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La coerenza plurale

dell’Identità

La figura di Socrate nella filosofia morale di


Hannah Arendt

di

Francesco Cristofori

Disegno/partitura di John Cage per Ryoanji (1985)


La coerenza plurale dell’Identità
La figura di Socrate nella filosofia morale di Hannah Arendt

di Francesco Cristofori

Prefazione

In una celebre intervista al talk show della Bundesrepublik dal titolo Zur Person
Hannah Arendt risponde incalzata dall’intervistatore. Quando questo chiede alla Arendt
come sia essere donna e filosofa questa risponde correggendo la domanda. Afferma che
lei non appartiene alla casta dei filosofi e che il suo mestiere è la teoria politica. Che fra
filosofia e politica, fra pensiero e azione esiste una tensione, una «spannung». È il 1963,
anno della pubblicazione de La banalità del male, in cui Arendt imposta la sua critica
alla nozione di male radicale che lei stessa aveva ereditato da Kant. Il «legno storto
dell’umanità» che Arendt sembra riprendere ne Le origini del totalitarismo, la sua prima
grande opera, in cui propone una lucida lettura del fenomeno del Terzo Reich e dello
Stato stalinista sovietico, sembra ora non calzare a quell’uomo così mediocre, incapace
di malvagità assoluta, di genialità, di abissalità. Un uomo senz’altro non buono e giusto,
ma che mancava di quel fascino dell’orrore che Arendt aveva visto
nell’incomprensibilità del fenomeno nazista. Propone una prospettiva differente:
l’orrore di Eichmann sta nella sua incapacità di pensiero. L’imputato Eichmann, durante
il processo a Gerusalemme che lo portò all’impiccagione, si difese con affermazioni che
sconcertarono Arendt: spiegò alla corte che il suo agire era frutto di una sorta di
dissociazione consapevole. Eichmann era consapevole di cosa aveva fatto e della
gravità, ma non si sentiva responsabile poiché era psicologicamente dissociato dalle sue
azione, cioè non ne era psicologicamente responsabile. Un ingranaggio nella macchina
burocratica dell’industria della morte, un operoso esecutore di ordini totalmente
alienato, de-personalizzato, dissociato.
Dopo The human condition, tradotto in italiano col titolo Vita activa, Arendt
rielabora il modello antropologico tipico della filosofia che intende l’uomo come
mortale, come essere per la morte e focalizza l’attenzione sulla natalità dell’essere
umano. L’uomo è quell’essente che nasce e che, nel corso della sua vita, crea e produce
innanzitutto senso attraverso la prassi politica. Il male radicale non era tanto una
macchia nera sul fondo dell’anima di ognuno, ma piuttosto una condanna auto-inflittasi
dall’essere umano stesso. È tempo di uscire da questo stato antropologico auto-punitivo.
Alla New School for Social Research Arendt tenne negli anni successivi una serie di
lezioni oggi racchiuse in un testo tradotto in italiano col titolo Alcune questioni di
filosofia morale1. Dopo lo scandalo sembra — come afferma Simona Forti
nell’introduzione all’edizione Einaudi — fare ritorno alla filosofia e ripensare
filosoficamente la banalità del male. Arendt pare ricostruire un legame che, come

1 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, Milano, 2015.

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accennato, sembrava essersi teso forse fino a spezzarsi: quello fra filosofia e politica, o
meglio, fra pensiero e azione. I temi da lei trattati finiranno poi per arricchire il volume
de La vita della mente2, ultimo testo, fino in fondo filosofico, prima della morte di
Hannah Arendt.
È qui che la figura di Socrate riemerge. Una lettura di questo che risulta
particolarmente creativa, come la filosofia di Arendt sembra essere nell’orizzonte
filosofico del dopoguerra. È compito di questo scritto delineare le caratteristiche del
Socrate arendtiano, cercando di approfondire i legami tra il filosofo dell’Atene classica
e Arendt e tra il periodo storico dell’uno e dell’altra. Sembra, ad una attenta analisi, che
i problemi e le questioni sollevate da Socrate e da Arendt siano analoghi, se non forse i
medesimi che Arendt, dopo il fallimento della filosofia, forse riapre e tenta di
rielaborare.

1.
La questione socratica

Come afferma da incipit Maria Michela Sassi nel suo recente scritto Indagine su
Socrate. Persona filosofo cittadino3, «Chiunque si accosti a Socrate deve fare i conti
con l’esistenza di una questione socratica.» Ci si riferisce al fatto che Socrate, come già
gli antichi riportano, non scrisse mai nulla. L’immagine che a noi è pervenuta è quindi
un’immagine mediata dall’interpretazione di altri e così è per la sua filosofia. È possibili
riferirsi al Socrate di Aristofane, commediografo che lo identificava con la sofistica più
becera del tempo, al Socrate dei dialoghi di Platone, che vedeva nel suo vecchio amico e
maestro l’esito infausto della democrazia ateniese e del suo seguente relativismo
culturale, oppure al Socrate di Senofonte. Oppure ancora al Socrate delle scuole
socratiche minori, quella dei cinici, ligi e severi che nel celebre Diogene che viveva coi
cani dentro una botte vedevano esempio di virtù, quella dei cirenaici, edonisti, oppure
quella dei megarici, abili nella dialettica.
Ma come è possibile che dal medesimo personaggio siano poi uscite fuori
interpretazioni tanto differenti? La Sassi tenta di rispondere a questa domanda,
mostrando come Socrate fosse propriamente un atópos, un senza luogo, o come lei
propone un eccentrico. La questione socratica è quindi aperta. Sembra si imponga una
decisione ermeneutica e anche l’interpretazione arendtiana di Socrate è particolarmente
controversa. Risulta chiaro dalle pagine de La vita della mente, che la sua non è una
interpretazione della figura storica. Nell’economia del discorso Socrate ha una funzione
di modello etico e teoretico, come lei stessa ammette 4.
Egli sembra incarnare il pensatore per eccellenza, colui che con pacificata e limpida
consapevolezza è il più sapiente fra tutti gli ateniesi poiché sa di non sapere nulla. Una

2 Ea. La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2017.


3 M. M. Sassi, Indagine su Socrate. Persona filosofo cittadino, Einaudi, Milano, 2016.
4 Ibidem, p. 262.

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ostetrica sterile, incapace di porre verità, come afferma nel Teeteto5, ma capace di far
nascere nuova vita e dare alla luce il neonato con la sua capacità di accompagnare al
pensiero. Sembra inoltre risaltare per contrasto una forma di agorafobia filosofica.
Come vedremo il pensiero per Arendt comporta sempre una solitudine, ma tale
solitudine non è mai egoica, mai statica, bensì dialogica, dinamica. Socrate, col suo
slancio polemico e ironico, rappresenta questa forma nuova del pensiero. Benché Arendt
parli di pensiero e non di filosofia, si fa fatica a immaginare che questa figura modello,
che molto ha a che fare anche col sapere aude e la figura di Kant, nulla c’entri con
l’ipotesi di una rinascita della filosofia e che per Arendt il collasso del sistema morale e
la crisi del sapere prima con Nietzsche e poi con la rilettura della metafisica come
Seinsgeschichte del suo maestro Heidegger non avessero nulla in comune. Il nuovo
filosofo dovrà aprirsi all’ ἀγορά e con una analisi dei simboli socratici, dal tafano alla
torpedine, Arendt indica anche l’etica filosofica che sembra delinearsi come una
tendenza alla critica, al disturbo, persino alla paralisi. Socrate è torpedine che paralizza,
poiché lascia interdetto l’interlocutore, ma è soprattutto tafano che stimola il cavallo di
razza troppo pigro dell’Atene democratica. Benché dunque il filosofo debba pensare
sempre più in una solitudine che non si chiude in sé, il pensiero però non è l’agire, anzi,
il pensiero è un estremo della dialettica fra pensiero e azione. Se la paralisi del pensiero
predispone all’agire, per Arendt l’agire non necessita di pensiero, allorché,
sfortunatamente, è possibile agire senza pensiero.
Ma dunque qual è l’interesse di Arendt in questa analisi della figura quasi mitologica
di Socrate e del suo pensare? La domanda è di natura eminentemente morale ed è la
domanda sulla coscienza morale. Se la coscienza morale è la facoltà di distinguere il
bene dal male, allora che origini ha? Da dove viene e soprattutto che rapporto ha con il
pensiero?
La figura di Socrate è sin dall’origine legata alla cultura sofistica del V secolo a.C.
Arendt si richiama spesso all’opposizione con una cultura che del relativismo culturale
ha fatto anche etimologicamente un senso profondo. I termini mores e ἒθος/ἦθος fanno
riferimento all’abitudine, alla consuetudine, all’abitare e al dimorare, quella che
nell’interpretazione contemporanea potremmo definire come una condizione
storicamente determinata, la quale, non ha un fondamento epistemico, cioè non ha
carattere universale — esigenza, quest’ultima, di carattere eminentemente filosofico.
Questa concezione relativistica e precaria della moralità è per Arendt già sintomo di
quello che poi sarà una sorta di compimento nel collasso morale che col
nazionalsocialismo avrà il suo punto più estremo. Socrate rappresenta la ripresa di una
domanda di verità morale che interroga dubbiosa sia da un lato la relativistica tendenza
che porta inevitabilmente al nichilismo e alla fine di ogni valore, sia il moralismo
conservatore che vede nella fede nei valori il punto di fuga della storia e quindi un luogo
sacro e inviolabile anche per la filosofia. Socrate, in questo caso Arendt stessa, è quel
sacrilego sileno che si fa beffa di chi crede di sapere tutto e sofisticamente utilizza il
proprio sapere a scopo utilitaristico o conservativo.
Quella attuata da Arendt è una sorta di seconda venuta, sia della filosofia nel senso
più radicale, poiché dalle radici della filosofia lei riparte, sia della rivoluzione

5 Platone, Teeteto, 149 - 149b 4-7.

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copernicana kantiana che, in un certo verso, rifonda la modernità, che dalle ceneri di
Hiroshima e dall’orrore di Auschwitz ora deve ripartire, macchiata dai suoi peccati
originali, in vista di una vita nuova.

