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C’era sempre un’aria sospesa all’interno della sala prove, quell’effetto che a volte danno i non-luoghi come i

centri commerciali, o gli aeroporti. Forse per via dell’isolamento acustico, o della temperatura sempre
uguale in ogni stagione, o della luce artificiale. I componenti dell’orchestra si relazionavano tra loro come
fanno gli atomi nella fisica, con bruschi avvicinamenti e altrettanto bruschi allontanamenti. Il primo violino
aveva avuto una storia fugace con l’arpista, ma era segretamente innamorato del clarinettista – ma non
glielo avrebbe mai confessato. Il trombettista una volta aveva preso per il bavero il tipo che suona la tuba,
colpevole secondo lui di avergli nascosto lo spartito. Il resto della banda non si era scomposto, quelli degli
strumenti a fiato creavano un mondo a sé dominato da logiche sconosciute al resto della banda, e in cui
non entravano. Di tutti il più enigmatico era il timido clarinetto. Indossava sempre camicie a quadri di una
taglia più grande della sua, il pallore della pelle lasciava suggerire una vita in ambienti chiusi, e finite le
prove riponeva velocemente il clarinetto nella sua custodia e lasciava la sala velocemente.

Per cui il resto dell’orchestra ebbe un sussulto quando quel giorno entrò in ritardo, la faccia sconvolta e la
camicia sbottonata e disse, con voce strozzata “penso ci sia stato un omicidio nel palazzo”

“miriam era una donna anziana, che aveva l’odore dei biscotti al burro fatti in casa. Era emigrata in Italia
dalla Cecenia quando era giovane, e per anni aveva fatto la badante. Si diceva che fosse integerrima ed
energica, e aveva fama di essere ottima cuoca. Ma era andata in pensione molto presto, ed era passata da
energica a guardinga. Pensavo fosse una dirimpettaia impicciona, ora potrei dire che era all’erta. Teneva la
porta sempre socchiusa, in parte per lasciar uscire il suo gatto Semola in giro per le scale, in parte per spiare
chi saliva sulle scale. Dal suo appartamento si sentiva sempre lo stesso disco, l’opera 9 di Chopin, e dalla
porta socchiusa si riusciva a intravedere un comò in cui c’erano fotografie in bianco e nero di un bambino.
Non l’avevo mai vista fuori dal suo appartamento, nemmeno a prendere la spesa, tranne l’altra settimana.
Mentre portavo la bici nel sottoscala, ho sentito la sua voce provenire dal cortile interno. Non potevo
credere si fosse spinta fino a li, ho socchiuso la porta per capire con chi fosse, e l’ho vista in compagnia di
un uomo distinto, ma visibilmente sconvolto. Mentre le afferrava il braccio energicamente, l’ho sentito dire

“C’era sempre un’aria sospesa all’interno della sala prove, quell’effetto che a volte danno i non-luoghi come
i centri commerciali, o gli aeroporti. Forse per via dell’isolamento acustico, o della temperatura sempre
uguale in ogni stagione, o della luce artificiale. I componenti dell’orchestra si relazionavano tra loro come
fanno gli atomi nella fisica, con bruschi avvicinamenti e altrettanto bruschi allontanamenti. Il primo violino
aveva avuto una storia fugace con l’arpista, ma era segretamente innamorato del clarinettista – ma non
glielo avrebbe mai confessato. Il trombettista una volta aveva preso per il bavero il tipo che suona la tuba,
colpevole secondo lui di avergli nascosto lo spartito. Il resto della banda non si era scomposto, quelli degli
strumenti a fiato creavano un mondo a sé dominato da logiche sconosciute al resto della banda, e in cui
non entravano. Di tutti il più enigmatico era il timido clarinetto. Indossava sempre camicie a quadri di una
taglia più grande della sua, il pallore della pelle lasciava suggerire una vita in ambienti chiusi, e finite le
prove riponeva velocemente il clarinetto nella sua custodia e lasciava la sala velocemente”

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