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Olivier van Beemen – Heineken in Africa

Saggi

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Autore: Olivier van Beemen
Traduzione: Stefano Musilli
Pagine: 336
ISBN: 9788867832613
Prezzo libro: 16.00 €
Prezzo ebook: 7.99 €
Data di uscita: Febbraio 2020

La miniera d’oro di una multinazionale europea


Per Heineken, la crescita dell’Africa è già una realtà: i profitti che ne ricava sono quasi il 50%
superiori alla media globale. La multinazionale, che lì ha oltre quaranta birrifici, sostiene che la sua
presenza favorisca lo sviluppo economico nel continente. Ma è vero?

Olivier van Beemen, inviato in Tunisia per un reportage sulla caduta del presidente Ben Ali durante
la rivoluzione dei gelsomini, scopre che la multinazionale collabora con un uomo d’affari legato al
dittatore. Era una notizia relativamente marginale, ma se la multinazionale smentiva con tanta
enfasi, cosa si nascondeva negli altri Paesi?

Dopo sei anni di ricerche, la risposta è sconvolgente. Nell’armadio africano, Heineken ha alcuni
scheletri scioccanti: elusione fiscale, abusi sessuali, legami con il genocidio e violazioni dei diritti
umani, corruzione, connivenza.

Ogni «capitolo di viaggio» è seguito da un capitolo tematico con un contesto più ampio: come la
multinazionale ha influito sulle economie e sulle società locali, quali considerazioni fare quando si
produce birra in tempo di guerra o in un regime dittatoriale?

«Un libro che ci racconta come un comportamento aziendale irresponsabile impedisce lo sviluppo
di un continente.» – African Business

«Un racconto critico sulla produzione della birra che arriva al cuore di cosa significhi fare affari in
condizioni di mercato difficili. Un libro provocatorio.» – Financial Times

«Van Beemen con rigore e precisione elenca gli eccessi e le tribolazioni di Heineken in Africa.» –
Le Monde

«Una narrazione leggibile, sfumata e critica che racconta del comportamento di una multinazionale
in Africa. Van Beemen utilizza uno stile posato e una ricerca meticolosa. Un libro eccellente.» –
Aidnography Blog
La produzione di Heineken nel birrificio Bralirwa Ltd a Gisenyi, Ruanda, 18 gennaio 2019. (Jean
Bizimana, Reuters/Contrasto)
Commercio

Il posto speciale dell’Africa nell’impero della


Heineken
Olivier van Beemen, Africa is a Country, Stati Uniti
23 aprile 2020
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Nei Paesi Bassi c’è un segreto che circonda un marchio di birra locale noto in tutto il mondo. Solo
noi olandesi sappiamo che la Heineken è in realtà un prodotto di qualità media, senza infamia e
senza lode. Berne una è un po’ come mangiare un hamburger di McDonald’s: ha un gusto che non
dispiace e si può anche desiderare di consumarne di più, ma è risaputo che non è il massimo e che
poi ci si potrebbe pentire.

Eppure, grazie a decenni di campagne pubblicitarie di successo, in tutto il mondo c’è gente convinta
che la Heineken sia una birra “premium”, e molti sono disposti a pagarla come tale. La considerano
la birra dei vincitori della Champions league e delle gare di Formula uno, due grandi eventi sportivi
sponsorizzati dalla multinazionale. È una bevanda dalla raffinata aura cosmopolita.

Perfino l’agente segreto James Bond alterna una bottiglia verde di birra amsterdamese al suo
classico vodka Martini. Secondo Freddy Heineken, ex amministratore delegato ed emblema
dell’azienda, “la gente non beve birra, ma marketing”.

Liberismo pubblicitario
Nell’impero globale della Heineken, l’Africa occupa un posto speciale. Non solo la multinazionale
prevede una crescita sostanziosa grazie agli utili realizzati nelle economie emergenti del continente,
ma già oggi da qui trae profitti sostanziosi. Secondo i dati disponibili, l’Africa genera per la
Heineken incassi più alti del 42 per cento rispetto al resto del mondo. La Nigeria è uno dei tre
mercati più importanti per la multinazionale, prima ancora di grandi paesi occidentali come gli Stati
Uniti, il Regno Unito e la Francia.

