrambe venivano celebrate con grandi banchetti, danze e giochi.
Ma mentre Beltaine aveva in programma corse, prove di forza e gare con i cavalli, Samonios
vedeva come grande protagonista – peraltro mai assente, nemmeno nelle altre occasioni - il fuoco. Il
fuoco era considerato l'elemento purificatore per eccellenza: non solo in quanto dispensatore di luce
e di calore, ma perché catalizzatore di energie positive. Essendo Samonios considerata l'inizio del
nuovo anno, i falò sacri accesi durante le celebrazioni dovevano estendere la loro influenza benefica
nell'arco di tutti i dodici mesi e pertanto erano accompagnati da canti festosi e da rituali divinatori.
Come ogni festa che si rispetti, inoltre, anche Samonios/Samhain aveva profondi legami con la
religione e con il culto degli dei. In particolare, per gli irlandesi questa data era la ricorrenza di una
grande battaglia tra divinità celebrate nel ciclo epico, e corrispondeva al giorno della morte del
mitico eroe Cú Chúlainn. Nelle celebrazioni era decisivo l'intervento dei druidi e degli esperti in arti
magiche: per conoscere quale sorte riservava l'anno nuovo, si ricorreva volentieri a pratiche
divinatorie, cogliendo il momento propizio per vaticini e presagi. E i druidi, che conoscevano le
forze della natura ed erano gli unici a saperle interpretarle, giocavano il ruolo dei grandi
protagonisti.
La festa di Samonios infatti, insieme a quella di Beltaine segnava un netto confine tra due periodi
dell'anno molto diversi, ed era perciò considerata un "cancello" particolarmente facile da
oltrepassare per mettersi in comunicazione con il soprannaturale. Poiché si pensava che agli spiriti
fosse più consono l'inverno dell'estate, Samonios diventava il momento più propizio dell'anno per
stabilire un contatto con l'aldilà. Essa corrispondeva all'attuale primo di novembre, ma poiché i
Celti iniziavano a contare il giorno dal calare del sole, la festa vera e propria iniziava al tramonto
del giorno precedente, cioè il 31 ottobre. Col buio si scatenavano le forze magiche ed era possibile
vedere folletti e fate finalmente liberi di girovagare; gli spiriti per una notte potevano tornare alle
loro vecchie abitazioni per scaldarsi e rifocillarsi in vista del lungo inverno. Riti propiziatori per il
nuovo anno, pratiche magiche e culto dei morti dunque si fondevano insieme nella celebrazione di
una ricorrenza che tuttavia non aveva nulla né di malinconico, né lugubre: quella di Samonios era
anzi la notte più lunga e gioiosa dell'anno. Una festa di pace e di amicizia.
Laddove l’identità celtica si è mantenuta viva, la ricorrenza è stata celebrata quasi senza soluzione
di continuità con tutti i suoi simboli fino ad oggi. Così in Scozia, dove si accendono fuochi (detti
“samhnagan”) in Galles, sull’Isola di Man, in Bretagna e in Irlanda. Nei paesi “anglosassoni” alla
tradizione si è affiancata l’antica leggenda di Jack o' the Lantern, “Jack della lanterna”, peraltro nota
in varie versioni. Secondo una di queste, forse la più popolare, questo Jack era un fattore che osò
sfidare il diavolo costringendolo a scappare su un albero. Per non farlo scendere, Jack incise sul
tronco una croce. Il diavolo, però, lo pregava di lasciarlo andare e alla fine i due si accordarono: il
demonio sarebbe sceso a patto di garantire a Jack che, alla sua morte, non lo avrebbe portato con sé
all'inferno. Il fattore trascorse dunque la sua vita in maniera dissoluta, certo com'era che non
sarebbe mai stato punito per i suoi peccati. E quando morì, il diavolo mantenne la promessa: non lo
avrebbe portato con sé alla dannazione eterna. Semplicemente, lo avrebbe costretto a vagare per
sempre sulla terra, di notte, alla ricerca della dimora finale, facendosi luce grazie a una piccola
lanterna. Per evitare che l'importuno spirito si insediasse nelle loro case, gli abitanti del luogo
presero allora l'abitudine di appendere fuori dalla porta, la notte di Halloween, una lanterna ricavata
da una zucca – o da una rapa - svuotata e intagliata a mo’ di faccia, riempita di candele.
