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Per capire che cosa sta accadendo nei paesi arabi bisogna considerare innanzitutto il

quadro strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a
replicare nel nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione
Sovietica. Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio
nessuno immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era
nemmeno ipotizzabile che l’Urss potesse implodere. Il Maghreb da dove è partita la
rivolta non è l’Unione sovietica e non esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il
resto le analogie sono evidenti. La Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è
servito da detonatore per la altre volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, Gheddafi
in Libia , ora è sotto attacco la Siria e Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco.
Che cos’avevano in comune i regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da
leader autoritari con un grosso seguito popolare , e non è un mistero che le rivolte siano
tate ampiamente incoraggiate – e per molti versi preparate – dal governo americano.
Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a
guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a
quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia.
Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak,
l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i
quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici
della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali,
che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva. Washington ha vinto due volte:
si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno
una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è
dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.

Le dinamiche libiche sono diverse perché Gheddafi non era un alleato degli Stati Uniti e
perché le Ong legate al governo americano non hanno potuto stabilire contatti e legami
con la società civile libica; insomma, non hanno potuto fertilizzare il terreno sul quale
far germogliare la rivolta. Che però è esplosa lo stesso. Per contagio e alimentando non
la fedeltà dell’esercito, ma il suo malcontento. Come in tutte le rivoluzioni sono le forze
armate a determinare l’esito delle rivolte popolari. Gheddafi in queste ore paga gli errori
commessi in passato. Come ha rilevato Domenico Quirico sulla Stampa, il Colonnello,
da vecchio golpista qual’era, non si è mai fidato dei generali e ha proceduto a numerose
purghe. Gli uomini in divisa per 42 anni lo hanno temuto, ma non lo hanno mai davvero
amato. Così ora molti di loro o si danno alla fuga o passano con i rivoltosi soprattutto
nelle città lontane da Tripoli. Gheddafi può contare solo sulle milizie private e su una
piccola parte dell’esercito; è questa la ragione di una mossa altrimenti inspiegabile come
quella di reclutare centinaia o forse migliaia di miliziani africani.

La conseguenza è inevitabile: sangue, sangue e ancora sangue. L’impressione è che


Gheddafi alla fine sarà costretto a fuggire. L’immagine, ridicola, del Raìs in auto con
l’ombrello ricorda quella di Saddam Hussein braccato dagli americani nei giorni della
caduta di Bagdad. In ogni caso la situazione rischia di essere molto imbarazzante per
l’Italia. Se il regime dovesse cadere, la Libia tornerebbe ad essere il porto di partenza
verso le nostre coste per decine di migliaia di immigrati. Se dovesse resistere, per noi
sarebbe imbarazzante mantenere buoni rapporti con un leader sanguinario. E in entrambi
i casi ballerebbero contratti milionari per le nostre aziende. Eni in testa. Non
dimentichiamocelo: buona parte dei nostri approvvigionamento energetici dipendono
proprio dal Nord Africa. L’esplosione controllata rischia di essere comunque devastante
per gli interessi del nostro Paese

Non abbiamo scelta e l'Italia non può certo influire sugli eventi, ma è inevitabile
chiedersi: il prezzo è giusto? 

venerdì 11 febbraio 2011

Il segreto inconfessabile: la regia di Barack


Obama
dietro la rivolta in Egitto
di Marcello Foa

Obama combatte la stessa guerra di Bush, con altri metodi, per esportare la
democrazia. Intanto l'esercito revoca lo stato d'emergenza e chiede alla piazza il
ritorno alla normalità

Come si vincono le guerre nell'era della globalizzazione? Muovendo gli eserciti?


Talvolta sì, ma il risultato non è sempre soddisfacente e i costi spesso risultano superiori
ai benefici. Ne sa qualcosa George Bush che nel 2001 si scagliò contro i talebani in
Afghanistan e nel 2003 contro Saddam in Irak. Siamo nel 2011, quei conflitti durano
ancora e la vittoria finale non è assicurata. Se l’America avesse usato altri metodi,
probabilmente avrebbe risparmiato migliaia di vite, molti miliardi di dollari e ottenuto
risultati più concreti e duraturi.

È la lezione che ha appreso Barack Obama, il quale in realtà sta combattendo la stessa
guerra di Bush, nel senso che ne condivide le finalità strategiche. Che cosa voleva
George W? Esportare la democrazia e, soprattutto, sostituire in Medio Oriente regimi
decadenti, retti da leader impopolari, con regimi più rispettabili e leader più affidabili.
Pensateci bene: è esattamente quel che si propone Barack Obama in Egitto e Tunisia. A
cambiare è il metodo.

L'attuale inquilino della Casa Bianca opta per il soft power e per il proseguimento delle
tecniche usate in Ucraina, Georgia e Serbia nella prima metà degli anni Duemila.
Ricordate la protesta degli studenti di Belgrado che costrinse Milosevic alla fuga? E
l'emozionante Rivoluzione arancione di Kiev? E quella Rosa contro Shevardnadze?
Allora i media si emozionarono, esaltando la rivincita del popolo; oggi, però, sappiamo -
documenti alla mano - che quelle rivolte non furono affatto spontanee, ma preparate con
cura e sapientemente attizzate da società private di Pubbliche relazioni, che agivano per
conto del Dipartimento di Stato. Washington aveva capito che, agendo con la dovuta
cautela, la piazza poteva essere usata a proprio vantaggio.