1.1 La belle époque dell’Atene classica

La vicenda socratica è comprensibile solamente all’interno di una cornice storico e


culturale ben precisa: quella dell’Atene classica e Arendt questo non lo ignora. Sembra
invece che la vicenda della Guerra mondiale risuoni nella storia come ritorno
inquietante. Non è un caso infatti il parallelismo fra la vicenda storica di Arendt con
quella di Socrate. Cerchiamo ora di cogliere le analogie.
Nel VI secolo a.C. Atene, grazie al contributo di Solone, primo grande legislatore, e
poi con Clistene, aveva conosciuto una spinta rinnovatrice che traghettò la città dal
sistema oligarchico dell’areopago, il consiglio degli anziani aristocratici, verso una
struttura di governo più aperta alla partecipazione del démos, cioè del popolo. Solo con
il governo di Pericle però Atene vide la realizzazione di quella che verrà ricordata come
la prima forma di democrazia. Potevano partecipare alle assemblee pubbliche tutti i
cittadini maschi maggiorenni. Ne erano escluse le donne, che videro la propria
partecipazione garantita solo alla fine del XIX secolo, i giovani, gli schiavi, gli stranieri,
cioè coloro che erano privi di politéia, cioè di cittadinanza.
La democrazia ateniese coincise con l’egemonia marittima di Atene che con la Lega
delio-attica, stipulata fra Atene, Efeso, Mileto e Alicarnasso, garantiva alla città un
potere mercantile e politico, nonché militare fuori discussione. In questo clima esaltante
fiorirono forme culturali inedite come la tragedia attica il cui esempio più fulgido è
sicuramente Eschilo, la storiografia di Tucidide, la medicina di Ippocrate. Analogamente
il fiorire tecnologico sospinto dal vento tiepido della scienza positivistica garantì
all’Europa dei primi del Novecento una crescita economica inaudita, una innovazione
urbanistica senza precedenti e una democratizzazione sempre più marcata. Lo
sfruttamento delle colonie e la sempre maggiore tendenza allo scambio di merci a
livello globali decretarono la nascita di una prima globalizzazione e di quella che è stata
poi definita la belle époque. L’imperialismo e il colonialismo garantirono una crescita
economica agli stati europei e uno sfogo «pacifico» anche se non indolore delle frizioni
nazionalistiche. Essa termina solo con l’avvento della Grande guerra che aprirà la strada
al periodo critico che porterà alla devastazione della seconda guerra mondiale.

1.2 La tragedia attica e il suo sviluppo

Eschilo è sicuramente il fondatore indiscusso della tragedia attica. Lo muoveva un


forte spirito di devozione verso la mitologia antica e il pantheon olimpico. La sua
tragedia è solenne. La hybris umana, la tracotanza di chi crede di potersi innalzare oltre
le leggi della Necessità, oltre Thémis, viene punita, e l’ingiusto viene riportato all’ordine
cosmico che aveva violato. L’uomo è tragico nella misura in cui si accorge della
necessità che lo muove e non può fare niente per impedire l’avveramento della profezia.
Con Sofocle il bilanciamento è perfetto: la solennità e la ritualità della punizione del

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tracotante si unisce alla profonda analisi psicologica del protagonista. È con Euripide
che, come avverte Nietzsche, la tragedia attica entra in crisi. I personaggi sono
schiettamente empi e crudeli e la loro vicenda è talmente intricata da venire quasi
dimenticata dall’autore che spesso per risolvere l’intreccio deve ricorre al proverbiale
deus ex machina, cioè a una divinità che scioglie la storia e riesce a portare a
compimento l’opera la quale risultava anche all’autore inspiegabile, insensata. La vita è
presentata come un eterno avvicendarsi di avvenimenti luttuosi e il tutto senza un senso
profondo, senza un ritorno a sé della narrazione che in termine riporta al principio e
permette una comprensione unitaria della vicenda tragica. L’insensatezza del dolore di
Medea che cinicamente uccide i figli per vendicarsi sul marito, l’empietà e la vanagloria
di Agamennone che sacrifica la figlia Ifigenia ad Artemide per permettere alle sue
truppe di partire alla volta di Ilio, sono ben distanti dalle vicende della trilogia
dell’Orestea di Eschilo, in cui Clitemnestra che, nell’Agamennone, uccide il marito di
ritorno dalla guerra si macchia di quel sangue che trasmetterà al figlio Oreste, che nelle
Eumenidi verrà tormentato dalle Erinni. Una colpa che si tramanda che ha un inizio, che
ha un perché, che ha uno svolgimento e uno scopo. Addirittura nelle Eumenidi un
processo divino che decreta l’innocenza di Oreste e la fine della colpa. Nulla a che
vedere nemmeno con la devozione di quell’invocazione dell’Inno a Zeus, a
cominciamento dell’Agamennone, dove Eschilo invoca l’aiuto del dio «per cacciar via
con verità dalla mente il dolore che rende folli»6.
Uno stile quello di Euripide che gli costò l’accusa di ateismo — accusa non dissimile
da quella dell’amico Socrate — e che ben si concilia col nuovo clima culturale
dell’Atene classica in procinto di collassare sulla propria stessa gloria. La sua tragedia,
però, è perfettamente in linea con l’innovazione culturale dell’Atene classica.

1.3 La Guerra del Peloponneso, la sofistica e la crisi della morale

Verso la fine del V secolo a.C. Atene conobbe un periodo di forte subbuglio. La
creazione della Lega peloponnesiaca per opera di Sparta, che intendeva detronizzare
Atene, portò allo scoppio di una guerra tremenda che vide la vittoria dei lacedemoni. Un
avvenimento in particolare risulta esemplare. Tucidide lo riporta nella sua cronaca delle
guerre peloponnesiache e che è divenuto celebre come il passo del Dialogo fra i Meli e
gli Ateniesi. Viene descritto quello che doveva essere una sorta di negoziato fra Ateniesi
e Meli, abitanti di una piccola colonia che non si erano assoggettati ad Atene ed erano
rimasti neutrali durante il conflitto. Atene decide di impossessarsi di Melo e impone agli
abitanti un ultimatum: o la schiavitù o la distruzione. Durante il dialogo i Meli
affermano che questa proposta è profondamente ingiusta. Gli ateniesi rispondono così:

Crediamo infatti […] che ciò che è divino e ciò che è umano per necessità di natura comandi
sempre quando sia più forte: noi non abbiamo stabilito questa legge, né siamo i primi ad

6 Eschilo, Agamennone, 160-83. Con particolare riferimento all’analisi svolta da E. Severino nel
testo Il giogo, Adelphi, Milano, 1989, p. 21-25,

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applicarla dopo che era stata stabilita, ma l’abbiamo ricevuta quando già esisteva, ce ne
serviamo, e la lasceremo al futuro, nel quale esisterà per sempre.7

Tucidide parlava della guerra come il βίαιος διδάσκαλος, cioè il maestro violento,
capace di riportare al di fuori della situazione di benessere quotidiano e di «adattare i
sentimenti della folla alle esigenze del momento». Il maestro violento insegnò ancora
una volta e Melo venne distrutta. Gli uomini uccisi e le donne e i bambini resi schiavi.
Una concezione della giustizia come esercizio del potere che si legge chiaramente nelle
parole del retore Trasimaco, famoso perché con lui Socrate dialoga nella Repubblica di
Platone, quando decreta «Io sostengo che il giusto non è altro che l’utile del più forte»8.
Una distanza abissale dal conflitto di Antigone che nell’omonima tragedia sofoclea si
trova a dover violare il nómos della pólis per poter garantire la giustizia, cioè la
sepoltura al fratello morto. Una giustizia al di là delle leggi che si prende cura anche di
chi ha trasgredito a vincoli sacri come fece Polinice, fratello di Antigone. e che afferma
che chiunque deve essere sepolto. Una legge che vale sia per questo che per l’altro
mondo9 il cui carattere di universalità è ora sostanzialmente annullato dalle leggi
positive. Una legge naturale che però, stranamente, sembra fare eco ad un’altra legge
naturale, e cioè proprio quella degli Ateniesi contro i Meli. La legge del più forte.
Sofocle assimila e racconta un conflitto presente del diritto e della morale ateniese.
La guerra del Peloponneso traumatizza Atene e sconvolge gli equilibri della cultura
dell’epoca. In questo orizzonte nuovo così sconvolto dalla violenza della guerra la
cultura sofistica farà da padrona. La lezione protagorea per cui l’uomo è misura di tutte
le cose per cui la conoscenza è limitata alla sola forma dell’uomo, al di là della quale
non è possibile l’accesso. Ecco che il cuore calmo della ben rotonda verità di
Parmenide risulta ora una conoscenza che, come direbbe Kant, non ha contenuto di
esperienza. È una conoscenza vuota che non è a misura d’uomo. Gorgia invece
distruggerà l’ontologia parmenidea affermando che nulla esiste, se qualcosa esistesse
non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile.
Il cosiddetto relativismo sofistico è perfettamente reso dall’opera di questi due grandi
autori che con eccellente abilità oratoria rappresentavano la convinzione che la virtù
fosse soprattutto nella facoltà di convincere gli avversari dei propri argomenti grazie
alla dialettica e all’arte eristica.
Il trauma della guerra desacralizza Atene, rendendola un covo di coltissimi e
raffinatissimi oratori pronti spesso a qualunque cosa pur di guadagnare ottime somme di
denaro insegnando ai giovani aristocratici a diventare politici di successo o scrivendo i
discorsi di difesa degli ateniesi più abbienti. Il sofista diventa quindi il perfetto
intellettuale che vende la propria cultura, senza principi, poiché non esiste alcun
principio stabile o universale, se non la propria capacità di convincere e manipolare. Del

7 Tucidide, Le Storie, trad. di G. Donini, Utet, Torino 1982, vv. 136-141.


8 Trasimaco B6a, DK.
9 Sofocle, Antigone, vv. 450-451 «Nondimeno l’altro mondo esige leggi uguali» traduzione in
italiano di Maria Concetta Sala dal francese tradotto da Simone Weil del testo La persona e il
sacro, Adelphi, Milano, 2012.

