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Testi e studi di cultura classica


Collana fondata da
Giorgio Brugnoli e Guido Paduano
Diretta da
Guido Paduano, Alessandro Perutelli, Fabio Stok

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Quinto Ennio

Le opere minori

Introduzione, edizione critica dei frammenti


e commento a cura di
Alessandro Russo

Vol. I

Praecepta
Protrepticus
Saturae
Scipio
Sota

Edizioni ETS
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www.edizioniets.com

Pubblicato con il contributo dei fondi PRIN


dell’Università Ca’ Foscari - Venezia
Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente

© Copyright 2007
EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa
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www.edizioniets.com

Distribuzione
PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze]

ISBN: 978-884671819-8
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Ad Alessandro Perutelli
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Premessa

Questo libro è una rielaborazione e un ampliamento della tesi di dotto-


rato che discussi nel 1997. Secondo il progetto iniziale, qui si sarebbero
dovuti raccogliere e commentare i frammenti di tutte le opere minori di
Ennio, nonché quelli di commedia e di opera incerta. A tale obiettivo non
ho rinunciato, ma il protrarsi, anche a causa di lunghe interruzioni, dei
tempi necessari per il suo raggiungimento ha reso opportuno tentare un
primo bilancio del lavoro fin qui svolto, pubblicando per ora le parti giun-
te a un grado di elaborazione sufficientemente organica e sistematica e rin-
viando a un secondo volume la trattazione delle parti mancanti.
Il presente lavoro non si sarebbe potuto realizzare senza il sostegno del
Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche dell’Università di Trento,
del Dipartimento di Filologia classica dell’Università di Pisa e del Diparti-
mento di Scienze dell’Antichità e del Vicino Oriente dell’Università Ca’
Foscari di Venezia. Su molte questioni singole, inoltre, ho avuto la possibi-
lità di ricorrere al generoso e competente consiglio di numerosi studiosi
che ho menzionato a suo luogo: qui vorrei ricordare Emanuele Narducci, il
quale, oltre ad aver sempre mostrato un costante interesse per il mio lavo-
ro, mi offrì anche la possibilità di esporne e discuterne alcune parti davanti
a un pubblico altamente qualificato, nell’ambito dei seminari di filologia
latina da lui organizzati presso l’Accademia Fiorentina di Papirologia e di
Studi sul Mondo Antico.
Un ringraziamento particolare – e non solo per il loro sostegno scientifi-
co, che pure è stato per me fondamentale – voglio infine esprimere a due
studiosi che hanno seguito fin dall’inizio tutta la lunga elaborazione di
questo libro, o di gran parte di essa: Sebastiano Timpanaro, senza il cui in-
coraggiamento non avrei mai osato dedicarmi allo studio di Ennio, e al cui
giudizio ebbi la fortuna e l’onore di poter sottoporre una prima versione
del commento alle Saturae e al Sota, e Alberto Cavarzere, che con mano sa-
piente ha saputo spronarmi a superare i momenti di difficoltà.
La dedica al mio maestro Alessandro Perutelli è solo un pallido risarci-
mento di quanto ho imparato da lui, che non ha fatto in tempo a vedere la
pubblicazione di questo libro.
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Le edizioni delle opere minori di Ennio e i criteri adottati


nella presente edizione

Le fonti antiche attribuiscono a Quinto Ennio (239- 169 a.C.1) – oltre ad un


poema epico Annales e a numerosi testi teatrali (tra i quali vi sono soprattutto tra-
gedie di ambientazione greca e, in misura assai minore, preteste e commedie) –
anche
• alcuni epigrammi
e una serie di opere intitolate:
• Epicarmus
• Euhemerus siue sacra historia
• Hedupagetica (?)2
• Praecepta3
• Protrepticus
• Saturae
• Scipio
• Sota.
A questo terzo gruppo oggi ci si riferisce comunemente con le espressioni ‘ope-
re minori’ – oppure ‘operette’ – di Ennio o, senz’altro, ‘Ennio minore’. È solo per
ossequio a una tradizione ormai consolidata che utilizzeremo anche noi queste
espressioni, che richiedono tuttavia due precisazioni: 1) il diminutivo ‘operette’ e
l’aggettivo ‘minore’ non implicano, almeno da parte nostra, un giudizio di valore
limitativo – che sarebbe quanto meno un puro azzardo esprimere a proposito di
questa produzione enniana che, come vedremo, conosciamo assai poco4 – né, per
la stessa ragione, ‘operette’ e ‘minore’ possono essere riferiti alla presunta brevità

1 G. D’Anna ha proposto in numerosi interventi (cfr. in particolare «RFIC» 107, 1979, 243-251) di abbas-

sare la datazione tradizionale della data di morte a dopo il 167 a.C. (sulla questione cfr. anche S. Timpanaro in
«Gnomon» 74, 2002, 676). Per quanto riguarda le trattazioni complessive sulla vita e le opere di Ennio mi limi-
to qui a segnalare W. Suerbaum, HLL 1 (2002), 119-142 e quella recentissima di Andreola Rossi - B.W. Breed,
in «Arethusa» 39, 2006 (numero monografico dedicato a Ennius and the Invention of Roman Epic), 397-425. Tut-
ta la bibliografia enniana del XX secolo, e la bibliografia precedente più importante, si trova ora raccolta nell’u-
tile e accurato repertorio di Suerbaum 2003.
2 Il titolo è tuttavia incerto, come vedremo nell’introduzione a quest’opera.
3 Mi soffermo nell’introduzione a quest’opera sulle ragioni per cui ritengo più cauto distinguere, contro

l’opinione vulgata, i Praecepta dal Protrepticus.


4 E si ricordi, di contrasto, quanto Mariotti 1991, 78 osservava a proposito di una delle opere dell’Ennio

minore, le Saturae: «secondo noi l’opera centrale e più tipica, per la loro esperienza stilistica, di Ennio, l’eredità
più personale che egli ha lasciato alla tradizione letteraria romana».
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12 Le opere minori di Ennio

di tali opere in contrapposizione ai più corposi testi degli Annales o delle trage-
die: risulta anzi che le Saturae erano costituite da 4 libri (o, secondo un’altra te-
stimonianza, tuttavia meno affidabile, addirittura da 6); 2) di solito si presuppone
che ‘Ennio minore’ indichi tutte le opere di Ennio con esclusione degli Annales e
delle opere sceniche: ma nel nostro lavoro abbiamo cercato di rivendicare l’ipote-
si che una delle opere dell’Ennio minore, lo Scipio, fosse una pretesta, e dunque
un’opera teatrale.

Anche l’Ennio minore, come il resto della produzione enniana, ci è giunto so-
lo in frammenti conservati per tradizione indiretta. Alcuni dati ci portano a rite-
nere che le opere enniane minori, o buona parte di esse, si siano conservate alme-
no fino alla fine del II secolo d.C.: almeno una copia del Sota circolava intorno al-
la metà del II secolo d.C., come ricaviamo con assoluta sicurezza da una lettera di
Marco Aurelio a Frontone (p. 56, 1-2 v. d. H.2) databile al 143-145 (su questa te-
stimonianza cfr. qui sotto, introd. al Sota, 244 s.); pur dichiarando di citarne alcu-
ni versi a memoria, Apuleio nell’Apologia (databile al 158-159 d.C.5) sembra mo-
strare una conoscenza diretta degli Hedupagetica nella loro interezza: questa ipo-
tesi spiegherebbe agevolmente come Apuleio, introducendo la citazione dei versi,
possa affermare che essi costituissero solo una piccola parte dell’opera (cfr. apol.
39: Quintus Ennius ‘Hedupagetica’ uersibus scripsit. Innumerabilia genera piscium
enumerat, quae scilicet curiose cognorat. Paucos uersus memini, eos dicam; cfr. an-
che le parole di Apuleio che seguono la citazione dei versi: alios [scil. pisces] etiam
multis uersibus decorauit, et ubi gentium quisque eorum, qualiter assus aut iusulen-
tus optime sapiat); analoghe considerazioni si possono fare riguardo alla cono-
scenza delle Saturae enniane presupposta da Aulo Gellio nelle sue Notti attiche
(databili approssimativamente al 170 d.C.), dove si introduce la citazione di due
settenari trocaici affermando che essi costituiscono i due versi finali di una satira
enniana (per la citazione di un settenario trocaico dello Scipio, invece, Gellio di-
chiara apertamente di dipendere da Valerio Probo). Non è invece possibile preci-
sare fino a quale epoca le varie operette si siano conservate integre.
A quanto risulta, il primo in epoca moderna ad auspicare una raccolta di tutti
i resti enniani a noi pervenuti6 fu lo spagnolo Juan Luis de Vivès (Saragozza 1492-
15407) in una nota della sua edizione commentata del De ciuitate dei di S. Agosti-

5 Per la datazione cfr. ad es. Apuleios of Madauros, Pro se de Magia (Apologia), ed. with a comm. by V. Hu-

nink, 2 voll., Amsterdam 1997: I 12.


6 Una trattazione dedicata specificamente alla storia delle edizioni delle opere minori di Ennio non esiste:

molto di utile al riguardo si può tuttavia ricavare dalle storie delle edizioni dei testi frammentari latini (cfr. l’ot-
tima sintesi di De Nonno 1990, 597-603), di quelli enniani in generale (cfr. soprattutto, per i giudizi assai acuti,
Valmaggi 1900, IX-XV, [qui, p. IX n. 1 rinvii all’ulteriore bibliografia precedente]; Vahlen 1903, CXXXI-
CXXXVII; Timpanaro 1946, 42-49; Mariotti 1991, 34-38) o dei frammenti enniani solo degli Annales (Flores
1999) o solo delle opere sceniche (Jocelyn 1969, 184-192); specifico J.J. MARTOS, La ediciór de los fragmentos trá-
gicos de Ennio de Martín del Río, «Humanistica Lavaniensia» 55, 2006, 161-182.
7 Cfr. Sandys 1908, II 214.
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Le edizioni 13

no pubblicata per la prima volta a Basilea nel 15228. E la più antica raccolta a noi
nota dei frammenti di Ennio, oltre che di numerosi altri autori latini, fu compiu-
ta da un altro spagnolo, Antonius Augustinus (Antonio Agustín, 1517-1586) nei
Fragmenta veterum scriptorum Latinorum: ma tale raccolta, probabilmente realiz-
zata prima del 1554 o almeno del 1557, rimase quasi completamente inedita, e ci
è conservata solo da due codici manoscritti conservati nella Biblioteca Nacional
di Madrid9.

La vera editio princeps di quasi tutti i frammenti di Ennio (oltre che di nume-
rosi altri autori latini), dunque, deve essere considerata quella contenuta nei Frag-
menta poetarum veterum Latinorum (Stephanus 1564) curati da Robert Estienne
(o Roberto Stefano o R. Stephanus: Parigi 1503 - Ginevra 1559) e da suo figlio
Henri (o Enrico Stefano o E. Stephanus: Parigi 1528-3110 - Lione 1598) e il cui
frontespizio reca la data (1564), ma non il luogo di pubblicazione: quest’ultimo,
tuttavia, con molta verosimiglianza viene in genere identificato con Ginevra, do-
ve i due Estienne, passati al protestantesimo, si erano rifugiati per scampare alle
lotte di religione11. Il lunghissimo frontespizio ci informa invece del fatto che i
frammenti furono raccolti da Robert, e ordinati e commentati da Henri. Il volu-
me, di formato assai maneggevole, consiste di 433 pagine ed è organizzato in mo-
do molto composito: dopo alcune testimonianze tratte da Quintiliano su Ennio e
altri poeti (pp. 3-4), vi è una lunga sezione (pp. 5-366) che, come avverte la pagi-
na iniziale, raccoglie i frammenti «poetarum veterum» di poeti cioè, come si ca-
pisce in contrapposizione alla sezione delle pagine 390-426 (cfr. sotto), grosso mo-
do di età arcaica e tardo repubblicana. Tali frammenti sono disposti innanzitutto
in ordine alfabetico secondo il nome dell’autore (e a prescindere quindi dalla lo-
ro cronologia): quelli di Ennio si trovano qui alle pp. 77-136. In questa e nelle suc-
cessive sezioni, il testo dei frammenti, stampato in carattere tondo, è seguito im-
mediatamente da alcune indicazioni in carattere corsivo e che consistono, per lo
più, nella menzione delle fonti (designate in modi assai vari: ora limitandosi al no-
me dell’autore, ora specificando meglio il luogo) e delle ragioni per cui esse cita-
no il frammento; il contesto in alcuni casi viene parafrasato, in altri viene citato te-
stualmente. Alle pp. 367-389 si trovano i frammenti poetici citati dalle fonti sen-
za nome d’autore e alle pp. 390-426 frammenti poetici di autori di epoca per lo

8 La nota è a 2, 21. Questa interessante testimonianza è stata segnalata, a quanto mi risulta, solo da Jocelyn

1969, 184, da cui dipendo.


9 Cfr. A. Lunelli, I Fragmenta Latinorum poetarum inediti di Antonius Augustinus con appendici di altra

mano ora per la prima volta identificata: progetto di edizione, «RCCM» 20, 1978 (= Miscellanea Barchiesi, III),
1007-1019: è da questo articolo che ricavo la datazione della raccolta (p. 1013) e la notizia che in essa si trova-
vano anche i frammenti di Ennio (p. 1008).
10 Sulla data di nascita cfr. Sandys 1908, II 175.
11 Sulle circostanze della pubblicazione di quest’opera cfr. Barchiesi 1962, 1 s. e 171-174, dalla cui docu-

mentazione bisogna dedurre che i Fragmenta, nonostante rechino, come si è detto sopra nel testo, la data di pub-
blicazione 1564, erano già stampati nel 1563.
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14 Le opere minori di Ennio

più successiva a quelli raccolti nelle pagine precedenti e disposti anche in questo
caso in ordine alfabetico.
Alle p. 426 s. si trova una interessante avvertenza di «Henr. Stephanus lectori»
che è opportuno qui riportare con ampiezza perché non sempre è stata corretta-
mente interpretata:
«Habes Lector quae tibi libri mei titulus promisit: immo uero multo plura et maiora
quam promisit. [...] Sed tamen ne his quidem contentus, plurimos uersus ajdespovtou",
qui passim apud authores leguntur, additurus eram: plurimos etiam ab illis scriptos qui in
poetarum album referri non solent: quinetiam quoscumque aut ipse Romae ac Neapoli ex
marmoribus descripsissem12, aut ab aliis descriptos nactus essem, hoc uolumine include-
re cogitabam: sed errores quibus eos scatere comperi, me, mutata sententia, in aliud tem-
pus illorum editionem coegerunt, cum eorum quae hic praetermissa fuerint appendice.
Quid? Ea uero quae nunc a te dantur poetarum fragmenta (dixerit forsitan aliquis) men-
dis carere existimas? Minime profecto. Immo quamuis (ut res ipsa testatur) ex laboriosis-
sima locorum collatione in quibus a diuersis authoribus iidem uersus citantur, infinitos
propemodum errores emendauerim, non paucos adhuc superesse et scio et doleo. Sed non
quae illos, eadem hos quoque emendandi spes mihi superest: propterea quod marmorea
ex quibus illi corrigi possint, adhuc extare novi: at uereor ut extent usquam uetera exem-
plaria Festi, Nonii, Prisciani et aliorum, tam emendata ut ex ipsis horum emendatio peti
possit. Eiusmodi tamen sunt haec quae a nobis nunc accipis, licet mundis alicubi foedata,
ut posteaquam ea diligenter euolueris, te quantum profeceris non poenitere dicturus sis».

H. Estienne, dunque, dichiara qui che – pur avendo avuto in un primo tempo
l’intenzione di aggiungere alla raccolta anche moltissimi versi adespoti nonché di
autori, quali quelli dei versi epigrafici, che non si è soliti annoverare tra i poeti – si
era poi accorto che quest’ultimo tipo di versi era pieno di errori, e aveva deciso di
rinviarne la pubblicazione ad un secondo tempo assieme a quella di una appendi-
ce che raccogliesse i frammenti che fossero risultati omessi nella edizione che lì pre-
sentava. H. Estienne affronta quindi una possibile obiezione: se il rinvio della edi-
zione dei testi epigrafici viene giustificato appellandosi al fatto che tali testi sono
pieni di errori, una considerazione analoga avrebbe dovuto indurre al rinvio della
pubblicazione pure degli altri frammenti, perché anche il testo di questi ultimi è as-
sai difettoso; ciò viene riconosciuto anche da H. Estienne, il quale tuttavia ribatte
che, mentre per i versi epigrafici sussiste la speranza di risalire direttamente alla
fonte stessa, e cioè all’iscrizione, e sanare così le corruttele del testo, nel caso dei
frammenti di tradizione indiretta lo Stephanus ritiene improbabile che sopravviva-
no manoscritti delle fonti (tra le quali si menzionano Festo, Nonio e Prisciano) co-
sì corretti che possano permettere ulteriori correzioni dei frammenti lì citati13.

12 H. Estienne soggiornò in Italia per due lunghi periodi, il primo dei quali risale agli anni 1547-49: cfr.

Sandys 1908, II 175.


13 A proposito della edizione degli Estienne Flores 1999, 7 s. osserva: «c’è nell’editore la consapevolezza che

altri potrà dare un testo più emendato, basandosi sull’acquisizione di «uetera exemplaria», cioè di altri antichi ma-
noscritti degli autori che hanno citato il testo di Ennio»: ma questa affermazione sembra derivare da un frainten-
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Le edizioni 15

L’avvertenza di H. Estienne è premessa a una breve serie di succinte note ag-


giuntive con cui si chiude il libro (pp. 427-433) e ordinate secondo il numero di
pagina dove si trova il frammento a cui esse si riferiscono (quelle riguardanti i
frammenti enniani si trovano a 431 s.).
I frammenti enniani (che si trovano, come si è detto, alle pp. 77-136) sono rag-
gruppati in quattro sezioni principali distinte in base a un criterio prevalente-
mente, ma non esclusivamente, metrico: 1) esametri (77-106); 2) epigrammi (106-
108); 3) versi «ex eiusdem Ennii tragoediis, et aliis scriptis» (108-128); 4) altri ver-
si, «iambici magna ex parte, ex eius tragoediis, aliisue libris, quorum adscripta
non sunt ab authoribus nomina» (128-136).
Come è intuibile, i frammenti dell’Ennio minore si trovano, oltre che nella se-
zione 2, riservata agli epigrammi, anche nella sezione 3, dove sono raggruppati sot-
to il titolo dell’opera di provenienza; queste ultime sono disposte in ordine alfabe-
tico secondo il titolo, e senza fare distinzione tra opere sceniche e non: abbiamo
dunque i frammenti dall’«Asoto uel Asota» (opera oggi nota con il titolo Sota: p.
111); dall’Epicharmus (p. 113); dall’Euhemerus (p. 114)14; dai Praecepta (p. 124);
dal «Sabinarum opere»15 (p. 124); dalle Satyrae (p. 125); dallo Scipio (p. 125 s.)16.
Skutsch 1985, XI giudica l’edizione degli Estienne «of bibliophile interest
only»: e certo questa valutazione assai riduttiva è del tutto giusta se si cercano in
tale edizione contributi di qualche interesse all’esegesi, alla costituzione del testo
o all’ordinamento dei frammenti; anche l’opera di raccolta dei testi, inoltre, è as-
sai difettosa: per limitarci all’Ennio minore, mancano completamente in essa gli
11 versi degli Hedupagetica; non viene menzionato il Protrepticus; viene citato, co-
me abbiamo visto, solo uno dei numerosi frammenti dell’Euhemerus; tra i fram-
menti delle Saturae non si trovano i 4 versi (Sat. XII = 59-62 V.2) ad esse esplici-
tamente attribuiti da Gellio17. E tuttavia tutti questi difetti devono essere valutati

dimento di un passaggio dell’avvertenza di H. Estienne citata e discussa nel testo, e precisamente delle parole «ue-
reor ut extent usquam uetera exemplaria Festi, Nonii, Prisciani et aliorum, tam emendata ut ex ipsis horum emen-
datio peti possit»: in realtà, come abbiamo visto, H. Estienne sostiene una posizione esattamente contraria.
14 L’unico frammento di quest’opera riportato dagli Estienne (corrispondente a Var. 60 s. V.2) è, come vie-

ne oggi ammesso anche per il resto dell’Euhemerus, in prosa (in ogni caso il frammento viene riconosciuto come
prosastico dagli Estienne, che lo stampano senza andare a capo): in questo modo abbiamo una piccola, com-
prensibile deroga al proposito, indicato dal titolo della silloge degli Estienne, di presentare i frammenti poetici,
e di rinviare ad un secondo tempo l’edizione dei frammenti in prosa.
15 Sull’identificazione di quest’opera cfr. comm. a Sat. VIII, p. 118 ss.
16 Da quanto abbiamo osservato finora risulta chiaro che deve essere rettificata l’affermazione di Flores

1999, 7 il quale indica come «vera editio princeps, e non soltanto degli Annales ma dell’intera opera di Ennio»
non l’edizione degli Estienne, ma la successiva edizione a cura di G. Colonna (su cui v. infra, nel testo): in realtà
anche l’edizione degli Estienne si proponeva, e in larga parte realizzava, una raccolta dei frammenti di tutte le
opere enniane. Probabilmente Flores dipende dalla seguente affermazione, anch’essa erronea, di Valmaggi 1900,
X sempre a proposito del volume del Colonna: «è la prima edizione completa dei frammenti di Ennio, com-
prendendo anche quelli dell’Evemero, trascurati dagli Estienne».
17 Queste considerazioni rendono più probabile l’ipotesi che anche l’omissione di Sat. IX (la cui problema-

tica attribuzione alle Saturae si basa principalmente su una testimonianza contenuta nell’edizione, pubblicata nel
1529 proprio a cura di R. Estienne, del commento di Donato a Terenzio: cfr. comm. ad loc.) sia da attribuire a
una svista e non a una scelta deliberata.
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16 Le opere minori di Ennio

in una prospettiva storica: non è possibile infatti non tenere conto del carattere
pioneristico e dell’ampiezza di propositi dell’edizione degli Estienne: con essa per
la prima volta si dava alle stampe una raccolta di frammenti di numerosissimi au-
tori e del cui carattere provvisorio, d’altro canto, come abbiamo visto sopra, era
consapevole lo stesso H. Estienne; e si consideri inoltre che l’edizione degli
Estienne uscì in un momento particolarmente sfavorevole per due ragioni: solo
negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione della silloge si ebbero a
disposizione edizioni delle fonti più affidabili di quelle su cui potevano contare gli
Estienne18; in secondo luogo, per le stesse ragioni cronologiche, la raccolta degli
Estienne non potè giovarsi dell’intensa attività filologica che venne dedicata ai te-
sti frammentari latini proprio a partire dalla metà degli anni 60 del XVI secolo, e
che segnò un notevole progresso nella costituzione del testo e nell’interpretazio-
ne anche dell’Ennio minore, arrivando spesso a risultati definitivi: proprio nel
1564 e nel 1565 uscirono rispettivamente il primo e il secondo tomo in cui si rac-
colgono i 24 libri degli Aduersaria di Adrianus Turnebus19 (Turnebus 1564 e
1565), e dove si trovano, tra gli altri, un decisivo contributo all’esegesi di Sat. XVI
(cfr. qui sotto comm. ad loc., n. 1), una correzione di Sota I che verrà confermata
definitivamente nel 1582 grazie all’acquisizione di una nuova fonte (cfr. comm. ad
loc., p. 267) e quella che può essere considerata, se si escludono le edizioni della
fonte Apuleio, l’editio princeps degli Hedupagetica20 i quali, come abbiamo visto,
erano stati omessi nell’edizione degli Estienne; Giuseppe Giusto Scaligero (Jo-
seph Justus Scaliger [della Scala, de l’Escale], 1540-1609) pubblica nel 1565 i Co-
niectanea al De lingua Latina di Varrone (Scaliger 156521) in cui si trovano anche
numerosi contributi esegetico-testuali alle opere lì citate: per quanto riguarda
l’Ennio minore, particolarmente interessante è l’intuizione – che solo nel XIX se-
colo, con l’acquisizione di una nuova testimonianza antica, verrà precisata e defi-
nitivamente confermata – secondo la quale nell’opera che girava sotto il titolo di
Asotus o Asota (così, come abbiamo visto, anche nella edizione degli Estienne, e
poi ancora per lungo tempo dopo Scaligero) fosse invece da vedere un riferimen-
to al poeta ellenistico Sotade di Maronea (cfr. sotto, p. 245); nel 1572 a Lione esce,
sempre a cura di Scaligero, una nuova edizione degli Hedupagetica e degli epi-
grammi all’interno della silloge di vari testi latini aggiunti all’edizione dell’Appen-
dix Vergiliana (Scaliger 1572); nelle Castigationes a Festo pubblicate per la prima
volta nel 1575, e poi, accresciute e corrette, nel 1576 (rispettivamente Scaliger
1575 e 1576), inoltre, lo Scaligero contribuisce a diffondere il testo di alcuni

18 Nel 1565 fu pubblicata ad esempio l’edizione di Nonio curata da H. Junius (Junius 1565; Adriaan de Jon-

ghe, 1511-1575) che segnò un grande progresso rispetto alle edizioni precedenti; nel 1575 la prima edizione di
Festo a cura di G. G. Scaligero (Scaliger 1575); nel 1583 un’altra importante edizione di Nonio, la prima delle
due curate da J. Mercerius (Josas Mercier, morto nel 1626): cfr. Mercier 1583 e Mercier 1614.
19 Il nome originale di Turnebus (1512-1565) è incerto: in ogni caso non parrebbe attestata la forma ‘Turnè-

be’ comunemente accolta (cfr. Sandys 1908, II 185, n. 1).


20 Turnebus 1565, f. 206r.
21 Quest’opera è erroneamenta datata al 1575 da Müller 1839, XXXVII.
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Le edizioni 17

frammenti – tra i quali anche uno delle satire enniane (Sat. III: cfr. comm. ad loc.)
– fino a quel momento ignoti perché contenuti nel commento a Virgilio del co-
siddetto Servio Danielino che verrà pubblicato a stampa solo nel 1600 e che il pro-
prietario dei codici, Pierre Daniel, fece conoscere in anteprima all’amico Scalige-
ro22; Janus Gulielmus (1555-1584) propone numerosi interventi a frammenti en-
niani provenienti da varie opere nei Verisimilium libri II, pubblicati ad Anversa
nel 1582 e nel Plautinarum quaestionum commentarius (= Gulielmus 1583): in
quest’ultima opera, in particolare, si trova un contributo, di carattere esegetico e
testuale, che riguarda un passo delle satire (Sat. II) e che è tuttora meritevole di
attenzione (cfr. comm. ad loc.).
A questa attività filologica sui frammenti diede inoltre un impulso indiretta-
mente anche la stessa silloge approntata dagli Estienne, come dimostra il fatto che
su di essa appuntò numerose sue congetture Lucas Fruterius (Lucas Fruitiers,
Brügge 1542 - Parigi 31.III.1566)23, a cui si deve anche una proposta di correzio-
ne che riguarda un frammento delle satire enniane (Sat. XIb, 1), e che tutt’oggi vie-
ne menzionata negli apparati e talvolta accolta nel testo24.
È certo tuttavia che rispetto a quella degli Estienne l’edizione, con ampio com-
mento, di tutto Ennio uscita circa 20 anni dopo e approntata da Girolamo Co-
lonna (Hieronymus Columna, Napoli 1534 - 3. IV. 1586)25 segna un enorme pro-
gresso. L’edizione completa26 a cui di solito si fa riferimento è quella uscita po-
stuma a Napoli a cura del figlio Giovanni (a cui il libro è dedicato) nel 1590 (Co-
lonna 1590): si tratta di un volume in 4°, di complessive 342 pagine27 suddivise in
4 sezioni così costituite:
1) lettera dedicatoria di Girolamo al figlio Giovanni (pp. 3-6 n. n. dopo il frontespizio);
poesie celebrative in onore di Girolamo (pp. 7-9 n. n. dopo il frontespizio); testimonian-
ze antiche su Ennio (pp. II-VI); una trattazione sulla vita e le opere di Ennio (pp. VIII-
XVI, 1-32); testo e commento degli Annales (pp. 33-242);
2) nella seconda sezione (pp. 243-304) si trovano, come avverte l’indice che compare
nella pagina iniziale (243), testo e commento delle opere minori (escluso l’Euhemerus, che

22 Sulla diffusione del commento di Servio Danielino prima dell’editio princeps cfr. Barchiesi 1962, 179 non-

ché Ch. E. Murgia, Prolegomena to Servius 5 - The manuscripts, Berkeley 1975, 15-19 (16 n. 31 per una lista com-
pleta dei passi danielini citt. da Scaligero: ma aggiungi Scaliger 1576, LXX, 18 dove si riporta Serv. Dan. ad Aen.
4, 424) e A. Grafton, Joseph Scaliger. A study in the history of classical scholarship, I: Textual criticism and exege-
sis, Oxford 1983, 152. A queste testimonianze sono da aggiungere, perché particolarmente interessanti, anche
quelle di Merula 1595, C e CCXXXII.
23 Cfr. W. Meyer, Des Lucas Fruterius Verbesserungen zu den Fragm. poet. lat. a. 1564, «RhM» 33, 1878,

238-249.
24 È significativo che tutti i nomi che abbiamo fin qui menzionato (Scaligero, Turnebus, Fruitiers, Guliel-

mus) si ritrovino nell’elenco di filologi che vengono citati nel selettivo apparato critico di Skutsch 1985 (di cui
cfr. p. XVIII).
25 Ricavo le date da N. Longo in Dizionario Biografico degli Italiani XXVII [1982], 345; su G. Colonna cfr.

anche Mariotti 1991, 131-146.


26 Una descrizione accuratissima delle varie edizioni dell’Ennio del Colonna in Lunelli 1997, 227-231.
27 Qui e di seguito per maggiori dettagli rinvio al lavoro di Lunelli 1997: sull’edizione del 1590 in partico-

lare 228-230.
001_Le edizioni ecc._11 9-01-2008 12:21 Pagina 18

18 Le opere minori di Ennio

si trova nella sezione 4) e precisamente: Phagetica (opera noti oggi con il titolo Hedupage-
tica: pp. 245-258); epigrammi (pp. 258-265); Scipio (pp. 265-271); Epicharmus (pp. 271-
290), Asotus (= Sota, pp. 290-294); Satyrae (pp. 294-300); Protrepticus (p. 301); Praecepta
(302-303); oltre a quello segnalato nell’indice, si trova un «fragmentum ex incerto libro»
(= Sc. 12 V.2, p. 303) e la testimonianza di Cic. diu. 2, 111 (= Inc. 53 V.2) raccolta sotto il
titolo De acrostichidibus (p. 303 s.);
3) nella terza sezione (pp. 305-475) si trovano i frammenti scenici;
4) nella quarta sezione (pp. 477-505) si trovano le reliquie dell’Euhemerus nonché i
frammenti enniani di opera incerta.

Concludono il volume:
a) un elenco degli studiosi citati («Auctorum elenchus quorum opera in his fragmentis
collingendis explicandisue usi sumus»: pp. II-VIII dopo p. 505) ordinato alfabeticamente
secondo il loro prenome e non secondo il gentilizio (Turnebus ad esempio si trova sotto
la ‘A’ di ‘Adrianus’);
b) un accurato indice delle cose notevoli (pp. IX-XL n. n. dopo p. 505).

Ma O. Skutsch ha segnalato, a quanto pare per primo, l’esistenza di un’edizio-


ne delle prime due parti edita sempre a Napoli da Girolamo Colonna in persona
negli anni 1585-1586, quando egli era ancora in vita (Colonna 1585-86)28: questa
emissione più antica, per la parte di testo in comune, non sembrerebbe presenta-
re differenze sostanziali rispetto all’edizione del 159029, ma per la maggior parte
delle opere minori di Ennio impone comunque una retrodatazione della prima
pubblicazione della edizione e del commento del Colonna.
Il Colonna, nella già menzionata lettera dedicatoria al figlio Giovanni, afferma
di aver interrotto studi più impegnativi non meglio precisati («gravioribus studiis
intermissis»)30 e di essersi dedicato ad attività intellettuali più lievi («ad mansue-
tiores Musas») – all’interno delle quali rientrano appunto la raccolta e il com-
mento delle reliquie di Ennio – per lenire l’immenso dolore provocato dalla pre-
matura scomparsa dell’amatissima moglie; dichiara inoltre di essersi dedicato pro-
prio a Ennio stimolato dall’interesse per questo e gli altri poeti latini arcaici di-
mostrato dal figlio Giovanni. Questa premessa permette a Girolamo di rivolgersi
al figlio giustificandosi nello stesso tempo di fronte ai lettori dotti, che potrebbe-
ro trovare il suo commento di carattere troppo didattico e dedicato a questioni
«minutiora» e «humiliora»: «illius enim rei – risponde Colonna – potissimum a

28 Cfr. O. Skutsch, «CQ» 54, 1960, 188 e n. 2 = Skutsch 1968, 46 e 59 n. 2. De Nonno 1990, 599 n. 6 ri-

chiama d’altronde la precisa testimonianza che si trovava già nella IV p. n. n. dopo p. 304 dell’ed. del 1590: «Re-
liquos duos tomos Ioannes filius, cum pater immature decessisset post primum atque alterum librum absolutum
et emendatum, ne imperfectum opus in lucem prodiret, utque vel mortuo patri morem gereret, summo studio
summaque diligentia cum auctorum elencho, et indice omnium rerum notabilium locupletissimo imprimendos
curat.». La data 1585 compare nel frontespizio, la data 1586 nel colofone: si veda la descrizione dettagliata in
Lunelli 1997, 227 s.
29 Cfr. Lunelli 1997, 229.
30 Non è chiaro a che cosa si riferisca qui Colonna, di cui non sono note altre pubblicazioni oltre all’edi-

zione di Ennio.
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Le edizioni 19

me ratio habita est, ut tibi tuisque studiis consulerem, daremque operam ut a te


omnia quam minimo labore intelligerentur».
In realtà, nonostante il tono dimesso con cui Colonna presenta il suo lavoro, es-
so risulta di altissimo livello: innanzitutto bisogna osservare che la raccolta dei
frammenti, contrariamente a quella degli Estienne, è assolutamente completa, al-
meno per la documentazione disponibile fino a quel tempo (si noti ad esempio
che Colonna riporta il frammento Sat. III all’epoca ricavabile non dall’edizione di
una fonte antica, come abbiamo visto, ma solo dalle Castigationes dello Scaligero);
inoltre nell’edizione e nel commento vengono messi a frutto tutti i contributi filo-
logici a lui precedenti31, anche quelli più recenti: qui si trova infatti già citato, ad
esempio, il contributo a Sat. II (= Sat. 2 V.2), sopra menzionato, comparso nel
Commentarius di Gulielmus uscito nel 1583. E d’altro canto l’accuratezza della
documentazione e la ricchezza di acume e dottrina presente nell’edizione del Co-
lonna furono riconosciute fin dai contemporanei (tra cui G.G. Scaligero32).
Il lavoro di Colonna apparirà tanto più meritorio se si considera che – mentre
ben presto si poté disporre dell’ed. commentata di Paul van Merle (Paulus Meru-
la) per gli Annales (Lugduni Batavorum 1595) e, per i frammenti tragici, dei Col-
lectanea veterum tragicorum (Lugduni Batavorum 1620) di P. Schryver (P. Scrive-
rius) – bisognerà invece attendere più di due secoli e mezzo per avere, con la pri-
ma edizione enniana di J. Vahlen del 1854 (cfr. sotto), una nuova importante edi-
zione delle opere minori33. Che l’edizione di Colonna abbia continuato a costitui-
re per lungo tempo un fondamentale punto di riferimento nel campo degli studi
enniani è dimostrato anche dal fatto che nel 1707 F. Hessel ne curò una ristampa
che si proponeva di rimettere in circolazione un’opera che doveva ormai risultare
difficilmente reperibile ma che era evidentemente ancora molto richiesta34.
Un punto di svolta, come si è detto, si ebbe con la prima edizione di tutte le ope-
re enniane uscita a Lipsia nel 1854 a cura di Johannes Vahlen (1830-1911: Vahlen
31 Questo è confermato anche dal lunghissimo «Auctorum elenchus ecc.» menzionato sopra nel testo. Co-

me ha dimostrato Jocelyn 1969, 185, sulla base dell’ordinamento dei frammenti degli Hectoris lutra, Colonna
tenne conto anche della precedente edizione degli Estienne.
32 Cfr. le testimonianze nella prefazione di Merula 1595, 15.
33 Di scarso rilievo sono l’edizioncina di tutto Ennio curata da J. A. Giles (Q. Ennii [...] reliquiae quae ex-

tant omnes, ex editionibus variis conquisitae a J. A. Giles, [...] Oxoniae et Londini 1834) e quella antologica, di
carattere scolastico, contenuta in Latini sermonis vetustioris reliquiae selectae. Recueil publié sous les auspices de
Villemain, par A. E. Egger, Paris 1843 (i frammenti enniani si trovano alle pp. 137-154).
34 Questo intento viene più volte ribadito nelle varie prefazioni e nelle poesie celebrative riportate all’inizio

della ristampa (cfr. ad es. l’apostrofe che J. Broukhusius rivolge al Colonna: rara tui sudoris erant monumenta;
nec usquam / parebat doctae sedulitatis opus). Il commento, posto dal Colonna alla fine di ogni sezione, da Hes-
sel viene stampato direttamente a pie’ di pagina. Alla fine del volume Hessel riporta anche i frammenti degli An-
nales secondo l’edizione di Merula del 1595 e le Castigationes di G. J. Voss ai frammenti tragici già stampate nel-
l’edizione dello Scriverius. Nel corso del lavoro ho utilizzato la ristampa di Hessel, più facilmente reperibile, ma
ho controllato tutti i passi chiamati in causa, oltre che sull’ed. del 1590, anche su un esemplare, assolutamente
raro, dell’ed. del 1585-86 (che, come si è visto, conteneva già i frammenti di quasi tutte le opere minori) posse-
duto dalla Bibl. Naz. di Firenze (Magliab. 5 E. 3. 92) e fortunatamente recuperato dall’alluvione del 1966. Del-
l’ed. di Colonna esiste anche una ristampa del 1599, sempre di Napoli (ma non ex typographia H. Salviani, co-
me le precedenti, bensì apud Iacobum Carlinum et Antonium Pacem).
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20 Le opere minori di Ennio

1854). Quest’opera – come rievoca Vahlen stesso sia nella prefazione della prima
edizione (1854, VI ss.), che della seconda (1903, CXXXIV s.) – nacque sotto l’im-
pulso di Friedrich Ritschl (1806-1876), il maestro di Vahlen alla Rheinische Friedri-
ch-Wilhelms-Universität di Bonn35. È appunto questa università che, su iniziativa di
Ritschl, nell’autunno del 1851 bandì una gara in cui si richiedeva ai partecipanti di
presentare una dissertazione sulla vita e le opere di Ennio e, a seguire, una edizione
critica e commentata degli Annali. A questo concorso furono presentati due saggi:
l’uno ad opera di Vahlen, l’altro scritto a quattro mani da F. Th. Ilberg e Th. Hug.
Il 3 agosto 1852 l’università di Bonn assegnò il primo premio al lavoro di Vahlen sul-
la base delle motivazioni che sono riportate dallo stesso Vahlen (1903, CXXXIV), il
quale le attribuisce, con parole in cui traspare l’affetto dell’allievo, a F. Ritschl
(«haec quae singularem vim et virtutem Ritschelii luculenter expressam tenent»).
Dopo la conclusione della gara, il Vahlen pubblicò nel 1852 le Quaestiones En-
nianae criticae e si dedicò ad un’edizione che, secondo il proposito iniziale, dove-
va contenere solo i frammenti degli Annales (cfr. Vahlen 1854, IX), con l’esclu-
sione dunque sia delle opere sceniche che di quelle minori. Fu solo in un secon-
do tempo che il Vahlen si indusse ad accogliere anche i frammenti tragici, appro-
fittando del fatto che di essi era stata pubblicata proprio nel 1852 la prima edi-
zione negli Scenicae Romanorum poesis fragmenta curati da Otto Ribbeck, condi-
scepolo di Vahlen. Questo ampliamento del progetto iniziale indusse alla fine il
Vahlen ad accogliere nella sua edizione anche i frammenti delle opere minori (cfr.
Vahlen 1854, IX).
Per la sua prima edizione il Vahlen, come aveva ben chiaro egli stesso (1854, VII
s.), poteva disporre di edizioni delle fonti ormai antiquate: per questa ragione egli
dichiara (Vahlen 1854, VII ss.) di essersi avvalso di nuove, più affidabili collazioni
messegli gentilmente a disposizione da numerosi studiosi, molti dei quali proprio
in quegli anni stavano approntando o avevano appena approntato nuove edizioni
critiche di testi in cui venivano citati frammenti enniani: tra questi Vahlen menzio-
na ad es. Ludwig von Jan, la cui edizione di Macrobio uscì in due volumi datati ri-
spettivamente 1848 e 1852; M. Hertz, che pubblicò la prima delle sue numerose
edizioni di Gellio nel 1853; H. Keil, i cui Grammatici Latini cominciarono a usci-
re nel 185736. In alcuni casi le nuove collazioni giunsero quando una buona parte
dell’edizione dei frammenti era già stata stampata, e Vahlen ne riportò i dati non
all’interno dell’edizione, ma nella ‘Praefatio’ (Vahlen 1854, X-XIV): per quanto ri-
guarda le opere minori, è da segnalare in particolare la collazione, compiuta da H.
Keil e messa a disposizione di Vahlen da Alfred Fleckeisen37, del codice F di Apu-
35 Appunto a F. Ritschl, oltre che a L. Schopen e Th. Welcker, il Vahlen dedicherà la sua prima edizione en-
niana.
36 Un elenco sistematico delle nuove collazioni dei codici delle fonti viene fornito nell’ «Index librorum»

(Vahlen 1854, XV-XVII).


37 Il quale collaborò anche alla correzione delle bozze: cfr., oltre a Vahlen 1854, X, anche A. Fleckeisen, Zur

Kritik der altlateinischen Dichterfragmente bei Gellius. Sendschreiben an Doctor Martin Hertz in Berlin, Leipzig
1854, 40.
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Le edizioni 21

leio per la parte dell’Apologia in cui vengono citati gli unici versi degli Hedupage-
tica in nostro possesso (cfr. Vahlen 1854, XI).
L’edizione di Vahlen fu terminata all’inizio del 1854 (la ‘Praefatio’ è datata al
febbraio di quell’anno) e risulta costituita, oltre che dalla già menzionata ‘Praefa-
tio’ (pp. V-XIV), anche dall’‘Index librorum’ (XV-XVII), dalle ‘Quaestiones En-
nianae’ (XVIII-XCIV) in 8 capitoli38 e dall’edizione dei frammenti (pp. 1-186) di-
visa in 3 sezioni principali: 1) ‘Annalium reliquiae’ (1-88); 2) ‘Tragoediarum reli-
quiae’ (pp. 89-150); 3) ‘Comoediarum et ceterorum carminum reliquiae’ dove si
trova l’Ennio minore (nonché i frammenti di opera incerta e quelli spuri: pp. 151-
186). Le pagine dell’edizione sono nettamente divise in 3 sezioni: in cima si trova
il testo del frammento con numerazione romana di ogni singolo frustolo e con nu-
merazione araba progressiva dei versi (o delle parti di verso) nonché l’eventuale
indicazione del titolo o del libro di appartenenza; nella parte centrale, in corpo
minore, vengono indicati gli estremi delle fonti e si riportano anche ampie parti
del contesto (segnalandone anche eventuali problemi testuali); al fondo della pa-
gina, nella terza sezione, si trova l’apparato critico relativo ai frammenti enniani:
si tratta tuttavia di un apparato piuttosto composito perché in esso, oltre a varianti
e congetture, vengono segnalati anche confronti con loci similes. Non si mancherà
di riconoscere in questa impostazione tipografica del testo una chiara influenza di
quella del tutto identica già adottata nella già citata prima edizione dei frammen-
ti degli Scenicae Romanorum poesis fragmenta di Ribbeck, uscita nel 185239, e che
si ritroverà anche nelle successive edizioni del Ribbeck nonché nella seconda edi-
zione enniana del Vahlen. A differenza di questa, invece, l’apparato critico della
prima edizione risulta molto meno selettivo nella menzione sia delle varianti, che
delle congetture.
Proprio a partire da Vahlen 1854 verrà accolta per la prima volta, e avrà lunga
fortuna nelle successive edizioni enniane, l’ipotesi, formulata pochi anni prima da
Lersch 1837, secondo la quale l’opera enniana intitolata Scipio coincideva con il
III libro delle Saturae (cfr. Vahlen 1854, p. LXXXVI; su tale ipotesi, da ritenersi
infondata, ci soffermiamo con ampiezza nell’introduzione allo Scipio). Per questa
ragione in Vahlen 1854, 155 il libro III delle Saturae è sottotitolato appunto Sci-
pio, e a quest’opera vengono ricondotti non solo tutti i frammenti attribuiti dalle
fonti al III delle Satire e quelli attribuiti allo Scipio, ma anche molti altri frammenti
di attribuzione incerta. L’identificazione tra Scipio e III libro delle Satire costitui-
sce inoltre per Vahlen un ulteriore argomento, assieme ad altri, per inserire in que-
ste ultime anche altre opere enniane (le Sabinae come parte del IV libro sulla ba-

38 Un cui indice degli argomenti lì trattati si trova a p. 236: i primi 6 sono dedicati agli Annales, gli ultimi 2

alle opere minori (pp. LXXX-XCIV).


39 Nell’edizione dei frammenti scenici latini precedente a Ribbeck, quella di Bothe (Poetae scenici Latino-

rum, Lipsiae 1834) la pagina veniva invece divisa in due sezioni: in alto il testo dei frammenti, ognuno dei quali
era seguito immediatamente dall’indicazione degli estremi della fonte (di cui non veniva riportato il contesto), e
in basso l’apparato critico.
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22 Le opere minori di Ennio

se delle parole con cui Macrobio Sat. 6, 5, 5 introduce la citazione di Sat. VIII: cfr.
Vahlen 1854, LXXXVIII)40. Si tratta di una proposta che, come vedremo, sarà ri-
presa e sviluppata nelle successive edizioni di Ennio, ma che poi verrà ripudiata
dallo stesso Vahlen nella sua seconda edizione ed oggi – a ragione (cfr. sotto, in-
troduzione allo Scipio, p. 188 ss.) è stata per lo più abbandonata.
Tuttora accolte, o almeno ritenute degne di attenta considerazione, anche nel-
la presente edizione, sono invece molte delle altre novità introdotte da Vahlen
1854 nell’edizione dell’Ennio minore: fra queste vi è l’attribuzione alle Saturae di
un gruppo di frammenti tramandati senza indicazione dell’opera di provenienza
(Sat. XV, XVI, XVII; XVIII; Vahlen assegnava alle Saturae anche Sat. 66 V.2, qui
assente perché altrove ho cercato di dimostrarne la possibile attribuzione agli He-
dupagetica)41. È proprio a partire da Vahlen 1854, inoltre, che si ritiene che la pa-
rafrasi gelliana di una favola esopica sia ricalcata sulla corrispondente versione
della stessa favola contenuta nelle saturae enniane e viene quindi riportata nell’e-
dizione di quest’opera (Sat. XIa).
A un trentennio di distanza dalla prima edizione enniana di Vahlen uscirono,
nel giro di soli due anni (nel 1884 e nel 1886), ben due nuove edizioni di Ennio42.
La prima di queste si deve a Lucian Müller (1836-1898), un filologo di formazio-
ne tedesca (aveva studiato a Berlino e a Halle) ma che, dopo un quinquennio tra-
scorso in Olanda (1864-1869), e dopo un triennio trascorso a Bonn, nel 1872, non
riuscendo ad ottenere una cattedra in Germania, accettò di trasferirsi, su invito di
Dmitriy Andreyevich Tolstoy43, a Pietroburgo, dove Müller risiedette fino alla
morte44. Ed è proprio a Pietroburgo che nel 1884 uscirono a cura di Müller due
distinti volumi dedicati a Ennio: una edizione critica di tutti i frammenti enniani
(raccolti assieme a quelli del Bellum Poenicum di Nevio: Müller 188445) e una mo-

40 Vahlen 1854 nelle Quaestiones Ennianae premesse all’edizione avanza inoltre dubbiosamente l’ipotesi

dell’appartenenza alle satire anche del Protrepticus (p. XCI) e, con maggior scetticismo, degli Hedupagetica
(p. XCII).
41 Cfr. A. Russo, Un verso dagli Hedyphagetica di Ennio?, in L. Belloni, Lia De Finis, Gabriella Moretti

(curr.), L’officina ellenistica. Poesia dotta e popolare in Grecia e a Roma, Trento 2003, 91-116.
42 Nel frattempo era uscita anche un’edizione antologica con destinazione didattica: Fragments and

specimens of early latin with introductions and notes by John Wordsworth, Oxford 1874 (Ennio si trova alle
pp. 299-312).
43 Ministro dell’istruzione negli anni 1866-1880 (e dunque all’epoca della chiamata di Müller a Pietrobur-

go), Tolstoy introdusse lo studio del latino e del greco nelle scuole russe e fu presidente dell’Accademia impe-
riale delle Scienze.
44 Queste vicende biografiche vengono ricordate con una certa ampiezza, seppure con tono spesso allusivo,

dallo stesso Müller nella prefazione della seconda edizione del suo manuale di metrica (De re metrica poetarum
Latinorum praeter Plautum et Terentium libri septem, Leipzig 1894 = Hildesheim 1967, XI-XIII).
45 Questa edizione enniana a cura di L. Müller viene spesso citata con la data «1885»: così già – oltre che

in Valmaggi 1900, XIV e Vahlen 1903, CXXXVI – anche, a quanto pare, nel frontespizio della parziale ristam-
pa, sempre a cura di Müller, che compare all’interno del Corpus poetarum Latinarum a cura di I. P. Postgate
(Quinti Enni Annalium et Saturarum [Suerbaum 2003, 17: Satirarum Skutsch 1985, XI] reliquiae, ad normam
editionis a. 1885 in lucem datae mutatis perpaucis, rec. L. Müller, London 1893 [Suerbaum cit.: 1894 Skutsch
cit.], pp. 1-21: tale opera mi è stata inaccessibile; i cataloghi segnalano anche una «Ed. altera emendatior» del
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Le edizioni 23

nografia in tedesco (Müller 1884, Ein.). Tali opere nelle intenzioni dell’autore do-
vevano completarsi a vicenda e infatti nell’edizione sono frequenti i rinvi alla mo-
nografia per una trattazione più approfondita dei singoli problemi.
Nell’edizione di Müller la parte dedicata a Ennio è costituita da una breve
storia del Fortleben di Ennio e delle edizioni enniane fino a quel momento
(pp. V-XX), dall’edizione dei frammenti (pp. 1-145), da una raccolta delle testi-
monianze su Ennio (pp. 145-154) e infine da una serie di note di commento di ca-
rattere esegetico e testuale (pp. 173-248). L’edizione dei frammenti è a sua volta
divisa in tre sezioni principali: nella prima sono raccolti i frammenti degli Anna-
les (pp. 1-70), nella seconda quelli delle Saturae (pp. 71-88) e nella terza quelli del-
le opere teatrali (89-135; le rimanenti pagine dell’edizione sono dedicate ai fram-
menti di opera incerta o dubbia). Tutte le opere minori sono inserite all’interno
della sezione delle Saturae perché il Müller, portando alle estreme conseguenze la
tesi già precedentemente abbracciata da Vahlen, identificava completamente le
prime con le seconde.
L’edizione di Müller ha avuto alterne fortune, non sempre legate al suo intrin-
seco valore scientifico: in essa emerge senza mezzi termini un astio nei confronti
di Vahlen (e di Ribbeck) di cui non è difficile vedere ragioni anche di carattere
personale e che trova un corrispondente nell’ostilità con cui il Müller venne trat-
tato dall’accademia tedesca46. Anche per questa ragione, credo, per lungo tempo
l’edizione enniana di Müller è stata valutata nel complesso troppo negativamen-
te47 e solo di recente si è arrivati a un giudizio più equilibrato, rilevando come es-
sa, pur in mezzo a numerose ipotesi del tutto arbitrarie, ne presenti alcune che in-
vece meritano attenta considerazione48 e che a ragione sono state riesumate, do-
po un periodo di completo oblio, da Courtney nella sua edizione del 1993 (cfr.
sotto): in alcuni casi si tratta di proposte che, per quanto incerte, hanno comun-
que il pregio di segnalare effettivi problemi del testo tradito: si vedano ad esem-
pio, per quanto riguarda le opere minori, le congetture al primo verso di Sat. IX);
in Sat. XIb (di cui si veda il commento), Müller 1884 offre un’interpretazione
sicuramente giusta, anch’essa riproposta da Courtney contro Vahlen che ingiusta-

1905): ma nei due esemplari dell’edizione di Müller da me visti direttamente trovo solo la data 1884 (così, oltre
che nel frontespizio, anche alla fine della «Praefatio», p. IV, datata 1 marzo 1884).
46 Che giunse persino a obliterarne il nome: è questo il caso di Ribbeck che, come ricorda Timpanaro (1998,

529 = 2005, 166 e n. 15), nell’apparato critico della sua terza edizione dei frammenti tragici (1897) menzionò il
Müller con la lettera x; cfr. anche l’aspro giudizio su Müller formulato da F. Marx nella sua edizione di Lucilio
(Lipsiae 1904, p. CXV) su cui richiama l’attenzione Perutelli 2004, 82 n. 59.
47 Cfr. Timpanaro (1946, 43), Sc. Mariotti (1951 = 1991, 34 s.) e Jocelyn (1969, 196).
48 Riguardo a Müller anche Timpanaro mi pare che in epoca più recente abbia rimesso in discussione il giu-

dizio decisamente negativo da lui espresso nell’articolo del 1946 citato nella n. precedente : cfr. Timpanaro 1995,
529 (= 2005, 293), n. 1 dove si auspica «un saggio sufficientemente ampio» su L. Müller e Timpanaro 1994
(=2005, n. 15) in cui si ricorda con consenso un più equanime giudizio su Müller espresso da E. Norden in En-
nius und Vergilius, Leipzig 1915, p. 62 n. 1 (a cui si aggiunga Valmaggi 1900, XIV). Pregi e difetti filologici di L.
Müller sono ora ben delineati da Perutelli 2004, 82 s.
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24 Le opere minori di Ennio

mente l’aveva trascurata nella sua seconda edizione enniana del 1903; inoltre
Courtney, dopo altri editori, si distacca da Vahlen e segue Müller anche nell’attri-
buzione alle Saturae di alcuni frammenti (ad es. di Inc. 9 e 10 V.2).
Forte ostilità nei confronti di Müller fu mostrata anche da un suo ex-allievo,
Emil Baehrens (1848-1888), che nel 1886 pubblicò a Lipsia un’edizione degli An-
nales e delle opere minori di Ennio all’interno dei Fragmenta Poetarum Romano-
rum (Baehrens 1886), opera che veniva ad affiancarsi come sesto volume ai cin-
que da lui già editi dei Poetae Latini minores (1879-1883). Nella prefazione dei
Fragmenta (p. 3), Baehrens spiegava di aver escluso dalla sua raccolta i frammen-
ti scenici enniani perché per essi si poteva ricorrere alla silloge del Ribbeck, di cui
una quindicina di anni prima era uscita una seconda edizione49: è evidente in que-
sta affermazione una implicita condanna dell’edizione, uscita appena due anni
prima, di L. Müller, attaccato poco dopo esplicitamente da Baehrens come ladro
di congetture (cfr. p. 4 n * e anche p. 6 e n. *). Tuttavia, nonostante il disprezzo
nei confronti di Müller, è proprio da lui che Baehrens accoglie la tesi di identifi-
care le Saturae con le altre opere minori di Ennio; per di più, sia nella costituzio-
ne del testo che nell’attribuzione dei frammenti, l’edizione di Baehrens, gravata da
numerose congetture inutili (si vedano quelle registrate tra le «Altre congetture»
che menziono alla fine dell’edizione critica di ciascuna opera) costituisce, rispetto
a quella di Müller, un deciso passo indietro.
Anche dopo l’edizione del 1854, il Vahlen aveva lavorato ininterrottamente al
testo enniano, come dimostra una lunga serie di impegnativi articoli che egli pub-
blicò a partire dal 185950 in vista di una seconda edizione, che uscì a Lipsia nel
1903 (Vahlen 1903)51, a quasi mezzo secolo di distanza dalla prima. Il volume ri-
sulta costituito da due parti fondamentali: la prima è una amplissima «Praefatio»
(III- CCXXIV), suddivisa a sua volta in due sezioni (I: «Historia Ennii», pp. III-
CXLIV, con una esposizione della vita di Ennio e della tradizione e ricezione del-
le sue opere; II: «De libris Ennianis» pp. CXLIV-CCXXIV, in cui si affronta in
modo sistematico una discussione delle varie questioni poste dalle varie opere en-
niane quali titolo, argomento, ricostruzione della trama, forma ecc.); la seconda
parte consiste nell’edizione dei frammenti (pp. 1-242)52. Chiudono il volume un

49 Per l’esattezza, al 1871 risale il volume dei tragici e al 1873 quello dei comici.
50 Se ne veda il dettagliato elenco fornito dallo stesso Vahlen (1903, CXXXVI).
51 Di questa edizione esistono 3 ristampe anastatiche: Lipsia 1928, Amsterdam 1963 e 1967. A partire dal-

la prima di queste ristampe, nella pagina successiva al frontespizio, si trova un’indicazione che ha spesso tratto
in inganno gli studiosi inducendoli a ritenere che si trattasse di una terza edizione perché qui si legge, in corpo
maggiore, «Tertiam hanc Ennianae poesis editionem Vahlenianam»; ma subito dopo il testo prosegue, in corpo
minore, con un’affermazione («quam sine ullo scilicet additamento post editoris mortem emittendam censuimus
ecc.») che toglie ogni dubbio sul fatto che essa consiste in una semplice ristampa. E, tuttavia, nelle ristampe ana-
statiche del 1963 e 1967 mi è capitato di rilevare l’insidiosa intrusione, nel testo di un frammento (cfr. n. 3 del
commento a Sat. II), di un segno simile a una virgola che non si trovava nell’edizione originale ma, probabil-
mente, nella copia utilizzata per la riproduzione.
52 Anche in questa seconda edizione di Vahlen le pagine sono tripartite in modo analogo a quello della sua
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Le edizioni 25

«Index testium» (pp. 243-256), in cui sono raccolte e ordinate alfabeticamente le


fonti di tutti i frammenti, un «Index sermonis» (pp. 257-299) e, infine, una serie
di «Addenda et corrigenda» (pp. 300-306) in cui, fra l’altro, il Vahlen, che all’e-
poca aveva da poco passato i 70 anni, rievoca con poche, commoventi parole le
lunghe cure che egli aveva dedicato all’edizione di Ennio («Propero ad finem, ut
hic liber, cui non dicam quot annos vitae meae tribuerim»), e fornisce alcune pre-
cise indicazioni sulla cronologia della composizione delle varie parti che compon-
gono il volume: quella che conteneva l’edizione fu consegnata all’editore nell’a-
gosto del 1900 e venne composta e impaginata, assieme agli indici, non prima del
settembre 1901; solo in seguito, e dopo un lungo intervallo non meglio precisato,
Vahlen si dedicò alla stesura della «Praefatio», che fu consegnata all’editore nel
novembre del 1902 e nella quale Vahlen esprime alcuni ripensamenti riguardo ad
alcune scelte adottate nell’edizione53.
In questa seconda (tuttora fondamentale) edizione, il Vahlen poté avvalersi del
Servio curato da Thilo (1881-1887), che gli permise tra l’altro di chiarire lo stato
della tradizione manoscritta di un frammento delle Saturae (cfr. Sat. III), e fece an-
che in tempo a tener conto, ma solo quando la parte contenente l’edizione
dei frammenti enniani era stata ormai consegnata all’editore (cfr. Vahlen 1903,
CXLIII), delle collazioni dei codici del commento di Donato a Terenzio messegli
in anteprima a disposizione da Paul Wessner, la cui edizione di Donato inizierà a
uscire solo nel 1902: da tale collazione Vahlen ricaverà fra l’altro un dato impor-
tante per la problematica attribuzione di un frammento alle Saturae (qui fr. IX);
per ragioni cronologiche Vahlen non ebbe invece a disposizione altre edizioni del-
le fonti a cui oggi si fa riferimento e tra le quali vi sono Nonio e Festo – editi da
Lindsay rispettivamente nel 1903 e nel 1913 – e il De lingua Latina di Varrone
pubblicato da Goetz e Schoell nel 1910: il mancato impiego di queste edizioni non
ha tuttavia avuto conseguenze di qualche rilievo nell’edizione delle opere minori.
A proposito di queste ultime, nella edizione del 1903 il Vahlen si distacca su un
punto fondamentale sia dalla sua edizione del 1854, sia da quelle pubblicate nel
frattempo da Müller e da Baehrens, ritornando a una netta distinzione tra le Sa-
turae da una parte, e tutte le altre opere minori enniane (compreso lo Scipio) dal-
l’altra: è probabilmente per rimarcare questa scelta editoriale – controcorrente ri-
spetto alla tendenza dominante all’epoca – che nell’edizione del 1903, alle due se-
zioni in cui si trovano raccolti i frammenti degli Annales (1-117) e delle opere sce-
niche (118-203), Vahlen affianca una apposita sezione, la terza, dedicata alle

prima edizione (1: testo dei frammenti; 2: sezione relativa alle fonti; 3: apparato critico relativo ai frammenti); si
confronti per contrasto la diversa presentazione del testo adottata nella quasi coeva edizione di Lucilio curata da
Marx (Lipsiae 1904-1905): da una parte, nel I volume, edizione dei frammenti con il relativo apparato critico,
all’inizio del quale ci si limita a indicare gli estremi delle fonti; il testo di queste ultime viene invece citato per
esteso solo all’inizio del commento, che si trova nel II volume. Si tratta di una soluzione editoriale analoga a quel-
la adottata da Skutsch nella edizione degli Annales enniani del 1985.
53 Si veda ad esempio p. XCVIII, in cui Vahlen propone cautamente di attribuire all’Euhemerus una testi-

monianza che nell’edizione aveva assegnato agli Annales (fr. CCVII V.2).
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26 Le opere minori di Ennio

Saturae (204-211), ben distinta dalla quarta sezione, che reca il titolo complessivo
di Varia (212-229), sotto il quale sono riunite tutte le altre opere minori.
Anche dopo la pubblicazione della seconda edizione, e fino all’anno della sua
morte (1911), il Vahlen continuò a dedicare al testo enniano un’intensa attività di
studio in parte concretizzatasi in alcune pubblicazioni, e in parte rimasta in forma
di appunti editi per la prima volta nel 1980 da A. Lunelli (Lunelli 1980), dai qua-
li però si ricavano, per lo più, almeno per quanto riguarda le opere minori, solo
conferme (talvolta con l’aggiunta di ulteriore documentazione) di scelte testuali o
di esegesi già sostenute nell’edizione del 1903.
Dopo la seconda edizione di Vahlen, alcuni frammenti delle opere minori di
Ennio si trovano in due sillogi in cui sono antologizzati, con finalità didattiche, te-
sti latini arcaici accompagnati da un apparato critico assai stringato: la prima rac-
colta, uscita originariamente a Bonn nel 1911, si deve a Ernest Diehl54 il quale di-
chiara esplicitamente (cfr. il retro del frontespizio) di dipendere, per la parte en-
niana, da Vahlen 190355; la seconda silloge si deve a Alfred Ernout, e uscì per la
prima volta a Parigi nel 191656.
Una edizione completa di Ennio, e quindi anche delle sue opere minori, si tro-
va nel primo dei quattro volumi in cui Eric Herbert Warmington (1898-1987)57
ha raccolto numerosi testi latini arcaici e che vennero pubblicati per la prima vol-
ta dal 1935 (anno a cui risale il I volume: Warmington 1935) al 1940, e in seguito
ristampati numerose volte58. Assieme ai frammenti, Warmington riporta anche
con ampiezza il contesto in cui essi vengono citati dalle fonti; i frammenti e i loro
contesti, inoltre, sono accompagnati, secondo gli standard della collana Loeb in
cui la silloge di Warmington apparve, da un’utile, e in genere accurata, traduzio-

54 Poetarum Romanorum veterum reliquiae selegit E. Diehl, Bonnae 1911 (l’ultima ristampa a me nota è Ber-

lin 19676).
55 Tuttavia il Diehl, nel riportare alcuni frammenti delle opere minori enniane (pp. 47-49) introduce una no-

vità che non so se attribuire a una svista o a un infelice compromesso tra la seconda edizione di Vahlen e le edi-
zioni enniane precedenti: sotto il titolo complessivo «Varia», infatti, egli riporta non solo, come già il Vahlen, gli
Hedupagetica e alcuni versi dallo Scipio, dagli epigrammi, dal Sota, dal Protrepticus e dall’Epicarmus, ma anche
una scelta di frammenti dalle Saturae, a cui il Vahlen nella seconda edizione aveva dedicato, come abbiamo vi-
sto, una sezione distinta dai Varia; ritroveremo questa confusione nell’edizione di Bolisani.
56 A. Ernout, Recueil de textes latins archaïques, Paris 1916 (19572 e successive ristampe), pp. 192-195.
57 Ricavo le date di nascita e di morte di Warmington, nonché i suoi prenomi (le cui iniziali non vengono

mai sciolte all’interno dell’opera), dal catalogo telematico del Library of Congress di Washington (d.C.).
58 Remains of Old Latin, ed. and transl. by E. H. Warmington, Cambridge (Mass.): I (Ennius and Caecilius),

1935; II (Livius Andronicus, Naevius, Pacuvius, Accius), 1936; III (Lucilius, Laws of Twelve Tables), 1938; IV (Ar-
chaic Inscriptions), 1940. Nelle numerose ristampe di questi volumi vengono fornite informazioni molto parche
sulle variazioni di volta in volta introdotte: nella ristampa del 1988 del I volume (l’ultima ristampa a cui, per ra-
gioni cronologiche, Warmington può aver messo mano direttamente) si leggono nel retro del frontespizio le se-
guenti parole: «revised and reprinted 1956, 1961, 1967, 1979, 1988»; tuttavia, le modifiche apportate da una ri-
stampa all’altra appaiono, almeno per quanto riguarda il I volume, minime e sembrano ridursi a qualche ag-
giornamento bibliografico, limitato per di più fino all’anno 1967, data che compare alla fine dell’introduzione
anche della ristampa del 1988 (p. XXXIII). Per quanto riguarda poi l’Ennio minore, non ho riscontrato diffe-
renze tra le varie edizioni: per queste ragioni ho sempre citato Warmington accompagnandone il nome con la
data 1935. Come si ricava dalla prefazione del I volume nell’edizione del 1935 (p. VII) il piano originario pre-
vedeva che la silloge curata da Warmington fosse costituita da 3 e non da 4 volumi complessivi.
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Le edizioni 27

ne inglese a fronte, da un apparato critico molto selettivo, da alcune note di com-


mento e infine da brevi introduzioni alle singole opere o ai singoli libri. Agli stan-
dard editoriali della collana è forse dovuto anche il fatto che Warmington, diver-
samente da Vahlen, stampa i frammenti direttamente all’interno delle fonti che le
citano, senza riportare dunque queste ultime in una sezione apposita, che avreb-
be reso più complicata la composizione delle pagine; si tratta di una soluzione edi-
toriale che si ritroverà nell’edizione delle tragedie enniane curate da H. D. Jocelyn
del 1967 e ripresa da Courtney 1993 (cfr. sotto), e che ha certo il vantaggio di ren-
dere più evidenti i rapporti tra il frammento e il suo contesto: essa risulta tuttavia
poco economica quando lo stesso frammento è citato da più fonti, e insoddisfa-
cente quando l’editore deve stampare un testo del frammento diverso da quello
verosimilmente presupposto dalla sua fonte59.
Sempre nel 1935, e cioè nello stesso anno della prima edizione dei frammenti
enniani curata da Warmington, uscì a Padova, a cura di Ettore Bolisani (1889-
196560) un’edizione specificamente dedicata, come recita il titolo, all’Ennio mi-
nore (Bolisani 1935): tale libro costituisce, come si legge nell’«Avvertenza» (p. 9),
una sorta di dispensa del corso di letteratura latina tenuto da Bolisani all’univer-
sità di Padova nel 1934-1935, anno in cui, dopo un periodo di insegnamento di
latino e greco nei licei, egli ottenne la libera docenza. Nel complesso, Bolisani ha
preparato la sua edizione dando l’impressione di essersi limitato a una rapida si-
stemazione per la stampa degli appunti che egli aveva preparato per le sue lezio-
ni. Il volume consiste di una introduzione (pp. 11-28), di carattere storico-lettera-
rio, che è poi, come ci informa sempre Bolisani (p. 9), la lezione introduttiva del
corso. Viene appresso l’edizione dei frammenti (pp. 29-125) per la quale Bolisani
afferma di seguire «per lo più il Vahlen» (p. 24) della cui seconda edizione in ef-
fetti viene riproposta formalmente la divisione fondamentale del corpus comples-
sivo dell’Ennio minore nelle due sezioni principali delle «Saturae» (pp. 29-65) e
dei «Varia» (pp. 66-125). Ma, a differenza di Vahlen, Bolisani, con una stridente
contraddizione fonte di confusione, segue il Müller nel ritenere che le Saturae fos-
sero da identificare con le altre opere minori di Ennio, compresa l’Ambracia (cfr.
Bolisani 1935, 23-24): per questa ragione Bolisani accoglie non solo i frammenti
dello Scipio all’interno del III libro delle Saturae (cfr. pp. 34-39), ma anche l’Am-
bracia (che nella seconda edizione di Vahlen era considerata una pretesta, e quin-
di raccolta all’interno dei frammenti scenici61) all’interno dei Varia (pp. 68-69),
dove si trovano anche le reliquie dell’Epicarmus, degli epigrammi, degli Hedupa-
getica, del Protrepticus, del Sota, e dell’Euhemerus (ma Bolisani, aggiungendo

59 Ad esempio, nelle opere minori di Ennio un caso del genere si verifica probabilmente in Sat. XV (cfr.

comm. a plagas).
60 Un testo di carattere celebrativo, ma dal quale si ricavano ricche notizie biografiche e ulteriore biblio-

grafia su E. Bolisani si deve a F. Bonfante ed è reperibile all’indirizzo Internet http://www.csmet.it/varie/perso-


naggi/bolisani/htm.
61 Cfr. Enn. sc. 366-369 V.2
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28 Le opere minori di Ennio

un’ulteriore elemento di confusione, ritiene che quest’ultima opera non facesse


parte delle Saturae: cfr. pp. 24 e 116 s.).
All’interno dell’edizione Bolisani si limita a riportare il testo del frammento con
una traduzione italiana a fronte; alla fine di ogni singola opera, o alla fine di ogni
libro (o gruppo di libri nel caso delle Saturae), si trova un commento, da cui tal-
volta si può ricavare qualche indicazione utile. Le fonti e l’apparato critico dei
frammenti si trovano in una sezione a parte, l’«Appendice critica», che conclude
il volume. Anche in quest’ultima parte Bolisani mostra di dipendere da Müller
1884 per quanto riguarda l’attribuzione dei frammenti e la costituzione del testo.
Una edizione, con utile traduzione italiana a fronte, di tutti i frammenti enniani
(oltre che di Nevio e Livio Andronico) si trova nel volume Poeti latini arcaici usci-
ta a Torino a cura di Antonio Traglia nel 198662 (Traglia 1986). Anch’essa dipende,
per la parte enniana, da Vahlen 1903, a cui Traglia si attiene soprattutto nell’ordi-
namento e nell’attribuzione dei frammenti: vi ritroviamo ad esempio la distinzione
tra Saturae (ma Traglia preferisce il titolo Satura: pp. 364-373) e Varia (pp. 374-393).
Maggiore autonomia rispetto a Vahlen il Traglia mostra invece nella costituzione
del testo, sulla quale informa una succinta «Nota critica» anteposta all’edizione
(quella relativa alle satire e alle altre opere minori si trova alle pp. 139-142). Inoltre,
il volume di Traglia presenta, in apertura, una introduzione ben informata e, all’in-
terno dell’edizione, assieme alla traduzione a fronte, anche delle note di commen-
to a pie’ di pagina in cui, oltre all’indicazione degli estremi delle fonti, si trovano
spiegazioni utili all’intelligenza del testo. Queste caratteristiche contribuiscono, nel
complesso, a rendere quella di Traglia una buona edizione divulgativa.
La più recente edizione, critica e commentata, delle opere minori in versi di En-
nio (con l’esclusione, quindi, dell’Euhemerus, perché in prosa) si trova nella rac-
colta di frammenti poetici latini pubblicata da Edward Courtney nel 1993 a
Oxford (Courtney 1993 e ristampata nel 2003 con una serie di correzioni e ag-
giornamenti posti in appendice, pp. 499-503)63. Qui i frammenti sono editi, come
si è detto sopra a proposito dell’edizione di Warmington, all’interno delle fonti
che li citano, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporta; ogni frammen-
to è inoltre seguito da un apparato critico molto selettivo e da asciutte note di
commento. Per quanto riguarda l’Ennio minore, anche Courtney distingue netta-
mente le Saturae dalle altre opere, nel cui ordinamento introduce tuttavia una no-
vità rispetto alle edizioni precedenti perché colloca al primo posto il Sota, ritenu-
to cronologicamente anteriore alle Saturae. Ma l’autonomia di Courtney rispetto
agli editori precedenti si mostra soprattutto nella costituzione del testo, sul quale
62 Segnalo solo per completezza di informazione che prima di quella di Traglia erano uscite un’edizione di

Ennio a cura di P. Magno, Fasano di Puglia 1979 (sulla quale basti qui rinviare alle recensioni di H. D. Jocelyn
«CR» 31, 1981, 114-115 e O. Skutsch, «Gnomon» 52, 1980, 565-567) e una, con traduzione spagnola a fronte,
a cura di Segura Moreno (Ennius, Fragmentos, texto rev. y trad. por M. Segura Moreno, Madrid 1984). È op-
portuno precisare che in Ennio, I frammenti, testo e trad. a cura di R. Argenio, Roma 1951, nonostante il titolo
onnicomprensivo, si trovano solo i frammenti delle tragedie.
63 Courtney ha poi edito e commentato anche l’Euhemerus in Archaic Latin Prose, Atlanta 1999, 27-39.
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Le edizioni 29

egli interviene o riprendendo congetture altrui che erano state dimenticate (cfr. ad
es. Sat. IX), o con sue proposte talvolta audaci, ma sempre meritevoli di conside-
razione. Nell’edizione di Courtney sono stati rilevati alcuni difetti, talora anche
gravi, su singoli punti64, ma che non devono far perdere di vista la qualità dell’o-
pera nel suo insieme, qualità che risulterà ancor più chiara se, come è opportuno,
si tiene conto dell’ampiezza e dell’eterogeneità di autori e frammenti lì trattati da
Courtney (a cui tra l’altro si deve l’iniziativa di aggiungere l’Ennio minore al tra-
dizionale corpus, base di partenza per Courtney stesso, dei Fragmenta poetarum
Latinorum praeter Ennium et Lucilium di Morel). Questa considerazione rende
inoltre ben comprensibile la sobrietà del commento che accompagna edizione, e
che costituisce comunque un utile e aggiornato punto di partenza per un primo
inquadramento dei numerosissimi problemi posti dai frammenti lì raccolti.

Nel tentativo di fornirne una trattazione più approfondita si presenta qui la pri-
ma parte di una edizione, critica e commentata dedicata specificamente ai fram-
menti dell’Ennio minore, la prima ad uscire dopo quella di Bolisani del 1935, che
già all’epoca, come si è visto, risultava ampiamente insoddisfacente. Dedicare a
questi frammenti un commento specifico ha consentito di discutere anche diffi-
coltà correttamente ma tacitamente risolte da Courtney: discussione che ho rite-
nuto opportuna perché il silenzio in alcuni casi può ingenerare comunque dubbi
ed equivoci. Per la stessa ragione ho preferito argomentare il mio dissenso da pro-
poste che Courtney omette di citare. Talvolta si tratta di proposte non del tutto o
non immediatamente disprezzabili, e il lettore può rimanere incerto se un contri-
buto venga omesso perché ritenuto infondato o perché ignorato dal commentato-
re. Altre volte, invece, ho cercato di evidenziare difficoltà vecchie e nuove che re-
stano in ombra nello stringato argomentare di Courtney; in alcuni casi ciò ha com-
portato la rinuncia a soluzioni certe; in altri, si sono avanzate proposte testuali ed
esegetiche divergenti.
A differenza di Courtney (e di altri editori che lo avevano preceduto), per le ra-
gioni spiegate sopra, nell’edizione ho riportato solo il testo del frammento limi-
tandomi a segnalare gli estremi della fonte (o delle fonti) di cui cito invece per
esteso il testo all’inizio del commento. Ogni frammento inoltre è indicato secon-
do una mia numerazione in numeri romani a cui faccio di norma riferimento nel
corso del commento premettendo, in forma abbreviata, l’indicazione dell’opera di
appartenenza (Sat. = Saturae; Sot. = Sota Scip. = Scipio). All’interno dell’edizione
dei frammenti, la distinzione tra carattere tondo e carattere corsivo serve a distin-
guere tra, rispettivamente, citazioni testuali dalle satire e testimonianze (che ho
posto nell’edizione perché comunque forniscono indicazioni precise e importanti
sul contenuto di alcune opere: si tratta dunque di dati di carattere diverso da quel-

64 Si vedano le recensioni di Sc. Mariotti (Mariotti 1998b) e di H. D. Jocelyn, «Hermathena» 122, 1995 [ma

1996], 53-77.
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30 Le opere minori di Ennio

le raccolte nella sezione «Testimonianze» dove le informazioni riguardano aspetti


più generali delle opere enniane).
Nell’apparato critico che faccio seguire immediatamente ai singoli frammenti,
lo stato della tradizione deve essere ovviamente riferito alla tradizione manoscrit-
ta delle fonti che tramandano il frammento. Nella sezione «Tentamina critica» ho
riportato congetture che a mio avviso non debbono essere prese in considerazio-
ne per la costituzione del testo e che oggi hanno solo interesse storico. Nella se-
zione «Fonti» ho indicato le edizioni principali che ho tenuto presente; sempre in
tale sezione ho riportato inoltre un «conspectus siglorum» solo per Donato, Aulo
Gellio, Servio Dan. perché solo per i frammenti tramandati da questi autori si è
presentata la necessità di fornire un apparato critico più articolato (la particolare
ampiezza di edizioni e di ricollazioni dei codici donatiani viene giustificata in com-
mento al fr. IX). Sulle pochissime sigle di codici utilizzate nell’apparato critico ai
frammenti tramandati dagli altri autori ho ritenuto opportuno dare conto solo nel
commento. Per Nonio Marcello le citazioni si riferiscono, come è consuetudine,
al numero di pagina e rigo della seconda edizione noniana di Mercier (1614) per-
ché tale numerazione è ripresa in tutte le edizioni noniane successive. Per la stes-
sa ragione Festo viene citato secondo i numeri di pagina di Müller 1839.

Per l’ortografia mi attengo ai criteri lucidamente indicati da Timpanaro 1947,


41 (che si richiama a sua volta con consenso a quelli seguiti da Valmaggi 1900) e
precisamente:
1) nel caso di oscillazioni tra i codici, si preferisce la grafia più arcaica;
2) si accolgono grafie arcaiche esplicitamente attestati dalle fonti;
3) si eliminano tutte le grafie di epoca sicuramente successiva a Ennio e quindi:
• nei prestiti greci le lettere f, c, q e rJ si rendono rispettivamente con p, c, t
e r;
• la u greca viene resa con u;
• in luogo di u e v si usano sempre, in maiuscolo, V e, in minuscolo, u (e quin-
di saeuos in luogo di saevus);
• si introduce sempre uor- in luogo di uer- (cfr. Perutelli 2005, 162 s.).
Nell’edizione critica dei frammenti ho utilizzato la seguente simbologia:
† = fr. la cui assegnazione a un’opera enniana da parte delle fonti si basa su un
testo incerto o congetturale
* = fr. attribuito dalle fonti a Ennio, ma senza l’indicazione dell’opera di pro-
venienza
** = fr. citato dalla fonte senza indicazione né dell’autore né dell’opera di pro-
venienza
002_edizioni e commenti_31 9-01-2008 12:22 Pagina 31

Edizioni complessive e commenti delle opere minori di Ennio


Bibliografia

Si segnalano in grassetto le edizioni particolarmente discusse nel capitolo pre-


cedente.

Stephanus 1564: Fragmenta poetarum veterum Latinorum quorum opera non extant: Ennii,
Pacuvii, Accii, Aphranii, Lucilii, Naevii, Laberii, Caecilii aliorumque multorum undi-
que a R. Stephano summa diligentia olim congesta, nunc autem ab H. Stephano eius
filio digesta […], s. l., excudebat H. Stephanus [...] 1564.
Colonna
• Colonna 1585-86: Q. Ennii poetae vetustissimi quae supersunt fragmenta ab Hie-
ronymo Columna conquisita disposita et explicata, Neapoli, ex typographia Salvia-
na, 1585-86: contiene solo gli Annales e le opere minori escluso l’Euhemerus.
• Colonna 1590: Q. Ennii poetae vetustissimi quae supersunt fragmenta ab Hierony-
mo Columna conquisita disposita et explicata ad Ioannem filium, Neapoli, ex ty-
pographia H. Salviani, 1590 (= Neapoli, apud Iacobum Carlinum et Antonium Pa-
cem 1599).
• Colonna 1707: Q. Ennii poetae vetustissimi fragmenta quae supersunt ab Hieron.
Columna conquisita, disposita et explicata ad Joannem filium. Nunc ad editionem
Neapolitanam MDXC recusa accurante F. Hesselio […]. Accedunt praeter erudito-
rum virorum emendationes undique conquisitas, M. A. Delrii opinationes, nec non
G. J. Vossii castigationes et notae in fragmenta tragoediarum Ennii ut et index om-
nium verborum Ennianorum, Amstelaedami, ex officina Wetsteniana, 1707.
Q. Ennii [...] reliquiae quae extant omnes, ex editionibus variis conquisitae a J. A. Giles,
[...] Oxoniae et Londini 1834.
Vahlen 1854 :Ennianae poesis reliquiae, recensuit Ioannes Vahlen, Lipsiae 1854.
Müller 1884: Q. Enni carminum reliquiae. Accedunt Cn. Naevi Belli Poenici quae super-
sunt, emendavit et adnotavit Lucianus Mueller, Petropoli 1884.
Baehrens 1886: Fragmenta poetarum Romanorum, ed. Ae. Baehrens, Lipsiae 1886.
Quinti Ennii Annalium et Satirarum reliquiae ad normam editionis a. 1885 in lucem datae
mutatis perpaucis rec. L. Müller, [Corpus poetarum Latinorum, ed. I. P. Postgate, v. I],
Londini 1894 (hand vidi).
Vahlen 1903: Ennianae poesis reliquiae, iteratis curis recensuit Ioannes Vahlen, Lipsiae
1903 = 1928 = Amsterdam 1963=1967.
Warmington 1935: Remains of old Latin, edited and translated by E. H. Warmington, I,
London - Cambridge (Mass.) 1935 (varie ristampe corrette: l’ultima 19674).
002_edizioni e commenti_31 9-01-2008 12:22 Pagina 32

32 Le opere minori di Ennio

Bolisani 1935: E. Bolisani, Ennio minore, Padova 1935.


Quinto Enio, Fragmentos, texto revisado y traducido par M. Segura Moreno, Madrid
1984.
Traglia 1986: A. Traglia, Poeti latini arcaici, Torino 1986.
Courtney 1993: E. Courtney, The fragmentary Latin poets, Oxford 1993: vi compaiono tut-
te le opere minori di Ennio tranne l’Euhemerus (edito e commentato da Courtney in
Archaic Latin prose, Atlanta 1999, 27-39).

Edizioni antologiche

Fragments and specimens of early latin with introductions and notes by John Wordsworth,
Oxford 1874.
Latini sermonis vetustioris reliquiae selectae. Recueil publié sous les auspices de Villemain,
par A. E. Egger, Paris 1843.
Poetarum Romanorum veterum reliquiae selegit E. Diehl, Bonnae 1911 (e varie ristampe
successive).
A. Ernout, Recueil de textes latins archaïques, Paris 1916 (19572 e successive ristampe).

Trattazioni complessive delle opere minori di Ennio (selezione)

Vahlen 1903, CCXI-CCXXIV.