Come altrove, in Africa il marketing è importantissimo, e per la gioia del settore in molti paesi
africani i limiti alla pubblicità sono quasi inesistenti. Ecco qualche esempio.

A Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo, il logo della birra campeggia
perfino all’ingresso di una stazione di polizia, di alcune farmacie e sugli scuolabus. In diversi paesi
il logo è dipinto anche sulle pareti delle scuole elementari ristrutturate dall’azienda. E a Lagos, in
Nigeria, la Heineken ha organizzato varie conferenze su birra e salute in cui si spiegava che il
consumo di birra aumenta la speranza di vita, previene patologie e rende più belli. Si raccomandava
di consumare un litro e mezzo di birra al giorno per godere di tutti i presunti benefici della bevanda.

Ambasciatrici del brand


Heineken impiega migliaia di ragazze che promuovono la sua birra in bar e club sparsi in tutto il
continente. Un tempo si chiamavano “promotion girls”, mentre oggi l’azienda le definisce
“ambasciatrici del brand”. Molte di loro subiscono abusi sessuali sul lavoro: sono vittime di
palpeggiamenti o ricevono pressioni per andare a letto con i superiori se vogliono ottenere o
mantenere l’impiego, e/o per prostituirsi a fine turno in modo da arrotondare i loro magri guadagni.

Nel 2019, quando ho svelato le diffusissime pratiche di abuso di cui erano oggetto queste donne, la
Heineken ha promesso un rapido miglioramento. Se non fosse riuscita a garantire buone condizioni
di lavoro in un certo paese entro tre mesi, avrebbe cessato le sue attività promozionali in quel paese.
Ma quando ho scoperto che, alla scadenza del termine autoimposto, in Kenya non era cambiato
nulla, la multinazionale ha rotto la promessa e continuato semplicemente a esporre le donne alle
molestie.

Ho scoperto che il produttore di birra numero due al mondo è coinvolto in pratiche illecite e in
numerosi presunti crimini
Non solo: anziché assumersi la piena responsabilità della situazione, l’attuale amministratore
delegato di Heineken, Jean-François van Boxmeer, ha puntato il dito contro le agenzie interinali che
assumono le “ambasciatrici” nella maggior parte dei paesi. “Non possiamo controllare tutto”, ha
dichiarato in un’intervista al quotidiano finanziario olandese Het Financieele Dagblad. A proposito
dei vestitini succinti che mettono a disagio molte ragazze, ha detto: “Dovrebbero andarsene in giro
con un sacco di patate? Potremmo discuterne all’infinito”. Van Boxmeer ha poi citato le “enormi
differenze culturali” tra i vari paesi. L’ad considera il #MeToo “un fenomeno occidentale”.

L’anno scorso, all’assemblea degli azionisti di Heineken, Van Boxmeer ha ammesso pubblicamente
di aver avuto una relazione con una ragazza “ambasciatrice” negli anni novanta, quando era
direttore della filiale a Kinshasa. L’ha definito un “rapporto d’amore consensuale” e – fatto
interessante – è stato applaudito dai presenti. La confessione non ha avuto conseguenze sulla sua
posizione.

Il trattamento delle promotrici è solo uno dei molti esempi della controversa condotta
imprenditoriale di Heineken in Africa. Dopo oltre sei anni di indagini sulle operazioni della
multinazionale nel continente, ho scoperto che il produttore di birra numero due al mondo
(preceduto solo da Anheuser Busch Inbev) è coinvolto in pratiche illecite strutturali e in numerosi
presunti crimini, tra cui casi di frode e corruzione di alto livello. Attraverso una filiale belga, la
Heineken ha congegnato un sistema per eludere il fisco.

Questione d’immagine
Nel mio libro affermo che la multinazionale potrebbe essersi resa complice di crimini contro
l’umanità. In Burundi le attività della Heineken rappresentano il 10 per cento del pil e più del 30 per
cento delle entrate fiscali. Dunque possono essere considerate un pilastro e salvagente del regime
autoritario di Pierre Nkurunziza; nella Repubblica Democratica del Congo ha collaborato con il
gruppo armato ribelle Rassemblement congolais pour la démocratie ed è stata fonte di
finanziamento per un altro gruppo ribelle, l’M23; in Ruanda ha rivestito un ruolo importante nel
genocidio del 1994. All’epoca, la Heineken mantenne aperti i birrifici in Ruanda, pur sapendo che
la birra era usata come ricompensa e per motivare gli assassini. E ha continuato a pagare le tasse al
regime che commise il genocidio.