Lo stesso sta avvenendo in queste settimane in Tunisia e in Egitto. Non limitatevi alle
dichiarazioni ufficiali, alcune sono obbligate e rientrano in un gioco delle parti.
Chiedetevi, piuttosto... Chi ha deciso la rivolta prima a Tunisi e ora al Cairo? L'esercito,
che si è rifiutato di sparare sulla folla, legittimando le richieste dei manifestanti. E a chi
sono legati i vertici militari egiziani e tunisini? Saldamente agli Stati Uniti. Chi comanda
ora al posto di Ben Ali? I generali, democratici, nelle intenzioni, ma pur sempre generali.
La Tunisia, Paese piccolo, moderato e privo di risorse naturali strategiche, rappresentava
il banco di prova. Il test è andato benissimo e allora Washington ha deciso di tentare con
il più grande, ma più rischioso, Egitto. Il Daily Telegraph ha scoperto, sepolto nel sito di
Wikileaks, uno dei pochi documenti interessanti finiti nelle mani dell’ambiguo Assange.
Documenti che rivelavano come già nell'autunno del 2008 il Dipartimento di Stato
avesse invitato a Washington diversi blogger e oppositori di Mubarak, intenzionati
creare un'Alleanza democratica, che aveva come obiettivo finale quello di provocare un
cambiamento di regime proprio nel 2011, prima delle elezioni presidenziali. Infatti chi
ha dato, politicamente, il colpo di grazia a Ben Ali e messo alle corde Mubarak è stato
Barack Obama, il quale oggi al Cairo può contare sull'esercito e sul vice presidente, un
altro generale, Suleiman; il vero uomo forte. L’analogia con Tunisi è eclatante.
Tutto quadra. Oggi. Domani, chissà; perché in Tunisia l’influenza dei fondamentalisti
islamici è impalpabile, mentre in Egitto i Fratelli Musulmani sono molto popolari e in
passato hanno dimostrato di saper muovere le piazze, all’occorrenza usando le armi.
Questo rende il finale più incerto, ma non cambia l’analisi complessiva.

Esiste un’evidente continuità strategica tra Bush e Obama. E anche operativa. Gli
incontri al Dipartimento di Stato si svolsero nell’autunno del 2008, quando Obama era
ancora in campagna elettorale. Dunque in queste ore il democratico Barack ha esercitato
un’opzione elaborata dal suo predecessore, il falco George. Ma non ricordateglielo. Si
arrabbierebbe.

La rivoluzione maghrebina e la superficialità della stampa


Scritto da Marcello Foa in Giornalismo sui Media il 22 febbraio 2011

Corriere del Ticino, 22.02.2011

Ci siamo emozionati tutti vedendo le immagini del Cairo e di Tunisi. E l’opinione pubblica
mondiale, ascoltando le testimonianze degli inviati in Egitto e in Tunisia, si è convinta che le
rivoluzioni fossero irrefrenabili e, soprattutto, spontanee. Si è stabilito un “frame” ovvero una verità
che tutti hanno adottato, senza nemmeno chiedersi se fosse attendibile. Ma se si analizza la
situazione da una prospettiva diversa, considerando sia le tecniche di comunicazione più sofisticate
che il contesto politico internazionale, emerge un’altra verità, più credibile.

Premessa: alla fine degli anni Novanta il governo americano ha deciso di far proprie e, soprattutto,
di applicare le teorie di Gene Sharp, un docente di Harvard, che per anni ha teorizzato, inascoltato,
la lotta non violenta quale strumento per rovesciare le dittature. Poi, alla fine degli anni Novanta, il
governo americano decise di provare l’efficacia delle sue teorie. Aggiungendo un elemento che lo
stesso Sharp non aveva contemplato: l’organizzazione e il supporto esterno della lotta non violenta.
Nacque così una nuova strategia – non convenzionale – da usare nello scacchiere internazionale.

Il primo test fu condotto a Belgrado, nell’ottobre del 2000, quando la coraggiosa protesta degli
studenti serbi costrinse Milosevic alle dimissioni. Quel movimento fu ispirato dallo stesso Sharp,
ma organizzato e finanziato da organizzazioni non governative, enti privati e filantropici, che pur
essendo indipendenti agivano d’intesa con Washington. Fu un successo, a cui seguì la rivoluzione
rosa di Tbilisi e, soprattutto, quella arancione di Kiev. In tutte e tre le occasioni i media descrissero
straordinarie rivoluzioni spontanee. Nessuno si accorse di un retroscena cruciale, oggi noto agli
esperti di comunicazione, ovvero che furono incoraggiate e instradate da fuori. Dunque spontanee
non erano.

