fantascientifica
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di Marco Maculotti
originariamente pubblicato su “Dimensione Cosmica” n. 2, Edizioni Tabula Fati,
Primavera 2018
copertina: Artista sconosciuto, “Inferno”, 1800
Il topos riguardante l’esistenza di civiltà residenti nel mondo sotterraneo, all’interno del
globo terrestre, ha da sempre stuzzicato l’immaginazione umana. Fin dall’alba dei tempi
ci sono giunte, praticamente da ogni tradizione del globo, leggende su civiltà ormai
scomparse — o quantomeno scomparse dalla superficie, ovvero con riferimento al
nostro piano dimensionale di esistenza — che si sarebbero rifugiate, per fuggire
l’estinzione, sottoterra o in un altro piano dimensionale, sovrapposto al
nostro sebbene difficilmente raggiungibile.
Ma dove termina il mito e inizia quella che oggi definiamo fantascienza? Dai viaggi
sotterranei di Jules Verne [1] e di E.A. Poe [2] alla mitologia oscura dei «Grandi
Antichi» di H.P. Lovecraft [3], dal presunto accesso nella «Terra Cava» da parte
dell’ammiraglio Richard Byrd [4] alle leggende orientali di Agharti e Shambala di
cui hanno tramandato J.A. Saint-Yves, F. Ossendowski e R. Guénon [5], fino alla
credenza nella sopravvivenza dell’antica razza Lemuriana all’interno del Monte Shasta e
alla paranoia tipicamente post-moderna del cosiddetto «Mistero Shaver» — da tutto
questo ambito culturale degli ultimi secoli emerge un quadro estremamente chiaro, che
ci porta a considerare quanto credenze di tal guisa siano da sempre radicate nella
profondità della psiche umana. In altre parole, il topos delle civiltà sotterranee
sembra ricorrente nella storia del pensiero umano, che si tratti di mito, folklore,
conoscenze esoteriche, realtà alternativa o “semplice” fantascienza — al
punto che talvolta si ha difficoltà a etichettare le varie versioni del topos in una
categoria piuttosto che in un’altra. In questa sede, comunque, ci occuperemo del solo
ambito narrativo degli ultimi due secoli.
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Non sono pochi gli scrittori di fantascienza che hanno utilizzato il topos delle civiltà
sotterranee, sia nell’ambito della letteratura utopica, che in quello della letteratura
satirica. Altri autori ancora, rifacendosi in primo luogo al mondo del mito e delle
religioni antiche, hanno redatto racconti con un taglio moderno ma suggestioni
ancestrali.
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Si può sospettare che gran parte dei temi trattati da Burroughs nel suo ciclo siano stati
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ripresi dal romanzo Mizora: a Prophecy (1880) della scrittrice Mary Lane,
ambientato in un mondo sotterraneo popolato da sole donne bionde e «vegetariane da
così tanto tempo che ogni specie animale si è ormai estinta». Dopo che una di loro ebbe
scoperto il «Segreto della Vita» — un metodo di fecondazione artificiale
dell’ovulo — le femmine si erano riunite a convegno decidendo di non generare più
figli di sesso maschile, ormai del tutto inutili nell’economia sociale. Infine, con il
perfezionamento dell’eugenetica, esse erano giunte ad eliminare una serie di
caratteristiche “indesiderabili” e Mizora era diventata una nazione di donne
uniformemente bionde, belle e sane. Così, quella che inizialmente poteva
apparire come una società utopica ideale, si trasforma nel giro di poco
tempo nella peggiore delle distopie sia di genere che di razza.
« una figura umana avvolta in un sudario e di proporzioni ben più grandi di ogni altro
abitatore della terra. E la sua pelle era del bianco perfetto della neve. »
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Il mito di una umanità ancestrale e più progredita è il tema portante anche di The
Goddess of Atvatabar di William R. Bradshaw (1892). Gli abitanti di Atvatabar
possiedono una tecnologia molto più sofisticata dei loro epigoni di superficie e come
fonte di energia impiegano la «magneticità». Si distinguono inoltre per un complesso e
peculiare sistema di credenze religiose, fondato sulla fede in Harikar, l’«Anima
Umana Universale», che i devoti adorano formando coppie miste note come «anime
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gemelle» e mantenendosi casti allo scopo di incanalarne le energie: un’invenzione
letteraria che risente tanto della concezione indiana dell’Akasha quanto delle tecniche
tantriche della «ritenzione del seme» a scopi magici.