Perché questa scelta? Il motivo è chiaro: è noto come i Celti ritenessero la testa la parte del corpo
dotata di maggiori poteri, a cominciare dalla forza fisica e dal valore. Per questo usavano decapitare
ritualmente i nemici vinti – come del resto notavano già Cesare e Diodoro - conservandone le teste
in segno di trionfo, mentre i corpi venivano esposti nei santuari. Pilastri di pietra con spazi per
esporre i teschi dei nemici sono stati ritrovati, in Francia, a Entremont e a Roquepertuse, e non si
contano le stele che presentano scolpite teste umane. Spiccare dal busto il capo di un nemico ucciso
e conservarlo equivaleva, presso i Celti ma anche per i Germani, a tributargli “l’onore delle armi”, e
spesso accadeva che dai teschi essi ricavassero coppe – spesso riccamente ornate - per le libagioni
rituali, il tutto non come affronto al nemico, dunque, ma come tributo estremo al suo valore.
Una memoria di tale usanza potrebbe sopravvivere nella misteriosa intitolazione dell’antichissima
basilica, oggi non più esistente, di San Giovanni alle Quattro Facce a Milano. E così arriviamo a
noi. Non è un segreto - come dimostra ad esempio la facies culturale e linguistica della “civiltà di
Golasecca” - che i Celti abitarono a lungo le nostre zone ed erano presenti ben prima di quella
famosa invasione che, nel IV secolo a.C., vide Brenno e i suoi varcare le Alpi per poi spingersi fino
a saccheggiare Roma. E' naturale che anche qui Samonios fosse ampiamente diffusa soprattutto
nelle campagne e nelle valli, e che continuò ad essere celebrata anche dopo la conquista romana.
Certo, da allora molto è cambiato. Quando la Chiesa, a partire dal IV secolo procedette lentamente
alla cristianizzazione, rivestì le celebrazioni pagane di significati adatti alla nuova religione.
Samonios fu scissa in due: il primo di novembre diventò la festa di Ognissanti, il giorno successivo
la celebrazione dei defunti. Ognissanti fu introdotta per la prima volta sul finire dell'VIII secolo dai
Franchi su consiglio di Alcuino di York, biografo e consigliere di Carlo Magno, ed estesa a tutto il
regno sotto Ludovico il Pio, che accontentò la richiesta in questo senso fattagli da papa Gregorio IV.
Fu resa poi obbligatoria in tutta la cristianità occidentale da papa Sisto IV nel 1475. La
commemorazione dei defunti fu invece introdotta nei monasteri benedettini da Odilone, abate di
Cluny dal 994 al 1049, e adottata ufficialmente dalla liturgia romana nel Trecento con il nome
altisonante di Anniversarium omnium animarum.
L'operazione si giustificava ufficialmente col fatto che sin dai primi secoli del cristianesimo si usava
celebrare i santi - martiri in primis - nel giorno della loro morte. Che era poi il loro vero dies natalis,
cioè giorno della nascita alla salvezza, al Paradiso e alla vita eterna. L'uso venne dapprima
consolidato e poi istituzionalizzato tramite la redazione dei cosiddetti “martirologi”, ossia veri e
propri calendari dove ad ogni giorno dell'anno corrispondeva la data del martirio di uno o più santi,
secondo quanto tramandato dai documenti antichi e dalle “Passioni dei martiri”. Già papa Gregorio
Magno, nel VII secolo, li citava raccomandandone l'uso a fini liturgici. Di lì a poco praticamente
ogni chiesa se ne dotava, traendo le informazioni dalle fonti più diverse. Un primo tentativo di
mettere ordine a tutto questo guazzabuglio di date fu fatto dal dottismo monaco britannico Beda il
Venerabile, all'inizio del secolo VIII. Il suo martirologio, insieme a quelli di Adone di Vienna (860)
e Usuardo di Saint-Germain (865) sarebbe stato utilizzato da Gregorio XIII nel 1584 come base per
il grande Martirologio romano che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto fungere da calendario
ufficiale per quanto riguarda la celebrazioni dei santi. Tuttavia molte, anche in questo caso, si
rivelarono le dimenticanze e le omissioni, per cui si dovette attendere il 1748 e Benedetto XIV per
avere un'edizione che può considerarsi, se così si può dire, definitiva.