Dopo il 2005 la formula “Sharp” fu accantonata ed è resuscitata solo in questo impetuoso 2011,
come risulta da molti indizi concordanti. Il Daily Telegraph, ad esempio, ha scoperto – è non è stato
smentito – che gli oppositori egiziani del movimento 6 aprile oggi esaltati come i coraggiosi
condottieri anti-Mubarak usciti dai blog, dai social network , nell’autunno del 2008 parteciparono a
un incontro a Washington al Dipartimento di Stato, durante il quale discussero di una rivoluzione
democratica da far esplodere proprio nel 2011. Il New York Times ha pubblicato un documento che
dimostra come lo stesso Obama, oltre 6 mesi fa, incaricò i suoi esperti di formulare proposte per
indurre al cambiamento politici regimi autoritari nel mondo islamico, sfruttando il malcontento
delle folle. Lo stesso Sharp ha ammesso, in un’intervista, di essere l’ispiratore di quanto accaduto in
Egitto e in Tunisia. Aggiungete il ruolo di Ong americane in Tunisia e in Egitto, il sostegno
decisivo degli eserciti di questi due Paesi, lo stanziamento della Clinton di nuovi ingenti
finanziamenti per diffondere via internet la democrazia nei Paesi autoritari e il quadro è completo.

Washington, per ovvi motivi di opportunità, non può ammettere più di quanto abbia detto finora.
Spetterebbe alla grande stampa spiegare cos’è successo davvero a Tunisi al Cairo, amalgamando
notizie e dichiarazioni frammentarie e apparentemente scollegate. Ma ancora una volta si dimostra
troppo dipendente dalle fonti ufficiali, troppo superficiale per capire le sottigliezze dello spin,
troppo frenetica nella caccia all’ultima notizia. Cattura qualche dettaglio, mai il quadro d’insieme.
Non riflette e non approfondisce. E così fallisce.

29-01-11 EGITTO: WIKILEAKS, SOSTEGNO SEGRETO USA A CAPI RIVOLTA  

(ASCA) - Roma, 29 gen - Gli Stati Uniti sostengono segretamente i capi della rivolta egiziana
contro il presidente Hosni Mubarak. E' quanto si legge sul sito del quotidiano britannico ''The
Telegraph'' che riporta un documento diplomatico dell'ambasciata Usa al Cairo, datato 30 dicembre
2008 e pubblicato dal sito ''Wikileaks''. In un dispaccio l'ambasciatrice americana Margaret Scobey
evidenzia che presunti gruppi di opposizioni avevano elaborato programmi segreti per il
cambiamento di regime che doveva avvenire prima delle elezioni, previste per il settembre di
quest'anno e aggiungendo che un giovane attivista del movimento ''6 aprile'', il cui nome viene
omesso, e' stato aiutato dalla stessa ambasciata a partecipare a un incontro a Washington di
dissidenti (Alliance of Youth Movements Summit), promosso dal Dipartimento di Stato, con esperti
e funzionari del governo americano.

Al suo ritorno al Cairo, nel dicembre 2008, il ragazzo riferi' ai diplomatici americani che si era
formata un'alleanza fra gruppi di opposizione con un piano per rovesciare nel 2011 il governo del
presidente Mubarak. Il dispaccio prosegue affermando che diverse forze di opposizione egiziane
avevano raggiunto un accordo per appoggiare un piano non scritto per una transizione verso una
democrazia parlamentare che desse meno poteri al presidente.

Le proteste in Egitto, si legge infine sul quotidiano online, si sono determinate tramite il movimento
''6 aprile'', un gruppo su Facebook che ha attratto i membri giovani e istruito contrari al regime di
Mubarak. Il gruppo ha circa 70.000 membri e utilizza i luoghi sociali della rete per disporre le
proteste ed il rapporto sulle loro attivita'.

map/mcc/alf

16/2/2011 Internet e libertà d'espressione

FEDERICO GUERRINI Gli Stati Uniti, un


anno dopo le critiche alla Cina per il tentativo di censurare Google, e nei giorni immediatamente
seguenti alla crisi del regime egiziano in cui per la prima volta un governo ha deciso di “spegnere”
temporaneamente Internet, sono tornati ad ergersi a paladini della libertà di espressione in Rete.

Lo hanno fatto per bocca del segretario di Stato Hillary Clinton che, in un discorso alla platea della
George Washington University ha sottolineato come nell’epoca in cui alla piazza cittadina si è
sostituita quella telematica, si debba fare delle scelte per consentire ai cittadini la possibilità di
confrontarsi e associarsi. Si può adottare un approccio aperto, caratteristico delle democrazie o uno
più restrittivo, simile a quello in vigore in Cina, Iran, Siria e altrove.

“E per gli Usa – ha detto Clinton – la scelta è chiara; noi ci poniamo dalla parte dell’apertura. La
libertà di Internet causa delle tensioni, come tutte le libertà, ma i benefici superano i costi”. La vice
di Obama ha poi proseguito stabilendo un parallelo fra libertà di espressione in Rete e crescita
economica e sostenendo che le nazioni in cui la dinamicità di Internet è frenata da muri e censure,
avrebbero presto pagato un prezzo in termini di minore creatività e innovazione.