F. Skutsch, Q. Ennius, in RE V 2 (1905), coll. 2589-628: 2597-2602.
A. Marastoni, Studio critico su Ennio minore, «Aevum» 35, 1961, 1-27: 20-27.
A. Marastoni, Enniana minora quaedam ex opuscolis decerpta, in Aa.Vv., Miscellanea criti-
ca, II, Leipzig, Teubner 1965, 219-27.
S. Mariotti, s. v. Ennius, in Der kleine Pauly, 2, 1967, 270-276: 273-274.
H.D. Jocelyn, The poems of Quintus Ennius, ANRW I, 2, 1972, 987-1026: 1022-26.
A.S. Gratwick, The minor works of Ennius, in E. J. Kenney (ed.), Cambridge history of
classical literature, 2: Latin literature, Cambridge 1982, 156-160 (trad. it. La letteratura
latina della Cambridge University, Milano 1991, I, 257-263).
002_edizioni e commenti_31 9-01-2008 12:22 Pagina 33

Fonti

CHAR. = Charisius, Artis grammaticae quae extant


• edd.:
° GL I Keil (Lipsiae 1857)
° C. Barwick (Lipsiae 1925, rist. corr. 1964)
DON. = Aelius Donatus, commento a Terenzio
* = mia collazione diretta
** = mia collazione su microfilm
[] = non collazionato da Wessner (parziale collazione di Reeve 1979)
• cdd.:
° V Vat. Reg. lat. 1496, s. XV
° R* Riccard. 669, s. XV ex.
° C* Oxon. Bodl. Canon. class. Lat. 95, s. XV
° F** Marucell. C 224, s. XV ex.
° L Leid. Voss. lat. Q 24, s. XV
° D Dresd. Dc. 132, s. XV
° Steph. 1529 R. Stephanus, ed. di Terenzio e Donato, Parisiis 1529 [1536, 1541]
° cd. Cuiac.** il codice è perduto come la collazione che ne fece P. Pithou e di
cui si servì F. Lindenbrog per la sua edizione di Terenzio e Dona-
to (cfr. sotto): una trascrizione della collazione di P. Pithou tutta-
via è stata compiuta da I.F. Gronovius in margine a una copia del-
l’ed. di Lindenbrog, Francofurti 1623 tuttora conservata a Leida,
Universiteitsbibliothek sotto la segnatura 759 c 16 (ex Gron. 6)
° c* Laurent. S. Crucis 22 sin. 6, s. XV
° d* Laurent. Faesul. 175, s. XV
° b* Laurent. 53, 31, s. XV
° O* Oxon. Lincoln. lat. C. 45, s. XV
° a* Laurent. 53, 9, s. XV
° m* Laurent. 53, 8, s. XV
° [G] Vat. Reg. lat. 1673, s. XV
° [J]* Mus. Brit. Burn. 171, s. XV
° [Q] Cors. 43 E 28, s. XV
° [H] Mus. Brit. Add. 11906, s. XV
• edd.:
° [Venetiis c. 1472]
002_edizioni e commenti_31 9-01-2008 12:22 Pagina 34

34 Le opere minori di Ennio

° Romae 1472
° Mediolani 6 VII 1476
° Venetiis 1 IX 1476
° Ioannis Calphurnius Brixiensis
• Venetiis 1476 (su questa ed. ved. comm. a Sat. IX)
• Tarvisi 1477
• Venetiis 15 XII 1479
° F. Lindenbrog, Parisiis 1602 [Francofurti 1623]
° H. Westerhov, Hagae Comitum 1726
° R. Klotz, Lipsiae 1838-40
° P. Wessner, Lipsiae 1902-5

CIC., nat. deor. = Marcus Tullius Cicero, de natura deorum


• edd.
° O. Plasberg, Lipsiae 1911 (ed. maior) e 1917 (ed. minor)
° O. Plasberg - W. Ax, Lipsiae 1933
° A.S. Pease, 2 vll., Cambridge (Mass.) 1955-1958.
° M. van den Bruwaene, Bruxelles 1970-1981
° lib. I, A. R. Dyck, Cambridge (U.K.) 2003
FEST. (PAUL. FEST.) = Sextus Pompeius Festus, De verborum significatione (Paulus Dia-
conus, Excerpta Pauli ex libris Festi Pompeii de significatione verborum)
N. B.: Questa fonte viene citata secondo la numerazione di pagina dell’edizione di Müller
(1839 e 1880).
• edd.:
° F. Lindemann, Lipsiae: I, 1831; II, 1832; III, 1833
° C. O. Müller, Lipsiae 1839 (ristampata nel 1880 con una appendice a cura di S.
Simmel)
° E. Thewrewk von Ponor, Budapestini 1893
° W. M. Lindsay
• Lipsiae 1913
• Paris 1930 (Glossaria Latina, IV, 93-467)

Si veda ora anche A. Moscadi, Il Festo farnesiano (cod. Neapol. IV. A. 3), Firenze 2001

FRONTO = M. Cornelius Fronto, Epistulae


• edd.:
2
° M. P. J. van den Hout, Lipsiae 1988
GELL. = Aulus Gellius, Noctes Atticae
• cdd.:
° libb. 1 - 7
•A cd. palinsesto Vat. Pal. lat. 24, s. IV
•b cd. Buslidianus perduto, s. XII (?)
•V prima parte di Vat. lat. 3452, s. XIII
002_edizioni e commenti_31 9-01-2008 12:22 Pagina 35

Fonti 35

•P Paris. Bibl. Nat. lat. 5765, s. XII


•R Leid. Gronov. 21, s. XII
° libb. 9 - 20
•F Leovardensis Prov. Bibl. van Friesland 55, s. IX
•O Vat. Reg. lat. 597, s. IX
•X Leid. Voss. lat. F112, s. X
•P Vat. Reg. lat. 1646, s. XII
•N Flor. Bibl. Nat., Conv. Soppr. J. 4. 26, s. XV
•g consenso cdd. OXPN
•Q Paris. Bibl. Nat. lat. 8664, s. XIII
•Z Leid. Voss. lat. F7, s. XIV
•B Bern. 404 + Leid. B. P. L. 1925, s. XII
•d consenso cdd. QZB
•w consenso cdd. FOXPNQZB
•b cd. Buslidianus (cfr. sopra)
° per tutti i libri
• T florilegio gelliano nel cd. Paris. Bibl. Nat. lat. 4952, s. XII
• Y florilegio gelliano nel cd. Vat. lat. 3307, s. XII
• s cdd. recc.
• edd.:
° Iohannes e Iacobus Gronovius, Lugduni Batavorum 1706
° M. Hertz
• Lipsiae 1853 (ed. minor: rist. – con interventi non autorizzati (cfr. ed. Berolini,
p. CXXXVI n. ****) – 1861, 1871, 1877)
• Berolini 1883-1885 (ed. maior)
° C. Hosius, Lipsiae 1903 (rist. 1937)
° R. Marache, con trad. francese, Paris 1967 ss. (I-IV: 1967; V-X: 1978; XI-XV:
1989); Y. Julien, XVI-XX, Paris 1998
° P. K. Marshall, Oxonii 1968 (rist. corretta 1990)
° F. Cavazza, con trad. it., Bologna 1985 ss. (I-III: 1985; IV-V: 1987; VI - VIII:
1988; IX -X: 1989; XI: 1991)
° G. Bernardi Perini, con trad. it., 2 vll. Torino 1992
HIST. AUG. = Scriptores Historiae Augustae
• edd.:
° [H. Jordan-] F. Eyssenhardt, Berolini 1864
° E. Hohl, Lipsiae 1927; 1955 (I vol.); 1965 a c. di Ch. Samberger e W. Seyfarth
(=1971)
° P. Soverini, Torino 1983
ISID. orig.: = Isidorus, Origines (Etymologiae)
• edd.:
° W. M. Lindsay, I-II, Oxford 1911
° J. André, Paris 1981 (lib. XVII)
002_edizioni e commenti_31 9-01-2008 12:22 Pagina 36

36 Le opere minori di Ennio

MACR. Sat.= Macrobius, Saturnaliorum convivia


• edd.
° L. Ianus (Ludwig von Jan), 2 vll., Quedlinburgi
2
et Lipsiae 1848-1852
° F. Eyssenhardt, Lipsiae 1868, 1893
° N. Marinone., Torino 1967, 19772
2
° J. A. Willis, Lipsiae 1970 [= 1994, con addenda]
NON. = Nonius Marcellus, De compendiosa doctrina.
N.B.: Questa fonte viene citata secondo la numerazione di pagine della seconda edizione di Mercier (Parisiis - Se-
dani 1614), riproposta in tutte le edizioni successive. Per le sigle dei codici e la loro posizione stemmatica si rinvia
alla prefazione di R. Astbury a M. Terentius Varro, Saturarum Menippearum fragmenta, Lipsiae 20022, V-XI.

• edd.:
° [Roma c. 1470]
° Venetiis 1513
° Venetiis 1527
° H. Junius (Adrian de Jongh), Antverpiae 1565
° [J. Mercier], Parisiis 1583
° D. Gothofredus (Dénis Godefroi), 2
Parisiis 1586
° J. Mercier, Parisiis - Sedani 1614
° C. L. Roth - F. D. Gerlach, Basiliae 1842
° L. Quicherat, Parisiis 1872
° L. Müller, Lipsiae 1888
° J. H. Onions (ed. limitata ai primi 3 libri), Oxford 1895
° W. M. Lindsay, Lipsiae 1903
PRISC. I n s t . = Priscianus, Institutio de arte grammatica
• edd.:
° M. Hertz, 2 vll. (=GL II -III), Lipsiae: 1 (1855); 2 (1859)
PS. CENS. frg. = Fragmentum de metris
• edd.:
° C Coloniensis Lat. 166 (olim Darmstadiensis 2191) s. VII/VIII
° V Vaticanus Lat. 4929 s. IX med.
• edd.:
° O. Jahn, Berolini 1845 (=Amsterdam 1964, Hildesheim 1965)
° Fr. Hultsch, Lipsiae 1867
° H. Keil, GL 6 [1874], 607-617
° K. Sallmann, Lipsiae 1983
QUINT. = Quintilianus, Institutio oratoria
• edd.:
° L. Radermacher, Lipsiae 1907-1935 (rist. corr. 1965)
° M. Winterbottom, Oxonii 1970
° J. Cousin, Paris 1975-1980
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Fonti 37

SERV. DAN. = Servius Danielinus, comm. a Virgilio


• edd.:
° F Bern. 172 (Aen. III-V) + Paris. lat. 7929 (Aen. VI-XII)
° T Bern. 167 (Aen. III-XII)
• edd.
° P. Daniel, Parisiis 1600.
° P. Masvicius, Venetiis 1717.
° G. Thilo - H. Hagen, Lipsiae 1881-1887 [rist. Hildesheim 1961]: I (Aen. I - V),
rec. G. Thilo, 1881; II (Aen. VI-XII), rec. G. Thilo, 1884; vol. III 1 (Buc. Georg.),
rec. G. Thilo, 1887; III 2 Appendix Serviana 1887 (rec. H. Hagen).

SUID. = Suidae lexikon


• ed. A. Adler, Lipsiae 1931

VARR. L. L . = Varro, De lingua Latina


• cd.:
° F Flor. Laurent. 51, 10
• edd.
° K. O. Müller, Lipsiae 1833
1
° P. Canal, Venezia 1874
° L. e A. Spengel, Berolini 1885 [= New York 1979]
° G. Goetz-F. Schöll, Lipsiae 1910
° R. G. Kent, London-Cambridge [Mass.], 1938
° Varron, De lingua Latina, livre V, texte établi, traduit et annoté par Jean Collart,
Paris 1954

1 Del Canal non esiste nessuna ed. del 1846: cfr. S. Timpanaro, DBI XVII [1974], 678.
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I. Praecepta e Protrepticus
Testimonianze e frammenti

Praecepta
Praecepta Prisc. Inst. I [= GL II K.] 532, 17 H. (Ennius in Praeceptis): Praecepta siue
Protrepticus Vahlen 1854, XCI sulla base di Charis. GL I, 54, 19 K. = 68, 8 B. (Ennius in
Protreptico); Protreptikov" siue praecepta Vahlen 1854, 165; Protrepticus Müller 1883, 83,
Protreptica Müller 1884 (Ein.), 113; Protrepticus (Protreptikov" Vahlen 1903, CCXVII)
Praecepta Vahlen 1903, 218 Protrepticum siue Praecepta Warmington 1935, 406. Per il ti-
tolo cfr. l’introduzione, infra.

A. TESTIMONIANZE
PRISC. Inst. I (= GL II K.) 532, 17 H.: Ennius in Praeceptis

B. FRAMMENTI
fr. I (= Var. 31-33 V.2)
tr7 Vbi uidet auenam lolium crescere inter triticum,
seligit, secernit, aufert; sedulo ubi operam addidit,
qu<oni>am tanto studio seruit...
PRISC. Inst. I (= GL II K.) 532, 5 ss. H. In ‘ro’ finita per ‘ui’ syllabam terminant praete-
ritum, ut ‘tero triui’, ‘quaero quaesiui’, ‘sero seris seui’, nam ‘sero seras’, a sera obdita natum,
‘seraui’ facit. a ‘sero seris’ tamen composita, quando mutant simplicis significationem, per
‘ui’ separatas proferunt praeteritum ‘o’ in ‘ui’ conversa. ‘desero’ pro ‘relinquo’ ‘deserui’, ‘in-
sero’ pro ‘immitto’ ‘inserui’. si enim de arbore dicam, ‘insero inseui’ facit et participium ‘in-
situs’, non ‘insertus’. Virgilius in bucolico [1, 74]: ‘insere nunc Meliboee, piros, pone ordine
vites’; idem in II georgicon [2, 33 s.] ‘mutatamque insita mala / ferre pirum’. Vetustissimi
tamen etiam in simplici ‘serui’ protulisse inueniuntur, pro ‘ordinaui’ et pro ‘seui’. Ennius in
Praeceptis : ‘Vbi ~ seruit’.
1 ubi uide–t (uidelicet H): is ubi uidět Hug in Vahlen 1854 || 2 seligit D in corr. e gli
altri codd.: selegit D1 || aufert: aut fert R || 2-3 sedulo ubi operam addidit, / qu<oni>am tan-
to studio seruit <messem expectat prosperam> Vahlen 1861, 580 s. (= Vahlen 1911, I 419):
is (= eis) o. addit s. / quae t. <cum> s. s. Hug e Vahlen 1854, s. u. o. a. / <post>quam t. s.
s. Mariotti in Timpanaro 1947, 207; quam <cum> t. (o quam t. <cum>) s. s. <messem ex-
pectat prosperam> Timpanaro 1947, 72 s. e 1978, 669; <seruat segetem sibi> quam t. s. s.
<– ! –> Baehrens 1886 seguìto da Courtney 1993
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40 Le opere minori di Ennio

Protrepticus

A. TESTIMONIANZE
CHAR. GL I, 54, 19 K. (= 68, 8 B.) Ennius in Protreptico (edd.: Protreptrico cd.)

B. FRAMMENTI
fr. I (= Var. 30 V.2)
pannibus
CHAR. GL I 54, 9 ss. K. (= 67, 22 ss. B.) non numquam ratio ista auctoritate uel necessita-
te corrumpitur; ueluti cum dicimus his deabus et libertabus filiabusque, quod iuris periti in-
stituerunt, ambiguitatis secernendae scilicet gratia, ob quod multa sordide ab auctoribus dic-
ta uidentur habere rationem. [...] At cum nulla causa cogente quid tale dicitur, tunc ni mi-
rum confitendum est de errore, ut idem Gellius in XXVII [fr. 29 P.2] ‘portabus’, et mox ‘olea-
bus’, et Plautus in Curculione [506] ‘hibus’, et Ennius in Protreptico ‘pannibus’; quae no-
tanda uidentur.
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Praecepta e Protrepticus - Introduzione 41

PRAECEPTA e PROTREPTICUS

Introduzione
L’esistenza di un’opera enniana intitolata Praecepta si ricava solo da una testi-
monianza contenuta nel libro 10 dell’Ars di Prisciano1 (fine del V sec. d.C.), il
quale tuttavia attinge qui non direttamente al testo di Ennio, ma al grammatico
Flavio Capro2 (prob. II sec. d.C.).
Grande fortuna ha avuto l’ipotesi che i Praecepta siano da identificare con l’o-
pera enniana che Carisio cita con il titolo Protrepticus3: ad essa aderiscono, in mo-
do più o meno convinto, tutti gli editori a partire da Vahlen 18544 fino al più re-
cente (Courtney 19935), i quali tuttavia non hanno tenuto in alcun conto l’opi-
nione contraria espressa al riguardo da vari studiosi.
Bisogna d’altro canto riconoscere che anche questi ultimi si sono spesso limita-
ti a respingere l’identificazione tra le due opere in modo del tutto apodittico6.
Uno sforzo argomentativo maggiore è stato compiuto da Sc. Mariotti, 1967, 273
il quale – affermando di riprendere una osservazione già avanzata da Leo 1914,
204 – presenta come una difficoltà per l’identificazione tra Protrepticus e Praecep-
ta «der verschiedenen Bedeutung der beiden Wörter». Ritorneremo su questa os-
servazione di Mariotti più avanti: qui conta rilevare che in realtà Leo contestava
effettivamente l’identificazione tra Praecepta e Protrepticus, ma sulla base di una
argomentazione completamente diversa: per lo studioso tedesco le due opere non
sarebbero identificabili perché i Praecepta sono in versi mentre il Protrepticus sa-
rebbe in prosa. Nonostante questa argomentazione sia stata fatta propria da Hen-
riksson 1956, 143, essa non è accettabile perché si basa su un presupposto indi-
mostrabile: che i Praecepta fossero in versi è sicuro perché il corposo frammento
che ci tramanda Prisciano è agevolmente scandibile in settenari trocaici; ma dal
Protrepticus Carisio cita una sola parola: la prova che esso fosse in prosa Leo è
dunque costretto a ricavarla dall’indimostrabile assunto che modello di Ennio fos-
se il Protreptikov" di Aristotele, sicuramente in prosa.

1 Prisc. Inst. I (= GL II K.) 532, 17 Hertz: Ennius in Praeceptis. Sul probabile titolo Ars, anziché Institu-

tiones, dell’opera di Prisciano cfr. De Nonno 1990, 642 e n. 154.


2 Questo grammatico è infatti la fonte prevalente dei libri 5-10 dell’Ars di Prisciano: cfr. De Nonno 1990, 643.
3 Charis. 68, 8 B. (GL I 54, K.): Ennius in Protreptico (edd.: Protreptrico eod.). Sulla forma Protrepticus al

maschile cfr. sotto l’introduzione a quest’opera.


4 Che in effetti attribuiva a se stesso e al suo condiscepolo Th. Hug l’identificazione tra Protrepticus e Prae-

cepta (cfr. p. XCI): ma la stessa tesi Hertz 1855 (nell’edizione di Prisciano, nell’app. ad loc.) attribuisce anche a
«Lindemannus inedit. Lat. part. I p.4» che indicherà verosimilmente Johann Friedrich Lindemann, Ineditorum
grammaticorum Latinorum Pars I, Gymn.-Progr., Zittaviae 1832, p. 4 che non ho potuto vedere.
5 Cfr. p. 4: «the Protrepticus […], a work which may in fact have been identical with the Praecepta».
6 Cfr. ad es. M. Lenchantin de Gurbernatis, Ennio. Saggio critico, Torino 1915 (= Roma 1978), 86 (che si

limitava a dire che i Praecepta «devono essere distinti dal Protrepticus»); cauta sull’identificazione si mostra la
Garbarino (1973, 308); più recisamente contrario, ma anche in questo caso senza discussione, Suerbaum in HLL
I (2002), 133.
003_praecepta_39 9-01-2008 12:22 Pagina 42

42 Le opere minori di Ennio

Il solo titolo Protrepticus mi pare tuttavia insufficiente per sostenere questa te-
si: la difesa tentatane da Henriksson 1956, 143, per il quale «der Protreptikov"
von Aristoteles Jahrhunderte hindurch erhalten blieb und viel gelesen wurde», mi
pare piuttosto sommaria e basata su un frequente vizio di prospettiva per cui ciò
che risulta più noto oggi a noi dovrebbe esserlo anche per autori di altre epoche.
Ma lo stesso Henriksson 1956, 143, ricorda che molte altre opere antiche anteriori
a Ennio avevano lo stesso titolo: si tratta purtroppo di testi di cui abbiamo po-
chissime testimonianze, talvolta solo il titolo e anche questo con notevoli incer-
tezze che richiederebbero un riesame, che appare piuttosto laborioso, delle fon-
ti7. La questione potrebbe essere indagata convenientemente ponendo il Protrep-
ticus di Ennio all’interno di una trattazione complessiva di questo tipo di opere:
purtroppo nell’unica pur ampia discussione a me nota dedicata all’argomento
manca stranamente il benché minimo accenno all’operetta enniana8. In questa si-
tuazione, ritengo più cauto pensare, con Skutsch 1905, 2602, che Ennio avesse
presente un modello greco non determinabile9.
Se l’osservazione di Leo non dimostra che l’identificazione tra Protrepticus e
Praecepta è impossibile, non ne consegue automaticamente che essa sia probabi-
le: un uso metodicamente corretto delle fonti impone di argomentare perché es-
se citerebbero la stessa opera con due titoli diversi. Una circostanza simile è
certo ipotizzabile e troverebbe analogie in altri casi assolutamente sicuri: Prisc.
II (GL III K.) 424, 9 H. e Non. 90, 5 M. citano la stessa tragedia, rispettivamen-
te, con i titoli Argonautica e Medea: ma per sostenere questo possiamo contare su
Cic. n. d. 2, 89 che cita un brano in cui si ritrovano sia i versi citati da Prisciano
che quelli citati da Nonio. Ma nel nostro caso non possiamo contare su circo-
stanze analoghe: tra il frammento citato da Prisciano e quello citato da Carisio non
possiamo presumere nessun rapporto10 ed è assai difficile indicare su quali argo-

7 Lo stesso elenco di autori di opere intitolate Protreptikov" fornito da Henriksson presenta ad esempio

delle non spiegate quanto notevoli divergenze dall’analogo elenco proposto da H. Gärter in Der kleine Pauly s.
v. ‘Protreptikos’ [1967]; nel lavoro complessivo più recente sull’argomento (la voce ‘Protreptik’ di H. Görge-
manns in Der neue Pauly, X (2001), 468-471) tra gli autori anteriori ad Ennio di un’opera intitolata Protrep-
tikov" vengono menzionati, oltre che ad Aristotele, anche Antistene, Aristippo, Demetrio Falereo, Teofrasto,
Chamaileon, Monimos, Cleante, Perseo di Cizio, Aristone di Chio, Epicuro.
8 P. Hartlich, De exhortationum a Graecis Romanisque scriptarum historia et indole, «Leipziger Studien zur

class. Philologie» 11, 1889, 207-336: da qui dipenderà probabilmente l’omissione di Ennio nell’elenco di autori
compiuto nella voce “Protreptikos” in Der kleine Pauly citata sopra; a tale omissione ha adesso rimediato la vo-
ce ‘Protreptik’ in Der neue Pauly, cit., 470.
9 In che modo Ennio abbia poi rielaborato il modello non è ovviamente precisabile: Vahlen 1903, CCXVII

pensava a una traduzione («Credibile fit Ennium hic quoque [come nel Sota] Graecum exemplum Latine ex-
pressum extulisse»). Sul Protrepticus cfr. in generale Garbarino 1973, 308 (la più affidabile); segnalo inoltre per
completezza, tra quanti identificano il Protrepticus con i Praecepta, Ferrero 1955, 205 (che vorrebbe rilevare
un’opposizione tra i Praecepta/Protrepticus, dedicati a insegnamenti di morale spicciola, e l’Epicarmus, di argo-
mento più elevato) e i tentativi di «definire almeno approsimativamente la fisionomia del poemetto» compiuti da
Marastoni 1961, 16 s. sulla base di raffronti poco cogenti. Pascal 1919, 74 (ribadendo una tesi già espressa in Pa-
scal 1897, 238 = 1900, 43) non solo identificava Praecepta e Protrepticus, ma li considerava parte dell’Epicarmus.
10 Come potrebbe apparire invece da formulazioni quali quelle di Traglia 1986, 381, n. 25: «Quanto alla
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Praecepta e Protrepticus - Introduzione 43

mentazioni alternative, in effetti mai esplicitate, sia stata sostenuta la loro attribu-
zione alla stessa opera. L’identificazione tra Protrepticus e Praecepta viene anzi pre-
sentata in modo confuso se non addirittura contraddittorio: Vahlen 1854 ricava-
va dalle testimonianze di Prisciano e Carisio un’opera dal titolo doppio (non sen-
za incongruenze tuttavia: nell’ed., p. 165, Vahlen stampava Protreptikov" siue
praecepta, nella introduzione, p. XCI, invertiva i termini e usava i caratteri latini:
«Praecepta siue Protrepticus»; analoga contraddizione, anche se invertita, in
Vahlen 1903: il titolo viene riportato in greco nell’introduzione – cfr. p. CCXVII:
«Protreptikov" (nam sic opinor scribendum fuit)» – ma in latino nell’edizione,
p. 218)11 e che dovrebbe risalire direttamente a Ennio. Müller 1884 (Ein.), 113 ri-
teneva invece non autentico il titolo Praecepta, in base al quale tuttavia forse rico-
struisce in Protreptica il titolo originale dell’opera enniana12.
Di fronte a queste proposte, io credo che l’unica ragione ipotizzabile che abbia
potuto indurre gli editori a identificare le due opere sia, per quanto possa appari-
re paradossale, proprio una considerazione contraria a quella che aveva indotto
Mariotti (e non Leo, come abbiamo visto) a distinguerle: per Mariotti questa iden-
tificazione era stata fatta «trotz der verschiedenen Bedeutung der beiden Wörter»
Protrepticus e Praecepta; per gli editori l’identificazione viene fatta a causa della
somiglianza di significato dei due termini13. Questo presupposto, mi pare, è sicu-
ro per la soluzione prospettata da Müller: si può pensare che il titolo Protrepticus
sia stato mutato in Praecepta solo da chi abbia ritenuto il secondo semanticamen-
te equivalente del primo14. Ma esso mi pare anche alla base dell’ipotesi di Vahlen

possibilità del doppio titolo, essa proviene dal fatto che il poemetto è citato come Protrepticus da Carisio e co-
me Praecepta da Prisciano»; qui sembrerebbe quasi prospettarsi che Carisio citi lo stesso frammento o parte del-
lo stesso frammento citato da Carisio. Nella introduzione Traglia si era espresso in modo più cauto (p. 67: «Se
[il Protrepticus] era la stessa opera che Prisciano chiamava Praecepta»).
11 La contraddizione deve essere forse addebitata a un ripensamento di Vahlen, che scrisse l’introduzione

più di un anno dopo la consegna dell’edizione dei frammenti al tipografo: cfr. sopra, p. 000. Da queste oscilla-
zioni di Vahlen dipendono probabilmente le oscillazioni di Traglia 1986 (cfr. p. 67 con esplicito richiamo all’in-
troduzione di Vahlen 1903: «Ma sotto il titolo Protrepticus (se non si deve scrivere addirittura in greco, Pro-
treptikov") nulla ci è pervenuto. Se era la stessa opera che Prisciano chiamava Praecepta…»; a p. 380, nella n. 25
apposta al titolo stampato nell’edizione: «Che il poemetto enniano portasse un doppio titolo greco-latino Pro-
treptikov" sive Praecepta non pare improbabile a chi abbia presenti certi titoli di menippee varroniane». A Vah-
len si riallaccia, senza notarne le oscillazioni sulla forma del titolo, anche Warmington 1935, 406, n. ‘a’: «Chari-
sius […] says Ennius in Protreptico. Vahlen would make the title Protreptikov", but the title Praecepta given by
Priscianus suggests that Protrepticum is right»; ma sostanza e logica dell’obiezione di Warmington a Vahlen mi
sfuggono: Warmington vorrebbe ricavare da Praecepta di Prisciano un argomento contro l’uso di caratteri greci
o il genere (neutro o maschile) di Protrepticum?
12 «Die Protreptica (oder, wie sie nach Ennius umgetauft wurden, Praecepta)». Si noti che, nella sua edizio-

ne enniana dello stesso anno, Müller stampava «Protrepticus (Praecepta)» (p. 83): dunque anche qui sembra pro-
spettarsi l’inautenticità di Praecepta.
13 A questa considerazione si sarà aggiunta – forse – anche l’esigenza di non aumentare con due opere, ognu-

na delle quali conosceremmo appunto grazie a una sola citazione, il già cospicuo numero delle opere enniane. Ma
quest’ultimo argomento è poco probante: di infinite opere antiche, anche constistenti, noi siamo a conoscenza gra-
zie a una sola testimonianza: per limitarci a Ennio, gli Hedupagetica ci sono noti solo a una citazione di Apuleio.
14 Forse per Müller l’origine di Praecepta era da attribuire, oltre che all’equivalenza semantica, anche alla

somiglianza grafica con Protrepticus (che come abbiamo visto, Müller proponeva di correggere in Protreptica sul-
la base di Praecepta).
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44 Le opere minori di Ennio

1854, XCI che commentava così il titolo Praecepta sive Protrepticus: «sic duplici-
ter poeta et Latine et Graece unum librum inscripsit». Dunque, parrebbe, Prae-
cepta sarebbe il corrispondente latino del greco Protrepticus15.
Se questa mia spiegazione congetturale delle tesi di Vahlen e di Müller non co-
gliesse nel segno, non riesco a vedere nessun’altra ragione per prendere almeno in
considerazione l’ipotesi che Prisciano e Carisio si riferissero alla stessa opera con
due titoli diversi. E a me pare che se da una parte non è possibile sostenere che
Praecepta sia l’esatto equivalente di Protrepticus, non si possa neppure sostenere
che tra i due termini non vi sia alcuna affinità. È vero che, per il greco protrep-
tikov" (scil. lovgo") l’atteso corrispondente latino sarebbe probabilmente exhorta-
tio: Quintiliano traduce protreptikh; (stavsi") con exhortativus (scil. status)16; e
si potrebbe anche obiettare che Seneca sembra distinguere la praeceptio dal-
l’exhortatio17. Ma quando constatiamo che per rendere in latino lo stesso termine
greco parainetikov" viene usato in Seneca praeceptivus (dunque un derivato di
praeceptum) e in Rutilio (citato da Quintiliano) exhortatio18, mi pare di poter con-
cludere che praeceptum e exhortatio possano coprire campi semantici molto affini
e addirittura in larga parte coincidenti.
D’altro canto entrambi risultano utilizzati per opere accomunate da un intento
didascalico: Quintiliano presenta l’exhortatio come l’attività dei docentes19; Auso-
nio scrive un pedagogico Protrepticus ad nepotem (VIII Green; come libellum
quem ad nepotulum meum, sororis tuae filium, instar protreptici luseram, lo pre-
senta Ausonio); è inoltre testimoniata un’opera di Catone intitolata Praecepta ad
filium dove l’indicazione del destinatario esplicita l’intento pedagogico20.
Allo stato attuale della ricerca, dunque, l’ipotesi di una identificazione tra Pro-
trepticus e Praecepta risulta possibile ma non dimostrabile e quindi qui vengono
edite come due opere distinte.
Oltre al frammento di sicura attribuzione tramandato da Prisciano, in passato
alcuni studiosi hanno attribuito congetturalmente ai Praecepta anche Enn. Inc. 42

15 Il richiamo ai doppi titoli delle satire varroniane esplicitato da Traglia (1986, 380, n. 25) ma probabil-

mente tenuto presente anche da Vahlen e dagli altri editori (la maggioranza) che a lui si sono richiamati (non da
L. Müller, per cui come abbiamo visto i due titoli non erano originali), può essere considerato tutt’al più un ar-
gomento di conferma dell’esistenza già dimostrata o almeno ipotizzata in base ad altre ragioni, e non – come nel
nostro caso – da dimostrare, di un’opera enniana dal doppio titolo.
16 Quint. inst. 3, 6, 47: protreptikh;n stavsin vel parormhtikhvn, id est exhortativum.
17 Sen. epist. 95, 65 Posidonius non tantum praeceptionem (nihil enim nos hoc verbo uti prohibet) sed etiam

suasionem et consolationem et exhortationem necessariam iudicat.


18 Sen. epist. 95, 1 pars philosophiae quam Graeci paraeneticen vocant, nos praeceptivam; Quint. inst. 9, 2,

103 multa alia et idem Rutilius Gorgian secutus, non illum Leontinum sed alium sui temporis, cuius quattuor li-
bros in unum suum transtulit, et Celsus, videlicet Rutilio accedens, posuerunt schemata: consummationem, quam
Graecus diamavchn vocat […]; exhortationem, parainetikovn.
19 Quint. inst. 1, 2, 25 id nobis acriores ad studia dicendi faces subdidisse quam exhortationem docentium, pae-

dagogorum custodiam.
20 Se quest’opera fosse da identificare con quella che altre fonti citano con titoli diversi o con parte di essa

è questione discussa, su cui cfr. ora Maria Teresa Sblendorio Cugusi in M. P. CATONE, Opere, a cura di P. Cugu-
si e M.T.S.S., 2 vll., Torino 2001, II 422 n. *.
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Praecepta e Protrepticus - Introduzione 45

V.2 philologam21: ma questa attribuzione può poggiare solo su una ricostruzione


assai incerta del testo della fonte (Fest. 241, 24 M.) che in questo caso ci è giunto
in modo estremamente lacunoso.

Praecepta

Commento ai frammenti
fr. I (= Var. 31-33 V.2)
L’interpretazione complessiva di questo frammento in settenari trocaici22 è suf-
ficientemente sicura: si parla della zelante attività con cui il contadino sradica le
erbacce dal campo di grano tanto amorevolmente coltivato. Vi sono due conside-
razioni che rendono verosimile che tale immagine – come si è comunemente sup-
posto a partire da Colonna 1585-86 – sia stata qui utilizzata da Ennio nell’ambito
di una discussione di carattere etico-pedagogico per descrivere l’opera di sradica-
mento dei vizi, equiparati all’erba cattiva:

• all’interno di un contesto analogo lo stesso motivo si trova ad es. anche in Plato, Euthyph.
2 D (ojrqw`" gavr ejsti tw`n nevwn prw`ton ejpimelhqh`nai o{pw" e[sontai o{ti a[ristoi,
w{sper gewrgo;n ajgaqo;n tw`n nevwn futw`n eijko;" prw`ton ejpimelhqh`nai, meta; de;
tou`to kai; tw`n a[llwn: kai; dh; kai; Mevlhto" i[sw" prw`ton me;n hJma`" ejkkaqaivrei
tou;" tw`n nevwn ta;" blavsta" diafqeivronta", w{" fhsin) e Hor. serm. 1, 3, 35-37;
• il frammento si trova nei Praecepta, titolo che si addice a opere di contenuto pedagogi-
co (cfr. sopra l’introduzione).

vide– t: per giustificare la conservazione della quantità originaria della vocale in sil-
laba finale chiusa da consonante diversa da ‘s’ non c’è bisogno di ricorrere, con
Skutsch 1985, 58 s., alla analogia con uide–s: nel trattamento della vocale in sillaba
finale di parola Ennio presenta anche in altri casi numerose oscillazioni che non
possono essere spiegate ricorrendo all’analogia (cfr. commento a splendet in Sci-
pio fr. IV).

auenam lolium: dell’avena esistono varie specie, tra le quali anche una particolar-
mente infestante (auena fatua), e a quest’ultima si riferiscono evidentemente En-
nio nel frammento, nonché Virgilio in ecl. 5, 37 s. (descrizione dei negativi effetti
– causati dalla scomparsa di Dafni – sui campi coltivati) grandia saepe quibus man-
dauimus hordea sulcis, / infelix lolium et steriles nascuntur auenae. Inoltre, come si
vede, anche in questo passo di Virgilio l’auena è associata, in quanto malerba, al
lolium (ulteriori testimonianze nel comm. di Mynors [1990], a Verg. georg. 1, 154,

21 Cfr. Vahlen 1854, p. 182 che menziona le ipotesi di K. O. Müller e poi ammette anche la possibilità di at-

tribuirlo ai Praecepta.
22 Per un lapsus Skutsch 1905, 2602, 7 indica una scansione in esametri.
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46 Le opere minori di Ennio

p. 31 s.); nel nostro verso auenam lolium costituisce dunque un asindeto bimem-
bre di sostantivi di significato affine, secondo un sintagma assai frequente in En-
nio: cfr. Timpanaro 1994 I (art. del 1988), 33; nel v. succ. si trova un altro asinde-
to, in questo caso trimembre, costituito da verbi sinonimici (seligit, secernit, au-
fert) del tutto analogo a quello che si ritrova ad es. in Enn. sc. 340 V.2 = 308 Joc.
cogitat parat putat; si noti che, in entrambi questi casi di asindeti trimembri, due
dei tre verbi sono legati da allitterazione (seligit secernit e parat putat): anche su
questo stilema cfr. Timpanaro 1994, 15.

quoniam: il testo tràdito del terzo verso è sicuramente corrotto per l’assommarsi
di ragioni metriche23 e sintattiche: seruit, come ci dice la fonte Prisciano, è una
forma di perfetto, in uso presso i uetustissimi, alternativa a seuit e significa quin-
di ‘seminò’ (secondo un valore riconosciuto anche nel disseruit di Sueius 1, 7
Courtney): ma nel testo tràdito l’antecedente di quam, e dunque il complemento
oggetto di seruit, non può essere, come parrebbe la soluzione più ovvia, operam
del verso precedente: il nesso operam serere, infatti, sarebbe difficilmente spiega-
bile; inoltre, operam, che riassume il concetto espresso da seligit secernit aufert e
designa quindi lo sradicamento delle erbacce, non può contemporaneamente es-
sere il complemento oggetto di seruit, che si vuole riferito alla fase della semina.
Come mi fa osservare M. De Nonno, tra le numerose soluzioni proposte per ri-
mediare a queste difficoltà, le migliori appaiono quelle che, tramite una lieve cor-
rezione, portano il terzo verso fino alla dieresi canonica, e che rendono quindi le-
gittimo attribuire alla fonte stessa del frammento – anziché a un ulteriore guasto
della sua tradizione manoscritta – un taglio della citazione fino a questo punto:
<post>quam tanto studio seruit di Sc. Mariotti (ap. Timpanaro 1947, 207); quam
<cum> tanto studio seruit <messem expectat prosperam> di Timpanaro 1947, 7224
e, particolarmente attraente, qu<oni>am tanto studio seruit di Vahlen 1861, 580
s.25 (= Vahlen 1911, I 419): quest’ultima presuppone il «frequentissimo errore di
scioglimento di una nota antiqua (qm con tratto sovrapposto)». (De Nonno, per
litteras). Stranamente Courtney 1993 prende invece in considerazione solo l’inte-
grazione proposta da Baehrens 1886 <seruat segetem sibi> quam t. s. s.: essa ap-
pare infatti la meno felice di tutte perché implica che nella tradizione manoscrit-

23 Sotto questo aspetto, le difficoltà sono due: a) fine di parola dopo il settimo elemento invece della con-

sueta dieresi dopo l’ottavo elemento; b) un’infrazione alla norma di Meyer (cfr. Questa 1967, 194: il settimo ele-
mento – la sillaba it di seruit – è in fine assoluta di polisillabo e preceduto da un elemento bisillabico): questi fat-
ti presi di per sé non appaiono decisivi perché a) “non possono più essere negati i casi di incisione dopo il setti-
mo” elemento (Questa, 1973, 530) e b) “resta un certo numero di versi in cui la norma [di Meyer] è infranta sen-
za giustificazioni ben evidenti” (Questa 1973, 535; così in Ennio sc. 228 V.2; cfr. il settenario in Plaut. Cap. 292:
ne ipse Genius surripiat | proind(e) aliis ut credat vide). Ma è la loro compresenza, oltre al problema sintattico di
cui parlo più avanti nel testo, a mostrare che il testo è guasto.
24 Questa correzione di Timpanaro riprende l’integrazione <messem expectat prosperam> di Vahlen su cui

cfr. la n. successiva.
25 Qui Vahlen completa inoltre il verso con l’integrazione <messem expectat prosperam> che nella sua se-

conda edizione (1903), Vahlen si limiterà a riproporre in app. ad loc.


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Praecepta e Protrepticus - Introduzione 47

ta si sia verificato un guasto non solo prima, ma anche dopo quam tanto studio se-
ruit, a cui dovrebbe seguire <– ! –>: attribuire d’altro canto quest’ultima lacuna
a Prisciano appare inverosimile, perché presupporrebbe un taglio della citazione
davvero anomalo.

PROTREPTICUS
Sulla base dell’unica testimonianza da cui ci è nota (Char. GL I 54, 19 = 68, 8
B.: Ennius in Protreptico [edd.: Protreptico ed.], non è ovviamente possibile de-
terminare se il titolo di quest’opera enniana fosse Protrepticus al maschile, come si
ritiene comunemente, oppure Protrepticum al neutro: a favore di quest’ultimo si
pronuncia Warmington 1935, senza tuttavia addurre argomenti validi (cfr. sopra);
nelle varie edizioni del Lexicon del Forcellini il termine viene lemmatizzato al neu-
tro protrepticum26, probabilmente sulla base di una presunta attestazione, lì se-
gnalata, di Protrepticon come titolo di Stat. silu. 5, 2: ma di questa testimonianza
non ho trovato traccia nelle edizioni più recenti di Stazio; sicuramente attestato
nei codici è invece Protrepticus al maschile come titolo di un’opera di Ausonio
(cfr. l’app. ad loc. di Green); inoltre, come si è visto nell’introduzione ai Praecep-
ta, anche nelle opere greche il titolo era di norma Protreptikov" al maschile: per
queste ragioni ritengo l’ipotesi più probabile che anche il titolo dell’opera ennia-
na fosse, al maschile, Protrepticus.
Non sufficientemente fondata, e rimasta isolata, è la proposta di attribuire al
Protrepticus anche il fr. Ann. 16 V.2 = Op. inc. 1 Sk. Lunai portum, est operae, co-
gnoscite ciues27.
fr. I (= Var. 30 V.2)
I dativi-ablativi in -abus e in -ibus in luogo di quelli in -is sono da considerarsi
erronei – afferma Carisio citando tra gli altri il pannibus enniano il luogo di pan-
nis – quando non sono giustificati dall’esigenza di distinguere il genere gramma-
ticale, come nel caso di puellabus (sul fenomeno in generale F. Murru, Sui nomi in
-abus nei grammatici latini, «Vichiana» 16, 1986, 293-303). Pannibus (le cui uni-
che altre attestazioni, stando al Th. l. L. X 1, 232, 21 ss., sono, oltre a Pompon.
com. 70 R.3, un problematico caso di Varr. ling. 5, 105: altre ricorrenze sono tar-
de) rientra in realtà in uno dei frequenti casi di sostantivi che oscillano tra secon-
da e quarta declinazione.

26 Nell’OLD questa voce è invece assente sia al maschile che al neutro.


27 Tale attribuzione è proposta da E. Flores, Letteratura latina e ideologia del III-II sec. a.C., Napoli 1974, 102-
104 sulla base del presupposto che i Praecepta coincidessero con il Protrepticus e del fatto che la fonte cita Ann.
16 V.2 affermando che esso proviene de Ennii carminibus: in questa espressione, secondo Flores, carmina sareb-
be usato per indicare una «generica precettistica» (Flores, cit., 103), secondo l’accezione che hanno i termini car-
men e carmina quando vengono usati per designare le sententiae di Appio Claudio Cieco. Sulla base della pro-
pria proposta di attribuzione, inoltre, il Flores ipotizza che il Protrepticus contenesse un’«esortazione a partire
come coloni per Luna» (Flores, cit., 102) e sia quindi da datare al 177 a.C., anno in cui avvenne la colonizzazio-
ne romana di Luni.
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II. Saturae
Testimonianze e frammenti

Saturae
Saturae: scrivo così in base a Gellio (2, 29, 20: Q. Ennius in Satiris; cfr. anche Gell. 18,
2, 7; 6, 9, 1), Porphyr. (ad Hor. sat. 1, 10, 46: Ennius qui quattuor libros Saturarum reli-
quit), Serv. Dan. (ad Verg. Aen. 12, 121: Ennius saturarum II ), Non. (33, 7 M.: Ennius Saty-
rarum lib. III; e cfr. Non. 66, 18; 139, 15; 147, 8; 470, 19; 474, 25): Satura Waszink 1972,
104 s. in base a Diomede (GL I 485, 30 ss. K. [cf. infra Test. III]: carmen […] quod ex ua-
riis poematibus constabat olim satura uocabatur, quale scripserunt Pacuuius et Ennius); poe-
mata per saturam Marx 1904, XIV; sul titolo cfr. introduzione, p. 72 ss.

A. TESTIMONIANZE

Test. I
QUINT. inst. 10, 1, 93-95: satura quidem tota nostra est, in qua primus insignem
laudem adeptus Lucilius [...] |95|Alterum illud etiam prius saturae genus, sed non
sola carminum uarietate mixtum condidit Terentius Varro, uir Romanorum eru-
ditissimus.
Alterum illud etiam prius saturae genus cioè, come appare probabile, quello di Ennio e
Pacuvio: cfr. introduzione, p. 66.

Test. II
PORPHYR. ad Hor. sat. 1, 10, 46 ss. [Hoc erat, experto frustra Varrone Atacino /
atque aliis melius quod scribere possem, / inuentore minor]: HOC ERAT EXPERTO FRU-
STRA et reliqua: Quoniam alii <alia> carminum genera consummate scriberent,
quorum mentionem habuit, sermonum autem frustra temptasse<t> Terentius Var-
ro Narbonensis, qui Atacinus ab Atace fluvio dictus est, item Ennius qui quattuor 5
libros saturarum reliquit, et Pacuuius huic generi uersificationis non suffecissent,
<s>e ide<m> scribere ait ita, ut aliis maior sit, Lucilio minor. Quem inuentorem
huius operis merito dixit, quia primus Lucilius huius modi carmina scripsit.
3 <alia> Meyer 1874 || 4 temptasse<t> Pauly in Holder 1894 || <s>e ide<m> Pauly ibid.
|| quattuor: VII (ricavato dalla grafia IIII) Usener in Vahlen 1903, CCXI sulla base di Don.
ad Ter. Phorm. 339 e sexto Satyrarum Ennii (infra, Sat. fr. XI): sulla questione cfr. intro-
duzione, p. 76 ss.
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50 Le opere minori di Ennio

Test. III
PORPHYR. ad Hor. epist. 1, 3, 1 s. [Iuli Flore, quibus terrarum militet oris / Clau-
dius Augusti priuignus, scire laboro] IULI FLORE, QUIBUS TERRARUM <MI>LIT<ET>
ORIS. Hic Florus scriba fuit et saturarum scriptor, cuius sunt electae ex Ennio Lu-
cilio Varrone saturae.
sunt †electae† Jocelyn 1972, 1022 n. 360, ma cfr. introduzione, p. 67s.

Test. IV
DIOM. GL 1, 485, 30-34 Keil [1857;= Reifferscheid 1860, 20, 2-8 = Leo 1899,
55, 77 - 56, 1]: Satura dicitur carmen apud Romanos, nunc quidem maledicum et
ad carpenda hominum uitia archaeae comoediae charactere compositum, quale
scripserunt Lucilius et Horatius et Persius; et olim carmen quod ex uariis poema-
tibus constabat satura uocabatur, quale scripserunt Pacuuius et Ennius [emilius
cd. M schol. Pers.].
Queste parole si ritrovano anche nei codici del comm. di Porfirione ad Hor. epist. 1,
11, 12 e (secondo la testimonianza di Jahn in Reifferscheid 1860, 20), anche nel cod. M
(= Bern. 665) degli scoli a Persio (cfr. introduzione, p. 68) || et olim: sed o. Reifferscheid
1860, set o. Leo 1899, at o. cd. M schol. Pers.

Test. V
(dubbia)
Hor. sat. 1, 10, 64 ss.
Fuerit limatior idem [=Lucilius]
quam rudis et Graecis intacti carminis auctor
quamque poetarum seniorum turba
Il rudis et Graecis intacti carminis auctor (v. 65 s.) è stato identificato, da molti studiosi,
con Ennio in quanto autore di satire: cfr. tuttavia l’introduzione.

Test. VI
(riferita probabilmente a torto alle Saturae di Ennio)
HOR. sat. 1, 10, 46 ss.
Hoc [genus saturae] erat, experto frustra Varrone Atacino
atque quibusdam aliis, melius quod scribere possem,
inuentore minor; neque ego illi detrahere ausim
haerentem capiti multa cum laude coronam.
I quibusdam aliis (v. 47) sono stati identificati con Ennio e Pacuvio in quanto autori di
satire da Porfirione nel comm. ad loc. (cfr. sopra Test. I); inuentore e illi (v. 48) sono stati
riferiti a Ennio, sempre in quanto autore di satire, da Lejay 1911, 274 ad loc.; cfr. intro-
duzione.
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Saturae - Testimonianze e frammenti 51

B. FRAMMENTI

Dal libro I

fr. I (= Sat. 1 V.2)


ia6 Malo hercle suo magno conuiuat sine modo

NON. 474, 22 ss. M.: CONVIVANT, pro conuiuantur: [...] Ennius Satyrarum lib. I:
‘Malo ~ modo’
suo magno: magno suo Bothe 1837, 266, edd. || conuiuat. Sine modo! Bothe cit.

fr. II (= Sat. 2 V.2)


ia6? Dum, quidquid <des>, des celere

NON. 510, 7 ss. M.: CELERE, pro celeriter. [...] Ennius Satyrarum lib. I: ‘Dum ~
celere’
Dum: Da o dane Gulielmus 1583, 160 || <des> cdd. recc.: <das> Bergk 1884 , 305, <da-
bis> dub. L. Müller 1888

Dal libro II

fr. III (= Sat. 3-4 V.2)


hex contemplor
inde loci liquidas pilatasque aeteris oras

SERV. DAN. ad Aen. 12, 121 [procedit legio Ausonidum pilataque plenis / agmi-
na se fundunt portis]: PILATAQUE PLENIS hoc est pilis armata. [...] Vel certe ‘pilata’
fixa et stabilia uel a pilo, quod figit, uel a pila structili [edd.: structi F] quae fixa est
et manet: nam et [uel certe … nam et om. T] Graeci res densas et artas pilwtav
[Thilo (1881): PIAWIA F, PILOIA T, pilwvia Daniel 1600] dicunt. Ennius Saturarum
II ‘contemplor~ oras’, cum firmas et stabiles significaret <et> quasi pilis fultas [En-
nius … fultas om. T]
contemplor / inde … oras F: inde … oras / contemplor i vecchi editori sulla base della
cit., probabilmente erronea, contenuta in Scaliger 1575, II, XLV
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52 Le opere minori di Ennio

fr. IV (= Sat. 5 V.2)


tr7 Restitant occurrunt obstant obstri[n]gillant obagitant

NON. 147, 8 s. M.: OBSTRIGILLARE [F3 L1 CA (= Paris. 7666) DA: OBSTRINGILLARE


BA (con i codd. Lugd. e Bamb.)], obstare. Ennius Satyrarum lib. II: ‘restitant ~ oba-
gitant’.
obagitant Bentinus 1526: ouagitant cdd., obigitant Bergk 1844 , XVI (=1884, 232)

Dal libro III

fr. V (= Sat. 6-7 V.2)


ia6 Enni poeta, salve, qui mortalibus
uersus propinas flammeos medullitus

NON. 33, 4 ss. M.: PROPINARE a graeco tractum est: post potum tradere. [...] En-
nius Satyrarum lib. III ‘Enni ~ medullitus’;
NON. 139, 9 ss. M.: MEDULLITUS, a medullis. [...] Ennius Satyrarum lib. III ‘En-
ni ~ medullitus’.
Enni poeta, salve: Ennio eta selve cdd. Non. 33 M.

fr. VI (= Sat. 10-11 V.2)


hex testes sunt
lati campi quos gerit Africa terra politos
NON. 66, 18 ss. M.: POLITIONES, agrorum cultus diligentes: ut ‘polita’ omnia di-
cimus exculta et ad nitorem deducta. Ennius Satyrarum lib. III ‘testes ~ politos’.

Dal libro III (o IV?)

fr. VII (= Sat. 8-9 V.2)


ia6 Nam is non bene uolt tibi qui falso criminat
apud te
NON. 470, 19 ss. M.: CRIMINAT Ennius Satyrarum lib. III [IIII BA] ‘Nam ~ apud te’.
nam<que> Vahlen 1859, 567 || is ed. princ.: iis o us cdd. || uolt tibi su corr. BA: uoltibi
gli altri cdd.
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Saturae - Testimonianze e frammenti 53

Dal libro IV

fr. VIII (= Sat. 12-13 V.2)


ia7? neque ill<e> triste quaeritat sinapi
neque cepe maestum
MACR. Sat. 6, 5, 5: ‘tristis’ pro ‘amaro’ translatio decens est, ut [Verg., Georg. 1, 75]
‘tristisque lupini’. Et ita Ennius in libro satirarum [Colonna 1585-86: Sabinarum
cdd.] quarto ‘neque ~ maestum’.;
SERV. DAN. georg. 1, 75 (fino a sinapi) TRISTISQUE LUPINI: amari, cum [edd.: quo
cd.] in gustu <amarum sit> [Thilo III (1887): <sit amarum> Daniel 1600] triste:
nam incoctus amarus est Ennius ‘neque ill<e tris>te quaeritat sinapi’
neque ill<e> triste Burman sr. 1746, I 191: neque triste Macr.: neque ill <lac. c. 8 lett.>
te cd. Serv. Dan. || quaeri. ad sinap. cd. Serv. Dan.

Da libri incerti

fr. IX (= Sat. 14-19 V.2)


ia6 Quippe sine cura laetus lautus cum aduenis
infestis malis, expedito bracchio,
alacer, celsus, lupino exspectans impetu,
mox cum alterius abligurrias bona,
quid censes domino [s] esse animi? Pro diuum fidem!
ille tristist dum cibum seruat, tu ridens vor a[n]s.
DON. ad Ter. Phorm. 339: TENE ASYMBOLUM [ad simbolum cdd.] VENIRE UNCTUM
ATQUE LAUTUM E BALNEIS. Haec non [Stephanus 1529, f. 169r: nec non RFO] ab
Apollodoro sed e sexto Saturarum Ennii [sed e sexto satirarum Ennii Stephanus cit.,
sulla base a quanto pare, di un cod. perduto; così, parrebbe, anche la fonte dei
codd. QGHJ (cf. Reeve 1979, 316: se de sextos al rarum est mi Q, se de sextos alias
rarum est *** G, se de sextos rarum est H, se desertos alr rarum mi J): redeas RC, cre-
das F, sed de cen*** V: sed e sexto satis b, edd. vett.: sed de sexto salis *** dett. (ad es.
c [lac. c. 20 ll.], d [lac. c. 9 ll.], m [om. lac.]): sed e IV Satyrarum E. Warmington
1935, 388 sulla base di Porfirione ad Hor. sat. 1, 10, 46 (cfr. Sat. Test. I), sed e se-
cundo Satyrarum E. Schöll 1885, 321 n. 2] translata sunt omnia ‘Quippe ~ vora[n]s’.
1 sine cura quippe Müller 1884 || cum: tu Müller 1884 || 2 infestis dub. Ritschl 1857, 613:
inferetis CR (infertis Stephanus cit.), insertis bcdmJ || 3 exspectans impetu Muretus 1600,
19,7 [= Gruterus II (1604), 1230]: imp. exsp. cdd. || 4 mox cum (dum Stephanus cit.): quam
mox Muretus l. cit. || abligurrias vulg.: abligurias L, ablingas cd. Cuiac.: ablinias R (ab linias
C), ablingias c, abligurieras d, obligurias bm, Stephanus 1529, abluitas J, alterius abligurris
cum Courtney 1993 || 5 domino Muretus: l. cit.: dominis edd. vett. || 6: ill’ tristist Courtney
1993: ille triste est cdd. || dum ille cibum tristis servat Muretus l. cit. || voras ed. VE 1472
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54 Le opere minori di Ennio

fr. X (= Sat. 20 V.2)

Mortem ac Vitam, quas contendentes [consentientes A] in satura tradit Ennius


QUINT. inst. 9, 2, 36 : sed formas quoque fingimus saepe, ut Famam Vergilius
[Aen. 4, 173], ut Voluptatem ac Virtutem, quemadmodum a Xenophonte [mem. 2,
1, 21 ss.] traditur, Prodicus, ut Mortem ac Vitam, quas contendentes in satura tradit
Ennius.

fr. XI (= Sat. 21-58 V.2)

XIa (= Sat. 21-56 V.2)


(3) Auicula – inquit [Aesopus] – est parua, nomen est cassita. (4) Habitat nidu-
laturque in segetibus id ferme temporis, ut appetat messis pullis iam iam pluman-
tibus. (5) Ea cassita in sementes forte congesserat tempestiuiores; propterea fru-
mentis flauescentibus pulli etiam tunc inuolucres erant. (6) Dum igitur ipsa iret
5 cibum pullis quaesitum, monet eos ut, si quid ibi rei nouae fieret dicereturue, ani-
maduerterent idque uti sibi, ubi redisset, nuntiarent. (7) Dominus postea segetum
illarum filium adulescentem uocat et «uidesne» inquit «haec ematuruisse et ma-
nus iam postulare? Idcirco die crastini, ubi primum diluculabit, fac amicos eas et
roges, ueniant operamque mutuam dent et messim hanc nobis adiuuent». Haec
10 ubi ille dixit, et discessit. (8) Atque ubi redit cassita, pulli tremibundi, trepiduli cir-
cumstrepere orareque matrem, ut iam statim properet inque alium locum sese
asportet: «nam dominus» inquiunt «misit qui amicos roget, uti luce oriente ue-
niant et metant». (9) Mater iubet eos otioso animo esse: «Si enim dominus» inquit
«messim ad amicos reicit, crastino seges non metetur, neque necessum est hodie
15 uti uos auferam». (10) Die – inquit [Aesopus]– postero mater in pabulum uolat. Do-
minus, quos rogauerat, opperitur. Sol feruit et fit nihil; it dies et amici nulli eunt.
(11) Tum ille rursum ad filium: «Amici isti magnam partem» inquit «cessatores
sunt. Quin potius imus et cognatos adfinesque nostros oramus ut assint cras tempe-
ri ad metendum?» (12) Itidem hoc pulli pauefacti matri nuntiant. Mater hortatur
20 ut tum quoque sine metu ac sine cura sint; cognatos adfinesque nullos ferme tam
esse obsequibiles ait, ut ad laborem capessendum nihil cunctentur et statim dicto
oboediant: «uos modo» inquit «aduertite, si modo quid denuo dicetur». (13) Alia
luce orta auis in pastum profecta est. Cognati et adfines operam, quam dare ro-
gati sunt, supersederunt. (14) Ad postremum igitur dominus filio: «ualeant» in-
25 quit «amici cum propinquis. Afferes primo luci falces duas: unam egomet mihi et
tu tibi capies alteram, et frumentum nosmetipsi manibus nostris cras metemus».
(15) Id ubi ex pullis dixisse dominum mater audiuit: «Tempus» inquit «est ue-
dendi et abeundi; fiet nunc dubio procul, quod futurum dixit. In ipso enim iam
uertitur cuia res est, non in alio unde petitur». (16) Atque ita cassita nidum mi-
30 grauit, seges a domino demessa est.
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Saturae - Testimonianze e frammenti 55

XIb (= Sat. 57-8 V.2)

tr7 Hoc erit tibi argumentum semper in promptu situm,


ne quid expectes amicos, quod tu<te> agere possi<e>s.

GELL. 2, 29, 1-20: (1) Aesopus ille e Phrygia fabulator haut inmerito sapiens exi-
stimatus est cum, quae utilia monitu suasuque erant non seuere neque imperiose
praecepit et censuit, ut philosophis mos est, sed festiuos delectabilesque apologos
commentus res salubriter ac prospicienter animaduersas in mentes animosque ho-
minum cum audiendi quadam inlecebra induit. (2) Velut haec eius fabula de auicu-
lae nidulo lepide atque iucunde promonet spem fiduciamque rerum, quas efficere
quis possit, haut umquam in alio sed in semet ipso habendam: [3 …16: fr. XIa].
(17) Haec quidem est Aesopi fabula de amicorum et propinquorum leui plerumque
et inani fiducia. (18) Sed quid aliud sanctiores libri philosophorum monent quam ut
in nobis tantum ipsis nitamur, (19) alia autem omnia, quae extra nos extraque no-
strum animum sunt, neque pro nostris neque pro nobis ducamus? (20) Hunc Aeso-
pi apologum Q. Ennius in Saturis scite admodum et uenuste uersibus quadratis com-
posuit. Quorum duo postremi isti sunt, quos habere cordi et memoriae operae pre-
tium esse hercle puto: [fr. XIb].
XIa GELL. 2, 29, 3 - 16 (VPRTY; da 9 Haec ubi a 17 adfines A)
3 congesserat Titius 1583, 143: concesserat VPR || 4 flavescentibus VR: flaventibus P ||
Dum P: cum VR || 5 pullis PR: pusillis V || 8 crastini VR: crastina P || 10 tremibundi A: om.
VPR || 13 otioso animo A: animo otioso P: amotu ociosos VR || 14 necessum A: necesse
VPR || 14 inquit A: igitur VPR || 15 it Gronovius (jr.) 1706: et AVPR || eunt A: erant VPR
|| 17 adfinesque Hertz 1883: adfines amicosque VPR || 23 primo luci P: prima luce VR
XIb GELL. 2, 29, 20 (VPRTY)
1 hoc P2: haec VP1R || promptu T: prom(p)tum VPRY || 2 ne quid V: nequit P, neque R
|| tu<te> agere possi<e>s Fruterius 1584, II 8 [=Gruterus II (1604), 848]: tu agere possis
VPR, agere tu quod possi<e>s Müller 1876, 12, tu quod agere possi<e>s Baehrens 1886, 121
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56 Le opere minori di Ennio

fr. XII (= Sat. 59-62 V.2)


Sot.(?) Nam qui lepide postulat alterum frustrari,
quem frustratur, frustra eum dicit frustra esse;
nam si se frustrari quem frustras sentit,
qui frustratur is frustra est, si non ille frustra est
GELL. 18, 2, 7 (cdd. QZXOP PNTYF): Itaque nuper quaesita esse memini nu-
mero septem, quorum prima fuit enarratio horum versuum qui sunt in Saturis Quin-
ti Ennii uno multifariam verbo concinniter inplicati. Quorum exemplum hoc est:
‘nam ~ frustra est’; cfr. anche Gell. 18, 2, 6: Quaerebantur autem res huiuscemodi:
[…] sententia poetae veteris lepide obscura, non anxie.
2 quem: quam Z || frustratur frustra, eum Mariotti 1998 || 3 nam si se Usener (ap. Vah-
len 1903), Hosius 1903 (dub. in app.), nam qui sese cdd.: nam si sese Courtney 1993 || fru-
stras (frustas FO) sentit (senti X) FOXN: frustrassent id (it F) F1 d (=QZB), Ribbeck 1856,
288 n. *: frustra sentit P, edd. || 4 si: sed Q || non ille frustra est F. Skutsch (ap. Hosius
1903): non ille (ille non Vahlen 1854, Müller 1884) est frustra cdd.

fr. XIII (= Sat. 63 V.2)


ia6 Meum non est ac si me canis memorderit
GELL. 6, 9, 1 ss.: ‘Poposci’, ‘momordi’, ‘pupugi’, ‘cucurri’ probabiliter dici vide-
tur, atque ita nunc omnes ferme doctiores hisce verbis utuntur. Sed Q. Ennius in Sa-
turis [suis add. R] ‘memorderit’ dixit [om. R] per ‘e’ litteram, non ‘momorderit’:
‘meum ~ memorderit’;
NON. 140, 20 ss. M. ‘Memordi’, ‘peposci’, ‘pepugi’, ‘spepondi’ in veteribus lecta
sunt. […] Ennius: ‘non ~ memorderit’.
meum om. Non. || ac Gell. (at R1): ut Non. || memorderit / <sine dentibus> Bolisani
1935

fr. *XIV (= Sat. 64 V.2)

ia6 (?) numquam poetor nisi <si> podager


PRISC., Inst. I (=GL II K.) 434, 6 H.: ‘grammaticus’ et ‘philosophus’ et ‘architectus’
et ‘sophista’ et ‘poeta’ Graeca sunt; itaque ex nominibus ipsis habent uerba apud Grae-
cos, unde nos quoque ‘philosophor’ ‘architector’ ‘poetor’ in usu habuimus: Ennius
‘numquam ~ podager’; cfr. anche PRISC. Inst. II (= GL III K.), 272, 21 H.: alia [scil.
uerba] artificiorum ut ‘philosophor, poetor, architector, modulor, medicor’ et ‘medico’
et ‘medeor’ (qui o in margine alcuni cdd. riportano Ennius ‘numquam ~ podager’).
<si> Vahlen 1854,. <sim> Müller 1884
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Saturae - Testimonianze e frammenti 57

fr. *XV (= Sat. 65 V.2)


tr7 subulo quondam marinas propter astabat plagas
VARR., l. L. 7, 35: apud En<n>i<u>m [Laetus 1470: en_ F]: ‘subulo ~ aquas’. Su-
bulo dictus, quod ita dicunt tibicines Tusci: quocirca radices eius in Etr<ur>ia, non
Latio qu<a>erundae.
FEST. 309 M.: ‘Subulo’ Tusce tibicen dicitur; itaque Ennius: ‘Subulo ~ plagas’;
PAUL. EX FEST. 308 M.: ‘Subulo’ Tusce tibicen dicitur.
astabat: adstrabat il cd. F di Festo || plagas Festo, edd.: aquas i cdd. di Varrone (o lo stes-
so Varrone?), forse da accogliere nel testo (cfr. Timpanaro 1998, 528 = 2005, 166 e sotto,
comm. ad loc., p. 167 s.).

fr. *XVI (= Sat. 67-68 V.2)


hex decem Coclites quas montibus summis
Ripaeis fodere
VARR., l. L. 7, 71: Apud Ennium: ‘decem ~ fodere’: ab oculo ‘cocles’, ut ocles, dic-
tus, qui unum haberet oculum: quocirca in Curculione est (393): ‘de Coclitum pro-
sapia esse arbitror: nam hi sunt unoculi’.
Riphaeis Turnebus 1565, XXII 26 (Ripaeis Colonna 1585-86): ripeis F || fodere Turne-
bus l. l., a (?): federe F

fr. *XVII (= Sat. 69 V.2)


hex Simia quam similis, turpissuma bestia, nobis
CIC., nat. deor. 1, 97: Ipsa uero quam nihil ad rem pertinet, quae uos delectat
maxime, similitudo. Quid? canis nonne similis lupo (atque, ut Ennius, ‘Simia ~ no-
bis’); at mores in utroque dispares.

fr. *XVIII (= Sat. 70 V.2)


hex Quaerunt in scirpo soliti quod dicere nodum
FEST. 330 M.: Scirpus [Scriptum (con l’espunzione di -tum) F, poi corretto in
marg. da una mano, a quanto pare, più recente: scirpum gli altri cdd.] est id quod
in palustribus locis nascitur leve et procerum, unde tegetes fiunt. Inde proverbium
est in eas natum res quae nullius impedimenti sunt ‘in scirpo nodum quaerere’. En-
nius: ‘Quaerunt ~ nodum’;
ISID. orig. 17, 9, 97: scirpus, quo [Lindsay 1911: a quo cdd.] segetes [segites D,
gentes K] teguntur, sine nodo, de qua Ennius: ‘Quaerunt ~ nodum’. Et in prover-
bio: ‘Qui inimicus est, etiam in scirpo nodum quaerit’.
soliti quod Fest.: quod soliti cdd. Isid. (solet G) contro il metro
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58 Le opere minori di Ennio

ALTRE PROPOSTE CONGETTURALI

SATURAE. fr. I: suo conuiuat magno Petermann 1851, 20 || magno quom (o quom
magno) conuiuat Baehrens 1886; II: Dum quiescit, disce celere (tr7) Bothe 1837,
266; III contemplor i. l. liquidas / pilatasque a. oras (an4) Havet 1890, 48 || con-
templo[r] Jacobsohn, Th. l. L. 4, 650, 47 s.; IV: res[ti]tant, occursant, [obstant], ob-
stringillant, [ou]agitant<ve> Bolisani 1935; occurrunt: occursant Müller 1884, ob-
durant Baehrens 1886; VI: [testes sunt] Skutsch 1985, 755 || testes ... Africa / t. ex-
politos (ia6) Bothe 1837, 266; <nam> testes (o testes <mihi>) sunt lati campi / quos
... politos (an4) Havet 1890, 48; VII: [nam] Junius 1565 || tibi uolt Petermann
1851, 21, uolt ibi Baehrens 1886 che in app. propone di integrare dopo apud te
«fere male me agere» || qui <me> falso apud te criminat Quicherat 1872, qui <te>
f. c. Fleckeisen ap. Vahlen 1854 || falso q. ad me c. Bothe 1837, 266 || [apud te] Vah-
len 1854; VIII: ill<a> Jan II (1852), 527; IX: prima del v. 1 Schöll 1885, 324 pro-
pone ex. g. l’integrazione <Rex quam miserandust tua si confers commoda!> || do-
po il v. 3 Schöll cit. introduce l’integrazione <cum magna curat cura et sumptu ab-
sumitur.>; XIb: Ne quicquam expectes amicos quod agere tu per te potes Stephanus
1564, 125; XII: 1 Nam qui: qui se Acidalius 1607 || 2 quem frustratur [...] eum:
quom frustrast [...] illum [eunce Ribbeck 1856] Vahlen 1854, quem frustratu’ fru-
strast cum Müller 1884; 3 nam qui se Vahlen 1854, qui si se Ribbeck 1856, 289, qui
sese Müller 1884: nam si quis se Traglia 1986; 4: [is] Vahlen 1854 || [si]: Müller
1884; XV: quondam: quidam Pascoli 1915, 16 || astabat: assabat dub. Scaliger
1565, 147.
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Saturae - Bibliografia 59

Saturae
Bibliografia

Edizioni e commenti
• Colonna 1585-86 (= Colonna 1590; rist. in Hessel, 1707)
• Vahlen 1854
• Müller 1884
• Baehrens 1886
• Müller 1894
• Vahlen 1903
• Warmington 1935
• Bolisani 1935
• Segura Moreno 1984
• Traglia 1986
• Courtney 1993

Inoltre in Miller 2005 si trova, a p. 37, una selezione antologica dei frammenti (ed. di
Enn. Sat. 1, 14-19, 59-62 V.2) e il relativo commento (p. 109 s.), di carattere didattico. Una
traduzione in tedesco basata sull’edizione di Vahlen 1903 è stata compiuta da W. Krenkel
in Römische Satiren. Ennius, Lucilius, Varro, Horaz, Persius, Seneca, Petron, Juvenal, Sul-
picia, übers. von W. Binder u. a., hrsg. W. Krenkel, Berlin / Weimar 1970 = Darmstadt
1983, 3-7 e in Lucilius, Satiren, I, lat./dt. hrsg. von W. Krenkel, Leiden 1970, 14-16.

Studi generali sulle satire enniane


Oltre alla bibliografia sulle opere minori in generale citata sopra, si veda anche:
• [F. H. A.] Petermann, Über die Satire des Ennius. I, in «Programm … des Gymnasiums
zu Hirschberg», Hirschberg 1851, 1-23.
• [F. H. A.] Petermann, Über die Satire des Ennius. II, in «Programm … des Gymna-
siums zu Hirschberg», Hirschberg 1852, 1-8 (non uidi).
• E. M. Pease, The satirical element in Ennius, «TAPhA» 27, 1896, xlviii-l.
• J. Balcells Pinto, Ennio. Estudio sobre la poesia latina arcaica, Barcelona 1914., 120-170
(non uidi).1
• E. Bolisani, Satura ante Lucilium ab Ennio praesertim exculta qualis fuerit, «Atti del
Reale Istituto Veneto» 92.2, 1932-1933, 965-82.
• F. Della Corte, Intorno alle “Saturae” di Ennio, «Atti della Reale Accad. delle Scienze di
Torino» 71, 1935-36, 198-205 [= F. Della Corte, Opuscula, II, Genova 1972, 25-32].
• C. Martin, Étude sur la satura dans la littérature latine archaïque des origines à Pacuvius,
thèse, Univ. libre, Bruxelles 1942 (non uidi)2.

1 Per le informazioni su quest’opera, che non ho potuto vedere direttamente, dipendo da Suerbaum 2003,
40.
2 A proposito di quest’opera – che, seppure segnalata nell’«Année philologique» del 1942, doveva risulta-
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60 Le opere minori di Ennio

• M. Puelma Piwonka, Lucilius und Kallimachos, Frankfurt am Main 1949 ( = New York
- London 1978): 181-193.
• O. Weinreich, Römische Satiren. Ennius, Lucilius, Varro, Horaz, Persius Juvenal, Sene-
ca, Petronius, eingeleitet und übertragen von O. W., Zürich 1949: XXIV-XXX e 3-10.
• S. Mariotti, Titoli di opere enniane, «Maia» 5, 1952, 271-276 (=Mariotti 1991, 113-118).
• L. Deubner, Die Saturae des Ennius und die Jamben des Kallimachos, «RhM» 96, 1953,
289-92 (= Kleine Schriften zur klassischen Altertumskunde, Königstein 1982, 768-771).
• C. A. van Rooy, Quintus Ennius and the founding of a literary genre, in Studies in clas-
sical satire and related literary theory, Leiden 1965, 30-49.
• M. Coffey, Die Saturae des Ennius, «Wiss. Zeitschr. Univ. Rostock» (Ges.-& spra-
chwiss. Reihe) 15, 1966, 417-418.
• J. H. Waszink, Problems concerning the Satura of Ennius, in Ennius Hardt 1972, 99-137.
• E. S. Ramage, Ennius and the origins of Roman satire, in E. S. Ramage - D. L. Sigsbee
- S. C. Fredericks, Roman satirists and their satire. The fine art of criticism in ancient
Rome, Park Ridge (New Jersey) 1974, 8-26.
• V. S. Durov, Ennius en tant qu’écrivain satirique [in russo], «Vestnik Leningradskogo
Universiteta» 2, 1984, 57-62.
• U. Knoche, Die Satiren des Quintus Ennius, in U. K. Die römische Satire, Göttingen
19824, 11-20 (19713 = trad. ingl. Roman Satire, Bloomington - London 1975; 19572 =
trad. it., La satira romana, Brescia 1969, 29-44).
• U. W. Scholz, Die Satura des Q. Ennius, in J. Adamietz (ed.), Die römische Satire, Darm-
stadt 1986, 25-53.
• M. Coffey, Roman satire, Bristol 19892 (19761), 24-32.
• M. Citroni, Musa pedestre, in AA.VV., Lo spazio letterario di Roma antica, I, Roma,
1989, 311-341: 315-322.
• M. Citroni, Satira, epigramma, favola, in AA. VV., La poesia latina. Forme, autori, pro-
blemi, a c. di F. Montanari, Roma 1991, 133-208: 136-145.
• Adele Teresa Cozzoli, Poesia satirica latina e favola esopica (Ennio, Lucilio e Orazio),
«RCCM» 1995, 187-194.
• J. Styka, Fas at antiqua castitudo. Die Ästhetik der römischen Dichtung der republikani-
schen Epoche, Trier 1995, 106-114.
• Luciana Del Vecchio - A. Maria Fiore, Fabula in satura. Osservazioni su alcuni fram-
menti delle Satire di Ennio, «Invigilata lucernis» 20, 1998 [ma 1999], 59-72.
• H. Petersmann, The language of early Roman satire: its function and characteristic, in
Aspects of the language in latin poetry, ed. by J. N. Adams & R. G. Mayer, Oxford 1999,
289-310: 290-296.
• F. Muecke, Rome’s first «satirist»: themes and genre in Ennius and Lucilius, in The Cam-
bridge Companion to Roman Satire, ed. by K. Freundenburg, Cambridge 2005, 33-47.
• K. F., A. Cucchiarelli, A. Barchiesi, Musa pedestra. Storia e interpretazione della satira
in Roma antica, Roma 2007, 37-46 (trad. it. e riadattamento a c. di A. Cucchiarelli).

re introvabile anche a Puelma Piwonka 1949, 181 n. 2 – mi comunica gentilmente Didier Devriese del Départe-
ment des Archives dell’Université libre de Bruxelles: «La thèse – qui est en fait un mémoire – ne figure pas dans
les collections de notre Université, ni à la bibliothèque, ni encore dans les collections personelles des collègues
antiquistes ou latinistes».
004_saturae_49 9-01-2008 12:23 Pagina 61

Saturae - Bibliografia 61

Contributi specifici su singoli frammenti delle Saturae

fr. V
• E. Thewrewk de Ponor, Ennius [Sat. 6-7 Vahlen], «Egyetemes philologiai közlöny»
5, 1881, 481 (non uidi).
• H. D. Jocelyn, Ennius sat. 6-7 Vahlen2, «RFIC» 105, 1977, 131-151.
• A. Russo, Iambic presences in Ennius’ Saturae, in A. Aloni, A. Barchiesi e A. Cavar-
zere (curr.), Iambic ideas. Essays on a poetic tradition from archaic Greece to the late
Roman empire, Boston 2001, 99-115.

fr. IX
• F. Ritschl, Zu Ennius (Sat. p. 158 Vahl.), «RhM» 11, 1857, 612-614 (= Opuscula phi-
lol., III, 1877, 794-795)
• F. Schöll, Zu Ennius und Quintilian, «RhM» 40, 1885, 320-324.

fr. X
• L. M. Kaiser, Wipo and Ennius, sequence and satura, «The Classical Bulletin» (Saint
Louis, Mo., Dep. of Class. Languages at Saint Louis University) 41, 1964, 13-14.

fr. XI
• B. ten Brink, M. Terentii Varronis locus de urbe Roma. Accedunt Q. Ennii apologus
Aesopicus et reliquiae Euhemeri versibus quadratis, Traiecti ad Rhen 1855 (non ui-
di).
• E. Campanile, Ennio ed Esopo, in Studi di poesia latina in onore di A. Traglia, Roma
1979, I, 63 - 68.
• C. W. Müller, Ennius und Äsop, «MH» 33, 1976, 193-218.
• F. Menna, La ricerca dell’adiuvante: sulla favoletta esopica dell’allodola (Enn. sat. 21-
58 Vahl.2; Babr. 88; Avian. 21), «MD» 10-11, 1983, 105-32.

fr. XII
• S. Mariotti, L’inganno fallito (Ennio, Satire, vv. 59 sqq. Vahlen), «REA» 100, 1998,
561-563 (= Mariotti 2000, 65-67).

fr. XIV
• A. Grilli, Ennius podager, «RFIC» 106, 1978, 34-38.
• M. Labate, Le necessità del poeta satirico: fisiopatologia di una scelta letteraria, in Ci-
viltà materiale e letteratura nel mondo antico (Atti del seminario di studio, Macera-
ta 28-29 giugno 1991), Macerata 1992, 55-66.

fr. XV
• H. Jacobson, Ennius sat. 65 V., «Mnem.» s. IV, 55, 2002, 88-89.
004_saturae_49 9-01-2008 12:23 Pagina 62

62 Le opere minori di Ennio

I frammenti attribuiti alle Saturae da editori e altri studiosi


NB: i frammenti vengono indicati secondo l’edizione di Vahlen 1903. Per i frammenti
assenti in Vahlen si indicano gli estremi della fonte
* = frammenti attribuiti dalle fonti a Ennio ma senza indicazione d’opera
** = frammenti senza indicazione d’autore e di opera
! = editori che hanno identificato il III libro delle Saturae con lo Scipio
Editori Stephanus Colonna ! ! ! Vahlen ! Warmington Traglia Courtney Edizione
1564 1585-86 Vahlen Müller Baehrens 1903 Bolisani 1935 1986 1993 presente
Frammenti 1854 1884 1886 1935
* Ann. 16 25
* Ann. 377 483
* Ann. 508 485
* Ann. 509 486
*Ann. 563
*Ann. 564
* Ann. 567 487
* Ann. 628 Inc. 15
(dub.)
*Sc. 370-1 40
* Sc. 423 81 494 III ( Scipio
XI )
Sat . 1 1 1 1 2 456 1 I II Sat. 1 Sat. 1 7 I
Sat . 2 2 2 2 3 457 2 I III Sat. 2 Sat. 2 8 II
Sat . 3-4 3 3 4 458 3-4 II II Sat. 3-4 Sat. 3 9 III
Sat . 5 3 4 4 5-6 459 5 II I Sat. 5 Sat. 4 10 IV
Sat . 6-7 4 5 6-7 7-8 460) 6-7 III Sat. 6-7 Sat. 5 11 V
Sat . 8-9 5 6 9 21-2 474 8-9 III Sat. 8-9 Sat. 6 12 VII
Sat . 10-11 _ * Var. 8 6 7 22-3 16-7 471 10-1 III Sat. 10-11 Sat. 7 13 VI
Sat . 12-13 8 24-5 23-4 477 12-3 IV I Sat. 12-3 Sat. 8 14 VIII
Sat . 14-19 9 26-31 25-30 478 14-9 VI I Sat. 14-19 Sat. 9 15 IX
Sat . 20 pref. fr. III fr. IX 480 20 Lib. Inc. I Sat. s. n. Sat. 10 16 X
(p. 395)
** Sat . 21-56 fr. IV p. 87, fr. 481 21-56 Lib. Inc. Sat. s. n. Sat. 11 17 XI a
VII IIa (p. 388)
Sat . 57-58 7 11 37-8 82-3 481 57-58 Lib. Inc. Sat. 11 17 XI b
II b
Sat . 59-62 10 32-5 84-87 479 59-62 Lib. Inc. Sat. 28-31 Sat. 19 18 XII
III
Sat . 63 8 12 36 20 473 63 III Sat. 22 Sat. 14 19 XIII
*Sat . 64 8 1 488 64 I1 Sat. 21 Sat. 13 20 XIV
*Sat . 65 41 15 482 65 III Sat. 20 Sat. 12 21 XV
*Sat . 66 42 78 492 66 .IV Sat. 24 Sat. 18 22
*Sat . 67-68 43-4 75-6 491 67-68 Lib. Inc. V Sat. 25-6 Sat. 16 26 XVI
*Sat . 69 45 77 490 69 Lib. Inc. Sat. 23 Sat. 15 23 XVII
VI
*Sat . 70 46 70 Lib. Inc. Sat. 27 Sat. 17 24 XVIII
VII
* Inc. 7 88 (dub .) Lib. Inc. X Inc. 14 (dub.)
* Inc. 8 Lib. Inc.
XI
* Inc. 9 79 493 Lib. Inc. Inc. 16 (dub.) 27
VIII
*Inc. 10 80 Lib. Inc. Inc. 17 (dub.) 27
IX
* Inc. 44 Inc. 11 (dub.)
* Inc. 53 p. 88, fr. X Lib. Inc. Inc. 11 (dub.)
XII
3
** Cic. de or. II 276 Lib. Inc.
XIII
* Hor. epist . 1, 19, 7 489
* Symm. ep. I 21 484

3 Questo brano ciceroniano è stato trasposto in settenari trocaici da O. Skutsch, «Maia» 42, 1990, 25.
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Frammenti attribuiti alle Saturae da editori e altri studiosi 63

Altre proposte di attribuzione alle S a t u ra e enniane non accolte nelle edizioni:

Ann. 609 e 610 V.2: J. D. Bishop, Comic tmesis in Ennius, «Class. World» 50, 1957, 148-
150. || Sc. 12 V.2: dub. Timpanaro 1948, 6 ss. (che, in alternativa, ne propone più generi-
camente l’attribuzione a una delle opere minori «senza voler precisare ulteriormente»). ||
Sc. 422 V.2: dub. Ribbeck in apparato a Enn. tr. 400 R.3 || Var. 15-16 e 17-18 V.2: l’attribu-
zione di questi epigrammi alle Saturae enniane è stata proposta da O. Jahn, «Hermes» 2,
1867, 242-243; analoga ipotesi è avanzata con cautela da G. Pasquali, Orazio lirico, Firen-
ze 1920, 323 s. a proposito di Var. 17 s. V.2. || Cic. Tusc. 4, 48: Zillinger 1911, 87 (cfr. sot-
to, comm. a Sat. IV). || Hyg. fab. 200: si tratta di una favola che F. Bücheler («RhM» 41,
1886, 5) traspone in settenari trocaici e attribuisce alle saturae enniane. || Cic. Ac. 2, 51:
Skutsch 1905, 2591, rr. 10 ss. ritiene che l’episodio qui narrato da Cicerone (una passeg-
giata di Ennio in compagnia di Servio Sulpicio Galba) sia stato narrato da Ennio stesso
nelle Saturae. || F. Stoessl, Die frühesten Choliamben der lateinischen Literatur, in Latin
script and letters A. D. 400-900 (Festschrift ... L. Bieler), hgg. J. J. O’ Meara - B. Naumann,
Leiden 1976, 21-24, ipotizza che Ennio nelle Saturae abbia introdotto per primo i coliam-
bi nella letteratura latina.
004_saturae_49 9-01-2008 12:23 Pagina 64
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SATURAE

Introduzione

La tradizione indiretta attribuisce esplicitamente alle saturae di Ennio 10 fram-


menti, per un totale di 14 versi interi e 4 incompleti; in ordine decrescente di con-
sistenza i frammenti sono i seguenti:
• uno, il più ampio, è costituito da 4 versi (Sat. XII);
• due frammenti sono costituiti da due versi interi (Sat. V e XIb);
• tre frammenti da un verso intero seguito o preceduto da un verso incompleto
(Sat. III, VI, VII);
• 3 frammenti da un solo verso completo (Sat. I, IV, XII);
• un frammento da un verso incompleto (Sat. II).
A queste citazioni testuali si deve aggiungere una testimonianza sul contenuto
di una satira (Sat. X).

Oltre a questa documentazione di attribuzione sicura, abbiamo anche:


• un frammento (Sat. IX) per lungo tempo attribuito alle saturae enniane sulla
base di un testo della fonte (Donato ad Ter. Ph. 339) ritenuto di origine con-
getturale (sed e sexto satyrarum Ennii), e che solo in epoca relativamente re-
cente (con Reeve 1979) si è scoperto trovare riscontri (seppure non del tutto
espliciti) anche nella tradizione manoscritta;
• infine, un altro frammento (Sat. VIII) attribuito alle satire enniane solo grazie
a una correzione congetturale, non sicura ma probabile, della tradizione ma-
noscritta della fonte (Macr. Sat. 6, 5, 5: Ennius in libro satirarum [Colonna
1585-86: Sabinarum cdd.] quarto).
La testimonianza e le citazioni dalle saturae enniane di attribuzione sicura si de-
vono complessivamente a 4 fonti, la più antica delle quali è l’Institutio oratoria di
Quintiliano (cfr. 9, 2, 36 dove si trova la testimonianza di Sat. X) e risale dunque
alla fine del I sec. d.C.; in seguito 3 frammenti dalle saturae enniane vengono ci-
tati da Aulo Gellio nelle Noctes Atticae, che risalgono alla metà del II sec. d.C., e
7 frammenti da Nonio Marcello, di cronologia incerta ma sicuramente successivo
a Gellio e anteriore a Prisciano1; un solo frammento viene infine citato nel cosid-
detto Servio Danielino2.

1 Sulla datazione di Nonio cfr. ora P. Gatti, Introduzione a Nonio in Prolegomena Noniana III, Genova

2004, 5-20: 5-7, che ritiene non infondata l’ipotesi, recentemente avanzata da Deufert, «di collocare Nonio a ca-
vallo tra il IV e il V secolo».
2 La datazione è assai incerta anche per la natura compilatoria dell’opera: le uniche datazioni proposte
005_saturae introduzione65 9-01-2008 12:24 Pagina 66

66 Le opere minori di Ennio

Riferimenti alle Saturae enniane si trovano – o, in alcuni casi, si è ritenuto, non


sempre a ragione, di poter trovare – anche in altre testimonianze, le più antiche
delle quali, secondo alcune interpretazioni, anche tardo antiche, sarebbero da rin-
tracciare in due passi di Hor. sat. 1, 10, databile al 35 a.C.3.
Il primo di questi passi è Hor. sat. 1, 10, 46 ss. (Sat. Test. VI):
Hoc [genus saturae] erat, experto frustra Varrone Atacino
atque quibusdam aliis melius quod scribere possem,
inuentore minor; neque ego illi detrahere ausim
haerentem capiti multa cum laude coronam.
At dixi fluere hunc lutulentum...
Qui Orazio viene a parlare della satira (a cui si riferisce hoc al v. 46), rispetto al
cui iniziatore egli si proclama inferiore (cfr. v. 48: inuentore minor) e al quale di-
chiara di non avere l’ardire di togliere la corona che, appunto per il suo ricono-
sciuto primato in questo genere letterario, gli cinge il capo con tanto onore (v. 48
s.: neque ego illi detrahere ausim / haerentem capiti multa cum laude coronam).
Lejay 1911, 274 nel comm. ad loc., ha richiamato l’attenzione sul fatto che al v. 50
(At dixi fluere hunc lutulentum), con il pronome hunc Orazio designa sicuramen-
te Lucilio4: secondo Lejay, dunque, non si potrebbe identificare Lucilio con l’i-
nuentor di cui si parla al v. 48, perché quest’ultimo è richiamato, sempre nello stes-
so verso, con il pronome illi. Per Lejay, quindi, con inuentor qui Orazio si riferi-
rebbe a Ennio in quanto iniziatore del genere satirico. Questa ipotesi tuttavia è ri-
masta isolata e appare in effetti da respingere per due ragioni complementari: in-
nanzitutto è stato dimostrato che le deduzioni che Lejay trae dall’uso dei prono-
mi illi e hunc nel nostro passo non sono cogenti, perché anche altrove hic e ille,
pur ricorrendo a breve distanza, hanno lo stesso referente5; in secondo luogo,
Orazio mostra di ritenere fondatore del genere satirico non Ennio, ma Lucilio (cfr.
in part. sat. 2, 1, 62 s. est Lucilius ausus / primus in hunc operis componere carmi-
na morem) e a quest’ultimo andrà dunque riferito anche l’inuentor della satira ro-
mana di cui ci parla qui Orazio6.
Sempre all’interno dei versi oraziani citati sopra è stato individuato un altro

oscillano tra il V e il VII sec.: cfr. A. Pellizzari, Servio. Storia, cultura e istituzioni nell’opera di un grammatico tar-
do antico, s. l. 2003, 14 s.
3 La satira 1, 10 di Orazio viene ritenuta l’ultima, oltre che per collocazione, anche per composizione ri-

spetto alle altre del primo libro (cfr. ad es. G. D’Anna in Enc. Or. s. v. ‘Questioni cronologiche’, I (1996), 263a),
libro che si ritiene «terminato e pubblicato nel 35 o 34» (G. D’Anna, cit., 259b).
4 Con At dixi fluere hunc lutulentum Orazio si riferisce chiaramente a quanto da lui affermato in sat. 1, 4,

11: cum [Lucilius] flueret lutulentus.