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piacere di manipolare e di essere manipolati sembra intrisa Atene a quel tempo. È
difficile non fare il paragone tra il collasso della tradizione e l’avanzare del relativismo
sofistico nell’ambito dell’Atene classica e l’avvento del nichilismo nietzschiano della
fine del XIX secolo. L’età del progresso e la grandeur europea collassano su loro stessi
quando un filologo della Sassonia proclama per mezzo di Zarathustra che «Dio è
morto». Di lì a poco questo clima di profonda crisi collimerà con lo scoppio del
conflitto mondiale in seguito al quale le economie europee, dissanguate dallo sforzo
bellico, porteranno, specie nella sconfitta Repubblica di Weimar, a una stagione di
rivolte popolari contro il sistema economico capitalistico. Il biennio rosso 1919-1920
viene ricordato come una delle stagioni più intense. Specialmente il Partito comunista
tedesco e la sua leader carismatica Rosa Luxemburg fanno sospirare i cuori dei marxisti
rivoluzionari europei che, dopo la rivoluzione d’ottobre, vedevano nella teoria di Marx
ormai niente più che un fatto storico sostanzialmente compiuto. La presa del potere da
parte dei movimenti fascisti che presto si trasformano in partiti, il Partito nazionale
fascista e il Partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, muterà completamente la
prospettiva. La brutalità dei regimi fascisti e lo scoppio di una nuova guerra mondiale
porterà alla radicalizzazione di quella crisi, quella rottura morale che Arendt legge come
un vero e proprio collasso morale dell’Europa. Queste due vicende storiche investono
una situazione storica già particolarmente critica. Alla krísis determinata dall’emergere
dell’innovazione della politéia e della democrazia ateniese si aggiunge la krísis del
mythos, così come anche del lógos appena nato. Alla rottura del sistema dell’auctoritas
su cui si fondava sia la scienza che la morale medievale con l’avvento della scienza
moderna e poi dell’ideologia positivistica del progresso, con la morte di Dio sancita da
quel profeta del nichilismo che è stato Nietzsche, si aggiungerà poi la rottura totale di
qualsiasi centro di gravità assiologico che permettesse all’umano di essere tale.
La disumanizzazione attuata dai nazisti, con l’industria dei cadaveri di Auschwitz,
permise quelle azioni che, come loro stessi avevano compreso, nessun essere umano
sarebbe stato in grado di compiere. In entrambi i casi una situazione di rottura, di
passaggio, una messa in discussione della tradizione viene in un qualche modo
rielaborata in chiave cinicamente utilitaristica. Da una parte i sofisti manipolatori del
démos, potenti e forti agiscono le loro arti retoriche su una moltitudine affascinata dal
loro stesso essere in balìa delle parole, dall’altra il nazionalismo esasperato e il progetto
di conquista del mondo per mano della razza più forte, e quindi, più meritevole. Se si
leggono le parole degli ambasciatori ateniesi nei confronti dei Meli o del sofista
Trasimaco e si pensa all’influenza del pensiero di quell’ibrido ideologico che fu il
darwinismo sociale per il nazionalsocialismo, allora l’analogia risulterà più sensata di
quanto forse, a un primo sguardo, non appaia. La comparazione in senso assoluto però
certamente non regge. L’eccezionalità di Auschwitz che sia male radicale o banalità del
male, permane. Resta un fatto però che l’interesse di Arendt per Socrate sia anche
l’interesse per un periodo storico profondamente critico che vede una forma di
decadenza dell’ordine morale in un conteso di fioritura economica, sociale e culturale.
Una situazione storica che non può che richiamarci all’evento fondamentale del
pensiero arendtiano: il Novecento delle due guerre mondiali e soprattutto la Shoah.

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2.
ΤΙ ΕΣΤΙ
Arendt e l’interpretazione aristotelica della domanda socratica.

La parola «casa» è una sorta di


pensiero congelato che il pensare deve
disgelare ogni volta che voglia portarne
alla luce il significato originario.
Hannah Arendt

Nei dialoghi socratici il momento da cui parte la discussione è l’individuazione di un


argomento, la bellezza, la virtù, il coraggio, la conoscenza, che viene proposta come
domanda all’interlocutore. Quest’ultimo si trova spiazzato quando Socrate domanda:
«che cos’è?». Retori e illustri uomini di cultura si trovano in imbarazzo di fronte a tanta
decisione e spesso rispondono in modo inopportuno, elencando una serie di cose che
hanno la qualità di cui si sta parlando, ma che non sono la cosa di cui si sta parlando.
Ad esempio alla domanda di Socrate «che cos’è la bellezza» i suoi interlocutori
risponderanno «una bella orazione!» oppure «una bella suonatrice di aylós!» oppure «un
bel giovane!», insomma non la bellezza come concetto generale, bensì situazioni,
oggetti o persone che hanno la qualità della bellezza. Di questa impostazione della
domanda socratica è nota l’interpretazione aristotelica. Scrive lo Stagirita nella
Metafisica continuando il discorso sull’innovazione socratica che non occupandosi più
della natura nel suo intero decide di occuparsi delle cose dell’etica (tà ēthikà) «ma
nell’ambito di quelle, ricercava l’universale (tò kathólou), avendo per primo fissato la
sua attenzione sulle definizioni (horismōn).»10
Il termine utilizzato da Aristotele è horismōn che significa delimitazione, dal verbo
horízō che significa limito, definisco, segno un confine, con particolare riferimento alla
pratica del segnare i confini della competenza delle terre coltivabili in una società
contadina come quella greca arcaica. Secondo Aristotele la ricerca di Socrate avrebbe
quindi l’obiettivo di definire la cosa in discussione, di darne una definizione, quella che,
con lo studio proposto nell’Organon aristotelico della logica — con particolare
riferimento alla distinzione fra genere e specie —, è possibile fare. Alla domanda «che
cos’è l’uomo», ad esempio Aristotele risponderà «l’uomo è un’animale dotato di lógos»,
cioè è animale dotato di linguaggio o razionale, cioè dotato di quella parte dell’anima
definita razionale che nessun’altro animale possiede.
Questa concezione aristotelica del ti estí socratico come definizione è stata ripresa da
Nietzsche che vide in Socrate il fondatore del nichilismo; la sua tendenza ordinatrice e
razionalistica non è altro che la repressione degli istinti vitali, cioè della volontà di
potenza. La volontà di potenza sarebbe quindi negata nella definizione razionale e la
domanda «che cos’è?» non sarebbe altro che sintomo di ciò. Nel Crepuscolo degli dei

10 Aristotele, Metafisica, A6, 987b 3-4.

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egli si domanda se «La dialettica in Socrate è soltanto una forma di vendetta?»11 e vede
nel filosofo «la necessità di fare della ragione un tiranno.» 12
Hannah Arendt proporrà un’interpretazione molto diversa, quasi opposta. Ne La vita
della mente, reinterpreta la domanda socratica notando come i cosiddetti dialoghi
socratici, i dialoghi giovanili di Platone, in cui la figura di Socrate era più lucidamente
impressa nella mente dell’allievo e in cui il maestro è più presente, siano definiti anche
aporetici, poiché alla fine dell’opera non risulta una definizione, non emerge una
conoscenza ben definita della cosa presa in esame.