È stato un discorso molto accalorato e vibrante, quello della Clinton, in larga parte condivisibile. Il
volo retorico della segretaria, così efficace nel criticare i governi esteri, ha però mostrato delle crepe
al momento di affrontare il controverso atteggiamento degli Usa nei confronti di Wikileaks e, più in
generale, se confrontato con la reale politica americana per quanto riguarda la sorveglianza
telematica delle comunicazioni all’interno dei suoi confini.

Per quanto riguarda i cable, Clinton ha ribadito trattarsi di informazioni trafugate illegalmente e ha
negato qualsiasi coinvolgimento dell’amministrazione Obama nella decisione di Amazon,
Mastercard, Visa e Paypal di sospendere gli account facenti capo ad Assange. “Tali aziende – ha
detto – hanno agito in questo modo unicamente perché sono stati violati i termini d’uso dei loro
servizi”.

Un’affermazione poco credibile, tanto più poiché giunta nello stesso giorno in cui, davanti a una
corte della Virginia, alcuni legali degli attivisti per i diritti civili, cercavano di opporsi alla richiesta
del governo di accedere agli account Twitter di vari esponenti di Wikileaks e di leggere i loro
messaggi privati. Pare che un’identica richiesta sia stata presentata a Google e Facebook, anche se
mancano conferme ufficiali.
Il giorno prima la Camera dei Rappresentanti aveva approvato la proroga fino a dicembre di tre
provvedimenti contenuti all’interno del Patriot Act varato da Bush. Chiamati “roving wiretaps”,
“lone wolf” e “business records”, consentono a vario titolo all’Fbi e al governo di monitorare e
intercettare le comunicazioni di privati e aziende, senza nemmeno dover giustificare tali atti con
accuse puntuali e mirate.

E nei piani dell’amministrazione Usa pare esserci l’estensione della possibilità di intercettare le
comunicazioni, già richiesta ai provider e alla grandi compagnie telefoniche, anche ai servizi
criptati come quelli offerti da Blackberry e Skype.

Tutte situazioni che hanno valso alla Clinton, da parte soprattutto dei commentatori liberal
statunitensi, l’accusa di adoperare una doppia morale nel trattare l’argomento della libertà di
espressione su Internet. Mani libere quando si tratta del governo Usa, severi standard di
comportamento per tutti gli altri. E questa volta non servirebbe nemmeno un leak per valutare
quanto gli atti corrispondano alle parole.

GHEDDAFI/ Video, il discorso del leader alla


Libia, "Morirò da martire"
martedì 22 febbraio 2011

Foto Ansa

GHEDDAFI VIDEO DISCORSO - Muammar Gheddafi ha tenuto un discorso in diretta tv alla


nazione libica. Mentre parlava, i manifestanti nelle strade di Tripoli venivano bombardati e uccisi.
Ormai si parla di più di mille morti, una strage. Gheddafi si è fatto filmare nelle rovine della sua
casa, bombardata dagli americani nel 1986 e da allora una sorta di museo nazionale. I toni infuocati,
ha promesso qualche riforma ma anche la repressione della rivolta. "Se fossi stato presidente vi
avrei già sbattuto in faccia le mie dimissioni" ha detto.

"Ma ii sono un leader rivoluzionario resisterò fino alla fine e morirò da martire". Altri passaggi del
suo discorso: "Vogliono rovinare la vostra immagine nel mondo. La vostra immagine è distorta nei
mass media arabi per umiliarvi. iI sono un rivoluzionario. Ho portato la vittoria in passato e di
questa vittoria si è potuto godere per generazioni. Resterò a capo della rivoluzione fino alla morte".

Ancora: "Scendete nelle strade e proteggetele da questi ratti se mi amate: io sono l'uomo che ha dato
prosperità al paese, e che gli ha restituito il petrolio che ci veniva portato via. Chi attacca e viola la
costituzione verrà punito - assicura il colonnello - Quelli che vogliono cambiare, devono morire.
Quelli che usano armi, devono essere giustiziati. Chi attacca un comando militare, deve essere
punito con l'impiccagione. Chi esegue atti allo scopo di fare una guerra civile, verrà punito con
l'impiccagione".di martedì 22 febbraio 2011

LIBIA E GHEDDAFI COSA CE (DAVVERO)


DIETRO LA RIVOLTA
di Marcello Foa

Non siamo di fronte a rivolte spontanee ma indotte, che mirano a replicare nel nord
Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica. E in
Libia...

Per capire che cosa sta accadendo a Tripoli bisogna considerare innanzitutto il quadro
strategico. Non siamo di fronte a rivolte spontanee, ma indotte che mirano a replicare nel
nord Africa quanto avvenuto alla fine degli anni Ottanta nell’ex Unione Sovietica.
Anche allora la rivolta partì da un piccolo Paese, la Lituania, e all’inizio nessuno
immaginava che l’incendio potesse propagarsi ai Paesi vicini e non era nemmeno
ipotizzabile che l’Urss potesse implodere. Il Maghreb non è l’Unione sovietica e non
esistono sovrastrutture da far saltare, ma per il resto le analogie sono evidenti. La
Tunisia è il più piccolo dei Paesi della regione ed è servito da detonatore per la altre
volte. A ruota è caduto il regime di Mubarak, la Libia è in subbuglio, domani forse
Teheran e, magari sull’onda, Algeria, Marocco, Siria. Che cos’avevano in comune i
regimi tunisini, egiziano e libico? Il fatto di essere retti da leader autoritari, ormai vecchi,
screditati, che pensavano di passare il potere a figli o fedelissimi inetti.