Gli attributi benefici e propiziatori di Brigit-Brigida sono evidenti nel culto che a questa figura
ibrida fu dedicato nel Nord Europa e nelle Isole Britanniche di tradizione celtica. Era usanza sin da
tempi remotissimi, la sera precedente la festa vera e propria, preparare un giaciglio di grano e fieno
sul quale venivano stese delle coperte. Quando tutto era pronto, si invocava l’arrivo di Brigit e la si
4 GOLDANIGA 1983, p. 266. Alcune di queste preziose citazioni sono state raccolte e pubblicate dal CRAAC,
Centro Ricerche Antropologiche Alpi Centrali, sul sito http://siti.voli.bs.it/craac
5 CANOSSI 1930, p. 31.
6 Da non confondere con l'omonima santa vissuta in Svezia nel XIV secolo.
pregava di trascorrere la notte sul giaciglio. Questa pratica rituale era in uso soprattutto nell’Isola
di Man e nelle Isole Ebridi, dove peraltro la dea-santa era invocata anche dalle partorienti.
Gli antichi testi irlandesi parlano di Brigit anche come patrona della poesia e del sapere: una sorta
di Minerva celtica, insomma. Il suo nome è etimologicamente riconducibile al termine “Briganti”,
“l’Esaltata”, poi latinizzato in “Brigantia”, dea protettrice della tribù britannica dei Brigantes;
poiché questo nome – e le sue varianti – ricorrono pressoché ovunque nei toponimi di tutta l’Europa
occidentale, è evidente che il suo culto era assai diffuso e radicato. Forse anche il nome stesso
della Brianza tradisce la presenza di questa dea sul territorio, soprattutto se si tiene conto della
diffusione molto ampia di altre divinità panceltiche come Apollo Maponos e le Matrone.
Tornando ad Imbolc, probabilmente fu proprio questa sua connessione diretta con una divinità
marcatamente pagana a renderla la festa celtica a noi meno nota. La Chiesa, forse imbarazzata
dall’omonimia tra la dea e la santa celebrata nello stesso giorno, cercò di snaturarne lo spirito e la
trasformò nella ricorrenza della Candelora, slittandola di un giorno, al 2 febbraio. Questa festa era la
celebrazione della purificazione della Vergine al Tempio, che secondo la legge mosaica era
avvenuta quaranta giorni dopo la nascita di Gesù. Prima del rito, il sacerdote aveva il compito di
benedire le candele, simbolo della luce portata da Cristo sulla terra; per questo la ricorrenza è nota
anche e soprattutto col nome di Candelora. Pare che essa fosse celebrata in Oriente già nel IV
secolo; tuttavia fu istituita ufficialmente solo nel 492 da papa Gelasio I e si diffuse in Occidente a
partire dal VII secolo, proprio in concomitanza con i grandi sforzi di evangelizzazione che la Chiesa
cattolica mise in atto sul continente, nelle Isole Britanniche e in Irlanda.
Il culto di santa Brigida d'Irlanda è testimoniato anche da noi. La vulgata vuole che fosse stato
introdotto dai monaci irlandesi giunti in Italia al seguito di o dopo san Colombano (612), il
fondatore del monastero di Bobbio sull'Appennino piacentino. Almeno nelle aree subalpine (Val
Averara e Valtellina) il culto risale al Medioevo. La chiesa che si trova a Santa Brigida in alta Val
Brembana (Bergamo) è stata edificata sui resti di un luogo sacro di origine celtica.