Ciò che in primo luogo colpisce nei dialoghi socratici di Platone è che sono tutti aporetici.
L’argomentazione o non porta in nessun luogo o ruota in cerchio su se stessa. […] Nessuno dei
lógoi, gli argomenti, sta mai fermo al suo posto: essi si muovono in modo circolare. E poiché è
Socrate che li mette in moto, formulando domande di cui non conosce la risposta, una volta che
le proposizioni siano tornate al punto di partenza, è lui che propone sorridendo di ricominciare
tutto da capo per indagare che cosa siano la giustizia, la pietà, la conoscenza, la felicità. […] In
breve il problema nasce con parole quali felicità, coraggio, giustizia e così via, ciò che noi ora
chiamiamo concetti (…) e a cui, di lì a qualche tempo, Platone attribuì il nome di idee
percepibili solo dagli occhi della mente. tali parole costituiscono parte integrante del nostro
linguaggio quotidiano , e tuttavia non siamo assolutamente in grado di renderne conto: non
appena cerchiamo di definirle, si fanno improvvisamente sfuggenti; non appena discorriamo del
loro significato , nulla resta più al suo posto, tutto comincia a muoversi. 13

Secondo Arendt il ti estí socratico non ha uno scopo preciso, quanto è piuttosto una
pratica, non un azione, come lei ci tiene a puntualizzare, ma il movimento del pensiero,
la vita della mente. La domanda socratica è una domanda che destabilizza, e se sul
primo momento irrita, come la puntura del tafano, o paralizza, come la torpedine, ma
appena l’interlocutore si lascia aiutare nel processi di gestazione il pensiero comincia a
muoversi e a roteare, dinamicamente, dando vita all’anima che si muove e nel suo
muoversi si osserva, si riconosce e può così raggiungere una forma di conoscenza di sé
e del mondo. Un processo dialettico che vede in un momento negativo il suo centro
piuttosto che nella realizzazione di uno scopo, che nella statica verità di una definizione.
Una verità invece che in movimento si forma e si deforma, sempre interrogata, sempre
discussa. Forse sempre discutibile. Un vento caldo capace di scongelare quei concetti
statici che si sono sclerotizzati nell’opinione collettiva.
Il pensiero e la sua dinamicità era mancato a quell’omino grigio, dissociato dal
proprio agire, Eichmann, che organizzò la deportazione di milioni di ebrei europei verso
una vita di morte e una morte senza resti nei lager nazisti e che nel processo che lo vede
imputato a Gerusalemme, descritto nel celebre La banalità del male da Arendt, si
giustificò affermando che egli non doveva che eseguire degli ordini e che non era
compito suo pensare alle conseguenze di quello che faceva.
Scrive Arendt:

11 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, contenuto in Opere di Friedrich Nietzsche edizione


italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, Volume VI, Tomo III, Adelphi, Milano, 1970, p. 66.
12 Ibidem, p. 67.
13 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, (1971)1, pp. 263-264.

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Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi
e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e
qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. […] Oltre ad aver
fatto quello che a suo giudizio era il dovere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche
agito in base a ordini (…), e perciò ora si smarrì completamente e finì con l’insistere
alternativamente sui pregi e sui difetti dell’obbedienza cieca, ossia dell’ “obbedienza
cadaverica”, Kadavergehorsam, come la chiama lui.14

Scopo preciso di Arendt è quello di mettere bene in chiaro come l’etica non possa
aver luogo nella mancanza di un pensiero dinamico e vivo, un virgulto che può
germogliare anche in un tronco marcio e ormai morto, che dal letame putrescente può
generarsi nuova vita, una vita della mente o, come forse direbbe Socrate, una vita della
psyché.
L’interpretazione nietzschiana non tiene conto dell’innovazione socratica che, forse,
confonde con un certo razionalismo moderno. Socrate non intendeva la limitazione di
una vitalità, di una spontaneità, quanto piuttosto una sua coltivazione alla luce però di
una consapevolezza più profonda ricavabile solo da un dialogo con l’anima che, nel
vortice dell’azione, si perde. Una solitudine dinamica, come vedremo
nell’interpretazione del due-in-uno, che si perde nell’etica della timé guerriera, quella
che dovrebbe riassumere una volontà di potenza, volontà di vita solo come negazione
dell’altro.
Qui io credo uno dei punti di distacco più decisivi tra Socrate e la sofistica. Se
quest’ultima è un co-prodotto della situazione di crisi profonda causata dal dissesto
sociale e culturale dovuto dalla Guerra del Peloponneso, allora il relativismo culturale
postmoderno, quello a buon mercato, — non di certo quello di altissimo livello che
pretende l’attenzione della filosofia — è effettivamente consono alla crisi che il
Novecento attraversò con le due grandi guerre e il devastante trauma derivato
dall’oscenità della Shoah dove uomini più che uccisero smontarono oggetti, tanto fu
lesa e forse perduta la capacità di riconoscimento delle anime umane e il conseguente
rispetto della dignità di esse. Socrate, come Arendt, sembrano rimettere insieme i pezzi
di un’antica, ma eterna anima dell’essere umano che per sua natura è destinata al
movimento più che alla staticità della scrittura, così delle leggi come delle definizioni.
Una verità dell’anima che vede la sua vita solo se allenata, stimolata, punzecchiata,
senza prendersi troppo sul serio, con ironia e sincerità. La definizione che segna i
confini non sembra di reale competenza dell’anima, la quale, come aveva già notato
Eraclito, sembra inaccessibile al lógos:

I confini dell’anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu proceda fino in fondo nel
percorrere le sue strade: così profonda è la sua ragione (lógos) 15

14 H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 2014,


(1964)1, p. 142.
15 Eraclito, B45, DK.

!10
3.
ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ
Conoscenza di sé socratica e vita della mente

Nella mia Unità si è insinuata una


differenza.
H. Arendt

Se uno spirito prigioniero ignora la


propria prigionia, allora vive nell’errore.
Se l’ha riconosciuta — seppure per un
decimo di secondo — e si è affrettato a
dimenticarsene per non soffrire, abita nella
menzogna.
Simone Weil

L’essere filosofo ha il suo punto di


partenza nel non avere un essere
determinato e se egli ce l’ha deve
abbandonarlo, è colui che lascia tutto.
M. Zambrano

Ne La vita della mente16 Arendt meglio approfondisce un tema socratico che già
precedentemente aveva accennato nelle lezioni alla New School.
Il celebre enigma delfico del «conosci te stesso» è poi col tempo divenuto motto
socratico per eccellenza e non solo in riferimento alla sua citazione nell’Eutidemo di
Platone, ma anche a causa di un suo legame essenziale con la concezione socratica del
pensiero. È proprio questo che Arendt apprezza ed esalta. Socrate concepisce
l’interiorità e la solitudine del pensiero come una sorta di auto-interrogazione. Lungi
dall’essere un narcisistico rivolgimento su di sé, il pensiero ha una dinamica aperta e
accogliente, critica e dubitante. Arendt interpreta soprattutto quella che chiama la teoria
del due-in-uno. Non concepisce la rivoluzione socratica come aveva fatto Nietzsche,
cioè come la definitiva perversione del pensiero nella metafisica e nel moralismo
razionalista, quella che dal «che cos’è» porta inesorabilmente alla definizione
dell’essenza aristotelica, anzi, al contrario la intende come una domanda che apre e che
lascia interdetti, una domanda che non ha lo scopo di definire, ma che nasce
dall’incontestabile verità del «sapere di non sapere», altro enigma delfico. Per Arendt il
sapere è essenzialmente legato a questa inquietudine interiore. Quello che si pensa è
sempre qualcosa che ancora non è saputo e che, proprio perché non è saputo, ossessiona
il pensiero che con moto circolare torna su di sé e si ri-interroga costantemente. La
tensione etica del pensiero è evidente laddove il mio sapere si interrompe proprio là
dove il pensiero ha l’audacia di osare, oltre i confini del fenomeno, oltre i mari in
tempesta e i ghiacci duri come rocce.
Con riferimento al Gorgia di Platone, Arendt analizza alcune sentenze di Socrate. La
prima recita «Patire un torto è meglio che commetterlo», la seconda «Personalmente,

16 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2017.

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sarebbe meglio suonare una lira scordata, dirigere un coro stonato e dissonante, e anche
che molti uomini non fossero d’accordo con me, piuttosto che io, essendo uno, fossi in
disarmonia e in contraddizione con me stesso.»17

Nel dialogo con Callicle, portatore di una morale della timé, dell’onore guerriero,
esponente aristocratico della giovane sofistica, Socrate contrappone l’idea che per il
filosofo, colui che ha cura per la verità, è meglio subire il male piuttosto che agirlo e
questo proprio perché, in armonia con il proprio io, il filosofo ha la necessità di agire in
base alla conoscenza del bene. Quello che più ad Arendt interessa è questa tensione
all’unità di un identità profondamente marcata dalla differenza. Citando Heidegger
Arendt propone l’idea che l’identità sia in sé una forma di dialettica interna che vede
una cosa prendere forma proprio perché delinea il suo péras, il suo limite, su di uno
sfondo che non è la cosa stessa, ossia l’identità emerge per un differimento con ciò che
non è l’identità. A questa concezione che Heidegger delinea in Identità e Differenza,
Arendt contrappone una ancora più radicale negazione dell’Identità nel pensiero. Il
pensiero è sempre due-in-uno e l’unica cosa che può frenare la forza della differenza è
l’imporsi della realtà:

Allora quando è richiamato per nome nel mondo delle apparenze, là dove è sempre Uno, è
come se nel pensatore, scisso in due dal processo di pensiero, la differenza si richiudesse di
colpo.18

Il richiamo a nozioni come quella dell’apparenza gioca un ruolo fondamentale. Senza


nulla togliere all’importanza del mondo della realtà, qui in un certo modo identificato
con il mondo fenomenico, il mondo del pensiero, quello noumenico, richiede una
differenza che è essenzialmente problematica per il mondo della realtà laddove le cose
sono sempre in una relazione con gli altri, ma mai con se stesse. Le cose sono
categoricamente loro stesse. Ecco che il principio di non contraddizione qui è
paradossalmente un principio più fisico che logico laddove la logica e il pensare è in se
stesso contraddizione, un luogo dove io è molti, dove io è perennemente in conflitto.