5 Cfr. Rudd 1960, 37 e G. D’Anna, Due note oraziane di lettura in Studi ... Traglia, Roma 1979, II 525-552:

525-537.
6 Così interpretava anche il commentatore tardo-antico Porfirione (ad Hor. sat. 1, 10, 46 ss.: <s>e ide<m>

scribere ait [scil. Horatius] ita, ut aliis maior sit, Lucilio minor. Quem inuentorem huius operis merito dixit, quia
primus Lucilius huius modi carmina scripsit.
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Saturae - Introduzione 67

riferimento alle saturae di Ennio, e questa ipotesi non si deve a uno studioso
moderno, ma al commentatore tardo antico Porfirione (III sec. d.C.): secondo
questa fonte (cfr. Sat. Test. II), infatti, sarebbero da identificare con Ennio (non-
ché con Pacuvio) i quibusdam aliis che, assieme a Varrone Atacino, vengono men-
zionati al v. 45 s. come scrittori di satire a cui Orazio si sentirebbe superiore (ex-
perto frustra Varrone Atacino / atque quibusdam aliis melius quod scribere possem)
Questa interpretazione – che offre a Porfirione lo spunto per offrirci una prezio-
sa seppur problematica indicazione sul numero di libri che componevano le satu-
rae enniane (cfr. sotto) – è stata in genere respinta dagli studiosi sempre sulla ba-
se della considerazione che Orazio nei nostri versi sembra prendere in considera-
zione solo la storia della satira a partire da Lucilio – presentato, come si è visto,
come l’inuentor del genere – e non le fasi precedenti: risulta quindi più verosimi-
le che Orazio con quibusdam aliis si riferisca ad autori di satire a lui contempora-
nei7, o di poco anteriori, come appunto Varrone Atacino (82-37/36 a.C.8); si con-
sideri inoltre che anche per gli altri generi letterari discussi prima all’interno del-
la stessa satira, Orazio fa riferimento solo ad autori recenti; e probabilmente pro-
prio in quanto tali, e perché nel nostro caso il giudizio sulla loro produzione sati-
rica è negativo, essi non vengono qui menzionati per nome.
Molto più controverso è l’altro passo, all’interno della stessa satira oraziana, in
cui si è ritenuto di poter trovare un riferimento alle saturae enniane (Hor. sat. 1,
10, 64 ss.: Sat. Test. V):
Fuerit limatior idem [=Lucilius]
quam rudis et Graecis intacti carminis auctor
quamque poetarum seniorum turba
Il senso complessivo di questa frase risulta abbastanza chiaro: Orazio è dispo-
sto a riconoscere che Lucilio (idem) è stato stilisticamente più accurato (limatior)
rispetto al fondatore (auctor) di un genere letterario non praticato dai Greci
(Graecis intacti carminis) e rispetto alla folla dei poeti arcaici (quamque poetarum
seniorum turba). L’espressione rudis et Graecis intacti carminis auctor è invece as-
sai problematica ed è stata oggetto di infinite discussioni e interpretazioni9, nes-
suna delle quali risulta a mio avviso del tutto convincente10. Molte di esse parto-
no dal presupposto che rudis et Graecis intacti carminis sia una perifrasi per desi-
gnare la satira, e certo tale espressione ricorda molto da vicino quanto, a proposi-

7 Fra questi, si è pensato a Sevio Nicanore, Lucio Abuccio, Pompeo Leneo.


8 Per la datazione cfr. ad es. F. Bellandi, in Enc. or. s. v. ‘Varrone Atacino’ I (1996), 929b s.
9 Una accurata dossografia in Rudd 1960, 36-44. Bibliografia più recente avremo occasione di citare più
avanti.
10 A. Cartault, Étude sur le satires d’Horace, Paris 1899, arrivò persino a correggere congetturalmente il te-

sto proponendo e Graecis inlati in luogo di et Graecis intacti, e intendendo e Graecis inlati carminis come espres-
sione riferita all’esametro e quindi rudis e Graecis inlati carminis auctor come perifrasi per indicare Ennio in
quanto autore che per primo introdusse l’esametro nella letteratura latina.
005_saturae introduzione65 9-01-2008 12:24 Pagina 68

68 Le opere minori di Ennio

to dello stesso genere letterario, viene affermato da Quintiliano in inst. 10, 1, 93


(satura quidem tota nostra est): anche in quest’ultimo caso, infatti, sembra che ven-
ga sottolineata l’origine esclusivamente romana, priva di modelli greci, della sati-
ra. Gli studiosi che concordano su questo presupposto si dividono però nell’indi-
viduazione del rudis et Graecis intacti carminis auctor. A Ennio, in quanto autore
di satire, hanno pensano in molti11 e contro tale ipotesi credo che abbia poco pe-
so l’obiezione che essa imporrebbe di negare che sulle saturae enniane vi sia stato
quell’influsso della letteratura greca che invece si può rintracciare nei frammenti
a noi pervenuti12; ritengo invece un’obiezione più consistente ricordare ancora
una volta che per Orazio l’iniziatore della poesia satirica è Lucilio13; anche con
quest’ultimo, d’altro canto, è difficile identificare il rudis et Graecis intacti carmi-
nis auctor, come pure si è pensato14, perché in questo caso è lo stesso Orazio, in
un passo famoso (sat. 1, 4, 1 ss.) a istituire uno stretto legame tra la satira di Lu-
cilio e la letteratura greca15; e più inverosimile che mai è identificare l’auctor con
Nevio16, a cui appare improbabile attribuire la composizione di saturae, nono-
stante anche di recente si sia sostenuto il contrario (cfr. sotto).
Vista la difficoltà di identificare l’auctor di cui parla Orazio con un autore di
poesia satirica, continua dunque ad apparire l’ipotesi meno improbabile che l’e-
spressione rudis et Graecis intacti carminis, nonostante la sua consonanza con il
passo di Quintiliano sopra menzionato, non indichi la satira né un genere lettera-
rio particolare, e che con le parole rudis et Graecis intacti carminis auctor Orazio
non si sia riferito ad un autore determinato, ma abbia solo inteso affermare che

11 Qui mi limito a segnalare Vahlen 1854, LXXXIII (che ribadirà la sua interpretazione anche in Vahlen

1903, CCXV, n. *), Müller 1884, 107 (erroneamente Waszink 1972, 123 attribuisce a Müller l’ipotesi che l’auc-
tor sia Lucilio); F. Marx, ed. Lucilio, I (1904), XIII; Büchner 1950, 242 s.; van Rooy 1965, 31 s. e 45 n. 6; Scholz
1986, 30; ulteriori riferimenti bibliografici in Rudd 1960, 40 e n. 7.
12 Così Waszink 1972, 123.
13 La controobiezione di Leejay 1911 (ripresa da Büchner 1950, 243) per cui qui Orazio introdurrrebbe una

distinzione tra l’auctor della satira (Ennio) e il suo inuentor (Lucilio), mi sembra basata su una distinzione trop-
po sottile.
14 Ai riferimenti bibliografici in Rudd 1960, 40 s. si possono aggiungere P. Rasi, Di Lucilio “rudis et Graecis

intacti carminis auctor”, «RFIC» 31, 1903, 121-125 e la discussione molto impegnata, seppure a mio avviso non
persuasiva, di Pasoli 1964a, 465-467.
15 A un tentativo di conciliare questa testimonianza con l’identificazione del rudis et Graecis intacti carmi-

nis auctor con Lucilio sembra aver pensato Porfirione, che nella nota ad loc. osserva: hoc ideo dictum, quia nulli
Graecorum exametris uersibus hoc genus operis scripserunt: dunque Orazio mettere in rilievo che nella letteratu-
ra greca non esisteva una satira in esametri come quella luciliana. Dopo Rudd, il riferimento di auctor a Lucilio
è stato riproposto anche da W. Barr, Horace Sermones, I. X. 64-67, «RhM» 113, 1970, 204-211, che in rudis et
Graecis intacti carminis auctor propone di intendere rudis come nominativo da riferire ad auctor (e non, secon-
do la vulgata, come genitivo riferito a carminis): secondo questa ipotesi Orazio farebbe a Lucilio due concessio-
ni, e non una come si intende di solito: non solo Lucilio è stato 1) un iniziatore di un genere letterario non pra-
ticato dai Greci, ma anche 2) più raffinato che rozzo (limatior quam rudis sarebbe secondo Barr equivalente a li-
matior quam rudior). Ma questa ipotesi non convince non solo perché presuppone – inverosimilmente, come si
è detto sopra nel testo – che per Orazio Lucilio non avrebbe avuto precedenti greci, ma anche perché introdu-
ce una sintassi molto stentata e poco documentabile, come d’altro canto riconosce lo stesso Barr, p. 208.
16 Così, con un «fortasse», Weinreich 1949, XXVI.
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Saturae - Introduzione 69

Lucilio, per quanto stilisticamente difettoso, è comunque più curato di un ipote-


tico autore che per la sua opera letteraria non abbia potuto contare su modelli
greci17.

Secondo un’ipotesi molto diffusa, anche la testimonianza sulle satire enniane


conservataci da Diomede nella sua Ars grammatica (DIOM. GL 1, 485, 30-34 Keil:
Sat. Test. III) dovrebbe essere considerata all’incirca contemporanea alla satira
oraziana dove si trovavano i versi discussi sopra: infatti, nonostante l’Ars gram-
matica di Diomede sia stata pubblicata nel 370-380 d.C.18, la testimonianza sulle
satire enniane lì contenuta si trova all’interno di un excursus De poematibus (GL
I 482, 13-492, 14 Keil)19, che spesso si fa risalire – nella sua interezza – al De poe-
matis di Varrone, opera databile sicuramente prima del 27 a.C., anno di morte del
suo autore, e probabilmente dopo il 47 a.C.20: tale dipendenza è stata presuppo-
sta da vari studiosi, anche recenti, che in alcuni casi sono giunti ad utilizzare la te-
stimonianza di Diomede come se essa riproducesse testualmente le parole di Var-
rone21. Ma si osservi, innanzitutto, che è stato giustamente riconosciuto che tale
dipendenza, tranne in un punto singolo che menziono qui in nota e che comun-
que non riguarda specificamente le satire enniane (cfr. n. 23), resta per noi una pu-
ra ipotesi22: chi, come Pasoli 1964b, 23, ha tentato di argomentarla, ha anzi forni-
to due indizi ben poco probanti23; in secondo luogo, anche ammessa una dipen-

17 Così, dopo numerosi studiosi a partire da K. Nipperdey, Opuscula, Berolini 1877, 508, anche Rudd 1960

con ulteriori, sottili precisazioni e, più di recente, A. Ronconi, Orazio e i poeti latini arcaici, in Studi ... Traglia,
Roma 1979, II 501-524 (poi in A. Ronconi, Da Omero a Dante, Urbino 1981): 521 s. A conferma del fatto che il
passo oraziano resta di interpretazione comunque problematica segnalo il fatto che in Enc. or. l’auctor viene iden-
tificato con Ennio nella voce ‘arcaici’, (II [1997], 12b), e con Lucilio poche pagine prima, nella voce ‘antecedenti
e modelli letterari latini’ (5a-11b).
18 Cfr. HLL 5 (1989), 134.
19 Seguo qui anch’io l’uso, comunemente invalso, di citare l’excursus de poematibus secondo l’edizione dei

GL di Keil, il cui primo volume contenente l’Ars di Diomede è del 1857; ma l’edizione critica più recente del-
l’excursus è del 1899 e si deve a F. Leo (cfr. Leo 1899); sull’edizione di Reifferscheid del 1860 cfr. sotto.
20 Cfr. F. Sbordone, Sul de poematis di Varrone, in Atti del congr. intern. di st. varroniani, Rieti 1976, II 515.
21 Anche questo presupposto, come vedremo, è utilizzato da Waszink 1972, 104 s. per sostenere che il tito-

lo dell’opera enniana fosse satura al singolare, e non saturae; è significativo inoltre che van Rooy 1965 in più luo-
ghi (ad es. 45 n. 5), indichi l’autore della testimonianza con l’espressione «Varro - Diomedes». Ma le citazioni si
potrebbero facilmente moltiplicare.
22 Questo di fatto mi pare riconosciuto, in sostanza, anche in HLL V (1989), 134 dove, a proposito delle

fonti dell’excursus, si afferma: «Allgemein anerkannte Resultate fehlen: Die weitere Diskussion sollte sich indes
energischer auf den unseres Wissens nach einzigen Traktat der römischen Antike einstellen, der diesen Komplex
in extenso behandelt hat, nämlich Varros De poëmatis».
23 Il primo sarebbe dato dal fatto che Diomede, subito dopo aver parlato della satura enniana, presenta una

delle 4 spiegazioni alterative dell’origine della parola satura riferendosi esplicitamente a un passo delle Plautinae
Quaestiones di Varrone (Diom. GL 486, 7 ss. K.); ma questo argomento potrebbe essere usato per sostenere la
tesi opposta: che non risale a Varrone tutto ciò che Diomede non attribuisce esplicitamente a lui; in secondo luo-
go, per Pasoli «un’altra considerazione che può apparire decisiva per riconoscere Varrone quale fonte di Dio-
mede» sarebbe la coincidenza tra l’espressione con cui Diomede designa la satira di tipo luciliano (carmen [...]
archaeae comoediae charactere compositum) e quella con cui Varrone (r. r. 3, 2, 17) qualifica l’opera poetica di un
certo Lucius Abuccius (Luciliano charactere libelli): ma character (come già carakthvr) è un termine tecnico
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70 Le opere minori di Ennio

denza di Diomede da Varrone, noi non siamo in grado di determinare ciò che ri-
sale direttamente a Varrone e quanto invece debba essere attribuito a rielabora-
zioni successive, che pure vi sono state sicuramente, come dimostra il fatto che
proprio all’interno della sua trattazione sulla satira Diomede menziona Persio, na-
to più di mezzo secolo dopo la morte di Varrone24; è stato d’altro canto osserva-
to, in generale, che Diomede è un «un autore che si compiace in modo particola-
re di integrare ed intersecare le sue fonti secondo una tecnica “a mosaico”»25.
In questa situazione ritengo quindi che la testimonianza di Diomede sulle sati-
re di Ennio debba essere considerata in quanto tale, e che non siano sufficiente-
mente fondate eventuali deduzioni tratte da una sua presunta derivazione da Var-
rone.
In base a quanto abbiamo visto finora, la più antica testimonianza sulle satire
enniane deve essere dunque considerata quella che si ricava con molta probabilità
da un famoso passo di Quintiliano dedicato alla satira romana (inst. 10, 1, 93 ss.:
Sat. Test. I) e risale quindi alla fine del I sec. d.C. In tale testimonianza, come è
noto, Quintiliano affianca a un filone “luciliano” della satira, anche un filone cro-
nologicamente anteriore (alterum […] etiam prius [cdd.: varie temptatum] satu-
rae genus, sed non sola carminum varietate mixtum che condidit Terentius Varro).
Per la verità neppure Quintiliano, come si vede, menziona mai il nome di Ennio:
tuttavia è pressoché sicuro che anche alle sue satire si riferisca quell’alterum …
etiam prius saturae genus. In questo genere Quintiliano fa rientrare le Menippee
di Varrone che però Quintiliano presenta come un’ulteriore innovazione perché
non sola carminum varietate mixtum (il riferimento è ovviamente all’alternarsi di
brani in poesia e prosa, tratto caratteristico e ancor oggi verificabile delle satire
menippee): dunque per Quintiliano la carattteristica originaria della satira ante-
riore a Lucilio era la varietas carminum. La distinzione di Quintiliano tra due ge-
neri di satira trova riscontro anche nella testimonianza di Diomede (GL 1, 485, 36
ss. K.): anche qui si individua un filone che va da Lucilio a Orazio e Persio, e che
è contraddistinto da un tono aggressivo e mordace, e un filone che, come il prius
saturae genus di Quintiliano, ex variis poematibus constabat; ma al contrario di
Quintiliano, Diomede indica esplicitamente come rappresentanti di questo filone
Pacuvius et Ennius. Il fatto che anche Quintiliano si riferisca a questi autori senza
menzionarli esplicitamente si può facilmente spiegare: Quintiliano inserisce le sue
considerazioni sul genere satirico non in un trattato di storia letteraria, ma all’in-
terno di un excursus sulle opere la cui lettura può essere utile alla formazione del-

grammaticale per indicare lo stile di un’opera: cfr. Th. l. L. III (1909), 909, 18 ss. da cui risulta in particolare l’u-
so assai frequente nei grammatici e scoliasti tardo-antichi (7 ess. in Porfirione).
24 Proprio sulla base di questo indizio, e del fatto che Diomede tra i poeti satirici non menziona Giovena-

le, O. Jahn («RhM» 9, 1854, 629 s.) aveva invece ritenuto che la fonte fosse il De poetis di Svetonio: è sulla base
di questa ipotesi che un allievo di Jahn, A. Reifferscheid, ha accolto il De poematibus di Diomede all’interno del-
la sua edizione del De poetis di Svetonio (Reifferscheid 1860, 4,11-22,2).
25 De Nonno 1990, 642.
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Saturae - Introduzione 71

l’oratore (cfr. Quint. inst. 10, 1, 44 interim summatim, quid et a qua lectione pete-
re possint, qui confirmare facultatem dicendi ualent, attingam e poco più avanti
Quintiliano aggiunge di avere intenzione di limitarsi a una selezione molto severa
(45): paucos (sunt enim eminentissimi) excerpere in animo est). L’omissione quin-
di – almeno per Ennio – si può attribuire ad una consapevole scelta da parte di
Quintiliano, che evidentemente non riteneva l’opera enniana adatta ai propri in-
tenti retorici. Che questa omissione sia volontaria è garantito dal fatto che Quin-
tiliano conosceva le satire enniane, visto che egli stesso, come si è visto, le cita in
altra occasione (inst. 9, 2, 36).
Cronologicamente successive a quella di Quintiliano sono due testimonianze
tramandate da Porfirione (Sat. Test. II e III), il già menzionato commentatore tar-
do antico (inizi del III sec. d.C.)26 a Orazio. Della prima (Sat. Test. II) abbiamo già
avuto modo di occuparci sopra perché in essa Porfirione menziona le satire ennia-
ne postulando, probabilmente a torto, un riferimento a tale opera in un passo di
Orazio (sat. 1, 10, 46 ss.). Tuttavia, la testimonianza di Porfirione, se considerata in
sé, è assai preziosa perché è l’unica a fornirci la notizia sul numero complessivo di
libri (4, secondo il testo tradito) che componevano le satire enniane, anche se, co-
me vedremo, questo dato apre nuovi problemi difficilmente risolvibili.
Nell’altra testimonianza (Sat. Test. III) Porfirione menziona le satire enniane in
commento a Hor. epist. 1, 3, 1 s. [Iuli Flore, quibus terrarum militet oris / Claudius
Augusti priuignus, scire laboro] e in particolare al Giulio Floro lì menzionato. Jo-
celyn 1972, 1022 n. 360, unico tra gli studiosi a me noti, riporta tale testimonian-
za secondo questo testo:
Florus ... saturarum scriptor, cuius sunt †electae† ex Ennio Lucilio Varrone saturae

e afferma che esso «is too obscure to aid discussion», senza tuttavia indicare le ra-
gioni di questo giudizio, né del segno di corruttela apposto ad electae. Eppure la
testimonianza di Porfirione secondo il testo tradito a me sembra del tutto accet-
tabile perché presenta un giro di frase analogo a quello che si trova, ad es., in Cic.
Brut. 169 T. Betutius Asculanus, cuius sunt aliquot orationes Asculi habitae; Cic.
Luc. 143 Xenocraten sequitur, cuius libri sunt de ratione loquendi multi et multum
probati; Ascon. Cic. in Pis., p. 14, r. 23 Philodemum significat, qui fuit Epicureus
illa aetate nobilissimus, cuius et poemata sunt lasciua; Gell. 16, 12, 6 quempiam
grammaticum, cuius libri sane nobiles sunt super his; anche in questi passi viene in-
trodotta con cuius sunt la menzione di un’opera letteraria qualificata con un ag-
gettivo o, come nel nostro caso, con un participio, electae. Né crea difficoltà il fat-
to che, nei paralleli citati, l’antecedente di cuius è l’autore dell’opera lì menziona-
ta, mentre nel nostro passo è Floro: anche quest’ultimo, in quanto curatore di una
antologia, svolge una funzione analoga a quella di un autore. E, in ogni caso, an-

26 Per la datazione cfr. ad es. S. Borzsák s. v. ‘Esegesi antica’ in Enc. or. III (1998), 17b-23b: 21a.
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72 Le opere minori di Ennio

che ammesso che in electae si annidi una corruttela, a me il significato complessi-


vo della testimonianza di Porfirione sembra chiaro: Giulio Floro, oltre che scrit-
tore di satire in proprio, fu autore di un’antologia di satire tratte dall’opera di En-
nio, Lucilio e Varrone.
Per le ragioni indicate sopra, la testimonianza più tarda sulle satire enniane de-
ve essere considerata quella di Diomede (Sat. Test. IV), databile al 370-380 d.C.
Tale testimonianza ha avuto in parte una sorta di tradizione indiretta, priva co-
munque di varianti di rilievo, perché essa si ritrova anche:
• all’interno della tradizione manoscritta di Porfirione (ad Hor. epist. 1, 11, 12)
dove, sotto il titolo De satura si riporta, con alcune omissioni e variazioni,
Diom. GL 1, 485,30-486,13 K. (da Satura dicitur a comprehendutur [com-
prehendantur cdd. Porph.]);
• nel cod. Bern. 665 degli scoli a Persio: tale testimonianza è stata segnalata ed
edita per la prima (e, a quanto mi consta, unica) volta da Reifferscheid 1860, 20
(in apparato al r. 3) sulla base della collazione fornitagli da Jahn; in essa com-
paiono, mescolati ad altre testimonianze sulla satira romana, anche passi che
coincidono testualmente con quella di Diomede, tra i quali anche il brano do-
ve si parla delle saturae enniane: qui tuttavia, in luogo di Ennius, nel testo del
cod. Bern. si trova la lezione, chiaramente erronea, emilius.
• Oltre che in questi manoscritti, riprese quasi testuali dalla trattazione di Dio-
mede sulla satira si troverebbero, sempre stando a Reifferscheid (che probabil-
mente dipendeva anche in questo caso da notizie fornitegli da Jahn), in non me-
glio precisati codici di Orazio, che probabilmente devono essere identificati
con quelli che ci tramandato il commento di Porfirione, e Giovenale, che non
mi risulta siano stati tuttora individuati. (cfr. Reifferscheid 1860, 371 «eadem
fere [cioè le affermazioni di Diomede riguardo alla satira] in libris Persi (cf. 20,
3 adnot.) Horati Iuvenalis – ne in his quidem Iuvenalis nomen teste Iahnio ad-
ditur – extant»27; tuttavia, come si vede, solo per la notizia che il passo di Dio-
mede si ritrova nei codici di Persio Reifferscheid fornisce un rinvio al già men-
zionato passo di p. 20, dove si cita il cod. Bern. 665; né a p. 20, né a p. 371 Reif-
ferscheid fornisce invece indicazioni precise sui codici di Orazio e Giovenale,
che a p. 371 Reifferscheid mostra conoscere solo grazie alle indicazioni fornite
da Jahn già in «RhM» 9, 1854, 629: «diese Notiz und manche von den daran
sich anschliessenden findet sich mehr oder minder genau wiedergegeben in ei-
ner Einleitung über die Satire, welche in vielen Handschriften des Persius und
Juvenal in ähnlicher Weise wiederholt ist. Sehr auffallend ist es, dass in der
Reihe der satirischen Dichter Juvenal fehlt». Rispetto a quanto affermato da
Reifferscheid, in questo passo Jahn parla della presenza del passo di Diomede

27 Da questo passo di Reifferscheid dipende dichiaratamente W. Meyer, ed. di Porfirione, 1874, 279 (in app.

a Porph. ad Hor. epist. 1, 11, 12).


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Saturae - Introduzione 73

solo nei codici di Persio e Giovenale (anche in questo caso non meglio preci-
sati), e non in quelli di Orazio.
Su alcuni punti problematici di questa testimonianza, alla quale a mio avviso in
molti studi sulle satire enniane si è data eccessiva importanza, ci soffermeremo più
avanti; qui mi limito a indicare alcuni elementi che possono essere stabiliti con
sufficiente sicurezza. Abbiamo già visto sopra che in essa Diomede, come Quinti-
liano, individua due filoni all’interno della satira romana: quello più recente di Lu-
cilio, Orazio e Persio, caratterizzato da attacchi censori analoghi a quelli della
commedia greca arcaica; e quello, di epoca precedente, praticato da Ennio e Pa-
cuvio e che, dice Diomede, era costituto ex uariis poematibus. Tale espressione, a
ben guardare, si presta a una duplice interpretazione: essa infatti può essere rife-
rita alla varietà o 1) del contenuto o 2) della forma metrica che caratterizzava i poe-
mata della satira enniana e pacuviana. Se ci si limita a considerare il contesto in
cui appaiono, le parole uaria poemata sembrano da riferirsi esclusivamente alla va-
rietà del contenuto: è infatti solo sulla base di quest’ultimo che, come si è visto,
Diomede caratterizza l’altro filone di satira, quello luciliano. Tuttavia l’espressio-
ne uaria poemata trova una consonanza molto stretta con il passo di Quintiliano
visto sopra (Sat. Test. I: Alterum illud etiam prius saturae genus, sed non sola car-
minum uarietate mixtum), da cui si ricava che la satira anteriore a Lucilio era con-
trassegnata da una uarietas carminum, espressione che in questo caso non può es-
sere che riferita alla varietà della forma metrica: per questa ragione è più proba-
bile che a quest’ultima si riferisca anche Diomede con le parole uaria poemata.

Dall’insieme dei frammenti e delle testimonianze ora passate in rassegna, rica-


viamo i seguenti dati sicuri sulle satire di Ennio:
• in esse erano usati almeno 3 tipi di metro diverso: senari giambici (Sat. I, V, VII,
XIII); settenari trocaici (Sat. IV, XIb); esametri (Sat. III, VIII); non del tutto si-
cura è la presenza di sotadei in Sat. XII (frammento per il quale tuttavia non è
possibile indicare una scansione alternativa) e di settenari trocaici in Sat. VIII;
la varietà metrica che caratterizzava le satire enniane trova conferma, come si è
visto, anche nelle testimonianze di Quintiliano (Sat. Test. I) e di Diomede (Sat.
Test. IV); è documentato con sicurezza inoltre che metri diversi erano usati al-
l’interno dello stesso libro: nel II esametri e settenari; nel III senari ed esame-
tri; non abbiamo però alcun indizio consistente per sostenere, con Della Corte
1936, 30 e Jocelyn 1972, 1025, che le satire enniane fossero costituite da poesie
dove, all’interno di ogni singolo componimento, si alternavano, senza soluzio-
ne di continuità, versi in metri diversi;
• per quanto riguarda il contenuto, è sicuro che nelle saturae di Ennio veniva rac-
contata, come ci testimonia Quintiliano (9, 2, 36) una contesa tra la Vita e la
Morte personificate (Sat. X) e si trovava, come ci documenta Gellio (2, 29, 20),
una narrazione per esteso, in settenari trocaici, di una favola esopica, di cui
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74 Le opere minori di Ennio

Gellio fornisce anche un’ampia parafrasi forse ricalcata direttamente sul testo
enniano (Sat. XI).
• le satire enniane, assieme a satire di Lucilio e Varrone, vennero antologizzate da
Giulio Floro (cfr. Sat. Test. I) negli ultimi decenni del I sec. a.C.28.
Fra le numerose questioni ampiamente dibattute e tuttora aperte, una riguarda
il rapporto tra le saturae e le altre operette enniane. A partire da un articolo di
Lersch del 1837, e poi per lungo tempo nelle edizioni enniane a cominciare dalla
prima del Vahlen (1854), si è ritenuto che il III libro delle Saturae coincidesse con
un’opera enniana che altri fonti citano con il titolo Scipio. Il processo di identifi-
cazione delle operette minori con le satire arriva al suo punto estremo con L. Mül-
ler secondo il quale facevano parte delle saturae, oltre allo Scipio, anche l’Ambra-
cia, l’Epicarmus, l’Euhemerus, il Protrepticus, gli Hedupagetica, il Sota e gli epi-
grammi29: è sulla base di questo assunto che i frammenti di tali opere sono stati
raccolti sotto il titolo complessivo di saturae non solo nella edizione dello stesso
Müller (1884), ma anche di Baehrens 1886 e di Bolisani 193530.
Tuttavia lo stesso Müller riconosce che l’appartenenza alle saturae delle opere
sopra menzionate non è documentata da nessuna fonte antica. A favore di tale
ipotesi possono essere addotti alcuni indizi di cui curiosamente Müller ricorda so-
lo il primo e, in parte, il secondo, mentre gli altri sono segnalati da Skutsch 1905,
2598, che pure non credeva all’identità tra opere minori e Saturae:
• epigrammi si trovavano anche nel libro XXII delle satire di Lucilio;
• il contenuto degli Hedupagetica trova strette affinità non solo, come ricordava
Müller, con il titolo e l’argomento di una satira menippea di Varrone (la Peri;
ejdesmavtwn), ma anche con il tema di una satira di Orazio (sat. 2, 4) e con un
frammento delle satire di Lucilio (1235 ss. M.)31;
• abbiamo notizia di almeno un caso sicuro in cui un libro delle satire di Lucilio,
il XVI, era noto con un titolo specifico, Collyra32.
È sulla base di questi argomenti che bisogna riconoscere che l’appartenenza al-
le saturae di alcune delle opere minori di Ennio non può essere esclusa con asso-
luta sicurezza33. Vi sono tuttavia altri indizi che rendono preferibile distinguere

28 Per la datazione di Giulio Floro possiamo solo basarci sulla notizia che egli era amico di Orazio e che fu

al seguito di Tiberio quando quest’ultimo condusse una missione in Oriente terminata nel 20 a. C.: cfr. L. Bes-
sone, s. v. ‘Giulio Floro’ in Enc. or. I (1996), 755a.
29 Cfr. Müller 1884 (Ein.), 107.
30 Questa tesi è stata ribadita anche da Della Corte 1935-36 e Puelma Piwonka 1949.
31 Anche sulla base di queste considerazioni, l’appartenenza degli Hedupagetica alle Saturae è stata sostenuta

con particolare impegno da D. Bo, Sugli Hedyphagetica di Ennio, «Rend. Ist. Lomb.» 89-90, 1956, 107-20: 118 s.
32 Cfr. Porphyr. ad Hor. carm. 1, 22, 10: liber Lucilii XVI Collyra inscribitur, eo quod de Collyra amica in

<eo> scriptum sit); altri casi, più incerti, di titoli specifici per singoli libri o singole satire di Lucilio sono discus-
si da Christes 1986, 69.
33 Una questione «tuttora insoluta, e per ora insolubile» veniva ritenuta da Timpanaro 1948, 5 n. 1 che tut-

tavia concludeva: «ad ogni modo in una nuova edizione converrà sempre, per evitare confusioni, mantenere
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Saturae - Introduzione 75

nettamente le une dalle altre:


• per quanto riguarda le questioni più strettamente pertinenti allo Scipio rinvia-
mo alla nostra discussione nell’introduzione a quell’opera, dove cerchiamo di
dimostrare che essa non solo non deve essere identificata con il III libro delle
Saturae, come del resto viene oggi comunemente ammesso, ma anche che do-
veva essere una fabula praetexta34. Contro l’identificazione dello Scipio con il III
libro delle Saturae qui ci limitiamo a richiamare l’attenzione su un argomento
di portata più generale addotto da Vahlen 1903 e ricavato dalla ratio laudandi
di Gellio: questa fonte, infatti, nelle tre occasioni in cui cita dalle saturae en-
niane, usa sempre la stessa espressione in saturis35, diversa da quella che lo stes-
so Gellio utilizza nell’unica occasione in cui egli cita lo Scipio (Gell. 4,7,3: En-
nii uersum [...] in libro qui Scipio inscribitur): e da questo diverso modo di ci-
tare bisogna dedurre che, per Gellio, le saturae enniane erano un’opera distin-
ta dallo Scipio36. Questa conclusione è rafforzata inoltre dalla considerazione
che Gellio sembra avere una conoscenza diretta delle saturae, perché ne cita
due versi precisando che essi si trovavano alla fine di un componimento37, ma
non dello Scipio, di cui riporta un verso dichiarando esplicitamente di dipen-
dere da una citazione fattane da Valerio Probo38.
• per quanto riguarda il Sota, Müller non solo presuppone, senza argomentare,
che esso facesse parte delle Saturae, ma anche sostiene che esso fosse troppo
breve per occuparne interamente un libro: abbiamo tuttavia una testimonianza
da cui ricaviamo che il Sota intorno alla metà del II sec. girava come opera a sé
stante ed occupava lo spazio di un volumen (cfr. Aur. Fronto. 56, 1-2 v. d. H.2:
Sota Ennianus remissus a te et in charta puriore et uolumine gratiore et littera fe-
stiuiore quam antea fuerat uidetur).
• nessuna fonte antica cita il XVI libro delle satire di Lucilio con il titolo Colly-
ra, nonostante esso sia documentato esplicitamente, come abbiamo visto, da
Porfirione.

distinte le due categorie (Saturae e Varia [= titolo sotto il quale Vahlen 1903 riuniva tutte le altre opere minori]).
In seguito Timpanaro (1978, 668), pur continuando a sostenere che si tratta di «questione che non può essere
risolta con sicurezza», si è mostrato più propenso ad accogliere la tesi Saturae = opere minori sulla base di un ar-
ticoletto di Della Corte (1936) i cui argomenti sono diversi da quelli indicati sopra nel testo e, a mio avviso, me-
no probanti. Sul rapporto tra le saturae e le opere minori di Ennio è da notare comunque la divergenza tra Tim-
panaro e Sc. Mariotti 1952, 274 = 1991, 116, dove si critica Puelma Piwonka di non aver fatto «la distinzione,
per noi indispensabile, tra Saturae e varia».
34 Aggiungo qui di passaggio che la questione se le saturae di Ennio fossero o meno da identificare con le

altre sue opere minori, nacque in realtà proprio dall’esigenza di giustificare la polimetria dello Scipio: cfr. sotto,
l’introduzione a quest’opera, p. 189 ss.
35 Cfr. Gell. 2,29,20: Ennius in saturis; 18,2,7 in saturis Quinti Enni; 6,9,2: Q. Ennius in saturis.
36 Così penso di poter esplicitare la stringata argomentazione di Vahlen 1903, CCXV s.: «Gellius [...],quod

et Ennium in saturis laudat et Ennium in libro qui Scipio inscribitur [...], documento est eum hunc non in satu-
ris legisse».
37 Cfr. Gell. 2, 29, 20: Hunc Aesopi apologum Q. Ennius in satiris scite admodum et uenuste uersibus qua-

dratis composuit. Quorum duo postremi isti sunt, quos habere cordi et memoriae operae pretium esse hercle puto.
38 Cfr. Gell. 4, 7, 2ss. Valerius Probus [...] Ennii uersum unum ponit ex libro qui Scipio inscribitur.
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76 Le opere minori di Ennio

Comunque lo si risolva, tuttavia, il problema dell’appartenenza delle opere mi-


nori alle saturae di Ennio lascia aperto il problema se Ennio sia stato il primo ad
utilizzare il termine satura per indicare una composizione di carattere letterario.
Questa ipotesi è stata negata più volte, anche recentemente, da quanti hanno so-
stenuto che il termine satura in senso letterario sia stato usato già, prima di Ennio,
da Nevio39. Ma l’unica testimonianza su cui può contare tale tesi (la citazione di
un frammento introdotta da Fest. 257 M. con le parole Naeuius in satura) risulta
non probante sulla base di due considerazioni complementari: 1) nel caso di Ne-
vio è possibile ipotizzare che anche la sua Satura fosse un’opera teatrale, come bi-
sogna sicuramente presupporre nel caso di una Satura di Atta, autore di togate, e
di una satura di Pomponio, autore di atellane, e che il titolo debba dunque essere
inteso come aggettivo sostantivato con il significato di ‘La donna incinta’40;
2) questa possibile spiegazione alternativa di satura nel caso dell’opera di Nevio è
resa anche la più probabile dal fatto che le fonti antiche sulla storia della satira
– fonti a cui pure dobbiamo le uniche notizie in nostro possesso sulla satira di Pa-
cuvio (cfr. Sat. Test. II e IV) – non citano mai Nevio fra gli autori di questo gene-
re letterario.
Su basi ancor meno solide risulta poi fondata l’ipotesi che il primo autore di sa-
turae sia stato non Ennio, ma Pacuvio41.
Riconosciuto questo, bisogna tuttavia ammettere che, come per molte altre
opere enniane, anche la cronologia delle satire è molto incerta: se davvero ci fos-
se riferimento al processo agli Scipioni in Sat. VI (ma si veda il comm.), avremmo
il 187 a.C. come termine post quem (il che ovviamente non implica che altre par-
ti dell’opera non potessero essere state composte prima); altre determinazioni cro-
nologiche sono state tratte da frammenti di sede incerta42.
Risulterà curioso constatare che il primato di Ennio nell’uso del termine satura
in senso letterario è stato negato non solo dagli studiosi che, come abbiamo visto

39 Cfr. E. Flintoff, «Latomus» 47, 1988, 503-603; Petersmann 1999, 290; ulteriore bibliografia in van Rooy

1965, 45 n. 5.
40 Anche Mariotti 1952, 272 (= 1991, 114) e n. 3, ritiene che la satura di Nevio fosse un’opera teatrale, e ri-

tiene più probabile, in particolare, che si trattasse di una togata: l’ipotesi è interessante perché nell’ambito di
questo genere teatrale sono particolarmente frequenti i titoli incentrati su protagoniste femminili.
41 Tale ipotesi ha avanzato E. Flintoff, The satires of Marcus Pacuvius, «Latomus» 49, 1990, 575-590 sulla

base della testimonianza di Diomede che indica i rappresentati della satira “non luciliana” secondo la sequenza
Pacuuius et Ennius, sequenza che, secondo Flintoff, rispetterebbe l’ordine cronologico. Ma è Flintoff stesso a in-
ficiare la propria tesi quando (p. 577) nota che 1) Diomede «often wrote his list in what one might call ‘reverse
chronological’ order’»; 2) Porfirione presenta la sequenza Ennio-Pacuvio (e Porfirione, nota sempre Flintoff, è
in genere particolarmente attento alla cronologia).
42 A. La Penna (Ille ego qui quondam e i raccordi editoriali nell’antichità, «SIFC» n.s. 3, 1985, 76-91: 89-91)

presupponendo, ma con cautela, l’attribuzione congetturale alle saturae della citazione enniana (= ann. 16 in
Pers. 6, 9 (attribuzione avanzata da) A. E. Housman, «CR» 48, 1934, 50 [= The classical papers, London 1972,
III 1232] propone – come ipotesi «per così dire, alla seconda potenza» – che le saturae fossero posteriori agli
Annales (o almeno coeve all’inizio di questi: cioè 184 a.C.: cfr. Skutsch 1985, 6).
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Saturae - Introduzione 77

sopra, hanno ritenuto che satura con tale significato fosse già stato usato in epoca
precedente da Nevio o Pacuvio, ma anche da chi ha ritenuto che tale uso di satu-
ra risalga a un’epoca successiva a Ennio43. Chi però sostiene questa tesi si scontra
con la difficoltà di stabilire per opera di chi, in quale epoca e perché si sarebbe
imposto tale titolo. Si è pensato che il titolo Saturae sia stato attribuito all’opera
enniana dagli storici del genere satirico44: ma se fosse così, bisognerebbe attribui-
re agli eruditi antichi – come già osservava Ullman45 – un comportamento davve-
ro bizzarro: prima avrebbero raccolto delle opere – anepigrafe o con titoli diver-
si – di Ennio (e di Pacuvio) sotto il titolo Saturae, ma poi si sarebbero trovati nel-
la necessità di operare una distinzione all’interno di un accorpamento di opere
che è dovuto… ai grammatici stessi. Se si considera questo, è necessario che il ti-
tolo saturae preesistesse alla discussione erudita antica sul genere satirico. Per la
stessa ragione non mi pare si possa condividere pienamente l’affermazione secon-
do la quale in Quint. inst. 9, 2, 36 Ennius in satura l’espressione in satura «is not
a formal title»46, se si vuole con questo sostenere che Quintiliano non presuppo-
nesse già una raccolta enniana intitolata saturae. Se così non fosse, bisognerebbe
chiedersi per quali ragioni Quintiliano abbia utilizzato in satura per riferirsi a
un’opera enniana. Se si esclude che possa aver usato l’espressione nel senso gene-
rico di “scritto aggressivo”47, non resta che pensare che tale designazione sia do-
vuta alla distinzione tra i due generi di satira delineata da Quintiliano stesso nel li-
bro successivo (cfr. Sat. Test. I). Ma allora si ritorna all’obiezione sollevata prima:
la distinzione tra diversi tipi di satura presuppone opere che già recano questo ti-
tolo. Né risulta convincente l’ipotesi (di Della Corte 1936) per cui il titolo saturae
sarebbe dovuto a Giulio Floro che, come abbiamo già ricordato discutendo la te-
stimonianza di Porfirione (Sat. Test. III), negli ultimi decenni del I sec. d.C. fece
una raccolta dalle satire di Ennio, Lucilio e Varrone: almeno dall’epoca di Floro
il termine satura indica ormai un preciso genere letterario e per di più secondo le
caratteristiche tipiche del filone luciliano48. Se le poesie enniane non avessero già
portato il titolo saturae, bisognerebbe concluderne che per Floro, indipendente-
mente dal titolo, i brani enniani antologizzati presentavano tratti “satirici” (nel
senso più moderno del termine) così spiccati che potevano accomunarli alla sati-
ra luciliana.
Questione tanto discussa quanto complessa è l’origine e il significato del ter-
mine satura scelto da Ennio come titolo di un’opera letteraria49: su questo pro-

43 Una ricca bibliografia sulla questione in van Rooy 1965, 46 n. 8.


44 Cfr. G. L. Hendrickson, Satura-The genesis of a literary form, «CPh» 6, 1911, 129 - 143 ss. e 334 ss.: 342.
45 B. L. Ullman, Satura and Satire, «CPh» 8, 1913, 172-194: 187 s.
46 N. Horsfall, Some problems of titulature in Roman literary history, «BICS» 28, 1981, 103-114: 108.
47 Con questo valore compare per la prima volta in Suet. Gramm. 15.
48 Cfr. Hor. sat. 2, 1, 1 sunt quibus in satura videar nimis acer (testimonianza databile non dopo il il 30 a.C.).
49 Sulla tale complessa questione vi sono numerose discussioni assai approfondite: cfr. ad es. Citroni 1991,

136-142.
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78 Le opere minori di Ennio

blema anche la tradizione grammaticale antica si mostra molto incerta e a com-


plicare questo quadro di incertezza si aggiunge anche una famosa e discussa testi-
monianza di Liv. 7, 2 (e di Valerio Massimo 2,4,4 che però dipende da Livio) a
proposito di una forma di spettacolo che Livio designa con il termine satura, e
presenta come una delle fasi intermedie attraverso le quali, dall’epoca della prima
istituzione dei ludi scenici (364 a.C.), si arriva, con Livio Andronico, alla forma-
zione del dramma letterario romano.
Se, come si propende a fare oggi, si ammette la veridicità della testimonianza li-
viana riguardo all’esistenza di tale satura preletteraria50, appare allora l’ipotesi più
probabile che da essa Ennio abbia ripreso il termine satura per designare una pro-
pria opera51. Un procedimento del tutto analogo, come hanno notato Büchner
1950, 243 s. e Mariotti 1952, Ennio aveva seguito negli Annales, perché anche qui
il titolo rinvia a un’antica produzione preletteraria italica (gli Annales pontificum).
Bisogna in effetti riconoscere che, per molti aspetti, la satura descritta da Livio
presenta alcuni elementi di contatto con la satura enniana: in particolare l’espres-
sione liviana impletas modis saturas (saturae piene di ritmi) richiama da vicino la
descrizione della satira enniana data da Diomede (carmen quod ex variis poemati-
bus constabat; e cfr. la carminum varietate di Quintiliano a proposito dell’alterum
prius genus saturae). D’altro canto, come abbiamo visto, questa varietà di metri è
ancora riscontrabile nei frammenti delle satire enniane a noi pervenuti. Più che
mai sembra ricalcare un andamento drammatico la contesa tra la Vita e la Morte
personificate, di cui abbiamo notizia in Sat. fr. X e che era stato l’argomento an-
che di una atellana di Novio52.
Sia realmente esistita o meno una forma preletteraria chiamata satura e abbia o
meno Ennio ripreso da qui il titolo per una propria opera, appare comunque pro-
babile che per Ennio satura esprimesse soprattutto il concetto di “varietà”: que-
sto valore di satura è anche quello meglio giustificabile etimologicamente, come
risulta anche dalle altre tre interpretazioni del termine proposte da Diomede (GL
1, 485 s. K.). Tali interpretazioni sono: 1) satura come attributo di una lanx (vas-
soio) colma di primizie (referta variis multisque primitiis) e destinata a essere of-
ferta nelle cerimonie sacre; 2) satura indicherebbe un tipo di ripieno alimentare e
composto di vari ingredienti (Diomede ricava la notizia esplicitamente da Varro-
ne che fornisce anche la ricetta); 3) satura designerebbe una lex dal carattere com-
posito perché frutto di un agglomerato di disposizioni su questioni diverse. Ap-
pare chiaro, ed è oggi comunemente ammesso, che alla base di questi vari usi del

50 A questi risultati giunge l’ampia e sistematica disamina di P. L. Schmidt, Postquam ludus in artem paula-

tim verterat. Varro und die Frühgeschichte des römischen Theathers, in G. Vogt-Spira (ed.), Studien zur vorlitera-
rischen Periode im frühen Rom, Tübingen 1989, 77-134.
51 A un inverosimile caso di «omofonia» pensava invece Pasoli 1964b, 41.
52 Su questo aspetto insiste in particolare E. Flintoff, Livy, John of Lydia and pre-literary Satura, in C. De-

roux (ed.), Studies in latin literature and Roman history, IV, Bruxelles 1986, 5-30 per connettere la satira ennia-
na con la satura drammatica (cfr. in part. p. 29).
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Saturae - Introduzione 79

termine c’è l’aggettivo satur con il valore di “pieno”. In tutti gli usi di questo ag-
gettivo testimoniati da Diomede risulta anche evidente ed esplicitata la connes-
sione tra il valore originario di “pienezza” e quello di “varietà”. Particolarmente
notevole, poi, è l’uso dell’aggettivo che Diomede ci testimonia in ambito gastro-
nomico: se nella scelta enniana del termine satura fosse da sentire un riferimento
a questo ambito, si avrebbe allora un’interessante analogia, rilevata da più studio-
si, con il termine farrago (=mistura alimentare per animali) con cui Giovenale (1,
85) indica la propria opera satirica. Se si accetta questa interpretazione, nel ter-
mine satura usato in ambito letterario si potrà vedere, come è stato più volte no-
tato, un corrispondente di espressioni moderne come “farsa”, “potpourri” ecc.
Nella sua discussione sul titolo, Waszink 1972, 104 s. ha prospettato due ipo-
tesi strettamente connesse tra loro:
1) che la divisione in libri dell’opera, come era stato già sostenuto da alcuni stu-
diosi precedenti, risalga non direttamente a Ennio, ma a grammatici a lui po-
steriori, e precisamente dell’età compresa tra Gellio e Porfirione53;
2) che il titolo originario fosse, al singolare, satura e non, al plurale, saturae, e che
anche quest’ultimo, come la divisione in libri, risalga a un’epoca successiva a
Ennio54.
Secondo Waszink, dunque, satura veniva usato da Ennio per indicare l’opera
nel suo complesso, e non i singoli componimenti che ne facevano parte.
Tuttavia, mancano indizi probanti a sostegno sia di satura al singolare come ti-
tolo complessivo dell’opera, sia della assenza di una sua divisione in libri. Per
quanto riguarda il titolo, è vero, come osserva Waszink, che l’uso della forma al
plurale è attestato solo a partire da Gellio (cfr. 2, 29, 20: Q. Ennius in Saturis; 18,
2, 7 in Saturis Quinti Ennii; 6, 9, 1 Q. Ennius in Saturis); si osservi tuttavia che:

• abbiamo un’unica testimonianza anteriore a Gellio, Quintiliano, in cui vengo-


no citate le satire enniane (9, 2, 36: Mortem ac Vitam, quas contendentes in sa-
tura tradit Ennius), tutte le testimonianze successive presuppongono sempre e
solo il titolo al plurale: cfr. Porphyr. ad Hor. sat. 1, 10, 46: Ennius qui IV libros
saturarum reliquit, Serv. Dan. ad Verg. Aen. 12, 121: Ennius saturarum II; Non.
33, 7 M.: Ennius Saturarum lib. III (analogamente Non. 66, 18; 139, 15; 147, 8;
470, 19; 474, 25; 510, 9)
• mentre da Gellio e dalle fonti successive ricaviamo necessariamente che il tito-
lo era saturae al plurale, non possiamo stabilire, come d’altro canto riconosce
lo stesso Waszink, se in Quintiliano (9, 2, 36: Mortem ac Vitam, quas conten-

53 Così, già prima di Waszink, anche Knoche 19713, 14 [= 19572, tr. it. 1969, 34], Jocelyn 1967, 13 n. 8 e

ancora Jocelyn 1972, 1022.


54 Scholz 1986, 35 segue espressamente Waszink nel ritenere che il titolo fosse satura al singolare; a diffe-

renza di Waszink, tuttavia, Scholz ritiene che la divisione in libri dell’opera così intitolata risalga direttamente a
Ennio.
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80 Le opere minori di Ennio

dentes in satura tradit Ennius) satura si riferisca al titolo complessivo dell’ope-


ra enniana, o a un singolo componimento in esse contenuto;
• un indizio decisivo a sostegno di satura come titolo complessivo dell’opera en-
niana Waszink ritiene di poter trovare nella testimonianza di Diomede (GL 1,
485, 30-34 Keil: Satura [...] olim carmen quod ex uariis poematibus constabat sa-
tura uocabatur, quale scripserunt Pacuuius et Ennius), testimonianza che anche
Waszink, assieme ad altri, fa risalire, seppur con cautela, direttamente a Varro-
ne: ma tale ipotesi, di cui già sopra abbiamo cercato di mostrare la fragilità, ri-
sulta più che mai metodicamente discutibile in questioni sottili come le nostre,
in cui bisognerebbe assicurarsi, e nessuno l’ha mai dimostrato, che Diomede
abbia riportato le parole di Varrone senza apportare la benché minima modifi-
ca. Ma anche ammesso che la testimonianza di Diomede risalga parola per pa-
rola a Varrone, essa non implica affatto che il titolo originario dell’opera en-
niana fosse satura: con tale termine Diomede può aver designato non il titolo
dell’opera enniana, ma il genere letterario a cui essa apparteneva55. Quest’ulti-
ma, anzi, è a mio avviso l’ipotesi più probabile: nelle righe immediatamente
precedenti a quelle richiamate da Waszink, Diomede utilizza il termine satura
anche per indicare la satira di Lucilio, Orazio e Persio (Diom. GL 1, 485, 30 ss.
Keil: Satura dicitur carmen apud Romanos, nunc quidem maledicum et ad car-
penda hominum uitia archaeae comoediae charactere compositum, quale scripse-
runt Lucilius et Horatius et Persius); tuttavia è sicuro che, almeno nel caso di
Orazio, il termine satura non può essere riferito al titolo originario delle sue sa-
tire, il quale era sermones.

Considerazioni analoghe a quelle fin qui svolte a proposito della forma origi-
naria del titolo dell’opera enniana possono essere avanzate anche riguardo alla
questione della divisione in libri: che essa risalga direttamente a Ennio, e non a
grammatici successivi, non può essere messo in dubbio sulla base del fatto che la
fonte più antica che ce ne parla è Porfirione (ad Hor. sat. 1, 10, 46 [Sat. Test. I]:
Ennius qui quattuor libros saturarum reliquit) e risale dunque agli inizi del III sec.
d.C. Che nelle due sole fonti anteriori a questa data (Quintiliano e Gellio) le sati-
re enniane vengono sempre citate senza indicazione di libro (in satura tradidit En-
nius Quint. inst. 9, 2, 36; Ennius in saturis Gell. 2, 29, 20, e cfr. Gell. 18, 2, 7 e 6,
9, 1) non è probante: per quanto riguarda Quintiliano, abbiamo già osservato so-
pra che egli con l’espressione in satura può riferirsi a un singolo componimento e
non all’intera opera; per quanto riguarda le sole tre citazioni delle saturae ennia-
ne presenti in Gellio, si osservi che quest’ultimo omette l’indicazione del libro an-
che in 10 delle sue 26 citazioni dalle satire luciliane56, la cui divisione in libri è tut-

55 Questa è anzi l’interpretazione presupposta dalla traduzione di Pasoli 1964, 23 s., che al riguardo non

prende in considerazione esegesi alternative («si chiamava satura un genere di poesia che risultava di vari com-
ponimenti, quale quella che scrissero Pacuvio e Ennio»).
56 Cfr. 1, 3, 19 quod Lucilius ait; 2, 24, 4 Lucilius ... dicit; 2, 24, 10 Lucilius ... meminit in his uerbis; 3, 14,
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Saturae - Introduzione 81

tavia sicuramente attestata fin da Varrone57. Non vi sono quindi difficoltà a po-
stulare che anche la divisione in libri delle saturae enniane preesistesse a Gellio,
nonostante egli le citi utilizzando la formula generica Ennius in saturis.
Le testimonianze di Quintiliano e Gellio non possono dunque mettere in dub-
bio quelle di Nonio (che cita dal I, dal III e forse anche dal IV libro), Servio Da-
nielino (che cita dal II libro) e, forse, Macrobio (che cita dal IV libro); e la divi-
sione in libri è postulata comunque anche dalla pur problematica testimonianza
di Donato, su cui bisogna qui invece soffermarsi per un’altra questione.
Le testimonianze che abbiamo ora citato rendono infatti difficile stabilire non
la paternità enniana della divisione in libri, ma quanti essi fossero. Porfirione ci te-
stimonia esplicitamente che le satire enniane erano composte da 4 libri (Porphyr.
ad Hor. sat. 1, 10, 46 ss.: Ennius qui quattuor libros saturarum reliquit), mentre Do-
nato, introducendo la citazione di un frammento (qui Sat. IX), attesta anche l’esi-
stenza di un sesto libro (DON. ad Ter. Ph. 339 Haec non ab Apollodoro sed e sexto
Saturarum Ennii): questo almeno sembra il testo attribuibile alla tradizione ma-
noscritta di Donato, e che per lungo tempo molti studiosi hanno invece attribui-
to a una correzione congetturale di R. Estienne (cfr. il comm. a Sat. IX). Tra quan-
ti ne hanno accettato l’autenticità, si sono tentate varie strade per conciliare la te-
stimonianza di Donato con la testimonianza di Porfirione: cambiare il numero di
libro in Donato (Schöll 1885, 321 n. 2 proponeva di correggere sexto in secundo);
o in Porfirione, dove Usener ap. Vahlen 1903, CCXI, ipotizzava che quattuor, cioè
IIII, potesse essere trascrizione erronea di UII; quest’ultima soluzione è stata ri-
proposta da Warmington 1935, 382 che però ammette anche la possibilità di cor-
reggere in Donato sexto (VI) in IV. Schöll in alternativa suggeriva di introdurre
nel passo donatiano il titolo di una palliata (ad es. ex stolatis) oppure di ipotizza-
re l’esistenza di una duplice edizione delle Satire enniane, rispettivamente in 4 e 6
libri.
È evidente che si tratta di soluzioni tutte possibili, ma puramente ipotetiche;
meno probabile di tutte, direi, è quella delle due diverse edizioni: è vero che essa
permetterebbe di conservare il testo tràdito sia in Porfirione che in Donato ma,
per quanto possa essere incerto il numero di libri testimoniato da Porfirione, ap-
pare sicuro dalle sue parole che egli, all’inizio del III sec. d.C., conosceva solo
un’unica edizione delle satire enniane. E vi sono alcuni indizi che inducono a ri-
tenere più verosimile che le saturae enniane fossero composte di 4 libri come ci te-
stimonia Porfirione; si consideri infatti che:

• se si esclude la testimonianza di Donato, del tutto isolata, tutte le altre fonti, co-
me si è visto, concordano nel citare le satire enniane solo dai libri 1-4;

9 Lucilius; 3, 14, 10 [Lucilius] alio loco; 4, 16, 6 Lucilius ... in hisce uersibus; 6, 3, 28 Lucilius; 9, 14, 21 Lucilius
in saturis; 16, 5, 7 Lucilius; 18, 5, 10 Lucilius ... his uersibus.
57 Cfr. Varr. l. L. 5, 3 Lucilius suorum unius et uiginti librorum initium fecit hoc etc.
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82 Le opere minori di Ennio

• abbiamo inoltre notizia di una raccolta di satire di Varrone anch’essa in 4 libri


(cfr. Hier. epist. 33, 2: scripsit ... Varro [...] Saturarum libros IIII);
• è opportuno qui ricordare infine che, per quanto controversa, continua ad ave-
re dei sostenitori l’ipotesi che anche Lucilio pubblicò una prima edizione delle
sue satire formata da 4 libri, quelli che nella edizione definitiva costituiranno i
libri XXVI-XXIX58: si tratta proprio dei libri che presentano particolare somi-
glianza formale con le satire di Ennio perché vi compaiono, oltre agli esametri,
anche settenari trocaici e senari giambici.

Per queste ragioni ritengo l’ipotesi meno improbabile postulare una corruttela
non nel numero di libri indicato da Porfirione, ma in quello indicato da Donato.
Credo che non si possa accettare la perentorietà con cui alcuni studiosi hanno
sostenuto che le satire di Ennio non avessero contenuti satirici in senso moderno,
e che essi fossero invece presenti nella satira romana solo a partire da Lucilio59.
Bisogna innanzitutto osservare che tale tesi può contare solo sulla testimonianza
di Diomede (GL 1, 485, 30-34 Keil) dove, come si è visto, la satira di Lucilio, Ora-
zio e Persio viene presentata come un carmen [...] maledicum et ad carpenda ho-
minum uitia archaeae comoediae charactere compositum e contrapposta alla più an-
tica satira di Ennio e Pacuvio, caratterizzata da uaria poemata. E certo i frammenti
delle satire enniane non presentano tracce sicure di ‘elementi satirici’, se con que-
sta espressione ci si riferisce soltanto a violenti attacchi verbali ad personam. Bi-
sogna invece riconoscere che nei pur scarsi frammenti delle satire enniane è inne-
gabile la presenza di ‘elementi satirici’, se con questa espressione ci si riferisce, co-
me appare legittimo, anche a una riflessione etica, con intenti didattici e censori,
sui vizi dell’uomo in generale, o al massimo all’interno di un ambiente sociale sto-
ricamente determinato, ma senza riferimento a individui realmente esistititi. A
questo tipo di riflessioni etiche appartiene senza dubbio il fr. Sat. XI, che si con-
clude con un invito a fare affidamento solo sulle proprie forze e a non far conto
dell’aiuto altrui; ed è molto verosimile che in Sat. I vi sia una critica sugli eccessi
alimentari e in Sat. II un invito a non indugiare nel mantenere le promesse fatte.
Sono considerazioni come queste che hanno indotto giustamente anche Sc. Ma-
riotti, dopo altri, ad affermare che il contenuto della satira enniana era già sulla li-
nea della satira di Lucilio e Orazio60. Si tenga d’altro canto presente che la netta

58 Questa tesi è stata affermata da Marx I (1904), XXXV e Marx II (1905) e contestata da J. Christes in più

occasioni (la più recente si trova nel suo capitolo dedicato a Lucilio contenuto in J. Adamietz (cur.), Die römi-
sche Satire, Darmstadt 1986, 57-122: 70 n. 86). Segnalo che contro Christes la tesi di Marx era stata rivendicata
da Michelfeit, «Hermes» 93, 1965, 128 e, sulla scia di quest’ultimo, da B. Zucchelli, «Paideia» 32, 1977, 10 s.
59 Cfr. ad es. Leo 1913, 206 per il quale le satire enniane «hatten kein ‘satirischen’ Element».
60 Cfr. Sc. Mariotti in Der kleine Pauly s. v. ‘Ennius’ (2, 1967, 270 ss.: 273) dove, per sostenere la tesi di ele-

menti satirici in senso moderno anche nelle satire di Ennio, ci si richiama a E. M. (non A. S.) Pease, «TAPhA»
27, 1896, 48 ss. Analogo giudizio già in Mariotti 1952, 274 = 1991, 114 (con rinvio molto opportuno a F. Altheim,
Geschichte der lateinischen Sprache, Frankfurter am Main 1951, 346-365: 359 s. = D. Korzeniewski (hrsg.), Die
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Saturae - Introduzione 83

contrapposizione istituita da Diomede tra la satira di tipo luciliano e quella di En-


nio appare discutibile anche per altri aspetti: la polimetria che secondo Diomede
caratterizzava solo le satire di Ennio, si trovava anche nei libri più antichi delle sa-
tire di Lucilio, quelli che nell’edizione definitiva costituiranno i libri dal XXVI fi-
no almeno al XXIX, dove venivano utilizzati settenari trocaici, senari giambici ed
esametri; anche la qualifica di carmen [...] maledicum et ad carpenda hominum ui-
tia archaeae comoediae charactere compositum, inoltre, si adatta male ai caratteri
della satira oraziana61. Si ha insomma l’impressione che nella storia della satira ro-
mana a partire da Ennio vi siano state non cesure nette, ma una graduale evolu-
zione, riscontrabile in parte all’interno delle stesse satire di Lucilio dove l’uso del-
l’esametro diverrà esclusivo solo a partire dal XXX libro. Ed è mio avviso questa
novità di carattere metrico che ha indotto la filologia antica a introdurre una di-
stinzione tra la satira romana a partire da Lucilio: questo risulta abbastanza chia-
ramente dalla testimonianza di Quintiliano vista sopra, che solo sulla base della
sua forma metrica individua la satira anteriore a Lucilio. D’altronde, la distinzio-
ne tra i vari tipi di satira non doveva risultare molto netta neppure a Giulio Floro
che, come abbiamo visto sopra, nel I sec. a.C. poteva riunire in un’unica antolo-
gia satire tratte da Ennio, Lucilio, Varrone (queste ultime probabilmente saranno
state non le satire menippee ma quelle di tipo luciliano, come si ritiene di solito62).
Proprio perché già nelle satire enniane è riscontrabile l’elemento ‘satirico’ in
senso moderno ritengo che continui a mantenere valore l’ipotesi, di Sc. Mariotti,
secondo la quale Ennio con il titolo Saturae non solo, come si è detto sopra, ri-
prende il titolo di una forma preletteraria latina (la satura testimoniata da Livio)
ma anche «‘traduce’ quello callimacheo (ed archilocheo) di [Iamboi, proprio, so-
prattutto in origine, di componimenti volti all’offesa e all’invettiva»63. E secondo
Mariotti proprio i Giambi di Callimaco sarebbero il modello non solo, come ave-

römische Satire, Darmstadt 1970, 112-136: 128; meno pertinente mi pare il rinvio di Mariotti a Marx I [1904],
XIV); si veda infine Mariotti 1991, 147-154 (già pubblicato in «JRS» 66, 1976, 262-265): 150. Considerazioni si-
mili a quelle qui espresse nel testo si trovano anche in van Rooy 1965, 32. È sulla scia di questi studi che ho cer-
cato di dimostrare che i uersus flammei di cui si parla in Sat. V (Enni poeta salve, qui mortalibus / versus propi-
nas flammeos medullitus) devono essere riferiti non, come si è ritenuto di solito, alla poesia ispirata, ma alle sa-
tira enniana in quanto poesia ‘caustica’ con la quale venivano marchiati a fuoco i vizi degli uomini: e se si acco-
glie questa interpretazione, è lecito ipotizzare che nelle satire enniane l’elemento ‘satirico’ in senso moderno non
solo era presente, ma vi assumeva anche un ruolo programmatico, come programmatici sono sia il contesto in
cui flammeus ricorre, sia il fr. di Lucilio 590 M. ego ubi quem ex praecordiis ecfero versum che è stato accostato
proprio al nostro frammento enniano.
61 Con il titolo sermones anzi – osserva giustamente Citroni 1991, 153 – «Orazio […] vuol collegarsi a un

particolare aspetto della satira luciliana: il carattere di conversazione urbana, di intrattenimento colto, tenendo
invece in ombra l’elemento di vigorosa polemica personale che il nome satura ormai implicava».
62 Cfr. ad es. Citroni 1991, 134. Un’ulteriore conferma della sostanziale continuità tra le satire di Lucilio e

quelle di Ennio si avrebbe anche qualora si ritenesse che queste ultime fossero costituite dalle altre operette en-
niane: tutti gli indizi per sostenere tale ipotesi, infatti, si ricavano, come abbiamo visto sopra, proprio dall’ana-
logia con le satire di Lucilio e con la tradizione satirica a lui successiva e, quindi, qualora venissero accolti, avreb-
bero la conseguenza di assimilare ulteriormente a tale filone anche le saturae di Ennio.
63 Mariotti 1952, 276 (=1991, 118).
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84 Le opere minori di Ennio

va sostenuto Puelma Piwonka 1949, a partire dalle satire di Lucilio, ma già a par-
tire da quelle di Ennio64. E infatti nei pochi frammenti enniani è possibile ritro-
vare tematiche che, se non sono esclusive, sono certo caratteristiche della poesia
giambica (e che troveranno continuazione nella tradizione satirica latina successi-
va). Così l’uso della favola (Sat. XI) ricorre in Archiloco e in Callimaco. Le frec-
ciate contro i ghiottoni (Sat. I, VIII, IX) si trovano spesso in Ipponatte. La voce
personale del poeta affiora nel fr. X dove un avversario è ingiuriato con un termi-
ne (canis) frequente nelle aggressioni giambiche. Il motivo del contrasto (fr. X) è
certo un motivo popolareggiante ma che trova impiego nei raffinati Giambi calli-
machei. Anche la varietà metrica che abbiamo rilevato sopra per le satire enniane,
e che era ovviamente funzionale alla varietà delle tematiche trattate, trova un pun-
to di contatto con la tradizione giambica: «anzi, proprio la varietà dei metri (giam-
bi, trochei, distici elegiaci, esametri, strutture asinartete) fu uno dei tratti caratte-
rizzanti e istituzionali di questa poesia»65.
L’«inventività sempre pronta, audace e aggressiva, la pluralità di livelli lingui-
stici, ottenuta attraverso l’intrusione di espressioni gergali» (Gentili 1984, 145)
che si sono riconosciute nella poesia giambica trovano in effetti maggior riscontro
in Lucilio, piuttosto che in Ennio (e questo giudizio comunque può addebitarsi a
un vizio di prospettiva, data l’incomparabile esiguità di frammenti enniani rispet-
to a quelli luciliani). Da questo punto di vista, ad ogni modo, a Lucilio appare più
vicina la lingua della satira enniana piuttosto che il sermo della satira oraziana. Co-
me in Lucilio, anche in Ennio compaiono frequenti legami non solo con la lingua
della palliata in generale, ma con quella più espressiva di tradizione plautina: cfr.
male hercle magno (Sat. I), medullitus (Sat. V); la neoformazione obagitant (Sat.
IV) sembra richiamare l’inventività linguistica plautina; sempre in questo fram-
mento è da notare il procedimento di accumulazione sinonimica; in questo qua-
dro si può comprendere che il Leo abbia potuto perentoriamente affermare che i
versi di Sat. IX «sind Komödie». Anche per il gioco di parole di Sat. XII si trova-
no numerosi riscontri nelle commedie plautine. In un simile contesto risalta in
modo ancora più netto lo stile chiaramente alto (con effetto parodico?) di Sat. III.
Si tratta di un frammento in esametri intessuto di un lessico e di locuzioni che tro-
vano continuazione nell’epica dell’ennianeggiante Ostio, in Cicerone poeta, in
Lucrezio e, probabilmente, nell’Eneide virgiliana: elementi che lasciano presume-
re con verosimiglianza che tali espressioni si trovassero anche negli Annales en-
niani.
L’uso di flammeus per indicare l’aggressività dei versi in Sat. V, inoltre, si può
ricondurre a una tradizione letteraria che proprio con immagini riprese dal fuoco
aveva caratterizzato la poesia aggressiva di Ipponatte (per la documentazione rin-
vio a Russo 2001). Ed è notevole che in questa tradizione rientri, tra gli altri, il Cal-

64 Indipendentemente da Mariotti, tale tesi era stata sostenuta anche da Deubner 1953.
65 B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Bari 1984, 144.
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Saturae - Commento, fr. I (= Sat. 1 V.2) 85

limaco dei Giambi dove Ipponatte è preso esplicitamente a modello. Certo nei
Giambi callimachei l’aggressività dei giambografi arcaici risulta assai attenuata66 e,
se si accoglie l’interpretazione prospettata in Russo 2001 per i vv. 13-14 del XIII
giambo, Callimaco stesso afferma di aver composto coliambi senza essersi procu-
rato il fuoco a Efeso e quindi senza il tono aggressivo che caratterizzava i giambi
ipponattei. Che a Ennio nelle satire vengano invece attribuiti versus flammei, po-
trebbe significare l’accentuazione, rispetto a Callimaco, del tono ipponatteo67.
Una tale accentuazione potrebbe essere vista, paradossalmente, come una profes-
sione di scuola callimachea: in epoca ellenistica infatti si lascia individuare, a pro-
posito dell’antica giambografia, una querelle che vede contrapposti – agli estima-
tori di Archiloco – Callimaco e i ‘callimachei’, fautori di Ipponatte68.

66 Anche se non così tanto come Callimaco afferma nel I giambo e come solitamente si ripete: cfr. le giuste

osservazioni di E. Degani, s.v. Giambici (poeti), in Dizionario degli scrittori greci e latini, Milano, II, 1987, 1025
e Id., Ipponatte e i poeti filologici, «Aevum antiquum» 8, 1995, 114.
67 Che modello delle satire enniane fossero i Giambi di Callimaco e, attraverso questi ultimi, quelli di Ip-

ponatte, è stato sostenuto da A. Cavarzere (in Orazio, Il libro degli epodi, Venezia 1992, 25 e cfr. anche la sua vo-
ce Giambo Enciclopedia Oraziana) sulla base del confronto tra Hor. epist. 1, 19, 21-25 e Call. iamb. I (191, 1-4
Pf.). Seppure di grande utilità per la nostra tesi, preferisco tuttavia non richiamarmi al tentativo di F. Stoessl (Die
frühesten Choliamben der lateinischen Literatur, in Festschrift … Bieler, Leiden 1976, 21-24) di dimostrare che
Ennio avrebbe introdotto per primo nella letteratura latina il coliambo – il metro che era tradizionalmente lega-
to al nome di Ipponatte –perché tale dimostrazione è fondata su basi troppo fragili.
68 Cfr. E. Degani Archiloco e Ipponatte in epoca ellenistica, «QUCC» 16, 1973, 79-104 [=1984, 171-186] e

ancora Degani 1995.


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86 Le opere minori di Ennio

Saturae
Commento ai frammenti

Dal libro I
Sat. I (= Sat. 1 V.2)

Metro: senario giambico. Né il Bothe che l’ha proposta nel 1837, né gli editori
successivi, che l’hanno accolta quasi unanimemente, si preoccupano di giustifica-
re la trasposizione magno suo rispetto al tràdito suo magno1. È possibile, come
presuppone Lunelli 1980, 206 n. 2, che con tale trasposizione gli editori intenda-
no restituire l’ordine delle parole più usuale in quella che, come si può vedere dai
passi paralleli in parte citati anche da Vahlen 1903 nell’app. cr. ad loc. (e cfr. an-
che sotto), è quasi un’espressione formulare in cui il pronome possessivo molto
spesso segue malo ... magno (Vahlen, l. c., citava As. 471 malo hercle iam magno
tuo; As. 896 cum malo magno tuo). Ma, come osserva lo stesso Lunelli cit., se fos-
se questa la causa, allora la trasposizione non avrebbe alcuna ragione di essere poi-
ché «l’ordine delle parole restituito da Bothe è in Plauto prevalente, non esclusi-
vo» (cfr. Lodge II 15 s., a cui opportunamente rinvia Lunelli): lo stesso Vahlen, l.
c., citava anche As. 909 cum tuo magno malo dove il pronome possessivo è invece
anteposto a magno malo2. Un’altra ragione che può aver indotto Bothe e gli edi-
tori successivi alla trasposizione magno suo è che essa introduce nel nostro sena-
rio giambico una delle due cesure più frequenti (quella semiquinaria; l’altra cesu-
ra sarebbe la semisettenaria3): entrambe queste cesure sarebbero invece assenti se-
condo il testo tràdito, che costringe a postulare una più rara incisione mediana
(con fine di parola dopo il sesto elemento). Ritengo tuttavia che neppura questa
sia una ragione sufficiente per discostarci dal testo tràdito: è vero che Ennio non
presenta senari analoghi, ma l’esiguità dei frammenti enniani non ci permette di
fissare norme perentorie. E decisivo diventa quindi il confronto con i senari della
palliata dove quelli privi di cesura semiquinaria o settenaria e con cesura mediana
sono «assai rari» (Questa 1967, 170) non inesistenti: le statistiche al riguardo for-
nite da Ceccarelli forniscono una base sufficiente per mantenere il testo tràdito4.

1 Conservano il testo tràdito solo Gerlach-Roth 1842 e Quicherat 1872, editori della fonte Nonio, i quali

per altro non mostrano di conoscere la correzione proposta da Bothe.


2 Questi esempi dimostrano non solo come l’ordine delle parole in questo caso potesse variare, ma anche

che magno malo era spesso accompagnato da un pronome possessivo, e forniscono quindi un’ulteriore ragione
per respingere la congettura, di Baehrens 1886, malo hercle magno quom (o quom magno) conuiuat sine modo che
implica la sostituzione del pronome possessivo suo con quom.
3 Una cesura semisettenaria si ottiene con la trasposizione suo conuiuat magno introdotta nel frammento

da Petermann 1851, 20 (il quale tuttavia non solo non motivava, ma neppure segnalava il suo intervento sul te-
sto tràdito).
4 Cfr. L. Ceccarelli, Le incisioni nei senari giambici e nei settenari trocaici di Plauto in L. C., Due studi di

metrica latina arcaica, L’Aquila-Roma 1990, 9-52: per Plauto, su un totale di 7747 senari giambici, vengono
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Saturae - Commento, fr. I (= Sat. 1 V.2) 87

malo … suo magno: locuzione tipica della palliata5, dove tuttavia, come abbia-
mo in parte già accennato sopra, ricorre con alcune variazioni6: tra gli esempi più
vicini al nostro passo enniani cfr., oltre a Plaut. Asin. 471 (già cit. da Vahlen e ri-
portato sopra), anche Cas. 489 malo hercle uostro tam uorsuti uiuitis. In Plauto il
valore strumentale-sociativo espresso dall’ablativo semplice malo (che in Ennio
determina conuiuat) è più spesso precisato dalla preposizione cum (cfr. ad es.
Plaut. Cas. 576 audiui ecastor cum malo magno tuo); in altri casi, in luogo di ma-
gno si trova il superlativo maxumo (Plaut. Rud. 775 maxumo malo suo / si attige-
rit siue occeptassit). È da notare che questa locuzione di origine comica si ritrova,
oltre che nella satira enniana, anche in quella di Lucilio (cfr. 773 M. malo hercle
uestro, confectores cardinum).
conuiuat: per intenderlo come congiuntivo, come presuppongono alcune tra-
duzioni (cfr. Warmington 1935: «Let him be one of the guzzlers without limit,
and, by god, may he utterly damned for it!»; Traglia 1986: «Con grave danno suo,
per Ercole, gozzovigli senza misura!») bisognerebbe farlo derivare da convivere:
nel nostro caso, tuttavia, come osserva Scholz 1986, 41 n. 53, la fonte stessa del
frammento fa derivare conuiuat da conuiuare7. Inoltre convivere è attestato per la
prima volta solo a partire da Seneca il vecchio (cfr. Th. l. L.), mentre conuiuare ha
altre sicure attestazioni fin dal latino arcaico (Titin. com. 89 R.3; Ter. Haut. 206:
convivarier). Nel nostro frammento viene dunque pronunciata una constatazione,
non una invocazione.
Prisciano (392, 6 ss. H.) afferma che la forma attiva del verbo quale è usata ap-
punto qui da Ennio, è tipicamente arcaica: apud vetustissimos … contra consuetu-
dinem … ‘convivo’ pro ‘convivor’. Il rifiuto della forma attiva di convivo(r) – an-
cora usata da Titin. com. 89 R.3 e, in età ciceroniana, da Pomp. Atell. 85 R.3; e poi
ancora in Petron. 57, 2 – da parte di Terenzio (Haut. 206 scortari crebro nolunt,
nolunt crebro convivarier: è l’attestazione più antica di convivor deponente) po-
trebbe essere attribuito a una consapevole scelta stilistica di evitare una forma or-
mai sentita come eccessivamente colloquiale8 (in Petronio la forma attiva è usata

indicati (a p. 39) 105 casi (1, 35%) di «fine di parola polisillabica» coincidente con il sesto elemento; per Te-
renzio, su un totale di 3271 senari considerati, quelli con cesura mediana sono 65 (1, 98%: cfr. p. 46): dunque,
rileva Ceccarelli, p. 47, «la frequenza è in qualche misura superiore in Terenzio» (Ceccarelli, ibid., rileva anche
che in Terenzio «l’importanza del quinto elemento diminuisce drasticamente» rispetto a Plauto).
5 Tuttavia, come mi fa osservare S. Timpanaro, la presenza di magnum malum anche in un frammento tragi-

co di Ennio (dal Telephus [sc. 333 V.2 = 287 Joc.]: qui illum di deaeque magno mactassint malo) è indicativa della
non ancora netta differenziazione tra livelli stilistici nella poesia latina arcaica: così negli Annales (94 Sk. = 99 V.2)
si trova ancora «the conversational expletive» (Skutsch 1985 ad loc.) pol assente in tutta la poesia epica successiva.
6 La raccolta più completa di esempi plautini si trova in Lodge II (1933) 20, seconda colonna. Un altro ca-

so si trova anche in Ter. Andr. 179 at nunc faciet, neque ut opinor sine tuo magno malo.
7 Più esattamente, bisogna osservare che la fonte cita il frammento come esempio di uso della forma atti-

va conuiuat in luogo di quella deponente (e dunque conuiuatur): la derivazione di conuiuat da conuiuare non è
dunque affermata esplicitamente dalla fonte, ma la si ricava per deduzione (non si potrebbe certo pensare a una
forma deponente per convivere).
8 Flobert 1975, 95 tuttavia rileva giustamente che convivarier in Terenzio è contrapposto a scortari: per ana-

logia con quest’ultima forma quindi potrebbe spiegarsi l’uso deponente di convivor in Terenzio.
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88 Le opere minori di Ennio

da un liberto). Per le ragioni espresse in n. 5, è più difficile dire se una tale con-
notazione stilistica della forma attiva di convivo sia da avvertire anche nel nostro
frammento enniano (che pure è caratterizzato così marcatamente da tratti di di-
zione comica): tuttavia un’analoga consapevole scelta stilistica da parte di Ennio
sembra di riscontrare nel fr. III: l’uso di contemplor deponente (di contro alla for-
ma attiva che lo stesso passo di Prisciano citato sopra afferma essere la forma abi-
tuale apud vetustissimos) ricorre in un contesto stilisticamente elevato (cfr. comm.
ad loc.).

sine modo: si può interpretare in due modi diversi: A) intendere sine come pre-
posizione e modo come sostantivo (così in Plaut. Bacch. 613 s. petulans, proteruo,
iracundo animo, indomito, incogitato, / sine modo et modestia sum, sine bono iure
atque honore): dunque sine modo, da riferire a conuiuat, significa “senza misura,
smoderatamente”; B) interpungere dopo conuiuat e interpretare sine come impe-
rativo e modo come avverbio9, secondo un uso assai frequente nella palliata (per
Plauto vedi i passi citati da Lodge II [1933] 78)10: in questo caso sine modo po-
trebbe essere 1) la risposta completa di un interlocutore (malo hercle suo magno
conuiuat. :: Sine modo!: così lo intende Bothe e a quest’unica possibilità pensa
Courtney): cfr. Plaut. Curc. 655 TH.: cedo ut inspiciam CU.: sana es, /quae isti com-
mittas? PL. sine modo. TH.: Pro Iuppiter; 2) la parte iniziale della risposta di un in-
terlocutore (malo hercle magno suo conuiuat. :: Sine modo…: cfr. Plaut. Amph. 805
s.: Ei! non placet convivium. /: : Sine modo argumenta dicat.11; 3) la parte iniziale
di una nuova frase pronunciata dallo stesso personaggio che ha parlato fino a que-
sto momento: malo hercle suo magno conuiuat. Sine modo… cfr. Plaut. Most. 12 s.
patiar. sine modo adveniat senex. / sine modo venire salvom quem apsentem comes.
È vero che i casi di sine modo in cui sine è da intendersi come imperativo sono di
gran lunga più frequenti12, e in base a questa interpretazione si potrebbero ipo-

9 Nelle sue postille alla seconda ed. enniana, Vahlen (cfr. Lunelli 1980, 206) a proposito dell’intepretazione

di Bothe scrive: «Cf. Poen. 1146., ibi quoque variatur»: richiama cioè un passo plautino dove, come voleva Bothe,
sine modo segna un cambio di interlocutore: il passo plautino citato da Vahlen è controverso (vedi la nota di Lu-
nelli ad loc.) mentre, come vedremo dopo, in Plauto è facile trovare altri casi analoghi ma sicuri; la postilla, co-
munque, segna l’interesse di Vahlen per la proposta di Bothe e, forse, un ripensamento rispetto alla intepretazione
vulgata e accolta da Vahlen stesso nelle sue due edizioni enniane. Warmington, che pure accoglie nel testo l’inter-
pretazione “A”, in apparato gratifica con un «fortasse recte» l’ipotesi di Bothe. Coffey 1989, 29 riporta il testo se-
condo l’interpretazione “A” ma, mi pare, traduce sine modo anche secondo l’interpretazione “B” («he is stuffing
himself to the back teeth [sine modo = ‘immodice’]; let him [sine = imperativo da sino] damn well suffer for it».
10 Sui due possibili valori, di minaccia e di preghiera, che può assumere in questo caso sine modo cfr. Court-

ney 1993 ad loc.