I FUOCHI DI BELTAINE
Tra fine aprile e inizio maggio i Celti celebravano, con Beltaine, l’inizio della metà luminosa
dell’anno. Divinità incontrastata era Bel, noto anche come Belenos, anch’egli – come Lug – legato
alla luce, ma a differenza sua dalle forti connotazioni apotropaiche e gioiose. Caratteristici della
festa erano infatti gli abbondanti banchetti e le smisurate libagioni intorno al fuoco, che
sopravvivono ancora oggi nelle celebrazioni del “Calendimaggio” e negli alberi della cuccagna,
intorno ai quali i giovani si esibivano in difficili esercizi di acrobazia o si arrampicavano alla
ricerca, sulla sommità, di un premio. Ai tronchi sfrondati erano appese corone di fiori.
L’albero della cuccagna, il palo retto al centro di una piazza, aveva un significato fallico evidente:
del resto per i Celti Beltaine era una ricorrenza legata alla fecondità, e il nome stesso del dio
Belenos in dialetto ligure sta a indicare ancora oggi, popolarmente, il membro virile. Quale
occasione migliore di Beltaine, quindi, per contrarre i matrimoni? A differenza di quanto avviene ai
giorni nostri, i Celti preferivano sposarsi "a scadenza": le nozze, cioè, duravano un anno, ed erano
eventualmente rinnovabili se i due sposi si fossero trovati in armonia. Un’usanza che però non era
nota solo ai Celti ma anche ai Romani: una delle forme di matrimonio prevedeva infatti che la
donna dovesse convivere con un uomo per un anno, ininterrottamente. Qualora si fosse allontanata
per tre notti consecutive, il patto di nozze avrebbe perso ogni valore giuridico.
La festa rappresentava un momento magico per la natura, che era al culmine della sua fertilità e
ricchezza. «Per questo la notte del 30 aprile era caratterizzata da un’atmosfera orgiastica di
banchetti e danze che terminava con l’espulsione rituale dei morti e l’avvento della nuova vita. Con
la cristianizzazione la notte del 30 subì una metamorfosi, e venne descritta come la notte in cui si
davano convegno streghe e stregoni, che si dovevano espellere grazie all’intervento di Santa
Valpurga. In Boemia i giovani si radunavano dopo il tramonto su un’altura o ad un crocicchio, e
schioccavano le fruste con energia per far fuggire le streghe. Nel Tirolo si preparavano fasci di
frasche resinose di cicuta, rosmarino e pruno; contemporaneamente si purificavano le case e le si
fumigavano con bacche di ginepro e ruta. Al calar della notte, con un gran frastuono di fruste,
sonagli, vasi e casseruole, iniziava il rito di espulsione delle streghe. Poi, al suono della campana, si
accendevano le fascine urlando, in un chiasso assordante: “Fuggi, strega, fuggi, o male sarà per te”.
Infine si correva a perdifiato intorno alle case, ai cortili e al villaggio»7.
Non diversamente era nel Bresciano. Leggiamo la testimonianza di L. Ertani: «Ho trovato tra le
prescrizioni della visita pastorale del Vescovo di Brescia Marino Giovanni Giorgi del 1675 ad una
parrocchia Camuna (si tratta della parrocchia di Ceto) la assoluta proibizione di continuare la festa
del “Magio”. Ma che cosa era? Era la festa del Primo Maggio che consisteva nel tagliare un grande
albero dal bosco (probabilmente un ciliegio in fiore) che, trasportato sul sagrato della Chiesa,
veniva piantato al centro e ornato di molte cianfrusaglie. Era certamente un’usanza antichissima che
si ricollegava alle celebrazioni pagane dell’inizio della primavera. Forse aveva carattere di rito
propiziatorio per ottenere la fertilità del suolo e l’abbondanza dei frutti. Gli uomini trasportavano
giù dal monte un grande albero con tutte le sue fronde che passando per anguste vie del paese
recava offesa a chi non era svelto a nascondersi in qualche porta o andito. Sul sagrato poi, veniva
piantato in fretta e scalato dai giovani più audaci che si divertivano a strabiliare le ragazze con
esercizi di acrobazia»8.