3.1 Dalla filosofia della natura alla filosofia dell’anima in Socrate

La filosofia di Socrate, come la possiamo leggere sia nei dialoghi platonici, sia nello
svolgimento poi delle cosiddette scuole socratiche minori, è molto diversa dalla
filosofia degli ionici, improntati alla ricerca dell’arché della physis, oppure degli eleati
così intenti nell’argomentazione dialettica sul tò eón, l’essente che è e non può non
essere. Non è infatti quella di Socrate una ricerca perì physeos, cioè sulla natura, bensì
un ricercare che spesso ha la forma della domanda rivolta su di sé. Un approccio che
ricerca la verità dell’anima piuttosto che della natura esterna. Un modo di fare filosofia
che diviene più un’etica che una teoria.

17Entrambe le citazioni sono citazioni dal Gorgia di Platone inserite da Arendt in Ibidem, p.
275.
18 Ibid. p. 280.

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Già Aristotele nel libro alpha della Metafisica scrive: «D’altra parte, Socrate si
occupava di questioni etiche e non della natura nella sua totalità».19 Allo stesso modo
Cicerone, nelle Tuscolanae disputationes ammette che l’insegnamento degli stoici,
filosofi a cui il grande oratore faceva riferimento, è frutto della grande svolta socratica; i
filosofi Diogene e Carneade, si trova scritto:

cercarono di conseguire nella vita più che negli scritti quella che è la più importante di tutte
le arti, cioè la scienza del vivere bene. Ecco perché quella vera e profonda filosofia che, derivata
da Socrate, perdura ancora oggi nei Peripatetici e negli Stoici […]. 20

La svolta etica della filosofia socratica è un passaggio dalla filosofia della natura alla
filosofia dell’anima e, come si vedrà poi con il fiorire delle grandi filosofie ellenistiche,
la possibilità di conoscenza e la natura della felicità, nonché il raggiungimento della
stessa, saranno tematiche centrali di qui in avanti.
Il due-in-uno è una vera e propria indagine dell’anima su se stessa che si dispiega in
un dialogo interiore. Scrive Arendt «Ciò che Socrate ha scoperto è che possiamo avere
rapporti con noi stessi, non meno che con gli altri, e che i due tipi di rapporto sono in un
certo modo connessi.»21 Per Arendt infatti il disaccordo con se stessi, come riportato in
passi dal Gorgia, è considerato da Socrate tipico degli abietti. Il filosofo deve tendere ad
armonizzare il sé col sé, a una coerenza che ricava dall’analisi si sé, nell’accordo fra
conoscere e agire. Ovviamente questa interpretazione tiene conto del Socrate platonico.
Per Platone l’anima, psyché, è una nozione fondamentale, mutuata dai pitagorici. La
verità è una verità ri-cordata, riportata all’anima, la quale in passato aveva già visto
(theoreîn) le idee, aveva già conosciuto la verità e deve quindi solo riportarla alla
memoria. È ben noto l’episodio del Menone, quando Socrate, stimolando un giovane
schiavo, dimostra come anch’egli avesse già le nozioni necessarie per poter dedurre il
teorema di Pitagora in autonomia.
Non possiamo sapere se il tema del ricordo della verità sia un’autentica tematica
socratica. Ci pare però che il tema del dialogo con se stessi sia fondamentale. Il dialogo
non è solo fra Socrate e i suoi interlocutori — gli sventurati ateniesi che incontrava per
la città e che infastidiva come un tafano, come lui stesso ricorda nell’Apologia di
Socrate — bensì anche un dialogo fra sé e sé. Uno sdoppiamento che è necessario per
l’anima che vuole conoscere se stessa. Ed è solo con la conoscenza di se stessi che è
possibile conoscere veramente la realtà: la conoscenza dell’anima appare come la
conditio sine qua non per la conoscenza della realtà.
È celebre, a proposito, il dialogo tra Socrate e Alcibiade nell’Alcibiade Primo:

Socrate: Se allora un occhio vuol vedere se stesso, bisogna che fissi un occhio, e quella parte
di questo in cui si trova la sua virtù visiva; e non è questa la vista? […] Ora, caro Alcibiade,
anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, dovrà fissare un’anime, e soprattutto quel tratto di
questa in cui si trova la virtù dell’anima, la sapienza, e fissare altro a cui questa parte sia simile?

19 Aristotele, Metafisica, A6, 987b 1-2.


20 Cicerone, Tuscolanae disputationes, IV.
21 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, (1971)1, p. 284.

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Alcibiade: Credo di sì, Socrate.
Socrate: Possiamo noi indicare nell’anima una parte più divina di quella ove risiedono la
conoscenza e il pensiero?
Alcibiade: Non possiamo.
Socrate: Questa parte dell’anima è simile al divino, e, se la si fissa, si impara a conoscere
tutto ciò che vi è di divino, intelletto e pensiero, si ha la possibilità di conoscere se stessi nel
modo migliore.22

Il movimento dell’anima che si rivolge su se stessa per poter scorgere quella scintilla
divina che le permetta l’apertura alla conoscenza della realtà. Questo passo è
probabilmente una rielaborazione del mito orfico-pitagorico dello smembramento del
dio Dioniso da parte dei Titani, dalle cui ceneri sarà poi creato l’uomo. L’uomo porta in
sé quella scintilla divina nell’anima, il suo organo di conoscenza.
Per Socrate il movimento dell’anima che conosce se stessa è il principio che permette
all’uomo di poter essere felice. Non esiste per Socrate infatti differenza fra conoscenza e
felicità. Il malvagio è sempre ignorante, poiché crede per sé buona l’azione cattiva che
compie. Conoscere è conoscere se stessi e dunque ciò che è buono per sé. Ma non in
senso sofistico e relativistico. L’anima anzi, sembra suggerirci Socrate nell’Alcibiade
primo, non è chiusa in sé, bensì è aperta all’altro poiché nell’altro rispecchia se stessa. Il
due-in-uno arendtiano non è da intendersi come un ego cogito cartesiano che chiude
l’identità all’alterità, bensì come un movimento dell’anima che si apre all’altro. L’anima
vede nell’altro se stessa e si riconosce e può nel dialogo che si apre alla dialettica nella
agorà giungere a una conoscenza sempre maggiore di se stessa.

3.2 La verità dell’anima e la medietà apollinea del filosofo

Ma cos’è che in ultimo conosce l’anima del filosofo che ha il coraggio di indagare se
stesso? Quale l’abisso che deve osservare senza cedere alla tentazione di distogliere lo
sguardo? Va qui ricordato il passo dell’Apologia di Socrate in cui l’imputato, accusato
di empietà e di corruzione dei giovani, racconta come egli venne a sapere che l’oracolo
di Delfi avesse decretato che lui fosse il più sapiente degli uomini.
Dopo aver tentato di mostrare agli uomini che egli non è sapiente come molti altri
sapienti del tempo, i quali si facevano pagare per impartire lezioni, come Gorgia,
Prodico, Ippia e Callia, chiama a testimonianza un teste del tutto particolare: Apollo, o,
come dice Socrate, tòn theón tòn en Delphoîs, il dio di Delfi. Afferma che un suo
vecchio amico, Cherofonte, ebbe l’ardire di domandare al dio se esistesse un uomo più
sapiente di Socrate. L’oracolo decretò che non esisteva. A questo punto Socrate
comincia a cercare tra gli uomini più sapienti e discutendo con loro nota come essi non
sapessero un bel nulla, proprio come lo stesso Socrate, solo che quest’ultimo era
consapevole della propria ignoranza.

22 Platone, Alcibiade primo, 128c-133c.

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Nel tornarmene via mi resi conto che sì, più sapiente di quell’uomo lo ero: forse nessuno di
noi due sapeva alcunché di bello e di buono, ma almeno, mentre lui riteneva di sapere e non
sapeva, io non sapevo, ma neanche ritenevo di sapere.23

Socrate ne conclude che il dio intendesse che Socrate è l’unico uomo ad aver
compreso che il sapere degli uomini è limitato e che quindi fosse consapevole che non
sapesse nulla. Il famoso motto «so di non sapere» si riferisce proprio a questa
consapevolezza.
La ricerca dell’anima che conosce se stessa, deve dunque partire da questa
consapevolezza di fondo, cioè che sulle cose più importanti, quei concetti e quelle
definizioni di cui abbiamo parlato, non sappiamo un bel niente, anche se facciamo uso
quotidiano di nozioni come la bellezza, la giustizia, la virtù e che in un certo senso
determinano la nostra esistenza e le nostre scelte. I motti delfici «conosci te stesso» e
«nulla di più» sembrano essere perfettamente in linea con la comprensione socratica e
sancire una volta per tutti che Socrate è il perfetto homo apollineus. Moderato nella sua
razionalità la quale però non ha in sé la tracotanza del sofista. Ambiguo nel suo essere
sapiente dell’ignoranza. Va detto però che la coerenza fra l’insistenza alla conoscenza di
sé e la morigeratezza e l’onestà del so di non sapere, rendono Socrate un prototipo della
sapienza delfica che vede nella medietà e nell’ambiguità, tipica di érōs , che di tutto
manca, ma tutto sa come procurarsi, la sua caratteristica. La medietà è quella propria del
filosofo che sa di non sapere, non è sapiente, cioè non possiede sophía, ma non è
nemmeno l’ignorante inconsapevole.
Ritengo che anche la proverbiale ironia socratica sia comprensibile solo all’interno
di un discorso che tenga conto della vicinanza della figura di Socrate e quella del dio
Apollo. Socrate è stato oggetto del vaticinio della Pizia di Delfi. Apollo ha detto di lui
che è l’uomo più sapiente e, nel corso della sua vita, come testimonia Platone, egli fa
suoi alcuni dei più celebri motti delfici, primo fra tutti il «conosci te stesso» e, a
proposito, abbiamo già visto come è centrale per Socrate una conoscenza dell’anima e
un’attenzione per essa a scopo etico. Durante il suo processo Socrate si richiama spesso
al dio, tò theós, che, non meglio precisato, sembra riferirsi proprio a chi gli diede il
“mandato” della ricerca: Apollo. Chi infatti se non Apollo, col suo oracolo, lo stimolò
all’indagine per bene interpretare il decreto divino che lo aveva dichiarato il più
sapiente fra gli uomini? È infatti solo dopo che Socrate viene a saperlo da Cherofonte
che si mette a interrogare prima i sapienti, poi i poeti e infine gli artigiani al fine di
capire cosa volesse intendere il dio, per poi giungere alla conclusione che lui era l’unico
uomo a essere consapevole della propria nescenza. Il legame fra i due è evidente.
Apollo, come già si trova in Omero, è spesso caratterizzato come «colui che colpisce
da lontano» o come «saettatore», il termine utilizzato è spesso ἑκηβόλον/hekēbólon, la
cui traduzione letterale è che lancia da lontano, anche tradotto come abile nel lancio.
Nel primo libro dell’Iliade lo troviamo adirato mentre nascosto sulla spiaggia di Ilio
vendica il suo sacerdote Crise dell’arroganza di Agamennone, scagliando frecce alle
navi achee causando la peste. È la divinità che utilizza l’arco, arma che nella Grecia
omerica era vista come l’arma del barbaro, l’arma del vile che da lontano uccide e non

