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Per identificare e comprendere meglio i possibili approcci culturali alla base delle diverse
interpretazioni dei concetti di disabilità e inclusione, è necessario ripercorrere brevemente
l’evoluzione del significato di disabilità e delle rappresentazioni culturali e sociali del
disabile che hanno caratterizzato periodi significativi della nostra storia. Le condizioni
contestuali sono certamente cambiate nel corso dei secoli sul piano legislativo, istituzionale,
nazionale ed internazionale, sia per quanto riguarda i servizi del welfare, volti a promuovere
e garantire l’inclusione sociale delle persone con disabilità e di tutti coloro che si trovano in
situazione di svantaggio dando luogo ad interpretazioni culturali e sociali ovviamente
diversificate, ma nello stesso tempo, mettendo in campo una serie di variabili, spesso
contradditorie tra loro, che continuano a caratterizzare il dibattito. E’ ancora possibile, ai
nostri giorni, individuare nelle esperienze personali e sociali di molte persone disabili le
tracce di vissuti caratterizzati dalla presenza di violenza, rifiuto, emarginazione: sono tracce,
che rievocano immagini apparentemente superate di uomini e donne discriminati,
stigmatizzati, oppressi, che ancora troppo sovente appaiono nei nostri media. In particolare
oggi, in un momento sociale sconvolto dalla crisi economica, ma anche da quella culturale
ed identitaria della maggior parte dei popoli, si riaffacciano con rinnovato potere “seduttivo”
paure consce e inconsce per tutto ciò che è diverso dal noto, dal normale, dalla quotidianità
consueta. Quindi, i confini tra il passato e il presente in termini di traguardi raggiunti
nell’ambito dei diritti umani sono molto più fragili di quello che superficialmente pensiamo
e per questo è necessario mantenere alta l’attenzione, sviluppare senso critico, promuovere
un atteggiamento dialogico verso la realtà, in grado di restituire la sua complessità,
strutturalmente contraddistinta da infinite differenze e contraddizioni. La storia43 insegna
che l’inserimento e l’integrazione sociale del bambino disabile sono sempre stati collegati al
livello di emancipazione sociale e culturale di una società. Solo a partire dagli anni ’60 sono
stati attuati interventi di carattere legislativo, sociale e pedagogico in favore delle persone
con disabilità, attraverso un lungo e complesso processo che si è articolato in diverse fasi,
che potremmo diacronicamente intitolare ai concetti di esclusione, poi di separazione,
successivamente di integrazione fino a tendere in questi ultimi vent’anni all’inclusione. La
rappresentazione sociale e culturale del disabile-malato resisterà nell’immaginario collettivo
per tutto l’800 fino alla seconda metà del 900, continuando a cercare di dare risposte
prevalentemente assistenzialistiche/sanitarie e di educazione speciale. Dopo la Seconda
Guerra Mondiale, il ruolo delle famiglie con figli disabili assume maggiore importanza,
anche perché i genitori diventano sempre più consapevoli dei limiti degli istituti assistenziali
che accolgono i loro figli e che presentano spesso inadeguatezze rispetto ai bisogni. In
questa fase il desiderio della maggior parte dei genitori è ancora quello di proteggere i figli,
separandoli sempre di più da contesti di normalità e offrendo a loro luoghi di protezione e di
qualità in un contesto di isolamento. La rappresentazione del disabile-malato che ha bisogno
di cure si confonde con quella del disabile-bambino da proteggere: non viene quindi
riconosciuta al soggetto con disabilità la possibilità di evolvere, svilupparsi, esercitare un
ruolo attivo all’interno della società: la disabilità viene concepita come un problema
individuale. Da quanto appena indicato, è possibile individuare, per lungo tempo, un
approccio medico/assistenziale alla disabilità: in tale ottica il problema viene individuato
nella persona che presenta la menomazione, sulla base della convinzione che sia questa
stessa condizione di malattia a determinare l’esclusione sociale e la necessità di ricevere
