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C’era una volta, in un tempo remoto di cui si è persa la memoria, una città bellissima, fatta

interamente di cristallo: il suo nome era Stellattea. Gli abitanti, un popolo pacifico e accogliente,
allegro e festoso, l’aveva chiamata così perché di giorno i palazzi riflettevano l’azzurro del cielo e
la luce del sole, mentre di notte (e questo era il vero spettacolo) tutte le stelle, tant’è che chi vedeva
Stellatea da lontano, si trovava sempre a esclamare: «Ohibò! Il cielo è caduto a terra!»
Poppy era un ragazzino di quattordici anni, magro come un chiodo, agile come una lepre e sempre
contento. Viveva in una casa fatta di un cristallo assai raro, estratto dalle miniere dal suo papà, che
di notte rifletteva così intensamente la luce delle stelle, che l’interno era quasi illuminato a giorno.
C’è da dire, però, che Stellattea non si chiamava così solo perché rifletteva la luce del cielo. Ed era
proprio a questo che Poppy pensava mentre, seduto su una staccionata di opale, dondolava i piedi
con il naso all’insù. La città di Stellattea aveva una particolarità: il giorno durava veramente poco,
qualche ora, mentre la notte era assai più lunga del normale e una volta all’anno le stelle facevano
piovere dal cielo del caldo e dolcissimo latte, che pareva appena munto.
Poppy sorrise e tornò a guardare di fronte a sé, dove un bellissimo unicorno dalla criniera d’argento
camminava accanto a una bambina, che gli parlava sommessamente. Stellattea brulicava di
unicorni, di quegli eleganti animali che vivevano in simbiosi con la popolazione, nel rispetto
reciproco.
Eh sì, pensava Poppy, non avrebbe vissuto in nessun’altro luogo che non fosse stato Stellattea!
Poppy scese dalla staccionata con un salto e si mise a camminare per le vie della città, dove gli
abitanti parlavano in modo concitato fra loro. Come biasimarli, in fondo? Al tramonto sempre più
imminente sarebbe iniziata la Festa di Stellattea, dove le stelle avrebbero fatto piovere latte e tutti
gli abitanti, armati di cannocchiaio, uno strumento intarsiato lungo due anulari, avrebbero atteso
intorno alla Grande Piscina per farsi una scorpacciata di gelato. Poppy osservò il proprio
cannocchiaio e sorrise. Era uno aggeggio molto utile, che non si trovava in altre città: non solo lo si
poteva utilizzare per vedere le stelle, ma premendo una piccola levetta si trasformava a piacimento
in un cucchiaio, così che si potesse mangiare e guardare le stelle ogni volta che lo si desiderava.
«Ehi Poppy, perché non provi a scrivere una canzone per questa sera?» gli urlò un omone dalla
faccia tonda e un gran sorriso stampato in faccia, porgendogli della carta pentagrammata e una
stilografica. «Potresti suonare qualcosa con il sussurrofono! Che ne dici?»
Poppy si fermò e ci pensò per qualche istante. Lui adorava la musica del sussurrofono, uno
strumento lungo quanto un braccio, di un tenue rosa, stretto alla fine e ampio alla sommità, dove si
soffiava e cantava. Il sussurrofono produceva una musica celestiale, appena appena percettibile, che
aveva il potere di sciogliere i pensieri e di ridare il buon umore. Non a caso Stellattea era piena di
sussurrofoni che suonavano per tutto il giorno e tutta la notte.
«Perché no?» rispose Poppy e accetto il foglio e la penna dall’omone. Si sedette su una panchina e
si lasciò guidare dall’ispirazione per una o due ore; si fermò solo quando il sole calò al di là delle
case e le strade parvero andare a fuoco.
«A breve inizia la festa! Inizia la festa!» gridarono in molti.