23 Platone, Apologia di Socrate, 21d.

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si mischia alla battaglia, di chi non affronta il suo avversario. Un’arma crudele, che
agisce di nascosto. Un’arma che media, che non colpisce direttamente. Che lascia alla
freccia la responsabilità del colpo inferto, non come la spada, prolungamento del
braccio del guerriero, che costringe a uno scontro diretto.
Scrive Giorgio Colli ne La nascita della filosofia a proposito di Apollo:

Ciò che è sfuggito a Nietzsche è la doppiezza della natura di Apollo, suggerita dai caratteri
[…] di violenza differita, di dio che colpisce da lontano. […] la doppiezza intrinseca di Apollo
testimonia parallelamente, e in una raffigurazione più avvolgente, una frattura metafisica fra il
mondo degli uomini e quello degli dei.24

Per Colli Apollo è medietà e mediazione. L’arco da una parte, la parola dall’altra.
L’enigma delfico è un dardo scagliato contro l’uomo che, solo nella propria limitatezza,
traduce in lógos una parola sovrumana. Spesso infatti l’enigma delfico è al centro delle
tragedie, come quella di Edipo. Un enigma che se male interpretato è rovinoso. Così
l’enigma di Socrate, che lui solo può sciogliere, ma che, in definitiva, gli è anche
mortale. Alla fine della sua ultima arringa, dopo aver saputo della sentenza di morte,
accetta il suo destino perché è voluto dal dio. Proprio il dio lo ha destinato alla sua
sapienza ambigua e alla inimicizia degli ateniesi. Infine egli dichiara «Ma è ormai
tempo di andare via, io per morire, voi per continuare a vivere: chi di noi vada verso una
sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al dio.» 25Ancora una volta un riferimento al
suo sapere di non sapere e al suo essere guidato da Apollo.
L’ironia, la dissimulazione, quindi, che lo pone a mezzo fra chi dice il vero e chi il
falso, è pienamente coerente con la sua caratterizzazione apollinea. Egli è il filosofo a
metà fra sapienza e ignoranza, come gli era stato insegnato dalla maestra Diotima. 26
La sua condizione speciale di sapiente di non sapere lo rende una contraddizione
vivente e così è il suo modo di rapportarsi ai suoi interlocutori. La sua sincerità e
impossibilità di agire il male è manifestata da una continua dissimulazione, un continuo
dire-non-dire, un fare-non-fare, o meglio, un fare e al contempo un disfare come
Penelope che tesse la tela di giorno e la disfa di notte.

3.3 Conoscenza e virtù

Come già messo in luce da Cicerone Socrate sarebbe il capostipite di quella filosofia
che ricerca l’arte più elevata, cioè l’arte di vivere bene. L’etica in effetti per Socrate
sembra essere un’etica della felicità. Il termine eudaimonía, che in greco è felicità,
richiama un altro tema socratico tipico, quello del daímōn. È di «qualcosa di divino e
demoniaco» che sente di avere Socrate in sé, quando nell’Apologia di Socrate platonica
spiega alla cittadinanza il motivo per cui egli tanto si impiccia negli affari altrui e
continua a praticare una filosofia così poco proficua al punto che egli si trova in queste

24 G. Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano, 2016, (1975)1, p. 40.


25 Platone, Apologia di Socrate, 42, 2-3-4.
26 Platone, Simposio, 204E 6 e seguenti.

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condizioni, tradotto innanzi ai giudici e in povertà più assoluta. Egli afferma di sentire
fin da giovane una voce che lo guida nelle azioni, impedendogli di commettere azioni
ingiuste. Avere un buon (eu) demone (daimonia) significa proprio essere felici. Avere
cioè quella voce interna, che noi moderni chiamiamo coscienza, che guida nell’azione
quotidiana. Egli neppure una volta che gli è stata decretata la sentenza di morte
rinnegherà mai la sua vita nella quale come lui stesso dice non gli è parso mai di
nuocere ad alcuno. È qui interessante richiamare il conflitto tra l’interpretazione
nietzschiana con quella arendtiana. Nietzsche intende il daimōn socratico come un
«mostruoso defectus».27 Esso non sarebbe altro che la forza negante della morale
razionale che si impone come annullamento dell’«essenza greca». 28 L’essenza greca
sembra essere incarnata da Nietzsche dalla morale dell’onore, quella di Callicle o di
Trasimaco. Il maestro violento tucidideo appare messo fortemente in crisi dal daimōn
socratico che gli impedisce di commettere ingiustizia. Questa natura negativa piuttosto
che normativa della voce interiore è ciò che più disgusta il filosofo tedesco. Arendt al
contrario vede nel daimōn socratico la natura stessa del pensiero che, senza questa
forma di auto-discorsività, morirebbe nella staticità di un’identità fasulla. La vita della
mente, il vento del pensiero, sono espressioni che riportano una ventata di aria fresca a
una concezione metafisica e astratta del pensare, una sorta di idolatria di un pensare
isolato, senza contrasti, senza krísis. Il daimōn socratico è quella coerente pluralità
dell’io che permette al sapiente di non commettere ingiustizia e di agire in virtù della
conoscenza.
Ma come è possibile coltivare questa voce interiore al fine di essere felici? Va detto
che per Socrate, così come sarà poi per Aristotele, agire virtuosamente significa vivere
felici e lo scopo dell’etica è il raggiungimento della eudaimonía.
Secondo Socrate la conoscenza, dunque la sapienza, è garanzia di felicità, in quanto
l’azione malvagia è compiuta solo da chi non conosce il bene. In un dialogo platonico, il
Protagora, troviamo la famosa sentenza socratica tale per cui il saggio non può agire il
male volontariamente. Qui Socrate, commentando un canto di Simonide afferma:

Simone non era così ignorante da dire di lodare quelli che non fanno volontariamente alcun
male, come se vi fossero persone che commettono volontariamente il male. Nessun saggio,
credo, ritiene che un uomo possa sbagliare volontariamente e commettere volontariamente
azioni riprovevoli o cattive: tutti i saggi sanno bene che quanti compiono azioni brutte e cattive,
le compiono involontariamente.29

L’ipotesi socratica, che come ricorda Maria Michela Sassi è spesso riassunta con la
sentenza latina «nemo sua sponte peccat»30 può avere due esiti di cui uno più accettabile
e l’altro più criticabile.

27F. Nietzsche, La nascita della tragedia, inserito nel volume Nietzsche, RBA, Milano, 2017, p.
74.
28 Ibidem.
29 Platone, Protagora, 345d-e.
30 trad. Nessuno pecca di sua spontanea volontà.

!17
α) Nessuno compie il male se non in vista di un bene finale.
— Dunque il male non è mai il fine, ma può essere il mezzo in vista di un fine. —

Questo è un assunto accettabile. Il male è praticabile solo in quanto il fine giustifica i


mezzi per raggiungerlo. Esso non è mai uno scopo, ma soltanto uno strumento. Si può
volere solo il bene. Si può volere il male solo relativamente alla visione di un bene
finale.

β) Nessuno che abbia l’uso della ragione può conoscere il male e volerlo, in
assoluto.
— Dunque nessun essente razionale, cioè nessun uomo dotato di ragione, può
commettere il male.