Non è un mistero: le rivolte sono state ampiamente incoraggiate – e per molti versi
preparate – dal governo americano, come dimostrato qui e qui. Da qualche tempo
Washington riteneva inevitabile l’esplosione del malcontento popolare e temendo che a
guidare la rivolta potessero essere estremisti islamici o gruppi oltranzisti, ha proceduto a
quella che appare come un’esplosione controllata, perlomeno in Egitto e in Tunisia.
Perché controllata? Perché prima di mettere in difficoltà Ben Ali e Mubarak,
l’Amministrazione Obama ha cementato il già solidissimo rapporto con gli eserciti, i
quali infatti non hanno mai perso il controllo della situazione e sono stati gli artefici
della rivoluzione. Non scordiamocelo: oggi al Cairo e a Tunisi comandano i generali,
che anche in futuro eserciteranno un’influenza decisiva. Washington ha vinto due volte:
si è assicurata per molti anni a venire la fedeltà di questi due Paesi e ha messo a segno
una straordinaria operazione di immagine, dimostrando al mondo intero che l’America è
dalla parte del popolo e della democrazia anche in regimi fino a ieri amici.

Le dinamiche libiche sono diverse perché Gheddafi non era un alleato degli Stati Uniti e
perché le Ong legate al governo americano non hanno potuto stabilire contatti e legami
con la società civile libica; insomma, non hanno potuto fertilizzare il terreno sul quale
far germogliare la rivolta. Che però è esplosa lo stesso. Per contagio e alimentando non
la fedeltà dell’esercito, ma il suo malcontento. Come in tutte le rivoluzioni sono le forze
armate a determinare l’esito delle rivolte popolari. Gheddafi in queste ore paga gli errori
commessi in passato. Come ha rilevato Domenico Quirico sulla Stampa, il Colonnello,
da vecchio golpista qual’era, non si è mai fidato dei generali e ha proceduto a numerose
purghe. Gli uomini in divisa per 42 anni lo hanno temuto, ma non lo hanno mai davvero
amato. Così ora molti di loro o si danno alla fuga o passano con i rivoltosi soprattutto
nelle città lontane da Tripoli. Gheddafi può contare solo sulle milizie private e su una
piccola parte dell’esercito; è questa la ragione di una mossa altrimenti inspiegabile come
quella di reclutare centinaia o forse migliaia di miliziani africani.

La conseguenza è inevitabile: sangue, sangue e ancora sangue. L’impressione è che


Gheddafi alla fine sarà costretto a fuggire. L’immagine, ridicola, del Raìs in auto con
l’ombrello ricorda quella di Saddam Hussein braccato dagli americani nei giorni della
caduta di Bagdad. In ogni caso la situazione rischia di essere molto imbarazzante per
l’Italia. Se il regime dovesse cadere, la Libia tornerebbe ad essere il porto di partenza
verso le nostre coste per decine di migliaia di immigrati. Se dovesse resistere, per noi
sarebbe imbarazzante mantenere buoni rapporti con un leader sanguinario. E in entrambi
i casi ballerebbero contratti milionari per le nostre aziende. Eni in testa. Non
dimentichiamocelo: buona parte dei nostri approvvigionamento energetici dipendono
proprio dal Nord Africa. L’esplosione controllata rischia di essere comunque devastante
per gli interessi del nostro Paese

Non abbiamo scelta e l'Italia non può certo influire sugli eventi, ma è inevitabile
chiedersi: il prezzo è giusto? 

venerdì 11 febbraio 2011

Il segreto inconfessabile: la regia di Barack


Obama
dietro la rivolta in Egitto
di Marcello Foa

Obama combatte la stessa guerra di Bush, con altri metodi, per esportare la
democrazia. Intanto l'esercito revoca lo stato d'emergenza e chiede alla piazza il
ritorno alla normalità

Come si vincono le guerre nell'era della globalizzazione? Muovendo gli eserciti?


Talvolta sì, ma il risultato non è sempre soddisfacente e i costi spesso risultano superiori
ai benefici. Ne sa qualcosa George Bush che nel 2001 si scagliò contro i talebani in
Afghanistan e nel 2003 contro Saddam in Irak. Siamo nel 2011, quei conflitti durano
ancora e la vittoria finale non è assicurata. Se l’America avesse usato altri metodi,
probabilmente avrebbe risparmiato migliaia di vite, molti miliardi di dollari e ottenuto
risultati più concreti e duraturi.