11 Sia per l’interpretazione 1 che per la 2 (secondo le quali nel frammento enniano si avrebbe cambio di in-

terlocutore) è opportuno notare che anche altrove nelle Satire enniane si può presumere andamento dialogico:
cfr. l’agone tra la Vita e la Morte (cfr. qui sotto fr. X).
12 Nell’altro caso di sine modo – oltre a quello tratto dalle Bacchides menzionato sopra – in cui secondo

Courtney sine varrebbe come preposizione (Plaut. Pseud. 222) si pone in realtà una difficoltà di scelta tra sine
preposizione o verbo analoga al nostro passo enniano. Un terzo caso di sine modo = “immodice” (Ter. Phorm.
499) viene citato “dubitanter” da Courtney stesso: si tratta di un passo molto travagliato.
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Saturae - Commento, fr. I (= Sat. 1 V.2) 89

tizzare varie contestualizzazioni per il nostro frammento: 1) parole con cui un pa-
drone di casa prospetta una qualche forma di ritorsione nei confronti di un pa-
rassita vorace (ad esempio non invitare più il parassita a tavola); 2) un riferimen-
to ai guai che passerà un servo spendaccione e dedito ai banchetti (come, nella
Mostellaria plautina, Tranione) quando ritornerà il padrone assente: in questo ca-
so sine modo potrebbe essere l’inizio di una frase in cui si minaccia appunto il ri-
torno del padrone (sempre Grumione, all’inizio del suo atto d’accusa contro Tra-
nione da cui ho tratto i versi sopra citati, afferma, v. 11 s.: sine modo adueniat se-
nex. Sine modo uenire saluom, quem absentem comes)13; 3) infine si potrebbe pen-
sare che nel nostro frammento il conuiuare viene criticato non in sé, ma perché
rinvia a circostanze legate al contesto e che noi non riusciamo a ricostruire: ad
esempio il conuiuium potrebbe risultare l’indizio di un adulterio, e il magnum ma-
lum che ne scaturisce potrebbe designare la ritorsione da parte del coniuge che è
venuto a conoscenza del tradimento14.
L’interpretazione di sine come preposizione, tuttavia, consente di dare al verso
un senso in sé concluso, ed è probabilmente per questa ragione che è stata prefe-
rita in genere dagli editori e in base ad essa appare difficile negare almeno la pos-
sibilità che il frammento rientri in un contesto moraleggiante di invito alla mode-
razione nei banchetti. Certo, anche all’interno di questa ipotesi più generale il
frammento si presta a diverse interpretazioni: il magnum malum potrebbe indica-
re le negative conseguenze fisiche dovute agli eccessi alimentari, secondo un mo-
tivo ben attestato anche nella satira luciliana15. Un’altra possibile contestualizza-
zione del frammento meritevole di attenzione si ricava dal commento di Colonna,
per il quale il conuiuare sine modo indica l’eccessivo lusso dei banchetti, e il ma-
gnum malum deriva dallo spreco di risorse patrimoniali che questo lusso com-
porta16: si tratta di un problema che doveva in effetti essere ben sentito all’epoca

13 Ovviamente secondo questa contestualizzazione si potrebbe intendere sine modo anche secondo l’inter-

pretazione di sine modo =‘immodice’: nella Mostellaria lo schiavo Grumione rivolge a Tranione, e al figlio del pa-
drone corrotto da Tranione, l’accusa di darsi a banchetti sfrenati: cfr. 22 ss. dies noctesque bibite, pergraecaminei
/ […] pascite / parasitos, obsonate pollucibiliter.
14 Per l’accostamento banchetto / tradimento cfr. Plaut. Asin. 851 ss.: accompagnata dal parassita, Arte-

mona scopre il marito Demeneto intento a banchettare con una cortigiana: in un primo momento la moglie as-
siste in disparte commentando furiosamente, in un dialogo con il parassita, il comportamento del marito: (864)
hoc ecastor est quod ille it ad cenam cottidie! e, al parassita che le propone di far portar via il marito dalle ancel-
le (868), Artemona risponde (869) tace modo; ne illum mecastor miserum habebo. Alla fine Artemona si presen-
ta a Demeneto che pur impaurito, chiede (935) non licet manere – cena coquitur – dum cenem modo? ma la mo-
glie risponde: Ecastor cenabis hodie, ut dignus es, magnum malum. In Plaut. Amph. 804 s.: Alcmena racconta al
vero marito Anfitrione la serata passata con quello che lei crede il marito ma che in realtà è Giove travestito:
ALCM.: Cena adposita est. Cenavisti mecum; ego accubui simul. AMPH.: In eodem lecto? ALCM.: In eodem. SOSIA:
Ei! non placet convivium.
15 Cfr. Lucilio 54 M. (dove si prospetta la morte di Lupo a causa della sua ingordigia: occidunt, Lupe, sa-

perdae te et iura siluri) con il comm. di Marx ad loc. L’interpretazione del nostro frammento come critica degli
eccessi alimentari è l’unica presupposta da Miller 2005, 109.
16 Cfr. Colonna 1585-86, 295 = 1707, 186: «Reprehendit poëta in hac satyra immodicum alicujus in convi-

viis luxum; quod sine suo magno malo, hoc est, sine ingenti bonorum effusione fieri nequit». Senza menzionare
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90 Le opere minori di Ennio

di Ennio, come dimostrano le varie leges sumptuariae, ricordate opportunamente


anche da Colonna, che si susseguirono con particolare frequenza a partire dall’i-
nizio del II sec. a.C. (lex Orchia del 182, lex Fannia del 161, lex Didia del 143 ecc.)
e che si proponevano appunto di limitare la spesa e il numero di convitati per i
banchetti.

Colonna ne riproponeva (indipendentemente?) la stessa interpretazione Petermann 1851, 20. Quando Deubner
1953, 290 vedeva nel nostro frammento un «tono giambico» si riferiva forse ad alcune divertite frecciate contro
i ghiottoni che ricorrono spesso in Ipponatte e che avrebbero un contenuto affine all’interpretazione del fram-
mento enniano proposta da Colonna (cfr. ad es. Ipponatte: 26 W.2 oJ me;n ga;r aujtw`n hJsuch/` te kai; rJudv hn /
quvnnavn te kai; musswto;n hJmevra" pavsa" / dainuvmeno" w{sper Lamyakhno;" eujnou`co" / katevfage dh; to;n
klh`ron: w{ste crh; skavptein / pevtra" ojreiva" su`ka mevtria trwvgwn / kai; krivqinon kovllika, douvlion
covrton («uno di loro infatti, con calma e senza pause, giorno dopo giorno tonno e salsetta divorando come un
eunuco di Lampsaco si mangiò tutto il patrimonio; e così si trovò a dovere zappare pietre montane, mangiando
fichi scadenti e pane d’orzo, roba da schiavi»: trad. Aloni 1993).
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Saturae - Commento, fr. II (= Sat. 2 V.2) 91

Sat. II (= Sat. 2 V2)

A partire da Gulielmus 1583, 160, tutti gli editori, pur divergendo nella costi-
tuzione del testo e nell’interpretazione metrica, sono concordi sul significato com-
plessivo del frammento: si tratta di un’ammonizione a concedere senza indugio i
benefici promessi. Il motivo era assai frequente nella letteratura antica e trovava
forma nel proverbio secondo il quale chi dà in fretta è come se desse due volte
(cfr. al riguardo Anette Erler, Zur Geschichte des Spruches Bis dat, qui cito dat,
«Philologus» 130, 1986, 210-220: a p. 211 un fugace accenno al passo di Ennio
che, stando ai dati della Erler, risulterebbe l’unico a testimoniare il detto fino a
Publilio Siro; cfr. inoltre le testimonianze registrate in Otto 1890, p. 55 s. v. ‘be-
neficium’, e Nachträge zu Otto 97, 140, 2331).
Pur partendo da questo presupposto comune, gli editori tuttavia offrono solu-
zioni divergenti ai singoli problemi posti dal frammento. Innanzitutto, per quan-
to riguarda il testo, bisogna osservare che, di norma, quidquid è un pronome in-
definito relativo che dovrebbe quindi servire a collegare due proposizioni e dun-
que due verbi (cfr. Plaut. Men. 946 propere quidquid facturu’s face): nel nostro
frammento appare invece un verbo solo (des). Per conservare il testo tràdito sen-
za introdurvi una seconda forma verbale si è cercato di attribuire a quidquid un
valore non relativo ritenendo che il pronome fosse utilizzato, come si è ipotizzato
in altre sue ricorrenze, con il valore del distributivo quidque: è questa in sostanza
l’ipotesi di Vahlen che, nell’apparato critico della seconda edizione, difende il te-
sto tràdito (già accolto ma non giustificato nella prima edizione) con queste paro-
le: «quidquid intelligo quidquid est»2; il frammento dovrebbe quindi essere inteso
così: «purché tu dia ogni cosa rapidamente»3. Quest’uso sintattico di quisquis /
quidquid, che appariva già lambiccata a L. Müller 1884, 207, è ora ritenuto da
Courtney 1993 «less probable» rispetto a un’altra proposta che vedremo tra poco
e, in effetti, appare, allo stato attuale della discussione, assai incerta4.

1 Lo stesso motivo è presente anche nel frammento che Seneca (ben. 2, 5, 2) attribuisce a un comico sen-

za specificarne il nome, ma che doveva evidentemente essere famoso (Seneca lo presenta come ille comicus): Inc.
inc., com. 85-86 R.3 quid? tu non intellegis / <beneficiis> tantum gratiae te demere, quantum morae adicis?
2 Che con questa formulazione Vahlen facesse riferimento all’ipotesi quidquid = quidque è dimostrato dal

fatto che l’origine della presunta equivalenza tra i due pronomi era spiegata appunto con l’ellissi, fra l’altro, di
est: cfr. ad es. Schmalz-Hofmann, Lateinische Grammatik, München 19295, 487: «So ist quisquis (quidquid [...])
durch Ellipse von est, fieri potest uä. zur Bedeutung von quisque gekommen [...] wohl zunächst im Neutrum».
Il testo di Vahlen è accolto anche da Traglia 1986 (sulla cui interpretazione vedi sotto).
3 Traglia 1986, 365, sulla base del testo di Vahlen, e pur accettando in n. 3 la tradizionale interpretazione

“sentenziosa” del frammento vista sopra, traduce: «purché mi dia qualsiasi cosa, sbrigati a darmela»: dunque
Traglia lega dum a quidquid anziché, come è necessario per ricondurre il nostro frammento al motivo della rapi-
dità con cui bisogna concedere i benefici, a des celere: questa traduzione trova una curiosa corrispondenza con
l’interpunzione dum quidquid, des celere (dunque con virgola dopo quidquid) che si è stranamente introdotta nel-
la ristampa anastatica dell’edizione del Vahlen uscita nel 1963, ma che non si trova nell’edizione originale del
1903 né nella ristampa anastatica del 1928. Eppure Traglia nel testo latino non pone alcuna virgola e dunque non
sembra dipendere dalla ristampa vahleniana del 1963.
4 L’equivalenza quisquis = quisque è data per certa da HSz 201-203 i quali tuttavia citano senza discutere
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92 Le opere minori di Ennio

Per questa ragione ritengo per ora più cauto – ed è anche la strada tentata più
di frequente dagli editori – mantenere il valore relativo di quidquid e introdurre
quindi congetturalmente un secondo verbo (una voce di dare) o correggendo il te-
sto – come quasi sicuramente proponeva di fare il Gulielmus 1583, 1605 – o inte-
grandolo con una voce verbale prima di des; in questo modo, fra l’altro, avremmo
in Ennio un giro di frase analogo a quello che si ritrova in Plaut. Epid. 284 calide
quidquid acturu’s age e Men. 946 propere quidquid facturu’s face: anche in entram-
bi questi passi oltre a quidquid si trovano: 1) un avverbio che, come celere nel no-
stro frammento enniano, significa “rapidamente, in fretta” (calide e propere); 2) il
susseguirsi di due forme dello stesso verbo (per di più sempre alla seconda per-
sona singolare: acturu’s age e facturu’s face).
Tra le integrazioni proposte la più economica – almeno dal punto di vista pa-
leografico – è quella seguìta anche da Courtney 19936: introdurre un secondo
<des>, di origine – pare – congetturale7 ma la cui caduta nella tradizione mano-
scritta può essere facilmente giustificabile per aplografia. L’economicità della cor-
rezione rende il congiuntivo <des> preferibile all’indicativo <das> (proposto da
Bergk 1884, 305) che pure sarebbe il modo verbale normalmente usato con qui-
squis / quidquid: come rileva Courtney, l’uso del congiuntivo (con valore eventua-
le) si può giustificare benissimo in un frammento che, come si è visto, si presume

P. Ferrarino, Cumque e i composti di -que, «Memorie della R. Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna,
Cl. Scienze Morali» s. IV, 4, 1941-42, 1-242: 144-173 dove si trova nn’approfondita discussione per dimostrare
che quisquis non risulta mai equivalente a quisque: quelle di Ferrarino sono «grandi e fitte pagine di non facile
lettura, nemmeno per noi italiani, e perciò all’estero più citate che utilizzate» (A. Traina, Pietro Ferrarino, in Poe-
ti latini (e neolatini), III, Bologna 1989, 291-310 [rist. di un lavoro pubbl. originariamente nel 1987]: 297). Sul-
la questione è ritornato G. Calboli, Quisquis et quisque, «Ciceroniana» 1, 1959, 106-122.
5 Per la verità a Gulielmus 1583 sono stati attribuiti due diversi interventi sul testo tràdito: 1) la correzio-
ne di dum in da o dane (Gerlach-Roth, ed. di Nonio, 1842, nell’app. ad loc.; Vahlen 1854; L. Müller, nell’ed. di
Ennio, 1884, dove accoglie Da nel testo: come si è visto, L. Müller cambierà idea nella sua edizione di Nonio, di
4 anni successiva); 2) l’integrazione da dopo des (L. Quicherat nell’app. ad loc. della sua edizione di Nonio,
1872); addirittura un altro intervento, distinto dai precedenti, sembra di doversi ricavare dal modo con cui Co-
lonna 1585 riferisce la proposta di Gulielmus «DES] Janus Gulielmus […] legit da, aut dane»: dunque sembre-
rebbe che Gulielmus proponesse di correggere il tràdito des in da o dane): questa confusione è determinata dal
modo non del tutto esplicito con cui Gulielmus avanza la propria proposta testuale («Scribe, Da, aut Dane, et
respondebunt haec proverbio, quod vulgi in ore iam diu versatur, bis dare eum qui cito dat»): ma le parole di
Gulielmus non possono che indicare una correzione (di dum in da o dane, quest’ultimo proposto proprio per ri-
manere paleograficamente vicini al testo tràdito che si vuole correggere): come si potrebbe mantenere dum se si
introducesse dane (=das e l’enclitica interrogativa -ne)?
6 Che anche in questo caso segue tacitamente Baehrens 1886.
7 Courtney stampa <des> des con segno di integrazione congetturale anche se, in apparato, attribuisce que-
sto testo a «codd. recc.» a cui evidentemente, per ragioni non specificate, non viene dato in questo caso valore
di tradizione: è la stessa scelta editoriale di Lindsay (l’ultimo editore della fonte Nonio) alla cui autorità eviden-
temente Courtney si appoggia. Nell’ed. di Nonio di Gerlach-Roth 1842 si attribuisce <des> des a un «ms. Pa-
lat.» non meglio precisato: indicazione ripresa nell’indicazione noniana di Quicherat (anche qui mancano indi-
cazioni più precise) il quale tuttavia afferma che <des> des è stato proposto anche da J. Passerat, Coniecturarum
liber, Parisiis 1612, a me inaccessibile. A questa integrazione si riferisce Vahlen quando, nell’apparato della sua
seconda edizione, afferma «quidquid des, des olim corr.» dove «olim corr.» dovrà essere sciolto in qualcosa co-
me ‘olim corrigebatur’ e non deve essere inteso, come mi pare si potrebbe equivocare, che la correzione era sta-
ta proposta da Vahlen stesso nella prima edizione.
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Saturae - Commento, fr. II (= Sat. 2 V.2) 93

esprimere una sentenza di carattere generale e che, in quanto tale, viene rivolta a
una persona indeterminata (indicata, come molto spesso, con il “tu” impersonale).
E direi che se l’interpretazione “sentenziosa” del frammento legittima l’intro-
duzione del congiuntivo <des>, la maggiore economicità paleografica di <des>
rende a sua volta più probabile l’interpretazione “sentenziosa” del frammento,
che certo è assai attraente e plausibile, ma che non mi pare possa essere conside-
rata a priori così sicura come è apparsa a molti editori: tanto meno sicura doveva
apparire agli editori che hanno introdotto, in luogo del congiuntivo <des>, forme
del verbo all’indicativo (non solo <das> di Bergk già menzionato, ma anche dabis
di L. Müller, su cui torneremo più avanti). È bene ricordare, infatti, che la man-
canza di un contesto può di per sé contribuire a dare un indebito tono sentenzio-
so alle parole enniane: non mi pare infatti che si possa escludere con assoluta si-
curezza che il frammento, se lo leggessimo nel suo contesto di provenienza, si con-
figuri semplicemente come un brusco invito – espresso all’interno di un dialogo
tra due personaggi – a spicciarsi a dare una qualsiasi cosa, e non una considera-
zione gnomica sul modo di fare benefici. Anche nel caso dei due passi plautini che
abbiamo avuto occasione di citare sopra, se non avessimo il contesto di prove-
nienza, si potrebbe pensare a frasi dal tono sentenzioso (particolarmente affine a
quello supposto per il frammento enniano risulterebbe Men. 946 propere quidquid
facturu’s face che potrebbe essere accostato a Sen. ben. 2, 5, 4 omnis benignitas
properat et proprium est libenter facientis cito facere): ma, nel passo dei Menecmi
ora citato, si sollecita un medico a intervenire rapidamente in qualsiasi modo per
curare un presunto pazzo e, nel passo dell’Epidico, si esprime un pressante invito
a realizzare un inganno.

Altro problema discusso (e variamente risolto) del frammento riguarda il me-


tro. Con l’integrazione <des> otteniamo un ineccepibile inizio di senario giambi-
co, che invece non potremmo avere se conservassimo il testo tràdito: le due ulti-
me sillabe di celere costituirebbero un elemento bisillabico in fine di parola e dun-
que avremmo un’infrazione alla norma di Hermann-Lachmann. Ma questa consi-
derazione non è una ulteriore ragione che deve indurre a una integrazione con-
getturale metri causa, come invece potrebbe indurre a pensare Courtney quando
afferma che il frammento è «no doubt iambic». In realtà il testo tràdito sarebbe
perfettamente scandibile come inizio di settenario trocaico; ed è anzi proprio con
l’intento di conservare questa scansione che si spiega la riluttanza che alcuni edi-
tori hanno avuto nell’accogliere la semplice congettura des – che pure era nota già
da tempo (almeno a partire dal 1842: cfr. n. 7) – anche a costo di soluzioni paleo-
graficamente meno economiche: questa considerazione si può applicare sia all’in-
certa interpretazione sintattica di quidquid che, come abbiamo visto sopra, è sta-
ta proposta da Vahlen, sia alle scelte testuali di L. Müller, che nell’edizione di En-
nio del 1884 accogli la correzione di dum in da, e nell’edizione di Nonio del 1888
mantiene – come già Vahlen 1854, ma staccandosi da Baehrens 1886, che stam-
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94 Le opere minori di Ennio

pava <des> des – il testo tràdito, e in apparato lo difende con un’interpretazione


analoga a quella che Vahlen offrirà nella sua seconda edizione e in alternativa pro-
pone in apparato l’integrazione <dabis> des che mira, ancora una volta, a ristabi-
lire una scansione trocaica. La ragione che li ha indotti a conservare questa scan-
sione non viene indicata da Vahlen e da Müller, ma forse si può ipotizzare: il tono
e il contenuto sentenzioso unanimente attribuito al frammento sono analoghi (an-
che nella forma, con l’uso del “tu” impersonale) a quelli che si ritrovano nei due
versi, provenienti anch’essi dalle satire enniane, che costituiscono la morale fina-
le della favola dell’allodola (Sat. XIb) e che sono sicuramente in settenari trocaici.
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Saturae - Commento, fr. III (= Sat. 3-4 V.2) 95

Dal libro II
Sat. III (= Sat. 3-4 V2)

Prima che nell’editio princeps della fonte Servius Auctus (a cura di P. Daniel,
Parisiis 1600) il testo di questo frammento comparve già nelle Castigationes in Fe-
stum di G.G. Scaligero (1575; ‘recognitae et auctae’ 1576). Qui (1575, II, XLV =
1576, XLVIII) tuttavia compare un testo (inde loci liquidas pilatasque aeteris oras /
contemplo) diverso da quello stampato in séguito dal Daniel e riconfermato dal
Thilo (contemplor / inde loci liquidas pilatasque aeteris oras: nello Scaligero si leg-
ge contemplo e non contemplor1; tale verbo, inoltre, dallo Scaligero viene posto al-
l’inizio del verso successivo a inde loci liquidas pilatasque aeteris oras, mentre il
Daniel lo colloca alla fine del verso precedente).
Il testo fornito dal Daniel, come ho potuto verificare con una collazione perso-
nale su un microfilm del codice decisivo per questa parte del commento servia-
no2, rispecchia il testo tràdito ed è senz’altro da accogliere. Il testo indicato dallo
Scaligero non ha alcun valore di tradizione autonoma3 e andrà imputato a errore
o, meno probabilmente, a intervento congetturale di Scaligero stesso4: tuttavia la
divergente citazione da parte dello Scaligero ha avuto per lungo tempo influenze
negative sull’esatta costituzione del testo, come risulta da quanto osservo qui in
nota5.

1 Sbagliata quindi la lezione contemplor nella ristampa delle ‘castigationes’ dello Scaligero nell’ed. ‘cum no-

tis variorum’ curata da Mercier (delle varie ristampe di quest’opera ho visto quella Amstelodami 1699).
2 Si tratta del codice indicato da Thilo con F e costituito da due parti oggi separate (Bern. 172 + Paris. lat.

7929: in quest’ultima parte si trova il fr. di Ennio [e anche il fr. Host. 1 che Courtney in app. crit., p. 53, assegna
invece al Bern. 172]). Oltre a F il Thilo utilizza anche T, codice che, tuttavia, anche in questo caso, offre rispet-
to a F una versione molto ridotta del commento e priva, tra l’altro, della citazione del passo enniano.
3 Lo Scaligero stesso afferma di dipendere dal Servio «Danielis nostri»: su questa testimonianza cfr. sopra

p. 000.
4 Un intervento congetturale si potrebbe giustificare con l’intento di eliminare l’esametro spondiaco (con

la trasposizione di contemplo dalla sede finale alla sede iniziale d’esametro) e di adeguare la dizione del fram-
mento alla preferenza degli autori arcaici per le forme attive di contemplo rispetto a quelle deponenti (cfr. sotto
comm. a contemplor). Nonostante questo, propendo per l’errore: in altri casi Scaligero nelle castigationes, quan-
do avanza delle congetture, lo segnala esplicitamente (cfr. ad es. Scaliger 1576, XCIV, 14 a proposito di Serv.
Dan. ad Aen. 4, 200).
5 Nell’edizione di Colonna (1585-86), precedente all’edizione del Daniel (1600), il frammento compare ov-

viamente «ut tradit Scaliger ex Schedis P. Danielis nondum editis»: l’autorità del Colonna ha fatto sì che per lun-
go tempo, anche dopo l’edizione serviana del Daniel (e persino dopo quella di Thilo, 1884, che ribadiva il testo
dato dal Daniel), il frammento enniano continuasse a scriversi secondo il testo fornito dallo Scaligero o in una
forma compromissoria con il testo dato dal Daniel: … oras / contemplor Vahlen 1854 (il quale in app. cr. affer-
ma che il fr. è dato dallo Scaligero che a sua volta dipende «a Servio, ut videtur, Danielis» [corsivo mio]); stesso
testo in Müller 1884 (che non segnala nulla in apparato) e Baehrens 1886 (in app. indica la trasposizione di con-
templor [sic] come congettura di Scaligero). Il testo corretto in Vahlen 1903 e in Courtney 1993: a questa scelta
il Vahlen sarà stato indotto probabilmente anche dalla sorpresa di vedersi attribuire da Thilo (1884), in app. crit.,
la paternità della variante che in realtà risaliva allo Scaligero. In Bolisani la trasposizione di contemplor viene con-
siderata (p. 130) congettura di Müller ed è per di più difesa con argomenti che non argomentano nulla. Havet
1890, 48 propose di scandire il frammento come un dimetro anapestico e un paremiaco (vedi app. critico) con
contemplor secondo la prosodia arcaica.
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96 Le opere minori di Ennio

Tutto ciò che possiamo affermare con sicurezza riguardo al questa coppia in-
completa di esametri – provenienti (come ci dice la fonte del frammento) dal se-
condo libro delle satire – è che in essi qualcuno, in prima persona, afferma di con-
templare (contemplor) la volta celeste, di cui viene fornita una breve descrizione
(liquidas pilatasque aeteris oras). Non possiamo affermare con sicurezza, come
presupponeva implicitamente Puelma Piwonka (1949, 182), che la voce narrante
(e dunque il soggetto di contemplor) fosse lo stesso Ennio (inteso sia come autore
che come personaggio): anche in questo caso (come verosimilmente altrove nelle
satire enniane: cfr. sat. 6-7) possiamo presupporre che a parlare sia un personag-
gio distinto da Ennio, magari all’interno di un dialogo.
È possibile ipotizzare che nel nostro frammento inde loci significhi «da lì», e
che dunque la voce narrante abbia fatto riferimento – nelle parole precedenti a
quelle tramandate – a un luogo specifico da cui la contemplazione del cielo vie-
ne effettuata: così interpretano senz’altro Puelma Piwonka 1949, 182 («Hier
scheint Ennius [...] einen Standort zu zeichen») e Scholz 1986, 43 (per il quale il
narratore «von einem bestimmten Ort aus den Himmel betrachtet»); ad attri-
buire valore spaziale a inde loci Puelma Piwonka sarà stato indotto probabil-
mente anche dal confronto, da lui addotto, con un passo dell’Euhemerus ennia-
no di cui risulta problematico stabilire con sicurezza il testo (sintatticamente pe-
sante e con ripetizioni sospette), ma non il senso generale: si parla di Giove (non
«Pan», come afferma erroneamente Puelma Piwonka) che, dopo essere salito sul-
la cima di un monte, osserva prima la terra, e poi alza lo sguardo verso l’aeter a
cui, in onore del suo avo Urano (Oujranov"), assegna il nome caelum (Var. 100 ss.
V.2: Postquam eo ascendit contemplatus est late terras […] In eo loco suspexit in
caelum quod nunc nos nominamus, idque quod supra mundum erat quod aeter uo-
cabatur, de sui aui nomine caelo nomen indidit, idque Iuppiter quod aeter uocatur
placans primus caelum nominauit); anche qui, come si vede, avremmo una se-
quenza narrativa se non identica, molto simile (raggiungimento di un luogo da
cui poi viene effettuata la contemplazione del cielo) a quella ipotizzabile nel no-
stro frammento. Ma il valore spaziale di inde loci richiesto da questa interpreta-
zione non è sicuro (cfr. commento sotto), e non può essere stabilito sulla base del
confronto con il passo dell’Euhemerus ora citato, la cui somiglianza formale con
il nostro frammento non è affatto «frappant», come afferma Puelma Piwonka: in
due passi in cui si parla dell’osservazione del cielo non sorprende che si ripre-
sentino termini come contemplari e aeter, tanto più che contemplari nel passo del-
l’Euhemerus ha come oggetto terras e non, come invece nel nostro frammento, le
a e t e ri s o ra s .
Puelma Piwonka 1949, 182 s. (con cui concorda Waszink 1972, 134 s.) ritiene
inoltre che la contemplazione del cielo di cui si parla nel nostro frammento sa-
rebbe qui associata a una esposizione peri; fuvsew" che, come in altre opere en-
niane (Annales, Epicarmus), avverrebbe tramite un sogno: ma si tratta di un’ipo-
tesi priva di argomenti probanti (bene su questo punto Scholz 1986, 43 e n. 59),
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Saturae - Commento, fr. III (= Sat. 3-4 V.2) 97

e d’altro canto rappresentazioni del cielo attraverso elaborate immagini si ritrova-


no assai numerose in tutte le opere enniane6, senza che questo implichi anche una
più ampia trattazione di carattere scientifico. Come pura ipotesi, si potrebbe pen-
sare che la descrizione della volta celeste in questo passo delle satire enniane rien-
tri all’interno di una polemica contro le speculazioni astronomiche e astrologiche,
secondo un motivo presente anche in Enn. sc. 244 V.2 = tr. 187 Joc. quod est ante
pedes nemo spectat, caeli scrutantur plagas (si ricordi che contemplor è derivato da
templum, termine proprio in origine del linguaggio augurale)7.

contemplor: come abbiamo visto, l’esatta costituzione del testo ha dovuto fati-
care per affermarsi contro la vulgata sorta con lo Scaligero. Ma è curioso notare
che il testo dello Scaligero viene riproposto, più o meno consapevolmente, in al-
cuni interventi congetturali che riguardano sia la posizione nel verso che la diate-
si di contemplor.
Secondo il testo tràdito contemplor dà luogo ad un esametro spondiaco che vie-
ne invece evitato nel testo di Scaligero, dove il verbo viene posto all’inizio di ver-
so. Ma un intervento congetturale in tal senso è inammissibile (si può citare – se
ci fosse bisogno di passi paralleli – il fr. Sat. VI).
Per quanto poi riguarda la diatesi, Jacobsohn (Th. l. L. 4, 650, 47 s.) congettura
contemplo invece del tràdito contemplor probabilmente per la testimonianza di Pri-
sciano, 392, 6 ss. H. apud uetustissimos … contra consuetudinem … contemplo pro
‘contemplor’: tale testimonianza porta Jacobsohn ad affermare (ibid., r. 23 s.) che
contemplo «legitur apud scaenicos, qui, si versu iudicare licet, ante Ter., activum so-
lum admittunt». Quest’ultima affermazione è falsa. Lasciamo stare il caso di Plau-
to8: in un frammento tragico dello stesso Ennio abbiamo la forma deponente, ga-
rantita dal metro, corpus contemplatur unde corporaret uulnere di Sc. 114 V.2 (= 115
Joc.); la forma deponente anche in Enn. Var. 38 V.2 contemplatus est.

inde loci: loci è genitivo partitivo dipendente dall’avverbio inde secondo un sin-
tagma assai frequente in latino arcaico; come in molte altre sue ricorrenze, anche
in questo caso (come rileva Skutsch 1985, 177) è difficile scegliere tra valore spa-
ziale (“da lí”: così ad es. Traglia 1986; significato possibile nel nostro caso anche
per il Th. l. L. VII 2, 1584, 63) o temporale (“e quindi, dopo”: solo questo valore
inde loci avrebbe secondo KS I 435). HSz 53, poiché inde loci è frequentemente

6 Basti qui rinviare alla trattazione complessiva di Timpanaro 1996, 29-59 = 2005, 169-196.
7 Templum indica infatti originariamente ognuna delle regioni in cui, secondo la tecnica augurale, veniva-
no divisi il cielo e la terra: cfr. S. Timpanaro, in comm. a Cicerone, La divinazione, intr., trad. e comm. di S. T.,
Milano 19982, 255.
8 Che contemplor sia sempre attivo in Plauto (a parte il caso isolato del Poen. cit. sotto) è luogo comune: ma

questa norma è frutto di una radicale omologazione delle numerose oscillazioni dei codici tra forma attiva e de-
ponente (così P. Langen, Beiträge zur Kritik und Erklärung des Plautus, Leipzig 1880, 60 seguito anche da Lind-
say, ma criticato da Lodge I 305 s.). Tra i passi dove la forma deponente dovrebbe o potrebbe essere introdotta
cfr. Most. 831; Cis. 702; Persa 548 (in questi versi le forme deponenti vengono accolte ora da Flobert 1975, 77).
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98 Le opere minori di Ennio

usato in Plauto e Terenzio, lo ritengono tipico dell’Umgangssprache. Di parere


opposto sono invece Waszink 1972, 134 (che per la verità non sembra conoscere
l’opinione di HSz al riguardo) e Petersmann 1999, 293 (che invece prende le mos-
se da HSz, ma ignora, a quanto pare, di essere stato preceduto da Waszink): per
sostenere la tesi dell’appartenenza del sintagma «to the genus sublime», Waszink
si richiama ai 2 casi di inde loci presenti in Ennio epico (Ann. 19 e 544 Sk. = 22 e
530 V.2), ai quali Petersmann – che considera inde loci «an archaic construction
belonging to solemn style» – aggiunge i 3 casi in Lucrezio (5: 443, 741, 791) e
quello in Cicerone poeta (Arat. 327).
Sulla base di questi dati, Petersmann utilizza il nostro frammento (assieme a Sat.
VI e Sat. 66 V.2) per documentare la presenza di uno stile elevato all’interno delle
satire enniane; ma bisogna osservare che il ricorrere di un’espressione come inde
loci negli Annales non è di per sé garanzia, come sembra invece presumere Peter-
smann, di un suo livello stilistico alto: Ennio accoglie nel suo poema espressioni
colloquiali o almeno non stilisticamente alte9, e credo che inde loci sia uno di que-
sti casi; la presenza di inde loci in Lucrezio e Cicerone, inoltre, si può spiegare in-
vece proprio come ennianismo. Di livello stilistico alto è invece, nel nostro fram-
mento, aeter (cfr. sotto) su cui invece stranamente Petersmann non si sofferma.

liquidas pilatasque: ha avuto fortuna l’interpretazione di Waszink 1972, 135


(ma l’idea era già in Puelma Piwonka 1949, 183 n. 3) per cui pilatas significhe-
rebbe (regioni del cielo) “appoggiate su colonne” secondo una tradizionale rap-
presentazione del cielo (Puelma Piwonka richiama la rappresentazione dell’uni-
verso come tempio in Cic. rep. 6, 15; Waszink si richiama a Hom. Od. 1, 53 s. e[cei
[scil. [Atla" dev te kivona" aujtov" / makrav", ai{ gai`anv te kai; oujrano;n ajm-
fi;" e[cousi; Courtney aggiunge Aesch. Pr. 348 s. o{" [scil. [Atla"] pro;" ejspev-
rou" tovpou" / e{sthke kivon’ oujranou` te kai; cqonov"; Ibycus 55 = 336 PMG
I[ buko" de; ejpi; tw`n to;n oujrano;n bastazovntwn kiovnwn, eujmegevqei" levgwn;
cfr. anche Herod. 4, 184.)
Io credo invece opportuno ritornare all’interpretazione tradizionale di pilatas =
‘compresse, rigide’, interpretazione che, come aveva intravisto I. Cazzaniga, si giu-
stifica tenendo presente la concezione del cielo come involucro rigido conseguen-
za di materia (di solito l’aria10) condensata11; si tratta di un’idea molto diffusa12:

9 È questa, a mio avviso, la vera ragione per cui «inde loci ist nicht schon wegen zweier Annalen-Belege [...]

epischhoch stilisiert», come a Waszink ha obiettato anche Scholz 1986, 44 n. 1 ma senza addurre argomentazio-
ni chiare (tale non può essere considerata l’osservazione che Scholz fa seguire immediatamente alle parole cita-
te e per cui «der Zusatz loci präzisiert den lokalen Aspekt von inde»; fra l’altro questa affermazione riguardo al
valore esclusivamente locale di loci, a prescindere dalla sua rilevanza per quanto riguarda il livello stilistico del-
l’espressione, è imprecisa: cfr. sopra nel testo).
10 Cfr. ad es. M. R. Wright, Cosmology in antiquity, London - New York 1995, 109-125.
11 Cfr. I.Cazzaniga, Le metafore enniane relative a cielo e stelle ed alcuni placita di tradizione anassimeno-em-

pedoclea, «La parola del passato» 26, 1971, 102-119: 108 s.


12 Cfr. ad es. M. Untersteiner in Parmenide. Testimonianze e frammenti, Firenze 1959, 179 s.
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Saturae - Commento, fr. III (= Sat. 3-4 V.2) 99

a Ennio poteva derivare da Empedocle (cfr. 31 A 51 D.-K.: E j mpedoklh`" ste-


revmnion ei\nai to;n oujrano;n ejx ajerv o" sumpagevnto" uJpo; puro;" krustal-
loeidw`", to; purw`de" kai; to; ajerw`de" ejn eJkatevrw/ tw`n hJmisfairivwn periev-
conta («Per Empedocle, consolidato sarebbe il cielo, da aria condensata dal fuo-
co, in forma cristallina, racchiudente la componente ignea e quella aerea in ciascu-
no dei due emisferi» trad. Lami 1991); una tale concezione è presupposta in altre
rappresentazioni enniane del cielo13; con pilatas = “compresse”, inoltre, il verbo pi-
lare non solo mantiene il valore di “comprimere” che si ritrova in tutte le altre ri-
correnze del termine (testimoniate da Servio Dan.: cfr. il passo sopra) ma richiama
anche da vicino il verbo pilevw e derivati che nei fisici greci appare specializzato
per indicare la compressione della materia (cfr. l’indice in D.-K. s. v.14).

aeteris oras: in epoca arcaica aet(h)er si trova anche in Ann. 545 Sk.=531 V.2;
Var. 103 V.2 (è il passo dell’Euhemerus citato sopra); Pacuu. tr. 89 R.3 id quod no-
stri caelum memorant, Grai perhibent aetera; Lucil. 1 M.; anche le attestazioni dal-
l’Euhemerus e da Pacuvio ora indicate dimostrano che aeter venne sentito come
grecismo almeno fino a epoca ciceroniana e «rimase sempre parola estranea all’u-
so corrente, scritta piuttosto che parlata» (A. Lunelli, in Enc. Virg. s. v. “aer/ae-
rius; aeter/aeterius; aethra”, I [1984] 38-41: 39); il nesso aeteris oras ricorre 8 vol-
te in Lucrezio (in 5, 683, come nel nostro frammento, in finale di verso: con buo-
na probabilità, tuttavia, Waszink 1972, 135 ne deduce che Lucrezio trasse questa
espressione, più che dal nostro passo delle satire, da qualche verso non pervenu-
toci degli Annales enniani).

13 Cfr. Ann. 145 Sk. (=159 V.2) caelum prospexit stellis fulgentibus aptum cioè “cielo in cui sono ‘conficca-

te’ le stelle” (così già S. Timpanaro 1988, 265; su questo passo si veda anche Timpanaro 2005 [art. del 1996],
192 s., dove fra l’altro si corregge giustamente una mia precedente ipotesi sull’origine di questa immagine): una
tale rappresentazione delle stelle si spiega appunto presupponendo una concezione del cielo come involucro
rigido.
14 Con cautela menziono la pur interessante testimonianza sempre riguardo a Empedocle 31 A 51 D.-K.

(dagli SCHOL. BASIL. 22): jEmpedoklh`" de; uJdropagh` [scil. to;n oujranovn] kai; oiJonei; krustallw`de" pivlhma
«Empedocle dice che il cielo è condensato di acqua e come un feltro cristallino» (trad. di G. Giannantoni, in
I presocratici. Testimonianze e frammenti, a c. di G. G., Roma-Bari 1979, I 349): sarebbe qui notevole l’uso di
pivlhma a proposito della concenzione del cielo rigido in Empedocle. Ma pivlhma è introdotto da Diehls: il pri-
mo ed., G. Pasquali, «Nachrichten der K. Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, Philol.-histor. Klasse»
1910, 194-228 (= Scritti filologici, Firenze 1986, I, 539-574 da cui cito), leggeva ejpeivlhma (cfr. p. 545).
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100 Le opere minori di Ennio

Sat. IV (= Sat. 5 V2)

Per questo settenario trocaico1 sono state proposte varie ipotesi di contestua-
lizzazione: W. Zillinger, Cicero und die altrömischen Dichter, Würzburg 1911, 87
pensava che il frammento si riferisse ai preparativi di due gladiatori come nel fr.
adespoto in Cic. Tusc. 4, 48 conloquuntur, congrediuntur, quaerunt aliquid, postu-
lant – anch’esso, secondo Zillinger, appartenente al II libro delle satire enniane –:
ma l’unica somiglianza che riesco a vedere tra i due frammenti è nel procedimen-
to stilistico di accumulazione dei verbi; per Weinreich 1949, 5 il nostro fr. pro-
verrebbe dalla descrizione di una scena di battaglia: ma vedi le giuste obiezioni di
Scholz 1986, 44, il quale a sua volta ritiene che il nostro frammento descriva la for-
te opposizione con cui, all’interno di un’assemblea o in situazioni analoghe, viene
accolta una decisione (così anche Petersmann 1999, 296). Questa ultima proposta
è interessante perché, come rileva Scholz, anche in altri casi molti dei verbi che
compongono il frammento sono utilizzati nel significato traslato di ‘opporre resi-
stenza, protestare, obiettare’ (cfr. anche sotto, comm. a restitant e a obstrigillant).
Ritengo tuttavia più probabile l’ipotesi che il frammento descriva la vita tumul-
tuosa di città (cfr. Bolisani cit. sopra; Puelma Piwonka 1949, 186 n. 2 che rinvia a
Lucil. 1228 ss. M. = 1252 K.; Waszink 1972, 131; Traglia 1986, 365): più in parti-
colare, Coffey 1989, 29 ha proposto di vedere nel frammento il lamento di un ser-
vus currens; questa proposta è supportata da precisi riscontri di forma e di conte-
nuto in analoghe scene della palliata: cfr. Plaut. Curc. 290 s. constant, conferunt
sermones inter se<se> drapetae / obstant, obsistunt, incedunt cum suis sententiis2.
Sulla scia dell’ipotesi di Coffey, tuttavia, avanzerei anche l’ipotesi che a lamentar-
si per la folla che non consente di procedere per le vie della città possa essere En-
nio stesso, secondo un motivo che, pur con diverse sfumature, si lascia individua-
re nella successiva tradizione satirica: cfr. Hor. sat. 2, 6, 27-31 (postmodo quod mi

1 Esametro secondo Bolisani 1935 che ha l’intento (non esplicitato) di ricondurre allo stesso contesto que-

sto e l’altro frammento – sicuramente in esametri – del II libro delle Satire (fr. II): in questo modo Bolisani ot-
tiene una (p. 33) «bella rappresentazione della quiete celeste, contrapposta al tumultuare della vita cittadina» de-
scritto nel nostro frammento. Per ottenere un esametro nel nostro caso, tuttavia, Bolisani deve ricorrere a inac-
cettabili interventi sul testo (res[ti]tant, occursant, [obstant], obstringillant, [ou]agitant<ue>): res[ti]tant perché
restito sarebbe aJpv ax in Ennio (ma questa osservazione, già discutibile in un autore che ci sia giunto per intero,
è del tutto insufficiente per cambiare un testo giuntoci in frammenti: tanto più che restitat bisogna leggere con
tutta probabilità anche in un passo tragico di Ennio: cfr. sotto, nota a restitant; proprio le ragioni addotte da Bo-
lisani, inoltre, fanno di restant una banalizzazione: non si spiega come restitant avrebbe potuto introdursi nella
trad. manoscritta; [obstant] perché (anche se Bolisani non si esprime chiaramente) ripetizione e glossa di obstri-
gillant (ma il passo così com’è tràdito presenta una ricercata accumulazione sinonimica in cui si intreccia il gio-
co fonico (allitterazioni e omeoteleuti); con agitant<ue> per obagitant verrebbe menomata l’allitterazione; non
basta a giustificare occursant per occurrunt né l’accentuazione dell’omeoteleuto che così si otterrebbe (per que-
sta ragione L. Müller 1884 proponeva occursunt) né – come voleva Bolisani (130) – l’adeguamento di occurrunt
alle forme frequentative degli altri verbi del frammento (per occurrunt da respingere anche la congettura obdu-
rant con cui Baehrens 1886 voleva introdurre un sinonimo degli altri verbi).
2 Il passo a cui si richiama Courtney (Lucil. 264 M. rador, subuellor, desquamor, pumicor, ornor, / expolior,

pingor) presenta un’analogia esclusivamente sul piano formale (accumulazione verbale: in Lucilio si parla della
cosmesi di una donna).
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Saturae - Commento, fr. IV (= Sat. 5 V.2) 101

obsit clare certumque locuto / luctandum in turba et facienda iniuria tardis. “Quid
uis, insane?” et “quas res agis?” improbus urget / iratis precibus; “tu pulses omne
quod obstat / ad Maecenatem memori si mente recurras?”; e Iuu. 3, 243-8 (nobis
properantibus obstat, / unda prior, magno populus premit agmine lumbos / qui se-
quitur; ferit hic cubito, ferit assere duro / alter, at hic tignum capiti incutit, ille me-
tretam. / Pinguia crura luto, planta mox undique magna / calcor, et in digito clavus
mihi militis haeret). Lievemente differente dalla nostra è la proposta di Warming-
ton che ritiene che il nostro frammento si riferisca a degli «impiccioni»: il lamen-
to per le strade affollate sarebbe associato a quello di essere continuamente fer-
mato per strada (qualcosa di analogo nel passo oraziano che segue immediata-
mente quello citato sopra).

restitant: restito ha il significato traslato di “opporre resistenza” nell’unica altra


occorrenza in Ennio (Sc. 224 V.2 = tr. 203 Joc.: Menelaus me obiurgat; id meis re-
bus regimen restitat [Bentley: resistat cd.]). Se, tuttavia, si accoglie la contestualiz-
zazione del frammento ribadita qui sopra, bisogna presupporre che restito, fre-
quentativo di resto, mantenga il suo significato proprio di “fermarsi continua-
mente” accezione che si ritrova, ad es., in Plaut. merc. 122 quam restito (Bentley:
resisto cdd.), tam maxime res in periclo uortitur (si tratta di parole pronunciate da
un personaggio che si lamenta perché la gente lo ostacola per strada a tal punto
che lo costringe a fermarsi continuamente); anche nell’unica altra ricorrenza plau-
tina restito è usato in un contesto in cui qualcuno si lamenta della difficoltà di pro-
cedere per strada (Capt. 500 ss. … ubi quisque uident, / eunt obuiam gratulantur-
que eam rem. /ita me miserum restitando retinendo lassum reddiderunt: ma qui
restito è usato, parrebbe, transitivamente).

obstrigillant: è per documentare l’uso di questo termine che il frammento en-


niano, assieme ad altri 3 di Varrone, viene citato da Nonio in un lemma che co-
stituisce la nostra fonte principale di conoscenza del verbo. Proprio per questa ra-
gione crea particolari diffiicoltà il fatto che, nella tradizione manoscritta del pas-
so noniano, la grafia del verbo presenta delle oscillazioni che si riflettono nelle va-
rie etimologie e spiegazioni che di tale parola sono state indicate in epoca moder-
na: in base alla grafia obstrigilandi attestata dai codici per Varr. r. r. 1, 2, 24, e a ob-
strigilatorem in Varr. Men. 436 B., si è ritenuto il verbo denominativo da strigilis:
obstrigilare indicherebbe l’uso dello strigile e quindi, metaforicamente, l’atto del-
lo strofinare e, in senso ostile, del danneggiare e del criticare aspramente3: tutta-
via oggi si ritiene più probabile seguire la tradizione manoscritta – che in tutte le
altre ricorrenze presenta unanimemente forme con due l 4 – e considerare quindi

3 Cfr. H. Kettner, Kritische Bemerkungen zu Varro und lateinischen Glossaren, «Progr. d. Klostersch. in Ros-

sleben» Halle 1868, 21, citato da L. Müller nell’app. cr. della sua ed. di Nonio, 1888.
4 Obstigillant anche in Sen. epist. 115, 6 corretto da F. Pincianus (Castigationes, Venetiis 1536, 83), con il

richiamo alla testimonianza di Nonio, in obstrigillant (accolto da tutti gli editori moderni).
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102 Le opere minori di Ennio

il verbo composto con il suffisso intensivo -illare (cfr. ad es. conscribillare; una trat-
tazione complessiva in A. Funck, Die Verba auf – illare, «Archiv für lat. Lexik.» 4,
1887, 68-87; 223-246: su obstri(n)gillare 228 s.).
I codici presentano inoltre un’ulteriore oscillazione tra obstring- (con la n) e ob-
strig- (senza n): Funck, cit., riteneva impossibile determinare quale delle due fos-
se la grafia esatta; il Lindsay, nella sua edizione di Nonio, accoglie obstrigillare nel
lemma, obstringillant nel nostro frammento, obstrigillat in Varr. Men. 264 B., ob-
strigillandi in Varr. r. r. 1, 2, 24, obstringillaturum in Varr. de vita pop. Rom. IV: si
tratta, come si vede, di una soluzione eclettica per la quale si alternano forme del
verbo con e senza n, e determinata, a quanto pare, dal criterio di attenersi a quel-
la che di volta in volta risulta la tradizione manoscritta stemmaticamente preva-
lente. È probabilmente su impulso di questa costituzione del testo da parte di
Lindsay che alcuni studiosi hanno sostenuto l’ipotesi per cui l’oscillazione ob-
string- / obstrig- risalirebbe agli autori stessi: la prima usata da Ennio, la seconda
a partire da Varrone: così E. Woytek (Sprachliche Studien zur Satura Menippea Var-
ros [Wiener Studien, Beiheft 2], Wien 1970, 124) seguito da J.P. Cèbe. Varron, Sa-
tires Ménippées, VII, Rome 1985, 1179). In problemi di ortografia come il nostro,
tuttavia, io ritengo più prudente non dare troppo peso alla tradizione manoscrit-
ta, che tra l’altro risulta incoerente anche nel testimoniare la forma con cui il ver-
bo veniva usata dallo stesso Varrone: in uno dei 3 esempi citati da Nonio risulta
infatti meglio attestata – e quindi, come si è visto, accolta nel testo da Lindsay –
la forma obstring-. Meglio, dunque, cercare di uniformare la grafia del verbo in
tutte le sue ricorrenze, tanto più che sulla base della presenza o meno della n so-
no state postulate due etimologie completamente diverse del verbo: Ernout-Meil-
let (s.v. ‘obstri(n)gillo), in base alla grafia obstring- ritengono il verbo «sans dou-
te» derivato da obstringo5. A mio avviso l’ipotesi preferibile resta tuttavia la deri-
vazione da strigare = “fermarsi”6: il significato è “fermarsi in mezzo alla strada
creando impaccio” (quest’ultima sfumatura è sottolineata, come molto spesso, dal
preverbio ob-: esemplificazione in K. Reissinger, Über Bedeutung und Verwendung
der Praepositionen ob und propter im älteren Latein, Landau 1897, 51 s.): tale va-
lore letterale si adatta perfettamente al contesto enniano7; è più facile spiegare il

5 Maggior perentorietà rispetto a Ernout-Meillet (dove per di più si indicava, seppure come «moins vrai-

sembable» la derivazione da striga che discuto dopo nel testo) mostrano successivi studi francesi: cfr. L. De-
schamps, Étude sur la langue de Varron dans les Satires Ménippées, Lille-Paris 1976, 611.
6 P. Persson, Beiträge zur indogermanischen Wortforschung, Uppsala 1912 [Skrifter utgifna af K. Humani-

stica Vetens Kaps-Sam fundet 10], 460 s. che, seppure bisognosa di approfondimento, resta la migliore tratta-
zione della questione: la tesi di Persson è accolta da Walde-Hofmann s. v. (dove si considera invece «unsicher»
il rapporto con stringo), dal Th. l. L. [IX 2, 250, 74] e dall’OLD s. v. che traduce con «to stand in the way, cau-
se obstruction».
7 Metaforico l’uso di obstrigillare in Varrone (in Men. 264 B. lex neque innocenti propter simultatem ob-
strigillat neque nocenti propter amicitiam ignoscit: si noti che obstrigillat compare – assieme alla serie di antitesi
tra innocenti e nocenti, simultatem e amicitiam – contrapposto a ignoscit) e in Seneca (epist. 115, 6 Nemo, inquam,
non amore eius arderet, si nobis illam uirtutem uidere contingeret; nunc enim multa obstrigillant et aciem nostram
aut splendore nimio repercutiunt aut obscure retinent). La connessione tra i due valori è illustrata da Isid. orig. 10,
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Saturae - Commento, fr. IV (= Sat. 5 V.2) 103

passaggio da obstrig- (basato sul raro strigare) a obstring- (per analogia del più dif-
fuso stringo) piuttosto che il processo inverso.

obagitant: i codici hanno la “vox nihili” ouagitant: la congettura obganniunt di


G. Colonna è stata rifiutata in favore della correzione obagitant, che viene accol-
ta unanimemente dagli editori moderni e attribuita a M. Bentinus8: certo que-
st’ultima congettura (da intendersi con il significato di «spingono» [Traglia]) è
particolarmente attraente per la sua economicità (inoltre il passaggio di -b- inter-
vocalico a -u- risulta facilmente spiegabile come errore fonetico di copisti); resta il
fatto che obagitant sarebbe a{pax assoluto: Bergk 1844, XVI (=1884, 232), sulla
base di Fest. 189 M. (obigitat antiqui dicebant pro ante agitat, ut obambulare), pro-
poneva la correzione obigitant9; questa congettura ha il merito di introdurre l’a-
pofonia che ci si attenderebbe con un composto di a±gito (per cui il Thesaurus s. v.
obagito [IX 2, 35, 15] afferma «desideratur obi-»). Con obigitant, d’altro canto, ri-
sulterebbe meno spiegabile il sorgere della corruttela ouagitat: la mancata apofo-
nia di obagitant, inoltre, potrebbe essere dovuta a un processo di ricomposizione
artificiale come si avrebbe in infertis = “vuote” in un altro frammento comune-
mente attribuito alle satire di Ennio (IX 2: ma cfr. comm. ad loc.)10.

199 obtrectator malignus et qui obstrigillando [– string – trad.] officiendoque non sinat quempiam progredi et
augescere.
8 Nell’ed. del Cornucopiae di N. Perotti e di opere grammaticali antiche (Varrone, Festo e Nonio); in ap-

pendice al libro compaiono le Castigationes in luculentissimos Nonii Marcelli commentarios, et obiter in M. Var-
ronis, et Festi Pompeij, quae quidem extant fragmenta, opera […] M. Bentini, Basileae 1526: questa ed. risulta
particolarmente rara (introvabile in Italia – come molte altre edizioni del ’500 pubblicate nella protestante Basi-
lea – ma anche all’estero) e a me è rimasta inaccessibile. Comunque questa edizione non deve essere confusa (co-
sì invece Courtney 1993, p. XXII, ma l’errore risale a una formulazione equivoca di H. Nettleship [The printed
editions of Nonius Marcellus, «Journal of Philology» 21, 1893, 211-232: 220] che dichiara comunque di non aver
visto l’ed. del 1526) con l’ed. aldina delle stesse opere (Venetiis 1527), che riporta sì le Castigationes del Benti-
nus, ma in appendice a un testo diverso (cfr. adesso il prezioso lavoro di Brown 1980: 474-477 che fornisce an-
che indicazioni su M. Bentinus che ancora a Barchiesi 1962, 165 risultava una figura oscura). Nelle Castigatio-
nes (che ho potuto vedere, oltre che nell’ed. Venetiis 1527, anche nella ristampa di tutto il volume di Bentinus,
Basileae 1536) non si fa cenno della congettura obagitant, che sarà stata quindi proposta nel testo: ma nell’ed. al-
dina del 1527 (come nella precedente del 1513), col. 1281, 14 si legge ancora ouagitant; nell’ed. del 1536, col.
1350, r. 38 si legge, per un errore di stampa, obaugitant.
9 Bergk ritiene che la glossa di Festo (analogamente ad altre glosse anonime nell’opera di Festo) abbia pre-

sente proprio il nostro verso enniano.


10 Alla congettura obuagitant (da intendersi come frequentativo di (ob)vago: “continuano a girare creando

impaccio”) erano giunti indipendentemente G. G. Scaligero (nelle sue note in margine ad una ed. di Nonio
– quella dello Junius – e pubblicate (ma ancora parzialmente) per la prima volta da H. Nettleship, art. cit., 224-
229: 226) e Th. Bergk (come si ricava dal passo indicato sopra, in cui tuttavia Bergk afferma appunto di prefe-
rire obigitant): ma se non si altera il testo anche nella parte precedente del frammento, tale congettura è ametri-
ca (il penultimo elemento di sett. troc. sarebbe bisillabo).
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104 Le opere minori di Ennio

Dal libro III


Sat. V (= Sat. 6-7 V2)

Questi due senari giambici sono conservati da Nonio Marcello che cita in due
occasioni il frammento1 e ne indica espressamente la provenienza dal terzo libro
delle Satire enniane. Solo la solidità di questa attestazione dissuase Colonna
(1585-86) dal ritenere che il nostro frammento fosse stato scritto, anziché da En-
nio (che in questi versi è oggetto di un’elaborata apostrofe), da un altro poeta, non
individuabile, «quasi cum Ennio colloquente». Colonna postulò quindi che que-
ste parole fossero pronunciate da un interlocutore introdotto da Ennio in una
poesia di struttura dialogica. Se tuttavia Colonna si limitava a ipotizzare l’esisten-
za di tale interlocutore, la successiva discussione sul nostro frammento tentò in va-
ri modi di stabilirne l’identità.
Un filone critico, pur nella varietà delle singole soluzioni proposte, è accomu-
nato dal presupposto, che fino a tempi recenti ha avuto una certa fortuna, che il
terzo libro delle Satire enniane (a cui appartengono i nostri versi) coincidesse con
l’opera enniana che altre fonti citano con il titolo specifico Scipio: il nostro fram-
mento farebbe appunto parte di questa operetta, e più precisamente del proemio:
in questo contesto, secondo L. Müller, i due versi sarebbero un alto riconosci-
mento della poesia enniana espresso da una Musa2; in base alla presenza di mor-
talibus Pascoli 1915, 16 ipotizzava invece che essi fossero «in bocca di qualche
dio», che Pascoli identificava con Mercurio3, mandato da Giove, per indurre En-
nio a difendere Scipione, con un carme celebrativo in suo onore, dalle accuse che
gli erano state rivolte; Pascal 1915, 384 riconosce invece nel frammento «l’invo-
cazione di Scipione al poeta per indurlo a cantare le sue gesta».
Ma dell’individuazione dell’interlocutore si è occupato anche chi non ha ac-
colto o non si è avvalso della tesi dell’identità tra III libro delle Satire e Scipio.
Weinreich 1949, 7 ha ipotizzato che i nostri versi fossero pronunciati nell’ambito
di un simposio da parte di un convitato (Weinreich pensava dubbiosamente a
«Männer der Nobilität» amanti dell’arte4 oppure – con una analogia probabil-
mente inconsapevole con l’ipotesi di Colonna vista sopra – a un collega di Ennio

1 Non. 33 M. s. v. propinare e 139 M. s. v. medullitus: il testo che in 33, 9 risulta sfigurato nella parte ini-

ziale del primo verso (Ennio eta selve e sim.) si può ricostruire con sicurezza sulla base di 139, 16: di questa fa-
cile correzione si occupa lo Iunius (nelle animad. lib. 6. cap. 32: io l’ho potuto vedere nella ristampa a cura di
Gruterus IV [1607], 471 s.) a cui rinvia il Mercier nella sua prima edizione di Nonio. Inoltre, stando a tutte le
edizioni di Nonio antiche e moderne (e al codice Harleianus 2719, che ho potuto collazionare su microfilm), non
hanno nessuna base documentaria né la lezione flamineos dell’editio princeps di Nonio ([Roma] Georg Lauer
[c. 1470] s. v. medullitus né la variante (?) flammeus segnalata da Colonna.
2 Müller 1884 (Ein.), 110: a p. 108 parla di «vielbewunderten Verse». L’ipotesi di Müller è menzionata con

consenso da M. Richter, Priscorum poetarum et scriptorum de se et aliis iudicia, «Comm. Philol. Jenenses» XI, 2,
Leipzig 1914, 26, n. 1.
3 Identificazione tacitamente ripresa da Bolisani 1935, 34.
4 Così anche Traglia 1986, 365 n. 6.
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Saturae - Commento, fr. V (= Sat. 6-7 V.2) 105

membro del collegium poetarum): Weinreich non adduce argomentazioni, ma è fa-


cilmente congetturabile che le sue ipotesi si basino – come suppone Suerbaum
1968, 263 n. 744 – sulla presenza nel frammento di un verbo tecnico del linguag-
gio simposiale come propino, su un passo di Dionisio Calco (su entrambi questi
punti ci soffermeremo più avanti) nonché sulle (peraltro assai problematiche) no-
tizie che possediamo riguardo ai carmina convivalia5. Che invece non fosse coin-
volto nessun interlocutore ha evidentemente ritenuto chi ha sostenuto che nel no-
stro frammento sarebbe Ennio a rivolgersi a se stesso (se questa è l’interpretazio-
ne corretta delle frettolose enunciazioni che di tale tesi sono state fornite6). Senza
sapere di essere stato preceduto da L. Müller, e in base a presupposti differenti
che analizzeremo più avanti, aveva identificato in una Musa l’interlocutore di En-
nio anche Waszink.
Aver ripercorso (e in parte dovremo tornare a occuparcene) le tappe della di-
scussione sul nostro frammento ci permette di sottolineare alcuni punti che non
sono stati a sufficienza evidenziati e che pure influiscono su una corretta analisi
dei due versi enniani. Innanzitutto, bisogna rilevare che l’ipotesi secondo la qua-
le il terzo libro delle Satire coinciderebbe con lo Scipio, ipotesi un tempo in voga,
si è dimostrata priva di reale fondamento7: con il cadere di questo presupposto,
cade anche quel gruppo di ipotesi che si basavano, come abbiamo visto sopra, ap-
punto sull’identificazione III Satire / Scipio. Ma dalla storia del problema risulta
chiara l’impressione – che riguarda più in generale tutte le proposte fin qui viste –
che la discussione critica su questo frammento ha mostrato per lungo tempo mag-
gior interesse e impegno nel tentativo di precisarne il contesto piuttosto che il si-
gnificato. L’impressione diventa poi una certezza quando si constata che, come ve-
dremo più avanti, in tante discussioni sul nostro frammento sono state avanzate
interpretazioni in netto quanto inconsapevole dissenso l’una dall’altra su punti
fondamentali.
Questa osservazione può essere fatta anche riguardo a Waszink il quale si è oc-
cupato in più occasioni – e nell’ultima (1972) in modo particolarmente ampio
(113-119) – del nostro frammento: anzi, per quest’ultimo intervento di Waszink
c’è l’aggravante che l’analisi non è condotta considerando il frammento di per sé,
ma sulla base di un assunto precostituito che non viene esplicitato e che può es-
sere chiarito solo tenendo presenti i precedenti interventi di Waszink. In Waszink

5 Cfr. in part. Cic. Tusc. 4,3 grauissimus auctor in Originibus dixit Cato morem apud maiores hunc epularum

fuisse, ut deinceps qui accubarent, canerent ad tibiam clarorum uirorum laudes atque uirtutes.
6 Sulla scorta di R. Till, Die Anerkennung literarischen Schaffens in Rom, «Neue Jahrb. für Antike und

deutsche Bildung» 3, 1940, 162 parlano di una «Selbstanrede» Knoche 1957, 18 e L. Bieler, Geschichte der rö-
mischen Literatur, I2, Berlin 1965, 49: Waszink 1972, 115 e Jocelyn 1977, 134 ne danno l’interpretazione pro-
spettata sopra nel testo; tuttavia è forse nel giusto Suerbaum 1968, 262 n. 744 quando afferma che la qualifica di
«Selbstanrede» per questo frammento vuole significare semplicemente «daß sich Ennius in dieser Weise […] an-
reden läßt» (corsivo nel testo), lasciando dunque impregiudicata l’identità dell’interlocutore, ma non negando-
ne l’esistenza.
7 Cfr. sotto, l’introduzione allo Scipio.
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106 Le opere minori di Ennio

1950, 215-240 oggetto principale della discussione era il proemio degli Annales,
in cui Waszink ipotizzava che Ennio, prima di sognare Omero, raccontasse di aver
incontrato le Muse sull’Elicona e di aver bevuto alla fonte dell’Ippocrene. A so-
stegno in particolare di quest’ultimo assunto, veniva addotto anche il nostro fram-
mento in cui Waszink 1950, 236 s.8 voleva riconoscere appunto un’allusione al-
l’incontro con le Muse raccontato nel proemio degli Annales: questa ipotesi face-
va leva anche sul fatto che i nostri versi sarebbero troppo solenni per un ambito
simposiale – e questa obiezione era rivolta contro la tesi di Weinreich vista sopra –
e che la presenza di mortalibus farebbe pensare, per contrapposizione, che a par-
lare sia una divinità che allude appunto alla bevuta ai fontes Musarum. Nelle nu-
merose discussioni che seguirono l’intervento di Waszink, e che lo indussero a
modificare in parte il proprio assunto, quasi nessuno, a quanto mi risulta, ha da-
to peso a quest’argomento9, che per la verità Waszink esponeva in modo un po’
frettoloso. Eppure Waszink, che nel primo intervento mostrava di appoggiarsi con
molta cautela al nostro frammento (cfr. Waszink 1950, 236: «it is not without he-
sitation that I draw attention to a possible additional argument»), in seguito con-
tinuò a usarlo attribuendogli anzi sempre più peso e, insieme, cercando di preci-
sarne l’interpretazione. Così in Waszink 1962, 122 a salutare Ennio è «almost cer-
tainly one of the Muses»; inoltre, sulla base di propino (che Nonio, il fr. enniano,
glossa con post potum trado) Waszink deduce che propinas indicherebbe che En-
nio aveva bevuto alla fonte dell’Ippocrene: questo consente a Waszink di arrivare
ad affermare (1962, 122 s.) che i versi delle Satire, a parte che per il metro, e con
il semplice cambiamento di propinas in propinabis, potrebbero trovare posto nel
proemio degli Annales (analoghe posizioni sosterrà Waszink anche nel 196410).
Che queste considerazioni abbiano condizionato l’ultimo intervento di Waszink
(1972, 113-119) è subito dimostrato: Waszink 1972, 114 mostra di conoscere lo
stringente parallelo con Lucil. 590 M. segnalato da Mariotti 1952, 273 = 1991, 116
ego ubi quem ex praecordiis ecfero versum11 ma, dando ormai per scontato che i
versus flammei siano quelli degli Annales, si limita poi a escludere che anche En-
nio, come Lucilio, si possa riferire alla propria poesia satirica con una affermazio-
ne del tutto apodittica (cfr. Waszink 1972, 114 «there remains, of course, the im-
portant difference that Ennius thus in his Satura refers to a different genre, viz.,
to his epic poetry, whereas Lucilius speaks in satura about his Saturae in general»)
che potrebbe essere accettata se il riferimento agli Annales contenuto nei nostri

8 Waszink ignorava di essere stato preceduto in questa ipotesi, come abbiamo visto, da L. Müller: ma se l’i-

potesi è la stessa, diversi sono i presupposti in base ai quali essa viene formulata (cfr. sopra).
9 Solo Suerbaum 1968, 311 lo prende in considerazione contestandolo tuttavia sulla base di un’argomen-

tazione non condivisibile: poiché Suerbaum ritiene che il terzo libro delle Satire coincida con lo Scipio, qui non
poteva trovarsi un’allusione agli Annales, che secondo Suerbaum (105 e n. 333) sarebbero successivi allo Scipio.
10 J. H. Waszink, Il proemio degli Annales di Ennio, «Maia» 16, 1964, 327-40: 338 s.
11 Il passo era già citato a confronto dei nostri versi nella poco diffusa dissertazione di Petermann 1851, 21:

non è entrato nel commento di Courtney 1993.


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Saturae - Commento, fr. V (= Sat. 6-7 V.2) 107

senari fosse già dimostrato. Che Waszink, inoltre, abbia di fatto dato più peso al-
la propria ipotesi piuttosto che all’analisi del testo, lo mostrano non solo le sue no-
tevoli incertezze, ma anche una certa indifferenza a precisare l’interpretazione di
punti cruciali del frammento: così, per limitarmi a flammeos, Waszink 1962, 114
pone sullo stesso piano addirittura tre interpretazioni del tutto divergenti: i versi
sarebbero flammei o perché sono splendenti, o perché rendono «aglow»12 i mor-
tales a cui sono dedicati o, infine, perché flammeus indicherebbe «the martial cha-
racter of the Annales». Si tratta, come si vede, di interpretazioni ben poco con-
vincenti e alle quali in seguito rinuncerà tacitamente Waszink stesso, che nel suo
ultimo intervento (Waszink 1972, 117) preferirà cogliere in flammeos un duplice
riferimento: al calore del vino e all’episodio della bevuta alla fonte delle Muse. Ma
che questa seconda accezione di flammeus risulti poco dimostrabile (se non, for-
se, da chi abbia già dimostrato per altra via che i due versi si riferiscono all’in-
contro tra Ennio e le Muse) mi pare confermato dal fatto che solo per il primo ri-
ferimento Waszink fornisce delle spiegazioni (l’associazione d’idee tra vino e ca-
lore sarebbe giustificata dalla presenza della metafora del propinare, per cui i ver-
si verrebbero offerti come si offre in simposio una coppa di vino). E un’altra non
irrilevante incertezza esegetica di Waszink segnaleremo più avanti a proposito di
medullitus.
In contrasto con il metodo di approccio al nostro frammento fin qui delineato,
l’ampia discussione che Jocelyn 1977 dedica al nostro frammento ha il grande me-
rito non solo di confutare con grande dottrina e puntigliosità le varie ipotesi di
contestualizzazione viste sopra13 ma anche, e soprattutto, di spostare l’attenzione
dall’analisi del contesto all’analisi del testo: avvalendosi del confronto con il pas-
so luciliano citato sopra, nonché di una documentazione possente Jocelyn si im-
pegna a dimostrare che anche nel nostro frammento enniano i versus … flammeos
medullitus “propinati” da Ennio indicherebbero la poesia satirica. A proposito di
medullitus, inoltre, Jocelyn (1977, 145 s.) si richiama al motivo topico secondo il
quale alle parole ingannatrici provenienti dalle labbra sono contrapposte le paro-
le veraci provenienti dal cuore, tradizionalmente sede della verità: in versus … me-
dullitus, dunque, il valore letterale (“versi che provengono dalle midolla”) indi-
cherebbe metaforicamente la veridicità dei versus: un motivo di cui Jocelyn rileva
la frequenza anche nella tradizione satirica successiva.
Sulla scia di Jocelyn, cercherò anch’io di fissare l’attenzione sull’interpretazio-
ne del testo e di ricondurre il frammento al genere satirico. Prima di procedere

12 Non mi è chiaro che cosa intenda precisamente Waszink con questo termine: i versi di Ennio rendereb-

bero “splendenti” i mortali oppure li “accenderebbero” di entusiasmo?


13 Pp. 134-141. Nel complesso concordo con queste pagine: su alcune affermazioni di Jocelyn che a me

sembrano troppo perentorie non mi soffermo perché non intaccano la sostanza delle sue conclusioni. Segnalo
solo che Jocelyn non sottolinea che alcune ipotesi di contestualizzazione erano strettamente legate, come abbia-
mo visto sopra, all’identificazione del III libro delle Satire con lo Scipio. Su altre singole osservazioni torneremo
in seguito.
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108 Le opere minori di Ennio

nella discussione, tuttavia, converrà mettere in rilievo una forzatura compiuta da


Jocelyn nel presentare i dati dello status quaestionis: stando a Jocelyn 1977, l’in-
terpretazione vulgata riconoscerebbe nei versus flammei un riferimento agli An-
nales: e che questa sia davvero l’interpretazione unanimemente accolta il lettore è
portato a credere dal fatto che nel pur documentatissimo articolo di Jocelyn essa
non viene ascritta a nessuno studioso in particolare. In realtà, l’identificazione tra
versus flammei e Annales è stata formulata, come abbiamo visto, solo da Waszink:
l’unico, a quanto mi risulta, che l’abbia accolta è stato Jocelyn stesso14.
Le posizioni sono invece molto più varie e sfumate e in nessun modo mostrano
di intendere che nel frammento ci sia un riferimento specifico agli Annales: quan-
do F. Skutsch, non per primo ma con una formulazione che sarà ripresa da molti,
giudicava i nostri versi “pomposi”15, intendeva affermare che tale frammento, ol-
tre ad essere di stile elevato, contiene un’orgogliosa rivendicazione enniana del va-
lore della propria poesia in generale. Anche se non vengono esplicitati, i motivi di
tale interpretazione si possono facilmente individuare: in Ennio l’(auto)designa-
zione con il termine poeta ha un forte connotato polemico perché implicitamente
contrapposto ai letterati fauni vatesque e agli scribae.
Anche la designazione dei uersus con flammeos sarà apparsa una valutazione
positiva, anche se quanti hanno provato a rendere esplicito il valore di tale agget-
tivo mostrano delle notevoli incertezze. Abbiamo già visto le oscillazioni di Wa-
szink al riguardo: e un’ulteriore interpretazione, in epoca più recente, ha avanza-
to Scholz 1986, 46, che spiega flammeos come riferimento alla capacità di permo-
vere della poesia enniana. Ma, pur nella varietà di queste interpretazioni, mi pare
di poter affermare che in genere flammeos venga inteso come un riferimento al
fervore dell’ispirazione poetica16. Questa interpretazione non è certo priva di fon-
damento: che l’ispirazione poetica fosse associata al calore è un fatto ben noto17.
Ma è chiaro che questo valore di flammeos crea difficoltà a chi, come Jocelyn, ten-
ta di riconnettere il nostro frammento alla tradizione satirica successiva che anzi,
già a partire da Lucilio, si atteggia a una programmatica contrapposizione alla
poesia ispirata dei generi “alti” dell’epica e della tragedia. Per questo Jocelyn ten-
ta una spiegazione alternativa di flammeos: ma, l’aver considerato unanimemente
accolta l’identificazione dei uersus flammei con gli Annales in particolare e non,
come è in realtà, con la poesia ispirata in generale, ha portato Jocelyn a confutare
con maggior impegno la prima interpretazione (uersus flammei = Annales) e a sba-
razzarsi un po’ troppo frettolosamente della seconda (uersus flammei = poesia
ispirata): contro quest’ultima, infatti, Jocelyn sostiene che, seppure l’ispirazione

14 Cfr. Jocelyn 1972, 1026 n. 399.


15 Cfr. Skutsch 1905, 2587; Suerbaum 1968, 262.
16 Così, mi pare, anche Courtney.
17 Cfr. Cic. de orat. 2, 194 audiui poetam bonum neminem … sine inflammatione animorum existere posse: è

interessante rilevare che questo motivo è richiamato da Cicerone a proposito di Pacuvio, dunque per la poesia
tragica.
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Saturae - Commento, fr. V (= Sat. 6-7 V.2) 109

viene rappresentata come una infiammazione dell’animo o della mente del poeta,
«l’idea che gli stessi versi rifiniti potessero consistere di fuoco è del tutto fuori del-
l’ordinario» (Jocelyn 1977, 143). A me non sembra che il passaggio dell’attribu-
zione dell’immagine del fervore dall’animo del poeta alla poesia stessa risulti così
sorprendente. Lo stesso Jocelyn riporta un passo dove Saffo viene addirittura pa-
ragonata a Caco che emette fiamme dalla bocca (Plut. Mor. 762).
Né mi sembra convincente l’interpretazione alternativa che di flammeos offre
Jocelyn. Innanzitutto mi pare che non sia molto chiara e come conferma il fatto
che Courtney, nel riassumerla, compie una eccessiva semplificazione quando at-
tribuisce a Jocelyn l’interpretazione per cui i versi sarebbero flammei come vino
schietto. In effetti Jocelyn (1977, 142), riprendendo tacitamente quanto era già
stato affermato da Waszink, vede in flammeos un riferimento al calore del vino.
Tuttavia a Jocelyn una tale interpretazione deve essere sembrata comprensibil-
mente troppo riduttiva perché flammeos, una volta preclusasi la possibilità di in-
tendere il calore anche come riferimento al fervore dell’ispirazione poetica, risul-
ta un aggettivo puramente esornativo, che si giustificherebbe solo come una esten-
sione della metafora contenuta in propinare senza che questo abbia una qualche
ricaduta sulla caratterizzazione dei versi stessi.
Questa esigenza di spiegare flammeos mi pare che abbia indotto Jocelyn a due
serie di considerazioni che, sebbene riccamente documentate, risultano a mio av-
viso in contraddizione tra di loro. Da una parte, in base al presupposto che flam-
meos richiamerebbe il calore del vino, Jocelyn fa un ulteriore passaggio per cui si
ricaverebbe anche l’associazione vino schietto/verità: l’aggettivo flammeos quindi
verrebbe a indicare la vericidità dei versi enniani. Ma di questa connessione tra
flammeos e il vino, poi, Jocelyn si sbarazza subito. Infatti, nel tentativo di dimo-
strare che i uersus flammei non possono indicare gli Annales, Jocelyn si richiama
ad antiche teorie fisiche per cui elementi allo stato puro come il fuoco non hanno
alcun sapore. A questo Jocelyn aggiunge anche l’osservazione che greci e romani
assimilerebbero ogni suono, compresi i canti dei poeti, a sostanze commestibili o
potabili (143): versi costituiti esclusivamente di fuoco non avrebbero alcun sapo-
re e non potrebbero essere riferiti non solo alla poesia epica, che tradizionalmen-
te viene assimilata al miele, ma neppure a tutti gli altri generi canonici (148): con
flammeos risulterebbe confermato quindi il riferimento a un genere non ancora
stabilizzato, perché privo di referenti nella precedente tradizione letteraria, come
la satira. Non mi soffermo a discutere se quest’ultimo ragionamento sia molto co-
gente (mi sembra che Jocelyn utilizzi in modo troppo rigido questa teoria sul rap-
porto tra “sapori” e generi letterari): ma una volta ammesso che qui flammeos do-
vrebbe avere la funzione di non associare i uersus in questione a nessun sapore,
come potrebbe nello stesso tempo tale aggettivo rinviare al vino e quindi alla ve-
ridicità?
Se la spiegazione di Jocelyn di uersus … flammeos è a mio avviso da scartare,
ho cercato di dimostrare (in Russo 2001) come resti tuttavia una possibilità alter-
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110 Le opere minori di Ennio

nativa di interpretare tale aggettivo mantenendo il riferimento al genere satirico:


intendere flammeos come un’indicazione del carattere caustico, cioè ‘satirico’ in
senso moderno, dei uersus18: documentazione a sostegno di questa ipotesi ho for-
nito e discusso in Russo 2001, 104-112; per l’immagine del calore bruciante uti-
lizzata, in particolare, in relazione alla satira adesso posso aggiungere Sidon. epi-
st. 1, 11, 4 Paeonius exarsit, cui satiricus ille morsum dentis igniti auidius impresse-
rat: qui Sidonio, per descrivere gli effetti di un anonimo satirografo su Peonio,
unisce all’immagine consueta del morso (cfr. comm. di W. Kissel a Pers. [Heidel-
berg 1990] 1, 107 s., p. 253) quella del calore; l’idea del calore bruciante associa-
to al genere satirico ritorna ancora una volta in Sidonio, epist. 8, 11, 3 vers. 28
nunc flammant satirae19.

Come molti altri termini del lessico latino di ambito simposiale, anche propino
è un prestito greco. Propivnein indica propriamente il passare una coppa di vino,
dopo averne tratto un sorso, ad un convitato: e il passaggio della coppa veniva ac-
compagnato da un augurio. In uersus … propinas abbiamo dunque un’espressio-
ne metaforica dove, invece della coppa di vino, ad essere propinati sono i versus
… flammei. Quest’uso metaforico di propinare, assolutamente inusuale nella let-
teratura latina, trova un preciso corrispondente nel greco: a confronto è già stata
portata (da Pascal20 e da Skutsch 1905, 2597) un’elegia di Dionisio Calco (V sec.
a.C.) ap. Athaen. 15, 669 E: devcou thvnde propinomevnhn th;n ajp∆j ejmou` poivhsin.
La forte analogia di espressione aveva indotto anzi Pascal a ritenere che Ennio nel
nostro frammento avesse presente proprio il passo di Dionisio Calco21. Un tale
rapporto di dipendenza tra i due passi è stato contestato da Jocelyn 1977: giusta-
mente, a mio avviso, ma in un modo che risulta un po’ contraddittorio: da una
parte infatti Jocelyn 1977, 139 mostra come l’immagine della produzione poetica
espressa in termini simposiali sia ampiamente diffusa: tuttavia Jocelyn, dopo aver
presentato un’imponente documentazione, è costretto a riconoscere (140) che in
effetti la coincidenza dell’espressione tra Dionisio e Ennio è piuttosto singolare: e
infatti il confronto con il passo di Dionisio è rimasto anche nel commento di
Courtney. E persino nel supplemento del LSJ, s. v. propivnw il nostro frammento

18 Agli isolati e dimenticati precursori di questa interpretazione di flammeos segnalati in Russo 2001, 104

n. 20 aggiungi anche J. Savaron che menziono qui sotto.


19 A proposito dei due passi di Sidonio citati nel testo, J. Savaron (Apollinaris Sidonii [...] Opera, Io. Sava-

ro [...] rec., Parisiis 1599, 77 ([= 16092, 79] in comm. a Sidon. epist. 1, 11, 4) e 507 ([= 16092, 532] in comm. a
epist. 8, 11, 3 vers. 28) richiama, oltre a Sept. Ser. carm. fr. 2 Blänsdorf e Schol. Iuu. 1, 51 (p. 6 Wessner), che già
citavo in Russo 2001, 105, anche il nostro passo di Ennio, dove evidentemente interpretava flammeos con il si-
gnificato da noi ipotizzato.
20 C. Pascal, Quaestionum Ennianarum particula III, «RFIC» 26, 1898, 24-36: 36 [=Studii sugli scrittori la-

tini, Torino 1900, 46]; Skutsch 1905, 2597.


21 Sulla scia di Pascal si pone anche Waszink 1972, che dedica una pagina al confronto tra i due passi per-

ché sarebbe illuminante sul modo enniano di rielaborare la poesia ellenistica: se non ché, Dionisio è un autore
del V sec. a.C.
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Saturae - Commento, fr. V (= Sat. 6-7 V.2) 111

enniano è citato a confronto del passo di Dionisio Calco. Tuttavia questo uso di
propivnw non è isolato. Nel 1907 Wilamowitz e Schubart pubblicarono un papi-
ro da Elefantina, databile all’inizio del III a.C., che riportava tre componimenti
destinati all’esecuzione conviviale22. All’inizio del secondo brano si legge:

[ej]nkevrason Carivtwn krath`[r]a ejpist[e-]


feva kr[uvfiovn te p]rovpi[vn]e [lov]gon

Come si vede al secondo verso la lezione p]rovpi[vn]e [lov]gon – frutto di un’in-


tegrazione di Schubart pressoché sicura e come tale unanimemente accolta – for-
nisce un ulteriore parallelo per uersus … propinas di Ennio. Sarebbe interessante
approfondire la possibilità di un rapporto tra le satire enniane e il genere di pro-
duzione poetica rappresentata dagli skolia del papiro di Elefantina, raccolta di
poesie frutto in parte di improvvisazione simposiale e in parte di una selezione an-
tologica da opere letterarie già esistenti (cfr. Ferrari, cit., 183 s.): qui tuttavia ci ba-
sta osservare che: 1) la metafora enniana del propinare uersus appare ricalcata su
analoghe espressioni greche senza tuttavia che se ne possa individuare il modello
in un autore particolare come, appunto, Dionisio Calco; 2) se propinare uersus
comunque sembra rinviare alla produzione letteraria destinata al simposio, questo
non permette di fare deduzioni sul contenuto di tale poesia, che presentava argo-
menti molto vari tra i quali – come ci indica lo stesso papiro di Elefantina, nell’e-
legia conclusiva, v. 6 – c’era anche lo skwvptein: per questo non si può escludere
che tra i uersus “propinati” ci fossero anche versi di carattere satirico. Mi doman-
do inoltre se propinare uersus non possa essere interpretato non solo nel significa-
to più lato di “offrire” ma nel suo significato più letterale di “offrire da bere” (co-
me in Plaut. Curc. 359: propino magnum poclum. Ille ebibit). Ennio offre da bere
versi di fuoco: un’immagine simile compare nell’epigramma del contemporaneo
Alceo di Messene (A.P. 536 [=13 G.-P.], 2-4: su questi vv. cfr. Russo 2001, 107 s.)
che sulla tomba di Ipponatte fa crescere non il grappolo della vite «ma rovo e ar-
busto spinoso bruciante che fanno raggrinzire le labbra dei viandanti e la gola
riarsa per la sete».

Se si guardano le discussioni sul nostro frammento un punto che non pare pre-
sentare aspetti problematici risulta essere l’interpretazione di medullitus. Eppure,
ad un’analisi più attenta si scopre che, come sui singoli punti visti sopra, anche ri-
guardo a questo avverbio si sono avute prese di posizione nettamente divergenti
che si possono ricondurre a tre differenti interpretazioni23:

22 P. Berol. inv. 13270 in Berliner Klassikertexte, V 2, Berlin 1907. Edizione e commento ora in F. Ferrari, P.

Berol. inv. 13270: i canti di Elefantina, «SCO» 38, 1988, 181-227.


23 Restano fuori dal quadro che delineo subito sotto nel testo le considerazioni di Cupaiuolo 1967, 61 n. 87

che si occupa di medullitus citando il passo enniano, ma senza fornirne un’interpretazione.


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112 Le opere minori di Ennio

1) l’avverbio è inteso come un’intensificazione del concetto espresso da flam-


meos a cui medullitus viene sintatticamente riferito in funzione annominale: i
uersus sarebbero «infiammati sino alle midolla» e quindi «completamente in-
fiammati»;24
2) medullitus indicherebbe le medullae dei destinatari dei uersus flammei (cfr. Pa-
scal 1915, 384 s.: «salve, o poeta Ennio, che ai mortali propini versi, atti a in-
fiammarli fin nelle midolla»; Cèbe: «salut, poète Ennius, qui mets des vers en-
flammés au fond du cœur des mortels»25);
3) in senso diametralmente opposto all’interpretazione 2, medullitus indichereb-
be la provenienza dei versi dalle medullae del poeta.