delle cure mediche ed assistenziali. Secondo la ricostruzione di Dario Ianes50, a partire
dagli anni ’60, lo Stato ritiene suo dovere interessarsi agli alunni “handicappati gravi”,
implementando politiche che rafforzano e diversificano le strutture speciali, favorendo la
realizzazione di classi speciali o differenziali all’interno delle scuole comuni. La disabilità è
concepita ancora come una malattia di cui farsi carico socialmente e l’approccio è di tipo
medico, basato su alcuni punti fondamentali: l’attenzione si concentra sul deficit con il
quale viene identificato l’individuo; l’insegnante non si sente adeguato e ricorre allo
specialista; la comunità scolastica non è coinvolta nella risposta educativa rivolta all’alunno
disabile e tende a delegare il problema a esperti che attribuiscono etichette al bambino
disabile; la certificazione della disabilità non è il risultato di un lavoro collegiale basato
sull’assunzione di responsabilità, ma è solo il mezzo per accedere a strutture speciali51. A
partire da metà degli anni ‘60 e dai primi anni ‘70 sull’onda del fermento culturale e sociale
che accompagna il movimento di contestazione a livello internazionale, la prospettiva
individuale, assistenziale, medicalizzante e segregante della disabilità viene messa
progressivamente in discussione ed emerge un approccio nuovo, che pone l’attenzione sulle
diverse tipologie di barriere all’ accessibilità presenti nei vari contesti di vita e che considera
sempre di più la disabilità come il risultato di una costruzione sociale. Agli inizi degli anni
‘70 si sviluppa la teorizzazione di un modello sociale della disabilità, così come coniata nel
1981 da Mike Olivier52, caratterizzato:
Durante gli anni ’70, le associazioni di persone disabili iniziano a rivendicare i loro diritti54
sostenute spesso dalle figure educative presenti nei servizi che alla luce della nuova
prospettiva mettono in crisi il proprio ruolo. Il nuovo approccio culturale alla disabilità
evidenzia come questa sia il risultato dell’incontro della persona con deficit con il contesto
sociale che si presenta come inadeguato ad accoglierla dal punto di vista ambientale,
sociale, culturale ostacolando una piena partecipazione dell’individuo disabile alla vita
sociale e un pieno sviluppo delle proprie potenzialità. In Italia, questo approccio favorisce le
condizioni per superare la separazione tra i servizi educativi speciali e quelli ordinari.
Infatti, il clima culturale porta ad un acceso dibattito pedagogico sulla necessità di garantire
la democratizzazione dell’insegnamento, ossia un ugual diritto all’istruzione, al
perseguimento degli obiettivi dell’apprendimento e della cittadinanza di tutti. Si contesta
fortemente la scuola tradizionale eccessivamente nozionistica, burocratica ed elitaria,
incapace di promuovere lo sviluppo culturale di tutti indipendentemente dalle diversità
individuali e di gruppo. Le forti critiche avanzate alla scuola pubblica, succube di logiche
economiche e politiche, grazie a grandi educatori impegnati nel processo di trasformazione
del sistema scolastico, come Don Lorenzo Milani con la scuola di Barbiana, conducono al
superamento delle scuole speciali e all’inserimento degli studenti disabili nelle scuole
ordinarie, senza però riuscire ad apportare modifiche sostanziali interne al contesto
scolastico. Siamo di fronte al fenomeno dell’inserimento scolastico che, a causa della
persistenza di barriere architettoniche, culturali e della mancanza di strumenti legislativi e
didattici adeguati, spesso si manifesta come un inserimento selvaggio da cui inizia un
progressivo processo di avvicinamento verso il concetto di integrazione scolastica, sostenuto
in particolare dalla Legge 517/77 in cui avviene sicuramente un salto di qualità dell’offerta
educativa agli studenti disabili. Con questi nuovi dispositivi legislativi viene promossa una
visione sistemica dell’integrazione, con il coinvolgimento istituzionale di vari soggetti
(socio-sanitari, educativi, comunali) che si assumono delle responsabilità e con i quali la
scuola è chiamata ad interagire. Si procede all’individuazione di strumenti e procedure