Questa interpretazione è più criticabile. Lo è sia dal punto di vista del contenuto che
dell’ermeneutica della storia del pensiero socratico. In primo luogo, dal punto di vista
del contenuto, è evidente che persone razionalissime nella storia abbiano compiuto i
crimini più tremendi. Si pensi alla razionalità del sistema della macchina oscena della
soluzione finale elaborata a Wannsee e che produrrà milioni di morti, ebrei in primis,
ma anche rom, oppositori politici, omosessuali, prostitute, malati mentali e criminali
comuni, bruciati nei forni crematori dopo essere stati gasati nei vari campi di sterminio
nazisti. La razionalità non è quindi garanzia di virtù e innocenza. Ma questa seconda
interpretazione appare debole anche dal punto di vista della validità storica. Nel testo
platonico troviamo che nessun uomo (oudéna anthrōpon), sbaglia, compie errori
(examartánein) volendolo (hekónta). Platone qui, per bocca di Socrate, afferma che è
impossibile volere il male, non commetterlo. In ultimo quindi il male accade quando
siamo inconsapevoli di esso. Lo facciamo solo inconsapevolmente. Questo non esclude
che si possa compiere un’azione malvagia non volendola, cioè volendo il fine, il bene,
ma compiendo il male come mezzo per raggiungere un fine. Il ragionamento dunque
non esclude il male, ma afferma che il male non è mai assoluto, bensì sempre relativo a
un bene voluto sempre come fine.
Il bene, in ultimo, può essere illusorio per l’ignorante e può, quest’ultimo, trovarsi a
volere un bene che in realtà è un male. È bene dunque che si prenda coscienza della
propria ignoranza allo scopo di conoscere se stessi e a questo punto conoscere il bene e
agire di conseguenza. Questa concezione comporta che il male non può essere un
oggetto che può quindi essere voluto dal soggetto desiderante. Il desiderio è sempre
desiderio di bene. La conoscenza permette un migliore orientamento. Il desiderio può
sbagliare, può essere vittima della propria ignoranza. Questo è ciò che insegna Socrate.
In questo senso il bene soltanto può essere quell’assoluto a cui tendere
indefinitivamente. Il richiamo arendtiano all’inconsistenza del male radicale è
tipicamente socratico.

!18
3.4 Il due-in-uno arendtiano: differenza di sé ed etica della coerenza

Ma analizziamo ora i passi del Gorgia presi in esame da Arendt: il 474b e il 482a.
Cominciando dal secondo. Qui si trova Socrate dialogare con Callicle il quale viene
esortato a giustificare la propria posizione secondo cui commettere ingiustizia non è il
peggiore di tutti i mali, altrimenti egli sarà in contraddizione con se stesso. Socrate si
lascia dunque andare a una riflessione:

Per quanto mi riguarda, mio caro, preferirei che la mia lira fosse scordata o stonata, che il
coro che io avessi allestito fosse male addestrato e che la maggior parte degli uomini fosse in
disaccordo con me, piuttosto che essere in disaccordo con me stesso e contraddirmi, pur essendo
io una sola e unica persona. 31

La metafora con la sinfonia del coro e nell’intonazione della lira è interessante.


Socrate preferirebbe una disarmonia sonora, una polifonia che non si accorda piuttosto
che avere una disarmonia interna. Il tormento di una stonatura psichica che lo
contraddica con se stesso.
Arendt evidenzia la contraddizione che salta all’occhio: come è possibile essere in
disaccordo con se stessi se si è, come dice Socrate, «una sola e unica persona»?

Ma nulla che sia identico a se stesso, genuinamente e assolutamente Uno, come A è A, può
mai trovarsi o meno in armonia con se stesso: occorrono sempre almeno due note per produrre
un suono armonioso.32

Innanzitutto si nota come questa coerenza con se stessi è la conditio sine qua non per
lo svolgersi dell’etica che vede l’identità fra conoscenza e virtù. L’uomo che erra lo fa
perché inconsapevole del suo errore. L’uomo sapiente dunque non erra. Ma quest’ultimo
deve essere coerente. La sua anima non deve essere incrinata da dubbi e ripensamenti,
ma la sua azione deve accordarsi col proprio pensiero.
Ma l’essere coerente del sapiente deve essere coerenza di cosa con che cosa? Il
sapiente non è un’unità indistinta. Arendt mostra, come già evidenziato nel capitolo
precedente, come il pensiero stesso sia un differire del sé da sé in una forma di dialogo
interiore. Scrive Arendt:

Si chiama coscienza (…) il fatto curioso che in un certo senso sono-per-me-stesso, benché
propriamente non possa dirsi che appaio a me stesso; e questo indica come il socratico «essere
uno» non sia così non problematico come sembra. Io non sono solo per-gli altri, bensì anche
per-me; e in quest’ultimo caso, è evidente, io non sono soltanto uno. Nella mia Unità si è
insinuata una differenza.33


Dunque l’Identità stessa dell’Io che pensa è in un certo modo già una Differenza, uno
staccarsi dell’Io da se stesso che si osserva pensare. Benché il pensiero è un’attività

31 Platone, Gorgia, 482a.


32 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, (1971)1, p. 278.
33 Ibidem.

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involontaria, esso può però rivolgere la sua attenzione a se stesso e in un certo modo
duplicarsi. Questo è anche un prendere distanza da sé e l’ironia socratica ritengo abbia
anche questa funzione. Il dissimulare la propria ignoranza è anche una presa di distanza
dalla propria sapienza, cioè una presa di distanza da se stessi. Il distacco del pensiero da
sé è il distacco dell’Io dalle proprie credenze, dalle proprie opinioni, che vengono
sempre discusse nei dialoghi socratici. Questa differenza è però lo stesso Io che, per
Arendt, si costituisce nella naturale pluralità del mondo:

Il criterio del dialogo mentale non è più la verità. Essa renderebbe obbligate le risposte alle
domande che pongo solo con me stesso, sia nel mondo dell’Intuizione, che costringe con la
forza dell’evidenza sensibile, sia come conclusioni necessarie di un calcolo delle conseguenze
di un ragionamento logico matematico, che si affida alla struttura del nostro cervello e ci
costringe con la sua forza naturale. L’unico criterio del pensare socratico è l’accordo, l’essere
coerenti con se stessi, homologein autos heautō, significa realmente trasformarsi nel proprio
stesso avversario. 34

La coerenza con se stessi non è l’opposto, bensì la condizione di possibilità per


questo duplicarsi che diviene dialogo mentale e che permette l’indagine autonoma
dell’opinione. Questa indagine però non è mai isolata dal mondo. Il pensare è per
Arendt un’attività solitaria, ma mai isolata dal mondo. La stessa emergenza dell’Io e del
pensare è garantita dalla pluralità del mondo che è una legge naturale della realtà. Si è
sempre un particolare in una complessità, in una molteplicità di individui. L’autonomia
del ragionare non è quindi né una chiusura del sé, che invece dialoga con se stesso, né
un’attività che isola l’individuo dai suoi simili.
Il due-in-uno socratico è una forma di coerente pluralità dell’Io penso che svolge la
sua attività dinamica, il proprio pensare, in un vortice di domande che però non sono
statiche aporie, ma una dialettica vitale.
Il riferimento di Arendt alla tragedia del Novecento è evidente:

Quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che tutti gli altri credono e fanno,
coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto di unirsi alla
maggioranza è appariscente, e si converte per ciò stesso in una sorta di azione. In simili
situazioni di emergenza la componente catartica del pensare (la maieutica di Socrate, che porta
in luce le implicazioni delle opinioni irriflesse e lasciate senza esame, e con ciò le distrugge —
si tratti di valori, di dottrine, di teorie, persino di convinzioni) si rivela, implicitamente,
politica.35

Si potrebbe forse giocare col termine Indifferenza. È stato detto spesso che
l’atteggiamento più degno di biasimo dei popoli che hanno conosciuto direttamente i
regimi fascisti, gli italiani e i tedeschi per primi, è stato l’indifferenza. Forse qui Arendt
ci a tiene testimoniare come l’indifferenza sia innanzitutto mancanza di pensiero. Il
pensiero, quello che da consciousness (la coscienza di sé, cioè la consapevolezza di
essere un’unità) si trasforma in conscience (la coscienza morale, ciò il duplicarsi del sé
che si scopre doppio già da sempre e che osserva il proprio farsi), ha bisogno della

34 Ibidem, p. 281.
35 Ibidem, p. 288.

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Differenza. L’Identità autentica di un’Io pensante non si realizza mai se non si affronta
quello che, per utilizzare una celebre espressione di Hegel, assomiglia molto a un
travaglio del negativo. Il pensiero deve lasciare lavorare la negazione di sé, deve
umiliarsi, deve danneggiarsi. Deve punzecchiarsi e infastidirsi, come Socrate infastidiva
quel torpore generalizzato che vedeva gli ateniesi chiusi in un circolo vizioso, in un
gioco tra schiavi e padroni, un piacere sadico da un lato dei sofisti che manipolavano,
un godimento masochistico, quello di chi amava farsi manipolare e rinunciava alla
differenza, rinunciava alla distanza, restava chiuso in sé e ammutoliva la voce, quella
che Socrate invece sapeva ascoltare: la sua consapevolezza si era fatta coscienza morale
e ora lo guidava nel suo destino, quello che il dio gli aveva assegnato. Il destino di chi
sapeva di non sapere, di chi, amico di sé, si prendeva cura della crepa che costituisce
l’identità. Che coltivava la pratica del pensiero.