Il suo contributo alla crescita, all’occupazione e allo sviluppo nella maggior parte dei paesi è
trascurabile o probabilmente negativo, se si prendono in considerazione i costi per le economie e le
società locali.

Malgrado tutto, la Heineken gode di una reputazione eccellente per le sue attività africane. O
almeno, così è stato fino all’uscita del mio libro. L’azienda ha convinto governi, partner
commerciali, ong e altre parti in causa dell’assoluta bontà della sua presenza per i paesi ospitanti:
secondo la Heineken vincevano tutti. Per sottolinearlo, la multinazionale usa slogan come
“Distillare un mondo migliore” o “Crescere insieme in Africa”. Ha creato la Heineken Africa
foundation, un’organizzazione benefica che spende poco più di un milione di dollari all’anno per
“colmare il divario tra ricchi e poveri in Africa”. Mi è tornato in mente il “segreto olandese” della
Heineken. L’azienda che ha saputo trasformare una birra di qualità media in un prodotto apprezzato
in tutto il mondo, è riuscita anche a presentarsi come una benefattrice per l’Africa, nonostante i suoi
precedenti.

A ben vedere la Heineken sta utilizzando la stessa ricetta, fatta di marketing e propaganda, e negli
anni si è creata una reputazione positiva in Africa.
Il continente è dipinto come un campo minato: gli africani sono poveri, quindi non possono
comprare tanta birra quanta se ne compra altrove; le infrastrutture sono carenti, perciò è difficile
distribuire il prodotto; i bassi livelli di istruzione complicano la ricerca di personale qualificato.
Eppure, quasi per miracolo, la Heineken fa buoni affari, sostenendo di agire nel rispetto di tutte le
leggi e le direttive internazionali. Nella sede centrale di Amsterdam, un ex manager ha parlato di
“un’isola di perfezione in un mare di miseria”.

L’articolo continua dopo la pubblicità

Benché di certo in molti paesi africani non manchino gli ostacoli, la Heineken tace il fatto che sono
proprio quegli ostacoli a rendere l’Africa tanto attraente. La povertà e le strade accidentate fanno sì
che i concorrenti ci pensino due volte prima di provare a inserirsi nel mercato, e a una minore
concorrenza corrispondono maggiori profitti. I bassi livelli di istruzione e la mancanza di regole
chiare sulla pubblicità aiutano la Heineken a convincere i consumatori che bere birra fa bene alla
salute.

Oggi molti governi occidentali sperano che le multinazionali possano essere dei volani dello
sviluppo. Quello degli “aiuti al commercio” è un nuovo mantra, e la Heineken ha ricevuto milioni di
dollari in sussidi governativi per i suoi investimenti africani. Una parte importante di questi sussidi
proviene dall’Usaid, l’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale.

La Heineken continua a crescere in Africa creando ricchezza, soprattutto per gli azionisti
occidentali.

(Traduzione di Stefano Musilli)

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ItaliaOggi - Numero 042   pag. 4  del 20/02/2020

politica

Torre di controllo

Un libro-inchiesta sulla Heineken in Africa rivela verità scomode sulla corruzione dei dittatori,
che provoca miseria e migrazioni

di Tino Oldani

Cerco in libreria qualcosa di nuovo da leggere. Mi cade l'occhio su un volume intitolato Heineken in Africa.
Sottotitolo: La miniera d'oro di una multinazionale europea (Add Editore, di Torino). Lo apro a caso, e a
pagina 152, nel capitolo dedicato allo stato del Burundi, leggo: «La somma mensile versata da Brarudi (la
filiale locale di Heineken) per le accise viene utilizzata per pagare i dipendenti pubblici: me lo conferma il
ministro delle finanze. Ciò significa che gli agenti di polizia, i soldati e i membri dei servizi segreti che
opprimono la loro stessa gente, commettendo crimini contro l'umanità, sono pagati da Heineken».
Rimango incredulo: Heineken è la multinazionale olandese della birra che fa da sponsor alla Champions
League, il suo marchio compare in tv prima e dopo ogni partita del massimo torneo europeo di calcio (due
miliardi di euro i premi in palio), e sarà così fino al 2023 in virtù di un recente accordo con l'Uefa. La birra
che finanzia il calcio e i dittatori africani?