Come abbiamo già visto, quest’ultima interpretazione – che è senz’altro la più


diffusa26 – è seguita anche da Jocelyn 1977 per il quale anzi costituisce l’elemen-
to determinante per riconoscere nei uersus … flammeos medullitus un riferimen-
to al genere satirico e quindi per poter operare un confronto con il passo di Lu-
cilio ego ubi quem ecfero uersum ex praecordiis. Jocelyn non prende in considera-
zione le intepretazioni alternative 1 e 2 (che avrebbero gravemente pregiudicato
la sua tesi) nemmeno per confutarle: eppure, a mio avviso, l’uso di medullitus qua-
le ci viene documentato dalle fonti in nostro possesso (cfr. la voce del Th.l.L. che,
pur essendo incompleta, offre un quadro soddisfacente ai nostri scopi) non ci per-
mette né di preferire né di scartare immediatamente alcuna delle interpretazioni
viste sopra. In particolare si osservi che:
1) l’uso di medullitus con valore intensivo, anche se non risulta documentato27, lo

24 Questa è senz’altro l’interpretazione offerta dal Lewis-Short («thoroughly») e dal Th. l. L. (s. v.) che esclu-

de l’esempio enniano dall’accezione «strictiore sensu, i. q. usque ad medullas, ab intestinis partibus, intra visce-
ra» inserendo quindi il nostro caso sotto l’accezione di medullitus «latiore sensu, i. q. imitus, penitus, funditus»:
in questo modo forse voleva interpretare anche Waszink 1972 il quale, pur accogliendo – sulla base del passo di
Lucilio citato sopra (p. 104) – l’esegesi di medullitus = ex praecordiis, prospettava la possibilità di unire medulli-
tus a flammeos senza tuttavia approfondire la questione.
25 J.-P. Cèbe, Varron, Satires ménippées, III, Rome 1975, 332, n. 33.
26 Leo 1913, 206: «Heil, Dichter Ennius, der du den Sterblichen flammende Verse zutrinkst aus innersten

Brust!»; Warmington 1935: «flaming verses drawn from your very marrow!»; Traglia 1986: «versi di fuoco che
promanano dalle tue intime fibre». Una posizione di compromesso tra le interpretazioni 2 e 3 pare assumere
Scholz 1986, 46 che in una parafrasi – in verità non molto perspicua – del nostro frammento afferma che nei ver-
sus … flammeos medullitus si descrive l’effetto della poesia enniana che «vom Innersten kommt und zum In-
nersten dringt».
27 Un’analogia potrebbe trovarsi in Varr. Men. 77 B. atque ut igni feruido medullitus / aquiloniam intus eruat

[Bücheler: seruat cdd.] frigedinem: medullitus qui solitamente viene inteso in senso letterale (“togliere il freddo
dalle midolla con il fuoco”): tuttavia in questo modo medullitus viene a essere un doppione di intus; si potreb-
be allora riferire medullitus a feruido e intendere “con un fuoco caldissimo”: avremmo dunque un’analogia tra il
passo di Ennio e quello di Varrone non solo di contenuto (medullitus usato per accentuare l’idea di calore) ma
anche, se accogliamo per il frammento di Varrone la scansione in senari giambici, di struttura sintattico-metrica
(medullitus verrebbe a trovarsi in fine di verso subito dopo l’aggettivo a cui si riferisce: flammeos medullitus / fe-
ruido medullitus). Tuttavia il frammento di Varrone è di interpretazione troppo incerta per poterne trarre con-
clusioni sul nostro passo enniano: per questo, a mio avviso, la nuda citazione, da parte di Courtney, del fram-
mento di Varrone lascia perplessi: a patto che Courtney non abbia voluto segnalare semplicemente la presenza
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Saturae - Commento, fr. V (= Sat. 6-7 V.2) 113

si potrebbe giustificare come un’estensione di significato analoga ad altri av-


verbi in -tus28;
2) l’interpretazione di medullitus “fino alle midolla” (del destinatario dei uersus
… flammeos), con idea quindi di moto a luogo, parrebbe in contrasto con il va-
lore del suffisso -tus «indicante originariamente provenienza» (Cupaiuolo
1967, 58). Tuttavia negli avverbi in -tus questo valore originario non risulta
sempre evidente e spesso anzi compare chiaramente l’idea di stato in luogo e di
moto a luogo29: per quest’ultimo valore desumo dal Th. l. L. Ennod. opusc. 3,
191 (catharrus) se medullitus inserens. Per quanto riguarda poi il contesto del
nostro frammento enniano, è interessante notare che proprio le medullae risul-
tano soggette all’azione devastante del fuoco e in genere del calore per indica-
re uno stato patologico (cfr. Th. l. L. s. v. medulla 601, 32 ss.): e non crea diffi-
coltà che nella stragrande maggioranza dei casi il fuoco che brucia le medullae
ricorre per descrivere le pene d’amore: il linguaggio erotico ha specializzato
metafore di origine medica per cui il dolore in genere viene rappresentato co-
me un eccesso di calore che colpisce le medullae30; e l’estensione metaforica di
questo concetto non avviene esclusivamente per indicare le pene d’amore, ma
anche altre sofferenze psicologiche: cfr. Amm. 30, 8, 10 inuidia … medullitus
urebatur. Questo valore di medullitus si adatterebbe bene alla nostra interpre-
tazione di flammeos perché accentuerebbe l’effetto caustico dei uersus: gli ef-
fetti della poesia satirica di Lucilio vengono descritti in modo analogo da Gio-
venale (1, 165-7):

ense uelut stricto quotiens Lucilius ardens


infremuit, rubet auditor cui frigida mens est
criminibus, tacita sudant praecordia culpa

3) L’interpretazione di medullitus più probabile tuttavia anche a mio giudizio re-


sta quella comunemente accolta “(versi) che vengono dalle midolla”. Medulli-
tus appartiene ad uno dei casi frequenti di termini che, presenti nel latino ar-
caico (oltre a Ennio, compare in Varrone e Plauto), riaffiorano solo in età im-
periale (già in Apuleio, ma in particolar modo in scrittori più tardi come Am-
miano Marcellino e nel latino cristiano). Appunto da questi ultimi ho tratto gli

di medullitus anche in Varrone menippeo (fatto che, essendo ricavabile da un qualsiasi lessico, appare fuori luo-
go – oltre che fuorviante perché medullitus si trova anche, ad es., in Plauto – in un commento anti-conferrista e
fin troppo selettivo come quello di Courtney), qualche parola per chiarire il confronto sarebbe stata necessaria.
28 Cfr. le osservazioni riguardo a penitus in Cupaiuolo 1967, 63: «Esso viene adoperato come elemento di

rinforzo dell’espressione, con un valore affettivo che fa quasi passare in secondo ordine il senso logico».
29 Su questo fenomeno, che qui mi limito a constatare, Cupaiuolo 1967, 59 non mi pare sufficientemente

esplicito poiché indica solo la possibilità di valore di stato in luogo. Tutte le varie possibilità di significato ven-
gono invece esplicitate dal Thesaurus che per medullitus pone come primo valore quello di moto a luogo: «usque
ad medullas, ab intestinis partibus, intra viscera».
30 Cfr., ad es., fr. Alkmaeon. [24] B 4 D.-K.
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114 Le opere minori di Ennio

esempi di medullitus a sostegno dell’interpretazione 2. Ma a Jocelyn è sfuggito


un caso che avrebbe potuto rafforzare la sua tesi secondo la quale medullitus
indicherebbe la provenienza dalle medullae e quindi la veridicità dei uersus.
Nel Truculentus Diniarco che, ormai squattrinato, non gode più delle grazie di
Fronesio, lamenta la doppiezza delle donne (179 ss. in melle sunt linguae sitae
uostrae atque orationes, / facta atque corda in felle sunt sita atque acerbo aceto: /
eo dicta lingua dulcia datis, corde amara facitis) secondo lo schema, ampiamen-
te documentato da Jocelyn 1977, 146, “la lingua dice una cosa, ma il cuore ne
pensa un’altra”; lo stesso motivo viene ripreso dalla serva di Fronesio che di-
fende l’operato della propria padrona (224 ss. bonis esse oportet dentibus lenam
probam, ad- / ridere ut quisquis ueniat blandeque adloqui, / male corde consulta-
re, bene lingua loqui). Quando Fronesio racconta a Diniarco che il disinteresse
nei suoi confronti è solo momentaneo perché rientra in un inganno teso ai dan-
ni di un miles, e che dopo tale inganno lei ritornerà per sempre con Diniarco,
quest’ultimo, illudendosi di sapere finalmente le reali intenzioni dell’amata,
esclama (439): ostendit sese … mihi medullitus: abbiamo qui un caso dell’uso
metaforico di medullitus per indicare la sincerità delle parole che provengono
appunto dal cuore e non dalle labbra (cfr. il comm. di Enk – «he shews his real
character»31 – che rimanda anche a Asin. 862 uerum hoc facto sese ostendit).
Non si vuole con questo affermare, come faceva invece Waszink 1972, 132, che
Ennio riprendeva medullitus da Plauto: mi sembra invece da mettere in rilievo
l’analogo uso metaforico che di medullitus si può cogliere in due autori con-
temporanei come Ennio e Plauto, e che invece non pare ricomparire negli au-
tori più tardi.
L’uso di medullitus nel nostro fr. enniano permette di istituire inoltre un inte-
ressante confronto con Call. iamb. V (195 Pf.), 1 s.:

W
\ xei`ne (sumboulh; ga;r e{n ti tw`n iJrw`n
a[koue tajpo; kardivh"

L’espressione tajpo; kardivh" indica, con una metafora analoga al medullitus


enniano, la sincerità con cui Callimaco si appresta a dare il proprio consiglio (cfr.
C. M. Dawson, The Iambi of Callimachus. A Hellenistic poet’s experimental labo-
ratory, «YClS» 11, 1950, 3-168: 64): ed è interessante notare che tale motivo com-
pare dove Callimaco, come ci informa l’Argomento, attacca «alla maniera giambi-
ca» un maestro di scuola: «die hierin sich ausdrückende Haltung […] stand in
Einklang mit dem Programm des Satirikers» osserva giustamente Puelma
Piwonka 1949, 216 che menziona il più volte citato Lucil. 590 M. ex praecordiis
ecferre uersum ma non, come invece risulta opportuno, anche i nostri due senari
enniani.

31 Plauti Truculentus, cum comm. J. Enk, Lugduni Batavorum 1953, ad loc.


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Saturae - Commento, fr. V (= Sat. 6-7 V.2) 115

Dopo esserci soffermati sull’interpretazione del testo del frammento enniano,


si può forse avanzare qualche riflessione su una sua possibile contestualizzazione,
ricollegandoci così al problema da cui eravamo partiti. Non mi propongo qui di
ritornare sull’annoso problema dell’individuazione del possibile interlocutore che
rivolge a Ennio l’apostrofe contenuta nei nostri versi. Solo, mi pare significativo
che il riferimento al carattere aggressivo delle Satire enniane che ho cercato di ri-
conoscere nei uersus … flammeos medullitus trovi posto in una poesia che tutto
lascia presumere di andamento dialogico tra il poeta e un suo interlocutore: ap-
punto l’uso del dialogo appare un modulo dominante nella successiva satira lati-
na e, fatto ancor più notevole, in forma dialogica sono di norma le satire di carat-
tere programmatico a partire da Lucilio (di cui cfr. la prima satira del l. XXVI, se-
condo l’edizione definitiva – 587-634 M. –, ma che è in realtà il primo della pri-
ma edizione: si noti che proprio in questa satira viene collocato con molta verosi-
miglianza – la fonte, Nonio, lo attribuisce esplicitamente al XXVI – il fr. 590 M.
ego ubi quem ex praecordiis ecfero uersum a cui è stato avvicinato il nostro fram-
mento enniano; cfr. inoltre Hor. sat. 2, 10; Pers. 1; Iuv. 1) Si licet hariolari sulla ba-
se di questi confronti, si potrebbe pensare che nel nostro frammento qualcuno
rimproverasse a Ennio il carattere caustico della sua poesia satirica e che il poeta
cercasse di giustificarsi o di difendersi da questa accusa.
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116 Le opere minori di Ennio

Sat. VI (= Sat. 10-11 V2)

Come discuto ampiamente nell’introduzione allo Scipio, questo frammento de-


ve essere distinto da Enn. Var. 8 V.2 testes sunt Campi Magni: Ennio ha evidente-
mente ripetuto in due passi diversi lo stesso motivo (un luogo geografico viene
chiamato a testimone di un evento: paralleli in R. G. M. Nisbet- Margaret Hub-
bard, A commentary on Horace: odes book II, Oxford 1978, 27 e Jocelyn 1977, 131
n. 3).
Anche chi non ha accolto la tesi di una identità tra testes sunt lati campi etc. e
testes sunt Campi Magni è stato comunque indotto a ritenere che i due frammen-
ti fossero da riferire allo stesso fatto. Testes sunt Campi Magni che – come ci infor-
ma Cicerone, era pronunciato da Scipione beatior … cum patria … loquens – si ri-
ferisce molto probabilmente alla vittoria su Asdrubale e Siface, da parte appunto
di Scipione, nella località africana chiamata Campi Magni (cfr. Liu. 30, 8 e il
comm. di Skutsch 1985, p. 754): anche il passo dalle satire, dunque, si riferirebbe
a questa vittoria militare di Scipione1. Tuttavia non mi sembra infondata, anche se
forse espressa in modo troppo perentorio, l’obiezione di chi – come Scholz 1986,
47 – fa leva sulla presenza nel nostro frammento di politos: tale termine, specia-
lizzato per indicare l’accuratezza della coltivazione dei campi, risulterebbe non so-
lo puramente esornativo, ma anche in contrasto con l’indicazione di un campo se-
de di una feroce battaglia quale quella che ci viene descritta da Livio2. Di qui la
proposta di Scholz di vedere nel frammento un riferimento alla accuratezza e ric-
chezza delle coltivazioni africane (un motivo topico: Vahlen 1903 in app. ad loc..
citava Hor. sat. 2, 3, 87 frumentum quantum metit Africa3). Resta tuttavia da spie-
gare per quale ragione vengono chiamati a testimoni i campi ben curati dell’Afri-
ca: secondo Scholz il frammento sarebbe da inserire in un contesto dove si parle-
rebbe della grande produttività che si ottiene con un’accurata coltivazione dei
campi: a sostegno di questo assunto verrebbero dunque addotti i campi … politi
dell’Africa. Un’altra possibilità di contestualizzazione, sempre legata all’interpre-
tazione “agricola” del frammento, si può ricavare dalla nota di Vahlen 1903 il qua-
le rinvia a passi liviani dove si parla di grandi importazioni di grano a Roma dal-
l’Africa (cfr. ad es. Liu. 31, 50, 1 frumenti uim magnam ex Africa aduectam diuise-
runt). Ed è interessante notare che proprio Scipione viene ricordato da Livio
come autore di una di queste importazioni (Liv. 31, 4, 6: frumenti […] uim

1 Vahlen 1854, LXXXVI «nesciam quo aptius quam ad Scipionem referantur»; Leo 1913, 207: «eine An-

spielung auf die afrikanischen Kriege»; a questa ipotesi aderisce adesso anche Petersmann 1999, 293, il quale tut-
tavia non tiene conto dell’obiezione di Scholz che menziono poco più avanti nel testo.
2 Si noti, per di più, che proprio in Enn. Ann. 300 Sk. (=319 V.2) rastros dente †fabres capsit causa polien-

di / … agri il termine polio compare in un contesto che descrive molto verosimilmente il ritorno alla pace (così
da ultimo Skutsch 1985, p. 477). Si osservi di converso che, per celebrare le imprese militari di Pompeo, Cice-
rone utilizzerà il modulo testis + toponimo, associandolo a immagini cruente (Man. 30 testis Africa quae, magnis
oppressa hostium copiis, eorum ipsorum sanguine redundavit).
3 Così già Weinreich 1949, 5.
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Saturae - Commento, fr. VI (= Sat. 10-11 V.2) 117

ingentem quod ex Africa P. Scipio miserat): «in tale caso i lati campi d’Africa sa-
rebbero testimoni della generosità di Scipione» (Traglia 19864) e il frammento
tornerebbe a configurarsi, seppure per ragioni diverse da chi vi ipotizza un riferi-
mento alla vittoria bellica su Asdrubale e Siface nei Campi Magni, un elogio di Sci-
pione (lo stesso Livio nel passo cit. ricorda che quell’ingente importazione, che
ebbe l’effetto di abbassare molto il prezzo del grano, fu accolta con grande rico-
noscenza dal popolo romano: frumentique uim ingentem quod ex Africa P. Scipio
miserat quaternis aeris populo cum summa fide et gratia diuiserunt).

gerit: il Th. l. L. VI 2, 1933, 63 s. registra la ricorrenza di gero nel nostro fram-


mento sotto l’accezione ‘procreare, produrre’ (e cfr. anche la traduzione di Traglia
1986, 367: «ne sono testimoni le vaste campagne che la terra d’Africa produce, ac-
curatamente coltivate») e con questo significato in effetti gerere è sicuramente usa-
to anche in un altro frammento enniano (var. 50 V.2 quod gerit fruges, Ceres). Sul-
la scorta dell’OLD, tuttavia, ritengo più probabile che nel nostro frammento ge-
rere abbia il significato di ‘portare su di sé, contenere’ come in Ov. met. 2, 15 ter-
ra uiros urbesque gerit siluasque ferasque / fluminaque et nymphas (qui terra ... ge-
rit è in parallelo con habet unda al v. 8).

Africa terra: Skutsch 1985 (in comm. a Ann. 309 Sk. Africa terribili tremit hor-
rida terra tumultu, p. 487) rileva che in prosa l’ordine normale delle parole sareb-
be terra Africa (Scip. Mai. ap. Gell. 4, 18, 3; Bell. Afr. 3, 5; 24, 3; Liv. 29, 23, 10).
Africa terra nella stessa posizione metrica in cui compare nel nostro frammento
anche in Verg. Aen. 4, 37 e in AL 1, 885 D, 8 (imitazione del passo di Virgilio ora
citato). La iunctura in poesia ricorre 7 volte, sempre, tranne in Sid. carm. 5,54, in
quest’ordine.

4 A questa ipotesi aderiscono, seppure dubitativamente, anche Warmington 1935 e Courtney 1993.
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118 Le opere minori di Ennio

Dal libro III o dal libro IV


Sat. VII (= Sat. 8-9 V.2)

Il nostro frammento, in base a una parte della tradizione manoscritta della fon-
te Nonio, viene collocato in genere dagli editori nel terzo dei libri che compone-
vano le satire enniane: poiché, inoltre, tale libro in passato era stato identificato
con lo Scipio (cfr. l’introduzione a quest’opera), ha avuto una certa fortuna l’ipo-
tesi che questi versi enniani facessero parte del discorso tenuto da Scipione Afri-
cano quando dovette difendersi dalle accuse mossegli dai Petili1: a questi ultimi,
dunque, alluderebbero sprezzantemente le parole is ... qui falso criminat, mentre
con tibi e apud te Scipione si rivolgerebbe al popolo romano. Questa ipotesi è
suggestiva, ma priva di solide basi. Si osservi infatti che:
1) nel passo di Livio portato a sostegno da Pascal 1915, 389 s. si dice che Scipio-
ne si difese esclusivamente ricordando le proprie gloriose imprese passate e
senza fare – come invece bisognerebbe presupporre per il nostro frammento –
alcuna allusione alle accuse (sine ulla criminum mentione) che gli vennero ri-
volte2;
2) l’identificazione tra terzo libro delle Satire e Scipio è stata oggi giustamente ab-
bandonata (anche su questo problema cfr. l’introduzione allo Scipio);
3) i codici della fonte Nonio non attribuiscono unanimemente il frammento al li-
bro terzo: al quarto libro (lib. IIII) lo attribuisce BA, uno dei rami della tradi-
zione manoscritta postulati da Lindsay 1903; il fatto che lib. IIII sia in posizio-
ne stemmaticamente minoritaria non è un argomento decisivo a favore di lib.
III: nella tradizione manoscritta avvengono facilmente delle confusioni in casi
che, come il nostro, riguardano la numerazione dei libri; si noti inoltre che pro-
prio nel nostro frammento quasi tutti gli editori accolgono – a ragione, come
vedremo più avanti – la lezione uolt tibi, testimoniata, anche qui, solo da BA
contro uoltibi unanimemente tràdito dagli altri codici: forse è anche sulla base
di quest’ultima considerazione che lib. IIII era accolto nel testo da Quicherat
nella sua edizione di Nonio (1872) e, come apprendo dalla sezione dei ‘Testi-
monia’ apposta in calce al nostro frammento da Vahlen 1854, anche da Mercier
(anch’egli, evidentemente, nella sua edizione di Nonio).
L’ipotesi di riferire il frammento all’autodifesa da parte di Scipione, dunque,
non ha maggiori probabilità di cogliere nel segno rispetto ad altre proposte di

1 Così almeno a partire da Müller 1884 (Ein.), 109.


2 Cfr. Liv. 38, 50, 11 s.: Scipionem … sine ulla criminum mentione orationem adeo magnificam de rebus ab
se gestis exorsum esse, ut satis constaret neminem umquam neque melius neque uerius laudatum esse. Dicebantur
enim ab eodem animo ingenioque, a quo gesta erant, et aurium fastidium aberat, quia pro periculo, non in gloriam
referebantur. Un accenno al discorso di Scipione in propria difesa è stato ipotizzato anche in un altro frammen-
to enniano (Ann. 348 Sk.: infit: o cives, quae me fortuna fero sic contudit indigno bello confecit acerbo), ma vedi il
comm. di Skutsch 1985 ad loc., bis p. 547 s.
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Saturae - Commento, fr. VII (= Sat. 8-9 V.2) 119

contestualizzazione che sono state avanzate in alternativa dagli studiosi: van Rooy
1965, 32 ritiene che il nostro frammento esprima una condanna, da parte di En-
nio, dei diffamatori, ed è forse a questo che pensava anche Leo 1913, 207 (a cui si
richiama Waszink 1972, 136) quando assegnava genericamente i versi enniani che
stiamo discutendo a un contesto moralizzante; sviluppando ulteriormente questa
ipotesi, Scholz 1986, 47 ipotizza una constatazione moralistica a conclusione (cfr.
nam) di un racconto. Traglia 1986, con comprensibile cautela, si rassegna invece
a un non liquet, mentre Courtney 1993 non si pronuncia.

Anche a causa della mancanza di un contesto sicuro, o almeno probabile, di ri-


ferimento, la sistemazione del testo più prudente (perché non richiede interventi
congetturali) resta quella proposta da Lindsay (nell’edizione di Nonio, 1903) e
Vahlen 1903 secondo la quale il frammento enniano risulta costituito da un sena-
rio giambico completo (con iato prosodico dopo nam), seguìto dall’inizio di un al-
tro senario. Non senza ragioni, inoltre, Lindsay e Vahlen passano sotto silenzio
tutte le numerose congetture che erano state avanzate in epoca precedente: Vah-
len si limita a segnalare l’integrazione nam<que>, che egli stesso aveva proposto
nel 1859, e che mirava esclusivamente a evitare lo iato prosodico: e la menzione
di questa congettura era dovuta probabilmente soprattutto all’intenzione di cor-
reggere tacitamente Baehrens 1886, che accoglieva nel testo nam<que> attribuen-
dosene in apparato la paternità.
Delle numerose congetture al testo proposte in passato, Courtney riesuma in-
vece, segnalandola in apparato, l’integrazione qui <me> accolta nel testo enniano
da Quicherat nella sua edizione di Nonio (1872)3. Certo, se introduciamo me nel
testo tràdito, possiamo ottenere, come osserva Courtney, una scansione giambica
senza postulare uno iato prosodico tra nam e is: ma bisogna osservare che Qui-
cherat aveva proposto la sua integrazione all’interno di questa sistemazione com-
plessiva del testo tràdito:
nam is non bene uolt tibi, qui <me> falso apud te criminat.
Anche se Quicherat non fornisce indicazioni esplicite al riguardo, mi pare pro-
babile che, secondo la sua ricostruzione, che prevede anche la trasposizione di
apud te prima di criminat, il frammento enniano debba essere scandito come un
settenario trocaico completo4: e per ottenere questo metro bisogna continuare a
presupporre iato dopo nam.

3 Prima di Lindsay e Vahlen 1903 che, come si è detto, l’avevano trascurata, l’integrazione di Quicherat era

invece stata accolta nel testo da L. Müller sia nell’edizione enniana del 1884 che nel contemporaneo articolo di
adversaria Enniana comparso in «Philologus» (43, 1884, 86-105: 102) nonché nella successiva ed. di Nonio da
lui curata, 1888; <me> viene inoltre segnalata in apparato da Baehrens 1886 e accolta nel testo da Bolisani 1935:
abbiamo qui uno dei numerosi casi che dimostrano la dipendenza di Bolisani dalle edizioni di Müller e Baeh-
rens, e l’attenzione con cui queste ultime sono state prese in considerazione anche da Courtney.
4 In ogni caso Quicherat stampava il testo su un rigo solo, e segnalava in apparato, come ipotesi divergen-

te dalla sua, quella di porre, come nel testo qui accolto, fine di verso dopo criminat.
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120 Le opere minori di Ennio

Le ragioni che hanno indotto Quicherat a queste modifiche possono solo esse-
re congetturate e forse consistono nel fatto che, se si accoglie la scansione in se-
nari giambici con fine di verso dopo criminat, bisogna concludere che Nonio cita
il frammento enniano senza tener conto dell’unità di metro, e aggiungendo per di
più una parte di verso (apud te) che non era strettamente necessaria al suo scopo:
Nonio era infatti interessato a documentare l’uso della forma attiva, anziché me-
dio-passiva, di crimino(r)5: e per questo Nonio poteva limitarsi a citare il fram-
mento appunto fino a criminat se, come dobbiamo presumere con la scansione in
senari giambici, con questa parola terminava il verso. È probabilmente sempre
sulla base di queste considerazioni che, già prima di Quicherat, si era cercato di
intervenire in vari modi su apud te: Bothe 1837, 266 lo correggeva in ad me e, con
un intervento analogo a quello che compirà in séguito Quicherat, lo trasponeva
prima di criminat; invertendo inoltre il tràdito qui falso, Bothe otteneva il seguen-
te testo
nam is non bene uolt tibi falso qui ad me criminat
In questo modo, come avverte esplicitamente Bothe, il frammento enniano vie-
ne ridotto ad un solo senario giambico completo (con sinalefe dopo nam). Per ot-
tenere la stessa sticometria, il Vahlen, nella sua prima edizione, proponeva invece
di espungere senz’altro apud te, ritenendolo un’indebita intrusione causata dalle
parole apud me che si trovano all’inizio di verso nel frammento acciano (Acc. tr.
447 R.3 remanet gloria / apud me; exuuias dignaui Atalantae dare) citato da Nonio
nel lemma immediatamente successivo a quello in cui si trova il nostro frammen-
to enniano. Accogliendo inoltre la trasposizione proposta da Petermann 1851, 21,
tibi uolt in luogo di uolt tibi il Vahlen nella prima edizione, dunque, stampava il
seguente testo:
nam is nón bene tibi uólt qui falso críminat
Secondo gli ictus, che qui ho riportato, indicati dallo stesso Vahlen (e, già pri-
ma, da Petermann, cit.) il frammento dovrebbe costituire un senario giambico
che, tuttavia, risulta inaccettabile6: l’unico modo per far tornare il verso, mi pare,
sarebbe postulare un’infrazione alla norma di Ritschl, con elemento bisillabico
strappato tra bene e tibi.
Tutti gli interventi su apud te che abbiamo qui registrato, tuttavia, risultano
sconsigliabili per due ragioni complementari:
1) è vero che, come osserva Bothe a sostegno della correzione ad te, il comple-

5 La forma attiva si trova anche in una delle altre tre attestazioni del verbo in epoca arcaica (Plaut. Pseud.

493; in Plaut. Bacch. 783 e in Ter. Eun. 855 si trova invece la forma deponente); in epoca successiva la forma at-
tiva del verbo – stando al Th. l. L. s. v. crimino(r) IV [1908] 1197, 19-22 – è documentata solo altre tre volte.
6 Come L. Müller, «Philol.» 43, 1884, 102 non perse occasione di rilevare ironicamente per mettere alla

berlina l’odiato Vahlen: «so schreibt hr. Vahlen: wie man diesen trimeter scandiren soll, weiss ich nicht».
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Saturae - Commento, fr. VII (= Sat. 8-9 V.2) 121

mento di crimino(r) che esprime la persona o le persone dinanzi a cui si avan-


za l’accusa viene espresso in caso accusativo determinato da ad (cfr. ad es. Liv.
3, 9, 2 patrum superbiam ad plebem criminatus citato dallo stesso Bothe e, inol-
tre, Th. l. L. s. v. crimino(r), IV [1908], 1198, 27 ss.); ma, come risulta dalla vo-
ce del Thesaurus ora citata, questo stesso complemento di crimino(r) viene
espresso anche ricorrendo ad altri sintagmi: il dativo semplice o, come appun-
to ritroviamo nel testo tràdito del nostro frammento, l’accusativo determinato
da apud (cfr. Th. l. L. cit., 1198, 19-27): e si noti che quest’ultimo sintagma si
ritrova in una delle altre 3 attestazioni di crimino(r) in epoca arcaica (Plaut.
Pseud. 493: erum ut seruos criminaret apud erum). Il fatto poi che apud te risul-
ti un sintagma così ben attestato ne rende improbabile anche l’espunzione pro-
posta da Vahlen nella prima edizione (e lo stesso Vahlen la ripudiò implicita-
mente nella seconda edizione, omettendo persino di segnalarla in apparato);7
2) la ratio laudandi di Nonio è molto varia perché varie sono le fonti da cui egli di-
pende (cfr. Skutsch 1985, 39): anche in altri casi Nonio cita una parte di testo
che, pur non essendo necessaria, e pur appartenendo a due versi differenti, ser-
ve comunque a precisare quale fosse il significato del passo citato: cfr. Enn.
ann. 23 s. Sk. (=26 V.2) Saturno / quem Caelus genuit riportato da Nonio per
documentare caelus maschile (si noti che, per le stesse ragioni, il frammento è
tramandato anche da Carisio, il quale però ometteva Saturno).

7 Alcuni degli editori successivi che l’hanno accolto nel testo traducono apud te con ‘nella tua famiglia’ (cfr.

Warmington 1935, 387 traduce «for no well-wishers of yours is he who spreads slanders in your family»; rical-
cata su quella di Warmington è la traduzione di Traglia 1986, 367: «ché non vuol bene a te chi nella tua famiglia
sparge calunnie»). Questa interpretazione sembra presupporre che anche nel nostro frammento apud significhi
‘a casa di...’, secondo un uso di questa preposizione – in particolare, come nel nostro caso, proprio in associa-
zione con un pronome personale – in effetti assai frequente già a partire da Livio Andronico (cfr. Th. l. L. II 339,
58 ss.; tra i paralleli che potrebbero apparire assai affini al nostro caso cfr. ad es. Naev. com. 21 R.3: quis heri apud
te? Praenestini et Lanuuini hospites). Ma quanto abbiamo osservato sopra nel testo rende più probabile l’ipote-
si che apud te significhi ‘davanti a, al cospetto di’, secondo il valore che, come abbiamo visto, apud ha in con-
nessione con crimino(r) e, come risulta dal Th. l. L. II 341, 60 ss. anche con altri verbi di significato equivalente.
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122 Le opere minori di Ennio

Dal libro IV?


Sat. VIII (= Sat. 12-13 V.2)

La scansione sotadica (proposta da Th. Hug apud Vahlen 1854, – di cui cfr.
l’app. crit. ad loc., p. 158 – e accolta da Müller 1884 e Baehrens 1886)
– – ! ! |– – ! ! |– ně qu(e) illě | triste
quaerîtat sînapi nêquê cepê maestum
si sconsiglia perché «a meno di supporre una improbabile productio davanti a ce-
sura, la lunga finale in sinapi fa difficoltà; meglio quindi accogliere la ripartizione
di Vahlen [nella sec. ed.] e pensare quindi a un settenario giambico con cesura
dopo il IX elemento»1.
L’individuazione dell’opera di provenienza di questo frammento costituisce un
problema dagli aspetti piuttosto singolari. Servio Dan. attribuisce il frammento
genericamente a Ennio, senza indicarne l’opera di provenienza; la tradizione ma-
noscritta di Macrobio è concorde nell’assegnare il frammento al quarto libro Sa-
binarum. Una delle ragioni che indusse Colonna (1585-86) a correggere il testo
tràdito in Satirarum (e quindi ad attribuire il frammento al IV libro delle Satire)
era che all’epoca non era nota alcuna opera enniana intitolata Sabinae. Ma un nuo-
vo elemento venne successivamente a complicare la questione: nel 1823 A. Mai
curò l’editio princeps dell’Ars rhetorica di Giulio Vittore (IV d.C.?) in cui si ri-
portava un esempio introdotto con le parole ut Sabinis Ennius dixit2: che Sabinis
indicasse il titolo di un’opera enniana concluse subito il Mai3 e fu ribadito da Vah-
len, che propose anche di considerare le Sabinae una praetexta4.
Della discussione di Vahlen converrà mettere in rilievo alcuni punti che oggi ri-
sultano un po’ in ombra: che da Giulio Vittore si ricavi la testimonianza di un’o-
pera enniana intitolata Sabinae non è del tutto sicuro ed è stato in effetti messo in
dubbio5: da questo punto di vista la testimonianza di Macrobio diventa un ele-

1 A. Cavarzere, ‘Ab saturis ausus est’. A proposito di un articolo recente sulla satira preletteraria, «Pro-

metheus» 16, 1990, 175-180: 176 n. 5. Alla scansione in settenario giambico si adegua la sticometria del fr. ac-
colta nell’ed. (così anche Courtney: Scholz 1986, 47 sospende il giudizio).
2 Iuris ciuilis et Symmachi orationum partes. C. Iulii Victoris ars rhetorica, Romae 1823, 52 (= rhet. Lat. 402,

30 Halm): ab eventu in qualitate ut qualia sunt ea quae evenerunt aut quae videantur eventura, tale illud quoque
existimetur ex quo evenerunt, ut Sabinis Ennius dixit cum spolia generi detraxeritis, quam inscriptionem dabitis?
(per questa interpunzione del testo cfr. «Lexis» 18, 2000, 255-257).
3 Questa conclusione era già stata anticipata da A. Mai – sulla base della testimonianza ancora inedita di

Giulio Vittore – in M. T. Ciceronis De Re publica , Romae 1822, 139.


4 J. Vahlen, Zu Ennius, «RhM» 16, 1861, 571-585: 580 (= Gesamm. philol. Schriften, I, Leipzig und Berlin

1911, 418). Questa ipotesi, senza tuttavia la dimostrazione fornita in seguito da Vahlen, era già stata formulata
da Th. Hug e H. Ilberg, come ricorda Vahlen nella prefazione della sua I ed. enniana (1854, LXXXVIII), ma
non nell’art. del «RhM», dove Vahlen omette anche di ricordare che in quella pagina della prefazione aveva scar-
tato la possibilità che le Sabinae fossero una praetexta: per Vahlen 1854 le Sabinae erano una poesia che faceva
parte del IV libro delle Satire – in cui infatti Vahlen pone il frammento citato da Giulio Vittore, p. 161).
5 Th. Bergk, Kritische Bemerkungen zu den römischen Tragikern, «Philologus» 33, 1874, 249-313: 294;
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Saturae - Commento, fr. VIII (= Sat. 12-13 V.2) 123

mento a favore decisivo e su cui in effetti sia il Mai che il Vahlen facevano leva per
confermare il titolo Sabinae. Ma se, come lascia presumere il titolo, l’opera tratta-
va del ratto delle Sabine (e a questa vicenda si lascia agevolmente ricondurre il
brano tràdito da Giulio Vittore), quale contesto si poteva immaginare per il fram-
mento tramandato da Macrobio? Anche il Vahlen – che pure voleva, come il Mai,
attribuire alle Sabinae anche il frammento macrobiano – non dava nessuna rispo-
sta a questo problema (ben poco convincente – e forse consapevolmente Vahlen
ne omette la citazione – risultava la soluzione proposta qualche anno prima da
Jan6). Inoltre, l’ipotesi di Vahlen di considerare le Sabinae una praetexta, si scon-
trava con il fatto che Macrobio ci testimonia che tale opera doveva essere com-
posta di almeno quattro libri: Vahlen proponeva di espungere quarto, che in Ma-
crobio sarebbe sorto per dittografia dell’ultima lettera di Sabinarum che precede
(m > IIII, in seguito scritto per esteso). La difficoltà di coordinare le notizie for-
nite da Giulio Vittore con quelle ricavabili da Macrobio indusse Vahlen stesso,
nella seconda edizione, a rinunciare all’idea di ricondurre anche il frammento trà-
dito da Macrobio alle Sabinae e a ritornare alla correzione di Colonna in libro Sa-
tirarum quarto). Sono ben lontano dal voler mettere in discussione l’ipotesi – og-
gi pacificamente accolta – di considerare le Sabinae una praetexta7: d’altro canto
il confronto con un passo delle Fenicie di Euripide addotto da Vahlen risulta un
forte argomento a favore della provenienza della citazione enniana in Giulio Vit-
tore da un’opera drammatica. Solo, è interessante notare che a questa conclusio-
ne si è arrivati anche appoggiandosi a una testimonianza (in libro Sabinarum quar-
to di Macrobio) che in seguito è stata ritenuta corrotta e che tuttora viene consi-
derata tale.
Bisogna tuttavia ammettere che – oltre alle difficoltà di contestualizzazione del
frammento macrobiano indicate sopra – riesce comunque difficile immaginare,
come già osservava il Colonna, quale altra opera, composta da almeno 4 libri, po-
tesse essere dedicata al ratto delle Sabine, né sono certo convincenti le soluzioni
proposte8. Per queste ragioni la correzione satirarum in Macrobio risulta la solu-

secondo Bergk, Giulio Vittore si riferisce in realtà alla narrazione del ratto delle Sabine svolta da Ennio negli An-
nales; in luogo di ut Sabinis Ennius dicit Bergk presupponeva un’originaria formulazione ut Sabinae apud Ennium
oppure ut Sabinas fecit dicentes della fonte che Giulio Vittore avrebbe maldestramente rimaneggiato. L’espres-
sione ut Sabinis dicit Ennius, intesa come riferimento al titolo di un’opera, deve evidentemente aver creato qual-
che difficoltà anche a Halm che in app. cr. proponeva di leggere «fort. in Sabinis» [proposta ancora menziona-
ta da Giomini-Celentano]: in effetti, nel testo di Giulio Vittore non ho trovato altri casi in cui si indica in abla-
tivo semplice l’opera di provenienza di una citazione.
6 Per Jan (II, 1852, 527) il nostro frammento sarebbe pronunciato da un Romano che irride le lacrime di

una Sabina rapita (che “non ha bisogno di senape o cipolle per stimolare il pianto”). A questa interpretazione è
legata la proposta di Jan di integrare ill – assente in Macrobio ma ricavabile dalla lacunosa testimonianza di Ser-
vio – con ill<a> (femminile perché si riferisce alla Sabina): ill<a> di Jan è accolto da Traglia, che tuttavia non se-
gnala che quella congettura era subordinata all’assegnazione del frammento alle Sabinae.
7 Cfr. anche H.D. Jocelyn, Ennius as a dramatic poet, in Ennius Hardt 1972, 39-95: 82-88 e A. La Penna,

Le Sabinae di Ennio e le Fenicie di Euripide, «SIFC» 93, 2000, 53 s.


8 J. Ch. F. Bähr, (cito dalla trad. it. della terza ed. della sua Gesch. d. röm. Lit., I, Torino, 1849, 191) pen-

sava a un’opera in prosa; Jan a un poema anteriore agli Annales composto in saturni.
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124 Le opere minori di Ennio

zione più economica, tanto più che, per il contenuto, il frammento trova proprio
interessanti paralleli nella tradizione satirica (cfr. sotto). Per quanto riguarda allo-
ra l’origine dell’erroneo Sabinarum in Macrobio, si presentano due spiegazioni al-
ternative: considerare tale lezione 1) un lapsus di Macrobio9; 2) un lapsus di co-
pista. Entrambe queste spiegazioni presentano delle difficoltà: se si ritiene che
un’opera enniana intitolata Sabinae sia davvero esistita, per la seconda ipotesi bi-
sogna «presupporre un copista semidotto che si sia ricordato a sproposito delle
Sabinae di Ennio»10, opera che, almeno per quanto possiamo giudicare noi, do-
veva essere piuttosto rara. La conoscenza di quest’opera potrebbe più agevol-
mente essere attribuita a Macrobio stesso (e questo è il punto di forza della prima
spiegazione dell’errore), ma se si ammette l’ipotesi oggi vulgata, bisognerebbe at-
tribuire a Macrobio la confusione di una tragedia con un’opera in più libri.

Il frammento viene citato da Macrobio per l’esemplificazione di tristis = ama-


rus secondo un uso che ricorre anche in Virgilio georg. 1, 7511 (ma cfr. anche i pas-
si citati da Mynors nel suo comm. ad loc., Oxford 1990, 17). Più precisamente, bi-
sognerà intendere tristis con il valore causativo che si dovrà riconoscere anche per
maestum riferito a cepe12: la senape e la cipolla vengono definite rispettivamente
‘triste’ e ‘mesta’ perché triste e mesto diventa chi si nutre di tali cibi: non solo la
cipolla, come è ovvio, ma anche la senape sono spesso indicati come cibi che, a
causa del loro odore pungente, irritano gli occhi e suscitano il pianto: cfr. Ateneo
9, 367a: sivnapu de; o{ti sivnetai tou;" w\pa" ejn th/` ojdmh/,` wJ" kai; to; krovm-
muon [=la cipolla] o{ti ta;" kovra" muvomen. Plaut. Pseud. 817 s.: teritur sinapis
scelera, quae illis qui terunt / priusquam triverunt oculi ut extillent facit; Varr. Men.
250 B. dulcem aquam bibat salubrem et flebile esitet cepe13. Probabilmente per
questa ragione W. Krenkel, Lucilius. Satiren, Leiden 1970, I, 14 riferisce il fram-
mento alla descrizione delle abitudini alimentari di un lippus, a cui ovviamente ci-
bi come la senape e la cipolla risultano particolarmente fastidiosi e per questo si
guarda bene dal mangiarle14. Su una strada più convincente si pongono invece le

9 Questa proposta sembra affacciare Willis il quale, sia nella prima che nella seconda ed. di Macrobio, ave-

va mantenuto nel testo Sabinarum senza segnalare nulla in app.: nelle correzioni aggiunte alla ristampa della se-
conda ed. di Macrobio (Stutgardiae et Lipsiae 1994, I, 468) Willis scrive che «saturarum sine dubio legendum»
e precisa che questa nota deve essere posta in apparato critico: dunque sembra di capire che Willis voglia conti-
nuare a mantenere nel testo Sabinarum che dovrà, quindi, essere interpretato come errore di Macrobio stesso.
10 S. Timpanaro, «Gnomon» 36, 1964, 790.
11 Questo conferma ulteriormente il fatto che, come osserva Thilo in apparato critico, la redazione finale

dello scolio danielino (in cui pure viene citato il nostro frammento enniano) è frutto di un assemblaggio che al-
tera la coerenza logica interna della redazione originaria: qui infatti il verso enniano doveva seguire direttamen-
te cum in gustu <amarum sit> triste – a dimostrazione, come in Macrobio, dell’uso dell’aggettivo tristis con il si-
gnificato di amarus – e non nam incoctus amarus est, perché in questo modo il frammento risulta assurdamente
citato a dimostrazione del fatto che il lupino è amaro.
12 Per questo uso causativo così netto di maestus il Th. l. L. 8, 49, 26 segnala solo il nostro passo enniano.
13 Cfr. anche Francesca Boldrer in comm. al X di Columella, Pisa 1996, 187.
14 Sull’interpretazione proposta da Krenkel avrà pesato anche il confronto con Lucil. 195 M. =199 K. lippus
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Saturae - Commento, fr. VIII (= Sat. 12-13 V.2) 125

interpretazioni di Weinreich 1949, 4 s. e di Waszink 1972, 128. Per la verità Wa-


szink tende a presentare la propria ipotesi in contrapposizione a quella di Wein-
reich: quest’ultimo vede nel nostro frammento un contrasto – ricorrente in tutta
la successiva tradizione satirica romana – tra i banchetti lussuosi e i pasti frugali.
Waszink ritiene che il frustolo enniano rientri in una serie di consigli gastronomi-
ci15 (a chiarimento della propria interpretazione, Waszink propone di introdurre
nel frammento un’integrazione come neque <quisquis sapit> ille triste quaeritat
etc.). Il dissidio tra le due esegesi consiste nel fatto che cipolle e senape vengono
considerate da Weinreich come rappresentanti di un cibo frugale, da Waszink co-
me rappresentanti di un cibo disgustoso.
A me non sembra che queste due ipotesi debbano contrapporsi ed escludersi a
vicenda. Certo nel nostro frammento, come rileva Waszink, si sottolinea, più che
la povertà, il sapore disgustoso della senape e della cipolla; e in un passo di Var-
rone a cui Waszink fa riferimento (Varro ap. Non. 201 M. [Catus vel de liberis edu-
candis fr. 12 M. = 16 R.] ut cibo utatur modico et idoneo, ut uitet acria, ut est sina-
pi cepa alium) l’uso di senape, cipolla e aglio – definiti cibi acria – viene contrap-
posto non, come vorrebbe Weinreich, a un banchetto pantagruelico ma al cibo
modico et idoneo. Resta tuttavia il fatto che la cipolla «è ortaggio di largo uso cu-
linario, specie dei poveri» (Boldrer, cit., 187 con documentazione) e che anche la
senape nel passo dello Pseudolus plautino citato sopra si trova in un elenco di pie-
tanze che compaiono sulle mense degli avari. Si aggiunga che il frequentativo
quaeritat ben si adatta a indicare la ricerca faticosa dei mezzi di sussistenza da par-
te di un povero (cfr. Don. ad Ter. Andr. 75 [lana ac tela uictum quaeritans]: uix cot-
tidie inquirendo uictum inuenit). In questo contesto proporrei quindi di ricon-
durre il frammento alla descrizione di un ghiottone che dilapida il proprio patri-
monio in cibi gustosi e raffinati quale viene descritto nella poesia giambica greca
e in particolare in Ipponatte: 26 W.2 oJ me;n ga;r aujtw`n hJsuch/` te kai; rJudv hn /
quvnnavn te kai; musswto;n hJmevra" pavsa" / dainuvmeno" w{sper Lamyakhno;"
eujnou`co" / katevfage dh; to;n klh`ron: w{ste crh; skavptein / pevtra" ojreiva"
su`ka mevtria trwvgwn / kai; krivqinon kovllika, douvlion covrton («uno di loro
infatti, con calma e senza pause, giorno dopo giorno tonno e salsetta divorando
come un eunuco di Lampsaco si mangiò tutto il patrimonio; e così si trovò a do-
vere zappare pietre montane, mangiando fichi scadenti e pane d’orzo, roba da
schiavi»: trad. Aloni 1993); lo stesso motivo, ma rovesciato (si descrivono le lec-

edenda acri assiduo ceparius cepa spesso citato per il nostro fr. enniano: ma in Lucilio si parla di un ceparius che
diventa lippus a forza di mangiare cipolla e non, come bisogna supporre in Ennio, di qualcuno che evita di man-
giare cipolle. Non riesco inoltre a vedere la «mira quaedam similitudo» che C. Pascal (Quaestionum Ennianarum
particula II, «RFIC» 25, 1897, 236-249: 237) istituiva tra il nostro frammento e brani epicarmei citati da Ateneo
come, ad es., 2, 70f mavraqa traceve" te kavktoi, toi`" a[lloi" me;n fagei`n / ejnti; lacavnoi" (ancor meno si-
gnificativi gli altri brani segnalati): si noti che su questa supposta coincidenza il Pascal proponeva di identifica-
re il quarto libro delle Satire con l’Epicarmus enniano.
15 Interpretazione analoga già in van Rooy 1965, 32 («on the tastes of a gastronomer»).
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126 Le opere minori di Ennio

cornie che il ghiottone, ormai squattrinato, non può più mangiare) in Hippon. 26
a W.2: oujk ajttageva" te kai; lagou;" katabruvkwn, / ouj thganivta" shsav-
moisi farmavsswn, / oujd’ ajttanivta" khrivoisin ejmbavptwn («non mangia né
pernici né lepri, non immerge le frittelle nel sesamo, né intinge le focacce nel mie-
le»: trad. Aloni 1993): in Ennio il ghiottone non cerca cibi poveri come la cipolla
e la senape. Se si accetta questa interpretazione, si può cogliere nel nostro fram-
mento un comico intento di sfruttare appieno la tradizionale qualifica di cipolle e
senape come alimenti tristes e maesti: la tristezza causata da cipolla e senape è do-
vuta non solo all’asprezza dei loro sapori ed effluvi che stimolano le lacrime, ma
anche alla mestizia che tali alimenti causano a chi va in cerca di cibi ben più raf-
finati16. Questo valore, almeno per maestum, è stato colto ed esplicitato da Pom-
ponio che – se si accoglie la proposta di Citti17 – in Atell. 80 s. Ribb.3 (cenam quae-
ritat: / si eum nemo vocat, revortit maestus ad menam [Traina: maenam edd.] mi-
ser) ha come «ipotesto» (Citti, cit., 151) il nostro fr. enniano: «la cipolla enniana
diviene un’aringa, ugualmente povera, ma che non fa piangere per i suoi fumi,
quanto per la sua sobrietà, e come maestus, non più in senso traslato, ma in senso
proprio, è qualificato il poveraccio rimasto a bocca asciutta» (Citti, cit., 154).

16 Lo stesso motivo (le lacrime suscitate dalla senape sono dovute anche al fatto che si rinuncia all’uso di

cibi più ghiotti) è sfruttato da Plauto nel passo dello Pseudolus citato sopra.
17 F. Citti, Una ‘mena’ per cena, Pompon. Atell. fr. 80 s. Ribb.3, «MD» 33, 1994, 151- 155.
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Saturae - Commento, fr. IX (= Sat. 14-19 V.2) 127

Da libri incerti
Sat. IX (= Sat. 14-19 V2)

La discussione su questi versi presenta numerose incertezze dovute all’inade-


guatezza dell’edizione della fonte (il commento di Donato a Terenzio) a cui biso-
gna tuttora fare riferimento (quella a cura di P. Wessner, Lipsiae 1902-1905)1. Le
manchevolezze di questa edizione sono state più volte ribadite da M. Reeve: su-
bito dopo la pubblicazione della sua edizione, vennero alla luce importanti ma-
noscritti ignorati da Wessner2; inoltre, anche a un controllo sporadico, nell’appa-
rato critico di Wessner risultano numerosi gli errori in genere e, in particolare, nel
riferire lo stato della tradizione manoscritta3. Per questa ragione ho proceduto,
per quanto mi è stato possibile, a una verifica dell’apparato di Wessner al passo
che qui ci interessa riesaminando sia alcuni codici già visti da Wessner, sia altri co-
dici che, seppure noti a Wessner, non furono da lui collazionati. A differenza di
Wessner, inoltre, ho potuto tenere conto dei codici QGHJ esaminati per la prima
volta da Reeve 1979 il quale tuttavia, per il passo che qui ci interessa, limita la pro-
pria collazione (p. 316) solo alla tormentata parte introduttiva (da sed a translata):
dei codici QGHJ manca dunque la collazione per il testo del frammento: per
quanto provvisorio, tuttavia, l’apparato critico che qui presento permette comun-
que sia di arricchire, sia di rettificare l’apparato di Wessner:

In Ter. Ph. 339-341 Formione contrappone comicamente, da una parte, la bea-


ta baldanzosità del parassita che si accinge a mangiare a quattro palmenti, dall’al-
tra, la progressiva disperazione dell’anfitrione che lo mantiene e vede così seria-
mente minacciato il proprio patrimonio:
ten asymbolum uenire unctum atque lautum e balineis,
otiosum ab animo, quom ille et cura et sumptu absumitur!
dum tibi fit quod placeat, ille ringitur: tu rideas
prior bibas, prior decumbas; cena dubia apponitur...
Secondo il comm. ad loc. di Donato, il precedente per questa descrizione del
parassita e del suo ospite deve essere rintracciato non nel modello del Phormio
esplicitamente indicato da Terenzio (cfr. Ph. 25 s.) – l’Epidicazomenos del com-
mediografo greco del III sec. a.C. Apollodoro di Caristo – ma nei senari giambici
che costituiscono il nostro frammento.

1 L’ed. a cura di H. T. Karsten (Commenti Donatiani ad Terenti fabulas scholia genuina et spuria probabili-

ter separare conatus est H. T. K., 2 vll., Lugduni Batavorum 1912-13) si pone esclusivamente l’obiettivo di rica-
vare dalla massa del commento le parti che risalirebbbero direttamente a Donato mentre, per la costituzione del
testo, segue dichiaratamente (cfr. p. XXII della pref.) l’ed. di Wessner.
2 Cfr. M. Reeve, The textual tradition of Donatus’s commentary on Terence, «Hermes» 106, 1978, 608-618:

608 e ancora Reeve 1983, 156 n. 14.


3 Cfr. Reeve 1979, 323 s.: questo genere di rilievi ovviamente deve essere avanzato con tutto il rispetto di

chi sa cosa significhi il lavoro di collazione dei codici.


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128 Le opere minori di Ennio

Che tra di esso e il brano del Phormio terenziano vi sia un rapporto diretto, ta-
le da far presupporre una dipendenza di uno dall’altro, è stato giustamente riba-
dito, contro i dubbi di alcuni studiosi4, anche dalla puntuale analisi di A. Minari-
ni (Il monologo di Gnatone, Bologna 1995, 44-48) la quale – nell’intento di evi-
denziare il «parallelismo non solo concettuale, ma anche formale» (Minarini, cit.,
46) tra i due passi – ha richiamato l’attenzione (ibid.) «sull’identità lessicale
(lautus, cura, uenire/aduenis, tu rideas /ridens, animo), sull’analogia della struttu-
ra antitetica (dum tibi fit ... ille ringitur ~ ille tristis est ... dum cibum ... tu ridens),
sul cumulo sinonimico sostenuto dall’allitterazione e/o dall’omeoptoto (LaetUS
LautUS ~ unctUMM atque lautUM5), che arriva nel passo ‘originale’ fino alla pa-
ronomasia, sul generale ricorso a marcate sottolineature foniche»6.
L’individuazione dell’autore e dell’opera da cui proviene il nostro frammento
– che ci è noto solo grazie alla citazione di Donato – risulta tuttavia assai proble-
matica. L’attribuzione al sesto libro delle Satire enniane da parte di G. Colonna
(1585-86) si basava sul testo del commento di Donato che era vulgato nelle edi-
zioni dell’epoca e secondo le quali la citazione del frammento era introdotta con
le seguenti parole:
haec non ab Apollodoro sed e sexto satirarum Ennii translata sunt omnia
Questo testo è stato accolto anche da numerosi editori del commento di Do-
nato successivi al Colonna (Lindenbrog 1602, Westerhov 1726 e Klotz 1838-40),
i quali tuttavia non fornivano alcuna indicazione della sua base documentaria; pa-
rallelamente, sul versante delle edizioni enniane, sulla scia di Colonna, si è conti-
nuato a inserire il nostro frammento tra i resti delle Satire enniane. Tuttavia nella
sua prima edizione (1854) Vahlen, avvalendosi di un lavoro di collazione di ma-
noscritti del comm. di Donato a Terenzio compiuto in collaborazione con L.
Schopen7, poté affermare (in app. al fr., p. 158) che la lezione sed e sexto satira-
rum Ennii non si trova in realtà in nessun manoscritto, almeno fra quelli a lui
noti: solo nel codice «Gand.(aviensis)» si leggerebbe sed e sexto satis Ennii.

4 Cfr. Dziatzko-Hauler in P. Terenti Afri Phormio, Leipzig 19134 (=Amsterdam 1964), 131 e, più recente-

mente, W. G. Arnott in «G&R» 17, 1970, 37 n. 2.


5 Riguardo a queste due coppie, tuttavia, bisogna osservare che si può parlare propriamente di «cumulo sino-

nimico» solo per unctum atque lautum, non per laetus lautus: cumulo sinonimico si ha invece con sine cura laetus.
6 Tra queste ultime la Minarini, cit.., 46 segnala «per Terenzio, almeno la figura etimologica sumptu absu-

mitur, l’anafora e l’omeoptoto prior bibAS prior decumbAS, l’antitesi semantica con allitterazione ille RingiTur Tu
RiDeas; nell’anonimo [cioè nei senari citati da Donato] l’omeoptoto infertIS [ma su questa lezione cfr. sotto nel
testo] malIS, il cumulo sinonimico con para-allitterazione aLaCER CELsus, la marcatura delle sibilanti e delle
dentali nell’ultimo verso, marcatura che consolida ancora una volta un’antitesi: ille TriSTis [correggo così TriStis
che si legge per una svista nel testo della Minarini] eST Dum cibum ServaT Tu riDenS uoraS». La Minarini, cit.,
46-48, ipotizza inoltre che Terenzio si sia ispirato ai versi citati da Donato anche in alcuni passi dell’Eunuchus
come, ad es., al v. 235, abligurrierat bona con l’identico sintagma che si ritrova nel nostro frammento.
7 A p. XVIII Vahlen 1854 inserisce il Gandaviensis tra i codici (p. XV n. 1) «quorum sive nunc primum si-

ve denuo accuratius factae conlationes nondum in publicam lucem prodierunt». La collazione tuttavia non fu
fatta direttamente da Vahlen ma da L. Schopen (cfr. la praef. di Vahlen 1854, p. IX: «Ludovicus Schopenus, qui
criticam suam supellectilem ad Donatum Terentii interpretem conlectam meum in usum excussit»).
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Saturae - Commento, fr. IX (= Sat. 14-19 V.2) 129

Nella prima edizione scientifica del commento di Donato (quella già citata Wes-
sner, 1902-5), viene ulteriormente confermato che in nessuno dei codici noti si leg-
ge sed e sexto satirarum Ennii che Wessner attribuisce all’edizione – di Terenzio e
del comm. di Donato – a cura di R. Stephanus nel 1529 (f.169r): e di questo dato
riuscì a tener conto anche Vahlen nella sua seconda edizione di Ennio (1903)8.
Nessuna indicazione, invece, Wessner fornisce riguardo alla testimonianza of-
ferta in questo caso dal codice «Gandaviensis», a cui il Vahlen nella prima edizio-
ne, come si è detto, attribuiva la lezione sed ex sexto satis Ennii: dunque un testo
in parte identico a quello vulgato nelle prime edizioni a stampa (sed e sexto satis),
ma dal quale si ricaverebbe, se non l’indicazione dell’opera di provenienza, alme-
no la paternità enniana del frammento. Non sono stato purtroppo in grado di ap-
purare questo dato con un esame autoptico del codice, che tuttavia parrebbe non
avere alcun valore di tradizione, come ha ribadito, dopo Wessner, anche Reeve.
Nel 1899 al Wessner il codice Gandaviensis risultava perduto: cfr. Wessner 1899, 279,
dove si afferma tuttavia che una collazione di questo codice fu compiuta dal Gronovio nel
1656 sull’edizione di Donato curata da Lindenbrog e conservata nella biblioteca di Leida
(all’epoca di Wessner la segnatura era Gron. 12: cfr. la “praefatio” di Wessner, XXXV):
non ho potuto vedere quest’edizione, per cui non posso stabilire se Schopen ricavasse da
questa collazione di Gronovio le informazioni sul Gandaviensis (dalla collazione di Gro-
novio invece Wessner 1902, XXXV, afferma esplicitamente che dipendono le informazio-
ni che O. Ribbeck fornisce riguardo al Gandaviensis nella sua edizione dei frammenti dei
comici latini). Tuttavia almeno già dal 1881 si sapeva che il codice Gandaviensis si trova-
va a Genova nella biblioteca Durazzo10 (segn. A VII 13). Già Wessner 1899, 27 riteneva
questo codice descriptus da un’edizione a stampa e così si è continuato a ritenere (anche
se, per ragioni che non mi sono chiare, ci sono oscillazioni nell’individuare con precisio-
ne di quale edizione si tratti)11: per questo Reeve 1979, 310 n. 2 afferma di non essersi oc-
cupato di questo codice12.

8 Vahlen 1903 (di cui cfr. p. CXLIII) poté utilizzare il materiale raccolto da Wessner, la cui edizione del

comm. di Donato per la parte che qui ci interessa (contenuta nel vol. II) uscì nel 1905. Sul modo impreciso in
cui Vahlen 1903 riferisce, nella relativa sezione dei ‘Testimonia’, le parole di Donato che introducono la citazio-
ne del nostro frammento cfr. sotto, n. 14.
9 Di cui una sintesi in Wessner 1902, XXXV.
10 Cfr. A.[chille] N.[eri], Osservazioni di Gaspero Luigi Oderico sopra alcuni codici della libreria G. F. Du-

razzo, «Giornale Ligustico di archeologia, storia e belle arti» 7-8, 1881, 280 s.: ma l’indicazione, stando a K. G.
van Acker, De librije van Raphaël de Marcatellis, abt van Sint-Baafs en Bisschop van Rhosus, «Archives et Bi-
bliothèques de Belgique» 48, 1977, 143-198: 166, si troverebbe già in [G. B. Pittaluga], Catalogo della bibliote-
ca di un amatore bibliofilo, [Genova?] s. d. [1834-35?], p. 251 e nell’«Index omnium librorum manuscriptorum
… Raphaelis de Marcandellis» di A. Pichard, Bibliotèque manuscripte de Raphael de Mercatel, abbé de Saint-Ba-
von, «Le Bibliophile belge» 1872, 21-34, opere a me inaccessibili; cfr. tra le opere più recenti anche D. Puncuh,
I manoscritti della raccolta Durazzo, Genova 1979, nr. 104 (p. 154).
11 Wessne 1899 identificava l’edizione con Venetiis 1476; A. Derolez, The library of Raphael de Marcatellis,

Ghent 1979, 145-150: 150 con Venetiis 1479: l’edizione Venetiis 1476 mi è stata irreperibile perché l’unica co-
pia segnalata da IGI, e dunque l’unica rintracciabile in Italia (Pistoia, Sem.) risulta, – stando a dichiarazione ora-
le del bibliotecario (rilasciata il 14 marzo 1996) – rubata: ad ogni modo si può senz’altro escludere che qui si
leggesse Ennii perché tale lezione non si trova né in quelle che vengono considerate delle ristampe dell’ed. Ve-
netiis 1476 (Tarvisi 1477 e Venetiis 1479) né negli altri incunaboli.
12 Tuttavia se sarà senz’altro vera la dipendenza da un’edizione a stampa (e in nessuna si trova Ennii), è
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130 Le opere minori di Ennio

Parrebbe a questo punto che l’attribuzione del frammento poggi esclusiva-


mente su base congetturale e quindi poco affidabile: tanto più che l’esistenza di
un sesto libro delle satire enniane quale si ricaverebbe da questa congettura risul-
ta in contraddizione con l’esplicita testimonianza di Porfirione (ad Hor. sat. 1, 10,
46) per il quale le Satire enniane erano invece composte di 4 libri (Ennius qui quat-
tuor libros saturarum reliquit cfr. sopra Saturae, Test. II). Difatti, Vahlen, nella se-
conda edizione, mostrava grande perplessità sull’attribuzione al sesto libro delle
satire, nel quale pure continuava a inserire il nostro frammento, ma solo con l’in-
tento di evitare che tali versi venissero cercati invano (cfr. comm. ad loc.). E l’e-
sclusione del frammento dalle satire viene ribadita perentoriamente da Leo 1913,
206 n. 2, il quale faceva tuttavia leva soprattutto sul fatto che i versi in questione
«sind Komödie»: per questo, sulla base della lezione de cen*** data dal codice V,
Leo proponeva, seppur dubbiosamente, di identificarne l’autore in Cecilio. Que-
st’argomento di Leo in realtà non è molto forte: è vero che la descrizione del pa-
rassita che compare nel nostro frammento ha tutta l’aria di essere di provenienza
comica, ma d’altro canto le satire enniane (e così anche le satire di Lucilio) pre-
sentano forti legami sia espressivi che tematici con la palliata13. Waszink 1972,
131, consapevole di questo legame tra satira e palliata – legame che anzi egli stes-
so ha contribuito a sottolineare (cfr. p. 130) – si limita a espungere il frammento
dalle satire enniane perché l’attribuzione a quest’opera si basa (cfr. p. 131) su «a
very audacious conjecture by Stephanus»14 e, sulla scia di Waszink si pone anche
Scholz 1986, (35 n. 35).
Ma che sed e sexto satirarum Ennii debba essere considerato una congettura di
R. Stephanus non è sicuro. Nell’approntare la propria edizione, infatti, R. Stepha-
nus dice di aver utilizzato un “vetustum exemplar” donatogli dal suocero I. B.
Ascensius e oggi perduto. Le informazioni riguardo a questo codice si desumono
da un passo della prefazione di R. Stephanus alla propria edizione (prima pag. n.
n. dopo il frontespizio):
«Postremo reposita sunt graeca prope omnia, pro quibus antehac excusi codices lacu-

anche vero che, a quanto pare, il codice presenta numerose correzioni a margine: cfr. Derolez, cit., 150; la pre-
senza di correzioni non viene segnalata da P. O. Kristeller, Iter Italicum, 2 vll., 1963-67: 1, 247; 2, 523 (da cui mo-
stra di dipendere Reeve 1979, 310 n. 2).
13 Per Ennio cfr. qui i frr. I e IV. Per Lucilio cfr. ad es. le osservazioni di I. Mariotti, Studi luciliani, Firenze

1960, 13.
14 Waszink nel discutere il problema non si avvale della contraddizione che la testimonianza offerta dall’ed.

dello Stephanus creerebbe con la testimonianza di Porfirione vista sopra: questo probabilmente è dovuto al fat-
to che Waszink cita in modo errato (sed ex sexta satyrarum Ennii) il testo dello Stephanus (che, come ho con-
statato di persona, presenta il testo sed e sexto etc.): scrivendo sexta anziché sexto, Waszink faceva quindi pro-
venire il frammento da una “sesta satira” anziché da un “sesto libro delle Satire”. L’errore di Waszink dipende
molto probabilmente a sua volta dall’insidioso refuso che, nella seconda edizione di Vahlen, si era insinuato nel-
la sezione dei ‘Testimonia’ relativa al nostro frammento («sed e sexta satyrarum ut videtur Stephanus»): che
si tratti di un refuso è dimostrato dal fatto che Vahlen, sempre nella sua seconda edizione, ma nella prefazione
(p. CCVI) discuteva la testimonianza dello Stephanus presupponendo che da essa si ricavasse l’esistenza di un
sesto libro delle satire enniane.
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Saturae - Commento, fr. IX (= Sat. 14-19 V.2) 131

nis fere scatebant. Haec autem laboris pars operosissima fuit: cum in vetusto exemplari
manu scripto (quod nobis erat ex dono Iodoci Badij optimi soceri nostri, deque optimis
studiis in omni vita bene meriti) obscura tantum restarent vestigia graecarum litterarum:
quae, nisi ab homine perito, divinari non poterant. Quae omnia in favorem et subsidium
studiosorum praestitit quidam noster, immo communis optimi cuiusque amicus, graece ac
latine doctissimus: qui hanc suscepit emendationem antiquo illo quem dixi potissimum
fretus archetypo. Cuius fidem tametsi in plaerisque secutus est, in plurimis tamen est usus
coniectura sua: caeterum non sine acerrimo, quo in primis praeditus est, iudicio.»

Come si vede, lo Stephanus chiama in causa tale codice esclusivamente come


fonte per le citazioni in greco presenti nel commento di Donato e per le quali, co-
me possiamo constatare ancor oggi, molti codici lasciavano invece lo spazio in
bianco. Nel “vetustum exemplar”, invece, il testo greco era presente – seppure in
una forma molto sbiadita che richiedeva, per essere decifrata, l’intervento di un
«amicus graece ac latine doctissimus» (che non mi risulta essere stato identifica-
to: Bernays, come apprendo dalla praef. di Wessner 1902, p. XV, aveva ipotizza-
to che si trattasse di G. Budé). Che lo stesso Stephanus si sia servito di tale codi-
ce e che, soprattutto, se ne sia servito per la costituzione del testo anche laddove,
come nel nostro caso, non si trovavano passi in greco non è esplicitamente affer-
mato dallo Stephanus15, ma viene in genere ipotizzato negli studi sulla tradizione
di Donato: l’ipotesi è certo plausibile anche se forse, a mio avviso, richiederebbe
di essere dimostrata in modo più impegnato di quanto non si sia fatto finora: e che
manchi una valutazione adeguata dei contributi testuali offerti da tale edizione
sembra riconoscere anche Reeve 1983, 153 n. 2 che pure ipotizza16 che il codex de-
perditus dello Stephanus mostrerebbe di avere delle affinità con B, uno dei due
codici più antichi e importanti (ma purtroppo assai incompleti) che ci tramanda-
no il commento di Donato. Ma – riconosciuta l’esistenza di questo codex deperdi-
tus e ammesso che lo Stephanus lo abbia utilizzato anche per le parti latine – re-
sta aperta la questione se la lezione sed e sexto satirarum Ennii si possa attribuire
appunto a tale codice. Come si può infatti vedere dalle parole riportate sopra, lo
Stephanus stesso ammette che l’amico a cui si era rivolto – seppure nella maggior
parte dei casi seguì la testimonianza del codice – «in plurimis tamen est usus co-
niectura sua»: e purtroppo lo Stephanus non adottò nessun sistema per distin-
guere tra lezione testimoniata e lezione congetturale.
Stabilire se sed e sexto satirarum Ennii sia testo tràdito o congetturale è fonda-
mentale per la discussione del problema: se si dimostra infatti che si tratta di te-
sto tràdito si dovrà prendere atto della contraddizione con la testimonianza di
Porfirione e, semmai, seguire uno dei tentativi finora proposti di conciliazione tra

15 E difatti H. R. Lawton, Contribution à l’histoire de l’humanisme en France. Terence en France au XVIe siè-

cle. Éditions et traductions, Paris 1926, 141 s. ricavava dalla prefazione solo l’informazione che lo Stephanus ado-
però il vetustum exemplar solo per le citazioni in greco.
16 Riprendendo le conclusioni di R. Sabbadini, Il commento di Donato a Terenzio, «SIFC» 2, 1894, 1-134: 85.
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132 Le opere minori di Ennio

le due notizie17; ma se risulterà che sed e sexto etc. è frutto di una congettura, es-
sa viene invalidata automaticamente dalla contraddizione con la testimonianza di
Porfirione.
Un indizio che sed e sexto satirarum Ennii non sia congettura lo si potrebbe ri-
cavare, in maniera solo apparentemente paradossale, proprio dalla contraddizio-
ne con la testimonianza di Porfirione: poiché qui si afferma in modo inequivoca-
bile che le satire enniane erano in 4 libri18, risulterebbe strana l’introduzione per
congettura dell’esistenza di un sesto libro. Ma è chiaro che un’osservazione del ge-
nere è valida sola in linea astrattamente teorica, perché si potrebbe facilmente re-
plicare che l’isolata testimonianza di Porfirione sarebbe potuta sfuggire all’even-
tuale congetturatore del sesto libro delle Satire. E si potrebbe attribuire proprio a
una constatazione tardiva della contraddizione tra l’attribuzione congetturale a
Ennio di un sesto libro delle Satire e la testimonianza di Porfirione il fatto che i
nostri versi non compaiano nell’editio princeps dei frammenti enniani curata dal-
lo stesso R. Stefano e dal figlio Enrico, e uscita nel 1564: ma da questa assenza non
si può ricavare alcuna deduzione, perché nella silloge degli Stefano mancano an-
che altri frammenti di sicura attribuzione19.
A favore di sed e sexto satirarum Ennii come lezione di tradizione e non conget-
turale si è pronunciato Reeve, il quale segnala per la prima volta la testimonianza
dei codici QGHJ (che per la sezione del commento donatiano che qui ci interessa
vengono ricondotti da Reeve ad uno stesso gruppo indicato con la sigla D):
Q se de sextos al rarum est mi
G se de sextos alias rarum est ***
H se de sextos rarum est
J se desertos alr rarum mi
Sulla base di queste testimonianze, Reeve trae la conclusione che «at one
stroke, […] the ascription to Ennius is confirmed and Stephanus vindicated».
(Reeve 1979, 316). E certo, i nuovi dati addotti da Reeve sono notevoli perché mo-
strano come il testo sed e sexto satirarum Ennii offerto dallo Stephanus trovi nel-
la tradizione manoscritta una base documentaria maggiore di quanto lasciassero
pensare le tracce ben più esigue ricavabili dai codici noti a Wessner (cfr. app.).

Quippe ... esse animi? In mancanza di soluzioni alternative convincenti, mi


sono attenuto, pur tra molti dubbi, all’interpretazione sintattica di questi versi

17 Cfr. sopra, introduzione alle Saturae, p. 77.


18 In Maria P. Guidobaldi - F. Pesando, Index editionum, Romae 1992, 507 si afferma che l’editio princeps
di Porfirione è del 1555 (a cura di G. Fabricius, Basileae): se così fosse all’epoca dell’edizione dello Stephanus
(1529) la notizia non sarebbe ancora divulgata. Tuttavia questa indicazione deve evidentemente riferirsi alla pri-
ma edizione di Porfirione da solo e non come aggiunta al testo di Orazio (dove invece il testo di Porfirione com-
pare fin dalle prime edizioni a stampa: ad es. ho potuto leggere la testimonianza di Porfirione riguardo ai 4 libri
di satire enniane nell’ed. di Orazio, Venetiis 1490).
19 Cfr. sopra, p. 11.
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Saturae - Commento, fr. IX (= Sat. 14-19 V.2) 133

comunemente invalsa a partire Vahlen 1903 e seguita, ad esempio, dalla traduzio-


ne di Traglia 1986, 367:
«Ché, quando ti presenti senza preoccupazioni, allegro, tutto pulito, con le ganasce
vuote, le braccia snodate, arzillo e pettoruto, pronto a lanciarti per arraffare, con la tua fa-
me da lupo; poi quando dài sotto alle sostanze altrui, cosa pensi che passi nell’animo del
tuo anfitrione?».
Questa traduzione presuppone che nel testo del frammento venga posta una
virgola dopo impetu, e che quindi le parole da quippe a esse animi costituiscano
un unico periodo formato da:
a) la proposizione reggente quippe [...] quid censes domino esse animi?;
b) due proposizioni ad essa subordinate, e precisamente:
1) sine cura laetus lautus cum aduenis / infestis malis expedito bracchio, / alacer
celsus, lupino exspectans impetu: secondo questa interpretazione, cum adue-
nis viene determinato da una coppia di aggettivi predicativi (laetus e lautus)
che, in unione con sine cura, forma un asindeto trimembre;
2) Mox cum alterius abligurrias bona.

Il periodo complessivo così ottenuto ha la funzione di chiarire, secondo il va-


lore consueto di quippe, le ragioni di ciò che veniva affermato nei versi immedia-
tamente precedenti a quelli che costituiscono il nostro frammento, e che poteva
essere qualcosa come “<quanto bisogna commiserare l’anfitrione, se lo confronti
ai vantaggi di cui gode un parassita come te>20: infatti quando tu arrivi ecc., in
quale stato d’animo pensi che si trovi chi ti ospita?”
Bisogna tuttavia osservare che:
1) la coordinazione tra le due subordinate introdotte da cum appare piuttosto
stentata;
2) nelle sue pur numerose ricorrenze nella letteratura latina arcaica, non si trova
mai nessun altro caso in cui quippe, come nell’interpretazione vulgata che stia-
mo discutendo, serva a introdurre una domanda (quid censes domino esse ani-
mi?); l’unico passo vagamente analogo che sono in grado di citare si trova in
Cicerone (Att. 15, 21, 3 nullas [epistulas] a te XI Kal. [accepi]. Quippe, quid
enim iam novi?)
Non è chiaro se dipenda da questo tipo di considerazioni la punteggiatura ta-
citamente introdotta da Vahlen 1880, X:
Quippe sine cura laetus, lautus cum aduenis
insertis [sic] malis, expedito bracchio,
alacer celsus, lupino exspectans impetu.

20 Per questa integrazione prendo spunto dalla ricostruzione del frammento proposta da Schöll 1885 e che

menzionerò più sotto.


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134 Le opere minori di Ennio

Come si vede qui si trova, oltre a una virgola dopo laetus, anche un punto fer-
mo (e non una virgola, come poi il Vahlen stesso scriverà nella sua seconda edi-
zione) dopo impetu21. Riguardo all’interpretazione presupposta da questa diversa
interpunzione è possibile fare solo delle congetture, perché il Vahlen si limitava a
citare il frammento solo per documentare una tipologia di sintagmi in cui un ag-
gettivo (in questo caso laetus) veniva associato asidenticamente a un complemen-
to di esclusione introdotto da sine e di significato equivalente (cioè, nel nostro ca-
so, sine cura; Vahlen citava anche, ad es., Plaut. Bacch. 974 quadrigentos filios ha-
bet, / atque omnis l e c t o s s i n e p r o b r o ); inoltre bisogna osservare che il Vah-
len limitava la propria citazione solo ai primi 3 versi del frammento. Non appare
tuttavia azzardato ipotizzare che Vahlen nel suo lavoro del 1880, diversamente da
quanto farà nella edizione del 1903, legasse quippe non a quid censes domino esse
animi? (domanda che verrebbe a far parte di un periodo distinto, e che avrebbe
come subordinata solo la frase mox cum alterius abligurrias bona) ma alle parole
sine cura laetus; in questo modo, dunque, solo lautus avrebbe funzione di com-
plemento predicativo di aduenis, mentre quippe sine cura laetus costituirebbe una
proposizione in cui viene sottintesa una voce del verbo sum (nel nostro caso es) e
con la funzione di chiarire ciò che veniva affermato nei versi immediatamente pre-
cedenti e questa interpretazione presuppone un uso di quippe del tutto analogo a
quello che si trova, ad es., in Ter. Phorm. 361 ss.
nam iam adulescentuli nihil est suscenseam
si illum minus norat: quippe homo iam grandior,
pauper, quoi in opere vita erat, ruri fere
se continebat.
La sintassi del frammento oggi comunemente accolta sembrerebbe messa in
dubbio anche da Courtney 1993, come dimostrano le seguenti due proposte te-
stuali che egli menziona in apparato recuperandole da un lungo periodo di com-
pleto oblio. Si tratta di:
1) tu, introdotta da Müller 1884 in luogo di cum davanti a aduenis. Si tenga infat-
ti presente che tale congettura era stata avanzata da Müller all’interno di que-
sta sistemazione complessiva dei primi 3 versi del frammento:
sine cura quippe laetus lautus tu aduenis,
infestis malis, expedito bracchio,
alacer, lupino celsum exultans impetu.

Müller non spiega né a) le ragioni che lo hanno indotto alla trasposizione sine
cura quippe né b) in quale modo egli interpreti sine cura quippe laetus lautus: pos-
so quindi solo ipotizzare, per quanto riguarda il primo punto, che sine cura quippe

21 Anche in Frobenius 1910, 102, che si limita a citare il primo verso del frammento senza discutere la sin-

tassi complessiva del passo, viene posta una virgola dopo laetus.
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Saturae - Commento, fr. IX (= Sat. 14-19 V.2) 135

sia dovuto esclusivamente a ragioni metriche, che però non appaiono decisive22 e,
per quanto riguarda il secondo punto, che il tricolon sine cura ... laetus lautus, con
quippe posposto, debba essere considerato un complemento di aduenis. Ciò che è
sicuro, comunque, è che anche Müller presupponeva la fine di periodo dopo im-
petu: e a questa diversa interpretazione sintattica del frammento era legata la sosti-
tuzione, davanti a aduenis, di cum con tu.

2) l’ipotesi della caduta, dopo impetu, di un intero verso, come era stato postula-
to da Schöll 1885, che proponeva questa ricostruzione complessiva del fram-
mento:
<Rex quam miserandust tua si confers commoda!>
Quippe sine cura laetus lautus cum aduenis,
insertis malis, expedito bracchio,
alacer, lupino cellas impetu expetens,
<cum magna curat cura et sumptu absumitur>.
mox quom alterius abligurrieris bona,
quid censes domino esse animi? Pro diuum fidem!
ille tristis culum servat, tu ridens – voras.
Anche secondo questa ipotesi, come si vede, si evita la connessione di quippe
con l’interrogativa quid censes domino esse animi? e la coordinazione tra le due su-
bordinate introdotte da cum23.

2 infestis: la lezione insertis accolta fin dalle prime edizioni di Donato, e anco-
ra mantenuta da Vahlen 1854 sulla base di alcuni codici recenziori, non appare so-
stenibile, come conferma anche la stentata difesa fattone da Ribbeck 1883, 29 n.
1 («Die Backen des hungrigen Parasiten sind vor der Mahlzeit wie eine Tasche
eingeschlagen»). Sulla base di inferetis dei cdd. migliori24 (manca tuttavia la col-
lazione di QGHJ) Vahlen 1903 introduce infertis (così anche in Stephanus 1529,
per cui si pone nuovamente il problema, cfr. sopra, se si tratti di congettura o te-
sto tràdito) con il valore di «inanibus» (così Vahlen 1903 in app.). Questa inter-
pretazione tuttavia crea difficoltà dal punto di vista linguistico non soltanto per-
ché infertus come participio di infercio sarebbe un hapax assoluto (cfr. Th. l. L.
VII 1, 1367, 56), ma anche perché quest’ultimo verbo di norma significa “riempi-
re”, mentre qui dovrebbe assumere significato esattamente contrario. Vahlen 1903

22 La violazione della norma di Ritschl che si trova nel tràdito qu i ppê s î ne cura è ammessa quando ricorre,

come nel nostro caso, in seconda sede.


23 Giustamente invece Courtney omette di menzionare, oltre all’ipotesi di integrazione della lacuna, anche

le altre proposte di Schöll (particolarmente assurda, al punto da far pensare a un divertissement goliardico, è la
ricostruzione e l’interpretazione dell’ultimo verso).
24 Nell’app. di Wessner si legge «inferetis R, inferetis C» dove l’inutile duplicazione della stessa lezione in-

durrebbe a ipotizzare la presenza di un errore: in realtà entrambi questi cdd., come ho potuto constatare, dan-
no inferetis.
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136 Le opere minori di Ennio

(cfr. app.) ha pensato a una formazione artificiale sulla base della analogia farcio:
infertus = facio : infectus in cui il preverbio in- assume valore privativo: questa ipo-
tesi potrebbe essere giustificata costatando che tutte le altre attestazioni di infer-
cio – stando al Thesaurus – non sono anteriori a Cicerone, per cui il processo di
composizione di farcio con in- privativo in epoca anteriore a Terenzio (epoca a cui
comunque deve appartenere il nostro fr.) era facilitato dalla mancata concorrenza
di infercio = “riempire” (cfr. l’analogo contrasto tra incoctus = “crudo” con in- ne-
gativo in Plauto Mil. 208 e incoquo =“cuocere completamente” con in- intensivo
in autori più tardi). Per il senso, infertis = ”vuote” è certo plausibile perché si ag-
giungerebbe bene ai tratti comicamente minacciosi del parassita che vengono de-
lineati nel nostro fr. (il parassita si presenta a banchetto “con le ganasce vuote” e
con l’evidente prospettiva di… riempirle, secondo la rappresentazione tipica del
mangiare vorace: cfr. Plaut. Trin. 475 edim atque ambabus malis expletis vorem;
Curc. 126 s. [a proposito di una vecchia beona]: hoc vide ut ingurgitat impura in
se merum avariter, faucibus plenis25). Ma sotto questo aspetto risulta a mio avviso
preferibile la congettura infestis di Ritschl: giustamente Courtney nota che tale le-
zione si adatta bene alla metafora militare presente in expedito brachio che segue
immediatamente (per expeditus cfr. Caes. Gall. 4, 24, 3 [a proposito dell’attacco
compiuto dai soldati]: omnibus membris expeditis: cfr. inoltre Th. l. L. V 2 [1943]
1619, 70 ss.; per infestus Liv. 1, 23, 4 infesto exercitu in agrum Albanum pergit
“con l’esercito pronto al combattimento”): il parassita si appresta al banchetto
come un soldato alla battaglia; analoga assimilazione parodica dei parassiti a
cruenti soldati in Lucilio (718 M. viginti domi an triginta an centum cibicidas alas);
cfr. anche il tono parodicamente epicheggiante con cui Ipponatte (fr. 128 W.2) de-
scrive la voracità dell’“Eurimedontiade” (su cui cfr. E. Degani, Studi su Ipponatte,
Bari 1984, 203 ss.); il motivo, che nel nostro fr. è sicuramente presente almeno in
expedito brachio, è invece assente nel quadro tratteggiato da Terenzio.

3 alacer, celsus: il quarto elemento (che corrisponde alla sillaba -sus di celsus)
coincide con fine di parola ed è preceduto da un elemento lungo: abbiamo così
una infrazione alla norma di Meyer (cfr. ad es. Questa 1973, 534): l’esempio con
cui Vahlen 1903, in apparato, voleva difendere questa eccezione (scen. 19 V.2 = tr.
13 Joc.) si è dimostrato infondato; tuttavia numerosi esempi alternativi sono stati
indicati da L. Ceccarelli, La norma di Meyer, L’Aquila 1988, 55 e 119. Inoltre, co-
me ha mostrato Vahlen26 alacer, celsus appare un sintagma del tutto appropriato
al contesto: indica insieme la foga (ribadita da lupino expectans impetu che segue
immediatamente: cfr. sotto) e la letizia (di questo valore di alacer si riconosce la

25 Questi esempi plautini potrebbero far pensare che anche nel nostro fr. infertis malis significhi, come ma-

lis expletis e faucibus plenis in Plauto, “con le ganasce piene” secondo l’uso più comune o almeno più recente di
infercio: ma allora bisognerebbe pensare a un parassita che stia già mangiando e non, come nel nostro caso, a un
parassita che si accinge al banchetto.
26 Index lectionum aestivarum 1880, 14 (= Opuscula Academica, I, Lipsiae 1907, 116).
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Saturae - Commento, fr. IX (= Sat. 14-19 V.2) 137

continuazione nell’it. “allegro”) con cui il parassita si accinge al banchetto: cfr.


Sen. dial. 12, 8, 5 alacres itaque et erecti quocumque res tulerit intrepido gradu pro-
peremus [il senso di letizia risulta chiaro da tutto il contesto del passo senecano]:
alla gioia del parassita viene contrapposta la tristezza del patronus al v. 19.

lupino exspectans impetu: la foga di un parassita che si appresta a un banchet-


to viene equiparata a quella di un lupo anche in Plaut. Capt. 912 quasi lupus esu-
riens metui timui ne in me faceret impetum. Per exspectans in questo contesto cfr.
Th. l. L. V 2, 1895, 44.
4 abligurrias: la tradizione manoscritta ha oscurato il verbo in forma ben più
grave di quanto risulti dall’app. di Courtney (il quale indica come testo tràdito
abligurrias «vel sim.»: cfr. invece il nostro apparato): tutte le forme sono o vox
nihili o ametriche o tutte e due le cose insieme (a quest’ultimo caso appartiene
ablingas per cui non riesco a capire perché Wessner l’abbia accolto nel testo). Giu-
stamente tuttavia Courtney rivendica il fatto che dalle testimonianze in nostro
possesso l’unica forma che si può ricavare è una voce del verbo abligurrire: una
parole rara e che comprensibilmente nei codici è stata corrotta. Fatto notevole,
uno dei pochi casi di abligurrire si trova proprio in Terenzio (Eun. 235 patria qui
abligurrierat bona) e in un sintagma e con un significato (‘dissipare’) del tutto ana-
logo al nostro passo. La forma abligurrias comporterebbe un’infrazione alla legge
di Bentley-Luchs (abligur|rîas| bona): si spiega così abligurris introdotto da Court-
ney, che però si vede costretto anche alla trasposizione mox alterius abligurris cum
bona rispetto al tràdito mox cum alt. ablig. bona. Si può inoltre notare che abli-
gurris cum sarebbe parallelo a cum aduenis al v. 1: tuttavia, pur con molte diver-
genze, i codici sono unanimi nell’indicare la terminazione in -as, da cui non ap-
pare opportuno scostarsi (da scartare quindi anche le proposte abligurristi [Baeh-
rens 1886] e abligurrieris [Müller 1884] tutte metri causa) tanto più quando il
cambiamento comporta, come nel caso di Courtney, anche altri interventi testua-
li: l’osservazione di Courtney – per il quale l’esigenza di ristabilire un ordine del-
le parole più naturale avrebbe comportato lo spostamento di cum e di conse-
guenza l’esigenza di aggiungere una sillaba per ristabilire la metrica – appare ben
poco convincente: di fatto in nessuno dei codici la metrica torna; inoltre, come mi
segnala S. Timpanaro, un’infrazione alla norma di Bentley-Luchs si può difende-
re con Enn. Sc. 228 V.2 [=388 Joc.] loco licet e Sc. 340 V.2 [= 308 Joc.] parat putat
in finale di verso27. L’obiezione di Courtney, per cui il congiuntivo «lacks justifi-
cation» è poi infondata: per il cum con il congiuntivo già in età enniana cfr. Tim-
panaro 1978, 95 (la redazione originale di questo contributo è del 1949 eppure
non è stato recepito da HSz 622, da cui dipenderà ancora Courtney: cfr. invece
Skutsch 1985 comm. a Ann. 33, p. 192).

27 Su parat putat cfr. comm. di Jocelyn 1967, p. 426.


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138 Le opere minori di Ennio

6 ille ... uoras: la scansione di questo verso presuppone la prosodia ill’ con la
consueta caduta del fonema finale -ê, la prodelisione di est davanti a tristis28 e la
cosiddetta correptio iambica in cîbûm.