È la lezione che ha appreso Barack Obama, il quale in realtà sta combattendo la stessa
guerra di Bush, nel senso che ne condivide le finalità strategiche. Che cosa voleva
George W? Esportare la democrazia e, soprattutto, sostituire in Medio Oriente regimi
decadenti, retti da leader impopolari, con regimi più rispettabili e leader più affidabili.
Pensateci bene: è esattamente quel che si propone Barack Obama in Egitto e Tunisia. A
cambiare è il metodo.

L'attuale inquilino della Casa Bianca opta per il soft power e per il proseguimento delle
tecniche usate in Ucraina, Georgia e Serbia nella prima metà degli anni Duemila.
Ricordate la protesta degli studenti di Belgrado che costrinse Milosevic alla fuga? E
l'emozionante Rivoluzione arancione di Kiev? E quella Rosa contro Shevardnadze?
Allora i media si emozionarono, esaltando la rivincita del popolo; oggi, però, sappiamo -
documenti alla mano - che quelle rivolte non furono affatto spontanee, ma preparate con
cura e sapientemente attizzate da società private di Pubbliche relazioni, che agivano per
conto del Dipartimento di Stato. Washington aveva capito che, agendo con la dovuta
cautela, la piazza poteva essere usata a proprio vantaggio.

Lo stesso sta avvenendo in queste settimane in Tunisia e in Egitto. Non limitatevi alle
dichiarazioni ufficiali, alcune sono obbligate e rientrano in un gioco delle parti.
Chiedetevi, piuttosto... Chi ha deciso la rivolta prima a Tunisi e ora al Cairo? L'esercito,
che si è rifiutato di sparare sulla folla, legittimando le richieste dei manifestanti. E a chi
sono legati i vertici militari egiziani e tunisini? Saldamente agli Stati Uniti. Chi comanda
ora al posto di Ben Ali? I generali, democratici, nelle intenzioni, ma pur sempre generali.
La Tunisia, Paese piccolo, moderato e privo di risorse naturali strategiche, rappresentava
il banco di prova. Il test è andato benissimo e allora Washington ha deciso di tentare con
il più grande, ma più rischioso, Egitto. La nostra non è un'insinuazione, ma una
deduzione. Fondata. Nei giorni giorni scorsi il Daily Telegraph ha scoperto, sepolto nel
sito di Wikileaks, uno dei pochi documenti interessanti finiti nelle mani dell’ambiguo
Assange. Documenti che rivelavano come nell'autunno del 2008 il Dipartimento di Stato
avesse invitato a Washington diversi blogger e oppositori di Mubarak, intenzionati
creare un'Alleanza democratica, che aveva come obiettivo finale quello di provocare un
cambiamento di regime. Quando? Nel 2011, prima delle elezioni presidenziali. Scoop
che che il governo Usa ha minimizzato e contestualizzato.

Però chiedetevi: chi ha dato, politicamente, il colpo di grazia a Ben Ali? E chi ha messo
alle corde Mubarak? Sempre Barack Obama, il quale oggi al Cairo può contare
sull'esercito e sul vice presidente, un altro generale, Suleiman; il vero uomo forte.
L’analogia con Tunisi è eclatante.
Tutto quadra. Oggi. Domani, chissà; perché in Tunisia l’influenza dei fondamentalisti
islamici è impalpabile, mentre in Egitto i Fratelli Musulmani sono molto popolari e in
passato hanno dimostrato di saper muovere le piazze, all’occorrenza usando le armi.
Questo rende il finale più incerto, ma non cambia l’analisi complessiva.

Esiste un’evidente continuità strategica tra Bush e Obama. E anche operativa. Gli
incontri al Dipartimento di Stato si svolsero nell’autunno del 2008, quando Obama era
ancora in campagna elettorale. Dunque in queste ore il democratico Barack ha esercitato
un’opzione elaborata dal suo predecessore, il falco George. Ma non ricordateglielo. Si
arrabbierebbe.

La rivoluzione maghrebina e la superficialità della stampa


Scritto da Marcello Foa in Giornalismo sui Media il 22 febbraio 2011

Corriere del Ticino, 22.02.2011

Ci siamo emozionati tutti vedendo le immagini del Cairo e di Tunisi. E l’opinione pubblica
mondiale, ascoltando le testimonianze degli inviati in Egitto e in Tunisia, si è convinta che le
rivoluzioni fossero irrefrenabili e, soprattutto, spontanee. Si è stabilito un “frame” ovvero una verità
che tutti hanno adottato, senza nemmeno chiedersi se fosse attendibile. Ma se si analizza la
situazione da una prospettiva diversa, considerando sia le tecniche di comunicazione più sofisticate
che il contesto politico internazionale, emerge un’altra verità, più credibile.

Premessa: alla fine degli anni Novanta il governo americano ha deciso di far proprie e, soprattutto,
di applicare le teorie di Gene Sharp, un docente di Harvard, che per anni ha teorizzato, inascoltato,
la lotta non violenta quale strumento per rovesciare le dittature. Poi, alla fine degli anni Novanta, il
governo americano decise di provare l’efficacia delle sue teorie. Aggiungendo un elemento che lo
stesso Sharp non aveva contemplato: l’organizzazione e il supporto esterno della lotta non violenta.
Nacque così una nuova strategia – non convenzionale – da usare nello scacchiere internazionale.