istituzionali che le scuole devono seguire: modalità di individuazione dell’alunno come
persona disabile e progettazione dell’intervento educativo attraverso le pratiche di
elaborazione di diagnosi funzionali, di profili dinamici funzionali, di piani educativi
individualizzati. L’idea alla base dell’integrazione è che sia l’allievo a doversi adeguare al
contesto attraverso un insieme di mediazioni, tra cui, in particolare, quella dell’insegnante di
sostegno. Soprattutto nei casi di disabilità severa, all’interno del processo di integrazione,
gli studiosi hanno rilevato spesso la prevalenza del modello medico “[…] per cui l’allievo
va tutelato sulla base di un intervento speciale […] nella convinzione che il soggetto sia
speciale e vada sostenuto da interventi prevalentemente tecnici (medici e riabilitativi) o
assistenziali, per altro purtroppo vincolati alla disponibilità di risorse”55. L’approccio
sociale alla disabilità, che ha facilitato i cambiamenti sopradescritti, a partire dagli anni ‘90
viene messo parzialmente in discussione: infatti, la lettura sociale della disabilità non è
sufficiente per spiegare il fenomeno che presenta anche componenti individuali oltre che
sociali e politici. Il modello bio-psico-sociale della disabilità introdotto dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità attraverso l’ICF “International Classification of Functioning,
Disability and Health”56, pubblicata nel 2001, afferma che la salute non può essere vista
come assenza di malattia, ma va percepita come realizzazione del proprio funzionamento
nei vari contesti di vita. Secondo questo modello, il funzionamento o la disabilità di una
persona è la risultante di diversi fattori: condizioni fisiche e dotazione biologica, fattori
contestuali (ambientali e personali). Nella dinamica dialogica di questi fattori c’è il corpo
con proprie strutture e funzioni, capace di svolgere attività personali e di sviluppare
partecipazione sociale. L’approccio dell’ICF è una sintesi del modello medico e di quello
sociale, nella misura in cui mette in evidenza la natura dinamica e reciproca delle interazioni
dell’individuo nel e col proprio ambiente57. Secondo tale modello, una persona che
presenta un’alterazione nei livelli funzionali o strutturali del proprio corpo interagendo con
l’ambiente potrà vivere due condizioni sintetizzabili nel seguente modo: 1. una perdita o
limitazione del livello di attività e partecipazione sociale, qualora l’ambiente presenti delle
barriere: il soggetto vive una situazione di disabilità; 2. buon livello di attività e
partecipazione sociale grazie all’introduzione di fattori facilitanti all’interno del contesto,
che lo rendono adeguato all’interazione con la persona e garantiscono il suo funzionamento.
In questo caso il soggetto non si trova a vivere una situazione di disabilità. L’approccio alla
disabilità ed all’inclusione fondato sui diritti ha affrontato tra le varie problematiche, quelle
in particolare legate all’uguaglianza e alla cittadinanza delle persone disabili, questioni che,
sulla scia dell’attivismo politico, a partire dagli anni ’60, sono state oggetto di interesse
anche da parte del mondo accademico e della politica. La Convenzione ONU sui Diritti
delle Persone con disabilità afferma la dignità di queste ultime, oltre che il diritto
all’uguaglianza di tutte le libertà fondamentali58 e definisce la disabilità come il risultato
dell’interazione tra menomazioni e barriere sociali, attitudinali e ambientali che
impediscono o limitano la partecipazione59. Quanto appena affermato rispecchia
pienamente l’assunto del modello sociale alla disabilità secondo cui quest’ultima, come già
detto precedentemente, è il risultato dell’interazione tra il soggetto e le barriere sociali che
incontra nel contesto di vita. La Convenzione è la più recente dichiarazione internazionale
dei diritti delle persone disabili60 e, come sottolinea Lorella Terzi, non aggiunge diritti
nuovi a quelli già previsti nei documenti che l’hanno preceduta, piuttosto ha l’obiettivo di
riaffermarli e di “introdurre nuove misure che obblighino i governi alla loro attuazione”61.