L'usanza è confermata da Cesare Arici nelle Informazioni sul ciclo dell'anno nel Dipartimento del
Mella (Regno Italico, 1804-1814) inviate il 30 dicembre 1811 al sig. Conte Giovanni Scopoli,
Consigliere di Stato e Direttore Generale della Pubblica Istruzione, Stampa e Libreria del Regno:
«Dai giovani si suole piantar il maggio, e questo uso consiste nel porre sulla porta delle loro
innamorate una pianticella verde e farvi festa intorno, cantando e suonando canzoni e strambotti che
alludono all'amore che le portano ed alla speranza di possederle. Se poi le amanti sono sospettate
d'infedeltà, in iscambio de la pianticelle verde pongono sulle porte degli spini e frasche inaridate, e
fannovi intorno disprezzi e scongiuri di non più amarle». Secondo l'Atlante demologico, a Cigole
«La seconda domenica di maggio, in occasione della benedizione delle campagne, i giovanotti
celibi di diciotto-vent'anni che volevano mettersi in mostra prendevano una pianta, la tagliavano e la
piantavano nella piazza del paese. L'albero che era piantato con tutte le fronde, si chiamava “el
mas” (il maggio). Poi, di notte, andavano alle finestre delle morose e portavano via le ante (le
imposte), che venivano poi ammassate in piazza. Questa notte, detta la nòt dei mac (la notte dei
matti), era una notte di burla: in piazza, sul sagrato, si portavano le mole del torchio per l'olio di
lino, oppure i cancelletti di legno degli orti». Un'usanza che ha dovuto fare i conti col progresso e la
sua discutibile “estetica”, se è vero che negli anni Cinquanta, quando la piazza del paese è stata
asfaltata, è stato proibito piantare l'albero perché il buco danneggiava l'asfalto.
Il cuore della bella stagione era però rappresentato da Lughnasad, che cadeva nella prima metà di
agosto. La festa, come dice il suo stesso nome, era consacrata al dio Lug, una delle divinità più note
e venerate del pantheon celtico. Il suo culto era diffuso soprattutto in Gallia, ma santuari, statue e
altre testimonianze della sua presenza, tra le quali sono da annoverare le tracce lasciate nella
toponomastica, sono state rinvenute un po’ ovunque in tutta l’area di occupazione celtica. Giulio
Cesare nel suo De Bello Gallico lo identifica con il Mercurio romano 11. Il suo nome era connesso
con la luce ed era il patrono del commercio, delle arti e delle invenzioni. In Irlanda Lug veniva
anche considerato una divinità guerriera estremamente bellicosa, che si aggirava vestita di un elmo
e di una corazza d’oro, indossava una camicia di seta e una mantella verde e calzava sandali dorati.
Malgrado il suo aspetto marziale, il dio Lug era tuttavia in grado di comporre poesie, costruire case,
forgiare il ferro e suonare vari strumenti musicali tra cui l’arpa. Il primo agosto di ogni anno il dio
Lug celebrava il suo sposalizio con la dea Terra , nozze che venivano compiute in un’area sacra.
Durante questo periodo si tenevano fiere commerciali (Lug era dio del commercio), tra le quali una
delle più importanti era senz’altro, come ci tramanda lo scrittore seicentesco Geoffrey Keating 12,
quella di Telltown, in Irlanda. Il nome di questa località deriva da quello della madre adottiva del
dio, la dea Tailtiu (il cui appellativo significa, tra l’altro, “terra” ed è una personificazione
dell’Irlanda). In suo onore fino al 1180 venivano celebrati i Giochi Tailtei, che furono istituiti dallo
stesso Lug per commemorarne la morte – avvenuta, secondo la tradizione, il primo di agosto - e
che avevano la durata di un mese interno: quindici giorni prima e quindici giorni dopo Lughnasad.
Questi giochi funebri prevedevano, tra le altre cose, corse di cavalli e gare di poesia, ed erano
considerati indispensabili alla prosperità del regno. Poiché la loro mancata celebrazione avrebbe
potuto portare sciagure, carestie e guerre, la loro organizzazione e il loro corretto svolgimento era
compito del re in persona. Il carattere propiziatorio di questi “giochi di pace” – considerando
anche che in essi le armi erano proibite - obbligava i contendenti impegnati in un combattimento o
in una guerra a dar inizio ad una tregua che sarebbe durata per tutto il periodo dei festeggiamenti.
