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Cernunno, Odino, Dioniso e altre divinità del ‘Sole

invernale’
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Marco Maculotti 14 novembre


2016

(immagine: Hermann Hendrich, “Wotan”, 1913)

[segue da: Cicli cosmici e rigenerazione del tempo: riti di immolazione del ‘Re dell’Anno
Vecchio’].

Nella pubblicazione precedente abbiamo avuto modo di analizzare il complesso rituale,


ravvisabile ovunque presso le antiche popolazioni indoeuropee, incentrato
sull’immolazione (reale o simbolica) del «Re dell’Anno Vecchio» (ad es. Saturnali
romani), come rappresentazione simbolica dell’«Anno Morente» che deve essere
sacrificato per far sì che il Cosmo (=l’ordine delle cose), rinvigorito da tale azione
cerimoniale, conceda la rigenerazione del Tempo e del ‘Mondo’ (nell’accezione pitagorica
di Kosmos come unità interconnessa) nel nuovo anno a venire; anno che, in tal senso,
assurge a micro-rappresentazione dell’Eone e, quindi, dell’intera ciclicità del
Cosmo. Procediamo ora all’analisi di alcune divinità intimamente collegate con la
«crisi solstiziale», al punto di assurgere a rappresentanti mitici del «Sole Invernale»
e, per esteso, del «Re dell’Anno Calante»: Cernunno, il ‘dio cornuto’ per antonomasia,
per quanto riguarda l’àmbito celtico; Odino e la ‘caccia selvaggia’ per quello scandinavo e
Dioniso per quanto riguarda l’area mediterranea.

Il radicale *KRN

«Nel radicale KRN si struttura il mistero di Kronos/Cernunno dimensione dell’illud


tempus di cui i cervidi sintetizzano spesso l’essenza.» [Chiavarelli, p.146]

Si rende però necessaria, prima di iniziare con l’analisi vera e propria delle divinità sopra
nominate, qualche osservazione riguardo il già più volte menzionato radicale *KRN e
sue variazioni. Esso appare connesso ad una serie di divinità ‘saturnine’, dèi sia della
fertilità (come il Saturno dell’età aurea latina e il Freyr della tradizione scandinava, suo
omologo) quanto del tempo e, quindi, del decadimento e della morte—Kronos e
Kernunnus, ma anche Crom, “una specie di Saturno che divorava i propri figli”, simile al
Moloch babilonese, cui gli antichi Celti sacrificavano i propri figli; gli etimologisti vedono
nel nome di questa divinità la radice del termine cromlech («tavola» di Crom, *krm), ossia
l’altare sacrificale megalitico su cui venivano immolate le vittime designate [Bosc, p.62].
Curiosamente, l’etimologia della divinità celtica rappresentante l’altra funzione
‘saturnina’, vale a dire quella di dio della fertilità, equivalente al Freyr/Fródi norreno, è la
medesima, dal momento che il sovrano celtico dell’età dell’oro era denominato Cormac
(*krm) [Polia, pp.29-30]. Al tempo del suo dominio vi era sovrabbondanza di miele: allo
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stesso modo, nella tradizione eleusina, il miele era il cibo di Cronos (*krn), che se ne
inebria nella sua sede atemporale agli estremi confini occidentali del Mundus, nell’«Isola
dei Beati» o Ogigia.

La ricerca si può estendere: oltre a Kronos, un altro dio ellenico collegato al radicale
*KRN era Apollo Karneios (Karn sta per «polo», quindi karneios equivale a «polare,
iperboreo»), suo ‘doppio’. Questo culto esistette anche in Bretagna, per poi finire, in
epoca cristiana, canonizzato come il culto di san Cornelio [Daniélou, p.195]—come si
può notare, la radice *krn rimane. In occasione delle Carnee spartane in onore di Apollo
Karneios, si svolgeva una caccia rituale, al termine della quale un prescelto mascherato
da montone (karnos, altro animale cornuto come il cervo, anch’esso, dunque, simbolo del
«Sole morente»; *krns, come Kronos e Kernunnus) veniva catturato e sacrificato al dio
[Burkert, p.435].