La prospettiva dell’uguaglianza dei diritti è stata ripresa anche da altri documenti di politica
sociale di altri Paesi come il Disability and Discrimination Act del 1995 o il Equality Act
del 2010 in Gran Bretagna e l’American with Disability Act del 1990 negli Stati Uniti.
Nonostante il riconoscimento dell’importanza di tutelare i diritti delle persone con disabilità,
in pratica “I diritti delle persone disabili continuano ad essere negletti e apertamente violati”
in molti Paesi62. La condizione di grave disagio sociale in cui verte ancora una larga parte
delle persone con disabilità è stata oggetto di interesse e riflessione da parte del capability
approch, attribuibile al Premio Nobel per l’economia Amartya Sen. Questo approccio,
infatti, si focalizza sui concetti di benessere, povertà e sviluppo umano, sulla giustizia dei
sistemi sociali e istituzionali, promuovendo una visione olistica in grado di considerare tutte
le dimensioni del benessere individuale e quelle provenienti dal contesto sociale. Le
politiche sociali dovrebbero facilitare l’espansione delle capabilities delle persone, ossia la
loro libertà di raggiungere i beings e doings ritenuti importanti per la qualità di vita della
persona. Nel “capability approach” è possibile individuare elementi comuni con altri
modelli culturali sulla disabilità, in particolare sia con quello dell’ICF, sia con quello
fondato sui diritti umani. Il Capability Approach condivide con entrambi la prospettiva
inclusiva e di empowerment oltre che l’approccio olistico al benessere della persona,
occupandosi infatti di tutte le sfere della sua vita. Con l’ICF il capability approach condivide
il concetto di base dei funzionamenti, come sottolinea Ghedin, ampliandoli ulteriormente,
includendo infatti attività e stati desiderabili della persona, oltre che i funzionamenti
correlati direttamente alla salute, all’attività e alla partecipazione, in diversi ambiti della
vita. Inoltre condivide un concetto simile di disabilità che fa riferimento alla deprivazione di
funzionamenti67.
In base alle varie ricerche e progetti realizzati fino ad oggi nei diversi contesti nazionali, in
Europa si possono rilevare tre diverse risposte all’istruzione dei disabili:
1) il primo tende ad una piena inclusione dei disabili nelle scuole comuni: si tratta di un
approccio “unidirezionale” assunto o in via di assunzione in particolare dai Paesi del Sud
dell’Europa, come Italia, Grecia, Portogallo, Spagna, Cipro e della penisola Scandinava,
come Svezia, Norvegia ed infine Islanda77; 2) il secondo prevede la co-esistenza di servizi
specializzati e ordinari che funzionano separatamente ma che prevedono relazioni, scambi e
agiscono in una prospettiva di continuità: si tratta di un approccio “multi-direzionale” cui
appartengono Danimarca, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Austria, Finlandia, Inghilterra,
Lituania, Liechtenstein, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Polonia, Slovenia78; 3) il terzo
invece consiste nell’implementazione di due sistemi educativi completamente separati: si
tratta di un approccio “bi-direzionale”. Alcuni dei Paesi che hanno operato per lungo tempo
secondo questa prospettiva, sono in una fase di trasformazione orientata all’approccio multi-
direzionale: è il caso di Germania e Olanda, mentre Svizzera e Belgio mantengono ancora
una prospettiva bi-direzionale79.
Il dibattito che è stato alla base (e per alcuni aspetti continua ad esserlo) dei diversi approcci
assunti dai Paesi in merito alla disabilità si gioca fondamentalmente su due posizioni
polarizzate: infatti, alcuni Stati sostengono un approccio in ambito educativo ancora
fortemente condizionato dal modello medico, altri invece sostengono un approccio ispirato
al modello sociale della disabilità che implica cambiamenti importanti e complessi nel
sistema scolastico e che pone diversi quesiti e non poche difficoltà. Alcuni Paesi hanno
infatti adottato una gestione decentralizzata del sistema educativo, altri considerano il
sistema differenziato come una risorsa per la scuola ordinaria (Germania, Finlandia etc.).