L’importanza della ricorrenza fu intuita presto anche da Augusto che, quando designò Lione (che
allora si chiamava, appunto, Lugdunum) capitale della Gallia, decise che il primo di agosto sarebbe
stato giorno di festa per tutti, creando una sovrapposizione tra il culto del dio Lug e quello della
figura stessa dell’imperatore.
SEGA LA VECCHIA
Prima, però, non si può dimenticare il rogo del fantoccio della “vecia”18, rito che in alcune zone si è
ritagliato uno spazio a sé stante fino a diventare festa “autonoma”, quella di “Sega la Vecchia”
appunto19. Cade a metà della Quaresima ed è diffusa un po' ovunque in tutta la provincia 20 ma anche
in altre parti d'Italia, dalla Romagna (celebre quella di Forlimpopoli, non lontano da Forlì) alla
Toscana, dall'Umbria alle Marche. In questa occasione un pupazzo rappresentante la "vecchia"
(altrove solo un tronco d'albero, ad esempio di quercia) viene fatto a pezzi e carbonizzato su un falò
al centro del paese.
Ecco come la descrive sempre l'Arici nel documento già citato: «Da tempo immemorabile sussiste
fra noi la costumanza di bruciar le vecchie e questo baccanale à luogo il giovedì della Mezza
Quaresima. Indarno si cercarebbe l'origine e il vero significato di quanto sono per dire, a meno che
la Quaresima, spiacevolissima parte dell'anno pel comune del popolo, non sia presa per una brutta
vecchia, la quale per dispetto si voglia abbruciare. La mattina del giovedì da quasi tutte le famiglie
si espongono sulle finestre e sui veroni delle case capricciosi fantocci, o si conficcano dalla plebe
sovra acuti pali di mezzo alle strade maggiori. I fantocci dalle finestre si ritirano alla sera e quelli
sulle vie si abbruciano con fuochi d'artificio con grandi clamori e battimano. Non si direbbe quel
giorno d'aver pranzato se non si mangiassero frittelle e bevesse vin bianco».
La festa richiama alla memoria quella analoga, diffusa ancora oggi della “Gibiana” o "Giubiana" 21.
Il nome in questo caso sembra significare "fantasma", ed è accostabile al trentino "zobiana", strega,
al bresciano "zobiana", sgualdrina, e deriverebbe dal lombardo "gioebia", giovedì, ovvero il giorno
creduto delle streghe. La sera dell'ultimo giovedì di gennaio le famiglie brianzole si radunavano
davanti ad un falò per bruciare un fantoccio fatto di paglia e stracci vecchi chiamato, a seconda
delle zone, "Gibiana", "Gioebia", "Giubiana". Dopo il rogo, ogni famiglia tornava a casa e cenava
con risotto giallo condito con salsiccia, alimenti entrambi appartenenti alla cucina tradizionale: il
riso dal valore bene augurante, la luganega (salsiccia) di maiale simbolo di opulenza. Durante la
giornata le ragazze giravano per il paese indossando una gobba finta (interessante il raffronto tra il
nome della Giubiana e il latino gibba, gobba) e una latta da percuotere con un bastone; i ragazzi
trascinavano per le strade delle latte vuote cantando filastrocche in dialetto per allontanare il
18 Ad es. a Fiesse (loc. Cadimarco), dove secondo l'Atlante la sera c'è la «tradizionale accensione di un falò alto 25 m.
(1997), costituito da tre pali conficcati nel terreno riempiti da fascine. In cima sta la vecia da bruciare sul rogo.
Organizzano gli “amici del falò”». Idem a Gambara.
19 BEDUSCHI 1982, pp. 37-46.
20 CANOSSI 1930 (1993), p. 25.
21 MONTORFANO G., MACCHI A. 2000 e PERCIVALDI 2003, p. 174-5.
malocchio.