Poppy si affrettò a finire lo spartito e si avviò verso casa. Entrò come un uragano, prese il suo
sussurrofono e si fiondò fuori, dove qualche stella già si era accesa in cielo. Corse verso la piazza e
per poco, nel fermarsi, non fece cadere nella piscina piena di ghiaccio una signora; si portò il
cannocchiaio all’occhio e scrutò avidamente il cielo. Quando tutte le stelle illuminarono il manto
della notte, gli abitanti di Stellattea ammutolirono e rimasero in attesa. Passarono diversi minuti in
cui non accadde nulla, poi, dalla stella più grande che troneggiava proprio sopra la piscina, cadde
una goccia di latte, seguita da tante altre. Un urlo di giubilo si alzò dalla folla e un rumore di levette
riempì l’aria. Tutti si chinarono mentre la vasca piena di ghiaccio si riempiva di latte e il latte
diventava solido, pronto per essere mangiato. Prima di chinarsi anche lui, Poppy portò il
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sussurrofono alle labbra e gettando veloci occhiate allo spartito scritto poche ore prima intonò una
musica briosa. Chi gli stava accanto iniziò a ballare, imitato subito dopo da tutti gli altri, mentre gli
unicorni leccavano avidi il latte dalla piscina.
Erano tutti felici, la festa era al suo culmine quando un grido si levò alto e acuto. La folla si aprì,
permettendo allo straniero di raggiungere la vasca colma. Poppy smise di suonare e guardò in nuovo
arrivato, che veniva subito soccorso dagli abitanti di Stellattea.
«Ma è Felmio, mio cugino!» urlò, riconoscendolo.
«Oh Poppy, Poppy! Non sai che disgrazia!» urlò Felmio, un ragazzo sui quindici anni dal viso
spruzzato di lentiggini.
Poppy gli andò incontro e lo aiutò a sorreggersi, mentre tutti gli chiedevano cosa fosse accaduto e
gli offrivano il gelato dai propri cannocchiai.
«Nostro zio, Poppy! Nostro zio Spectral è scomparso nel villaggio di Covorco, forse lo porteranno
nella Città dei Perduti!» pianse Felmio.
Poppy si irrigidì e tutti si azzittirono. Covorco era una piccola cittadina abitata dagli orchi, esseri
brutti e infingardi, che precedeva la Città dei Perduti, un luogo inospitale e abitato dai peggiori
criminali, nonché luogo in cui viveva la Coccatrice, un essere mezzo drago e mezza gallina che
divorava gli uomini che gli venivano offerti in sacrificio.
«Poppy, zio Spectral mi ha inviato una richiesta di aiuto...»
«Lo andremo a salvare», rispose prontamente Poppy, risollevandosi e stringendo fra le mani il suo
sussurrofono, «partiremo stanotte stesso e ci fermeremo a fare rifornimento nella tua città,
Dodoreame.»
Il ragazzino aiutò il cugino a rimettersi in piedi e lo allontanò dalla folla.
Si incamminarono qualche ora più tardi, accompagnati da un unicorno che tornò indietro solo
quando raggiunsero il confine di Stellattea. Felmio era pallido e Poppy cercò di tirarlo su
invitandolo a suonare con lui i suoi ditaspilli, delle piccole palline di ottone che si appendono alle
dita e che se agitate producono un suono simile a delle campanelle, molto in voga a Dodoreame.
«Felmio, come mai zio Spectral si trova a Covorco?» chiese Poppy, durante l’ultima sosta, ormai in
vista di Dodoreame dai palazzi in mattone rosso.
Felmio tirò su con il naso.
«Eh! L’hanno catturato, così diceva la lettera... l’hanno catturato degli orchi, pensando che fosse un
delinquente... forse lo sacrificheranno alla Coccatrice.»
Poppy raccolse il sussurrofono e senza dire nulla si incamminò verso Dodoreame. La città era assai
diversa da Stellattea, era più spoglia e gli abitanti erano meno accoglienti, ma tutto sommato gentili.
Poppy c’era stato una volta sola quando aveva tre o quattro anni e ne conservava un ricordo
sbiadito. Forse fu per questo che quando si trovò davanti uno stormo di piccioacchini, uccelli grossi
e sgraziati, ma dal piumaggio coloratissimo, ne rimase sorpreso; così come quando vide correre a
destra e a manca gli aspirofagi, dei robottini che gli arrivavano alla coscia, bianchi, sbuffanti e con
una lucina rossa sulla testa che correvano a scacciare via gli uccelli e ne aspiravano le piume che
cadevano a ogni battito d’ala.