Roaf e Bines, nell’analizzare i diversi aspetti in campo, pongono l’accento sui limiti
intrinseci nell’utilizzo del termine need. Innanzitutto, secondo gli autori, è difficile
distinguere un need da un special educational need. Se l’educazione speciale deve essere
usata come base per allocare le risorse speciali, la differenza tra i «bisogni speciali» e gli
altri «bisogni» educativi dovrebbe essere agevolmente riconosciuta, in realtà questa
distinzione non è sempre chiara. La genericità del termine special educational need non ha
assolutamente aiutato, infatti, a ridurre il numero categorizzazioni, al contrario ha
contribuito alla creazione di una più ampia e vaga sottocategoria di «difficoltà di
apprendimento» che ha generato nuove divisioni tra studenti con e senza
«dichiarazione»67. Il secondo limite è legato al relativismo del termine «bisogno». Special
educational need è un termine legittimato giuridicamente, ma è anche usato in altri ambiti
(amministrativo, scolastico) e secondo il contesto in cui viene utilizzato può assumere
significati diversi, pertanto, ciò che alcuni interpretano come «bisogno speciale» per altri
può non esserlo68. Di conseguenza, il riconoscimento di una condizione di «bisogno
educativo speciale» dipende in gran parte dalla scuola che si frequenta e dal luogo, con una
potenziale ampia gamma di variazione nella valutazione, nel collocamento e nel successivo
trattamento educativo69. Terzo, focalizzarsi sui «bisogni» significa dare per scontato i
nostri assunti riguardo la natura di quei «bisogni», non riflettendo abbastanza, ancora una
volta, sul fatto che essi si basano sul concetto di «normalità» («normale» sviluppo cognitivo,
«normale». comportamento)70. In effetti, anche in questo modo si finisce per delegare ai
«professionisti» medici il potere di definirli71. Il quarto limite viene descritto con la
sottolineatura che il termine «bisogno» e «speciali», siano diventati una nuova etichetta per
vecchie pratiche e problemi, anche a causa del limitato cambiamento negli approcci e nelle
pratiche tradizionali72.
Wedell rilevò l’importanza di una serie d’implicazioni politico-pratiche che coinvolgono più
o meno direttamente il processo di insegnamento/apprendimento: il personale e le
competenze professionali; la formazione dei gruppi e i luoghi per l’apprendimento e fu tra i
primi a porre l’accento sui problemi legati alla relazione tra il singolo e il curriculo
condiviso80. Contemporaneamente, Mittler cercava di realizzare un progetto d’integrazione
dei bambini con disordini dello spettro autistico nelle scuole primarie ordinarie, cercando di
superare un «modello gradualista». Egli, infatti, riteneva che una delle principali barriere al
processo inclusivo fosse la nostra sottostima delle potenziali abilità degli alunni che
«etichettiamo con bisogni educativi speciali», oltre che, la presenza di un Special
Educational Needs Coordinator (nelle scuole del Regno Unito conosciuto come SENCO),
definita dall’autore «anti-inclusiva»81. La sua riflessione, a distanza di molti anni dai suoi
studi, fu: «[…] I thought that everyone was doing it, then I realized that it was extremely
rare[…]»82. In questo stesso periodo, Dunn pubblica un articolo di aspra critica contro la
segregazione delle scuole speciali e sulle conseguenze di questo tipo di educazione.
L’autore sostiene che i bambini più svantaggiati da un punto di vista socio-culturale abbiano
bisogno di una formazione migliore rispetto al collocamento nelle classi speciali e, pertanto,
considera ingiustificabile e, per giunta, obsoleta gran parte dell’educazione speciale, che
avrebbe, tra gli scopi principali, l’attenuazione, se non addirittura l’eliminazione delle
pressioni sui regular teachers e sugli altri alunni a scapito solo degli alunni socio-
culturalmente deprivati e con slow learning.