Il primo test fu condotto a Belgrado, nell’ottobre del 2000, quando la coraggiosa protesta degli
studenti serbi costrinse Milosevic alle dimissioni. Quel movimento fu ispirato dallo stesso Sharp,
ma organizzato e finanziato da organizzazioni non governative, enti privati e filantropici, che pur
essendo indipendenti agivano d’intesa con Washington. Fu un successo, a cui seguì la rivoluzione
rosa di Tbilisi e, soprattutto, quella arancione di Kiev. In tutte e tre le occasioni i media descrissero
straordinarie rivoluzioni spontanee. Nessuno si accorse di un retroscena cruciale, oggi noto agli
esperti di comunicazione, ovvero che furono incoraggiate e instradate da fuori. Dunque spontanee
non erano.
Dopo il 2005 la formula “Sharp” fu accantonata ed è resuscitata solo in questo impetuoso 2011,
come risulta da molti indizi concordanti. Il Daily Telegraph, ad esempio, ha scoperto – è non è stato
smentito – che gli oppositori egiziani del movimento 6 aprile oggi esaltati come i coraggiosi
condottieri anti-Mubarak usciti dai blog, dai social network , nell’autunno del 2008 parteciparono a
un incontro a Washington al Dipartimento di Stato, durante il quale discussero di una rivoluzione
democratica da far esplodere proprio nel 2011. Il New York Times ha pubblicato un documento che
dimostra come lo stesso Obama, oltre 6 mesi fa, incaricò i suoi esperti di formulare proposte per
indurre al cambiamento politici regimi autoritari nel mondo islamico, sfruttando il malcontento
delle folle. Lo stesso Sharp ha ammesso, in un’intervista, di essere l’ispiratore di quanto accaduto in
Egitto e in Tunisia. Aggiungete il ruolo di Ong americane in Tunisia e in Egitto, il sostegno
decisivo degli eserciti di questi due Paesi, lo stanziamento della Clinton di nuovi ingenti
finanziamenti per diffondere via internet la democrazia nei Paesi autoritari e il quadro è completo.

Washington, per ovvi motivi di opportunità, non può ammettere più di quanto abbia detto finora.
Spetterebbe alla grande stampa spiegare cos’è successo davvero a Tunisi al Cairo, amalgamando
notizie e dichiarazioni frammentarie e apparentemente scollegate. Ma ancora una volta si dimostra
troppo dipendente dalle fonti ufficiali, troppo superficiale per capire le sottigliezze dello spin,
troppo frenetica nella caccia all’ultima notizia. Cattura qualche dettaglio, mai il quadro d’insieme.
Non riflette e non approfondisce. E così fallisce.

29-01-11 EGITTO: WIKILEAKS, SOSTEGNO SEGRETO USA A CAPI RIVOLTA  

(ASCA) - Roma, 29 gen - Gli Stati Uniti sostengono segretamente i capi della rivolta egiziana
contro il presidente Hosni Mubarak. E' quanto si legge sul sito del quotidiano britannico ''The
Telegraph'' che riporta un documento diplomatico dell'ambasciata Usa al Cairo, datato 30 dicembre
2008 e pubblicato dal sito ''Wikileaks''. In un dispaccio l'ambasciatrice americana Margaret Scobey
evidenzia che presunti gruppi di opposizioni avevano elaborato programmi segreti per il
cambiamento di regime che doveva avvenire prima delle elezioni, previste per il settembre di
quest'anno e aggiungendo che un giovane attivista del movimento ''6 aprile'', il cui nome viene
omesso, e' stato aiutato dalla stessa ambasciata a partecipare a un incontro a Washington di
dissidenti (Alliance of Youth Movements Summit), promosso dal Dipartimento di Stato, con esperti
e funzionari del governo americano.

Al suo ritorno al Cairo, nel dicembre 2008, il ragazzo riferi' ai diplomatici americani che si era
formata un'alleanza fra gruppi di opposizione con un piano per rovesciare nel 2011 il governo del
presidente Mubarak. Il dispaccio prosegue affermando che diverse forze di opposizione egiziane
avevano raggiunto un accordo per appoggiare un piano non scritto per una transizione verso una
democrazia parlamentare che desse meno poteri al presidente.

Le proteste in Egitto, si legge infine sul quotidiano online, si sono determinate tramite il movimento
''6 aprile'', un gruppo su Facebook che ha attratto i membri giovani e istruito contrari al regime di
Mubarak. Il gruppo ha circa 70.000 membri e utilizza i luoghi sociali della rete per disporre le
proteste ed il rapporto sulle loro attivita'.

map/mcc/alf

16/2/2011 Internet e libertà d'espressione


FEDERICO GUERRINI Gli Stati Uniti, un
anno dopo le critiche alla Cina per il tentativo di censurare Google, e nei giorni immediatamente
seguenti alla crisi del regime egiziano in cui per la prima volta un governo ha deciso di “spegnere”
temporaneamente Internet, sono tornati ad ergersi a paladini della libertà di espressione in Rete.