Poppy e Felmio fecero rifornimento in un panificio dove c’erano più scope per spazzare a terra che
pane esposto, un fatto che incuriosì molto Poppy.
«A cosa servono tutte queste scope?» chiese al panettiere, che grugnì mentre ne afferrava due e le
agitava in aria.
«A scacciare i piccioacchini, non si capisce ragazzo? Vengono solo a mangiare il mio pane e a
sporcarmi tutto il cortile con i loro escrementi», rispose a mezza voce.
Poppy non fece altre domande e si riavviò insieme al cugino.

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«Città un po’ particolare Dodoreame, è bella e brutta al tempo stesso», gli disse Felmio appena
furono fuori dalle mura in mattoni rossi che circondava la città.
Camminarono per parecchio tempo, addentrandosi sempre di più in un territorio aspro e sferzato da
un vento gelido, che li costrinse a rannicchiarsi nei propri mantelli di lana. La sabbia si alzava e li
costringeva a schermarsi gli occhi di tanto in tanto, mentre il profilo diroccato e sproporzionato di
Covorco si stagliava all’orizzonte, dominato alle sue spalle dagli altissimi grattacieli scavati nella
pietra della Città dei Perduti, che si apriva a ventaglio e pareva sul punto di ingoiare il paese davanti
a sé. Già dall’entrata di Covorco fu chiaro che di uomini come loro non se ne vedevano spesso da
quelle parti: gli orchi che trotterellavano accanto a loro li guardavano con diffidenza, qualcuno
addirittura sghignazzava con quella bocca storta e costellata da piccoli denti aguzzi.
«Dove andiamo? Dove troveremo nostro zio?» chiese Felmio, aggrappandosi al braccio del cugino.
Poppy strinse la corda che legava il sussurrofono alla sua spalla e avanzò a passo spedito verso
quella che doveva essere una bettola. Entrò con un sol passo deciso e fu subito investito dal lezzo di
sudore che vi stagnava all’interno. Felmio gli camminava accanto, guardandosi intorno con sospetto
e paura.
«Cosa ci fanno due bambini come voi in un postaccio come Covorco? Qui gli uomini non sono ben
visti», disse loro l’oste, che puliva un bicchiere con un panno lercio, mentre dietro di lui dieci
braccia meccaniche ognuna armata di sapone, panni e spugne si agitavano forsennatamente dentro
un lavandino.
«Cos’è?» chiese Poppy, che era sempre tanto curioso e desideroso di imparare cose nuove.
«L’ho costruito io e l’ho chiamato sciacquamelma. Lo uso anche per pulire i bagni», rispose l’oste e
rise sguaiatamente.
Poppy non si scompose, anche se l’idea di bere qualcosa in quel luogo lo disgustò.
«Per caso è passato di qui un uomo dai capelli lunghi e neri? Ha una cicatrice proprio qui, sulla
guancia...»
Ma Felmio venne subito interrotto dall’oste, che batté una mano sul bancone.
«Quel criminale è stato portato nella Città dei Perduti e presto verrà messo sotto lo spaccacranio»,
disse.
Sia Poppy che Felmio trasalirono. Anche se non lo avevano mai visto, sapevano bene cos’era lo
spaccacranio: un enorme marchingegno di ferro e legno di noce a forma circolare che serviva per
spappolare i condannati a morte. Né a Stellattea né a Dodoreame c’era qualcosa di simile!
«Perché?» chiese Poppy.
L’orco alzò le spalle bitorzolute.
«E io che ne so? Mi faccio gli affari miei, bamboccio», rispose e le froge del suo naso aquilino si
allargarono.
Poppy si volse verso il cugino, che era pallidissimo.
«Dobbiamo andare nella Città dei Perduti prima che sia troppo tardi», disse risoluto, ma a quelle
parole il viso di Felmio si afflosciò.
«Forse è troppo tardi...» sussurrò.