Un’umanità ideale dalle caratteristiche simili si ritrova anche, andando sempre più a
ritroso, in The Coming Race (1871) dell’occultista inglese Edward Bulwer-Lytton:
qui, gli abitanti del sottosuolo appartengono alla razza degli Ana, migrata nel dedalo di
caverne interne in seguito a un’inondazione avvenuta migliaia di anni fa. Anche in
questo caso, suddetta proto-umanità ha sviluppato una tecnologia assai più
avanzata rispetto al mondo di superficie, fondata sull’utilizzo di una forza
ricavata dall’atmosfera denominata Vril [7]
« un’energia che può distruggere come la folgore; tuttavia, diversamente applicata, può
rafforzare la vita, guarire e preservare. »
Il fatto che questa energia fosse disponibile pressoché a tutti gli abitanti del mondo
sotterraneo li ha condotti alla pace perpetua: nessuno ne farebbe infatti più un uso
distruttivo, in quanto tale utilizzo li esporrebbe a una contro-reazione, altrettanto
distruttiva, da parte degli altri consociati. Dietro ciò, Bulwer-Lytton intese anche
operare una satira nei confronti delle «irritanti pretese democratiche» e del
«fanatismo patriottico» di molti americani, «abituati fin dall’infanzia all’uso
quotidiano del revolver». Epperò il romanzo consentì all’autore di imbastire anche una
satira sul femminismo, dal momento che descrisse le Gy-ei, donne dei Vril-ya, come
caricature delle femministe del XIX secolo.
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Ma in The Coming Race c’è molto di più: vi è sottesa l’idea che, sebbene la civiltà del
popolo sotterraneo appaia inizialmente come più evoluta e pacifica, essa sia
in ultima analisi statica e scialba. Da secoli non produce opere artistiche, letterarie
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e musicali, proprio perché i conflitti che generano la grande arte sono stati eliminati del
tutto; c’è pace e bellezza, ma nessuna eccitazione. Il protagonista del romanzo, una volta
tornato nel mondo di superficie, avverte i suoi simili del pericolo incombente: la
«Razza Ventura» un giorno conquisterà il mondo esterno con le sue verghe
cariche di Vril, importando il proprio stile di vita all’umanità intera. Egli prega
«devotamente […] che possano passare millenni prima che emergano alla luce del sole i
nostri inevitabili annientatori».
Dei romanzi scritti nel XX secolo sul «mondo interno», uno dei più memorabili e
commoventi venne redatto non come un pamphlet satirico o utopico, ma come una
sorta di fiaba moderna, e con questo chiudiamo la nostra indagine letteraria. In The
Green Child (1935) di Herbert Read, ispirato a una leggenda del folklore del XII
secolo [8], andiamo alla scoperta di una «immensa città sotterranea, strana e
bellissima, immersa in un’atmosfera luminosa» di «luce perenne». Qui vive
il «Popolo Verde» — evidentemente un aggiornamento novecentesco del «popolo
segreto» dei Fairies — che, a differenza degli abitanti di superficie, non considera la
libertà in termini di elevazione e progresso ma anzi, meditando sulla perfezione del
regno minerale, aspira a divenirne parte per fuggire alle sofferenze del divenire:
« quando alla fine [il loro corpo] era pietrificato, veniva […] trasferito […] nelle sale dei
morti, caverne in cui i cadaveri di alabastro giacevano l’uno sull’altro in fitte file in attesa
della beatitudine suprema, la cristallizzazione. Una volta che il corpo, non più umano
nell’aspetto, ma somigliante piuttosto a un pilastro di sale, aveva assunto la precisione
matematica e la perfetta struttura del cristallo, lo si riteneva pervenuto all’immortalità
definitiva. […] Poiché costoro affermavano che nulla fosse più gradito a Dio
dell’offrire il proprio corpo interamente alla Terra, in intima unione con essa.
Questo era il loro più alto desiderio: essere una cosa sola con l’armonia fisica del
pianeta. »
Anche il protagonista Olivero, divenuto un eremita, segue il loro esempio e, una volta
morto, il suo cadavere viene condotto alla fossa della pietrificazione, dove giace tra le
braccia della sua amata, morta contemporaneamente a lui. Insieme, diventeranno un
enorme, perfetto, cristallo.
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Note:
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[1] J. Verne, Viaggio al centro della terra.
[2] E.A. Poe, Gordon Pym. Altri racconti di Poe che fanno riferimento al mito della
Terra Cava (e in particolar modo dei «Poli Cavi») sono Manoscritto trovato in una
bottiglia e Una discesa nel Maelström .
[4] cfr. W. Kafton-Minkel, Mondi sotterranei. Il mito della Terra Cava. Mediterranee,
Roma, 2012, pp. 245-249, 294, 298-299.
[5] I testi a cui facciamo ivi riferimento sono: J.A. Saint-Yves, Missione dell’India; F.
Ossendowski, Bestie, uomini, dei; R. Guénon, Il Re del Mondo.
[7] cfr. anche P. Bahn e H. Gehring, Il mito del Vril. Settimo Sigillo, Roma, 2007.
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