Ci preme ancora una volta sottolineare come siano sempre ben riconoscibili i topoi
connessi al radicale *KRN: sovranità e regalità connesse al potere generativo,
necessità di un sacrificio e promessa di una rinascita, e via dicendo. A ciò si aggiunga
quanto già detto in precedenza, vale a dire che la radice *KRN si rinviene in una serie di
termini derivanti dall’antico fonema indoeuropeo quali corna, corona (simbolo della
regalità) nonché al simbolismo del cervo, che proprio in virtù della muta delle sue corna,
come s’è visto, veicolava simbolicamente un messaggio di rigenerazione e rinascita
ciclica, e alla festività del Carnevale, residuo dei Saturnali romani [cfr. René Guénon: “Sul
significato delle feste carnevalesche”]—tutti termini derivanti dall’arcaica radice *KRN, che
esplica il suo simbolismo nel modo più chiaro nella rappresentazione tradizionale di
Cernunno, che ora ci apprestiamo ad analizzare più concretamente.

Cernunno, il «Dio Cornuto»

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Del culto di Cernunno (Kernunnus), che i Romani chiamavano semplicemente «il
Cornuto», si trovano attestazioni sin dal Mesolitico e dal Neolitico. In tempi più recenti,
l’importanza di questo nume nella Gallia settentrionale è attestata, tra le altre cose,
dall’altare rinvenuto sotto la cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Le sue raffigurazioni sono
estremamente coerenti in tutta l’area celtica: il suo attributo più evidente è costituito da
un palco di corna di cervo, ed è di solito raffigurato come un uomo maturo con barba e
capelli lunghi, alla maniera di Dioniso ctonio. La sua iconografia si confuse poi nel
Medioevo, soprattutto in area britannica, con quella del Green Man, di cui avremo modo
di parlare prossimamente.

Le corna cervine del dio sono “decorate con anelli che possono essere cerchi di vimini o
anelli di bronzo usati come monete” [Murray, p.26]. Tale simbologia veicola, ancora una
volta, un messaggio di ciclicità e rinascita, a partire dalle corna che, come abbiamo visto,
sono un simbolo della rigenerazione ciclica ed eterna della natura, in quanto i cervidi le
mutano tutti gli anni. Anche il simbolo del cerchio è, ovviamente, connesso alla ciclicità
delle ère: Okeanos, antesignano di Kronos come divinità del Tempo, era immaginato
dagli antichi Ellenici come un anello che circondava la terra [cfr. Tempo ciclico e tempo
lineare: Kronos/Shiva, il «Tempo che tutto divora»]. L’anello è astronomicamente collegato
al pianeta Saturno, a dimostrazione della sua sovranità sull’elemento cronico (temporale):
l’usanza di scambiarsi gli anelli tra novelli sposi equivale a «legarsi» in una promessa
eterna sotto l’egida del dio del Tempo, ovvero di Saturno/Kronos.

Ne deriva che Kernunnus, oltre ad essere una divinità della natura selvaggia e del potere
generativo, come si è soliti riconoscerlo, opera un dominio anche sulla funzione
temporale, similmente a Kronos nella tradizione ellenica e a Giano, che regnava prima di
Saturno nel Lazio, le cui due facce rappresentano invero la duplicità del Tempo nelle
sue coppie dicotomiche di passato/futuro, tempo storico/eternità atemporale, tempo
profano/tempo sacro. A quanto abbiamo già detto, si aggiunga che nell’iconografia
Cernunno reggeva in mano—e spesso portava anche al collo—, un torques, emblema
della circolarità dell’anno (e, quindi, per estensione simbolica, dell’Eone), oltre ad un
serpente cornuto, simbolo del tempo e della rinascita primaverile . Anche i rettili,
infatti, mutano pelle a primavera quando nuove corna crescono ai cervi in sostituzione di
quelle cadute in autunno [Chiavarelli, p.46].