Lo hanno fatto per bocca del segretario di Stato Hillary Clinton che, in un discorso alla platea della
George Washington University ha sottolineato come nell’epoca in cui alla piazza cittadina si è
sostituita quella telematica, si debba fare delle scelte per consentire ai cittadini la possibilità di
confrontarsi e associarsi. Si può adottare un approccio aperto, caratteristico delle democrazie o uno
più restrittivo, simile a quello in vigore in Cina, Iran, Siria e altrove.

“E per gli Usa – ha detto Clinton – la scelta è chiara; noi ci poniamo dalla parte dell’apertura. La
libertà di Internet causa delle tensioni, come tutte le libertà, ma i benefici superano i costi”. La vice
di Obama ha poi proseguito stabilendo un parallelo fra libertà di espressione in Rete e crescita
economica e sostenendo che le nazioni in cui la dinamicità di Internet è frenata da muri e censure,
avrebbero presto pagato un prezzo in termini di minore creatività e innovazione.

È stato un discorso molto accalorato e vibrante, quello della Clinton, in larga parte condivisibile. Il
volo retorico della segretaria, così efficace nel criticare i governi esteri, ha però mostrato delle crepe
al momento di affrontare il controverso atteggiamento degli Usa nei confronti di Wikileaks e, più in
generale, se confrontato con la reale politica americana per quanto riguarda la sorveglianza
telematica delle comunicazioni all’interno dei suoi confini.

Per quanto riguarda i cable, Clinton ha ribadito trattarsi di informazioni trafugate illegalmente e ha
negato qualsiasi coinvolgimento dell’amministrazione Obama nella decisione di Amazon,
Mastercard, Visa e Paypal di sospendere gli account facenti capo ad Assange. “Tali aziende – ha
detto – hanno agito in questo modo unicamente perché sono stati violati i termini d’uso dei loro
servizi”.

Un’affermazione poco credibile, tanto più poiché giunta nello stesso giorno in cui, davanti a una
corte della Virginia, alcuni legali degli attivisti per i diritti civili, cercavano di opporsi alla richiesta
del governo di accedere agli account Twitter di vari esponenti di Wikileaks e di leggere i loro
messaggi privati. Pare che un’identica richiesta sia stata presentata a Google e Facebook, anche se
mancano conferme ufficiali.

Il giorno prima la Camera dei Rappresentanti aveva approvato la proroga fino a dicembre di tre
provvedimenti contenuti all’interno del Patriot Act varato da Bush. Chiamati “roving wiretaps”,
“lone wolf” e “business records”, consentono a vario titolo all’Fbi e al governo di monitorare e
intercettare le comunicazioni di privati e aziende, senza nemmeno dover giustificare tali atti con
accuse puntuali e mirate.
E nei piani dell’amministrazione Usa pare esserci l’estensione della possibilità di intercettare le
comunicazioni, già richiesta ai provider e alla grandi compagnie telefoniche, anche ai servizi
criptati come quelli offerti da Blackberry e Skype.

Tutte situazioni che hanno valso alla Clinton, da parte soprattutto dei commentatori liberal
statunitensi, l’accusa di adoperare una doppia morale nel trattare l’argomento della libertà di
espressione su Internet. Mani libere quando si tratta del governo Usa, severi standard di
comportamento per tutti gli altri. E questa volta non servirebbe nemmeno un leak per valutare
quanto gli atti corrispondano alle parole.

GHEDDAFI/ Video, il discorso del leader alla


Libia, "Morirò da martire"
martedì 22 febbraio 2011

Foto Ansa

GHEDDAFI VIDEO DISCORSO - Muammar Gheddafi ha tenuto un discorso in diretta tv alla


nazione libica. Mentre parlava, i manifestanti nelle strade di Tripoli venivano bombardati e uccisi.
Ormai si parla di più di mille morti, una strage. Gheddafi si è fatto filmare nelle rovine della sua
casa, bombardata dagli americani nel 1986 e da allora una sorta di museo nazionale. I toni infuocati,
ha promesso qualche riforma ma anche la repressione della rivolta. "Se fossi stato presidente vi
avrei già sbattuto in faccia le mie dimissioni" ha detto.

"Ma ii sono un leader rivoluzionario resisterò fino alla fine e morirò da martire". Altri passaggi del
suo discorso: "Vogliono rovinare la vostra immagine nel mondo. La vostra immagine è distorta nei
mass media arabi per umiliarvi. iI sono un rivoluzionario. Ho portato la vittoria in passato e di
questa vittoria si è potuto godere per generazioni. Resterò a capo della rivoluzione fino alla morte".

Ancora: "Scendete nelle strade e proteggetele da questi ratti se mi amate: io sono l'uomo che ha dato
prosperità al paese, e che gli ha restituito il petrolio che ci veniva portato via. Chi attacca e viola la
costituzione verrà punito - assicura il colonnello - Quelli che vogliono cambiare, devono morire.
Quelli che usano armi, devono essere giustiziati. Chi attacca un comando militare, deve essere
punito con l'impiccagione. Chi esegue atti allo scopo di fare una guerra civile, verrà punito con
l'impiccagione".

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