L’approccio ‘curriculare’: Dalla metà degli anni Sessanta, un forte contributo allo sviluppo
delle teorie del processo inclusivo arriva dagli studi e ricerche sul curriculo e sui processi di
insegnamento/apprendimento. Nel 1978 il Warnok Report propone una definizione del
curriculo «speciale» in riferimento a quattro elementi: definizione degli obiettivi, scelta dei
materiali e delle esperienze, scelta dei metodi di insegnamento/apprendimento per
raggiungere gli obiettivi, valutazione dell’adeguatezza degli obiettivi e dell’efficacia dei
mezzi per conseguirli117. Secondo questo rapporto il curriculo svolge un importante ruolo
di mediazione tra disposizioni ordinarie e speciali, che, in passato, ha contribuito allo
sviluppo del processo di integrazione118. L’approccio curricolare fa riferimento al
paradigma pedagogico. Tale paradigma privilegia gli aspetti educativi ed è centrato: «[…]
sugli elementi di tipo processuale e trasformativo che contraddistinguono le diverse attività
didattiche e la loro efficacia. Le difficoltà di apprendimento degli alunni vengono
interpretate […] in base alle differenti situazioni di insegnamento e alla loro adeguatezza in
riferimento allo specifico contesto scolastico. L’intervento è rivolto pertanto al
miglioramento e ampliamento delle strategie educative utilizzate […]»119. il curriculo è,
secondo Stenhouse: «[…] una forma particolare di asserti specifici sulla pratica
dell’insegnamento e non un ammasso di materiali o un compendio di programma da
svolgere. È un modo di convertire ogni idea pedagogica in una ipotesi verificabile nella
pratica. […] esso sollecita ad un riesame critico, non ad una supina acquiescenza […]»124.
ICF in Italia: Taluni autori ritengono che l’ICF in Italia abbia avuto un’accoglienza più
favorevole, sia in ambito scientifico, sia in quello professionale (medico-sanitario, statistico,
educativo e, quindi, anche scolastico), rispetto a quanta non ne abbia avuta in altri Paesi
europei, dove viene associato principalmente alle discipline e professioni sanitarie289.
Questo relativo maggiore gradimento, nel contesto italiano, sarebbe, secondo la FGA et al.,
da imputare a fattori di carattere culturale e pratico-applicativi. Il primo: «[…] legato alla
tradizione filosofico-antropologica e pedagogica italiana, che ha sempre considerato la
persona un’unità complessa di natura bio-psico-sociale e prestato grande attenzione
all’influenza positiva o negativa dei grandi contesti ambientali»290; il secondo sarebbe,
invece, una conseguenza della: «[…] stretta collaborazione che fin dalla prima
sperimentazione di ICF in Italia si è creata tra l’editore di ICF, Erickson, molto diffuso nel
mondo dell’educazione, e la onlus che su mandato dell’OMS ha curato la prima
disseminazione e formazione, il Disability Italian Network (DIN) […]». In effetti, già nel
novembre del 2010, il Ministero dell’Istruzione aveva promosso il progetto ICF: «[…] con
l’obiettivo di sperimentare, in un campione di istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e
distribuite a livello nazionale, l’applicazione nella scuola del modello ICF dell’OMS, al fine
di diffondere un approccio focalizzato sul ruolo determinante che l’ambiente scolastico, nei
suoi molteplici aspetti, svolge nell’effettiva integrazione degli alunni con disabilità […]».In
generale, comunque, la letteratura si esprime positivamente sulla normativa italiana, per
molti aspetti all’avanguardia tra i Paesi europei in materia di politiche sulla disabilità.
Tuttavia, nell’attuazione di queste normative permangono numerose lacune dovute sia alla
lentezza delle amministrazioni, sia alla scarsità di risorse finanziarie a disposizione dei
governi locali competenti in materia sociale, sia, e soprattutto, alla mancanza di un
intervento culturale, evidente sul piano lessicale e rivolto coerentemente alla preparazione
degli operatori e alla riorganizzazione dei servizi.
«[…] un modello “scuolacentrico”, centrato sul primato della scuola come luogo prioritario
di formazione […], e uno dell’”integrazione delle risorse”, basato sull’interazione fra le
risorse scolastiche ed extrascolastiche organizzate in un sistema […]»498.