Nella tradizione antica, inoltre, a Cernunnos era anche riconosciuta la funzione della
divinità psicopompa: il dio, infatti, adornato di palchi frondosi, simbolo della ciclicità del
tempo e della rinascita cosmica, radunava le anime dei morti per scortarle nell’aldilà,
accompagnato dalla dea della caccia Flidass che, come la sua controparte greca
Artemide, guidava un carro trainato da cervi (in ambito scandinavo la coppia di dèi
psicopompi era formata da Odino e Freyja, che si dividevano le anime dei morti sul
campo di battaglia). Il cervo stesso era considerato dai Celti un animale capace di
condurre i defunti verso il paradiso dei beati, al punto che il cadavere talvolta veniva
cucito all’interno di una pelle di cervo, affinché il cammino verso il paradiso fosse più
facile [Jacq, p.63]. Al tempo stesso, vi è anche un nesso inscindibile, come per altre
divinità così pure per Cernunno, riguardo la funzione psicopompica da una parte e
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iniziatrice dall’altra: la morte del defunto, il cui cadavere viene cucito all’interno della pelle
di un cervide, equivale in ultima analisi a un’iniziazione, in quanto i Celti ritenevano che,
in seguito alla morte fisica, l’anima risucchiata dalla grande matrice cosmica avrebbe
continuato a vivere nei mondi eterici per poi reincarnarsi nuovamente nel piano
sublunare. In tal senso, Cernunno è anche l’iniziatore che insegna l’arte della
transmutazione interiore, fondata sulla comprensione dei ritmi del cosmo e in
particolare modo nella realizzazione dell’eterno ritorno dei cicli di creazione,
distruzione e nuova creazione del Kosmos, del Mundus e, di conseguenza, finanche
del microcosmo umano.

Odino e la «Caccia Selvaggia»


Gli attributi di Cernunno, in particolar modo le corna cervine, sfociarono nel folklore
inglese medievale nella figura di Herne o Old Hernie, il «cacciatore fantasma», che
certamente risente anche delle influenze norrene, in quanto ricorda Odino/Wotan come
conduttore dell’exercitus feralis. Contemporaneamente, nelle campagne dell’Europa del
Nord, era ancora viva l’adorazione dell’antico Nick o Neck («demone»), al punto che la
Chiesa dovette canonizzarlo nelle vesti di san Nicola, che in Cornovaglia (*krn),
nell’iconografia sacra, conserva ancora le corna [Murray, p.36]. Dall’Old Nick derivano, da
una parte, le celebrazioni alpine ed invernali connesse alla figura del Krampus (*krm),
dall’altra, la figura folkloristica di Santa Claus (Babbo Natale), ‘doppio’ pure di Odino, il
quale compie il suo volo sciamanico, durante la «crisi solstiziale», trainato da renne
(cervidi, corna, ciclicità, rinascita) [cfr. Il substrato arcaico delle feste di fine anno: la valenza
tradizionale dei 12 giorni fra Natale e l’Epifania].

La figura dell’antico ‘Padre degli Æsir’ si (con)fuse effettivamente in epoca medievale con
quella del Wilder Mann, dando vita a tutte queste figure ‘demoniache’ più recenti (Old
Nick, Krampus, Herne, Robin Goodfellow); epperò, a parere di Massimo Centini [p.77], lo

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stesso Odino—al tempo stesso divinità psicopompa, ‘Signore della Guerra’ e capo della
«Caccia Selvaggia»—, “nel suo evocare atavici rituali magici, si appropria di una
notevole quantità di riti provenienti dai culti agrari più antichi”, al cui modello mitico
andrebbero ricondotte anche le varie tradizioni agrarie folkloriche precristiane
genericamente definite «battaglie rituali» [cfr. Metamorfosi e battaglie rituali nel mito e
nel folklore delle popolazioni eurasiatiche], che si tratti dei Berserker nordici, dei Luperci
italici, dei licantropi lituani o dei benandanti friulani [cfr. I benandanti friuliani e gli antichi
culti europei della fertilità]. Odino, inoltre, interviene in battaglia mediante l’opera della
magia, donando ai guerrieri a lui fedeli il kraptr (*kr), temibile forza luminosa equivalente
al kratos (di nuovo *kr) che veniva concesso da Zeus [Polia, p.77].

Sembrerebbe, invero, che tutte queste potenze numinose, oltre che a un certo aspetto
ctonio-tellurico e caotico-selvaggio della natura, siano connesse simbolicamente anche al
Sole Invernale, o per meglio dire al «Sole morente» nei giorni finali dell’Anno
coincidenti con la «crisi solstiziale», durante la quale l’astro eliaco raggiunge il suo
nadir annuale [cfr. Cicli cosmici e rigenerazione del tempo: riti di immolazione del ‘Re
dell’Anno Vecchio’]. Infatti, secondo la tradizione, era soprattutto in questo periodo
dell’anno che si poteva assistere alla «Caccia Selvaggia», generalmente considerata
[Centini, p.75] “un’apparizione diabolica, un corteo di spiriti infernali che, con orribile
fracasso, vanno in giro di notte, provocando in chiunque si accosti con l’intenzione di
osservarli un qualche malanno (…) Alla testa del corteo si vede il cavaliere verde o
un’altra figura diabolica che cavalca davanti a tutti su un ronzino [nel caso di Odino, il suo
destriero a otto zampe di nome Sleipnir]; dietro c’è una terribile confusione di spiriti e
streghe”. Il periodo della «crisi solstiziale» appare dunque connesso con il ritorno dei
morti, al seguito del dio nella masnada fantasma; ciò potrà condurci ad ulteriori
osservazioni, soprattutto adesso che ci apprestiamo ad analizzare le credenze misteriche
dell’area greco-romana, di cui abbiamo più testimonianze e studi più esaurienti.