Nel dubbio, pago 16 euro per il libro e mi precipito a leggerlo. L'autore è un giornalista olandese,
Olivier Van Beemen, che nel 2011 era corrispondente in Francia del quotidiano olandese
Financieele Dagblad. Spedito allora in Tunisia per un reportage sulla caduta del presidente Ben Alì,
scrisse che la Heineken collaborava con un uomo d'affari legato al dittatore appena deposto. Una
notizia marginale nel reportage, visto che anche altre aziende europee facevano affari con il clan di
Ben Alì e della moglie. Ma la Heineken si affrettò a smentire con enfasi la notizia. Il giornalista ne
fu colpito, tanto da chiedersi se la multinazionale della birra avesse rapporti simili con i capi di
Stato di altri paesi africani.

Risultato: partendo da quella semplice curiosità, il reporter Van Beemen ha speso sei anni per
indagare a fondo sulla presenza in Africa della Heineken, seconda produttrice di birra al mondo.
Grazie a tre borse di studio per il giornalismo indipendente, assegnategli da enti pubblici e privati
olandesi, ha potuto recarsi e soggiornare in 13 paesi africani e fare più di 400 interviste. In pratica, è
stato in quasi tutti i 16 paesi in cui la Heineken è presente con 40 birrifici, dove produce quantità
sufficienti non solo per il consumo locale, ma anche per l'export negli altri paesi africani. Un
business più che legittimo, di cui in Africa la Heineken è la regina incontrastata da 60 anni, con
margini di guadagno elevati.

Van Beemen, che ha intervistato anche i dirigenti della Heineken, precisa che la produzione di birra
in Africa frutta il 50% più che altrove: «Heineken lo sa meglio di chiunque altro. Data la scarsa
concorrenza, in molti paesi africani il prezzo di una bottiglia di birra è appena più basso se non
addirittura più alto che in Europa, a fronte di costi di produzione inferiori. E alcuni mercati, come la
Nigeria, sono tra i più lucrosi al mondo». Tanto è vero che l'amministratore delegato di Heineken,
Jean-Francois van Boxmeer, definisce l'Africa «il segreto meglio custodito dell'imprenditoria
internazionale».

Benché povera, la popolazione africana è infatti una grande consumatrice di birra. Tanto che in
alcuni paesi, specie quelli poveri di materie prime e di petrolio, è proprio la produzione e il
consumo di questa bevanda a costituire il motore principale dell'economia locale. Primo fra tutti il
Burundi, che è retto da una dittatura sanguinaria. Dopo la guerra civile tra le etnie hutu e tutsi
(1993-2005), costata più di 300 mila morti, nel 2005 fu eletto presidente Pierre Nkurunziza, che poi
ottenne un secondo mandato, oltre il quale non poteva andare per dettato costituzionale. Ma nel
2015, grazie alla nomina del presidente della corte costituzionale a capo della Brarudi (la filiale
Heineken), Nkurunziza ebbe una proroga e mantenne il potere, tra le proteste dell'Onu, della Ue e
dell'Unione africana.

Scrive Van Beemen: «Un giudice supremo nel consiglio d'amministrazione di una filiale: non c'è un
conflitto d'interessi? La sede centrale rifiuta di rispondere alla domanda. Heineken cerca soprattutto
di non contrariare Nkurunziza, e il presidente è a sua volta consapevole di dipendere dalle casse
dell'azienda».

Il 30% delle entrate fiscali del Burundi proviene dalle accise sulla birra. «E quando il regime era a
corto di liquidi, Heineken veniva in suo aiuto regolarmente, versando acconti sui dividendi e sulle
imposte». Un fatto riconosciuto dall'ex ministro delle finanze: «Brarudi è la nostra mucca da
mungere; la nostra economia si basa su quell'azienda».
Vicende simili, come documentano i 15 capitoli del libro, caratterizzano i rapporti tra la Heineken e
i dittatori di altri Stati africani, dove la corruzione, il malgoverno e la povertà spingono migliaia di
persone a emigrare verso l'Europa. E a cacciarli non è tanto la guerra, come dicono i pro-migranti di
casa nostra, ma gli affari finora nascosti e i giochi di potere di una ricca multinazionale della birra.

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