«Non dire sciocchezze, è nostro zio, dobbiamo aiutarlo!» insistette Poppy, che di coraggio ne aveva
da vendere, «sei venuto a cercarmi per salvarlo, no? Ora vuoi tirarti indietro?»
«Ma io...»
«Volete davvero andare nella Città dei Perduti? Non sapete perché si chiama così? Oh, sciocchi
bambinetti umani!» intervenne l’oste.
Poppy gonfiò il petto.
«Sappiamo che lì c’è la Coccatrice», rispose.
Gli occhi porcini dell’orco si illuminarono.
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«Nonostante questo volete andare?»
«Sì.»
«Allora prego, buona fortuna e a mai più arrivederci!»
Poppy prese il cugino per la mantella e lo trascinò fuori, dove si mise a discutere, indicando la Città
dei Perduti e insistendo nell’impresa che si era prefissato.
«Non capisci? Sono tre giorni che zio Spectral è qui, probabilmente è già stato ucciso e...»
In quel momento un manipolo di orchi armati li circondarono, puntando contro di loro spade affilate
e incrostate di sangue. Felmio si strinse contro Poppy, che cercava di non mostrare la paura che gli
stringeva lo stomaco.
«Bene bene, alla fine entrambi i miei adorati nipotini sono venuti qui per salvarmi. Sono
commosso!», disse una voce strascicata e viscida. Proprio al centro di quel gruppetto di orchi
comparve Spectral, vestito interamente di nero, con i lunghi capelli unticci appiccicati alle guance.
«Zio, ma cosa significa?» chiese Felmio.
«Significa che sei un ingenuo, Felmio. Sapevo che avresti chiesto aiuto a Poppy, non sei mai stato
coraggioso», e dopo una breve pausa, proseguì: «la Coccatrice ha fame e questi orchi mi avevano
catturato per offrirmi in sacrificio. Sembrava che la mia vita fosse finita, finché non ho proposto voi
due al posto mio e... beh, eccoci qui.»
«Ma noi siamo i tuoi nipoti, come puoi farci questo?» chiese Felmio, mentre Poppy osservava lo zio
con sguardo disgustato, ma fiero. Non sarebbe mai scoppiato a piangere come il cugino: se doveva
morire, l’avrebbe fatto a testa alta!
«Oh sciocchezze! Farei di tutto pur di avere salva la vita, anche vendere voi due... ah già, che
sbadato: l’ho già fatto», e rise.
«Useremo lo spaccacranio?» chiese un orco.
«No, li daremo in pasto alla Coccatrice da vivi», rispose Spectral.
«Io voglio che mi sia data la possibilità di combattere», esclamò a un tratto Poppy, battendosi un
pugno sul petto. Non sapeva bene da dove gli fosse venuta quell’idea, ma non riuscì a trattenere le
parole.
Spectral rise di nuovo, gettando il capo all’indietro.
«Bene, perché no? Ci divertiremo tutti molto di più. Portateli via», ordinò e sia Poppy che Felmio
vennero trascinati via da due orchi altissimi e imponenti.
La Città dei Perduti era quasi del tutto disabitata, fatta eccezione per delinquenti e assassini in fuga.
Per strada si incontravano poche facce e nessuna di esse era rassicurante. Il vento faceva sbattere le
persiane, frustava i palazzi in pietra e gonfiava i mantelli di Poppy e Felmio, che camminavano
l’uno accanto all’altro, in silenzio. Poppy sentì Felmio tirare su con il naso e invocare aiuto.
Passarono davanti allo spaccacranio e Poppy lo osservò, rabbrividendo: era tutto sporco di sangue e
tutt’interno c’erano pezzi di scheletro che giacevano a terra, mezzi masticati dai cani randagi.
Proseguirono lungo una via deserta, che portava ad un recinto gigantesco, fatto di pietra, dietro al
quale giungeva un profondo russare.
«Credo che sia arrivato il momento di svegliare la Coccatrice con le Corde Strillanti... sapete cosa
sono?» chiese Spectral ai nipoti, che scossero il capo. «Le vedrete appena saremo dentro. Entrerò
con voi, sveglierò la Coccatrice con le Corde Strillanti e vi guarderò mentre verrete maciullati»,
proseguì.