Dioniso, il «Sole dei Morti»


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Riguardo l’àmbito mediterraneo, ci dobbiamo concentrare sulla figura numinosa
denominata Dioniso: in questi Nietzsche, oltre a teorizzare la notissima dicotomia
apollineo-dionisiaco, ritenne di vedere la nemesi di Zeus (inteso come “dio del cielo
diurno”, simile al Dyaus indo-europeo), descrivendolo come un “dio del cielo notturno,
dell’oscurità, del maltempo, degli inferi” [p.46]; effettivamente, vi è notare come sovente
Dioniso venisse definito “Zeus ctonio/infero” e, quindi, associato a Ade/Plutone, a partire
dal noto frammento di Eraclito. Ciò ci porta ancora una volta a considerare il mistero di
divinità adibite al tempo stesso al dominio della vita (e della germinazione nel mondo
vegetale) così come a quello dei morti e del mondo sotterraneo [cfr. Divinità del Mondo
Infero, dell’Aldilà e dei Misteri].

James Hillman, autore di una monografia su Il sogno e il mondo infero [pp.61-2] scrisse, a
proposito dell’identità tra Ade e Dioniso formulata da Eraclito:

« L’Ade che è in Dioniso dice che esiste un significato invisibile negli atti sessuali, un
senso per l’anima nella parata fallica, che tutta la nostra forza vitale (…) allude al mondo
infero delle immagini (…) Dioniso è anche una divinità infera (che attira giù, come
un’esperienza depressiva) (…) L’altro lato di quella misteriosa divinità, il Dioniso che è
in Ade, significa che esiste una zoe, una vitalità, in tutti i fenomeni del mondo infero
(…) Le immagini di Ade sono anche dionisiache: non fertili nel senso naturale, ma nel
senso psichico, immaginativamente fertili. C’è, sotto la terra, un’immaginazione che
trabocca di forme animali, che boccheggia e fa musica. C’è una danza nella morte. Ade e
Dioniso sono lo stesso dio. »

Avremo modo di sviluppare meglio argomenti di tal guisa nel proseguimento di questo
studio, a data da destinarsi. In questa sede, ci preme soprattutto mettere a fuoco come,
nei Misteri dionisiaci, Dioniso in quanto ‘dio del mondo sotterraneo’ impersoni anche la
potenza numinosa del «Sole dell’Anno Vecchio»; e proprio in quanto rappresentante
archetipico dell’astro eliaco nella sua fase terminale, questi—tramite un suo
rappresentante umano—doveva essere sacrificato ritualmente durante la «crisi
solstiziale» per permettere la nascita e la venuta del «Sole dell’Anno Nuovo» (Apollo): da
ciò, il mitologhema di Dioniso Zagreus smembrato dai Titani e quelli da esso derivati
ed omologhi, come ad es. quello di Orfeo smembrato e divorato dalle baccanti, e altre
narrazioni mitiche di tal guisa, probabilmente reminiscenze di antichissimi culti della
fertilità a carattere ctonio-infero.

Effettivamente il dio delle baccanti/menadi Dioniso, oltre a essere una divinità del potere
germogliante (in particolare della vite e dell’edera; ciò connettendolo al Green Man e a
Cernunno), nonché delle fiere, è ritenuto essere anche un dio ctonio che “si manifesta nel
periodo invernale e forse nel punto in cui le anime dei morti ritornano sulla terra”
[Daniélou, p.68], allo stesso modo dell’Odino conduttore della ‘Caccia Selvaggia’. Il nucleo
esoterico dei Misteri dionisiaci è stato ben individuato da Carolina Lanzani, autrice di un
esauriente studio sulla religione dionisiaca, nel quale scrive [p.23]:

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« L’energia solare penetra anche nel sotterra, secondo il concetto elementare della
germinazione delle piante, ma risiede anche nel sotterra, secondo il concetto più
scientifico del fuoco cosmico centrale. Dioniso è così il Sole dei Morti ed è anche una
divinità catactonica. Il mito rappresenta infatti la discesa di Dioniso-Orfeo all’Inferno.
Finché il Sole è assente dal cielo (Apollo agli Iperborei = Inverno) vige la forza
germinatrice della terra (Dioniso = sole nel sotterra). »

Più avanti nella stessa opera, la studiosa aggiunge [Ibidem, p.83]:

« Noi non esiteremo perciò ad affermare che i Piccoli Misteri celebrano la concezione del
Dio Solare nella Madre Terra (Demetra). Passando allo stato catactonico, il Dio pone
termine, per così dirsi, alla condizione verginale della Terra, condizione che è dal
simbolismo sacro esteriorizzata e personificata nella fanciulla Core (…) Disceso nel
grembo della Terra, acquistata la sua personalità catactonica (Plutone), il Sole entra in
connubio con Demetra-Core e rappresenta la forza germinativa che agisce nel mistero e
nell’ombra, per rivestire nuovamente la Terra del suo manto giovanile di erbe e di fiori.
Core riappare alla luce, la terra riacquista la sua giovinezza con eterna vicenda: Demetra
ritrova la Core smarrita. E già è nato il nuove Sole dell’anno giovine: è nato Dioniso il
fanciullo divino. »

In ciò si ritiene adombrato il concetto dell’energia solare che, associata all’umidità


della terra, è causa della vegetazione [Ibidem, p.90]. In questo senso, il Dioniso
“barbuto e coronato di edera” [Kerényi, p.168], doppio ellenico del Green Man britannico,
è connesso, allo stesso modo di Pan, alla natura selvaggia, o per meglio dire all’energia
priapica che anima tale natura selvaggia e primordiale [cfr. Da Pan al Diavolo: la
‘demonizzazione’ e la rimozione degli antichi culti europei]. Tale energia mascolina di
carattere vigoroso e per così dire ‘ingravidante’ in India veniva e viene tutt’ora adorata
sotto la forma del Linga di Śiva, così come a Roma antica assumeva la forma del fallo di
Priapo [cfr. Priapo “svelato” in un’antica tradizione molisana] e nell’Egitto faraonico veniva
veicolata simbolicamente nella forma dell’obelisco.

Questa energia primordiale, che non segue alcuna direttiva né alcun comando esterno,
ma appare straripante nella sua immensa potenzialità creativa, appare in ultima analisi
connessa alla funzione cosmica della creazione come Caos ed entropia, come
allontanamento dalla Monade, vale a dire dal principio primordiale, e quindi alla
dissoluzione: e a tal proposito vi è da ricordare che Rudolf Otto constatava come, a parte
Dioniso, nessun’altra divinità ellenica fosse “dotata di appellativi che siano anche
lontanamente così orribili e capaci di rivelare la più spietata selvatichezza” [Ibidem, p.98]:
l’inno orfico a lui dedicato [inno XXX, p.89] lo definisce “selvaggio, misterioso, arcano, che
ha due corna e due forme, coronato di pampini, con la fronte di toro, bellicoso (…) che di
carni crude si nutre, trieterico, cultore delle vigne, vestito di fronde”.

Bibliografia:
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E. Bosc, Belisama. L’occultismo celtico (Mimesis, Milano, 2003).
W. Burkert, La religione greca (Jaca Book, 2010).
E. Chiavarelli, Diana, Arlecchino e gli spiriti volanti (Bulzoni, Roma, 2007).
A. Daniélou, Śiva e Dioniso (Astrolabio/Ubaldini, Roma, 1980).
J. Hillman, Il sogno e il mondo infero (Adelphi, Milano, 2003).
C. Jacq, La confraternita dei Saggi del Nord (Età dell’Acquario, Torino, 2009).
K. Kerényi, Dioniso (Adelphi, Milano, 1992).
C. Lanzani, Religione dionisiaca (I Dioscuri, Genova, 1987).
M. Murray, Il dio delle streghe (Astrolabio/Ubaldini, Roma, 1972).
F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci (Adelphi, Milano, 2012).
M. Polia, «Furor». Guerra poesia e profezia (Il Cerchio-Il Corallo, Padova, 1983).
Inni Orfici, a cura di Giuseppe Faggin (Āsram Vidyā, Roma, 2001).

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