28 Io ho conservato, con Vahlen, la scriptio plena dei codici tristis est; se si volesse introdurre nel testo la

scrittura fonetica bisognerebbe scrivere non tristest, come afferma Vahlen in apparato, ma, con Courtney, tristi-
st: cfr. Leumann 1977, 123.
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Saturae - Commento, fr. X (= Sat. 20 V.2) 139

Sat. X (= Sat. 20 V.2)

Si può senz’altro condividere l’ipotesi di Puelma Piwonka 1949, 184 per il qua-
le il contrasto tra entità personificate – quale ci viene qui testimoniato da Quinti-
liano per una satura enniana1 – è un motivo di origine popolare2: Mortis et Vitae
iudicium era il titolo di un’atellana di Novio3; un contrasto tra il Mare e la Terra
compariva in una commedia di Epicarmo, poeta che a Ennio, autore dell’Epicar-
mus, doveva certo essere noto4. L’uso della personificazione, rileva ancora Puelma
Piwonka, è frequente nella letteratura diatribica (a p. 175 n. 2 Puelma Piwonka
rinvia a Varro Men. 123 B. Infamia, 141 Veritas, 147 Existimatio, 239 Metamelos
Inconstantiae filius).
Meno condivisibili mi paiono le deduzioni che da questi elementi trae Puelma
Piwonka, per il quale l’uso del contrasto e della personificazione nella satura en-
niana dimostrerebbe l’appartenenza di quest’opera alla «Volkliteratur» e in parti-
colare alla tradizione della satira di tipo menippeo5.
Innanzitutto bisogna ricordare che l’uso della personificazione non è elemento
esclusivo della letteratura diatribica: cfr. Peniva nel Pluto di Aristofane (il quale,
anzi, nelle Nuvole, v. 879 ss., mette in scena un contrasto tra Lovgo" [Adiko" e
Divkaio"6); Luxuria e Inopia nel Trinummus di Plauto; si ricordi inoltre Qavnato"
portato sulla scena da Euripide nell’Alcesti; lo stesso Quintiliano menziona la Fa-
ma personificata in Virgilio. Tanto più risulta discutibile la tesi di Puelma Piwonka
se si considera che il motivo dell’agone viene usato da Callimaco nei Giambi (194
Pf.: contesa tra l’ulivo e l’alloro), cioè proprio nell’opera che Puelma Piwonka

1 Parlando di “contrasto” presuppongo ovviamente la lezione contendentes: ma autorevolmente testimo-

niata è anche la lezione consentientes (stando all’albero genealogico dei codici fissato da Winterbottom, I p. V,
anzi, le due lezioni hanno lo stesso valore stemmatico poiché consentientes è rappresentato dall’importante A
(=Ambrosianus E. 153 sup., sec. IX) che da solo rappresenta uno dei due rami della tradizione manoscritta di
Quintiliano: consentientes si legge anche in b (il correttore di Bg, Bambergensis M. 4, 14, sec. X, teste Rader-
macher), H (=Harleianus lat. 2664 sec. X, teste Cousin) e F (Laur. Med. pl. 46, 7, sec. X: mia collazione perso-
nale su microfilm), tutti codici che nello stemma di Winterbottom risultano contaminati tra le due famiglie di A
e di B. Certo l’errore è strano e anzi, a prima vista, si sarebbe tentati di accogliere consentientes in quanto diffi-
cilior: ma il fatto è che consentientes appare sì difficilior ma anche inspiegabile: consentientes deve quindi essere
considerata una corruttela giustificabile come errore polare.
2 Così anche W. J. Froleyks, Der AGWN LOGWN in der antike Literatur, Inaugural-Dissertation zur Erlan-

gung der Doktorwürde der Philosophischen Fakultät der Rheinischen Friedrich-Wilhelms-Universität zu Bonn
1973, 169 che ricorda anche, con rinvio a RE [1933] 16, 314, che Mors «in Unteritalien eine alte Possenfigur
gewesen ist». L’agone tra la Vita e la Morte narrato da Ennio è richiamato da L. M. Kaiser, Wipo and Ennius. Se-
quence and satura, «The Classical Bulletin» 41, 1964, 13 s. a proposito della sequenza Victimae paschali di Wipo
de Bourgogne (XI sec.)
3 Questo confronto si trovava già in Colonna 1585-86.
4 Epicarmo è ritenuto da Traglia 1986 modello «assai probabile» per questa satura di Ennio.
5 Che Igino nel racconto di una favola in cui appariva Cura personificata si rifacesse a una satira enniana

(così F. Bücheler, Coniectanea, «RhM» 41, 1886, 1-12: 5 s. = Kl. Schr. III, Leipzig 1930, 86 s.) viene senz’altro
ammesso da Puelma Piwonka, ma si tratta di un’ipotesi priva di reale fondamento.
6 Per il contrasto tra la Vita e la Morte A. Dieterich (Pulcinella. Pompejanische Wandbilder und römische

Satyrspiele, Leipzig 1897, 78) trovava «die schlagendste Analogie in den Agones der griechischen Komödie» con
riferimento, oltre che a Epicarmo, anche a questo passo di Aristofane.
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Saturae - Commento, fr. X (= Sat. 20 V.2) 140

vuole contrapporre alle Satire enniane: quest’ultimo caso non è certo sfuggito a
Puelma, il quale tuttavia cerca di distinguere tra (p. 185) «die kunstvolle und
bewußt spielerische Einkleidung einer aktuell literarkritischen Auseinanderset-
zung» che assumerebbe il contrasto in Callimaco contrapposta a «eine moralphi-
losophische Allegorie»: tuttavia la fondatezza di questa caratterizzazione mi lascia
perplesso perché, per quanto riguarda Callimaco, possiamo basarci su un testo
abbastanza consistente, mentre per Ennio possediamo solo una scarna testimo-
nianza indiretta; né mi sembra convincente il tentativo di Puelma Piwonka di ov-
viare a questa mancanza di documentazione deducendo il carattere moralistico
del contrasto enniano dal fatto che quest’ultimo in Quintiliano sarebbe confron-
tato con il moraleggiante Herakles di Prodico: io non riesco a leggere in Quinti-
liano l’intenzione di operare un confronto tra Prodico e Ennio: Quintiliano si li-
mita ad affiancare i riferimenti a Prodico e a Ennio (e a Virgilio) semplicemente
per esemplificare l’uso della prosopopea. Un forte elemento di connessione con la
satira menippea ci sarebbe se – come Puelma Piwonka considera molto verosimi-
le – il contrasto tra la Vita e la Morte in Ennio fosse composto in un misto di pro-
sa e versi: ma la presenza di brani in prosa è esclusa dalla definizione della satura
enniana offerta da Diomede (carmen … quod ex variis poematibus constabat) e
Quintiliano (cfr. introduzione alla Saturae, 69). In questa situazione, dunque, nul-
la vieta di ritenere, come Puelma Piwonka è disposto a concedere per il IV giam-
bo di Callimaco, che anche nelle satire enniane personificazione e contrasto fos-
sero presenti «come spunti di cultura popolare assunti nell’ambito di una consa-
pevole operazione artistica»7.

7 Così, contro la tesi di Puelma Piwonka, Citroni 1991, 142 s.


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Saturae - Commento, fr. XI (= Sat. 21 V.2) 141

Sat. XI (= Sat. 21-58 V.2)

Gellio 2, 29 cita due settenari trocaici presentadoli come parte finale di una sa-
tira enniana (fr. XIb) in cui veniva narrata una favola esopica che Gellio aveva po-
co prima ampiamente parafrasata (fr. XIa). È impossibile determinare se e fino a
che punto Gellio abbia utilizzato anche per la propria parafrasi la versione della
favola fornita da Ennio: secondo Vahlen 1854, LXXXIX segni dell’influenza del-
l’originale enniano in Gellio sarebbero alcune espressioni di sapore arcaico (pulli
tremibundi trepiduli; die crastini; messim hanc nobis adiuuent; haec ubi ille dixit et
discessit; obsequibilis; primo luci; nidum migrauit) e la presenza di alcune sequen-
ze di andamento trocaico1, e tale ipotesi ha avuto molto successo, fino a eccessi
che sono stati ripudiati da Vahlen stesso2. Ma che questi argomenti non siano de-
cisivi è stato dimostrato dalla Luzzatto (1984, 82-84)3 la quale trae profitto dal
confronto tra la versione della favola di Arione narrata da Erodoto (1, 23) e riela-
borata da Gellio (16, 19): anche in quest’ultimo caso si possono riscontrare in
Gellio sequenze trocaiche (i ritmi giambici e trocaici, come osserva la Luzzatto,
con documentazione, erano consigliati per la prosa narrativa dalla trattatistica re-
torica dell’epoca di Gellio); nel confronto con l’originale erodoteo, inoltre, la Luz-
zatto evidenzia le particolarità stilistiche e la patina arcaizzante che in questo ca-
so non potranno attribuirsi che a Gellio stesso.
Riconosciuto questo, resta il fatto che Gellio afferma che hunc Aesopi apologum
Q. Ennius in satiris scite admodum et uenuste uersibus quadratis composuit: da que-
sta testimonianza ricaviamo, dunque, almeno l’indicazione del contenuto di una
satira enniana: per questa ragione ho ritenuto la soluzione editoriale meno insod-
disfacente mantenere il brano gelliano, che a rigore avrebbe dovuto trovare posto
tra le testimonianze, anziché tra i frammenti delle satire.
Della favola narrata da Gellio non abbiamo testimonianza nel corpus Aesopicum
in nostro possesso4: una versione compare invece in Babrio (88) e Aviano (21)5 con

1 Cfr. la discussione di Courtney.


2 Sulla scorta di Vahlen tenteranno di ridurre a settenari trocaici tutto il brano gelliano B. ten Brink, M. Te-
rentii Varronis locus de urbe Roma. Accedunt Q. Ennii apologus Aesopicus et reliquiae Euhemeri versibus quadra-
tis, Traiecti ad Rhenum 1855 [non vidi] e O. Ribbeck, 1856, 290 ss.; contro queste ricostruzioni cfr. Vahlen 1903,
CCXII s.
3 Questo articolo è citato da Courtney 1993, il quale tuttavia continua ad attenersi all’opinione vulgata con-

testata dalla Luzzatto e quindi non solo accoglie nell’edizione il testo della parafrasi enniana, ma ne fornisce an-
che un commento. Dubbi sull’ascendenza enniana della parafrasi di Gellio erano già stati espressi da Knoche
1971, 36 e, più recentemente, senza riferirsi all’art. della Luzzatto, H. D. Jocelyn, rec. a Courtney, «Hermathe-
na» 1995 [ma 1996], 61. La tesi della Luzzatto è stata ora rivendicata, con un ulteriore approfondimento delle
argomentazioni da lei addotte, da Del Vecchio - Fiore 1998, 59-67.
4 L’indicazione equivoca di Vahlen 1903, CCXI «in Aesopi fabulis (379 Fr. de Fur.)» che ha indotto in er-

rore numerosi studiosi indica in realtà la favola 88 di Babrio che aveva trovato luogo nell’ed. del Corpus Aesopi-
cum a cura di F. de Furia, Firenze 1810 (sulla questione cfr. Müller 1976, 196 n. 15). Sulla fortuna medievale del-
la favola cfr. G. Rotondi, Una parafrasi medievale della ‘Fabula cassite et agricole’, «RIL» 65, 1932, 717-732 che
non ho potuto vedere: un riassunto ne fornisce V. U.(ssani), in «StudMed» N. S. 7, 1934, 85.
5 Secondo E. Campanile, Ennio ed Esopo, in Studi di poesia latina in onore di A. Traglia, Roma 1979, I,
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142 Le opere minori di Ennio

alcune divergenze rispetto alla favola riportata da Gellio6. La presenza della favo-
la è frequente nella poesia giambica greca (Archiloco 174-181, 185-7 W.2; Callima-
co Iamb. II e IV [= 192 e 194 Pf.]) e nella tradizione satirica romana successiva a
Ennio (Lucil. 561-2, 980-9 M.; Hor. sat. 2, 3, 314-320; 2, 6, 79-117; forse un’allu-
sione in 2, 3, 299; e cfr. anche Hor. ep. 1, 7, 29-33; 1, 10, 34-38 nonché le allusioni
in ep. 1, 1, 73-75; 1, 3, 17-19; 2, 3, 139; una panoramica complessiva in Cozzoli
1995: sulla nostra favola in particolare pp. 191-192).

Nei due settenari sicuramente enniani, Traglia 1986, seguendo Vahlen 1903,
pone due punti dopo situm e traduce:: «Abbi sempre presente questa massima:
non aspettare dagli amici ciò che puoi fare da te». Secondo questa interpretazio-
ne, dunque, argumentum significa ‘massima’, e l’espressione hoc argumentum è
prolettica e viene esplicitata dall’intera frase ne quid exspectes etc. che segue.
Ma contro tale interpretazione si oppone innanzitutto – come era stato già os-
servato da E. Forcellini, e come risulta implicitamente anche dall’insieme della re-
lativa voce del Th. l. L.. (II [1902] 542-550; voce di O. Hey ) – la difficoltà di tro-
vare altre attestazioni sicure di argumentum = ‘massima’: tale non può certo esse-
re considerata – come invece presumeva V. De Vit nel suo rifacimento del Lexi-
con di E. Forcellini (v. I, Prati 1858-1860, 383) – la ricorrenza di argumentum in
Avian. fab. pr. 127. E un’obiezione analoga si può muovere anche all’ipotesi del-
l’OLD, s. v., § 2, secondo il quale nel nostro passo di Ennio argumentum signifi-
cherebbe «a conclusion based on inference, deduction»: anche in questo caso non
è possibile addurre paralleli sicuri (secondo l’OLD, un significato analogo il ter-
mine si troverebbe anche in Cic. Tusc. 3, 13 e fin. 1, 30; Tac. Agr. 11, 1 e Rhet. Her.
2, 5, 8: ma in tutti questi passi i più diffusi commentatori e traduttori moderni
danno ad argumentum il suo significato abituale di ‘argomentazione, prova, indi-
zio’, né si vedono ragioni per discostarsi da questa interpretazione).
Queste considerazioni contribuiscono a rendere ancora più sicura l’ipotesi che
nel nostro frammento argumentum significhi ‘apologo’ secondo un uso ben atte-
stato del termine (cfr. Th. l. L., cit., 549, 14 ss.) e che l’espressione hoc argumen-
tum significhi ‘questo apologo’ cioè ‘l’apologo narrato nei versi precedenti’: con
questo valore hoc argumentum viene sicuramente usato in Phaedr. 4, 17, 7 s. (hoc

63-68, in una iscrizione ritrovata presso Siracusa e datata alla fine IV - inizio III sec. a. C. pubblicata per la prima
volta da Margherita Guarducci nel 1932 (Koruvdalla ajristerav a[krhi [Campanile: a[krh inscriptio, Guarducci]
ejn ajrouvrh<i> ejsparmevnhi a[idousa) si ritroverebbe traccia della favola dell’allodola narrata da Ennio nelle sati-
re: a me sembra che nell’iscrizione indicata da Campanile la qualifica dell’allodola coma ajristerav – che Campa-
nile interpreta con il valore di «funesta» – risulti poco giustificabile (dovrebbe essere considerato un aggettivo pu-
ramente esornativo) se nell’iscrizione si deve riconoscere una traccia della favola riferita da Gellio.
6 Un confronto tra le varie versioni è stato compiuto, oltreché da Müller 1976, anche da Menna 1983. In-

centrato in particolare sul confronto con Phaedr. 2, 8 è M. von Albrecht, Römische Poesie. Texte und Interpreta-
tionen, Heidelberg 19771, 19952, 241-245
7 Nella sua pur ampia discussione, R. Ellis (The Fables of Avianus, Oxford 1887 = Hildesheim 1966, 50 s.)

prende in considerazione varie possibili esegesi di argumentum in questo passo di Aviano, ma senza neppure ac-
cennare alla possibilità che qui significhi ‘massima’.
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Saturae - Commento, fr. XI (= Sat. 21 V.2) 143

argumentum monet ut sustineas tibi / habitu esse similes qui sunt uirtutes impares):
sia in Ennio che in Fedro si tratta dei due versi che concludono una favola esopi-
ca e che, come molto spesso in questo genere letterario, contengono la morale del-
la storia. È molto probabile che in questi casi l’espressione hoc argumentum sia il
corrispondente della famosa formula oJ muvqo" dhloi` o{ti con cui si introduce la
morale alla fine delle favole esopiche.
Questa interpretazione di argumentum nel nostro frammento era già stata so-
stenuta in passato da E. Forcellini e L. Müller8, il quale poneva dopo situm non,
come Vahlen 1903, due punti, ma una virgola; sulla base di questa interpunzione
ne ... exspectes costituisce una subordinata finale dipendente dalla proposizione
precedente e nella quale viene espressa la parte iniziale della morale della favola.
Questa interpretazione sintattica trova ancora una volta un preciso parallelo con
il passo di Fedro citato sopra: anche qui, come in Ennio, abbiamo una proposi-
zione principale in cui si richiama la favola appena narrata (hoc argumentum) e da
cui dipende una subordinata finale (ut sustineas in Fedro, ne ...exspectes in Ennio)
con cui si introduce la vera e propria morale della storia.

In ne quid exspectes amicos, come aveva giustamente osservato Th. Stangl


(«BPhW» 34, 1914, 827), erronea è l’interpretazione sintattica di exspectes co-
struito con il doppio accusativo, come invece si continua a proporre nelle varie
edizioni del Georges s. v. exspecto (così anche nella versione italiana, dove il pas-
so enniano viene tradotto così: « non attendere dagli amici quello che puoi fare tu
stesso»9): il presunto parallelo, proposto dal Georges, di Sall. Cat. 40,3 miseriis
suis remedium mortem exspectare è in realtà del tutto eterogeneo (remedium è pre-
dicativo di mortem). Il passo si può invece spiegare agevolmente integrando ne
quid exspectes amicos con agere, che dipende ajpo; koinou` sia da possi<e>s che da
exspectes, e considerando dunque amicos soggetto di una proposizione oggettiva
dipendente da exspectes (in Ennio un altro caso di predicato posposto in posizio-
ne di ajpo; koinou` si trova in scen. 243 V.2: cum capra aut nepa aut exoritur nomen
aliquod beluarum).
Tra i vari tentativi di correzione del tràdito tu quod agere possis, ametrico, il più
fortunato è stato quello proposto da Fruterius: tu<te> quod agere possi<e>s; qui si
introduce il pronome rafforzato tute che è perfettamente adatto al contesto, dove
è richiesta una contrapposizione tra il tu a cui si rivolge l’ammonimento della fa-
vola, e gli amici. Certo neppure questa ricostruzione è sicura, e può essere condi-
visibile la cautela con cui Courtney conserva possi<e>s, e pone tu quod tra cruces.
La forma in promptum, anziché in promptu, è tramandata dai codici più im-

8 Cfr. il «Commentarius» posposto alla sua ed. di Ennio, 1884, 212.


9 Analoga alla traduzione proposta dal Georges è, ad es., quella di Traglia citata sopra: «non aspettare da-
gli amici ciò che puoi fare da te». A proposito del nostro frammento anche N. Catone, Grammatica enniana, Fi-
renze 1964, 111 parla di «doppio accusativo col verbo expecto (della persona, oggetto, e della cosa, relazione)».
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144 Le opere minori di Ennio

portanti di Gellio, e probabilmente per questa ragione è stata accolta nel testo di
Ennio da Vahlen (in entrambe le sue edizioni), e da Courtney. Sulla scorta della
voce del Th. l. L. s. v. ‘promptus’ (X 2 [2000, voce di Kruse] 1900, 74-1901, 3) si
potrebbe anche aggiungere che in promptum si ritrova «saepe» come variante an-
che nella tradizione manoscritta di altri autori, in alcuni dei quali è stato accolto
nel testo. Tuttavia, se si esclude il passo di Ennio, in promptum si trova sempre in
autori molto tardi: nell’unica altra ricorrenza cronologicamente più vicina a En-
nio, si trova in promptu (Acc. trag. 436 R.3), e questa sembra l’unica forma atte-
stata almeno fino a Tacito (cfr. N.-W. I 754 s.). Certo in promptum potrebbe esse-
re considerata, in astratto, difficilior rispetto a in promptu: ma nel contesto ennia-
no la forma con l’accusativo in -um può essersi facilmente generata per assimila-
zione con situm che segue immediatamente.
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Saturae - Commento, fr. XII (= Sat. 59-62 V.2) 145

Sat. XII (= Sat. 59-62 V.2)

Questo frammento è tra i più consistenti (è anzi la più lunga citazione testua-
le che proviene con sicurezza dalle Satire enniane) ma, in modo solo apparente-
mente paradossale, è anche uno dei più problematici. Molto intricati, per la ve-
rità, i versi enniani non dovevano apparire a V. Acidalius (cit. sotto, n. 17) il qua-
le, dopo aver proposto un leggero intervento testuale, formulava un giudizio in-
timidatorio che dissuadeva dal mostrare perplessità su un frammento che «eludit
ac frustratur hebetiores tantum». Eppure, la stessa fonte che ci tramanda il fram-
mento – Gell. 18, 2, 7 – ci presenta l’interpretazione di questi versi come ogget-
to di una dilettevole competizione a premi tra uomini colti: agli occhi della fon-
te, dunque, il fr. appare come un gioco di parole certo elegante, ma che sfida la
sagacia dell’interprete1. I dubbi esegetici sono poi ribaditi dagli interventi con-
getturali che, soprattutto nel secolo XIX, sono stati proposti per il nostro fram-
mento: queste congetture, anche se talvolta non prive di ingegno, risultano del
tutto incerte perché sono così numerose e violente che comportano di fatto una
riscrittura del testo tramandato. Tuttavia, che in epoca più recente si sia riaffer-
mato il cauto principio di mantentersi il più vicino possibile al testo tràdito non
significa, a mio avviso, che del frammento si sia data una interpretazione soddi-
sfacente.
Bisogna d’altro canto riconoscere come sia più che mai difficile arrivare a ri-
solvere tutte le difficoltà poste dai nostri versi, che anzi potrebbero porre all’in-
terprete una questione metodica particolare: in essi si presenta, come si vede, l’in-
sistito susseguirsi di frustror = ‘ingannare’, frustra = ‘invano’, frustra esse = ‘esse-
re in errore, essere ingannato’. Proprio questa voluta ripetizione dello stesso ter-
mine (o di termini affini) può far pensare che, come in certi scioglilingua, l’esi-
genza ludica abbia la meglio su esigenze di senso: ammettendo questo presuppo-
sto risulterebbe dunque vano, nonché inopportuno, ricercare nei versi che stiamo
discutendo un senso logicamente e coerentemente strutturato. Questa ipotesi non
viene formulata esplicitamente da nessuno, eppure a me sembra il presupposto
necessario per poter accettare senza ulteriori spiegazioni la traduzione del passo
enniano data ad esempio da Courtney 19932.

1 In Gellio il nostro frammento enniano viene presentato, nel momento in cui se ne introduce la citazione,

come exemplum: questo potrebbe far pensare a prima vista che i nostri versi costituiscano un’esemplificazione
di un tipo di scioglilingua che si ritrova spesso nelle satire di Ennio: su quest’opera ricaveremmo così da Gellio
una nuova interessante testimonianza. Ma nel passo gelliano la parola exemplum andrà intesa non nel senso di
‘esempio’, cioè di un singolo caso preso tra tanti che presentano caratteristiche analoghe, ma di ‘riproduzione,
citazione’ (così Bernardi Perini che traduce quorum exemplum hoc est con «eccoli qui riprodotti»); con lo stes-
so significato exemplum è sicuramente utilizzato da Gellio per introdurre una citazione del testo di una lettera
in 15, 7, 3 in quadam epistula super eodem anno scriptum offendimus; eiusque epistulae exemplum hoc est (cfr. la
trad. di Bernardi Perini: «in una lettera ci è capitato sott’occhio appunto un richiamo a quell’anno. Ecco la co-
pia della lettera»).
2 «The man who tries cleverly to deceive another says that the man whom he deceives is in error, but wron-
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146 Le opere minori di Ennio

Tuttavia, stando alla fonte, uno dei partecipanti alla gara era stato in grado di
fornire una spiegazione del frammento (cfr. Gell. 18, 2, 15), e questo, come os-
serva Mariotti 1998, 562 = 2000, 66, rende «ineludibile» anche per l’esegeta mo-
derno l’esigenza di trovare in esso un senso compiuto. Proprio sulla base di que-
sto giusto presupposto, Mariotti fornisce la seguente nuova interpretazione del
frammento (1998, 563 = 2000, 67): «Infatti se qualcuno cerca scherzosamente di
prendere in giro un altro, quello che egli prende in giro senza riuscirci, dice che
lui (il primo) è preso in giro. Infatti se uno si accorge che qualcuno lo sta pren-
dendo in giro senza riuscirci, quello che cerca di prendere in giro è preso in giro,
se l’altro non è preso in giro». Anche Mariotti, al terzo verso, legge frustra sentit
secondo la vulgata, dalla quale invece si distacca in particolare per la diversa in-
terpunzione, e quindi interpretazione sintattica, del secondo v.: qui Mariotti pone
una virgola non prima, ma dopo frustra, e riferisce questo avverbio non a dicit, ma
a quem frustratur; secondo questa interpretazione, il relativo quem non verrebbe
richiamato da eum che segue, ma da un is sottinteso che costituirebbe il soggetto
di dicit. Mentre, dunque, secondo l’interpretazione tradizionale, soggetto di dicit
è l’ingannatore (designato al v. prec. con l’espressione qui lepide postulat alterum
frustrari), secondo Mariotti sarebbe l’ingannato (designato con quem frustratur).
Lo stesso Mariotti riconosce che questa interpretazione impone «qualche du-
rezza», che tuttavia viene plausibilmente giustificata ricordando che il frammento
consiste in un vero e proprio tour de force stilistico, in cui l’esigenza di inserire –
nel minor numero di versi possibile – il maggior numero di parole costituite da
frustra e affini poteva andare a discapito della chiarezza.
L’interpretazione di Mariotti merita, come sempre, attenta considerazione, ma
non può certo sorprendere che, in un frammento così difficile, lasci ancora spazio
a qualche incertezza. Una di esse riguarda innanzitutto l’interpretazione del pri-
mo verso: anche Mariotti, assieme a molti altri studiosi precedenti, evidentemen-
te indotti dalla sua posizione nel verso, riferisce lepide a postulat3: a me sembra più
opportuno unirlo a frustrari: lo consiglia il costante uso plautino dell’avverbio in
unione a verbi che denotano l’azione dell’inganno (Bacch. 642 erum maiorem
meum ut ego hodie lusi lepide; 1206 lepide ipsi hi sunt capti, suis qui filiis fecere in-
sidias; Cas. 558 iam hic est lepide ludificatus ecc.: cfr. Th. l. L. 7, 1173, 44 ss.): in
questi passi plautini, inoltre, lepide indica un inganno ben riuscito, secondo un

gly. For if a man wrongly thinks that he’s deceiving somebody, it’s the man who is deceiving who is in error, if
the other man isn’t». Di questa traduzione la parte che presenta maggior senso è quella che riguarda gli ultimi
due versi: “se l’ingannatore ritiene erroneamente (frustra sentit) di ingannare qualcuno (frustrari quem: quest’ul-
timo da intendersi come indefinito), l’ingannatore è in errore (qui frustratur is frustra est) se l’altro non è ingan-
nato”: dunque l’errore consisterebbe nel ritenere erroneamente ingannato chi si vuole ingannato. Ma dalla tra-
duzione di Courtney non riesco a capire né come debba essere interpretato il secondo verso, né come alla prima
coppia di versi possa essere connessa la seconda con nam.
3 Cfr. Scholz 1986, 50: «Denn wer witzig fordert, daß ein anderer gefoppt werde»; G. Bernardi Perini: «Chi

spiritosamente pretende di intrappolare un altro»; non molto dissimili le traduzioni di Warmington («he who
wants to be smart and trick his fellow») e di Traglia («Chi infatti per fare lo spiritoso cerca di raggirare un altro»).
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Saturae - Commento, fr. XII (= Sat. 59-62 V.2) 147

uso intensivo tipico delle espressioni indicanti ‘bello, grazioso’4: e questo valore è
secondo me da ravvisare anche nel verso enniano (cfr. traduzione qui sopra; so-
stanzialmente corretta anche l’interpretazione di lepide che risulta dalla traduzio-
ne di Courtney citata sopra). Inoltre, a parte i casi plautini, lepide ricorre solo al-
tre 5 volte, e mai nel senso che gli attribuiscono quanti lo legano a postulat5.
Queste considerazioni rendono inaccettabile l’interpretazione complessiva del
frammento sostenuta da Havet 1890, 31, che pure legava lepide a frustrari, ma poi
dava al nesso lepide frustrari un significato esattamente opposto a quello che si ri-
cava dai paralleli plautini citati sopra: non ‘ingannare per bene’, ma ‘ingannare
troppo delicatamente’6. Con l’interpretazione di lepide qui proposta, invece, il pri-
mo verso sembra costituire l’inizio di un brano in cui si intende fornire consigli a
chi vuole portare a buon fine un inganno a danno di qualcuno, e questo presup-
posto, mi pare, crea qualche difficoltà anche all’interpretazione proposta da Ma-
riotti: secondo quest’ultima, infatti, dopo il primo verso si passa senz’altro alla de-
scrizione, nel secondo verso, delle conseguenze di un inganno fallito («quello che
egli prende in giro senza riuscirci, dice che lui (il primo) è preso in giro»): ma in
questo modo mi pare che tra il primo e il secondo verso si abbia un passaggio non
solo immotivato dal punto di vista logico, ma persino in contraddizione con le sue
premesse.
Questa considerazione mi induce a ritornare all’interpretazione tradizionale
che riferisce frustra a dicit, e comporta che soggetto di questo verbo sia non l’in-
gannato, ma l’ingannatore, il quale ‘si sbaglia a dire (frustra dicit) che viene in-
gannato quello che cerca di ingannare’. Secondo Mariotti (1998, 562 s. = 2000,
66) questa interpretazione fa difficoltà perché «manca [...] così nei primi due ver-
si un dato essenziale che non sembra ritardabile, ossia che, perché l’ingannatore
si sbagli nel dire che l’ingannato è veramente ingannato, si verifichi la precisa con-
dizione che l’ingannato si accorga dell’inganno che gli è teso. Ora, questa condi-
zione non viene affatto espressa nei primi due versi e non diventerebbe del tutto
esplicita se non alla fine del frammento» (cioè con le parole si non ille est frustra).
Se non capisco male questa obiezione, essa non vale contro la spiegazione che,
sempre presupponendo il riferimento di frustra a dicit, viene sostenuta esplicita-
mente almeno da Bolisani 1935, 54 («Infatti chi vuole facetamente ingannare un
altro s’inganna se si fa sentire a dire che lo vuole ingannare») e da Traglia 1986
(«se ci si vuol prendere gioco di qualcuno, non si deve dire subito di averlo bef-

4 Cfr. J. B. Hofmann, La lingua d’uso latina, intr., trad. it. e note di Licinia Ricottilli, Bologna 1985, 197; P.

Monteil, Beau et laid en latin. Étude de vocabulaire, Paris 1964, 143.


5 Mariotti lesse questa mia interpretazione di lepide in un’epoca in cui il suo articolo sul nostro frammen-

to era già in stampa, e se ne dichiarò senz’altro convinto.


6 Sulla base di questo presupposto, Havet riteneva che il significato complessivo del frammento fosse: se

si vuole ingannare qualcuno, l’inganno non deve essere troppo delicato, perché altrimenti non viene percepito
da chi si vuole ingannato, ed è l’ingannatore a finire ingannato. Questa interpretazione di Havet presupponeva
anche che al terzo verso qui significasse quomodo, e che dopo sentit vi fosse un punto interrogativo. Il silenzio
di Vahlen 1903 su questa proposta, assai poco convincente, è probabilmente voluto.
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148 Le opere minori di Ennio

fato, perché se quello se ne accorge, vana riesce la beffa e allora chi rimane beffa-
to non è lui, ma chi ha cercato di beffarlo») e che credo sia quella comunemente
presupposta da quanti riferiscono frustra a dicit7: a questa interpretazione non è
possibile obiettare che «perché l’ingannatore si sbagli nel dire che l’ingannato è
veramente ingannato, si verifichi la precisa condizione che l’ingannato si accorga
dell’inganno che gli è teso»: è proprio perché l’ingannatore commette l’errore di
dire che sta compiendo un inganno, che l’ingannato si accorge dell’inganno.
Contro l’interpretazione di Bolisani e Traglia, Mariotti (1998, 563 [= 2000, 67]
n. 10) obietta in particolare che essa «è in evidente contrasto col senso di tutto il
passo» come dovrebbe essere dimostrato da «il sentit del v. 61 [qui al terzo v.] e i
luoghi di Plauto e Filemone citati da Vahlen [1903] nell’apparato». Ma nessuna
di queste ragioni mi sembra cogente.
Innanzitutto non è chiaro quali deduzioni possano trarsi, a proposito dell’in-
terpretazione complessiva del frammento, dalla presenza al terzo verso di sentit:
tale verbo, anzi, risulta del tutto plausibile con l’interpretazione tradizionale.
Per quanto riguardo il passo di Filemone, il riferimento è a PCG 23 K.-A.:

oJ loidorw`n gavr, a[n oJ loidorouvmeno"


mh; prospoih`tai, loidorei`tai loidorw`n
Chi oltraggia, infatti, qualora chi viene oltraggiato
faccia finta di non essere insultato, da oltraggiatore diventa oltraggiato

Ora è innegabile che questo frammento presenti un’affinità formale con i versi
enniani: in entrambi i casi abbiamo l’insistito ripetersi delle stesse parole o di pa-
role affini. Ma questa caratteristica formale si ritrova assai spesso anche in altri te-
sti: cfr. ad es. il famoso coro dei soldati nell’Iphigenia di Ennio (sc. V.2) e gli altri
passi citati da Jocelyn 1967 nel commento relativo (p. 333). È vero che, secondo
l’interpretazione datane da Mariotti, il frammento enniano sembra in effetti risul-
tare particolarmente affine al passo di Filemone anche per il contenuto: in File-
mone si parla di qualcuno che ingiuria, e finisce ingiuriato, e in Ennio di qualcu-
no che prende in giro, e finisce per essere preso in giro. Ma questa affinità è solo
apparente, e può emergere solo grazie al significato ambiguo dell’espressione ita-
liana ‘prendere in giro’: essa può infatti essere intesa in 2 modi ben diversi 1) pren-
dere in giro qualcuno insultandolo; 2) prendere in giro qualcuno ingannandolo: il
verbo loidorevw usato da Filemone può avere solo la prima accezione; il verbo fru-
strari usato da Ennio solo la seconda. L’affinità di contenuto deve dunque essere
molto ridimensionata, e non va oltre al fatto che in entrambi i frammenti assistia-

7 Mariotti tratta questa interpretazione di Bolisani in una nota a parte (n. 10), come se fosse una interpre-

tazione chiaramente distinta da quelle dei traduttori citati in n. 8: ma io credo che, con questa traduzione, Boli-
sani abbia solo esplicitato un’interpretazione che è presupposta anche dalle altre traduzioni che Mariotti cita in
n. 8; in ogni caso, quella di Bolisani è l’interpretazione complessiva del frammento enniano a cui pensava anche
Traglia (cfr. sopra, nel testo).
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Saturae - Commento, fr. XII (= Sat. 59-62 V.2) 149

mo a un rovesciamento dei ruoli dei protagonisti. Tra il passo di Filemone e quel-


lo di Ennio non è necessario stabilire un rapporto diretto, e postulare quindi che
il primo possa valere a indirizzare l’interpretazione del secondo: credo che non
senza una qualche ragione Courtney 1993 abbia omesso di citare Filemone, e si
sia limitato a citare solo l’altro passo a cui si richiamava Mariotti e cioè Bacch. 548
atque i se qu<o>m frustrant, frustrari alios existimant. In questo passo l’affinità con
il passo di Ennio è maggiore: in entrambi i casi assistiamo a un rovesciamento dei
ruoli, ma non, come in Filemone, da oltraggiatore a oltraggiato, bensì, come in
Ennio, da ingannatore a ingannato: ma questa situazione si ripresenta nel fram-
mento enniano anche se accogliamo l’interpretazione scartata da Mariotti.
Tuttavia, rispetto non solo al passo di Filemone, ma anche a quello dalle Bac-
chides, molto più affine al nostro frammento enniano risulta un altro passo di
Plauto, Mil. 600 ss. (parla Periplectomeno in procinto di tramare un inganno con-
tro il miles):
nam bene consultum inconsultumst, si id inimicis usuist,
neque potest quin, si id inimicis usuist, obsit tibi.
nam bene <consultum> consilium surripitur saepissime,
si minus cum cura aut cautela locus loquendi lectus est.
Quippe hi si resciuere inimici consilium tuum,
tuopte tibi consilio occludunt linguam et constringunt manus,
atque eadem quae illis uoluisti facere illi faciunt tibi.
Qui si ritrova una analogia formale (l’insistito ripetersi delle stesse parole o di
parole affini: consultum / inconsultum, consilium, inimicus, usus ecc.) di contenu-
to con il nostro frammento inteso secondo l’interpretazione tradizionale: a questo
riguardo abbiamo non solo, come già nel passo delle Bacchides, il rovesciarsi dei
ruoli tra ingannatore e ingannato, ma anche il motivo, che nel Miles risulta più
ampiamente e chiaramente sviluppato, di non far sapere all’ingannato dell’ingan-
no tramato a suo danno se si vuole che l’inganno riesca bene.

Certo, anche l’interpretazione tradizionale contestata da Mariotti non risolve


tutte le difficoltà: al v. 3 appare comunque necessario correggere il testo tràdito
nam qui sese: chi lo mantiene, come Bernardi Perini, deve presupporre una coor-
dinazione tra le frasi dei due versi finali piuttosto stentata, come mi pare indichi
anche la traduzione8. Tra le varie soluzioni avanzate (cfr. app.), la congettura9 nam
si se ha il merito non solo di coordinare meglio le varie parti del periodo, ma an-
che di essere molto plausibile dal punto di vista paleografico: in luogo dell’origi-
nario nam si se si può ipotizzare l’intrusione di nam qui, che compare in uguale

8 «Perché chi s’accorge che uno s’intrappola mentre lo intrappola, colui che intrappola è in trappola, dato

che quel tale non è in trappola» (corsivo mio).


9 Attribuita da Vahlen 1903 a Usener, ma riproposta dubitosamente e a quanto pare indipendentemente da

Usener, da Hosius nella sua edizione gelliana uscita nello stesso anno della sec. ed. enniana di Vahlen (1903).
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150 Le opere minori di Ennio

posizione due versi prima: nam qui si se quindi potrebbe essere stato rabberciato
in nam qui sese: che Courtney accolga nam si sese si può spiegare con la plausibi-
le esigenza metodica di mantenere la forma raddoppiata del riflessivo sese, non ra-
rissima ma certo “difficilior” rispetto a se10. L’interpretazione esplicitata da Boli-
sani e Traglia, inoltre, trova una difficoltà al v. 3 nel frustra che Traglia unisce a
frustrari e traduce: «Che se uno si accorge che un altro cerca d’ingannarlo senza
riuscirci»11: questo «senza riuscirci» risulta a mio avviso poco comprensibile con
il senso generale del passo proposto da Traglia stesso. È significativo al riguardo
che Warmington, nell’ambito di una interpretazione analoga a quella di Traglia,
riferisca il frustra del v. 3 non a frustrari, ma a sentit: «For he who is tricked into
feeling that he is tricking someone». La difficoltà tuttavia mi sembra superabile se
si tiene conto che al v. 3, nonostante il silenzio di Courtney al riguardo, la tradi-
zione è tutt’altro che a favore di frustra: un solo manoscritto riporta questa lezio-
ne; gli altri codici leggono frustras sentit oppure, con una diversa divisione di pa-
role che ovviamente non ha valore di tradizione, frustrassent it (oppure id, che
sarà da considerare un tentativo di rabberciatura). La lezione frustras, da inten-
dersi come forma verbale di frustro attivo con oggetto quem, mi pare che dia un
senso più chiaro alla frase: «infatti, se chi inganni si accorge di essere inganna-
to…». Invano si cercherebbero le ragioni che hanno indotto quasi tutti gli edito-
ri al rifiuto di frustras12, che rimane pure la lezione di gran lunga meglio attestata:
l’unica possibile obiezione che riesco a trovare è che con frustras bisogna presup-
porre la presenza, all’interno dello stesso contesto, di forme attive e deponenti
dello stesso verbo frustro e frustror: ma cfr. Naev. com. 67 R.3 populus patitur, tu
patias13. E si consideri inoltre che in questo passo pieno di voluti bisticci di paro-
le non è inammissibile ipotizzare che Ennio, oltre a ripetere più volte il verbo fru-
stror e parole affini, lo abbia anche utilizzato secondo diatesi diverse14.
Una possibile difficoltà riguardo alla costituzione del testo al v. 3 può invece
provenire da esigenze metriche: ma per questo aspetto del problema sarà oppor-

10 Cfr. in generale Timpanaro 1978, 212 s.


11 Analogamente Bernardi Perini: «perché chi s’accorge che uno s’intrappola mentre lo intrappola».
12 Frustras viene accolto da Vahlen 1854 e considerato come forma equivalente a frustrans ma con grafia che

rispecchia la pronuncia, e dunque con la caduta di n davanti a s; tale ipotesi venne contestata da Ribbeck 1856,
288 n.* che, pur mantenendo frustra nel testo, ritiene che nel caso si volesse accogliere, seguendo la tradizione
manoscritta, frustras, bisognerebbe intenderlo nel modo da noi proposto. Sull’ulteriore ragione che – agli occhi
di Ribbeck – rendeva plausibile la lezione frustras interpretata in questo modo cfr. sotto, n. 14. Il fatto che il trà-
dito frustras fosse stato autorevolmente ritenuto legittimo da Ribbeck ha probabilmente contribuito a indurre
Hosius 1903, nella sua ed. di Gellio, alla scelta controcorrente di accoglierlo nel testo (Hosius conosceva l’arti-
colo di Ribbeck, come è dimostrato dal fatto che egli lo menziona varie volte in apparato a proposito dei nostri
versi). Da Hosius frustras sarà passato a Rolfe, nell’ed. gelliana della Loeb.
13 Non del tutto analogo, ma neppure da trascurare, anche Enn. sc. 383 V.2 labat. la[ba]buntur saxa, cae-

mentae cadunt.
14 Si noti che questa eventualità era esplicitamente ammessa da Ribbeck (1856, 288 n. *) che nel secondo

verso correggeva quem frustratur in quom frustratur presupponendo che qui frustratur avesse diatesi passiva e
fosse contrapposto a frustrari, con diatesi attiva, nel verso precedente. Proprio per questa ragione Ribbeck si mo-
strava propenso ad accogliere anche frustras (cfr. sopra).
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Saturae - Commento, fr. XII (= Sat. 59-62 V.2) 151

tuno rimandare la discussione testuale più avanti, quando avremo indicato le dif-
ficoltà di scansione metrica di tutto il frammento.

Nell’ambito degli studi recenti, infatti, l’identificazione del metro di questi ver-
si dà luogo a una contraddizione tanto netta quanto inavvertita. In edizioni, com-
menti e studi enniani in genere, si continua ad affermare apoditticamente che il
nostro frammento è in metro sotadico15. Chi tuttavia leggesse l’ultimo studio spe-
cifico su questo metro (Bettini 1982), invano cercherebbe anche una semplice
menzione dei nostri versi enniani, che pure sarebbero una tra le testimonianze più
consistenti rispetto agli scarsi resti di sotadei latini arcaici.
Una tale contraddizione è certo singolare: sarebbe tuttavia riduttivo imputarla
soltanto alla distratta omissione di un singolo studioso: a chi analizza più da vici-
no la storia del problema, essa si configura piuttosto come l’estremo e inevitabile
punto di arrivo di un percorso critico che, nato da comuni presupposti confusi e
in parte ancora oscuri, è poi proseguito lungo due direttrici divergenti e che han-
no continuato a ignorarsi a vicenda: da una parte, gli studi incentrati su Ennio,
dall’altra, gli studi più specificamente metrici.

Non si sa chi abbia proposto per primo la scansione sotadica del nostro fram-
mento. Quando G. Hermann nel 1796, e poi ancora nel 1816, prospetta tale scan-
sione per i versi enniani in questione, afferma di recepire un’ipotesi già formulata
da studiosi che Hermann non nomina16, e che io non sono stato in grado di indi-
viduare.
Chiarire le origini della questione non si riduce tuttavia a una ricerca del
prw`to" euJrethv" fine a se stessa, ma ha importanti conseguenze per una corret-
ta impostazione del problema. La sticometria del frammento enniano oggi unani-
memente accettata è la seguente:
Nam qui lepide postulat alterum frustrari,
quem frustratur, frustra eum dicit frustra esse:
nam qui sese frustrari quem frustra sentit,
qui frustratur is frustra est, si non ille est frustra.
Tale sticometria coincide con quella vulgata fin dalle più antiche edizioni17.
Stupisce quindi che, a quanto lascia intendere Hermann 1816, 453, gli ignoti so-

15 Cfr. da ultimo Courtney: ma le citazioni potrebbero facilmente moltiplicarsi. Dubbi sulla scansione sota-

dica mi aveva espresso Timpanaro per litteras (1 maggio 1995). Del tutto isolata è rimasta la proposta di War-
mington di scandire il fr. in saturni sulla mancata discussione di questi versi in Bettini 1982 cfr. sotto, 251 ss. (e
in particolare n. 50).
16 Cfr. Hermann 1796, 337 («viri docti») e Hermann 1816, 453 («a quibusdam»).
17 Così ad es. Colonna 1585-86, le edd. di Gellio menzionate sopra n. 12 (aggiungi anche le edd. Venetiis

1565, Lugduni Batavorum 1687, Biponti 1784), Hertz 1885, Hosius 1903 ecc. (trascuro lievi differenze di lezio-
ne, ininfluenti sulla questione che qui ci interessa); cfr. inoltre V. Acidalius, In comoedias Plauti… divinationes et
interpretationes, in Grutierus IV (1607), 7 s.
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152 Le opere minori di Ennio

stenitori del sotadeo presupponessero una sticometria del frammento notevol-


mente differente:
Nam qui lepide postulat alterum frustrari,
quem frustratur, frustra eum dicit frustra esse: nam qui
sese frustrari quem frustra sentit, qui frustratur
is frustra est, non ille est frustra.
Sulle non lievi difficoltà che questa sticometria procura per una scansione so-
tadica, Hermann (che, come vedremo, aveva una concezione particolarmente
“lassista” del sotadeo) non si sofferma. Ciò che della nuova sticometria dispiace-
va a Hermann era la mancata corrispondenza tra unità di verso e unità di senso
che essa imponeva. Per questa ragione (cfr. Hermann 1816, 453: «si verba sen-
sumque consideraveris») Hermann ritorna, non si capisce se consapevolmente o
meno, alla sticometria vulgata che abbiamo visto sopra. Ma nell’adottare que-
st’ultima, si noti bene, Hermann (1796, 337 e 1816, 453) cambia anche l’inter-
pretazione metrica: Hermann infatti propone di scandire i versi enniani, in base
alla sticometria da lui ribadita e tuttora vulgata, come trimetri trocaici acataletti18.
Se tuttavia si considerano le vicende successive del nostro problema, l’unico
punto della trattazione di Hermann che risulta aver avuto una valutazione unani-
me è il rifiuto della sua scansione in trimetri trocaici. In effetti questa scansione ri-
sulta, a priori, assai improbabile perché di essa, come del resto era consapevole
Hermann stesso, non pare esservi traccia nella poesia greca e latina a noi rimasta.
Per il resto, la trattazione di Hermann venne recepita in modo parziale e con-
traddittorio: Vahlen, infatti, nella sua prima edizione enniana (1854) pur acco-
gliendo la sticometria ribadita da Hermann, si limita a riferirne l’interpretazione
metrica in apparato: da quanto invece lascia capire una sbrigativa affermazione
nelle Quaestiones Ennianae premesse alla sua edizione, Vahlen continua a ritene-
re sotadei i versi enniani (cfr. p. LXXXII: «inter reliquias saturarum […] Sotadei
[…] feruntur»). Con questa apodittica affermazione di Vahlen la scansione sota-
dica trova una definitiva sanzione nelle edizioni e negli studi enniani19.
Opposto fu l’influsso di Hermann sulla tradizione di studi metrici: qui, infat-
ti, venne accolta, non solo la sticometria, ma anche la condanna hermanniana
della scansione sotadica: ma, in modo analogo a come abbiamo visto affermarsi
l’ipotesi della scansione sotadica in tempi recenti, questa condanna venne accol-
ta apoditticamente: così F. Podhorsky, nella sua ampia trattazione De versu Sota-
deo20, afferma che se in effetti il primo verso potrebbe essere scandito come so-
tadeo, gli ultimi tre, invece, «si accuratius inspexeris, intelleges […] numero so-
tadeo repugnare». Questa “indagine più accurata”, tuttavia, non viene compiu-

18 Oltre che in Hermann 1816, 453, tale proposta era stata formulata anche nel suo trattato del 1796.
19 La scelta di Vahlen ebbe l’approvazione già da parte di A. Fleckeisen, Zur Kritik der altlateinischen Di-
chterfragmente bei Gellius, Leipzig 1854, 40.
20 Podhorsky 1895: le citazioni immediatamente successive si trovano alla p. 146, n. 31.
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Saturae - Commento, fr. XII (= Sat. 59-62 V.2) 153

ta: contraddicendo i buoni propositi, anzi, Podhorsky, dopo aver supposto una
generica «mensuram trochaicam» valida per tutti e quattro i versi, conclude di-
cendo che «non meum esse puto quomodo hi versus conformandi sint diligen-
tius inquirere» e lasciando quindi che il lettore intuisca da sé le ragioni per cui i
versi enniani non possono essere scanditi come sotadei. Il Podhorsky, inoltre,
mostra di dipendere esclusivamente da Hermann21 e di ignorare completamente
le edizioni enniane che nel frattempo erano uscite e dove quella scansione sota-
dica, che a suo giudizio era chiaramente inaccettabile, veniva invece tranquilla-
mente accolta.
Su queste fragili basi il nostro frammento, che già era stato relegato dal Podhor-
sky in una nota a pie’ di pagina, scomparve del tutto nelle trattazioni metriche
successive.

Le vicende che abbiamo delineato lasciano chiaramente intendere che il lavoro


di intepretazione metrica del nostro frammento resta tutto da fare. Nella tratta-
zione esporrò molte difficoltà a cui in effetti tale analisi va incontro: per questo
converrà mettere subito in chiaro, perché potrebbe essere messo in dubbio in tan-
ta incertezza di risultati, che, secondo ogni verosimiglianza, il nostro frammento è
scritto in metrica: ce lo assicura non solo, in generale, la testimoniaza di Diome-
de, la cui definizione delle satire enniane (carmen quod ex variis poematibus con-
stabat) non lascia posto a brani in prosa, ma anche, in particolare, la fonte che ci
presenta il frammento indicandolo con il termine versus (enarratio horum ver-
suum). A meno di non voler supporre due errori nella tradizione (e particolar-
mente inverosimile apparirebbe un errore da parte di Gellio), la ricerca di una
struttura metrica appare quindi l’unica prospettiva di lavoro fondata.
All’interno di questa prospettiva l’ipotesi di una scansione sotadica è nata su
basi, come abbiamo visto e come vedremo ancora meglio tra poco, estremamente
incerte e discutibili: eppure essa resta a mio giudizio un’ipotesi metrica da pren-
dere in considerazione tenendo ovviamente conto dei risultati raggiunti attual-
mente dagli studi sul sotadeo.

Per la nostra discussione converrà prendere le mosse dalla scansione sotadica


indicata da Courtney 1993 e quindi anche dal testo da lui adottato (un testo che
tuttavia, come abbiamo visto, deve essere ridiscusso):

Nam qui lepide postulat alterum frustrari,


quem frustratur, frustra eum dicit frustra esse:
nam si sese frustrari quem frustra sentit,
qui frustratur is frustra est, si non ille est frustra.

21 Lo dimostra la citazione del frammento enniano con l’omissione, prima di non ille al v. 4, di si o sed (vul-

gato in tutte le edizioni).


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154 Le opere minori di Ennio

La scansione indicata da Courtney è la seguente:


– – ! ! |– – ! ! |– – ! – |– –
–––|––!–|–––|–!
– – – | – – – |– – – ! | – !
– – – ! | – – – |– – – – |– !
In questa scansione il verso che, con una certa sicurezza, si lascia riconosce-
re come sotadico è il primo. Se tuttavia si tiene presente lo schema fondamen-
tale del sotadeo che abbiamo indicato nell’introduzione al Sota, anche in questo
primo verso si trova una almeno apparente anomalia: al terzo piede abbiamo
uno ionico anaclastico che in ultima sede presenta una lunga ‘irrazionale’ lad-
dove ci si attenderebbe una breve (– – – !): secondo la scansione di Courtney,
per di più, la lunga irrazionale si ritrova altre tre volte nei nostri versi enniani
(v. 2, II piede; 3, III; 4, I).
Nonostante le osservazioni di Bettini, io credo – per le ragioni che discuto nel-
l’Appendice al Sota – che non vi siano particolari difficoltà ad ammettere la pre-
senza in Ennio di sotadei con una lunga irrazionale. Risulterà comunque sorpren-
dente scoprire che nel frattempo c’è stato chi, scandendo in sotadei i versi ennia-
ni, ha tranquillamente ammesso la presenza di due lunghe irrazionali: in nessun
altro modo, infatti, mi pare si possa interpretare il metro – – – – indicato da Court-
ney 1993 per il terzo piede del v. 4:
… |si non illê (e)st |frustra
La scansione di Courtney, per la verità, non è isolata: la sticometria degli igno-
ti originari sostenitori del sotadeo per i nostri versi enniani riportata sopra pre-
supponeva questa scansione:
Nam qui lêpîde postûlât altêrum frustrari,
quem frustratur, frustr(a) eum dicit frustra (e)ssê: nam qui
sese frustrari quem frustrâ sentit, qui frustratur
is frustra (e)st, non ille (e)st frustrâ.
Quindi:
– – ! ! |– – ! ! |– – ! – |– –
– – – – | – ! – – | – – – ! |– –
– – – –| – – – ! |– – – – |– –
– – – –| – – – ! |
Come si può vedere, in questa scansione sono ammessi numerosi ionici con due
lunghe irrazionali: e tuttavia Hermann, come abbiamo visto, nel rifiutare questa
scansione, non su questo punto faceva leva ma solo su esigenze di corresponsione
tra verso e senso: questo si spiega col fatto che anche altrove Hermann 1816
si mostrava molto indulgente nell’accogliere lo ionico con due irrazionali (cfr.
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Saturae - Commento, fr. XII (= Sat. 59-62 V.2) 155

p. 460): ma tale forma, ancora accolta da Munk22, fu inserita da Podhorsky 1895,


131 tra i “monstra” metrici ammessi da Hermann: e dei passi in cui Hermann rav-
visava tali metri è stata in seguito rifiutata la scansione sotadica. In effetti, risulta
difficile sostenere la possibilità di due lunghe irrazionali: nei versi sicuramente in
metro sotadico non se ne trova traccia, né vi sono testimonianze nella tradizione
metrica antica23. Se si scandisce in sotadei il frammento enniano, quindi, appare
preferibile, anche perché abbastanza economica, accogliere la trasposizione ille
frustra est di F. Skutsch24: in questo modo nel terzo piede otteniamo uno ionico
con una lunga irrazionale:
… |si non illê frustra (e)st
|–––!|––
Nei nostri versi enniani ricorre frequentemente l’uso del molosso (– – –): se-
condo la scansione di Courtney, al v. 2, I e III piede; v. 3, I e II; v. 4, II. Sulla fre-
quenza di tale piede nel sotadeo ci sono numerose incertezze tra gli studiosi: Free-
se ne aveva addirittura negato in assoluto la presenza25; correggendo la posizione
di Freese, Podhorsky 1895, 131 aveva sì riconosciuto l’uso del molosso, ma solo
raramente e comunque limitato alle sedi pari; la posizione di Bettini 1982 è oscil-
lante: da una parte sembra riconoscere la legittimità del molosso solo in seconda
sede (62): e infatti alla ricostruzione di un sotadeo enniano da parte di G. G. Sca-
ligero, Bettini obbietta anche la presenza del molosso in terza sede («piuttosto ec-
cezionale» la giudica Bettini 1982, 71); analogamente, per la scansione sotadica
che Morel dà per un verso acciano (fr. 7), la presenza del molosso in prima sede è
giudicata «singolare» (77). Quando tuttavia Bettini discute i sotadei plautini, il
molosso in prima sede in Amph. 169 viene (necessariamente) mantenuto e quali-
ficato come uno degli «scarti lievi, diciamo stilistici» (83).
La limitazione del molosso in seconda sede trova un fondamento, oltre che nel-
l’obseruatio dei sotadei pervenutici, anche nelle affermazioni dei metricologi anti-
chi: ma nell’interpretazione di queste testimonianze mi pare ci siano ancora dei
problemi aperti e delle contraddizioni che qui mi permetto di segnalare a chi ha
maggiore familiarità con questo genere di testi. La testimonianza più esplicita che
viene chiamata in causa a proposito del molosso in seconda sede è Efestione 38,
9 Consb. ejmpivptousi de; kai; oiJ molottoi; […] ejn toi`" ajpo; meivzono" ejpi;

22 E. Munk, De re metrica, Glogavi et Lipsiae 1834, 173 ss. (opera a me inaccessibile: prendo la citazione da

Podhorsky 1895, 131).


23 Come mi segnala E. Magnelli, un piede costituito da 4 lunghe all’interno di un sotadeo si troverebbe nel-

l’epigramma 919 Kaibel, v. 9 e 11 (in entrambi i casi in seconda sede) se di questo testo si accettasse la scansio-
ne in sotadei postulata da R. Merkelbach, «ZPE» 30, 1978, 173 s.; ma la scansione del testo è in realtà assai in-
certa: E. Livrea («ZPE» 119, 1997, 44) ritiene, dopo altri, che si tratti di esametri stentati.
24 Menzionata e accolta da Hosius in apparato al passo gelliano fonte dei versi enniani: la congettura sarà

stata comunicata a voce da Skutsch a Hosius (cfr. la “praefatio” di Hosius, LX).


25 C. Freese, De re metrica Graecorum et Romanorum, Dresdae et Lipsiae 1842: prendo la citazione da

Podhorsky 1895, 130 s.


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156 Le opere minori di Ennio

tw`n ajrtivwn: tuttavia sarà bene ricordare che qui Efestione non sta trattando spe-
cificamente del sotadeo, del quale si era occupato nel capitolo precedente, ma del-
lo ionico maggiore in generale: e, nell’analisi delle varie forme che può assumere
lo ionico a maiore nel sotadeo, omette di indicare la possibilità del molosso26. Se-
condo Podhorsky 1895, 117 anche Aristide Quintiliano (50 W.-I.), parlando sem-
pre dello ionico a maiore in generale, attesta l’uso del molosso limitato alle sedi
pari: stupirà quindi vedere che, in senso opposto a Podhorsky, Hermann 1816,
443 interpretava – contestandola – la limitazione di Aristide riferita alle sedi di-
spari («quae Aristides [scil. dicit], in his falsum est, […] Molossum autem in so-
lis imparibus loci poni»). Questa contradditoria interpretazione si spiega se si
guarda più attentamente il passo di Aristide: trocaikh;n de; devcetai dipodivan
kata; me;n th;n peritth;n cwvran kaqaravn, kata; de; th;n a[rtion kai; eJptav-
shmon: pollavki" de; kai; ton; molotto;n paralambavnei sunavgwn ta;" bra-
ceiva" eij" makravn. Hermann subordinava la frase introdotta da pollavki" a ka-
ta; me;n th;n peritth;n cwvran, Podhorsky a kata; de; th;n a[rtion. A me sembra
che queste due interpretazioni si elidano a vicenda prospettandone un’altra: Ari-
stide, dopo una distinzione tra sedi dispari e sedi pari riferita esclusivamente a due
possibili forme della dipodia trocaica, introduce con pollavki" una nuova forma
(il molosso) non legata specificamente ad alcuna sede metrica27. Sulle altre testi-
monianze antiche, ancora più incerte, non mi arrischio a dire di più di quello che
è stato già osservato: Plozio Sacerdote, non si capisce se in riferimento allo ionico
a maiore in generale o al sotadeo in particolare, menziona addirittura la possibilità
di un verso composto tutto di molossi28: tuttavia Plozio mostra idee molto confu-
se riguardo al sotadeo29: e quanto afferma Aptonio riguardo al divieto dell’uso del
molosso nelle sedi intermedie degli ionici a maiore è smentito dai fatti30.
In questa incertezza, infatti, la presenza del molosso in seconda sede è un fatto
indubitabile poiché si trova nei sotadei raccolti da Powell, e non così raramente
come dice Podhorsky: cfr. 7,4; 8,7 e 8; 9,4; 15: 6, 10, 15 e 16 Pow.: dunque 8 casi
su 62 versi31. Né conta il fatto che tutti questi versi appartengano in realtà allo

26 J. M. van Ophuijsen, commentando questo passo di Efestione (Hephaestion on metre. A translation and

commentary, Leiden 1987, 111 s.) osserva che non si capisce perché Efestione limiti l’uso del molosso alle sede
pari; e lo spiega riferendo il suggerimento di C.J. Ruijgh per cui Efestione avrebbe introdotto questa limitazione
sull’analogia dei versi giambici e trocaici. Tuttavia Ophuijsen non approfondisce a sufficienza la questione.
27 Vedo ora che il passo di Aristide veniva interpretato in questo modo anche da M. Meibomius (Antiquae

Musicae auctores septem, Amstelodami 1652, II 55), il quale poneva punto fermo dopo eJptavshmon.
28 Plot., GL 6, 540, 6 K.: omnibus pedibus temporum sex. finem tamen habet aut in spondeum aut in tro-

chaeum, quod etiam sotadeum metrum dicitur, de quo sub exemplis postea tractabimus. interdum et molossos om-
nes habet. unde et molossicum metrum hoc dicitur; nam prima longa soluta facit ionicum minorem, nouissima maio-
rem: ‘Maecenam Romani fecerunt summmum’.
29 Podhorsky 1895, 124. In generale sull’ignoranza prosodica e metrica di Plozio cfr. M. De Nonno, Ruolo

e funzione della metrica nei grammatici latini, in Aa.Vv., Metrica classica e linguistica, Urbino 1988, 454 n. 2.
30 Mar. Vict. (ma Apthon.), GL 6, 90, 8 K.: ergo obseruabimus pedem molossum maiori ionico in fine, mino-

ri autem inter initia ponere et cauere ne in medietate collocetur.


31 Aggiungi anche POxy. 3010, v. 30 nell’ed. di P. Parsons, «BICS» 18, 1971, 53-68: 54.
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Saturae - Commento, fr. XII (= Sat. 59-62 V.2) 157

pseudo-Sotade e nessuno al Sotade autentico: un molosso in seconda sede si tro-


va anche negli scarsi resti del Sota enniano (Sat. fr. III = Var. 27 V.2). Per questa
ragione ritengo inopportuna la scansione – – ! – postulata da Courtney nel se-
condo piede del secondo verso enniano: per di più, come mi faceva osservare S.
Timpanaro, Courtney non chiarisce se per ottenere questa scansione si debba in-
tendere

quem frustratur, frustr(a) êum dicit frustra (e)ssê

con sinalefe tra frustra e eum bisillabico oppure presupporre uno iato e eum mo-
nosillabo: frustrâ eum. Né ci sono motivi per postulare – con L. Havet, «RPh»
n. s. 14, 1890, 31 – sinalefe e êûm per correptio iambica. In realtà la soluzione più
semplice è presupporre sinalefe e eum monosillabo (frustr(a) eum), che dà luogo
a un molosso in seconda sede, come abbiamo visto, del tutto legittimo.
Forse in disaccordo – come abbiamo visto sopra – almeno con la testimonian-
za di Efestione, e comunque poco documentabile, risulta invece l’uso del molos-
so al di fuori della seconda sede: tralascio i casi di lezione e scansione sotadica
troppo incerte32 e il molosso in prima sede che si trova nella Thalia di Ario33 per-
ché si potrebbe obiettare l’eccessiva distanza di tradizione culturale rispetto a En-
nio. Rimane dunque un unico altro caso, che tuttavia ha un certo peso perché si
trova, come abbiamo già accennato sopra, in Plauto Amph. 169.
Resta quindi da discutere la scansione del terzo verso che, come abbiamo visto
sopra, è di lezione incerta. Secondo il testo

nam qui sese frustrari quem frustra sentit

dove bisogna intendere frustrâ secondo la normale prosodia arcaica (frustra a par-
tire da Cicerone) avremmo

–––|–––|–––!|––

con il molosso nelle prime due sedi e ionico con lunga irrazionale in terza sede.
Stessa struttura metrica ha il testo dato da Courtney, che legge si al posto di qui.
Se tuttavia si accoglie la lezione frustras (che, a mio giudizio, appare preferibile
per esigenze di senso), otteniamo una lunga in più:

– – – | – – – | – – – –| – –

che darebbe luogo a uno ionico formato da quattro lunghe, realizzazione che so-
pra abbiamo visto essere altamente improbabile. L’unica soluzione per mantene-

32 Acc. 7 Blänsdorf; Varr. Men. 85, 2 B.


33 Cfr. W. J. W. Koster, «Mnemosyne» s. IV, 15, 1962, 137.
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158 Le opere minori di Ennio

re frustras è leggere con Usener nam si se. In questo modo abbiamo:

–––|–––|–––|––

con una struttura del tutto identica al v. 2.


Si può forse tracciare qualche conclusione, per quanto provvisoria. Il contenu-
to del nostro frammento non ci può essere di nessun aiuto né per sostenere né per
contestare la scansione sotadica: il sotadeo, dalle fonti antiche indicato come me-
tro legato a tematiche lascive, risulta tuttavia impiegato per i più disparati argo-
menti. Dei quattro versi di cui è composto il frammento, solo il primo si lascia age-
volmente scandire come sotadeo. Per gli altri versi la scansione sotadica presenta
alcune particolarità: la lunga irrazionale, la presenza del molosso al di fuori della
seconda sede, l’eliminazione di uno ionico composto di quattro lunghe ottenibile
attraverso un leggero intervento testuale. Più incerta è, come abbiamo visto, la si-
tuazione al terzo verso, dove il problema metrico si intreccia con il problema te-
stuale ed esegetico. Queste particolarità e difficoltà, prese di per sé, non sarebbe-
ro insormontabili: ciò che stupisce è la compresenza, in così pochi versi, di tante
deroghe rispetto alla struttura standard del sotadeo, compresenza che rende la
struttura dei nostri sotadei affatto eccezionale rispetto a tutti gli altri sotadei con-
servati. Questa eccezionalità tuttavia, può essere giustificata sulla base di due con-
siderazioni: la prima, di carattere generale, è che dai pur pochi frammenti rimasti
risulta in maniera inequivocabile il grande sperimentalismo che ha portato Ennio
a soluzioni metriche assai audaci e che non sono mai o quasi mai attestati in altri
autori: si pensi, ad esempio, agli esametri olospondiaci o all’esametro privo di ce-
sure dello Scipio (fr. IV = Var. 14, e cfr. comm. ad loc.); in secondo luogo, nel no-
stro caso particolare la singolare struttura di questi sotadei può essere stata deter-
minata dal fatto che qui ci troviamo di fronte a un gioco di parole dove la ripeti-
zione insistita degli stessi termini può aver indotto a una forzatura o, meglio, a uno
sfruttamento delle possibilità di realizzazione teoriche della normale struttura me-
trica del sotadeo.
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Saturae - Commento, fr. XIII (= Sat. 63 V.2) 159

Sat. XIII (= Sat. 63 V.2)

Si tratta di un senario giambico tràdito da Gellio con l’indicazione dell’opera


di provenienza, indicazione che invece viene omessa nell’altra fonte del frammen-
to, Nonio. Secondo l’interpretazione di Otto 1890, 70 («der Hund beißt den, der
sich an fremden Gute vergreift») il paragone con il cane che morde verrebbe qui
introdotto per sottolineare il fatto che l’oggetto di cui si parla (e che doveva esse-
re menzionato precedentemente) è di proprietà altrui: «non è mio come se mi
avesse morso un cane». In questo contesto, dunque, si menzionerebbe il cane in
quanto rappresentante tipico del guardiano, e meum non est dovrebbe essere in-
teso in modo strettamente letterale (“non è mio”). Questo è l’unico tentativo di
dare senso compiuto al frammento: si tratta tuttavia di un’ipotesi poco convin-
cente e che giustamente è rimasta del tutto isolata.
Meum non est (che si legge solo in Gellio; in Nonio meum è omesso) piuttosto
che il valore letterale “non è di mia proprietà” che gli attribuiva Otto, deve signi-
ficare, come molto spesso (cfr. Th. l. L. 8, 918, 21 ss.) “non è mio costume” e in-
dicare perciò il rifiuto sdegnoso di un comportamento che si ritiene disonorevole
(cfr. ad es. Lucil. 953 M. homini amico et familiari non est mentiri meum; Vahlen
1903 citava Hor. c. 3, 29, 57 ss. non est meum, si mugiat Africis / malus procellis,
ad miseras preces / decurrere). Da questa interpretazione di meum non est ne con-
segue che il frammento è incompleto perché manca un termine (un verbo all’infi-
nito come nei pacci citati sopra?) dipendente da meum non est e che indichi il
comportamento che chi parla nel frammento si rifiuta di seguire. Anche il para-
gone1 con il cane che morde andrà inteso – anziché letteralmente come faceva Ot-
to – in senso metaforico, e cioè come ingiuria riferita a un aggressore: con questo
significato la metafora è molto diffusa2 e si trova in Ennio stesso (Ann. 542 Sk.
[528 V.2] tantidem quasi feta canes sine dentibus latrat:): come nel fr. degli Anna-
les (cfr. Skutsch 1985 ad loc.), anche nel nostro si può vedere espressa l’indiffe-
renza che l’aggredito mostra verso il proprio aggressore: Vahlen 1903 per il nostro
passo dalle Satire citava Hom. Il. 11, 389 (Diomede rivolto a Paride che l’aveva
colpito: oujk ajlevgw, wJ" eijv me gunh; bavloi h] pavi" ajf v rwn; «non me ne curo,
come se mi avesse colpito una donna o uno sciocco fanciullo»). Sulla base di que-
sta interpretazione, e avvalendosi del confronto con il passo dagli Annales visto
sopra, Bolisani proponeva di integrare sine dentibus all’inizio del verso successivo
(in questo modo si sottolinea molto opportunamente l’inoffensività del mordere
del cane); Courtney, riprendendo questa proposta di Bolisani, prima di meum non
est propone exempli gratia di leggere turbari magis.

1 Ac si introduce un termine di paragone che viene rappresentato come una pura ipotesi (KS II 453; HSz

478): Ter. Hec. 279 numquam secus habui illam, ac si ex me esset nata; Sall. Iug. 46, 6 pariter ac si hostes adessent.
2 Cfr. Donat. ad Ter. Eun. 803: hoc verbo impudentibus inimicis conuicium fieri solet. Nam militare dictum

est in hostem … et apud Homerum pro graui contumelia in aduersarium dicitur; cfr. Otto 1890, 69.
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160 Le opere minori di Ennio

Alcuni tentativi di precisare ulteriormente il contesto sono basati sul presup-


posto (oggi non più accettabile: cfr. introduzione allo Scipio) che delle Satire fa-
cesse parte lo Scipio e che appunto a quest’ultima opera appartenesse il nostro
frammento3. L’immagine del cane per designare i propri avversari trova interes-
santi riscontri nella tradizione giambica: Hippon. 66 W2. koujk wJ" kuvwn laivqar-
go" u{steron trwvgei («e non come un cane perfido che alla fine ti morde» tr.
Aloni 199): Callim. Iamb. I, fr.191, 83 Pf.; Iamb. II, fr. 192, 10 Pf.); è tutto incen-
trato sull’assimilazione dell’avversario a un cane il sesto epodo di Orazio che mi-
naccia una risposta in tono archilocheo o ipponatteo (vv. 13 s. qualis Lycambae
spretus infido gener / aut gener hostis Bupalo) e conclude con una domanda (v. 15
s. An, si quis atro dente me petiuerit, inultus ut flebo puer?) che mi sembra pre-
sentare una certa analogia con l’altera indifferenza verso l’avversario espressa dal
nostro frammento. Courtney, precisando ulteriormente il contesto, riporta il fram-
mento ad un ambito di polemica letteraria: l’ipotesi è interessante (cfr. l’uso di
mordere4 in Martial 5, 80, 13 libellum censoria … docti lima momorderit Secundi;
ad un filologo rissoso del Museo di Alessandria è poi quasi sicuramente rivolto
l’attacco di Callimaco nel verso del I giambo citato sopra).

3 Cfr. Müller 1884 (Ein.), 110, secondo il quale qui avremmo parole di Scipione rivolte ai suoi accusatori.
4 Sul perfetto memord- (invece di momord-) per cui il nostro frammento viene citato da Gellio e da Nonio,
cfr. Leumann 1977, 588 e Sommer 1914, 547. Nel nostro caso l’uso di memord- sarà motivato anche dall’esigen-
za di introdurre l’allitterazione con me che precede.
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Saturae - Commento, fr. XIV (= Sat. 64 V.2) 161

*Sat. XIV ( = Sat. 64 V.2)

Il frammento è citato da Prisciano Inst. 1 (= GL II K.) 434, 10 H. per docu-


mentare l’uso di un verbo denominativo come poetor. Di questo verbo Prisciano
si occupa anche in Inst. II (= GL III K.), 272, 21 H. alia [scil. uerba] artificiorum
ut ‘philosophor, poetor, architector, modulor, medicor’ et ‘medico’ et ‘medeor’: in
quest’ultimo luogo, stando all’apparato di Hertz, una parte della tradizione ri-
porta in margine o all’interno del testo il nostro passo di Ennio come esemplifi-
cazione dell’uso di poetor.
L’interpretazione metrica di questo frammento pone alcune difficoltà non ri-
solvibili con sicurezza: è difficile scandire il testo tràdito come parte di senario
giambico sulla base sia della prosodia pôdâgêr (infrazione della norma di Her-
mann-Lachmann), che della prosodia pôdâger (infrazione della norma di Meyer).
Questa difficoltà, osserva Courtney 1993, viene eliminata se accogliamo le in-
tegrazioni congetturali (per altro ininfluenti sul senso del frammento) si (di Vah-
len 1854) o sim (di Müller 1884): e a favore di una o l’altra di queste due propo-
ste si dividono tutti gli editori moderni con l’eccezione di Courtney, che le ritiene
entrambe improbabili in base all’imitazione che del nostro frammento enniano fe-
ce Orazio in un passo (epist. 1, 19, 7 s. Ennius ipse pater numquam nisi potus ad
arma / prosiliuit dicenda) su cui ritorneremo più avanti1. Questa osservazione di
Courtney non è da trascurare; ma se nel frammento si mantiene il testo tràdito, re-
sta aperto il problema della sua interpretazione metrica. Courtney, su suggeri-
mento di Holford-Strevens, propone di scandirlo come parte iniziale di un sota-
deo mancante del primo elemento:
<–> – – ! |– – ! ! | ! ! – !
Questa scansione non è impossibile: lo scioglimento del primo longum nel ter-
zo piede ricorre, oltre che, ad es., nei Sotadea 6,7; 8,5; 11,1 Powell, anche in En-
nio Sot. I = Var. 25 V.2; ma che un frammento breve come il nostro possa trovare
posto nello schema proteiforme del sotadeo non mi sembra un fatto significativo.
Né l’imitazione da parte di Orazio mi pare così vincolante per la costituzione del
testo enniano da impedirvi le integrazioni si e sim, la cui caduta è assai facile spie-
gare per aplografia dopo nisi.
Una ricca discussione è nata dal confronto di questo frammento – tràdito sen-
za indicazione d’opera e attribuito alle satire per la prima volta da Vahlen 1854
(seguìto da tutti gli editori successivi2) su suggerimento di Th. Hug3 – con il già

1 Analoghe deduzioni dal passo di Orazio aveva tratto contro le integrazioni di Vahlen e Müller anche Wa-

szink 1972, 118, a cui tuttavia sfuggivano le motivazioni metriche che avevano spinto gli editori a congetturare.
2 Sulla base di questa attribuzione congetturale Bolisani 1933, 978 avanza un’ulteriore ipotesi: poiché il no-

stro frammento parla di podagra, che è malattia senile, esso sarebbe l’indizio che Ennio si mise a scrivere le sa-
tire in età avanzata.
3 La formulazione di Courtney al riguardo è equivoca poiché accompagna il nome di Th. Hug con la data
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162 Le opere minori di Ennio

citato passo di Hor. epist. 1, 19, 7 s.4:


Ennius ipse pater numquam nisi potus ad arma
prosiluit dicenda;
Ciò che accomuna questo passo oraziano con il nostro frammento è che in en-
trambi l’attività poetica enniana (ad arma | prosiluit dicenda in Orazio, poetor in
Ennio) è subordinata, e con un giro di parole molto simile, a una precisa circo-
stanza (numquam nisi potus in Orazio, numquam … nisi podager in Ennio). È sta-
to quindi generalmente presupposto da tutti gli studiosi che, con nisi potus, Ora-
zio abbia voluto interpretare il nisi podager enniano.
È sul valore da dare a questa interpretazione oraziana che le opinioni divergo-
no: per Weinreich 1949 (seguìto da Suerbaum 1968; la stessa tesi ripropone – in-
dipendentemente? – Grilli 1978) essa rispecchia fedelmente il senso del fram-
mento enniano: podager equivarrebbe a potus, per una metonimia che indica la
causa (l’abuso di vino) con la sua conseguenza (la podagra)5. Si è vista così nel
frammento enniano una scherzosa dichiarazione di poetica che, secondo una an-
tica tradizione letteraria (cfr. Grilli 1978, 36), faceva discendere l’ispirazione poe-
tica dall’euforia bacchica («non compongo se non quando ho la podagra [cioè so-
no ebbro di vino]»)6.

1852: a quest’anno risale in effetti la ‘commentatio philologica’ di Th. Hug, Q. Ennii Annalium librorum VII-IX
sive de bellis Punicis fragmenta emendata disposita illustrata, Bonnae 1852: ma qui non si accenna affatto al pro-
blema dell’attribuzione del nostro frammento. In realtà bisognerà ritenere che l’attribuzione sia stata suggerita
oralmente da Hug a Vahlen (sulla stretta collaborazione tra i due condiscepoli di Ritschl cfr. pref. di Vahlen 1854,
VII)
4 Oltre alle dense pagine di Suerbaum (1968, 233-5), cfr. anche i due articoli specifici di Grilli 1978 e La-

bate 1992.
5 Per la connessione tra la podagra e il vino C. W. Macleod (The poet, the critic, and the moralist: Horace,

Epistles 1.19, «CQ» n. s. 27, 1977, 359-76: 365 [= C. W. M., Collected essays, Oxford 1983, 268], n. 35) segna-
la anche A. P. 11, 414.
6 Courtney inoltre prospetta la possibilità che con questa dichiarazione Ennio presupponesse, come la pre-

supponeva certamente Orazio nei versi precedenti a quelli qui discussi, la contrapposizione tra oijnopovtai (ai
quali appunto si associerebbe Ennio) e uJdropovtai (termine con cui si designavano, ironicamente, i seguaci di
Callimaco): ma mentre la connessione tra euforia bacchica e ispirazione poetica è un tema molto antico (docu-
mentabile almeno a partire da Archiloco), lo stesso Courtney ricorda, sulla scorta di P. Knox, Wine, water, and
Callimachean polemics, «HSCP» 89, 1985, 107, che l’opposizione tra oijnopovtai e ujdropovtai pare risalire a epo-
ca più recente.
Maria Nastasi, Problemi di poetica in Ennio, «Atti dell’Accademia Peloritana dei Pericolanti» 61, 1985, 317-
337, nell’ambito di una discussione tesa a dimostrare la «distanza di Ennio dalla figura del poeta ispirato e [la]
sua adesione alla concezione del poeta tecnivth"» (332) accoglie l’equivalenza podager = uinosus richiamandosi
specificamente a Grilli, ma rovesciandone l’interpretazione complessiva del frammento: nel frammento in realtà
Ennio farebbe dell’ironia contro la teoria dell’euforia bacchica come fonte di ispirazione poiché, rispetto a ui-
nosus, «podager ha caratura del tutto ‘negativa’, richiamando uno stato patologico che non può certo favorire
l’attività poetica». Ma in questo modo si fornisce un’interpretazione del frammento in contrasto con il passo ora-
ziano che, come la Nastasi omette di ricordare, costituisce l’unica testimonianza che ci permette di sostenere l’e-
quivalenza podager = potus: si può pensare che Orazio distorca maliziosamente la menzione della podagra (cfr.
più avanti nel testo), più difficile mi riesce pensare che Orazio ricavi una propensione enniana al vino proprio
da un passo dove Ennio farebbe della ironia sull’euforia bacchica come fonte di ispirazione poetica.
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Saturae - Commento, fr. XIV (= Sat. 64 V.2) 163

Secondo Labate 1992, invece, con potus «Orazio si diverte a forzare il senso
della Selbstdarstellung enniana» (64) ricavando la uinositas di Ennio da podager,
così come nel verso precedente (6: laudibus arguitur uini uinosus Homerus) la pro-
pensione al vino di Omero «era estratta in maniera ostentatamente ‘forzosa’ dai
versi dell’Iliade e dell’Odissea» (64) in cui si parlava genericamente di vino: se-
condo Labate Ennio voleva propone con podager uno stato di inattività coatta
(dovuto appunto alla malattia)7 e con l’affermazione numquam poetor nisi podager
(«non faccio mai poesia se non quando sono immobilizzato dalla podagra» para-
frasa Labate 1992, 64) intendeva sostenere che «la poesia nasce da una necessità
fisiologica» (63) secondo un modulo che Labate individua anche nella tradizione
satirica successiva8. Questa tesi è molto attraente9, e i rilievi che vi possono esse-
re fatti non sono decisivi10: essa tuttavia impone di valutare più attentamente di
quanto non si sia fatto finora la testimonianza del Liber medicinalis di Quinto Se-
reno (olim Sammonico11), 706 s. (siamo nel capitolo de ischia et articulari morbo):
Ennius ipse pater dum pocula siccat iniqua,
hoc uitio tales fertur meruisse dolores.
Il passo delle epistole di Orazio discusso sopra è evidentemente una delle fon-
ti per Sereno12, ma non può esserne considerata, come vorrebbe Courtney, l’uni-
ca13: come osserva già Grilli 1978, 37, «da Orazio Sereno non poteva in nessun
modo dedurre che Ennio soffrisse di podagra»14. Si può pensare (con Vahlen

7 Partendo da un’interpretazione analoga della podagra, Müller 1884, 108 vedeva nel frammento un ten-

tativo di giustificare l’otium letterario (che Ennio presenterebbe come un’attività limitata ai momenti in cui, a
causa della podagra, non potrebbe fare altro) agli occhi dell’opinione pubblica romana: per questo suo caratte-
re programmatico Müller, nell’edizione, collocava il frammento nel primo libro (proemio), proposta accolta da
G. Pascoli, Lyra, Livorno 1926, 15.
8 Hor. sat. 2, 1, 4, ss. afferma di scrivere perché soffre d’insonnia, in Pers. 1, 10 sum petulanti splene – cachinno

«il ridere del poeta satirico […] diventa inevitabilmente un irrefrenabile impulso esplosivo» (Labate, 1992, 62) detta-
to dalla petulanti splene, sede del riso; con qualche dubbio, Labate richiama anche Lucil. 957-58 M. = 964-65 K.
9 La sostituzione scherzosa di podager con potus si sarebbe allora configurata, per chi leggeva il passo ora-

ziano riconoscendovi l’allusione al modello enniano, come un gustoso aprosdoketon accentuato dall’incipit iden-
tico delle due parole.
10 Sorprende – in una dichiarazione di poetica così riduttiva quale si ha accogliendo l’interpretazione del

frammento enniano proposta da Labate (e anche quella di Müller citata sopra in n. 7) – l’uso del grecismo poe-
tor che, come osserva Courtney, «stresses Ennius’ role as poeta» e lo distingue dai suoi precursori fauni vatesque:
da questo punto di vista l’uso di poetor si adatterebbe meglio all’interpretazione di podager = uinosus. Labate os-
serva che nelle Satire (p. 64) «non è logico attendersi rivendicazioni orgogliose dell’ispirazione poetica»: ma La-
bate omette di ricordare che l’attribuzione del frammento alle Satire è congetturale. È certo ad ogni modo che
la presenza di podager (su cui v. il comm.) pare dare un tono scherzoso a tutto il frammento. È curioso che in
una delle rarissime attestazioni di poetor esso ricorre in un ambito in cui si tende a presentare in modo riduttivo
l’attività poetica (Auson., epist. premessa al Cupidus cruciatus, XIX r. 7: ineptiam poetandi; il genitivo poetandi è
in funzione epesegetica di ineptiam).
11 Per la questione del nome cfr. HLL V (1989), 316 s.
12 Su cui si veda Eugenia Mastellone Iovine, Su alcune reminiscenze letterarie nel liber medicinalis di Q. Se-

reno Sammonico, «BSL» 14, 1984, 64-79: 77-79.