In alcune zone della Brianza, accanto alla Giubiana era presente anche il "Gianèe", suo marito, che
la accompagnava in una lunga visita alle cascine danzando e cantando filastrocche, percuotendo il
terreno con bastoni ricavati da rami tagliati. Una volta entrati nella stalla, sfioravano col bastone il
contro-soffitto per benedire i bozzoli dei bachi da seta che vi pendevano. Come ricompensa,
ricevevano una cucchiaiata di risotto, che veniva versato nel cappello del Gianèe. Il piatto veniva di
solito preparato dalla donna più anziana e più autorevole della casa. A fine giornata, i due fantocci
di pezza raffiguranti il Gianèe e la Giubiana venivano bruciati in piazza; a seconda del modo in cui
essi ardevano, si traevano auspici per il futuro.
Questa forma della celebrazione è, ovviamente, tarda. La bachicoltura, già conosciuta intorno al
Mille, si diffuse massicciamente in Lombardia solo durante l'età visconteo-sforzesca così come il
riso, che sarebbe stato introdotto solo nel Quattrocento (la prima apparizione storicamente
confermata della sua coltivazione risale al 1475): è da immaginare quindi che il piatto dal valore
apotropaico fosse preparato con altri cereali come l'orzo e il farro o con legumi.
Con l'avvento del Cristianesimo, la Giubiana passò da figura benefica e propiziatoria, simbolo di
fecondità, a strega, ricettacolo di tutti i mali: distruggendola col fuoco, il contadino si sarebbe messo
al riparo da eventuali rischi e la collettività sarebbe stata protetta dagli influssi negativi e avrebbe
goduto di salute e prosperità per tutto l'anno. Questa ritualità non può non richiamare alla memoria
i citati fuochi rituali accesi dai Celti a Imbolc per distruggere le tenebre e le influenze negative, e
per propiziare la fecondità dei campi e del bestiame e salutare l'arrivo della bella stagione 22. A volte
in quell'occasione si bruciavano fantocci o simulacri rappresentanti spiriti negativi allo scopo di
esorcizzarli. Lo stesso spirito che si riscontra nella festa della Giubiana, che quindi risulta nello
spirito di probabile, per quanto lontanissima, origine celtica23.
CONCLUSIONI
Abbiamo visto come i riti agresti di matrice precristiana e celtica in particolare si siano radicati
nella società rurale così a fondo da non poter essere del tutto cancellati dall’avvento del
Cristianesimo. Malgrado gli sforzi e anche le repressioni a volte violente la Chiesa – che
considerava i culti pagani demoniaci e pericolosi - non solo non riuscì ad estirparli, ma fu costretta a
cercare una soluzione che si potrebbe definire “di convenienza”: cercò come si è detto di “adattare”
le tradizioni celtiche al sistema di valori cristiano mutandone i significati ma lasciando quasi intatte
le forme. Ciò è accaduto con in particolare con le festività di Samonios, Imbolc e Beltaine, divenute
rispettivamente le nostre Ognissanti/Festività dei defunti, Candelora e Calendimaggio. Ma un po’
dappertutto si sono conservati anche echi di celebrazioni “minori” che, in qualche caso,
sopravvivono ancora ai giorni nostri. Frutto del sincretismo sono del resto anche gli attributi di vari
santi molto popolari, che accanto all'aureola conservano caratteristiche derivanti da culti ancestrali.
Si è parlato di santa Brigida e sant'Antonio Abate, ma sono solo due tra le molte figure legate al
mondo celtico e precristiano sopravvissute “sotto mentite spoglie” fino ai giorni nostri.
Come ha scritto Abraham Joshua Heschel, «Occorre una particolare intelligenza per scoprire il
significato ultimo del tempo. Noi lo viviamo e ci identifichiamo in esso tanto da non riuscire ad
accorgercene. Il mondo dello spazio, che circonda la nostra esistenza, non è se non una parte del
nostro vivere: il resto è tempo. Le cose sono le sponde, ma il viaggio si svolge nel tempo». Sta a
noi, oggi, andare al vero significato delle tante feste che si celebrano sul territorio che nel tempo
sono mutate nella forma, ma conservano - anche se ben nascosto - il mistero di una sapienza antica.
Squarciare il velo e andare oltre le apparenze è l'unico modo per conoscerle davvero e, forse,
mantenerle vive.
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