3.5 Subire l’ingiustizia è meglio che commetterla: l’etica della mitezza

Dunque per Socrate l’uomo non erra se non involontariamente. Questo errore è
prodotto dall’opacità del sé che non riconosce il proprio non sapere. Con una pratica
filosofica che parte dall’indagine su di sé se ne deriva alla scoperta del due-in-uno, cioè
del dialogo della mente, come lo chiama Arendt. Un dialogo interiore che permette la
disamina delle opinioni comuni. Ma Socrate in alcuni passi si spinge fino al punto di
affermare quelli che a lui appaiono delle verità etiche. Qualche spunto pratico è presente
sia nel Protagora che nel Gorgia. Riprendendo il passo del Gorgia preso in analisi da
Arendt, il 474b, troviamo Socrate che discute col giovane oratore Polo. Quest’ultimo
deride il vecchio prendendo per ridicole le sue affermazioni riguardo il tiranno. Socrate
aveva detto che il tiranno è il più infelice di tutti. Poche righe dopo una massima spiega
il significato di questa così decisa presa di posizione:

Quanto a me, sono dell’idea che non io solo, ma anche tu e tutti quanti gli uomini riteniamo
che il commettere l’ingiustizia sia cosa peggiore del riceverla e che sfuggire al castigo sia
peggio che subirlo.36

Questa sentenza è direttamente collegata al discorso del due-in-uno. Ammesso che


chi agisce conosca cosa è giusto e cosa è ingiusto e dunque sappia come comportarsi per
essere virtuoso e felice. Questo, se messo davanti alla scelta di commettere ingiustizia
oppure subirla, non potrebbe che decidere per la seconda. Se commettesse giustizia
sarebbe consapevole di agire contro il proprio interesse, cioè contro la propria felicità.
Se non si fa corrispondere virtù e felicità, cioè aretē ed eudaimonía, non è
comprensibile questo passo. Il sapiente non può commettere ingiustizia poiché è
impossibile volere il male. Egli farà solo ciò che, coerentemente con la propria
coscienza, lo porterà alla felicità. L’avere un buon daimōn significa proprio avere una
coscienza capace di distinguere ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, una voce che guidi
all’azione e impedisca di commettere ingiustizia. Questa coerenza della pluralità interna
è esattamente il due-in-uno.

36 Platone, Gorgia, 474b.

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La coscienza del saggio è coerente con l’Io nel momento in cui non c’è esitazione nel
decidere come comportarsi giustamente. Lo sforzo che deve compiere il buono per non
reagire all’ingiustizia compiendo a sua volta un atto ingiusto, la fatica che si impegna a
compiere per poter ribaltare il corso degli eventi che dall’ingiustizia sembra far nascere
altra ingiustizia. L’etica che propone è un faticoso cammino verso la mitezza nella
sicurezza della giustizia
Se si pensa alla figura di Antigone non risulta assurdo pensare che Socrate possa
essersi ispirato alla tragedia sofoclea. La giovane infatti, compiendo il gesto di pietà nei
confronti del fratello Polinice, contro la legge dello zio Creonte, re di Tebe, trova infine
la morte per non macchiarsi dell’empietà che lo zio le impone. Un conflitto fra giustizia
e legge che più volte è stata ripresa nella storia della filosofia. Antigone tenta invano di
porre fine alla colpa di cui, il nonno Laio, si era macchiato in origine. Rompere quel
ciclo per cui commettendo ingiustizia si mette in moto una lunga serie di eventi che
portano alla generazione, o meglio, al mantenimento dell’ingiustizia. Ad azione giusta
ne consegue una reazione uguale e contraria, altrettanto ingiusta. Nell’Apologia di
Socrate platonica sono numerosi i passi in cui l’imputato si dice preferire la condanna di
morte, piuttosto che l’abiura della propria vita giusta: è meglio subire l’ingiustizia
piuttosto che commetterla.
Ma esistono passi in cui Socrate sembra dare una direzione al comportamento del
buono, l’ agathós.
Nel Protagora, commentando un’elegia di Simonide, afferma che:

[…] i buoni si sforzano di nascondere i difetti e di lodarli e, anche se si sdegnano con i


genitori o con la patria per essere stati trattati ingiustamente, cercano di calmarsi e di
riconciliarsi, sforzandosi di amare e di elogiare i loro cari. 37

Qui possiamo più profondamente capire quello che è stato definito intellettualismo
etico di Socrate, cioè la sua identità fra conoscenza e virtù, tale per cui chiunque sappia
cosa è giusto, allora vorrà soltanto fare il bene e non commetterà ingiustizia.
L’equivoco sta nel ritenere la volontà del bene come una forma di predisposizione
naturale, una spontanea tensione, allorché il sapiente non sarà mai disturbato da
tendenze contrarie di natura non razionali, come le passioni ad esempio. Il sapiente
sarebbe, in questa visione, un monolite razionale, tutt’uno col suo lógos. Questa
concezione non sarebbe sostenibile, come abbiamo visto. È nell’esperienza di chiunque
che, seppur si sappia cosa sarebbe bene per noi, accade che facciamo esattamente il
contrario. La psicoanalisi poi ha approfondito l’indagine delle contraddizioni dell’anima
e ormai sappiamo che spesso la nostra mente non funziona come una linea retta tale per
cui si è sempre coscienti di volere x e dunque si agisce in direzione dell’oggetto voluto.
Il desiderio psichico è complesso e spesso non sappiamo nemmeno esattamente che
cosa vogliamo, o per lo meno, fingiamo a noi stessi di non saperlo. Non è quindi
possibile pensare a una coerenza che non tenga presente queste contraddizioni
psichiche.

37 Platone, Protagora, 346b.

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E come abbiamo osservato Socrate era consapevole della duplicità dell’anima. Il
due-in-uno ci viene presto in soccorso. Dunque Socrate non intendeva che il sapiente
non viene mai sedotto dal desiderio carnale, dalla disperazione o da qualsiasi altra
emozione capace di compromettere il proprio giudizio, anzi, il sapiente è un lottatore.
La libertà che è essere incondizionati va conquistata attraverso un comportamento che si
sforzi contro la corrente pericolosa delle passioni.

Conclusione:
Fare la differenza

L’interesse di Arendt per Socrate è giustificato dall’analogia storica e dalla


innovazione teoretica dell’esperienza socratica. Da un lato infatti Socrate è pensatore in
un clima di profonda crisi. La decadenza delle antiche tradizioni lascia libero sfogo
all’omerica morale della timé che comporterà l’emergere di un utilitarismo etico tipico
della sofistica ateniese. Dall’altro lato la guerra del Peloponneso e la sconfitta di Atene
porta la cultura dell’epoca a radicalizzare le proprie posizioni e Atene al tempo viene
spesso descritta come un covo di serpi, anche se, va ricordato, l’obiettività di un autore
fortemente aristocratico come Platone è sempre discutibile. Quello che resta certo è che
Atene è in crisi e in questo periodo difficile si colloca il filosofare eccentrico di Socrate.
Ma ad Arendt interessa anche l’essere atópos di Socrate. Un’eccentricità che lo
porterà ad essere inviso. Il suo «sapere di non sapere» che ne costituisce la
contraddizione e l’ironia. Il suo essere apollineo fino all’ultimo, così sicuro nella
propria giustizia, cioè nella propria spontanea ricerca della verità. Socrate è il pensatore
per eccellenza che non scrisse mai nulla poiché mai terminò la sua ricerca.
Ma quindi come potrebbe mai dirsi morale l’assoluta certezza di nessuna sapienza?
Dove risiede l’eticità di Socrate? Il gesto stesso della ricerca della giustizia, della pratica
di una coerenza frutto di un’auto-interrogazione è di per sé eticità. Lo iato che si
produce nel duplicarsi dell’anima che si osserva nella regione del suo essere divino, la
pupilla che osserva se stessa è già eticità. È bene che si ricerchi il bene. Non ci è dato
sapere perché, ma sappiamo che è così.
Lo sappiamo perché chi rinunciò a guardare dentro se stesso e a domandarsi della
giustizia compì i crimini più incomprensibili, gli orrori più osceni. Il male nella sua
banalità è il male della banalità che non riconosce se stessa, che si abita senza problemi,
senza criticità. Lo sforzo del pensiero sta per Arendt proprio in questo prendere le
distanze da se stessi, quell’osservarsi che permette l’emergenza di una coscienza morale
capace di guidarci nell’azione. Senza questo l’essere umano non è propriamente umano
e, per Socrate, è destinato all’errore, e quindi, all’infelicità.
L’uso della ragione non è per Arendt la meccanica logica spersonalizzante, non è
nulla di diverso dall’umano. Al termine de Le origini del totalitarismo, Arendt
rammenta alcune locuzioni in riferimento a Hitler e Stalin:

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L’uno si vantava della «freddezza glaciale del ragionamento» (Hitler), l’altro
dell’«inesorabile dialettica» e spingevano le implicazioni a estremi di coerenza logica
[…].38

Non è questa la ragione esercitata da Socrate. È una ragione più simile a quella della
dialettica kantiana, una ragione che si muove e si rivolge a se stessa in un infinito
interrogarsi. Non è una ragione statica, una ragione che risiede in luoghi più alti, in
oltrecieli. La logica che i sistemi totalitari somministrano alle masse è una logica
eteronoma che giunge al ricatto: se comprendi la logica che ti impongo non puoi che
seguirla. La coerenza di Socrate è strumentalizzata e vergognosamente piegata alle
logiche del potere politico.

La forza del ragionamento sta in questa prospettiva: se rifiuti contraddici te stesso e, con tale
contraddizione, privi di ogni senso la tua vita.39

Una terrificante somiglianza con il monito Socratico che afferma che una vita senza
ricerca non è degna di essere vissuta. Una forma di coerenza che però non è coerenza
con sé, ma è coerenza con il potere. La coerenza autentica dell’anima che conosce se
stessa è una coerenza libera ed autonoma. Non è l’esercizio di una logica vuota,
esternamente imposta, bensì la pratica autonoma dell’interrogazione si sé con sé. Il
pensiero socratico è il recupero di questa libera solitudine capace di produrre, di creare
poiché capace di negare. La differenza con sé che si proietta in una differenza esterna
che fa la differenza rispetto alla norma.

38 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di comunità, Torino, 1999, p. 646.


39 Ibidem, p. 648.

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Bibliografia

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