13 Così sembra pensare, fraintendendo Vahlen che cito subito dopo nel testo, anche la Mastellone, 78 n. 51.
14 Questo dato è sfuggito anche alla Mastellone, cit., 78 n. 51.
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164 Le opere minori di Ennio

1903, XVII seguito anche da Labate 1992, 59) che Sereno contaminasse il passo
oraziano con una testimonianza biografica che conosciamo da Girolamo (che di-
penderebbe a sua volta da Svetonio) e secondo la quale una non meglio precisata
malattia artritica (quale è in effetti la podagra) avrebbe causato la morte di Ennio
(chron.: Ennius poeta septuagenario maior articulari morbo perit). Il fertur con cui
viene qui introdotta la notizia della podagra, inoltre, può essere considerato una
conferma che Sereno non la riprendeva direttamente da Ennio15. Ma anche am-
messa questa ulteriore fonte di Sereno, bisogna osservare che nella testimonianza
di Girolamo manca a sua volta qualsiasi connessione tra l’articularis morbus di En-
nio e la sua uinositas (anzi, lo stesso Girolamo, altrove – chron. 1777 –, ci parla
della morigeratezza di Ennio, parco admodum sumptu contentus et unius ancillae
ministerio): bisogna dunque concludere che Orazio parla solo della uinositas, Gi-
rolamo solo del morbus articularis e che solo in Sereno questi due elementi risul-
tano connessi16. La domanda da porsi è dunque: su quali basi Sereno poteva arri-
vare a tale connessione?
Stupisce che anche quanti hanno sostenuto che essa fosse presente già nel no-
stro frammento abbiano negato che Sereno l’avesse ripresa direttamente da Ennio
e abbiano così rinunciato a un argomento per la propria interpretazione di poda-
ger17: così per Grilli 1978, 37 «è del tutto improbabile che egli [scil. Sereno] ver-
so la fine del IV secolo conoscesse il verso enniano, che viene da uno scritto mi-
nore, a quell’epoca reliquia da grammatico». Questa obiezione non è decisiva: una
probabile citazione dallo Scipio di Ennio (qui fr. I = Var. 1-2 V.2) si trova solo nel-
l’Historia Augusta; 2) il medesimo Sereno viene segnalato dalle fonti antiche co-
me proprietario di una straordinaria biblioteca di 62.000 volumi18.
Il presupposto che Sereno attingesse direttamente da Ennio appare difficil-
mente negabile anche se si accetta, con Labate, che podager in Ennio non abbia
alcun rapporto, come voleva Orazio, con la uinositas. Se infatti presupponiamo
che Sereno non abbia avuto presente il nostro passo enniano, dovremmo consta-
tare un fatto sorprendente e, perciò, improbabile: il percorso che aveva portato
Orazio a passare, con una scherzosa forzatura, dalla podagra alla uinositas ennia-
na, Sereno lo ripercorrerebbe all’indietro dalla uinositas alla podagra, risalendo
così, in modo del tutto casuale e inconsapevole, proprio al modello che stava die-
tro Orazio. Anche in questo caso dunque ritengo da condividere l’obiezione a
Courtney che Timpanaro mi esprimeva per litteras (1 maggio 1994): Sereno «ha

15 Così Grilli 1978, 37 e n. 2.


16 Per questa ragione risulta ancor più inaccettabile il rapporto tra le testimonianze indicato da Courtney:
Girolamo combinerebbe la testimonianza di Orazio con quella di Sereno (che, come abbiamo visto, Courtney
presume dipendere esclusivamente da Orazio): ma in Girolamo non c’è accenno alla uinositas enniana di cui par-
la Orazio.
17 Solo per Suerbaum 1968, 233 n. 689, la conoscenza diretta di Ennio da parte di Sereno «nicht ganz au-

sgeschlossen ist» sulla base dell’altra reminiscenza enniana nel Liber medicinalis citata più avanti nel testo.
18 Fonte e discussione ancora in Mastellone 1984, 64 n. 3.
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Saturae - Commento, fr. XIV (= Sat. 64 V.2) 165

contaminato Ennio con Orazio». Gli elementi fin qui raccolti, tuttavia, permetto-
no non solo di valutare meglio il passo di Sereno e un aspetto della sua tecnica let-
teraria, ma anche di difendere i tentativi di chi, come Labate, ha ipotizzato un’in-
terpretazione del podager enniano diversa da quella che ne dava Orazio: Grilli, co-
me si è visto, ricavava dal fertur utilizzato da Sereno un indizio che quest’ultimo
non riprendeva dal nostro frammento la notizia che Ennio soffriva di podagra; io
proporrerei invece di intendere che con fertur Sereno affermi che la podagra era
dovuta all’abuso di vino non in base al testo enniano (che Sereno conosceva di-
rettamente e dove non trovava, come si deve presumere appunto nell’interpreta-
zione di Labate, alcuna connessione con la uinositas), ma in base all’interpreta-
zione oraziana del testo enniano: fertur deve essere riferito a hoc uitio, non a me-
ruisse dolores: la contaminazione di Ennio con Orazio si configura più precisa-
mente come una interpretazione del primo con il secondo.

poetor: le altre attestazioni di questo grecismo sono piuttosto tarde: si tratta di


Marco Aurelio (ap. Front. p. 30, 11 v. d. H.2), Lucifero di Cagliari (Ath. 2, 9) e
Ausonio (nella epistola premessa al Cupido cruciatus [XIX cfr. n. 10 Green]). In
Lucifero la diatesi del verbo è sicuramente attiva, mentre per il caso di Marco Au-
relio si discute se essa sia attiva o, come in Ennio, media (cfr. van den Hout 1999,
79, con ampia bibliografia). Non si può escludere che poetor, come sostiene Skut-
sch 1968, 29 n. 9, sia stato introdotto nella lingua latina da Ennio stesso.

podager: grecismo lessicale (podagrov") con evoluzione fonetica tipicamente la-


tina (cfr. ager rispetto a ajgrov"), è attestato in poesia latina solo qui e in Claudia-
no (min. 13, 4). Fin da Plauto (merc. 595 e cfr. Lucil. 332-333 M.) gli è stato pre-
ferito podagrosus, che alterna semmai con la forma, grecizzante anche nel suffisso,
podagricus (podagrikov"; è la forma suffissale comunemente ripresa in latino per il
lessico della medicina: cfr. M. Fruyt, Grec -ikov" en latin. Étude quantitative,
«RPh» 61, 1987, 261-286)19. Podager riemerge in epoca tarda e medievale dopo
un lungo periodo di assenza dai testi letterari di età classica20. È legittimo pensa-

19 Secondo l’OLD s. v., podager comparirebbe anche in Plin. hist. 20, 4 e 31, 72: in effetti in questi passi po-

dagris si potrebbe intendere come dativo di podager. Ma quando si vede che, da una parte, Plinio usa spesso il
termine podagrae al plurale (cfr., nel ventesimo libro, 17, 88, 220, 259: uso del plurale anche in Cels. 5, 18 ma-
lagma ad calidas podagras aptum) mentre utilizza il termine consueto podagricus per indicare il malato di podagra
(cfr. 20, 77; 21, 174) sembra più probabile che anche nei passi indicati dall’OLD si debba intendere podagris co-
me dativo plurale di podagra. Una attestazione incerta è in Hor. ep. 1, 2, 52: i codici sono divisi tra podagram e
podagrum, e quest’ultimo potrebbe sembrare difficilior proprio perché molto raro: ma come indico subito dopo
nel testo, podager risulta molto diffuso in età medievale e non risulterebbe quindi strano attribuire l’introduzio-
ne di podagrum a un copista, tanto più che esso è facilior nel contesto oraziano in quanto giustificabile come ade-
guamento al lippum che precede.
20 Riporto i dati ricavati dalla consultazione della Patrologia Latina in versione elettronica: Aug. civ. VII 4

PL 41, 764 e 767; Henricus Septimellensis, De diversitate fortunae et philosophiae consolatione, PL 204, 861; Vic-
tor Turonensis, Chronicon, PL 68, 947; Anastasius bibliothecarius, Historia de vitiis pontificum Romanorum, PL
128, 938; Hrotshuita Gandersheimensis, Passio S. Gangolfi, PL 137, 1083 (riferendosi a questo passo l’anonimo
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166 Le opere minori di Ennio

re che esso fosse entrato nella lingua latina in epoca molto antica perché molto an-
tichi sono in genere gli aggettivi a due uscite come podagrov".

autore dell’Index Latinitatis in opera Hrotshuitae, PL 137, 1197 osserva: podagro pro podagrico); della stessa Ro-
svita, Historia passionis S. Dionysii Egregii, PL 137, 1117; Jacobus presbyter, Fragmentum carminis, PL 11, 212;
Willelmus Clusensis, Historia Clusiensis Monasterii, PL 150, 1454 A.
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Saturae - Commento, fr. XV (= Sat. 65 V.2) 167

*Sat. XV (= Sat. 65 V.2)

Le fonti (Festo e Varrone) ci indicano la paternità enniana del frammento1, ma


non l’opera di provenienza. La proposta di attribuzione al Sota, si può scartare fa-
cilmente perché basata su un testo del frammento che in antiche edizioni di Var-
rone veniva riportato in una forma imcompleta2 che è stata presupposta anche per
l’assegnazione, senza discussione, a tragedia incerta3. L’attribuzione alle Satire og-
gi comunemente accolta non risale, come afferma Courtney 1993, a K. O. Müller:
quest’ultimo infatti si era limitato a proporre il confronto (peraltro illuminante)
con un passo di Erodoto (1, 141) che permette di capire che nel nostro frammen-
to enniano si allude a una favola4. Fu sulla base di tale confronto che anche que-
sto frammento, come altri in cui si potevano riconoscere narrazioni favolistiche,
fu attribuito da Vahlen 1854 alle Satire: in quest’opera, infatti, dovevano sicura-
mente trovarsi altre favole, come ci documenta Gellio 2, 29 (cfr. sopra, fr. XI); per
l’attribuzione di L. Müller e altri allo Scipio cfr. sotto, n. 5.

La favola quale si trova in Erodoto è applicata a uno degli episodi che porta-
rono alla guerra tra Greci e Persiani: in un primo tempo gli Ioni e gli Eoli aveva-
no rifiutato di passare dalla parte di Ciro; quando quest’ultimo conquistò i Lidi,
tuttavia, gli Ioni e gli Eoli si sentirono minacciati e mandarono a Ciro degli am-
basciatori per chiedere di diventare suoi sudditi a condizioni vantaggiose; ma ai
legati Ciro raccontò la favola del flautista che cercava di attirare i pesci sulla riva
del mare con il suono del proprio strumento; quando si rese conto di non ottene-
re nulla, il flautista lanciò una rete: ai pesci così catturati, e che continuavano a

1 In Varrone F legge apud che è stato in tutta sicurezza corretto in apud Ennium fin dal primo ed. del de

ling. Lat., Pomponio Leto (Roma 1470).


2 Viene omesso infatti quondam (presente invece nel codice F di Varrone): subulo finitimas propter adsta-

bat aquas (così ad es. in Varro 1573,178: di questa versione non saprei indicare la fonte manoscritta) dove Scali-
ger 1565, 147 (seguìto da Colonna 1585-86) proponeva la trasposizione subulo finitimas propter aquas adstabat
ottenendo così un sotadeo (mancante dell’ultima sillaba: – ! – – | ! ! – – | ! ! – – | – ) e quindi l’attribuzio-
ne al Sota. Lo stesso Scaligero, tuttavia, rilevandone la differenza rispetto a quello da lui presupposto in Varro-
ne, osservava che il testo del frammento enniano ricavabile da Festo costituisce un settenario trocaico, scansio-
ne che Colonna 1585-86 indicava anche per il testo più ampio del frammento (dunque con quondam) che rin-
veniva «in vetusto M. Varronis codice». Segnalo che in Festo la facile correzione del tràdito adst[r]abat viene at-
tribuita da K. O. Müller (Lindsay tace) a F. Orsini, (ed. di Festo, Romae 1581) che invero nel testo (p. 117) stam-
pava adstrabat tra croci e in margine scriveva «f. [= “fortasse”: cfr. p. 2 delle “notae”] adstabat» dando così l’im-
pressione di introdurre per primo la correzione; questa tuttavia era stata introdotta tacitamente già nelle prece-
denti edizioni di Festo: la trovo, ad esempio, in quella che accompagna la seconda edizione delle Castigationes
di G. G. Scaligero (1576, CCLXXVII).
3 Così Scriverius 1620: l’attribuzione non viene argomentata neppure nella nota di comm. al fr. di G. J.

Voss, (apud Scriverius 1620, 56 ristampata nelle Notae riportate in appendice alla ristampa del Colonna a c. di
F. Hessel, 1707, 335) che del frammento si limita a discutere l’interpretazione metrica.
4 Questo raffronto è proposto da Müller per la prima volta nella sua edizione di Varrone, 1833, 133 s. e

poi ancora in Die Etrusker, Stuttgart 18772, II, 202 n. 19; ed. di Festo 18802, p. 308: si noti per di più che Mül-
ler nell’ed. di Varrone menziona, senza contestarla, l’attribuzione a tragedia incerta.
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168 Le opere minori di Ennio

guizzare nella rete, il flautista disse di smettere di ballare visto che essi non ave-
vano voluto farlo prima, al suono del flauto5.
Che anche Ennio facesse riferimento a questa favola è una ipotesi unanime-
mente accolta6 e sostenuta da tre indizi che si rafforzano a vicenda per la loro com-
presenza in questo frammento: 1) sia in Ennio che in Erodoto si parla di un flau-
tista (indicato in Ennio con subulo, termine per esemplificare il quale Varrone e
Festo citano il nostro frammento) dinanzi al mare; 2) quondam ricorre spesso al-
l’inizio di una favola (e con la scena del flautista dinanzi al mare inizia proprio la
narrazione di Erodoto e delle altre versioni della favola che menziono sotto); 3) il
settenario trocaico viene impiegato anche nel frammento enniano sicuramente
proveniente da una favola (fr. XI, sat. 57-58 V.2). Inoltre, il fatto che in questo bre-
ve frammento siano esplicitati particolari sottintesi nella pur ampia versione di
Erodoto (cfr. sotto), lascia presumere che anche in Ennio (come avveniva sicura-
mente nella favola di Sat. XI) vi fosse una narrazione compiuta della favola piut-
tosto che – come prospetta Cozzoli (1995, 190) in alternativa a questa ipotesi – una
semplice allusione ad essa. Il passaggio dalla narrazione erodotea in discorso indi-
retto a quella enniana in discorso diretto rende possibile (ma non dimostrabile) l’i-
potesi che in Ennio la favola costituisse un componimento a sé stante (come par-
rebbe probabile per la favola narrata in Sat. XI, la cui conclusione – come sappia-
mo da Gellio 2, 29, 16 – coincideva anche con la conclusione della satira): ma non
è ovviamente possibile escludere che la favola fosse solo una parte di un’opera più
vasta (come avviene ad esempio per le favole presenti nelle satire oraziane).

Bisogna tuttavia ricordare che la favola del pescatore ci è testimoniata non so-
lo da Erodoto (l’unico autore che, sulla scia di K. O. Müller, è stato preso in con-

5 L. Müller (nel «Commentarius» dell’ed. enniana, 1884, 208) ritiene che nel nostro frammento utilizzi

Erodoto secondo modalità analoghe a quelle riscontrabili in ann. 369 Sk. (dove la narrazione erodotea dell’at-
traversamento dell’Ellesponto da parte di Serse [Hdt. 7, 36] verrebbe paragonata all’analoga impresa di Antio-
co [192 a. C.]): nel nostro caso la favola con la quale Ciro si prende gioco degli ambasciatori degli Ioni e degli
Eoli sarebbe raccontata da Scipione per prendersi gioco dei legati cartaginesi che venivano a chiedere nuova-
mente la pace dopo aver rotto la tregua: da questo confronto Müller traeva argomento per attribuire il fram-
mento allo Scipio (cioè, secondo la tesi accolta anche da Müller, al III libro delle satire). Ma nei passi liviani in
cui viene narrata l’ambasceria dei cartaginesi e ai quali si richiama Müller (Liu. 30, 24 e 36), non si trova nessun
appiglio per questa ipotesi. L’attribuzione allo Scipio è stata sostenuta anche da chi non ha accolto il parallelo
con il passo erodoteo: così per Pascoli 1915, 16 (seguìto da Bolisani 1935), nel frammento si parlerebbe di un
omen (alla sbarco del Pulchri promonturium?) quale quello narrato da Suet. Ial. 32 a proposito del passaggio del
Rubicone da parte di Cesare: ostentum tale factum est. Quidam eximia magnitudine et forma in proximo sedens
repente apparuit harundine canens. Sulla base di questo raffronto Pascoli addirittura correggeva quondam in qui-
dam (correzione accolta nel testo da Bolisani 1935, che però erroneamente l’attribuisce, p. 131, a C. Pascal). Pre-
cedentemente, Bolisani 1933 (cit. sopra, p. 56), 980 s. aveva rifiutato l’attribuzione allo Scipio perché il fr. avreb-
be un non meglio precisato tono faceto («aliud faceti saporis argumentum redoleat»): forse Bolisani lo avvertiva
nell’uso di un termine stilisticamente connotato come subulo (v. sotto)?
6 La mancata citazione della testimonianza enniana in F. R. Adrados, História de la fábula greco-latina, III:

Inventario y documentación de la fábula greco-latina, Madrid 1987: 40-1, non è dovuta a un dissenso nei riguar-
di dell’opinione corrente ma a una omissione involontaria colmata in seguito nella tr. ingl. con interventi del-
l’autore (F. R. Adrados, History of the Graeco-Latin fable, Leiden 1999-2000: I 1999, 536).
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Saturae - Commento, fr. XV (= Sat. 65 V.2) 169

siderazione da Waszink e in molte altre discussioni sul nostro frammento) ma an-


che, come ricorda Courtney 1993, da tre versioni del Corpus Fabularum Aesopi-
carum (11 Hausrath: d’ora in poi CFA) e da Babrio 97. Dal confronto tra queste
versioni greche emergono alcuni aspetti che, nella pur abbondante bibliografia
specifica, anche recente, non sono stati messi sufficientemente messi in luce e che
pure devono essere tenuti presenti nella valutazione del nostro frammento8.
La Cozzoli (1995, 191) sembra ritenere le varie versioni sostanzialmente inter-
scambiabili, tant’è vero che applica alla favola erodotea l’epimythion di due delle
versioni del CFA (11 II e III Hausrath: oJ mu`qo" pro;" tou;" para; lovgon kai;
para; kairovn ti pravttonta") e osserva che «la morale della favola si rivolge
dunque a persone che non agiscono a tempo opportuno, che operano senza tener
conto del kairov"». Questa affermazione è condivisibile, ma a mio avviso lascia
aperto un interrogativo: a quale dei due personaggi principali della favola – flau-
tista e pesci – si riferisce questa morale? È il flautista o sono i pesci ad operare
para; lovgon kai; para; kairovn? Se si leggono le parole che Erodoto fa seguire
alla narrazione della favola non paiono esserci dubbi:
Ku`ro" me;n tou`ton to;n lovgon toi`si “Iwsi kai; toi`si Aijoleu`si tw`nde ei{neka
e[lexe, o{ti dh; oiJ “Iwne" provteron aujtou` Ku`rou dehqevnto" di’ajggevlwn ajpistasqaiv
sfea" ajpo; Kroivsou oujk ejpeivqonto, tovte de; katergasmevnwn tw`n prhgmavtwn h\san
e{toimoi peivqesqai Kuvrw/.
«Per questo motivo Ciro raccontò la favola agli Ioni e agli Eoli: perché gli Ioni in pre-
cedenza, quando lo stesso Ciro aveva chiesto attraverso messaggeri che si ribellassero a
Creso, non gli avevano dato ascolto, mentre ora, a cose fatte, erano pronti a obbedirgli»
(tr. di V. Antelami).
Qui la favola stigmatizza il comportamento dei pesci, nel quale bisogna rico-
noscere un’allusione all’opportunismo politico degli Ioni e degli Eoli9. La stessa
conclusione non appare possibile trarre se leggiamo la versione di Babrio (9):
A
J lieuv" ti" aujlou;" ei\ce kai; sofw`" hu[lei:
kai; dhv pot∆o[yon ejlpivsa" ajmocqhvtw"
polu; pro;" aujlw`n hJdufwnivhn h{xein
to; divktuon qei;" ejterevtizen eujmouvsw".

7 Da segnalare inoltre la versione di Aphthon. 33 e l’allusione in Aelian. NA 1, 39.


8 Sulla versione erodotea della favola cfr. G.-J. van Dijk, AINOI, LOGOI, MUQOI. Fables in archaic, clas-
sical, and Hellenistic Literature, Leiden-New York-Köln, 1997, 271 ss. che, se non capisco male, in n. 9 rinvia a
un suo lavoro sulle varie versioni della favola comparso in «Bestia» 6, 1994, 118-135 e che io non ho potuto ve-
dere; sulla versione enniana cfr. anche Cozzoli 1995, 190 s. e Del Vecchio - Fiore 1998, 68-69. Niente si ricava
dalla superficiale analisi di questa e delle altre favole enniane che porta L. Herrmann (Equisse d’une histoire des
fables a Rome, «Phoibos» 2, 1947-1948, 63-75: 65-66) ad affermare che (p. 66) Ennio «est vraiment le père de la
fable latine».
9 Così anche van Dijk, cit., 272 che tuttavia, di fronte al passo ora citato, non riesco a capire come possa

affermare che «neither Cyrus nor Herodotus explain the meaning of the fable to their respective audiences»; giu-
stamente, tuttavia, van Dijk scarta l’ipotesi secondo la quale la favola giustificherebbe il comportamento delle
città asiatiche.
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170 Le opere minori di Ennio

ejpei; de; fusw`n e[kame kai; mavthn hu[lei,


balw;n saghvnhn e[laben ijcquva" pleivstou".
ejpi; gh`" d∆ijdw;n spaivronta" a[llon ajlloivw",
toiau`t∆ ejkertovmhse to;n bovlon pluvnwn:
‘a[naula nu`n ojrcei`sqe. krei`sson h\n u{ma"
pavlai coreuvein, hJnivk∆eij" corou;" hu[loun.`
oujk e[stin ajpovnw" kajluvonta kerdaivnein:
o{tan kamw;n de; tou`q∆e{lh/" o{per bouvlei
tou` kertomei`n soi kairov" ejsti kai; paivzein.
«Un pescatore possedeva un flauto e sapeva suonarlo bene; e una volta, credendo di
procacciarsi senza sforzo il cibo in gran quantità al dolce suono del flauto, deposta la re-
te si mise a suonare aggraziatamente. Poiché a forza di soffiare si stancò senza che il suo-
no del flauto ottenesse nulla, prese una grossa rete e catturò moltissimi pesci. Vedendoli
compiere, una volta a terra, le più svariate evoluzioni, mentre risciacquava la preda la
schernì così: “Senza suono del flauto ora ballate. Sarebbe stato meglio che aveste danzato
prima, quando suonando il flauto vi invitavo al ballo”. Non è possibile ottenere alcunché
senza fatica e stando ozioso: quando riesci a ottenere a fatica ciò che desideri, hai l’occa-
sione di deridere e scherzare».
È chiaro che qui le critiche si appuntano sul comportamento inetto (mavthn
hu[lei) e scansafatiche (ajmocqhvtw" e cfr. nell’epimythion, v. 11, oujk e[stin aj-
povnw" kajluvonta kerdaivnein) del flautista-pescatore. In Erodoto e in Babrio la
stessa vicenda è narrata da prospettive opposte.
Il punto di vista con cui viene narrata la vicenda appare invece effettivamente
meno chiaro nelle versioni del CFA, ma anche qui troviamo alcuni indizi che rien-
trano meglio nella prospettiva data alla favola da Babrio piuttosto che a quella
erodotea: così in CFA 11, II e III il pescatore viene indicato come aJlieutikh`"-
a[peiro"; in tutte e tre le versioni si evidenzia l’assurda pretesa che pro;" th;n
hJdufwnivan tou;" ijcquva" ejxavllesqai (anzi in CFA 11 I l’assurdità è accentuata
presentando il balzo dei pesci come spontaneo: aujtomavtou" pro;" th;n hJdufw-
nivan tou;" ijcquva" ejxavllesqai). Se nell’epimythion l’espressione para; kairovn
può equivocamente essere riferita al comportamento sia dei pesci che del pesca-
tore, l’espressione para; lovgon sembra adattarsi meglio al comportamento di
quest’ultimo10.
Quale di queste versioni possa essere considerata originaria e quale dovuta a
una successiva rielaborazione appare difficile da stabilire viste le nostre scarse co-
noscenze sulla diffusione e sulla tradizione delle favole antiche: se si considera la
cronologia delle versioni con cui la favola ci viene testimoniata si potrebbe pen-

10 Questa differente prospettiva tra le versioni greche della favola è stata intravista anche da S. Jedrkiewicz,

Sapere e paradosso nell’antichità: Esopo e la favola, Roma 1989, 336 n. 5 per cui nel corpus Aesopicum «l’epimi-
tio, di tipo sarcastico, condanna chi agisce a sproposito, riprendendo il tema della battuta finale [pronunciata
dal flautista in Erodoto: cfr. sopra, il riassunto della favola]. Ma il senso simbolico può venir modificato: l’uso
iniziale del flauto non sarà allora più connesso ad una presupposta libertà d’azione dei pesci, ma attribuito al-
l’illusione del pescatore di poterli attirare con la musica».
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Saturae - Commento, fr. XV (= Sat. 65 V.2) 171

sare a una innovazione di Babrio (II d.C.) rispetto alla versione vulgata rappre-
sentata da Erodoto. Ma considerazioni cronologiche in questo ambito non sono
stringenti perché talvolta, tra due redazioni della stessa favola, quella più recente
conserva uno stadio della favola più antico di altre: la stessa Cozzoli menziona,
senza contestarla, la tesi di Perry11 per cui rispetto alla versione della favola in Sat.
XI «la redazione di Babrio sia quella più vicina alla tradizione esopica»12. D’altro
canto, «lingua e stile del CFA fanno pensare alla più tarda età ellenistica, ma non
permettono né di sceverare il nucleo originario né di restituire alla loro composi-
zione originaria le favole, anche se alcune possono rispecchiare la stesura anti-
chissima, quella ateniese del V. sec., e altre quella di Demetrio Falereo del IV-III
sec. a.C.»13. In questa situazione risulta quindi altrettanto legittimo pensare che
l’innovazione sia dovuta a Erodoto.
Le conseguenze di queste considerazioni per il nostro frammento enniano risul-
tano ovvie: non è scontato che Ennio avesse di fronte proprio Erodoto e il partico-
lare punto di vista con cui in questo autore la favola veniva narrata. Devono a que-
sto riguardo essere riconsiderate le affermazioni di K. O. Müller – secondo il qua-
le Ennio avrebbe addirittura tradotto Erodoto14 – e di Waszink 1972, 125, che os-
serva che il nostro frammento concorda «completely» con la narrazione erodotea15.
In realtà è possibile individuare 1) un punto in cui Ennio è vicino al CFA e diverge
da Erodoto e 2) un punto in cui Ennio è vicino a Erodoto e diverge da CFA.
Per quanto riguarda il punto 1, se consideriamo il passaggio di Erodoto acco-
stabile al nostro frammento (a[ndra fa;" [scil. Ciro] aujlhth;n ijdovnta ijcqu`" ejn
th/` qalavssh/ aujlevein, dokevontav sfea" ejxeleuvsesqai ej" gh`n) si può rilevare,
con Del Vecchio – Fiore 1998, 69, che: a) «nel verso di Ennio è indicato il luogo
in cui si trova il suonatore di flauto, propter marinas plagas, indicazione che nella
versione di Erodoto […] non compare16»; b) la versione di Ennio «sembra corri-
spondere a quella di Esopo (il pescatore suonatore di flauto va verso il mare e si
ferma su uno scoglio [Hausrath 11 I : ajlieu;" … paregevneto eij" th;n qavlas-
san kai; sta;" ejpiv tino" problh`to" pevtra" ktl.]); anche il verbo astabat

11 B. E. Perry, Babrius and Phaedrus, London 1965, 483.


12 Müller 1976, 215 sostiene invece che Babrio 88 è una rielaborazione della versione enniana della favola
dell’allodola: il che non cambierebbe la sostanza del discorso, anzi, per analogia, indurrebbe una volta di più a
accostare il nostro frammento, alla successiva versione di Babrio anziché a quella più antica di Erodoto.
13 G. Marenghi, Favolisti greci, in Dizionario degli scrittori greci e latini, II 1987, 961-979: 966.
14 «Ennius Herodoti narrationem hic, ut alias quoque ab eo factum suspicor, in suam rem converterat»: l’in-

ciso «ut alias quoque ab eo factum suspicor» si spiega con il fatto che anche per un altro frammento enniano
(Sat. XVI) citato sempre da Varrone (l. L. 7, 71) Müller aveva individuato la fonte in un passo erodoteo (3, 116):
ma, come ho cercato di mostrare nel commento ad loc., anche in quel caso ci sono forti dubbi nel considerare
Erodoto fonte diretta di Ennio.
15 Sulla base di questa affermazione Waszink richiama i casi in cui l’influenza diretta di Erodoto è riscon-

trabile nei Giambi di Callimaco e ne trae ulteriore argomento per dimostrare l’affinità tra quest’opera e le satire
enniane.
16 O forse sarebbe più esatto dire che esso risulta implicitamente dal fatto che Erodoto dice che il flautista

“vede i pesci in mare” e “ritiene di poterli trascinare a terra”.


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172 Le opere minori di Ennio

potrebbe ricordare l’esopico stav"». Per il punto 2 è stato giustamente rilevata (da
Del Vecchio – Fiore 1998, 69) la differenza tra Ennio e CFA riguardo al protago-
nista della favola, («in Ennio è un suonatore di flauto (subulo), in Esopo è un pe-
scatore esperto nel suonare il flauto (ajlieu;" aujlhtikh`" e[mpeiro")17»: a maggior
ragione si dovrà constatare la coincidenza, proprio su questo particolare, tra En-
nio e Erodoto (anche in quest’ultimo si parla solo di a[ndra […] aujlhthvn). Ma
proprio in Babrio, nonostante che il protagonista venga anche qui presentato
come pescatore, si insiste molto sulle sue capacità di flautista (v. 1: A
J lieuv" ti"
aujlou;" ei\ce kai; sofw`" hu[lei; v. 4: ejterevtizen eujmouvsw").

subulo: si tratta di un hapax assoluto per il quale Varrone, citando il frammen-


to, postula una origine etrusca che appare assai verosimile non solo perché, come
ricorda F. Gaide, Les substantifs masculins latins en …(i)o, …(i)onis, Louvain
1989, 214, un vocabolo corrispondente è documentato tra le testimonianze etru-
sche, ma anche perché di origine etrusca è in genere, in latino, il lessico “ludico”,
nel quale rientra appunto un termine usato per indicare un flautista: cfr. De Si-
mone, Gli imprestiti etruschi nel latino arcaico, in Alle origini di Roma (=Atti del
colloquio tenuto a Pisa il 18-19 sett. 1987), Pisa 1988, 27-41: 37 s.). Le formazio-
ni in -o(n), oltre ad avere spesso una connotazione negativa, appaiono legati a ge-
neri letterari popolari18 (assai frequenti sono in Lucilio: cfr. I. Mariotti, Studi luci-
liani, Firenze 1960, 104-106). Sulla base del presupposto che si tratti di parola di
origine etrusca, e che sia stata sentita ancora come tale anche all’epoca di Ennio,
il quale aveva a disposizione in alternativa il sinonimo tibicen, Petersmann 1999,
291 s. ipotizza che subulo sia stato qui usato per evocare una scena ambientata in
Etruria o una persona etrusca trasferitasi a Roma.

plagas: così Festo, generalmente seguito dagli editori, i quali tuttavia – come os-
serva Timpanaro 1998, 528 = 2005, 166 – respingono troppo frettolosamente la
variante aquas dei codici di Varrone (Courtney pone addirittura aquas tra cruces).
Certo plagas è ‘difficilior’ per il senso (e la sua sostituzione con aquas potrebbe
forse essere spiegata per attrazione di marinas che precede): inoltre plaga rientra
nell’ampio repertorio di espressioni enniane per indicare la superficie del cielo
(cfr. Enn., ann. 143 caerula plaga e trag. 187 Joc. caeli scrutantur plagas): «è vero-
simile che la stessa parola sia stata riferita da Ennio alla distesa del mare» (Tim-
panaro cit.) come nell’ennianeggiante Lucrezio 5, 381 ponti plaga caerula19. Ma
aquas è difficilior per ragioni prosodiche poiché impone astabat secondo la pro-

17 E si può aggiungere che questa è anzi la redazione del CFA (la prima nell’ed. Hausrath) che più si avvi-

cina a Ennio: in 11 II e III, come si è visto, si parla di “pescatore inesperto nella pesca”
18 Cfr. Gaide, cit., 278 e la recensione di A. Traina a Gaide, «RFIC» 118, 1990, 378.
19 Questi paralleli rendono sconsigliabile ipotizzare (con H. Jaconson, Ennio sat. 65 V., «Mum.» s. IV, 55,

2002, 88-89) che marinas plagas significhi ‘reti (da pesca) per il mare’.
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Saturae - Commento, fr. XV (= Sat. 65 V.2) 173

sodia arcaica ma attestata in Ennio (cfr. sotto, p. 228 ss.). Si può pensare che aquas
sia attribuibile a banalizzazione di un copista, che difficilmente si sarà posto pro-
blemi prosodici; si può, in alternativa, pensare anche che aquas sia errore di cita-
zione a memoria dovuto a Varrone stesso a cui astabat non dava fastidio20: ma
aquas potrebbe risalire anche a Ennio stesso, tanto più che essa si troverebbe in
nesso allitterante con astabat: «si metta plagas nel testo, ma si riconosca che una
scelta assolutamente sicura è impossibile» (Timpanaro cit.).

20 Queste due diverse ipotesi emergono tacitamente dal comportamento degli editori che, come si è detto,

in genere considerano aquas una corruttela: ma gli editori enniani (Vahlen 1854, Müller 1884 [p. 75], Baehrens
1886 [p. 121, n. 482]; Vahlen 1903) che attribuiscono aquas a «Varro», e non a «cdd. Varronis», sembrano far
risalire la corruttela a Varrone stesso; gli editori varroniani – che accolgono plagas anche in Varrone sulla base di
Festo – suppongono implicitamente che la corruttela risalga a un copista. Isolata e infelice la scelta editoriale di
Courtney che riporta la testimonianza di Varrone accogliendo aquas ma ponendolo tra obeli.
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174 Le opere minori di Ennio

*Sat. XVI (= sat. 67-68 V.2)

Della vulgata critica su questo frammento converrà evidenziare subito gli ele-
menti sicuri: i Coclites – cioè «monocoli» come ci dice Varr. l. L. 7, 71 (ma cfr. il
sotto, p. 173) che proprio per esemplificare e spiegare l’uso di questo termine ci-
ta il frammento – devono essere identificati con gli Arimaspi, figure mitologiche
che le fonti antiche rappresentano appunto dotate di un solo occhio e collocano
in Scizia, sui monti Rifei, la cui menzione si cela sicuramente nella lezione ripeis1
tràdita per il nostro passo enniano2.
Per il resto – e qui si apre lo spazio per alcune precisazioni – la consolidata com-
munis opinio sul nostro frammento intende il relativo quas, che nella citazione var-
roniana risulta privo di antecedente, riferito a un termine come, ad es., massas3
«che dieci Cocliti hanno scavato (fodere) sugli alti molti Rifei». In appoggio a que-
sta interpretazione viene richiamata (a partire almeno da Müller 1833) la testimo-
nianza di Erodoto 3, 116, che a sua volta dipende dagli Arimaspea, il poema per-
duto di Aristea di Proconneso (VI a.C.): pro;" de; a[rktou th`" Eujrwvph" pollw`/
ti plei`sto" cruso;" faivnetai ejwnv . O { kw" me;n ginovmeno", oujk e[cw oujde;
tou`to ajtrekevw" ei\pai, levgetai de; uJpe;k tw`n grupw`n aJrpavzein A j rimaspou;"

1 Questi risultati (coclites = Arimaspi e ripeis = monti Rifei) sono dovuti a Turnebus 1564-65, II f. 261r [=

Varro 1573, 162 e in forma più ampia Turnebus 1566 (= Varro 1573, 113s. da cui dipendo)] e non, come affer-
ma Waszink 1972, 132, a K. O. Müller 1833 (che in effetti riferiva tali interpretazioni senza specificarne la pro-
venienza). Si tenga presenta che, contrariamente alle apparenze, la forma definitiva della nota deve essere consi-
derata quella stampata in Turnebus 1564-65 perché qui il Turnebus stesso ha curato la pubblicazione di estratti
dalle sue note sul De lingua Latina che furono pubblicate integralmente e postume per cura del figlio: cfr. Brown
1980, 482 s.)
2 Nelle edizioni più antiche ripeis era stato inteso come forma arcaica di ripis (così ad es. nell’ed. princeps

di Varrone a cura di P. Leto, [Roma 1470]). Turnebus per la propria interpretazione presupponeva la grafia aspi-
rata Riphaeis che troviamo in testi latini più tardi; Colonna 1585-86 introdusse la forma senza aspirazione – qua-
le ci si attende nell’arcaico Ennio – Ripaeis, opponendo alla testimonianza di Serv. ad Aen. 9, 82 (Ripaei, montes
Arcadiae, non scribuntur cum aspiratione, quam addimus cum Riphaeos, montes Scythiae [appunto i monti degli
Arimaspi], significamus) quella di un «pervetustum glossarium» (identificato da Mariotti 1991 [la red. orig. è del
1971], 134 n. 7 con il Fragmentum Bobiense edito da Keil e dallo stesso Mariotti in Atti del convegno interna-
zionale ‘Il libro e il testo’. Urbino, 20-23 settembre 1982, Urbino 1984, 37 ss.) dove si offre un’etimologia del to-
ponimo (cfr. GL VII 544, 25 K. = § 133 Mariotti: ‘Ripaeis’ Scythicis: dicti ajpo; th`" rJiph`", hoc est a ui uentorum)
che presuppone chiaramente la grafia senza aspirazione anche per i monti della Scizia. Per quanto riguarda il te-
sto tràdito del nostro frammento enniano, è da osservare che ripeis si trova in F, cioè nel codice ritenuto l’ar-
chetipo di tutti gli altri codici del De lingua latina in nostro possesso: tuttavia Spengel 1826 segnala la lezione
ripheis di b (Paris. lat. 6142, XV sec.) e Müller 1833 la lezione rhipeis di G (= Gothanus, XVI sec., collazionato
da Regel per conto di Müller). Se questo dato è vero (Goetz - Schoell tacciono), risulta interessante perché te-
stimonia già per il XV sec. la consapevolezza – riconquistata solo col Turnebus nel 1564 – che non di ripae si
trattava ma del toponimo Riphaei; anche ripeis di F potrebbe essere considerata non corruttela ma variante gra-
fica – con monottongazione e perdita dell’aspirazione – di Riphaeis: tuttavia, per quanto ho potuto vedere, la tra-
dizione manoscritta del toponimo presenta spesso la monottongazione (cfr. ad es. l’app. di M. Geymonat nella
sua edizione di Virgilio [Augustae Taurinorum 1973] a georg. 1, 240) o la mancanza di aspirazione (cfr. Geymo-
nat, cit., in app. a georg. 3, 382) ma non tutti e due i fenomeni insieme.
3 Questa proposta è stata avanzata da Lachmann in note lasciate inedite e pubblicate per la prima volta da

Vahlen 1903 (di cui vedi la prefazione, p. CXXXVIII).


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Saturae - Commento, fr. XVI (= Sat. 67-68 V.2) 175

a[ndra" mounofqavlmou". Il passo di Erodoto risulta senz’altro utile per la con-


nessione tra gli Arimaspi e le favolose quantità d’oro che si trovavano sui monti
Rifei (e questo appoggia l’ipotesi che quas si riferisca a massas)4; bisogna tuttavia
osservare che pochi paragrafi prima Erodoto (3, 106) indica l’aJrpavzein come un
modo di procurarsi l’oro alternativo all’ojruvssein e quindi, come non viene solita-
mente rilevato, al fodere del frammento enniano5.
E l’attività di scavo presupposta da fodere risulta in contrasto anche con altre
testimonianze: non è vero infatti che «the one eyed Arimaspi were said to mine
gold in Rhipaean mountains» (Courtney: il corsivo è mio). Già Erodoto nel bra-
no riportato sopra lascia intravedere, dichiarando la propria incertezza, che cir-
colavano strane voci su come l’oro veniva ricavato sui monti Rifei ( O { kw" me;n
ginovmeno" [scil. oJ cruso"], oujk e[cw oujde; tou`to ajtrekevw" ei\pai). Una con-
ferma di queste strane voci ci viene da Pausania 1, 24, 6 – che dipende da Aristea,
a mio avviso – secondo il quale «è la terra stessa a mandar fuori l’oro custodito dai
grifoni»6. Ed è curioso che proprio Courtney aggiunga una testimonianza di Po-
sidonio7 che documenta la presenza di «oro» (così Courtney: per la precisione Po-
sidonio parla di a[rguron) sui monti Rifei, i quali vengono tuttavia menzionati pro-
prio come uno dei pochi luoghi in cui procurarsi metalli preziosi non richiede fa-
ticose opere di scavo: l’argento stilla spontaneamente dalla terra dopo un incen-
dio boschivo8. Inoltre, anche per Eschilo (Pr. 803-6) l’oro del paese degli Arima-
spi non si trovava in miniera, ma scorreva in un fiume (e l’attingere oro dai fiumi
è la terza alternativa indicata da Erodoto 3, 106 assieme all’aJrpavzein e all’ojruvs-

4 Per giustificare l’uso di massas per indicare grandi quantità d’oro, o comunque di metallo prezioso, Vah-

len 1903 richiama (forse riprendendo questi passi da Lachmann) Plaut. mil. 1065 nam massas habet, Aetna mons
non aeque altust e Claud. 24, 235 massas argenti.
5 Una sorpresa riserva Bolisani 1935 che traduceva «dieci di quei monocoli, che (io credo) dissotterrino

(l’oro) sulle vette dei monti Rifei» e a p. 61 commentava: «fodere: dipende da un corrispettivo di io credo, ho sup-
posto, in quanto il pensiero di Ennio poteva essere integrato in questo modo “e non che lo rapiscano ai grifi, co-
me dice Erodoto». Si noti che Bolisani presuppone ovviamente l’infinito fo±de±re anziché il pf. fo–de–re: soluzioni
entrambe metricamente possibili.
6 Touvtou" touv" gru`pa" ejn toi`" e[pesin jArivstea" oJ Prokonnhvsio" mavcesqai peri; tou` crusou`

fhsin A j rimaspoi`" <toi`"> uJpe;r Ij sshdovnwn: to;n de; crusovn, o}n fulavssousin oiJ gru`pe", ajnievnai th;n
gh`n. Il tentativo di Bolton 1962, 64 s., di vedere nell’espressione crusovn … ajnievnai th;n gh`n un fenomeno
meno miracoloso di quello presupposto dall’interpretazione su avanzata risulta infirmato dal confronto con il
passo di Posidonio che menziono poco avanti nel testo (e che Bolton ignora). Non capisco inoltre come si pos-
sa affermare (Bolton 1962, 65 e prima ancora Wernicke, RE II 1 [1895], 826) che Pausania citi di seconda ma-
no (Erodoto, secondo Wernicke): Pausania da una parte dice di citare Aristea; dall’altra aggiunge una precisa-
zione (appunto la terra che “fa spuntare” l’oro) assente in Erodoto (il cui scetticismo si giustificherebbe bene se
riferito proprio al fatto miracoloso indicato da Pausania-Aristea).
7 Testimonianza segnalata già nelle postille inedite di Vahlen alla sua seconda edizione enniana (ora in Lu-

nelli 1980, 208).


8 Posidonius 240a Kidd-Edelstein: Ta; te pavlai me;n R J ipai`a kalouvmena o[rh, ei\q∆ u{steron O
[ lbia pro-
sagoreuqevnta, nu`n de; A [ lpia (e[sti de; th`" Galativa") aujtomavtw" u{lh" ejmprhsqeivsh" ajrguvrw/ dierruvh.
Il contesto riassunto sopra del passo di Posidonio (cit. in Athen. VI 233 d-e) rende sicuro il riferimento di
aujtomavtw" a dierruvh e non (come intende la traduzione di Ateneo nella Loeb ripresa quasi alla lettera nel com-
mento a Posidonio a cura di Kidd, II, Cambridge 1988, 838: «whenever forest fire broke out spontaneously») a
u{lh" ejmprhsqeivsh".
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176 Le opere minori di Ennio

sein); per Lucano (cfr. 7, 755 s. quidquid fodit Hiber, quidquid Tagus expuit auri,
/ quod legit diues summis Arimaspus harenis) gli Arimaspi raccolgono (Lucano usa
il verbo legere) l’oro sulla superficie sabbiosa.
Quanto siamo venuti osservando finora deve fare i conti anche con il fatto che
fodere, nonostante il silenzio di Courtney al riguardo, è una congettura – che ri-
sale almeno a Turnebus – in luogo del tràdito federe9: non saprei se dietro le pro-
poste esegetiche e testuali diverse rispetto alla vulgata ci sia la volontà di evitare
agli Arimaspi una raccolta dell’oro troppo faticosa (come molto spesso, anche in
questo caso gli editori non hanno spiegato le proprie scelte): fatto sta che alcuni
studiosi non hanno accolto fodere (in favore di un’altra congettura, anch’essa frut-
to di un ritocco lieve ma che impone altri cambiamenti del testo)10: ed altri, pur
accogliendolo, ne hanno proposto un’interpretazione alternativa (ma questa ese-
gesi di fodere oltre che inverosimile linguisticamente, introduce un elemento di di-
stacco dalla tradizione mitografica sugli Arimaspi ben maggiore e meno giustifi-
cabile rispetto all’interpretazione comune di questo verbo)11. Se volessimo intro-
durre anche nel frammento enniano il motivo della facilità con cui gli Arimaspi si
procurano l’oro, si potrebbe, sulla scorta del passo di Lucano citato sopra, cor-
reggere federe in legere.
Il merito maggiore di tutte queste proposte, tuttavia, è quello di indicare in fo-
dere e nella sua interpretazione tradizionale la soluzione più plausibile dal punto
di vista della tradizione manoscritta. A questo punto si tratta di giustificarla dal
punto di vista della tradizione mitografica. Tre strade sono in teoria percorribili:
imputare fodere: 1) a un fraintendimento della fonte da parte di Ennio12; 2) a una

9 Che Turnebus proponga fodere come propria congettura (e come tale si è affermata a partire da Colon-

na 1585-86) lo si capisce dai commentarii (1566) dove egli dice di presupporre la lezione simus ripeis federe di
un «vetus liber» (negli adversaria [1564-65] Turnebus si limiterà a citare il testo già emendato). Che fodere sia ef-
fettivamente congettura è la conclusione che – ancora una volta – dobbiamo necessariamente trarre se si acco-
glie il presupposto indiscusso (cfr. sopra n. 2) che F (dove appunto compare federe) è l’archetipo della rimanen-
te tradizione manoscritta: tuttavia fodere si troverebbe, stando a Spengel 1826 [non uidi: la notizia viene ripro-
posta in Müller 1833 e Spengel 1885, non in Goetz-Schoell] anche in a (=Paris. lat. 7489, XV sec., collazionato
da Donndorf per conto di Spengel 1826: cfr. Müller 1833, p. XIII). Nelle prime edizioni a stampa federe (ed.
princeps, [Roma 1470]) alterna con foedere (ad es. [Venezia 1474-75]).
10 Cfr. G. G. Scaligero (1565, 176 = Varro 1573, 153) che, pur elogiando e recependo l’identificazione dei

coclites con gli Arimaspi proposta da Turnebus, continuava però a preferire a fodere la congettura dell’aldina se-
dere (inteso tuttavia come perfetto se–de–re, e non come l’infinito se±de–re quale bisogna presupporre nell’aldina, do-
ve si leggeva decem coclites quos [Aldus: quas cdd.] montibus summis ripis sedere): il frammento, ametrico, veni-
va così semplicemente a parlare di “dieci monocoli che [=ques Scaliger: quas cdd.] hanno sede sugli alti monti
Rifei”; ancora nel 1886 sulla scia di Scaligero si porrà Baehrens (fr. 491: decem coclites, qua [Baehrens: quas cdd.]
montibus summis Ripaeis sedere).
11 Così Kent – a cui tuttavia spetta probabilmente solo il ruolo di aver esplicitato un’esegesi anteriore a lui –

intende «fodere = infodere» e quindi con il significato non di “scavare”, ma di “sotterrare”. Questa interpreta-
zione del verbo sembra presupposta sia da Spengel 1885 [anche 1826?: non vidi], che in apparato considera og-
getto di fodere ‘fortasse’ vas (invece del tràdito quas) «scil. plenum auri Gryphibus erepti», sia, ancor prima, dal-
la chiosa di Müller 1833 «[gli Arimaspi] aurum Grypibus ereptum fodiebant»: in entrambi i casi il fodere sem-
bra riferirsi a una fase in cui gli Arimaspi, con il furto, sono già venuti in possesso dell’oro.
12 Così sembra supporre Bolton 1962, 73 che a proposito del nostro frammento parla di «inexactitude» sen-
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Saturae - Commento, fr. XVI (= Sat. 67-68 V.2) 177

consapevole variazione enniana della tradizione mitografica sugli Arimaspi13; 3) a


una variante mitografica presente nella tradizione anteriore a Ennio. L’ipotesi 1 in
sé non è impossibile14 né si può escludere l’ipotesi 215: ma tenuto conto della na-
tura congetturale di fodere la difesa migliore verrebbe dalla possibilità di dimo-
strare l’ipotesi 3.
Un tentativo in questo senso può essere fatto richiamando una testimonianza
dagli Indica di Ctesia di Cnido (V-IV sec. a.C.): è stato già notato (cfr. ad es. Bol-
ton 1962, 67) che nel descrivere il modo con cui gli Indiani si procurano l’oro Cte-
sia opera una commistione tra vari passi erodotei: le formiche indiane che custo-
discono l’oro in Hdt. 3, 102 sono identificate con i grifoni di 3, 116 (il passo visto
sopra in cui si parla anche degli Arimaspi): gli Indiani, dice Ctesia, organizzano
spedizioni nel territorio ricco d’oro custodito dai grifoni kai; a[ma" komivzousin
savkkou" te, kai; ojruvttousin (FrGrHist 688 F 45h Jacoby). Certo Ctesia non
menziona esplicitamente gli Arimaspi né colloca gli avvenimenti sui monti Rifei:
eppure la sovrapposizione tra le vicende degli Indiani e quelle degli Arimaspi ap-
pare compiuta in testimonianze più tarde16 per le quali A. Furtwängler (in W. H.
Roscher, Ausf. Lex. d. gr. u. röm. Myth., Leipzig, v. I 2 [1884], 1769) parla di una
ulteriore commistione – da far risalire «wahrscheinlich» a Varrone – tra la versio-
ne di Erodoto quella di Ctesia: non risulterà a questo punto, credo, infondata l’i-
potesi che già Ennio si rifacesse non direttamente a Erodoto, ma a questa tradi-
zione contaminata in cui trova appoggio la congettura fodere.

L’attribuzione alle saturae di questi due esametri incompleti (tràditi senza indi-
cazione d’opera) è unanimemente accolta da tutti gli editori a partire da Vahlen
185417 (che riprendeva un suggerimento di Th. Hug18) e viene convincentemente

za tuttavia chiarire ulteriormente questo giudizio. Non si occupa del passo enniano W. Tomaschek, Kritik der äl-
testen Nachrichten über den skythischen Norden, «Sitzungsb. d. Wiener Ak. d. Wiss.» 116-117, 1888-89: I 41 ss.
a cui rinvia Vahlen 1903 in app.
13 Questa tesi si ricava implicitamente dalla nota di Bolisani, cit. sopra, n. 5.
14 Il furto d’oro di cui parla Erodoto non è a rigore incompatibile con l’estrazione di cui ci parla Ennio: gli

Arimaspi potevano rubare l’oro scavandolo, e questo concetto Ennio poteva ritenere implicito nell’aJrpavzein di
Erodoto.
15 Ennio potrebbe aver voluto dare una versione più realistica riguardo all’oro degli Arimaspi: in questo

senso si potrebbe vedere un’accentuazione del processo di razionalizzazione del mito già presente in Erodoto.
16 Cfr. comm. Bern. ad Lucan. 7, 756 ARIMASPUS Scythiae populus. aput quos muvrmhkh" sunt quaedam ani-

malia formicis similia quae terras eradunt et repertum aurum egerunt; Plin. n. h. VII 10; Mela geogr. 2, 1,1 (si no-
ti che Turnebus su questa testimonianza di Mela, e non su Erodoto, proponeva la sua identificazione dei Cocli-
tes con gli Arimaspi). Già Megastene tra i popoli dell’India menziona anche (FrGrHist 715 F 27a Jacoby) i
Monofqavlmou".
17 Colonna 1585-86 li inseriva tra i frr. di sede incerta, ma che con molta verosimiglianza spettano agli An-

nales (al cui decimo libro li assegnava dubitosamente Merula 1595, DCXVIII, correggendo il decem all’inizio del
frammento).
18 «Saturis ascripsi cum Th. Hugio» scrive Vahlen 1854 in app. al nostro fr.; «Saturis adscr. Hugius» si leg-

ge nell’app. di Müller 1884 e Baehrens 1886. Hug avrà suggerito questa proposta a Vahlen oralmente (cfr. n. 3
al fr. Sat. XIV).
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178 Le opere minori di Ennio

giustificata da Courtney 199319 che, seguendo uno spunto di Warmington 1935,


vede nel frammento una critica contro l’ostentazione delle ricchezze: le massae
d’oro satireggiate sono così grandi che richiedono dieci Arimaspi per essere
estratte (Warmington, come si capisce dalla traduzione, riferiva invece decem a
massas): si tratta di un motivo che dovette diventare di attualità a Roma nel corso
del II sec. a.C. (Gell. 2, 24, 2 testimonia, ad es. limitazioni all’uso dell’argenteria
nei banchetti in un decreto del senato del 161 a.C.; viene anche in mente l’insi-
stenza con cui Petronio si sofferma a descrivere lo spreco di metalli preziosi da
parte di Trimalchione).

Coclites: con qualche incertezza, mi distacco dalla tendenza ormai invalsa nel-
le edizioni enniane e, con gli editori di Varrone, stampo Coclites con la maiuscola
intendendolo come nome proprio. Che, oltre a questo valore, in latino cocles aves-
se anche la funzione di aggettivo è documentato da Serv. ad Aen. 8, 649 (et modo
Cocles in hoc homine [scil. il famoso Orazio Coclite] … proprium est nomen, in
aliis appellatiuum, nam luscos “coclites” dixerunt antiqui: unde et Cyclopas “cocli-
tes” legimus dictos, quod unum oculum habuisse perhibentur). Servio anzi sembra
presupporre il passaggio dall’appellatiuum al nomen proprium: poiché cocles si-
gnificherebbe “monocolo” (così, come abbiamo visto, intendeva anche Varrone),
esso sarebbe applicato ai Ciclopi e diverrebbe cognomen del famoso Orazio. Que-
sto passaggio alla funzione di cognomen è certo in linea con l’origine di molti co-
gnomina romani che, com’è noto, spesso traevano origine dalla designazione di di-
fetti fisici (cfr. Strabo, Capito ecc.). In linea con il Thesaurus (che registra Cocles
nel supplemento dei nomina propria), io trovo tuttavia più plausibile uno svilup-
po del termine cocles inverso a quello presupposto da Servio: a questa conclusio-
ne mi induce non tanto la tesi (attribuita a L. Havet «MSL» 5, 1884, 283), oggi
generalmente accolta (cfr. W.-H.5 e E.-M.4 s. v.), secondo la quale Cocles sarebbe
da riconnettere proprio con Kuvklwy, arrivato in latino attraverso l’etrusco (sulla
fondatezza di questa etimologia non sono in grado di esprimere un giudizio); mi
sembra piuttosto che non sia stato messo in rilievo che contro la ricostruzione di
Servio osta l’unica altra attestazione di Cocles, oltre a quella del nostro passo en-
niano, in latino arcaico: in Plaut. Curc. 393 (anch’esso citato da Varrone) il paras-
sita monocolo viene salutato così: Unocule, salve. :: Quaeso, deridesne me? :: De
Coclitum prosapia te esse arbitror; n a m e i s u n t m o n o c o l i . Quest’aggiunta
chiarificatrice si spiega bene, mi pare, solo presupponendo che per Plauto e il suo
pubblico cocles non significasse di per sé “monocolo”, ma fosse appunto un no-
me proprio: l’evoluzione successiva del termine in latino è facilmente intuibile e
ben illustrata da O. Keller (Lateinische Volksetymologie und Verwandtes, Leipzig

19 Come osservano anche Del Vecchio - Fiore 1998, 70, è priva di fondamento l’ipotesi – prospettata da G.

C. Fiske, Lucilius and Horace. A study in the classical art of imitation, Madison 1920, 212 n. 81 e accolta da W.
Krenkel, Lucilius. Satiren, Leiden 1970, 16 – che il nostro frammento facesse parte di una favola.
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Saturae - Commento, fr. XVI (= Sat. 67-68 V.2) 179

1891, 273): «Dem Begriff nach kann der Name Cyclops sehr natürlich in das Ap-
pellativum “einäugig” übergehen: denn das Eine Auge in der Mitte der Stirn ist
eben das Hauptmerkmal der Cyclopen». Il passo di Plauto sembra proprio testi-
moniare l’inizio dell’uso antonomastico di Cocles.
Riconosciuto questo, si dirà che comunque in Ennio Coclites, riferito agli Ari-
maspi e non ai Ciclopi, sembra ormai utilizzato, per antonomasia, come aggettivo
e dunque apparirebbe giustificato l’uso della minuscola. Si osservi tuttavia che: 1)
per indicare i Ciclopi omerici in latino, almeno a partire da Ennio (ann. 319 Sk.),
si ricorre al grecismo Cyclops; 2) questa considerazione rafforza l’ipotesi che an-
che in Plauto de Coclitum prosapia indicasse – piuttosto che «l’illustre maison des
Cyclopes» (Havet cit. 283) – gli Arimaspi (Turnebus 1564)20. Questi elementi ap-
paiono indizi (non prove) che permettono di formulare l’ipotesi che in latino Co-
cles fosse entrato come nome proprio per indicare gli Arimaspi21, e come tale ve-
nisse impiegato anche da Ennio.

20 In questo passo plautino la chiosa nam ei sunt monocoli apparirebbe una spiegazione superflua se il ter-

mine indicasse una figura mitologica «illustre» come i Ciclopi (in ogni caso a ragione Turnebus escludeva che de
Coclitum prosapia si riferisse alla famiglia romana dei Cocliti: la comparazione con un paradigma mitico è un ele-
mento tipicamente plautino). Alle vicende degli Arimaspi Plauto sembra richiamarsi anche in Aul. 701 (Picis
diuitiis, qui aureos montes colunt, ego solus supero) se, con Nonio, identifichiamo i Pici con i Grifoni.
21 Questa ipotesi è compatibile con l’etimologia di Cocles da Kuvklwy attraverso l’etrusco: Strabone (1, 21)

connetteva i Ciclopi omerici con gli Arimaspi e questa identificazione poteva essere avvenuta già in Etruria
(dove – cfr. L. Vlad Borrelli, in Enciclopedia dell’arte antica, Roma: I [1958] 637 – gli Arimaspi «costituirono un
motivo frequente su ciste funerarie»).
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180 Le opere minori di Ennio

*Sat. XVII (= Sat. 69 V.2)

Questo frammento ci è conservato da Cicerone, che lo cita nel de natura deorum


(1, 97) indicandone l’autore (ut Ennius1), ma non l’opera di provenienza: si tratta
di un esametro in cui la scimmia (simia) viene presentata in luce negativa (turpis-
suma bestia); è molto probabile che qui l’aggettivo turpissuma debba essere inteso
sia in senso fisico che morale, e indichi dunque sia la bruttezza che la cattiveria del-
la scimmia: entrambe queste caratteristiche, infatti, sono assai spesso enfatizzate
nelle fonti antiche (documentazione in Pease I [1955: cit. a p. 32], ad loc.).
Nel nostro frammento viene inoltre sottolineata la grande somiglianza che vi è
tra la scimmia e l’uomo (simia quam similis ... nobis): anche questo è un motivo
assai diffuso (dalle numerosissime attestazioni registrate da Pease, cit, traggo Ga-
len. De anat. Admin. 1, 2 [II, 219 K.] oJ pivqhko" aJpavntwn tw`n zw/w v n oJmoiovta-
to" ajnqrwvpw/).
È difficile stabilire con sicurezza per quali ragioni la somiglianza tra la scimmia
e l’uomo fosse enfatizzata da Ennio nel nostro frammento: è possibile che, come
presume Puelma Piwonka 1949, 189, tale confronto facesse parte di una condan-
na, di sapore diatribico, del genere umano. In questo caso ben poco pertinente ri-
sulta il rinvio di Vahlen 1903 a un passo di Eraclito (B 82 D.-K.) testimoniato da
Platone (Hipp. Mai. 289A): piqhvkwn oJ kavllisto" aijscro;" ajnqrwvpwn [edd. ple-
rique: a[llw/ cdd.] gevnei sumbavllein («la più bella delle scimmie è laida a con-
frontarla col genere degli uomini» tr. Lami 1991): certo anche in questo passo si ri-
conosce la bruttezza della scimmia, ma questo dato serve a mettere l’accento, in
Eraclito-Platone, sulla differenza tra uomo e scimmia, in Ennio, qualora si accolga
l’interpretazione di Puelma Piwonka, sulla loro somiglianza: in Platone la figura
umana risulta nobilitata, in Ennio immeschinita. Più vicina alla proposta esegetica
di Puelma Piwonka sarebbe piuttosto un altro frammento di Eraclito citato da Pla-
tone subito dopo quello visto ora (Hipp. Mai. 289B = B 83 D.-K.) ajnqrwvpwn oJ
sofwvtato" pro;" qeo;n pivqhko" fanei`tai kai; sofivai kai; kavllei kai; toi`"
a[lloi" pa`sin («Degli esseri umani il più sapiente di fronte a dio apparirà una
scimmia sia per la sapienza sia per la bellezza sia per tutto il resto» tr. Lami 1991).
In alternativa alla ipotesi di Puelma Piwonka (accolta da Waszink 1972, 127 e
Del Vecchio - Fiore 1998, 71), si potrebbe anche pensare che il nostro frammen-
to trovasse posto all’interno di una favola di tipo esopico, dove la scimmia è uno
dei personaggi più diffusi fin da Archiloco (185-7 W.)2. Fra queste favole, il moti-
vo della somiglianza della scimmia con l’uomo è alla base di Aesop. 75 Hausrath
= 363 Halm dove una scimmia inganna un delfino che l’aveva scambiata per un
uomo.
Appare in ogni caso improbabile che, per il suo argomento, il nostro fram-

1 Per la citazione introdotta da ut Ennius senza uerbum dicendi cfr. ad es. Cic. nat. 2, 4.
2 Documentazione in W. C. McDermott, The ape in antiquity, Baltimore 1938, 112-115.
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Saturae - Commento, fr. XVII (= Sat. 69 V.2) 181

mento – che, come si è detto, è citato da Cicerone senza indicazione dell’opera di


provenienza – si trovasse all’interno degli Annales; poiché esso consiste in un esa-
metro, l’unica collocazione plausibile sono le saturae, dove il frammento è stato
collocato da tutti gli editori a partire da Vahlen 18543.
Una chiara ripresa del nostro frammento si ritrova in Ser. med. 819 s. [dalla se-
zione sulla cura dei morsi]: siue homo seu similis turpissima bestia nobis / uulnera
dedit, uirus simul intulit atrum; in questo caso sarebbe possibile ipotizzare – con
Vahlen 1903, LXXXVII – che Sereno dipenda direttamente da Cicerone; ma ri-
tengo più probabile che Sereno, come nel caso di un altro frammento sicuramen-
te non appartenente alle opere maggiori, e probabilmente proveniente dalle satu-
rae (cfr. sopra, comm. a Sat. fr. XIV = Sat. 64 V.2, p. 156 s.), abbia attinto diretta-
mente a Ennio. È invece sicuramente dipendente dal passo ciceroniano l’allusio-
ne al nostro frammento che si trova in Arnob. nat. 3, 16 nam quid in homine pul-
chrum est, quid quaeso admirabile uel decorum, nisi quod et clurino cum pecore ne-
scio quis auctor uoluit esse commune?: cfr. W. Kroll, Studia Arnobiana, «RhM» 72,
1918, 62-112: 654.

simia ... similis: se si considera la frequenza con cui nelle fonti antiche viene ri-
levata la somiglianza della scimmia con l’uomo, nonché il gusto spiccato di Ennio
per la riflessione etimologica (cfr. Bettini 1979, 35 ss.), non apparirà improbabile
che in simia … sîmilis vi sia non solo – come osserva Courtney 1993 – un gioco di
parole5, ma anche una allusione a una connessione paretimologica tra le due pa-
role (così B. Bonacelli, La scimmia in Etruria, «Studi Etruschi» 6, 1932, 341-382:
354 s. n. 1; Grilli [1965], 116): tale connessione è attestata esplicitamente da Isid.
orig. 12, 2, 30 (alii simias Latino sermone uocatos arbitrantur, eo quod multa in eis
similitudo rationis humanae sentitur; sed falsum est) e non può essere considerata
una invenzione di Isidoro, visto che quest’ultimo mostra di riprenderla da alii, e
solo per rifiutarla.

turpissuma: non è possibile sapere se alcuni editori preferiscono questa forma


a turpissima6 anche sulla base della tradizione manoscritta (per la quale non ven-

3 È difficile valutare se l’affermazione di Jocelyn 1972, 988 n. 16: «Cicero do not seem to quote or refer to

the satires» sia dovuta a una svista o a un implicito rifiuto dell’attribuzione vulgata. Certo è che Cicerone non ci-
ta mai le satire enniane esplicitamente. Contro l’attribuzione alle satire si esprime Knoche 1971, 20.
4 L’allusione è sfuggita a V. Ugenti, La fortuna di Ennio presso i padri della chiesa latini dell’età preconstati-

niana, in Ennio tra Rudiae e Roma. Atti del convegno nazionale A.I.C.C., Lecce, 12-13 novembre 1994. Galati-
na (Le), Congedo ed. (Università degli studi di Lecce, Dipartimento di filologia classica e medievale. Rudiae. Ri-
cerche sul mondo classico, 6), 1994, 97-121.
5 Cfr. Ovid. fr. 4 Courtney = 6 Lenz Fûria ... fûria; Apul. fr. 7, 14 Courtney fê mina ... fê minae; Claud. In

Eutrop. 1, 303 humani qualis simulator simius oris


6 L’introduzione di turpissuma viene attribuita da Bolisani a Vahlen, il quale tuttavia nella sua seconda edi-

zione probabilmente la riprendeva dagli editori di Cicerone comparsi dopo la sua prima edizione enniana del
1854 (cfr. Bayter [-Kayser]1864; C. F. W. Müller, 1890; e si trova ancora in Plasberg -Ax 1933 e Gerlach - Bayer
1978: nella prima edizione del 1854 Vahlen stampava ancora turpissima).
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182 Le opere minori di Ennio

gono date indicazioni a proposito). Certo turpissuma mantiene il vocalismo più ar-
caico in u del suffisso del superlativo (Leumann 1977, 88) e non può essere re-
spinto sulla base delle osservazioni di Bolisani 1935 il quale si richiama del tutto
a sproposito a «Brock» (che sarà A. Brock, Quaestionum grammaticarum capita
duo, Iurievi [Dorpati] 1897: alle pp. 9-74 il capitolo De superlativorum formis) per
sostenere che la terminazione -umus, non ricorrerebbe mai neppure in età arcaica
quando la vocale della sillaba precedente era una i. Bisogna riconoscere che Brock
avanzava questa presunta legge in conclusione (p. 74) di una analisi complessiva
di tutte le attestazioni, nelle epigrafi e nella tradizione manoscritta, delle varie for-
me di superlativo a partire da quelli con il suffiso base -mo fino a quelli composti
con l’aggiunta di altri suffissi (cfr. Leumann 1977, 497-99); e quando indica che la
sua teoria si applica, ad esempio, a minimus, Brock pare attribuirle una portata
ben più generale di quanto essa abbia («si in syllaba, quae praecedat, ‘o’ (nec non
‘u’) contineatur, ad ‘u’ litteram vocem in suffixo ‘i/umus’ delabi, velut in ‘optu-
mus’, ‘proxumus’ (‘ultumus’, ‘plurumus’), sin autem ‘i’ vocalis antecedat, litteram
inter ‘u’ et ‘i’ mediam propensam esse ad ‘i’ ut puta ‘minimus’»). In realtà mini-
mus è l’unico superlativo per cui Brock formula la sua spiegazione7, che non può
certo riguardare quei superlativi, come il nostro, con suffisso in -issimus: in que-
sto caso, infatti, una norma per cui una i che precede determinerebbe l’assimila-
zione in i anche del suono intermedio del suffisso, avrebbe la conseguenza che la
u dovrebbe essere esclusa per tutti i superlativi in -issimus, il che è ampiamente
smentito dalla documentazione raccolta da Brock stesso, che a p. 42 segnala nel
codice A di Plauto 33 casi di superlativi in -issimus contro 18 in -issumus. È ov-
viamente difficile quanti di questi casi siano conservazione della grafia originaria
e quanti siano innovazione di copista; per le epigrafi di età repubblicana Brock
(16) segnala tuttavia che «semper […] superlativi littera ‘u’ scripti sunt»: cfr. pa-
risuma nell’epigramma sepolcrale di Scipione Barbato [CIL I 30]). Per queste ra-
gioni accolgo turpissuma nel testo di Ennio.

7 Su cui si mostrava dubbioso Sommer 1914, 106 n. 1; e si noti che anche su questo superlativo la presun-

ta unanimità con cui è attestato minimus è smentita adesso dalla documentazione fornita da Kuhlmann in Th.
l. L. s. v. paruus, X 1 [1988], 554, 38 ss. e 582, 65 ss.
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Saturae - Commento, fr. XVIII (= Sat. 70 V.2) 183

*Sat. XVIII ( = Sat. 70 V.2)

Secondo Warmington 1935, Ennio utilizzerebbe in questo frammento l’espres-


sione proverbiale nodum in scirpo1 quaerere2 cioè ‘cercare un nodo in un giunco
(in cui non si trovano nodi)’ in riferimento a critici malevoli: la ricerca di qualco-
sa che non esiste indicherebbe la creazione ad arte di un pretesto inconsistente per
avanzare delle critiche (e in questo uso il proverbio corrisponde, come già osser-
vava Colonna 1585-86, all’italiano ‘cercare il pelo nell’uovo’). Quello presupposto
da Warmington è tuttavia, come riconosce Kühne3, un ambito di applicazione del
proverbio attestato solo in epoca di molto successiva a Ennio: si trova ad es. in S.
Girolamo (c. Ioh. 3 [PL 23 {1845}, 357 B): qui inimicus est, etiam in scirpo nodum
quaerit: amicus quoque praua recta iudicat. È vero che, come osserva Kühne, anche
nella fonte Isidoro si ritrovano le parole qui inimicus est, etiam in scirpo nodum
quaerit, ma queste sono citate come un proverbio distinto da quello enniano. Nel-
le numerose attestazioni cronologicamente più vicine a Ennio, invece, il proverbio
assume valori assai diversi da quello presupposto da S. Girolamo: in Ter. Andr.
941 indica il creare complicazioni là dove non ce ne sono4 (e questo sarebbe il va-
lore originario del proverbio secondo Festo)5. Ma accanto a questo significato
(l’unico tenuto presente dall’OLD s. v. scirpus e Traglia 1986, 373 n. 23) il prover-
bio risulta impiegato per indicare, più genericamente, la vana ricerca di qualcosa
che non c’è (così in Pl. Men. 247 designa la ricerca, ritenuta priva di speranze, del

1 È appunto a illustrazione di scirpus che il nostro frammento viene citato sia da Festo che da Isidoro.

Nel codice F di Festo, in luogo di scirpus del lemma, si trova scriptum (con l’espunzione delle tre ultime let-
tere tum segnalata a partire dalla collazione del codice a cura di H. Keil, «RhM» 6, 1848, 618-626: 625); la
correzione in scirpus è attribuita da Müller 1839 a Ursini 1581 e retrodatata da Lindsay 1913 a Augustinus
1559-60; adesso Moscadi segnala che essa si trova già in F, dove è stata aggiunta da una mano forse più re-
cente. L. Müller 1884, 66, nel riportare il passo di Festo tra i ‘Testimonia’, vi introduce senza segnalarlo, e
quindi solo per una svista, momenti in luogo di impedimenti. Nel riportare la testimonianza di Isidoro mi so-
no attenuto, ma con alcune perplessità che qui non discuto, al testo fissato nell’edizione di Lindsay (sull’in-
versione quod soliti cfr. sotto).
2 Le varie attestazioni di questo detto sono raccolte in Otto 1890 = 1962, 313, nr. 1607 [non 1067] e C.

Weyman, ALL 13, 1904, 398 = Nachträge 287.


3 U. Kühne, Nodus in scirpo – Enodatio quaestionis. Eine Denkfigur bei Johannes von Salisbury und Ala-

nus von Lille, «A&A» 44, 1998, 163-176: 163.


4 La dipendenza diretta di S. Girolamo da Terenzio è sostenuta da E. Luebeck, Hieronymus quos noverit

scriptores, Lipsiae 1872, 112 e n. 1, che non mette in rilievo tuttavia lo slittamento di significato che il proverbio
avrebbe subìto nel passaggio da un autore all’altro.
5 Prouerbium est in eas natum res quae nullius impedimenti sunt: in scirpo nodum quaerere: per la precisio-

ne, in Festo si evidenzia non il significato del proverbio, ma a quali casi esso si applica (quelli nullius impedi-
menti, privi di complicazioni, come senza nodi è lo scirpum, termine su cui, come si è detto, è incentrata la glos-
sa del grammatico, che infatti cita anche frammenti dove non compare il proverbio ma solo derivati del sostan-
tivo): a questi casi appunto si applicava originariamente il proverbio (proverbium […] in eas res natum etc. ). Si
noti la stridente contraddizione tra questo passo di Festo e la testimonianza di Gell. 12, 6, 1, per il quale quidam
ex nostris ueteribus usavano scirpus con il valore di ‘enigma’. Ma questo significato è del tutto isolato e comun-
que inammissibile sia nel contesto enniano che negli altri passi sopra segnalati nel testo (Lidia Winniczuk,
Griphus, scirpus, aenigma (Gell. XII 6), «Mélanges Fohalle», Gembloux 1969, 191 s. propone di correggere scir-
pos di Gellio in griphos).
005_saturae introduzione65 9-01-2008 12:24 Pagina 184

184 Le opere minori di Ennio

fratello gemello di Menecmo)6.


Ovviamente il fatto che l’uso del proverbio supposto da Warmington sia atte-
stato con sicurezza solamente in epoca tarda non permette di escludere che esso
potesse essere diffuso anche all’epoca di Ennio e che convivesse con gli altri im-
pieghi sopra menzionati. Ma, in mancanza di altri dati, ovviamente è a questi ul-
timi che bisogna pensare anche per il nostro frammento.

L’attribuzione del frammento, tràdito senza indicazione d’opera, è molto incer-


ta e si è oscillato a lungo, trattandosi di un esametro, tra l’assegnazione agli Anna-
les7 e quella alle Satire: l’unico a indicare una ragione plausibile per questa attribu-
zione è Courtney8, che osserva che un proverbio come questo si adatta bene alle
Satire enniane, dove è molto probabile che si trovassero altri proverbi (cfr. Sat. II)9.

soliti quod: questo è l’ordine delle parole tramandato da Festo. A me pare si-
curo che l’antecedente di quod sia non nodum, come intende Bolisani 1935 (di cui
cfr. la trad. a p. 54: «cercano nel giunco quello che son soliti chiamare un nodo»),
ma tutta la frase (trattata come un concetto unico) quaerunt in scirpo … nodum, e
che l’inciso soliti quod dicere vuole appunto presentare come proverbiale (Traglia
1986: «come si suole comunemente dire, cercano il nodo nel giunco»): cfr. Ter.
Heaut. 520 s.: uisa uero est, quod dici solet, aquilae senectus, dove ovviamente quod
non può riferirsi al femminile senectus, e quod dici solet indica appunto il caratte-
re proverbiale dell’espressione ‘la vecchiaia dell’aquila’. Courtney 1993 afferma di
riprendere da Vahlen 1903 la citazione di Cic. Arat. fr. 5 stellas … quas nostri sep-
tem soliti uocitare triones e 5-6 Deltoton dicere Grai / quod soliti: in realtà que-
st’ultimo esempio non è citato da Vahlen, dove si rinvia invece, oltre che a Cic.
Arat. fr. 5, anche a Ann. 221 V.2 Poeni suos soliti dis sacrificare puellos (il corri-
spondente 214 Sk. ha un testo leggermente diverso), anche a Verg. Aen. 1, 729

6 Risulta quindi insoddisfacente anche l’evoluzione del proverbio prospettata da Otto 1890, 313 secondo

il quale «in den späteren Autoren ist […] der Begriff ‘Schwierigkeiten’ zurückgetreten gegen den von Fehlern
und Schwächen». In realtà per questa evoluzione presuppone un’interpretazione del passo plautino (parafrasa-
to da Otto con «du suchst Schwierigkeit, wo keine sind») indebitamente schiacciata sulla interpretazione di Fe-
sto. Estremamente incerto è il valore che il proverbio aveva in Lucilio 36 M. Tutti gli impieghi attestati del pro-
verbio erano già segnalati e accuratamente distinti nel commento di Colonna 1585-86.
7 Così Colonna 1585-86, 227 = 1707, 13 che lo pone fra i frammenti «ex incertis libris» probabilmente da-

gli Annales; secondo l’editore di Festo Müller 1839, questo frammento sarebbe stato collocato in «Ann. XVIII,
17» da Merula 1595: sarebbero state interessanti le ragioni che avrebbero potuto portare il Merula a una collo-
cazione così precisa, tuttavia in questa edizione il frammento è assegnato sì agli Annali, ma, come in Colonna, a
libro incerto.
8 Argomentazione grosso modo analoga in Bolisani 1935, che per l’attribuzione alle satire ricordava la pre-

senza (per la verità incerta, come si è detto) del proverbio nelle satire di Lucilio. Il frammento è stato assegnato
per la prima volta alle satire da Vahlen 1854 che giudicava il frammento inadatto alla sublimità degli Annali
(p. LXXXIX). Ma agli annali continuano ad attribuirlo Müller 1884, Baehrens 1886 (fr. 347) e Valmaggi 1900
(fr. 332).
9 I proverbi sono assai frequenti anche nei Giambi di Callimaco: cfr. l’indice di A. Kerkhecker, Callinachus’

book of lambi, Oxford 1999, s. v. ‘proverbs’.


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Saturae - Commento, fr. XVIII (= Sat. 70 V.2) 185

impleuitque mero pateram quam Belus et omnes a Belo soliti («et saepe similiter»,
aggiunge Vahlen). Questa divergenza rende ancor più confuse le ragioni per cui
questi passi vengono addotti, e che in effetti già in Vahlen non erano esplicitate
chiaramente. Sia Courtney che Vahlen affermano di riportare i passi a proposito
di soliti, ma in questa espressione – che si presta in effetti a molteplici osservazio-
ni – Vahlen a me pare evidenziare l’ellissi di sunt10. I passi citati da Courtney mi-
rano invece a fornire paralleli, oltre che formali, anche concettuali, perché qui so-
liti ricorre in una proposizione relativa e determina un infinito di un verbum di-
cendi (il che non si trova nei passi di Vahlen omessi da Courtney). È possibile che
questi passi servano a esemplificare anche l’uso di solitus sum con valore di per-
fetto presente11, che tuttavia Courtney sembra trattare come una questione a par-
te rinviando alla nota di Skutsch 1985, 243, a Ann. 96 Sk. (= 105 V.2: Nam ui de-
pugnare sues stolidi soliti [Scaliger: solidi cdd.] sunt) nel cui ricco elenco di testi-
monianze per altro mancano proprio i passi tratti dai brani poetici di Cicerone.

10 Come esempi di questa ellissi i paralleli di Vahlen vengono citati da Bolisani 1935, 62. Sull’ellissi di esse

in forme verbali composte con il participio perfetto vedi in generale HSz 422 s.
11 Che i passi di Vahlen non volessero rilevare questo valore di soliti è dimostrato dal fatto che egli, in no-

ta a Sat. 70, rinvia solo a Ann. 221 (dove c’è l’ellisse), ma non a Ann. 105 dove l’ellisse non c’è, ma soliti ha va-
lore di perfetto presente esplicitamente rilevato da Vahlen in nota a quest’ultimo («soliti sunt h. e. eijwvqasi») con
rinvio al nostro frammento (Sat. 70 V.2: 76 è un refuso) e a Ann. 221.
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III. Scipio
Testimonianze e frammenti

A. TESTIMONIANZE

Test. I
GELL. 4, 7, 1-5: Valerius Probus grammaticus [..] Ennii uersum unum ponit ex
libro, qui Scipio inscribitur

Test. II
(dubbia)
SUID. s. v. E
[ nnio", E 1348, v. II p. 285 Adler: E[ nnio", R J wmai`o" poihthv": o}n
Aijliano;" ejpainei`n a[xiovn fhsi. Skipivwna ga;r a[d/; wn kai; ejpi; mevga to;n a[ndra
ejxa`rai boulovmenov" fhsi movnon a]n O { mhron ejpaxivou" ejpaivnou" eijpei`n Ski-
pivwno"/. dh`lon de; wJ" ejteqhvpei tou` poihtou` th;n megalovnoian kai; tw`n mev-
trwn to; megalei`on kai; ajxiavgaston: kai; wJ" ejpainevsai deino;" O { mhrov"
ejsti kai; klevo" ajndro;" purgw`saiv te kai; a\rai, ejx w|n ejphvn/ ese to;n ∆Acil-
leva, kalw`" hjpivstato oJ poihth;" oJ Messavpio".

B. FRAMMENTI

*fr. I (= Var. 1-2 V.2 = Op. inc. IV Sk.)


tr8 quantam statuam faciet populus Romanus, quantam columnam,
tr8 (o tr7) quae res tuas gestas loquatur?

HIST. AUG. [Treb.] Claud. (=25), 7, 6-8: Hos igitur Claudius ingenita illa uirtute supe-
rauit, hos breui tempore adtriuit, de his uix aliquos ad patrium solum redire permisit. Rogo,
quantum pretium est clypeus in curia tantae uictoriae, quantum una aurea statua? Dicit En-
nius de Scipione: ‘quantam ~ loquatur?’; possumus dicere Flauium Claudium, unicum in ter-
ris principem, non columnis non statuis sed famae uiribus adiuuari.

Per la costituzione del verso cfr. Mariotti 1951, 49 s. ( = 1991, 37) e Mariotti
1998b, 206 s.
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188 Le opere minori di Ennio

fr. II (= Var. 13 V.2)


tr7 <—> qua propter Hannibalis copias considerat

GELL. 4, 7, 1-5: [1] Valerius Probus grammaticus inter suam aetatem praestanti scientia
fuit. [2] Is ‘Hannibalem’ et ‘Hasdrubalem’ et ‘Hamilcarem’ ita pronuntiabat, ut paenulti-
mam circumflecteret, et est epistula eius scripta ad Marcellum, in qua Plautum et Ennium
multosque alios ueteres eo modo pronuntiasse affirmat, [3] solius tamen Ennii uersum unum
ponit ex libro, qui Scipio inscribitur. [4] Eum uersum quadrato numero factum subiecimus,
in quo, nisi tertia syllaba de Hannibalis nomine circumflexe promatur, numerus clausurus
est. [5] Versus Ennii, quem dixit, ita est: ‘qua ~ considerat’.

fr. III (= Var. 9-12 V.2)


tr7 <— !> mundus caeli uastus constitit silentio
et Neptunus saeuos undis asperis pausam dedit.
Sol equis iter repressit ungulis uolantibus,
constitere amnes perennes, arbores uento uacant.

MACR. Sat. 6, 2, 26 (cfr. 6, 2, 1: nunc locos locis componere sedet animo, ut unde forma-
ti sint quasi de speculo cognoscas): [Verg. Aen. 10,100-103]
‘Tum pater omnipotens, rerum cui summa potestas,
infit: eo dicente deum domus alta silescit
et tremefacta solo tellus, silet arduus aether.
Tum uenti posuere, premit placida aequora pontus’.
Ennius in Scipione:
‘mundus ~ uacant’.

1 <infit> Timpanaro 1996, 46 ( = 2005, 184) n. 75 || 4 constitere vulg.: consi-


stere cdd. || uacant vulg. (e Fruitiers [†1566] ap. Meyer 1878, 245): uagant cdd.
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Scipio - Testimonianze e frammenti 189

fr. IV (= Var. 14 V.2)


hex sparsis hastis longis campus splendet et horret

MACR. Sat. 6, 4, 6 (cfr. 6, 4, 1: ego conabor ostendere hunc [scil. Vergilium] studiosissi-
mum uatem et de singulis uerbis ueterum aptissime iudicasse et inseruisse electa operi suo
uerba quae nobis noua uideri facit incuria uetustatis): ‘tum ferreus hastis horret ager’ [Verg.
Aen. 11, 601 s.: tum late ferreus hastis / horret ager campique armis sublimibus ardent]:
‘horret’ mire se habet. Sed et Ennius in quarto decimo [ann. 384 Sk.] ‘horrescit telis exerci-
tus asper utrimque’ et in Erechteo [sc. 140 V.2 = tr. 143 Joc.] ‘arma arrigunt, horrescunt
tela’ et in Scipione ‘sparsis ~ horret’. Sed ante omnes Homerus [Il. 13, 339]: e[frixen de;
mavch fqisivmbroto" ejnceivhs / in.
Cfr. inoltre SERV. ad Aen. 11, 601: HORRET AGER: terribilis est: est autem versus Ennia-
nus vituperatus a Lucilio dicente per inrisionem debuisse eum dicere [Lucil. 1190 Marx]
‘horret et alget’: unde Horatius de Lucilio [Sat. 1, 10, 54] ‘non ridet uersus Enni gravitate
minores?’

ALTRE PROPOSTE CONGETTURALI

fr. I faciet: statuet Lachmann (in comm. a Lucr. 3,1034) seguito da Skutsch 1985, 753;
II: 1 <longe> dub. in app. Baehrens 1886, <atque> Giles 1834; III <—> qua: quaque
Hertz 1853, < si > qua Bücheler 1865, 436: qui edd. vett. (da cui et qui o quique Voss 1651,
10), <ast> qua dub. Cavarzere per letteras; IV longis: longe is dub. in app. Vahlen 1903 ||
splendet [et] horret (tr7) Neukirch 1833, 64, splendet [et] horret<que et gemit> (tr7) Ritter
1840, 391, sparsis ... campus / spl. et horret (an4) Havet 1890, 48.
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190 Le opere minori di Ennio

Scipio
Bibliografia

Edizioni e commenti
Le edizioni e i commenti al Sota coincidono con quelli già indicati per le Satu-
rae alla cui bibliografia quindi si rimanda.

Studi generali
Oltre alla bibliografia sulle opere minori in generale citata sopra, si veda anche:

• L. Lersch, De Ennii Scipione, «RhM» 5, 1837, 416-421.


• F. Ritter, Über den Scipio des Q. Ennius, «Zeitschrift für die Altertumswissenschaft» 7,
1840, 388-395.
• Th. Roeper, De Q. Ennii Scipione, Grat.-Schr. d. Gymn. zum 50jähr. Jubil. v. J. Chr.
Herbst, Gedani, Typis Edwini Groeningii 18681.
• C. Pascal, Lo Scipio di Ennio, «Athenaeum» 3, 1915, 369-395 (= C. Pascal, Scritti varii
di letteratura latina, Torino-Milano ecc. 1920, 3-26).
• U. W. Scholz, Der ‘Scipio’ des Ennius, «Hermes» 112, 1984, 183-199.

Contributi specifici su singoli frammenti

fr. IV
• L.A. Mackay, In defence of Ennius, «CR» n. s. 13, 1963, 264-5.
• Mariotti, Horret et alget, in Lanx Satura Nicolao Terzaghi oblata, Genova 1963, 249-
260 = I. M., Scritti scelti, Bologna 2006,
• H. D. Jocelyn, Ennius, Varia 14 V2, «CR» 15, 1965, 146-149.