Poppy strinse forte i pugni e, a differenza di Felmio che ormai piangeva a dirotto, tenne gli occhi
fissi sulle porte del cortile che si aprivano. Entrarono tutti e tre e Poppy guardò con sconcerto la
grossa Coccatrice che ronfava dall’altra parte del recinto, con la testa di gallina attaccata al corpo di
drago appoggiata fra le zampe.

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Spectral si allontanò verso uno strumento musicale mai visto prima: era a forma di rettangolo
grande quanto una porta e fatto di tante corde di crine.
«Questo è l’unico strumento che possa svegliare la Coccatrice, grazie al suo suono acutissimo e
sgradevole», li informò lo zio.
Felmio iniziò a supplicare di essere lasciato libero, mentre Poppy si concentrò per trovare una via di
fuga. Le porte alle loro spalle erano state chiuse e tutt’intorno non c’era altro che una distesa di
ossa. L’unica via d’uscita si trovava alle spalle di Spectral, che probabilmente serviva per
permettere a chi svegliava la Coccatrice di scappare.
La prima, orribile nota vibrò nell’aria e a Poppy si accapponò la pelle, mentre le sottili palpebre
della Coccatrice vibrarono. Altre note dissonanti riempirono il silenzio e la bestia si destò,
sollevando di colpo il capo. Fu in quel momento che Poppy ebbe un lampo di genio: se la musica
aveva il potere di svegliare la Coccatrice, forse aveva anche il potere di farla riaddormentare.
Mentre la bestia si alzava per lanciarsi verso di lui e Felmio, Poppy prese il suo sussurrofono e
iniziò a suonare. La sua melodia contrastò il suono stridente delle Corde Strillanti e la Coccatrice
parve confusa.
«Ma che succede? Smettila di suonare, stupido ragazzino!» urlò Spectral, che aveva ormai perso il
controllo sulla bestia.
Poppy continuò a soffiare e cantare nel sussurrofono, finché la Coccatrice non gli fu difronte e gli si
inginocchiò vicino, con gli occhi vacui.

Torna a dormire, la notte è tornata


sarai svegliata da una melodia fatata

le cantò Poppy e la Coccatrice cadde di nuovo in un sonno profondo.


«No!» urlò Spectral, che si diede alla fuga.
Poppy, insieme a un Felmio sbalordito e confuso, lo inseguì nella porta oltre le Corde Strillanti,
finché non giunsero di nuovo davanti al manipolo di orchi che aveva braccato Spectral e lo
minacciava con le spade.
«La Coccatrice ha fame, ma non ha mangiato i due ragazzi: tu hai fallito», ringhiò un orco.
«No, è stata colpa del sussurrofono, io...» cercò di giustificarsi un terrorizzato Spectral, ma fu tutto
inutile, venne di nuovo trascinato dentro il cortile e poco dopo si alzarono nuovamente le terribili
note delle Corde Strillanti. Poppy e Felmio fuggirono, inseguiti dall’eco delle urla di Spectral.
Corsero a perdifiato senza mai fermarsi né voltarsi indietro, finché non furono fuori sia dai confini
della Città dei Perduti sia da quelli di Covorco. Si fermarono, stremati, in mezzo al deserto
flagellato da quel vento impetuoso che penetrava le ossa e nessuno dei due osò parlare per lungo
tempo.
«Poppy... grazie», disse a un tratto Felmio.
Poppy lo guardò e nel viso pallido vide gli occhi risplendere di sincera gratitudine. Gli sorrise.
«Di nulla, Felmio. Siamo cugini e io ti voglio bene», rispose.
Dopo quell’avventura, Felmio tornò alla vita di tutti i giorni a Dodoreame, dove venne assunto dal
panettiere come scaccia-piccioacchini, senza né fama né gloria, mentre Poppy, che aveva affrontato
e sconfitto la Coccatrice grazie alla musica del suo sussurrofono, venne ricoperto di onori una volta
tornato a Stellattea. Per quanto riguarda Spectral... beh, lui ha avuto ciò che si meritava.

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