1 La data «1868» si trova nella mia copia dell’opuscolo di Roeper; nei cataloghi di alcune biblioteche esso

viene registrato con la data 1869 (così anche Ribbeck 1873, CXVI).
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Frammenti attribuiti allo Scipio da editori e altri studiosi 191

I frammenti attribuiti allo Scipio da editori e altri studiosi


NB: i frammenti vengono indicati secondo l’edizione di Vahlen 1903. Per i frammenti
assenti in Vahlen si indicano gli estremi della fonte
* = frammenti attribuiti dalle fonti a Ennio, ma senza indicazione d’opera
** = frammenti citati dalle fonti senza indicazione né dell’autore né dell’opera
† = frammenti attribuiti dalle fonti a Ennio ma a un’opera con titolo diverso da Scipio

Editori Stepha nu s Colonna Vahlen Müller Baehrens Vahlen Bolisani Warmington Traglia Courtney Edizione
Frammenti 1564 1585/86 1854 1884 1886 1903 1935 1935 1986 1993 presente
* Var. I Test. VIII II II I III I I I
* Var. 1-2 VI VII XI XVII II XIV VII VII II I
* Var. 3 III XVI III XIII V VI
* Var. 4-5 IX IV XV VI V
** Var. 6 IV 1 X1 XI V “a” IX “ a” VIII “a” VIII
** Var. 7 IV 2 X2 VIII “a” XIII V “b” IX “ b” VIII “b” XI
** Var. 8 X3 VIII “b” XII V “c” VIII VIII “c” X
Var. 9-12 I I IV III VIII VI I II II III III
Var. 13 III II II IV VI VII V III III IV II
Var. 14 II V V V V VIII VII IV IV V IV

Sat. 6-7 I I I II

Sat. 64 II

Sat. 8-9 III X XV X
* Ann. 310 III VI
** Cic. de IV
orat. 3,167
* Sc. 382 VII
* Sc. 411 IX
* Sc . 174 X

Sat. 63 IX XIV XII
* Sat. 65 VI IV
* Sc. 423 XI
* Var. 21-24 XVI
* Sc. 12*
* Ann. 567 1
(579 Sk.)

*Su questo frammento cfr. sotto, introduzione allo Scipio, p. 194 n. 22 e p.


1Mariotti 1951, 102 (=1991, 66) ha proposto l’attribuzione di questo frammento allo Scipio come ipotesi
che si proponeva di approfondire altrove (ma non risulta che Mariotti sia mai ritornato sull’argomento). Sulla
scorta di Mariotti, l’attribuzione allo Scipio è stata riproposta da Suerbaum 1968, 247 s., ma ritenuta improba-
bile da Skutsch 1985, 719 sulla base della considerazione che la fonte di questo frammento difficilmente avreb-
be potuto citare dalle opere minori di Ennio.
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SCIPIO

Introduzione

L’esistenza di un’opera enniana intitolata Scipio è attestata esplicitamente da tre


testimonianze, la più antica delle quali risale ad Aulo Gellio, che a sua volta mo-
stra di dipendere dalla citazione di un verso dello Scipio contenuta in un’opera del
grammatico del I sec. d.C. Valerio Probo (Gell. 4, 7, 2 ss.: Valerius Probus [...] En-
nii uersum unum ponit ex libro qui Scipio inscribitur); le altre due attestazioni si
devono entrambe ai Saturnalia di Macrobio (Sat. 6, 2, 26: Ennius in Scipione; 6,
4, 6 ss.: Ennius [...] in Scipione). Le tre testimonianze antiche ora citate ci tra-
mandano anche gli unici, scarsi frammenti di sicura attribuzione dello Scipio: si
tratta di tre frammenti, due dei quali costituiti da un solo verso, il terzo da 4, per
un totale di 6 versi. Come risulta dalla tabella di p. 185, tuttavia, nelle edizioni il
numero dei frammenti assegnati allo Scipio è stato, per le ragioni che vedremo più
avanti, molto variabile, e comunque di gran lunga maggiore (si è infatti arrivati ad
assegnare allo Scipio 17 frammenti, per un totale di circa 26 versi).
Lo Scipio a cui è intitolata l’opera enniana deve essere identificato con Publio
Cornelio Scipione (circa 235-183 a.C.1), vincitore di Annibale nella seconda guer-
ra punica e soprannominato Africano a partire dall’anno 201 a.C.2 (si avverta che
a lui ci riferiremo d’ora in poi senz’altro con i nomi ‘Scipione’ o ‘Africano’). Tra i
pochi frammenti di sicura attribuzione, solo Scip. II, dove si parla di qualcuno che
si accampa presso le truppe di Annibale, offre un indizio per questa identifica-
zione: nessuna indicazione al riguardo forniscono invece gli altri due frammenti
(Scip. III è una bellissima descrizione del silenzio che accompagna il sovrannatu-
rale arrestarsi dell’universo; in Scip. IV si descrive un campo dopo una non me-
glio precisata battaglia). Ma che il titolo Scipio si riferisse all’Africano appare già
a priori l’ipotesi più ovvia: tra gli Scipioni dell’epoca di Ennio o a lui precedenti,
nessun altro come l’Africano, autore di imprese divenute da subito leggendarie e
che segnarono effettivamente una svolta epocale, si prestava meglio ad assumere,
all’interno di un’opera letteraria, quel ruolo di protagonista assoluto che doveva
sicuramente avere lo Scipione di cui si parlava nello Scipio enniano3. Inoltre nu-

1 Quelle indicate sono le date di nascita e di morte ritenute più probabili: al riguardo vi sono alcune lievi

divergenze tra le fonti: cfr. Henze RE IV 3 (1900), col. 1463, 44 (sulla data di nascita) e 1470, 46ss. (sulla data
di morte).
2 Polyb. 16, 23 e Liv. 30, 45. In epoca successiva a Ennio venne indicato anche come Publio Cornelio Sci-

pione Africano maior (cfr. ad es. Cic. har. 24) o superior (cfr. ad es. Cic. Arch. 22) per distinguerlo da Lucio Emi-
lio Paolo che, in quanto nipote adottivo di Scipione, assunse il nome Publio Cornelio Scipione Emiliano e che,
dopo aver distrutto Cartagine nel 146 a.C., ebbe anche egli il soprannome di Africano.
3 A tale ruolo non si prestava certo quel Publio Cornelio Scipione Nasica, console nell’anno 191 a.C., che

pure – come ci attesta un celebre e gustoso aneddoto narrato da Cicerone nel de oratore (2, 275) – ebbe rapporti
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194 Le opere minori di Ennio

merose testimonianze ci dicono che Ennio, nelle sue opere, celebrò le imprese del-
l’Africano4. Questo risulta con sufficiente sicurezza da un passo di Orazio (carm.
4, 8, 13-20) in cui si è vista una allusione a un frammento enniano probabilmente
proveniente dallo Scipio (fr. I: cfr. comm. ad loc.), e dove l’elogio di Scipione fat-
to dalle Calabrae Pierides, cioè da Ennio, viene portato ad esempio per dimostra-
re come la celebrazione letteraria sia superiore a qualsiasi altra forma di ricono-
scimento, anche quella compiuta attraverso i monumenti e le iscrizioni. Valerio
Massimo, a sua volta, presenta la collocazione della statua di Ennio nel sepolcro
degli Scipioni proprio come il riconoscimento dei meriti che il poeta si conquistò
celebrando Scipione (cfr. Val. Max. 8, 14, 1: Superior Africanus Enni poetae effi-
giem in monumentis Corneliae gentis conlocari uoluit, quod ingenio eius opera sua
inlustrata iudicaret)5. E infatti ci sono giunti dei frammenti enniani in cui si parla
sicuramente di Scipione con grande lode (Var. 19-20 V.2 = 43 Courtney6 e in Var.
21-24 V.2 = 44 Courtney7).
Una celebrazione di personaggi della storia recente quale abbiamo dunque nel-
lo Scipio era presente anche in molta letteratura ellenistica coeva: qui tuttavia si ar-
rivava spesso a una divinizzazione del personaggio celebrato, che sembra invece
fosse assente nella poesia di Ennio in generale, e nello Scipio in particolare8.

di grande familiarità con Ennio (è stato spesso ipotizzato, con buona verosimiglianza, che Cicerone traesse tale
aneddoto dalla narrazione fattane dallo stesso Ennio in una sua opera, probabilmente le Saturae: certo tale aned-
doto, dato il suo carattere scherzoso, non poteva essere narrato nello Scipio, il cui contenuto, per quanto possia-
mo vedere dai frammenti di attribuzione sicura, era di argomento solenne). L’episodio su Nasica narrato da Ci-
cerone, ad ogni modo, è una interessante testimonianza sugli stretti rapporti che Ennio ebbe, più in generale,
con la famiglia degli Scipioni. Di converso, attorno alla figura di Scipione nacque ben presto un alone di leg-
genda: cfr. E. Gabba, P. Cornelio Scipione l’Africano e la leggenda, «Athenaeum» 63, 1975, 3 ss.
4 Da una testimonianza di Cicerone (Arch. 22: Carus fuit Africano superiori noster Ennius) risulterebbe che

tra Ennio e Scipione vi fossero anche affettuosi rapporti personali.


5 Per quanto riguarda la collocazione della statua di Ennio nel sepolcro degli Scipioni, le fonti più antiche

presentano la notizia come un on dit (Cic. Arch. 22: in sepulcro Scipionum putatur is esse constitutus ex marmo-
re; Liv. 38, 56, 4 Romae extra portam Capenam in Scipionum monumento tres statuae sunt, quarum duae P. et L.
Scipionum dicuntur esse, tertia poetae Q. Enni.); altre testimonianze al riguardo, con alcune divergenze nei par-
ticolari, in Plin. nat. 7, 114; Sol. 1, 122; Schol. Bob. ad Cic. Arch. 22; Hieron. chron. ol. 135, 1. Una discussione
delle fonti in F. Coarelli, Il sepolcro degli Scipioni, «DArch» 6, 1972, I, 11-106: 36-106 (poi in F. C., Revixit ars.
Arte e ideologia a Roma. Dai modelli ellenistici alla tradizione repubblicana, Roma 1996, 179-238) e, con ulterio-
ri precisazioni, in Skutsch 1985, 2 n. 7 che, con buone argomentazioni, ritiene la notizia «not improbable». Ve-
ra o meno che fosse, la notizia è comunque interessante perché la sua origine si può spiegare solo presupponen-
do che il legame tra Ennio e gli Scipioni, e in particolare l’Africano (come dimostra soprattutto la testimonian-
za di Valerio Massimo), fosse un fatto conclamato.
6 In questi versi Scipione non viene menzionato, ma che a lui sia dedicato l’epigramma è sicuro sulla base

delle parole con cui esso viene citato in parte da Cicerone (leg. 2, 57: Ennius de Africano) e in parte da Seneca
(ep. 108, 32: Ennianos ... uersus ... de Africano scriptos; qui la correzione Ennianos per inanes dei cdd. è sicura
anche sulla base del passo di Cicerone menzionato immediatamente prima nel testo e viene accolta da tutti gli
editori).
7 Qui il riferimento di Ennio a Scipione si ricava dalla combinazione delle testimonianze di Cic. Tusc. 5, 49

(che introduce i versi come parole pronunciate dall’Africanus), e di Sen. ep. 108, 34 e Lactant. inst. diu. 1, 18, 11
(che ne attribuiscono esplicitamente la paternità a Ennio).
8 Cfr. C. J. Classen, «Philologus» 106, 1962, 180, con cui concorda Sc. Mariotti, «Gnomon» 43, 1971, 145-

52 ( = Mariotti 2000, 407-416), 151 ( = 415); di parere opposto è invece Winiarczyk 1994, 277 ss.
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Scipio - Introduzione 195

Dei soli 3 frammenti esplicitamente attribuiti allo Scipio dalle fonti antiche, due
sono sicuramente in settenari trocaici (II e III)9; secondo la scansione più natura-
le, l’altro frammento (IV) è invece un esametro. Risulta così attestata una com-
presenza di metri diversi (settenari ed esametri) che ha reso e rende tuttora diffi-
cile individuare il genere letterario a cui apparteneva lo Scipio.
È appunto per tentare di giustificarne la polimetria che Lersch 1837 propose
di identificare lo Scipio con un libro, e precisamente il III, di un’opera sicura-
mente polimetrica come le Saturae enniane. Questa tesi di Lersch ebbe una gran-
de influenza: è sulla base di essa che, come si vede dalla tabella di p. 185, in mol-
te edizioni a partire da Vahlen 1854 vengono accolti all’interno dello Scipio non
solo i frammenti assegnati dalle fonti esplicitamente a quest’opera, ma anche quel-
li che le fonti attribuiscono al III libro delle Saturae (oltre che frammenti di cui
non viene indicata l’opera di provenienza, ma che hanno o sembrano avere un
qualche rapporto con Scipione, come gli epigrammi enniani a lui dedicati: Var. 19-
24 V.2). In questo modo, i frammenti attribuiti allo Scipio aumentarono in modo
considerevole, fino a raggiungere il numero massimo di 17 con le edizioni di Baeh-
rens 1886 e di Bolisani 1935 (che seguiva Pascal 1915). Sempre a partire da Vah-
len 1854, inoltre, la tesi di Lersch venne, anzi, ulteriormente sviluppata da molti
editori (tra questi, oltre a Vahlen, vi sono Müller 1884, Baehrens 1886, Bolisani
1935), secondo i quali l’opera enniana citata in alcune fonti antiche con il titolo
Saturae era costituita da una raccolta delle varie opere minori enniane che altre
fonti indicano con vari titoli specifici (Scipio, Hedyphagetica, Epicharmus ecc.).
Abbiamo già cercato di dimostrare sopra, nell’introduzione alle Saturae (cfr.
pp. 68 ss.), perché riteniamo più cauto distinguere nettamente quest’opera da tut-
te le altre operette enniane: nella stessa introduzione (p. 71) abbiamo anche di-
scusso e ulteriormente precisato un argomento, ricavato dalla ratio laudandi di
Gellio, che rende improbabile l’appartenenza alle saturae proprio, in particolare,
dello Scipio.
Qui è anche opportuno aggiungere un’obiezione contro lo stesso argomento
che secondo Lersch avrebbe dovuto dimostrare in modo difficilmente confutabi-
le («causam [...] vix refellendam» la considera Lersch 1837, 421) l’identificazione
dello Scipio con il terzo libro delle Saturae e che prendeva le mosse da Enn. Var. 8
V.2 = Op. inc. 8 Sk.:
testes sunt Campi Magni.
Questo frammento è citato dalla fonte (Cic., de orat. 3, 167) senza indicazione
né dell’opera di provenienza né dell’autore; sufficientemente sicuro è invece che
esso avesse a che fare con Scipione: ne è un indizio il fatto che lì venga menzio-
nato il toponimo Campi Magni, che indica la località africana in cui Scipione scon-

9 La scansione del primo è assicurata dall’ampiezza del testo (4 versi, e per di più di struttura particolar-

mente regolare: cfr. commento ad loc.); il metro del secondo frammento, che pure presenta una lacuna iniziale,
è confermata esplicitamente dalla fonte che lo cita (Gell. 4, 7, 4: uersum quadrato numero factum).
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196 Le opere minori di Ennio

fisse in combattimento, nel 203 a.C., l’esercito comandato da Asdrubale e Sifa-


ce10; questa considerazione rafforza la congettura, a cui induce una combinazio-
ne di testimonianze, che testes sunt Campi Magni fossero parole pronunciate, in
qualche opera letteraria, dallo stesso Scipione11: per queste ragioni tale frammen-
to è stato assegnato allo Scipio di Ennio da tutti gli editori a partire da Colonna
1585-86, ma con l’eccezione di Courtney 1993 il quale, per le ragioni che vedre-
mo più avanti, esclude dallo Scipio tutti i frammenti di scansione esametrica come
il nostro. Io credo piuttosto che sia possibile l’attribuzione sia allo Scipio che agli
Annales, e che non vi siano ragioni decisive a sostegna di una delle due ipotesi.
Ma, per meglio confutare la tesi di Lersch, possiamo anche ammettere in via di
ipotesi l’appartenenza di testes sunt Campi Magni allo Scipio. Proprio sulla base di
questa attribuzione, Lersch metteva a confronto testes sunt Campi Magni con un
altro frammento enniano citato da Nonio (cfr. sopra, Sat. fr. VI):
testes sunt
lati campi quos gerit Africa terra politos
Come si vede, i due frammenti presentano una somiglianza innegabile: in en-
trambi viene menzionato un luogo geografico, designato per di più in maniera as-
sai simile (lati campi del frammento citato da Nonio sembra ricalcare proprio il to-
ponimo Campi Magni nel frammento citato da Cicerone); inoltre, in entrambi i
frammenti compare lo stesso motivo letterario per cui il luogo geografico lì men-
zionato viene chiamato a testimone (testes sunt) di un evento. Tali affinità indus-
sero il Lersch a ritenere che quelle citate da Cicerone e Nonio fossero in realtà due
varianti dello stesso frammento12, che Nonio, per un errore di citazione a memo-
ria, avrebbe riportato con la lezione corrotta lati campi in luogo di quella corretta
Campi Magni riferita da Cicerone. Dunque, secondo Lersch, il frammento di En-
nio doveva essere restaurato combinando le testimonianze di Nonio e Cicerone in
questo modo:
testes sunt
Campi Magni quos gerit Africa terra politos.
Poiché, infine, Nonio cita questo frammento dal III libro delle Satire enniane,
Lersch deduceva che quest’ultimo coincidesse con lo Scipio a cui, come si è visto,
veniva solitamente attribuito il frammento citato da Cicerone13. Gli editori suc-

10 Cfr. Skutsch 1985, 754.


11 Il frammento Testes sunt Campi Magni viene citato infatti da Cicerone nel passo del De oratore (3, 167)
assieme al frammento Desine, Roma, tuos hostis (Var. 6 V.2 = Op. inc. 6 Sk.): queste ultime parole, in base a un
altro passo ciceroniano (de fin. 2, 106) risultano pronunciate da Scipione cum patria [...] loquens.
12 In questa ipotesi Lersch era stato preceduto da Scriverius 1620, 37 e da Bondam cit. alla n. successiva.
13 Segnalo come curiosità il fatto che, in base all’identificazione tra il frammento citato da Nonio e quello

citato da Cicerone, P. Bondam, Variae Lectiones, Zutphaniae 1759, 333 s. arrivava invece alla conclusione che
Nonio sbagliava ad attribuire il frammento al III libro delle Saturae.
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Scipio - Introduzione 197

cessivi che accolsero l’ipotesi che il III libro delle Saturae coincidesse con lo Sci-
pio ripresero ovviamente da Lersch, seppure discostandosene nei particolari, an-
che l’ipotesi che il frammento citato da Nonio provenisse dallo stesso passo da cui
derivava quello citato da Cicerone14.
Il Vahlen, nella seconda edizione (1903), dichiarava di aver sostenuto anch’e-
gli, nella prima edizione (1854), l’identificazione tra i due frammenti, ma solo per-
ché ingannato da una loro somiglianza apparente («specie quadam similitudinis
deceptus» sono le parole di Vahlen 1903, CCXVI). Io credo che questa sbrigati-
va liquidazione dell’argomento con cui Lersch, come si è visto, pensava di potere
dimostrare l’identità tra lo Scipio e il III libro, sia sostanzialmente giusta. Se ritor-
no sulla questione è perché, nel tentativo di dimostrare in modo più argomentato
che il frammento citato da Nonio non può essere identificato con quello citato da
Cicerone, O. Skutsch è ricorso a una serie di argomentazioni che sembrano tradi-
re un immotivato imbarazzo e che è qui dunque opportuno riportare e discutere
(Skutsch 1985, 754 s.):
«Our line [cioè testes sunt Campi Magni citato da Cicerone] cannot be identi-
fied with that quoted by Nonius [...] from Book III of the Satires: testes sunt lati
campi quos gerit Africa terra politos; lati campi, as the relative clause shows, is not
a name. Probably a reader, remembering the Campi Magni in Cicero, added testes
sunt. The words make awkward metre, and, if they belonged to Ennius, Nonius
would, I believe, have omitted them and been content to cite the hexameter only,
since he was concerned with polire, and the end of the preceding line contributed
nothing to the point. The alternative that the resemblance between the two pas-
sages could be due to semi-conscious self-repetition on the part of the poet seems
far-fetched».
Se non capisco male, quando Skutsch nega la possibilità di identificare il fram-
mento citato da Cicerone con quello citato da Nonio perché in quest’ultimo lati
campi «is not a name», credo che intendesse sostenere che è impossibile sia intro-
durre il nome comune lati campi nel frammento citato da Cicerone – perché qui il
contesto richiederebbe secondo Skutsch la presenza di un nome proprio come
Campi Magni –, sia introdurre Campi Magni nel frammento citato da Nonio (co-
me si è ipotizzato a partire da Lersch), perché qui la relativa quos gerit Africa ter-
ra politos non potrebbe avere come antecedente un nome proprio. Se questa in-
terpretazione dell’affermazione di Skutsch è corretta, confesso di non capire per-
ché nel frammento citato da Nonio si debba escludere la presenza di un nome pro-

14 L. Müller, nella sua edizione enniana del 1884, stampava questo testo: testes sunt campi magni ! ! – ! ! –

lati campi, quos gerit Africa terra politos: come si vede, anziché fondere i due frammenti, secondo l’ipotesi di Ler-
sch, in uno solo, Müller li teneva distinti, ma ritenendo comunque che facessero parte dello stesso contesto; il
testo di Müller è riproposto anche da Baehrens 1886, Pascal 1915, 373 e Bolisani 1935. Altre sistemazioni te-
stuali, basate sempre sul presupposto che i frammenti citati da Nonio e Cicerone facessero parte dello stesso con-
testo, proporrà lo stesso L. Müller nell’app. cr. della sua edizione di Nonio, Lipsiae, 1888, I, 89.
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198 Le opere minori di Ennio

prio sulla base di quos gerit Africa terra politos, tanto più che i Campi Magni si tro-
vavano proprio in Africa, come viene appunto affermato dalla proposizione rela-
tiva15; inoltre, la presenza di un nome proprio nel frammento citato da Cicerone è
probabile, ma non necessaria16. Ma evidentemente neppure Skutsch riteneva que-
sta argomentazione sufficientemente probante, come dimostra il fatto che abbia
cercato di corroborarla con altre, che a me tuttavia sembrano persino più fragili:
• innanzitutto Skutsch ritiene che testes sunt fosse originariamente assente nel frammen-
to citato da Nonio e che sia stato introdotto da qualche lettore memore di testes sunt
Campi Magni citato da Cicerone: ma se presupponiamo che nel frammento citato da
Nonio fosse assente testes sunt, viene meno un importante elemento che avrebbe po-
tuto indurre un lettore a connetterlo con il frammento citato da Cicerone;
• inoltre, secondo Skutsch, testes sunt non sarebbe da accogliere nel frammento citato da
Nonio perché darebbe luogo a un «awkward metre»: Skutsch evidentemente intende-
va riferirsi al fatto che testes sunt dà luogo a un esametro spondiaco terminante per mo-
nosillabo, ma ciò trova un preciso parallelo almeno in Ann. 190 Sk. = V.2 (e innumere-
voli sono poi i casi di esametri enniani non spondiaci terminanti per monosillabo17);
• né testes sunt può essere eliminato, come afferma sempre Skutsch, sulla base della ra-
tio laudandi di Nonio: anche in altri casi questo grammatico riporta porzioni di testo
che, come appunto testes sunt nel nostro passo, non sono strettamente necessarie ai fi-
ni della citazione e che eccedono l’unità metrica (cfr. ad es. Enn. sat. VII: nam is non
bene vult tibi, qui falso criminat / apud te citato da Nonio per esemplificare la forma at-
tiva di crimino).
Ma soprattutto risulta sorprendente che Skutsch sia ricorso a queste argomen-

15 Forse Skutsch intendeva dire che con l’uso di un toponimo come Campi Magni, che indica già di per sé

una località ben precisa, l’aggiunta di una relativa che ne ribadisca la collocazione in Africa risulterebbe una ri-
dondanza inaccettabile: ma questa osservazione mi sembra ispirata a un razionalismo piuttosto angusto, in base
al quale risulterebbero inaccettabili espressioni del tutto usuali come «il Po che bagna la pianura Padana» e si-
mili.
16 Credo che questa tesi di Skutsch si basi sulle parole con cui in Cicerone viene introdotta la citazione del

frammento: ornandi causa proprium proprio causa commutatum. In base a queste parole Cicerone sembra citare
il frammento per esemplificare i casi in cui, per esigenze di abbellimento stilistico (ornandi causa), un nome pro-
prium viene sostituito con un altro nome proprio. Ma che cosa significa qui proprium? Skutsch sembra intender-
lo con il significato di «nome proprio» contrapposto a quello di «nome comune», e questa interpretazione sem-
bra avvalorata dal fatto che anche altri frammenti sono citati da Cicerone per la ragione che in essi sono usati
nomi propri, e in particolare toponimi: Africa in Africa terribili tremit horrida terra tumultu; Roma in Desine, Ro-
ma, tuos hostis. Ma come risulta dalle parole con cui Cicerone stesso – per bocca di Crasso – in de orat. 3, 149
introduce la trattazione sull’ornatus all’interno della quale si trova anche il passo che stiamo discutendo, qui pro-
prium ha un valore diverso, in quanto significa «termine appropriato» contrapposto ai neologismi e alle metafo-
re. E, nel passo in cui viene citato il frammento testes sunt Campi Magni, Cicerone sta discutendo quella che vie-
ne solitamente designata con il termine metonimia, che consiste appunto nella sostituzione di un termine ap-
propriato con un altro termine appropriato (cioè non metaforico): oltre agli esempi già citati, in cui tale metoni-
mia consiste nell’introduzione di un toponimo, Cicerone cita anche esempi di metonimia in cui non si vede l’u-
so di alcun nome proprio come togam pro pace e arma ac tela pro bello. Sulla base di questi presupposti, si può
ammettere che Cicerone in testes sunt Campi Magni riconoscesse la metonimia soprattutto nel fatto che dei cam-
pi (e non le persone che lì si trovavano) sono addotti come testes, e questo tipo di ornatus si avrebbe anche in-
troducendo lati campi al posto di Campi Magni.
17 Tale caratteristica sarebbe presente – secondo la statistica di Skutsch 1985, 49 – nel nove per cento dei

frammenti enniani conservati.


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Scipio - Introduzione 199

tazioni così complicate solo per evitare di riconoscere una somiglianza dei due pas-
si e di ammettere che essa sia dovuta, semplicemente, a una autoimitazione da par-
te di Ennio. Tale ipotesi è giudicata apoditticamente «far-fetched» da Skutsch; ep-
pure abbiamo un caso sicuro, che Skutsch omette di ricordare, in cui, come aveva
già osservato Waszink 1972, 136 n. 118, possiamo constatare che Ennio si era ripe-
tuto quasi letteralmente in opere diverse: cfr. sc. 185 V.2 (dagli Hectoris lutra):
constitit credo Scamander, arbores uento uacant
e Scipio III, 4:
constitere amnes perennes, arbores uento uacant.

E a quanto osservava Waszink si aggiunga che:


• anche nell’ultimo caso, come in testes sunt Campi Magni, è un passo dello Scipio a tro-
vare una singolare somiglianza con un passo di un’altra opera enniana (Scipio III, 4 è
anzi un frammento dello Scipio di attribuzione sicura, a differenza del frammento cita-
to da Cicerone che, come abbiamo visto, è di attribuzione congetturale);
• nell’adattare la stessa espressione a due diverse circostanze Ennio ha compiuto, in en-
trambi i casi, un mutamento analogo: in luogo di una designazione geografica precisa
rappresentata da un toponimo (Campi Magni nel fr. citato da Cicerone; il fiume Sca-
mander in quello degli Hectoris lutra), nei frammenti corrispondenti si trova una desi-
gnazione geografica generica (rispettivamente lati campi e amnes). Se si considera la
scarsità dei frammenti enniani che ci sono pervenuti, risulterà tanto più significativa
l’attestazione di queste due coppie di esempi, che rendono del tutto ingiustificato lo
scetticismo di Skutsch sull’ipotesi di una autoimitazione (poco importa qui stabilire
quanto consapevole) da parte di Ennio.
Anche in base a quanto abbiamo osservato finora si può dunque affermare che
l’ipotesi di Lersch secondo la quale lo Scipio coinciderebbe con il III libro delle
Saturae è stata a ragione abbandonata dagli studiosi più recenti. Meno giusta-
mente, invece, gli studiosi più recenti continuano a seguire tuttora Lersch nel re-
spingere l’ipotesi che lo Scipio fosse un’opera teatrale, e in particolare una fabula
praetexta. Questa ipotesi, avanzata per la prima volta in una laconica nota da M.A.
Del Rio nel 159319, e sopravvissuta fra alterne vicende fino agli inizi del XIX
secolo, dopo l’articolo di Lersch è stata difesa solo da Th. Roeper nel 186820 con

18 Contro il quale probabilmente Skutsch, nella nota che abbiamo citato sopra, polemizza senza menzio-
narlo.
19 M.A. Delrii [...] Syntagma tragoediae Latinae, Antwerp 1593, I p. 104: «SCIPIO] Gellius lib. indigetat: ego

praetextatam puto»: per quanto riguarda la prima parte di questa annotazione («Gellius lib. indigetat») cfr. sotto,
p. 194 s. Anche la nota di Del Rio ora citata si trova ristampata, assieme ad altre sue e di G.J. Voss, in appendice
all’edizione enniana di Colonna ristampata da F. Hessel nel 1707, 333-359: 335. È opportuno precisare tuttavia che
tale ipotesi non nacque in consapevole contrapposizione a quella (su cui ci soffermeremo più avanti) di conside-
rare lo Scipio un poema epico – come pochi anni prima di Del Rio, nel 1585-86, aveva sostenuto G. Colonna nel
suo commento ai frammenti enniani – perché quest’opera rimase infatti ignota a Del Rio (cfr. Jocelyn 1969, 186).
20 Per la dossografia più antica cfr. Roeper 1868, 16.
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200 Le opere minori di Ennio

alcuni argomenti tuttora validi, ma che ebbero lo svantaggio di essere annegati in


una discussione molto prolissa e pubblicata in una sede assai poco accessibile
(Lersch 1868). Dalla faticosa ricerca della dissertazione di Roeper, che avrebbe
potuto contribuire almeno a tenere aperta la questione, avrà dissuaso forse anche
l’aspra confutazione che – sulla base di argomenti numerosi (ma in larga parte fra-
gili, come vedremo) – ne fece il Ribbeck in alcune pagine degli Ad tragicos ad-
denda premessi alla sua seconda edizione dei frammenti comici latini pubblicata
nel 1873 (Ribbeck 1873, CXVI-CXIX); la tesi che lo Scipio fosse una praetexta
venne esplicitamente respinta poi da F. Skutsch nel 1905 e quindi da Leo nel
1913. Dopo tali studi, l’ipotesi non venne più accolta21.
Eppure, dietro tanta unanimità nel respingere l’ipotesi che lo Scipio fosse una
pretesta, vi sono ragioni spesso discordanti e, quel che più conta, in molti casi in-
consistenti:

• Lersch 1837, 420 negava che lo Scipio fosse una pretesta osservando in primo luogo che
l’Africano, sia in un’epoca in cui era ancora vivo, sia quando era ormai morto, non po-
teva comparire come personaggio di un’opera teatrale di Ennio: questo sarebbe risul-
tato indecoroso per Scipione, e irrispettoso da parte di Ennio, che all’Africano era le-
gato da vincoli di amicizia. Ma a ragione questa argomentazione non è stata più ripre-
sa da alcuno studioso perché è ormai riconosciuto che anche Nevio aveva portato sul-
la scena, con intento celebrativo, un importante personaggio politico come Marcello
nella sua praetexta intitolata Clastidium.
• Lersch sosteneva inoltre che lo Scipio non può essere ritenuto un’opera teatrale anche
perché in questo caso non sarebbe stato designato come liber da Gellio (4, 7, 3 Valerius
Probus ... Ennii versum unum ponit e x l i b r o , qui Scipio inscribitur): questo argomen-
to è risultato particolarmente convincente, come dimostra il fatto che è stato ripetuto in-
finite volte ed è stato ripreso da ultimo anche da Courtney 199322, che anzi sembra con-
siderarlo l’unico veramente decisivo per negare la natura drammatica dello Scipio23. Ma

21 Per quanto mi risulta, alla possibilità di considerare lo Scipio una pretesta accenna, assai brevemente,

solo Gordon Williams, phases in political patronage of literature in Rome, in Literary and artistic patronage in
ancient Rome, ed. by B. K. Gold, Austin (Texas), 1982, 3-27: 5.
22 L’impossibilità di designare un’opera teatrale con il termine liber era già stata sostenuta precedentemen-

te – oltre che da Neukirch 1833, 63 – anche da Timpanaro 1948, 6 (a cui Courtney, in comm. a 34, si richiama
esplicitamente) per negare l’attribuzione, fino allora vulgata, a una tragedia (l’Achilles) di un altro frammento en-
niano (sc. 12 V.2), che anche in questo caso Gellio dice provenire da un liber di Ennio (19, 8, 6: Q. Ennius in il-
lo memoratissimo libro dicit etc.): «Liber così da solo non designa mai in latino una tragedia o una commedia; in
particolare poi Gellio, il quale cita molti altri passi di tragedie enniane, non usa mai una formula di questo ge-
nere». Non è esatto tuttavia dire che Timpanaro, come afferma sempre Courtney, proponeva in alternativa di at-
tribuire il citato fr. Enn. sc. 12 V.2 allo Scipio; in realtà questa proposta, come afferma Timpanaro (cit. 7) era sta-
ta sostenuta da Havet 1890, 45, che Timpanaro cita con consenso per quanto riguarda il rifiuto dell’attribuzio-
ne ad un’opera teatrale, ma esprimendo una riserva sull’attribuzione allo Scipio («noi riteniamo che ci si debba
contentare di attribuirlo a una delle Satire o delle opere minori, senza voler precisare ulteriormente»). In ogni
caso, anche dal modo in cui formulava questa riserva, oltre che dal resto della sua discussione su questo punto,
risulta chiaro che anche Timpanaro presupponeva, implicitamente, che lo Scipio non fosse un’opera teatrale. Sul-
la questione dell’attribuzione di sc. 12 V.2 ritorneremo più avanti.
23 Così anche Leo 1913, che a p. 198 postilla l’affermazione «Der Scipio war kein Schauspiel» con la nota

(ibid., n. 1): «Dies beweist im Grunde nur das Zitat des Gellius in libro qui Scipio inscribitur».
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Scipio - Introduzione 201

questo argomento era già stato confutato, contro Lersch, da Roeper (1868, 22) e poi di
nuovo, indipendentemente da quest’ultimo, anche da Jocelyn («CQ» 1965, 133 n. 3), i
quali ricordano che con il termine liber si designano le commedie di Menandro in Pro-
perzio24; le tragedie di Accio in generale (o forse una tragedia acciana ben precisa) in
Persio25; i mimi di Sofrone e le commedie di Aristofane in Quintiliano26; le commedie
di Cecilio e Menandro nello stesso Gellio27. Queste attestazioni dell’uso di liber per de-
signare un’opera teatrale, inoltre, si sostengono a vicenda, e non possono quindi essere
eliminate congetturalmente, come pure si è talvolta cercato di fare nei passi ora citati di
Properzio e Quintiliano 1,10,18 (vedi le note 24 e 26)28. E si potrebbe anche ipotizzare
che Gellio abbia designato lo Scipio con un’espressione generica come liber proprio per-
ché gli era ignoto il genere di quest’opera, che egli mostra di conoscere solo indiretta-
mente grazie a una citazione fattane da Valerio Probo (cfr. sopra p. 187).
È probabilmente perché, come si è visto, anche quest’ultimo argomento ad-
dotto da Lersch – e a cui oggi con Courtney, come si è visto, si è tornati a dare va-
lore decisivo – era già stato confutato da Roeper, che Ribbeck cerca di confutare
l’ipotesi che lo Scipio fosse una pretesta ricorrendo ad argomenti diversi29, an-
ch’essi tuttavia in gran parte infondati.
• Tra questi rientra senz’altro quello per cui, secondo Ribbeck, i settenari dello Scipio
non potevano appartenere a un’opera teatrale anche perché essi sono di tipo grecanico
(cfr. commento a Scip. fr. III); ma una serie di versi di tipo grecanico, in questo caso se-
nari giambici, si trovano anche in un’altra tragedia enniana, l’Atamante (sc. 13 ss. V.2 =
trag. 120 ss. Joc.); di questi ultimi versi, proprio per la loro struttura grecanica, molti
studiosi (tra cui lo stesso Ribbeck30) avevano negata la paternità enniana, ma essa era
stata rivendicata da L. Müller (1884, 238) e da allora viene comunemente accolta (tran-
ne da Ribbeck, nella sua terza edizione dei TRF, 1897), ed è stata riconfermata inoltre
in modo definitivo da Mariotti 1979, 55-61 (=1991, 119-125).

24 Cfr. Prop. 3, 21, 28 librorumque [cdd.: rideboque Baehrens 1880 in app., ludorumque o mimorumque

Heinsius, miraborque Fonteinius, libaboque G.T. Suringar] tuos, docte Menandre, sales.
25 Cfr. Pers. 1, 76 [...] Brisaei [... ] uenosus liber Acci: sull’interpretazione del passo cfr. comm. di Kissel

(Heidelberg 1990), 212 secondo il quale qui liber indicherebbe più precisamente la tragedia acciana Bacchae.
26 Cfr. Quint. inst. 1,10,17 (Sophron [...], mimorum quidem scriptor, sed quem Plato adeo probauit, ut sup-

positos capiti libros eius, cum moreretur, habuisse credatur) e 1, 10, 18 (Aristophanes quoque non uno libro [cdd.:
loco Gesner] sic institui pueros antiquitus solitos esse demonstrat: Quintiliano sta qui discutendo dell’importan-
za, per la formazione dell’oratore, della musica e la sua connessione, già attestata in epoche lontane, con l’inse-
gnamento della grammatica: «Anche Aristofane [come altri autori menzionati precedentemente] documenta, e
non in una sua opera soltanto, che così venivano istruiti i fanciulli fin da epoche antiche»).
27 Cfr. Gell. 2, 23, 11 (è il famoso confronto tra il Plocium di Cecilio e il suo modello menandreo): Praeter

uenustatem autem rerum atque uerborum in duobus libris nequaquam parem, in hoc equidem soleo animum at-
tendere, quod etc.
28 Per liber riferito a opere teatrali altre testimonianze, forse meno significative, sono segnalate in Th. l. L.

s. v. (VII 2 [1975], 1275, 8 ss.).


29 Che per Ribbeck il termine liber potesse indicare un’opera teatrale è comunque dimostrato dal fatto che

egli accoglie tra i frammenti tragici il già menzionato frammento di Ennio (sc. 12 V.2 (=tr. 326-7 R.3) la cui cita-
zione è introdotta dalla fonte Aulo Gellio (19, 8, 6) con le parole Q. Ennius in illo memoratissimo libro dixit.
30 Cfr. Trag. Rom. frag., Lipsiae 18712 (=Hildesheim 1962), 28 s. e Die römische Tragödie im Zeitalter der Re-

publik, Leipzig 1875 (=Hildesheim 1968), 204 s.: sulle posizioni di Ribbeck riguardo alla paternità di questo
frammento ulteriori precisazioni in Mariotti 1979, 57 = Mariotti 1991, 121.
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202 Le opere minori di Ennio

• Inoltre, secondo Ribbeck i settenari dello Scipio non potevano trovarsi in un’opera tea-
trale a causa di loro particolarità prosodiche («vocabulorum mensurae» le definisce
Ribbeck) non meglio precisate: ma è probabile che Ribbeck si riferisca al fatto che in
Scipio III, 3, in luogo di repressit, si trova repressît, secondo la prosodia attestata sicu-
ramente, come osserva Mariotti 1991, 123 n. 20, negli Annali; ma Mariotti, nel luogo
ora citato, aggiunge: «se per le caratteristiche della versificazione scenica latina, si può
provare con piena certezza in Plauto e Terenzio solo la misura -it (cfr. per es. Sommer,
Handbuch2-3 [1914], 576), non è affatto da escludere la presenza di -ît, sostenuta ad
esempio da H. Jacobsohn, Quaestiones metricae Plautinae, diss. Gottingae 1904, 29:
probabilissimo <ex> concinnavît in Plaut. cist. 312».
• Ribbeck respinse inoltre l’ipotesi che lo Scipio fosse un’opera teatrale anche perché tut-
ti i frammenti di sicura attribuzione consistono in narrazioni o descrizioni31. Ma questa
caratteristica è comune a numerosi altri frammenti enniani provenienti sicuramente da
tragedie: si confronti ad es. Enn. Scipio II qui<que> propter Hannibalis copias considerat
con Enn. sc. 158 sg. V.2 = tr. 153 s. Joc. Hector ui summa armatos educit foras / castrisque
castra ultro iam conferre occupat; Enn. Scipio IV sparsis hastis longis campus splendet et
horret con Enn. sc. 181 V.2 = tr. 165 Joc. aes sonit, franguntur hastae, terra sudat sangui-
ne e Enn. sc. 140 V.2 = tr. Joc. arma arrigunt, horrescunt tela32. Ed è anche sulla base di
esempi come questi che è stata notata l’affinità con l’epica di molti frammenti tragici di
Ennio33, o di altri tragici latini arcaici nonché, in particolare, proprio di alcune fabulae
praetextae come il Decius di Accio o il Paulus di Pacuvio34. Inoltre, in particolare, si no-
ti che il verso Enn. Scipio III 4 constitere amnes perennes, arbores uento uacant (descrit-
tivo e sicuramente proveniente dallo Scipio) presenta, come si è visto sopra, una stretta
affinità di forma e di contenuto con un altro verso enniano (sc. 185 V.2 constitit credo Sca-
mander, arbores uento uacant) proveniente da una tragedia (gli Hectoris lutra).
• Né costituisce un ostacolo all’ipotesi che lo Scipio fosse una pretesta la presenza, al suo
interno, di un esametro come Scipio IV: tale metro veniva utilizzato già nella tragedia
greca35 e in quella di Seneca (cfr. Medea 110-115; Oed. 233-238); per Ennio stesso un
esametro è attestato quasi sicuramente nella tragedia Melanippa (sc. 292 V.2 = tr. Joc.
lumine sic tremulo terra et caua caerula candent)36 e anche sc. 367 V.2 (et aequora salsa
ueges ingentibus uentis) è stata in genere ritenuta la parte finale di un esametro37: e que-

31 A questa obiezione sembra accennare Leo 1913, 198: «Der Scipio war nicht Schauspiel, die drei Frag-

mente sind episch» (ma abbiamo visto che per Leo l’argomento decisivo per dimostrare che lo Scipio non era
un’opera teatrale era dato dal fatto che esso veniva designato da Gellio con il termine liber).
32 E si confronti anche Scipio III mundus caeli uastus constitit silentio / et Neptunus saeuos undis asperis pau-

sam dedit. / Sol equis iter repressit ungulis uolantibus, / constitere amnes perennes, arbores uento uacant con Pa-
cuu. tr. 76 s. R.3 interea loci / flucti flaccescunt, silescunt uenti, mollitur mare.
33 Cfr. Jocelyn in Ennius Hardt 1972, 43 ss.
34 Cfr. A. La Penna, Funzione e interpretazione del mito nella tragedia arcaica latina, in Fra teatro, poesia e

politica romana, Torino 1979, 49-104: 59 ss.


35 Cfr. ad es. Eur. Hel. 164-165; Tr. 595-602 (già citati da Vahlen 1903 in app. a sc. 292 V.2): altri esempi in

Jocelyn 1967, 386 in comm. al v. 250 (= sc. 292 V.2) e da Timpanaro 1996, 42 (= Timpanaro 2005, 180) n. 56;
sulla questione in generale R. Pretagostini, L’esametro nel dramma attico del V secolo ecc. in M. Fantuzzi - R. Pre-
tagostini, Struttura e storia dell’esametro greco, I, Roma 1995, 163-191.
36 In difesa di questa scansione cfr. Jocelyn 1967, 386.
37 Così senz’altro Timpanaro 1996, 42 ( = Timpanaro 2005, 180) n. 56; qualche dubbio per tale scansione

sembra avere Vahlen 1903 nell’app. ad loc. Che si tratti di parte di esametro viene ammesso, seppure non con as-
soluta sicurezza, anche da Questa 1973, 547.
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Scipio - Introduzione 203

st’ultimo esempio risulterebbe particolarmente significativo nel nostro caso, perché


proveniente proprio da una praetexta enniana, l’Ambracia.

Per respingere l’ipotesi che lo Scipio fosse una pretesta F. Skutsch 1905 (2598
s.) si basava invece solo su un altro argomento già utilizzato a questo proposito da
Ribbeck38 e ricavato dalla seguente testimonianza della Suda (s. v. E [ nnio", E
1348, v. II p. 285 Adler):
E
[ nnio", RJ wmai`o" poihthv": o}n Aijliano;" ejpainei`n a[xiovn fhsi. Skipivwna
ga;r a[d/; wn kai; ejpi; mevga to;n a[ndra ejxa`rai boulovmenov" fhsi movnon a]n
O
{ mhron ejpaxivou" ejpaivnou" eijpei`n Skipivwno"/. dh`lon de; wJ" ejteqhvpei tou`
poihtou` th;n megalovnoian kai; tw`n mevtrwn to; megalei`on kai; ajxiavgaston:
kai; wJ" ejpainevsai deino;" O { mhrov" ejsti kai; klevo" ajndro;" purgw`saiv te
kai; a\rai, ejx w|n ejphvn/ ese to;n ∆Acilleva, kalw`" hjpivstato oJ poihth;" oJ Mes-
savpio".
«Ennio: poeta romano che Eliano dice degno di lode. Celebrando Scipione, in-
fatti, e volendo esaltare quell’uomo valoroso, dice che solo Omero potrebbe fare
lodi degne di Scipione. È evidente che [Ennio] ammirava di quel poeta [Omero]
la grandezza dell’ingegno e la stupenda magnificenza dei versi; e che Omero fosse
abilissimo nel tessere elogi e nell’esaltare e celebrare la fama degli eroi lo sapeva
bene il poeta messapio39 in base a quelle lodi con cui [Omero] celebrò Achille».
Secondo questa testimonianza, dunque, Ennio, in una sua opera non precisata,
affermava che Scipione poteva essere celebrato adeguatamente solo da Omero40:
che tale affermazione si trovasse proprio nello Scipio non viene detto dalla Suda,
ma viene comunemente ammesso da tutti gli editori a partire da Vahlen 1854, e
tale attribuzione è stata ribadita da F. Skutsch con un ulteriore argomento che ve-
dremo più avanti. Sulla base di questi presupposti, F. Skutsch osservava: «Dass
das [cioè lo Scipio] keine Prätexta war, sondern ein episches Gedicht, zeigt die
Angabe des Suidas über Homer, die doch wohl das Ennianische Prooemium wie-
dergibt».
Se non capisco male, mi pare che il ragionamento di Skutsch si possa esplicita-
re nel modo seguente:

38 Non è possibile stabilire se Skutsch dipenda in questo caso da Ribbeck, che Skutsch non menziona mai

nella sua discussione sullo Scipio.


39 La perifrasi «il poeta messapio» designa Ennio in quanto nato a Rudiae (cfr. Vahlen 1903, VII s.), città

della Messapia.
40 Su questo motivo cfr. Skutsch 1985, 3; A. Perutelli, Scipione ed Epicuro. Sul proemio al V di Lucrezio,

«Atene e Roma» 25, 1980, 23-28, ipotizza in modo convincente che Lucr. 5, 1 ss. riprenda allusivamente questa
affermazione enniana testimoniata dalla Suda; che, inoltre, ad essa alluda anche Hor. c. 1, 6, 13-16 è stato ipo-
tizzato da G. Davis, Quis … digne scripserit? The topos of alter Homerus in Horace c. 1.6., «Phoenix» 41, 1987,
292-5 citato da Courtney: ma questa ipotesi era stata cautamente avanzata già da Perutelli cit. 25 n. 7. M. Betti-
ni «RFIC» 105, 1977, 440 ss. (= M.B. Note e studi su Ennio, Pisa 1979, 161 ss.) ritiene che anche nel seguito del
lemma della Suda, fino a ejphvn/ ese to;n ∆Acilleva, si riferisca il contenuto di affermazioni che risalgono diretta-
mente a Ennio.
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204 Le opere minori di Ennio

1) la celebrazione enniana di Scipione testimoniata dalla Suda è anche una cele-


brazione della poesia di Omero, implicitamente presentato come modello poe-
tico a cui ispirarsi;
2) l’affermazione enniana testimoniata dalla Suda assume così le caratteristiche di
una dichiarazione di poetica;
3) appare improbabile che all’interno di un genere teatrale come la pretesta si tro-
vasse una dichiarazione programmatica come quella testimoniata dalla Suda;
4) il fatto che in questa dichiarazione programmatica Ennio si richiami a Omero
dimostrerebbe che lo Scipio era, come era stato già ipotizzato da alcuni studio-
si precedenti a partire da Colonna 1585-86, un poema epico41, di cui la Suda
riporterebbe una affermazione contenuta nel proemio.

Queste deduzioni ricavate dalla testimonianza della Suda sono, considerate di


per sé, condivisibili; bisogna tuttavia osservare che esse risultano difficilmente
conciliabili con i dati che ricaviamo dai frammenti dello Scipio di attribuzione si-
cura: questi ultimi, infatti, ci documentano, come si è visto, che nello Scipio veni-
vano usati settenari trocaici ed esametri: in quale poema epico sarebbe ammissi-
bile la compresenza di questi metri diversi?
Di tale difficoltà, per la verità, si mostrava ben consapevole il Colonna che, per
giustificare la polimetria dello Scipio, aveva sostenuto che quest’opera fosse sì un
«poëma hexametris versibus compositum», ma preceduto da un proemio in set-
tenari trocaici. Tuttavia, per trovare esempi analoghi di poesia esametrica con
proemi in metri diversi, Colonna era costretto a citare i casi ben poco probanti
delle satire di Persio, di alcune poesie di Claudiano e la Psichomachia di Pruden-
zio, opere per le quali appare a priori difficile ipotizzare un rapporto con lo Sci-
pio di Ennio: inoltre in nessuna delle opere citate dal Colonna il proemio è costi-
tuito da settenari trocaici (in Persio, posto che avessero sede all’inizio delle satire,
abbiamo dei coliambi; in Claudiano distici elegiaci; in Prudenzio senari giambici).
Credo dunque che a ragione gli esempi addotti da Colonna non siano stati più
nemmeno citati dagli studiosi successivi che, come F. Skutsch e F. Leo, hanno ri-
proposto l’ipotesi che lo Scipio fosse un poema epico, ma che hanno nello stesso
tempo riconosciuto che è impossibile spiegare come vi potessero essere utilizzati
insieme esametri e settenari trocaici42.

41 Il ragionamento di Skutsch qui esplicitato mi pare in parte analogo a quello seguito anche da Ribbeck

1873, CXVIII, per il quale le parole della Suda «propter canendi verbum et Homeri laudem non possunt sana
interpretatione nisi de epico carmine intellegi»: anche per Ribbeck, come si vede, il fatto che Ennio si richiami
ad Omero dimostrerebbe che lo Scipio era un poema omerico. A differenza di Skutsch, tuttavia, Ribbeck voleva
trovare un appiglio all’ipotesi che lo Scipio fosse un poema epico anche nel fatto che la Suda, per indicare la ce-
lebrazione di Scipione da parte di Ennio, ricorre al verbo a[;/dw (cfr. Skipivwna ga;r a[d/; wn): ma questo mi pare un
argomento poco cogente.
42 «Ein Rätsel» giudicava la questione il Leo (1913, 198), il quale ipotizzava che per un poema del genere

Ennio si sarebbe ispirato a qualche modello ellenistico di cui, tuttavia, come riconosceva Leo stesso, non abbia-
mo alcuna testimonianza. La mancanza di paralleli è confermata anche dall’utilissimo repertorio di poesia epica
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Scipio - Introduzione 205

È per questa ragione che alcuni studiosi, nel tentativo di difendere l’ipotesi che
lo Scipio fosse un poema epico, hanno tentato di eliminarne la polimetria ricor-
rendo a 2 soluzioni:
1) ritenere che l’esametro di Scip. IV appartenga in realtà agli Annales, e che sia
stato attribuito allo Scipio per un errore della fonte, Macrobio, o della sua tra-
dizione manoscritta43;
2) correggere l’esametro in modo da ricavarne un settenario trocaico (o una par-
te di esso), che diverrebbe così l’unico tipo di verso attestato per lo Scipio.
Quest’ultima ipotesi (sulla quale mi soffermo in dettaglio in commento al v.) era
già stata avanzata più volte in passato da alcuni studiosi, tra cui lo stesso Ribbeck,
ed è stata riproposta ora anche da Courtney 199344 appunto per evitare la poli-
metria dello Scipio. Il Ribbeck osservava inoltre che Ennio, per celebrare Scipio-
ne, avrebbe adottato come metro esclusivo proprio il settenario trocaico perché
questo era il tipo di verso con cui i soldati romani celebravano il proprio genera-
le vittorioso45. Resta tuttavia il fatto che, come si dimostrerà nel commento, ap-
pare assai difficile dare, al frammento assegnato da Macrobio allo Scipio, una
scansione metrica diversa da quella esametrica: tutte le proposte di correzione
avanzate finora, infatti, appaiono assai stentate e, in quanto tali, sono state ripe-
tutamente respinte.

Ogni tentativo di eliminare la polimetria dallo Scipio è poi ostacolato, oltre che
dai frammenti di attribuzione sicura, anche da un frammento enniano che si può
ricavare dall’Historia Augusta ([Treb.] Claud. (=25), 7, 6-8: Dicit Ennius de Scipio-
ne: ‘quantam statuam faciet populus R., quantam columnam, quae res tuas gestas lo-
quatur?’). Come si vede, la fonte cita in questo caso delle parole attribuendole a
Ennio (dicit Ennius) e affermando che esse riguardano Scipione (de Scipione), ma
senza specificarne l’opera di provenienza; per il loro argomento, dunque, tali pa-
role potrebbero essere attribuite, in via teorica, sia agli Annales sia allo Scipio; ma
il passo citato dall’Historia Augusta non può essere scandito in nessuno di quei

ellenistica che M. Fantuzzi ha premesso all’ed. italiana di K. Ziegler, L’epos ellenistico, Bari 1986, e da cui risul-
ta anche che il metro impiegato in questo tipo di produzione poetica era sempre e solo l’esametro.
43 Così Th. Hug in Q. Ennii Annalium librorum VII-IX sive de bellis Punicis fragmenta emendata disposita

illustrata. Commentatio philologica scripsit Th. H., Bonnae 1852, 33 (la cui opinione viene menzionata e respinta
da Vahlen 1854, LXXXV); l’ipotesi che l’esametro appartenga agli Annales è stata presa in considerazione, a
quanto pare indipendentemente da Hug, anche da Jocelyn in «CQ» 15, 1965, 133; con più cautela Jocelyn pro-
spetta questa ipotesi anche in un articolo uscito nello stesso anno («CR» n. s. 15, 1965, 146-149) ma che deve es-
sere stato scritto dopo quello comparso in «CQ»: in quest’ultimo infatti non si menziona la tesi che, riguardo al-
la scansione metrica di Scip. IV, aveva sostenuto L. A. Mackay, In defence of Ennius, «CR» n. s. 13, 1963, 264-5
e che è invece l’argomento centrale dell’articolo di Jocelyn comparso in «CR».
44 Ed è sempre per eliminarne la polimetria che Courtney ha anche escluso dallo Scipio, dove erano stati col-

locati da tutti gli editori precedenti, una serie di frammenti enniani di opera incerta che riguardano Scipione, ma
che presentano una scansione esametrica.
45 Così ora anche Suerbaum nella sua voce ‘Ennius’ in Der neue Pauly, III (1997), 1043: per il Suerbaum,

tuttavia, il genere letterario dello Scipio continua a rimanere incerto.


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206 Le opere minori di Ennio

metri (esametri o settenari) sicuramente usati in queste due opere. Gli editori han-
no quindi cercato di ottenere questi metri per mezzo di vari interventi congettu-
rali (cfr. comm. ad loc.): Sc. Mariotti, tuttavia, ha dimostrato che le parole citate
dall’Historia Augusta «possono, e quindi debbono» essere scandite, senza alcuna
correzione, come un ottonario trocaico seguito dall’inizio di un settenario (o otto-
nario) trocaico: quantam statuam faciet populus Romanus, quantam columnam, /
quae res tuas gestas loquatur? Questa scansione esclude automaticamente l’attri-
buzione del frammento agli Annales; ma in quale altra opera enniana è possibile
collocare due versi dedicati a Scipione e costituiti dalla sequenza di due ottonari
trocaici o di un ottonario e un settenario trocaico? Mariotti continuava a presu-
mere che essi si trovassero nello Scipio e aggiungeva: «si può dedurre da questo
esempio che ottonari trocaici, in serie oppure alternati con settenari, si trovavano
anche nelle opere minori, oltre che nelle tragedie, di Ennio». Come si vede, qui
Mariotti affianca le tragedie alle «opere minori» (tra cui evidentemente bisogna in-
cludere anche lo Scipio), e sembrerebbe quindi considerare queste ultime distinte
dalle prime. Ma, una volta esclusa l’ipotesi che lo Scipio fosse un’opera scenica, ri-
sulta ancora più difficile immaginare come in essa potessero essere compresenti,
oltre a settenari trocaici ed esametri, anche ottonari trocaici. E questa varietà di
metri rende ancora più discutibili quei tentativi, visti sopra, di legittimare l’attri-
buzione della testimonianza della Suda allo Scipio uniformando tutti i frammenti
di quest’opera a un unico metro. Di converso, credo che proprio la scansione of-
ferta da Mariotti costituisca un ulteriore argomento per considerare lo Scipio una
pretesta; lo stesso Mariotti, d’altra parte, ricorda che gli ottonari trocaici (anche se-
guiti da settenari trocaici) si trovano proprio nelle tragedie enniane46.

A questo punto della discussione mi pare che si possa trarre il seguente bilan-
cio: l’ipotesi che lo Scipio fosse un poema epico è ostacolata dai frammenti di at-
tribuzione sicura (nonché dal frammento di attribuzione probabile tramandato
dall’Historia Augusta); questi stessi frammenti si concilierebbero bene invece con
l’ipotesi che lo Scipio fosse una pretesta, ipotesi che tuttavia è resa improbabile
dalla testimonianza della Suda e, come abbiamo visto, solo da questa, perché tut-
ti gli altri argomenti addotti al riguardo non sono decisivi. Ci troviamo quindi di
fronte a una aporia, perché non è possibile trovare altre ipotesi alternative sul ge-
nere letterario dello Scipio.
Vi è tuttavia una possibilità per uscire da questa aporia senza, d’altro canto, al-
terare i dati della tradizione: rimettere in discussione l’appartenenza allo Scipio
dell’affermazione enniana su Omero come unico cantore degno di Scipione. La
Suda riporta tale affermazione enniana, come abbiamo visto, senza indicarne l’o-
pera di provenienza; e dopo quanto abbiamo osservato sulla difficoltà di riferire
la testimonianza della Suda allo Scipio, credo che si debba prendere in attenta

46 Documentazione in Timpanaro 1946, 80.


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Scipio - Introduzione 207

considerazione l’ipotesi che essa riporti un’affermazione contenuta negli Annali:


qui Ennio avrebbe avuto numerose occasioni per celebrare Scipione durante la
narrazione della seconda guerra punica, che occupava i libri VIII e IX, o della
guerra contro Antioco III re di Siria, di cui si parlava nel libro XIV e nella quale
l’Africano ebbe un ruolo di primo piano. Questa attribuzione agli Annali è stata
esclusa da F. Skutsch, e adesso anche da Courtney 1993, osservando che un’affer-
mazione come «solo Omero può celebrare degnamente Scipione» Ennio non
avrebbe potuto farla negli Annali perché nel proemio di quest’opera, come è no-
to, Ennio presentava se stesso come la reincarnazione dell’anima di Omero. Svi-
luppando ulteriormente questa osservazione, F. Skutsch ha sostenuto che lo Sci-
pio sarebbe anteriore agli Annali – e questa tesi è stata autorevolmente riproposta
anche da O. Skutsch (1985, 3) – appunto perché in questi Ennio si presenta or-
mai come un nuovo Omero, mentre in quello, come si ricaverebbe appunto dalla
testimonianza della Suda, Omero verrebbe presentato come un modello poetico
ancora irraggiungibile. Ma si osservi innanzitutto che quest’ultima deduzione era
già stata giustamente confutata da C. Pascal (1915, 379) il quale, pur muovendo
dalla discutibile esigenza di datare lo Scipio dopo gli Annali (cfr. sotto), osservava
con arguzia (1915, 379): «Ennio nello Scipio diceva che solo Omero era capace di
cantare degne lodi di Scipione: se egli dunque aveva dentro di sé l’anima di Ome-
ro, che meraviglia è che si assumesse di cantarle? Non era proprio questa in qual-
che modo la giustificazione del suo assunto? E del resto, anche a prescindere da
tutto ciò, si può proprio sostenere sul serio che Ennio, per avere introdotto nel
proemio degli Annali la finzione della metempsicosi di Omero nel suo corpo, non
potesse più in tutto il resto della sua vita parlare di Omero come di un gran can-
tore di gesta? O che con l’esaltare Omero temesse di far torto a se stesso? Data la
metempsicosi omerica, ciò non era possibile!». Queste stesse osservazioni, tutta-
via, mi inducono anche a mettere in discussione l’ipotesi che l’esaltazione ennia-
na di Scipione (e, insieme, di Omero) testimoniata dalla Suda non potesse aver
luogo negli stessi Annali. Anche in quest’opera il presentarsi come un nuovo
Omero poteva costituire il presupposto con cui Ennio si accingeva a celebrare Sci-
pione; si ricordi fra l’altro che, secondo l’opinione di molti studiosi, tra cui anche
O. Skutsch (1985, 376-378), Ennio stesso, nel proemio del VII libro degli Annali
(211 s. Sk.), aveva fatto la «spregiudicata ammissione (probabilmente in polemi-
ca con avversari) che il sogno del I degli Annales [in cui si parlava della trasmi-
grazione dell’anima di Omero in Ennio] era da intendersi, appunto, come una
creazione poetica»47; dopo questa sorta di ‘rottura della illusione narrativa’, En-
nio poteva benissimo, nei libri successivi, celebrare Scipione richiamandosi a
Omero come sommo modello di poesia.

Solo per completezza segnalo che – come ricordava già Roeper 1868, 27 – nel-

47 S. Timpanaro, «RFIC» 119, 1991, 29; cfr. anche «RFIC» 121, 1993, 107.
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208 Le opere minori di Ennio

la Excerptio de arte grammatica Prisciani di Rabano Mauro (783-856) tra i prota-


gonisti delle fabulae praetextae viene menzionato anche l’Africano (PL 111,670 B
Migne: in praetextata autem, qua inscribuntur nomina Latina, ut Brutus uel Decius.
Item Marcellus uel Africanus, et his similia): una testimonianza così tarda deve es-
sere usata con molta cautela, e ad essa non si può certo dare un valore decisivo
per la difficile questione del genere letterario dello Scipio48.

Sulla datazione dello Scipio sono state avanzate varie ipotesi, spesso inavverti-
tamente contrastanti tra loro, nessuna delle quali appare fondata su dati suffi-
cientemente solidi o argomentazioni incontrovertibili49. A questo riguardo abbia-
mo già visto la debolezza delle argomentazioni con cui, sulla base della testimo-
nianza della Suda, a partire da F. Skutsch, si è voluta stabilire l’anteriorità dello
Scipio rispetto agli Annales, la cui composizione, secondo Skutsch 1985, 6, sareb-
be stata iniziata nel 184, e che in ogni caso sono in genere considerati opera degli
ultimi 15-20 anni di vita di Ennio (sulla sua data di marte cfr. sopra, p. 9 e n. 1).
Indipendentemente dalla testimonianza della Suda, alcuni studiosi hanno soste-
nuto che lo Scipio fosse stato composto da Ennio poco dopo l’anno 201, quando
Scipione, vittorioso su Annibale, ritornò dall’Africa a Roma, e ricevette grandi ac-
clamazioni dal popolo romano (cfr. Liv. 30, 45, 1): e certo non è inverosimile che,
come osserva Traglia 1986, 60, un’opera celebrativa come lo Scipio sia stata com-
posta nel momento di massima fortuna del suo protagonista50. Ma che la compo-
sizione dello Scipio sia avvenuta all’immediato ridosso del ritorno di Scipione dal-
l’Africa non può trovare conferma, come sembra presupporre Vahlen 1903, XII
s. e CCXVII, nel fatto che, per affermare che oggetto delle laudes di Ennio fu Sci-
pione, quest’ultimo viene indicato da Orazio (carm. 4, 8, 18s.) con la perifrasi qui
domita nomen ab Africa / lucratus rediit: queste parole possono semplicemente es-
sere considerate, appunto, una perifrasi per indicare un personaggio ricordando-
ne la sua impresa più celebre; inoltre, l’altro argomento che Vahlen (1903, CCX-
VII) traeva da Var. 6-8 per la datazione dello Scipio subito dopo l’anno 201, è sta-
to convincentemente controbattuto da Pascal 1915, 376-377.
Senza menzionare queste ipotesi, che collocano lo Scipio in un’epoca sicura-
mente anteriore alla composizione degli Annales, M. Martina 1979, 17 (=2004,
49) ha sostenuto, al contrario, che lo Scipio è successivo alla composizione del
poema enniano, o almeno di larga parte di essi, e comunque all’anno 180 (e risa-

48 Non credo tuttavia che la testimonianza di Rabano possa essere liquidata sbrigativamente, con Ribbeck,

come pura invenzione: tutti gli altri personaggi qui menzionati assieme all’Africano furono effettivamente pro-
tagonisti di praetextae a loro dedicate (Brutus e Decius nelle omonime preteste di Accio; Marcellus nel Clastidium
di Nevio); sulle varie ipotesi formulate a proposito della menzione dell’Africano come protagonista di una prae-
texta nella testimonianza di Rabano Mauro cfr. l’ampia e dettagliata rassegna di Gesine Manuwald, Fabulae prae-
textae. Spuren einer literarischen Gattung der Römer, München 2001, 89.
49 Sulla questione cfr. Pascal 1915, 376-380 e Winiarczyk 1994, 280 ss. (con dossografia a p. 281 n. 28).
50 Con questa ipotesi concorda ora anche Winiarczyk 1994, 281.
007_scipio introduzione193 9-01-2008 12:26 Pagina 209

Scipio - Introduzione 209

le dunque a un’epoca successiva alla morte di Scipione, avvenuta nel 183 circa)
perché solo a partire da questa data, dopo un periodo di rapporti ostili, si instaurò
una alleanza politica tra Marco Fulvio Nobiliore, il già ricordato patrono di En-
nio, e il gruppo degli Scipioni. Martina indaga i cambiamenti di alleanza tra Mar-
co Fulvio Nobiliore e gli altri autorevoli rappresentanti della classe dirigente ro-
mana con un’ampia e documentata ricostruzione che è stata accolta da Skutsch
1985, 573, il quale segue anche Martina nel ritenere che tali cambiamenti di al-
leanza avrebbero influenzato la produzione letteraria di Ennio, inducendolo a
trattare, a seconda delle circostanze, in modo ora ostile, ora amichevole, i rappre-
sentanti della famiglia degli Scipioni (di Skutsch 1985 cfr., oltre a p. 573, già cita-
ta, anche, p. 1 e 2); contrariamente a Martina, tuttavia, Skutsch continua a ritene-
re lo Scipio, come abbiamo visto sopra, anteriore agli Annales (Skutsch 1985, 3),
senza però spiegare come questa cronologia possa essere resa compatibile con la
ricostruzione di Martina da lui accolta.
Forse Skutsch ha ritenuto, come ritengo anch’io che non si possa escludere, che
i rapporti di ostilità che, fino al 180, intercorsero tra Marco Fulvio Nobiliore e al-
cuni rappresentanti del gruppo degli Scipioni, non potevano condizionare Ennio
fino al punto di impedirgli la celebrazione di un personaggio che, come Scipione,
aveva compiuto una grande impresa quale fu la vittoria della seconda guerra pu-
nica, durante la quale Roma aveva subito grandissime perdite e aveva corso il se-
rio rischio di essere sopraffatta da Cartagine. In ogni caso non appare possibile di-
mostrare che negli Annales si parlasse poco e in modo poco elogiativo di Scipio-
ne: Martina 1979, 18 (=2004, 49) infatti sostiene questa tesi solo sulla base di una
interpretazione poco conviencente di Ann. 312-3 V.2 = 312-3 Sk.51
Della cronologia stabilita da Martina non tiene conto neppure Courtney 1993,
4, il quale continua a datare la composizione dello Scipio a un’epoca anteriore al-
l’inizio della composizione degli Annales (che Courtney, richiamandosi a Skutsch,
fissa al 184), ma posteriore al 187. Ma il terminus ante quem (il 184) viene fissato
da Courtney ricorrendo ancora una volta a quelle deduzioni che si sono volute
trarre dalla testimonianza della Suda e che abbiamo cercato di confutare sopra;
per quanto riguarda il terminus post quem dello Scipio (il 187), esso viene fissato
da Courtney sulla base di due argomenti, il primo dei quali, tuttavia, viene rica-
vato da un’erronea interpretazione di un passo di Livio (cfr. comm. a Scipio I, p.
209 s.); il secondo presuppone l’attribuzione allo Scipio del seguente frammento
(Enn. 34 nell’ed. di Courtney = Enn. sc. 12 V.2 = tr. 326-27 R) che abbiamo già
avuto modo di citare sopra (cfr. n. 22) per altra ragione:

eo <ego> ingenio natus sum:


<aeque> amicitiam atque inimicitiam in frontem promptam gero

51 Cfr. Skutsch 1985, 489 n. 5, che è appunto una implicita obiezione a Martina.
007_scipio introduzione193 9-01-2008 12:26 Pagina 210

210 Le opere minori di Ennio

in cui qualcuno afferma: «tale è la mia natura: io porto scritte in fronte allo stes-
so modo l’amicizia e l’inimicizia»52. Secondo Courtney, questo frammento pro-
verrebbe dal discorso che Scipione, come ci informa Livio (38, 50, 11) pronunciò
nel 187 in propria difesa in séguito agli attacchi di cui fu oggetto da parte di al-
cuni esponenti politici romani e che lo indussero a passare gli ultimi anni della sua
vita in un fiero autoisolamento nella sua villa presso Literno, in Campania. Se si
colloca in tale contesto la composizione dello Scipio, quest’opera sarebbe allora da
considerare, come afferma Courtney 1993, 30, «Ennius’ reaction to attacks to Sci-
pio»; e si badi che tale reazione sarebbe avvenuta, secondo l’ipotesi di Courtney,
quando Scipione era ancora vivo e le accuse a suo carico erano uno scottante ar-
gomento di attualità. Una ipotesi analoga proponeva, ma con cautela, anche Pa-
scal 1915, 379-380, ma sulla base di un argomento diverso da quello utilizzato da
Courtney, e cioè la testimonianza di Sat. VII nam is non bene uolt tibi, qui falso cri-
minat / apud te, in cui Pascal riconosceva un’ulteriore allusione ai processi subiti
da Scipione a partire dal 187. Ma l’argomento di Pascal presupponeva l’identifi-
cazione – oggi non più accolta, come si è visto sopra – dello Scipio con il III libro
delle saturae, a cui Sat. VII viene attribuito (ma non senza incertezze: cfr. sopra,
p. 114) dalla fonte che lo cita. Per quanto riguarda poi Enn. 34 Courtney, sopra
citato, a cui si richiama Courtney, bisogna osservare innanzitutto che esso signifi-
ca, in sostanza, come rilevava già Timpanaro 1948, 6, «io amo la sincerità» e che
questo è «un pensiero così comune, che si può trovare anche in cento altri passi
di autori antichi»; sulla base di questo contenuto assai generico non è quindi pos-
sibile vedere una precisa allusione al processo a Scipione né risulta, dalle altre fon-
ti antiche che ci parlano di quel processo, che in quella sede Scipione abbia pro-
nunciato frasi di contenuto analogo; un’allusione al processo a Scipione si po-
trebbe almeno ipotizzare se potessimo stabilire con una certa probabilità l’appar-
tenenza del frammento allo Scipio: ma anche questa attribuzione si basa su argo-
menti troppo incerti: Courtney la deduce dal fatto che esso viene introdotto da
una delle fonti, Aulo Gellio, con le parole Q. Ennius in illo memoratissimo libro
dixit. Ma abbiamo già visto che il fatto che Gellio indichi l’opera di provenienza
del frammento con il termine liber non permette di escludere che tale opera fos-
se una tragedia, a cui il frammento era stato assegnato da Vahlen 1903 (sc. 12) e
Ribbeck (tr. 326-7 R.3), sebbene, come osservava Timpanaro (l. c.), anche per que-
sta attribuzione non vi siano argomenti cogenti: per queste ragioni converrà col-
locare tale frammento tra quelli di opera incerta.

52 Utilizzo qui, con qualche adattamento, la traduzione del frammento proposta da Timpanaro 1948, 6.
008_scipio FR. ecc.211 9-01-2008 12:28 Pagina 211

Scipio - Commento, fr. I (= Var. 1-2 V.2 = Op. inc. IV Sk.) 211

Scipio
Commento ai frammenti

Scip. I (= Var. 1-2 V.2 = Op. inc. IV Sk.)

Questa citazione enniana è contenuta in una biografia attribuita a Trebellio


Pollione (uno dei sei autori – probabilmente fittizi – che, secondo la tradizione,
realizzarono la Historia Augusta e che per comodità qui continuerò a indicare con
‘Trebellio’) ed è dedicata all’imperatore Marco Aurelio Claudio Augusto, noto an-
che con il nome di Claudio il Gotico (268-270 d.C.). Si è comunemente ritenuto
che ‘Trebellio’ si limiti a riportare il senso complessivo di un passo enniano, sen-
za citarlo letteralmente, perché è risultato difficile riconoscere in esso una qual-
siasi struttura metrica1: tutte le numerose congetture proposte, infatti, mirano
esclusivamente a ottenere determinati schemi metrici con integrazioni e muta-
menti che, come risulta dal seguente prospetto, non influiscono affatto sul senso
complessivo del testo tràdito:

esametri:
O quantam statuam faciet quantamque columnam
Romanus populus: res quae ac tua gesta loquatur
Colonna 1585;
Quam tantam statuam statuet populus Romanus
Quamue columnam quae te res gestasque loquatur?
Lachmann ad Lucr. 3,1034;

saturni:
quantam statuam Romanus | faciet populus, <Publi,>
quantam columnam, quae | res tuas gestas loquatur?
Baehrens 1886;

senari giambici:
Quam statuam statuet populus Romanus <tibi>,
Quantam columnam <subriget> quae res tuas
gestas loquatur
Skutsch 1985 in apparato critico2;

1 Così ad es. Skutsch 1985, 753: «‘Trebellius’ is clearly not quoting literally. Several alterations are requi-

red to produce either dactylic or dialogue metre».


2 Se non capisco male, Skutsch nel testo si limita a riportare il testo tràdito, rinunciando a dare una qual-

siasi forma metrica al testo: ma se è così, non si capisce perché Skutsch riporti il testo andando a capo dopo
populus Romanus, dando l’impressione che dopo queste parole vi sia fine di verso.
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212 Le opere minori di Ennio

settenari trocaici:
quantam statuam statuet <, Publi,> populus Romanus tibi
<vel> quantam columnam, <digne> quae loquatur res tuas?
proposta in app. exempli gratia da L. Müller 1884;
<o tum> quantam statuam faciet populus R. <tibi,
Scipio>, quantam columnam, <claro> quae <praeconio>
res tuas gestas loquatur.
Courtney 1993.

Ma Sc. Mariotti 1951, 49 s. (=1991, 37 et cf. Mariotti 1998, 206 s.) ha dimo-
strato che le parole citate da ‘Trebellio’, senza alcuna correzione, «possono e quin-
di debbono» essere misurate come un ottonario trocaico seguìto dall’inizio di un
altro ottonario (o di un settenario3) trocaico (con tuas monosillabo per sinizesi). Il
fatto che la proposta di Mariotti non sia stata accolta è dovuto a ragioni varie, non
sempre individuabili con sicurezza: agli editori della fonte, essa sarà probabil-
mente rimasta ignota; nei pochi casi in cui viene menzionata, la proposta di Ma-
riotti viene chiaramente fraintesa4; per quanto riguarda il silenzio di Courtney sul-
la proposta di Mariotti, la questione è più complessa: è infatti probabile che, an-
che se l’avesse conosciuta, Courtney non l’avrebbe comunque accolta perché essa
non solo non risolveva, ma addirittura aggravava il problema della polimetria del-
lo Scipio aggiungendo, ai metri utilizzati in quest’opera (il settenario trocaico e l’e-
sametro), anche l’ottonario trocaico. È appunto per evitare questa polimetria che
Courtney sistema il testo tramandato da ‘Trebellio’ in settenari trocaici5. Come ab-
biamo visto nell’introduzione, tuttavia, la polimetria dello Scipio può essere ac-
cettata ammettendo che quest’opera enniana fosse una pretesta, ipotesi che
Courtney respinge con argomentazioni non decisive6. La proposta di Mariotti non
viene menzionata neppure da Skutsch 1985; ma qui l’omissione sembra davvero
tanto deliberata quanto inspiegabile: la presenza nello Scipio di un ottonario tro-
caico non poteva certo dare fastidio a Skutsch, dato che egli stesso, come abbia-
mo visto, propone, seppure dubitativamente, una scansione in senari giambici e
ammette quindi, per lo Scipio, la compresenza di metri vari.

3 Per l’alternanza di ottonari e settenari trocaici già Mariotti (1998, 207) rinviava alla ricca documentazio-

ne raccolta in Timpanaro 1946, 80.


4 È infatti fuorviante presentare quella di Mariotti come una proposta «meramente congetturale» (Traglia

1986, 140) e metterla così sullo stesso piano di tutti gli altri tentativi di ricostruzione metrica: solo per questi ul-
timi, come abbiamo visto, sono richieste modifiche congetturali del testo tràdito; analogamente Suerbaum af-
fianca la scansione di Mariotti, parlando genericamente di «Trochäen», a quella di L. Müller (1884, in app. ad
l.), che però prevedeva numerose integrazioni e modifiche (cfr. sopra nel testo).
5 Per la stessa ragione Courtney cerca di scandire come parte di settenario trocaico un altro frammento,

attribuito allo Scipio (Scip. IV), che invece Mariotti considera un esametro intero.
6 Il fatto che le parole vengano introdotte dalla fonte con dicit Ennius non obbliga a ritenere che esse sia-

no da attribuire a Ennio come voce narrante all’interno di un’opera narrativa: si può comunque ipotizzare che
lo Scipio sia un’opera drammatica, da cui ‘Trebellio’ (o la sua fonte) cita delle parole pronunciate da un perso-
naggio, ma attribuendole a Ennio in quanto autore (cfr. ad es. Cic. Tusc. 4,55: at commode dixit Afranius).
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Scipio - Commento, fr. I (= Var. 1-2 V.2 = Op. inc. IV Sk.) 213

Con la scansione del frammento in metro trocaico, viene esclusa automatica-


mente la sua attribuzione (ipotizzata ad es. da Lachmann) agli esametrici Annales,
e risulta assai verosimile anche la sua appartenenza allo Scipio; non si può ricava-
re un argomento contro questa attribuzione dal fatto che il frammento viene cita-
to in un testo come l’Historia Augusta, di datazione incerta, ma sicuramente non
anteriore al 400 d.C.: anche ammesso che in quest’epoca lo Scipio fosse ormai an-
dato perduto, si può sempre supporre, come osserva Skutsch 1985, 753, che ‘Tre-
bellio’ citasse di seconda mano7.
Come risulta in parte anche dalle varie ricostruzioni che abbiamo riportato so-
pra, alla fine del frammento enniano, dunque dopo loquatur, in alcune edizioni
e citazioni si pone un punto interrogativo8, in altre un punto fermo (o nessun se-
gno di interpunzione)9. Poiché questa divergenza non è stata rilevata, e tanto me-
no discussa, non è possibile individuare con sicurezza le ragioni che, di volta in
volta, hanno indotto gli studiosi a seguire una o l’altra delle due interpunzioni; è
certo tuttavia che da esse si possono ricavare due diverse interpretazioni del
frammento: con punto fermo esso si presenta come una affermazione in cui il fu-
turo faciet esprime una constatazione secondo il valore proprio del modo indi-
cativo («che grande statua farà il popolo romano, che grande colonna che parli
delle tue imprese»); con il punto interrogativo il frammento risulta costituito da
una domanda in cui faciet ha, come molto spesso, una funzione equivalente a
quella di un congiuntivo dubitativo («che grande statua potrebbe fare il popolo
romano, che grande colonna che parli delle tue imprese?»). Certo, qualunque
delle due interpretazioni si scelga, il significato di fondo del frammento resta
immutato: in entrambi i casi, infatti, emerge l’intenzione di celebrare le imprese
di Scipione prospettando la costruzione di monumenti (statue e colonne) in suo
onore.10 Ma, a seconda che si interpreti il frammento come una domanda o co-
me una affermazione, cambia il modo in cui viene presentata la costruzione dei
monumenti e come essa viene messa in rapporto con la celebrazione di Scipione:
se intendiamo la frase come una affermazione, si celebra la grandezza delle im-
prese di Scipione esaltando la grandezza dei monumenti in suo onore, la cui co-
struzione da parte del popolo romano viene presentata come una promessa di si-
cura realizzazione; se si intende il frammento come una domanda, la grandezza
di Scipione viene celebrata ponendo in dubbio la possibilità di costruire monu-
menti in suo onore sufficientemente grandi.

7 L. Müller (1884, ad l.) considerava le parole citate da ‘Trebellio’ «ex Cicerone haud dubie [...] petita»:

per citazioni enniane nella Historia Augusta attinte da Cicerone cfr. Skutsch l. cit.
8 Così tutti gli editori della fonte ‘Trebellio’ (ma non in quella a cura di [H. Jordan-] F. Eyssenhardt, Beroli-

ni 1864) e, fra gli editori enniani, Müller 1884, Baehrens 1886, Bolisani 1935, Warmington 1935, Traglia 1986.
9 Così Vahlen 1854 e 1903, Skutsch 1986, Courtney 1993. Il frammento enniano viene citato senza punto

interrogativo anche da Mariotti 1951, 49 s. (=1991, 37).


10 Già per l’epoca enniana è attestato l’uso di colonne celebrative (Courtney ricorda le columnae Maenia,

Minucia e tre colonne rostratae: cfr. Gauer in H. Bungert, Das antike Rom in Europa, Regensburg 1985, 56).
008_scipio FR. ecc.211 9-01-2008 12:28 Pagina 214

214 Le opere minori di Ennio

Pur con alcune incertezze, interpreto il frammento come una domanda e pon-
go quindi alla fine di esso un punto interrogativo11: questa mi pare l’interpreta-
zione presupposta dalla fonte, che cita il frammento enniano subito dopo aver af-
fermato, con una domanda retorica, che i monumenti dedicati all’imperatore
Claudio il Gotico (un clypeus e una aurea statua)12 sono del tutto inadeguati a ce-
lebrare la sua straordinaria vittoria contro i barbari, che secondo ‘Trebellio’, ave-
vano invaso il territorio romano con un esercito composto dall’enorme cifra di
320.000 uomini (hos igitur Claudius ingenita illa uirtute superauit, hos breui tem-
pore adtriuit, de his uix aliquos ad patrium solum redire permisit. Rogo, quantum
pretium est clypeus in curia tantae uictoriae, quantum una aurea statua?); dopo
questa domanda, nella fonte segue appunto la citazione enniana che, secondo l’in-
terpretazione da noi seguita, ripropone, in forma di domanda rivolta a Scipione,
il motivo dell’inadeguatezza dei monumenti celebrativi rispetto alle imprese com-
piute (Dicit Ennius de Scipione: ‘quantam statuam faciet populus R., quantam co-
lumnam, quae res tuas gestas loquatur?’); ‘Trebellio’ conclude affermando che la
gloria di un imperatore che, come Claudio, non ha eguali sulla terra (così inter-
preto unicum in terris principem)13 si conserva grazie alla propria forza, e non ha
certo bisogno di essere perpetuata dai monumenti celebrativi (possumus dicere
Flauium Claudium, unicum in terris principem, non columnis non statuis sed famae
uiribus adiuuari). Certo le argomentazioni ora esposte sono da usare con cautela:
non si può infatti escludere che la fonte abbia forzato o frainteso il passo enniano
adattandolo ad un contesto diverso da quello originario; ma secondo l’interpreta-
zione qui seguita, il frammento enniano presenterebbe anche un’affinità, già no-
tata da numerosi studiosi14, con Hor. carm. 4, 8, 13-20, in cui si afferma che l’A-
fricano ebbe maggior gloria non dai monumenti, ma dalla celebrazione letteraria
che ne fecero le Calabrae Pierides, cioè Ennio.

Il tentativo più impegnato di precisare il contenuto del frammento è stato


compiuto da Pascal 1915, 388, sulla base di una problematica testimonianza li-

11 Così interpreta anche Suerbaum 1968, 241 s. anche sulla base dell’analogia con il passo di Orazio che

citiamo sotto nel testo.


12 Di cui ‘Trebellio’ aveva parlato poco prima: cfr. 3,2-5.
13 Segnalo al riguardo una discrepanza inavvertita: l’interpretazione di unicum in terris principem da noi se-

guita è quella presupposta anche dalle traduzioni di D. Magie (Loeb, 1932, III 166): «an emperor without peer
upon earth» e E. Hohl (Historia Augusta, übers. v. E. H., bearbeitet und erläutert v. Elke Merten et alii, Zürich
und München 1985, II 163): «Kaiser, wie die Welt keinen anderen gesehen hat»; a conferma di questa interpre-
tazione osservo che anche nell’unica altra occorrenza di unicus nella vita di Claudio, l’aggettivo si trova usato con
il significato di «eccezionale, straordinario» (cfr. 25,13,5: ipse Claudius insignis morum grauitate, insignis uita sin-
gulari et unica castimonia); nella traduzione di unicum in terris principem proposta da P. Soverini 1983, II 1005,
invece, unicus viene inteso nell’accezione di ‘unico, solo’ («Quale statua, quale colonna ti potrà erigere il popo-
lo romano, che possa esprimere le tue gesta? Possiamo ben dire che Flavio Claudio fu l’unico principe al mon-
do a non ricevere lustro da colonne o statue, ma dal fascino esercitato dalla sua fama»).
14 Cfr. ad es. Vahlen 1903, CCXVII e Courtney 1993. Un’ampia discussione del confronto in Suerbaum

1968, 241 ss.


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Scipio - Commento, fr. I (= Var. 1-2 V.2 = Op. inc. IV Sk.) 215

viana (38, 56, 12) che può essere valutata adeguatamente solo considerandola
all’interno del suo contesto. A partire da 38, 56, 8 ss. Livio riferisce il contenuto
di un’orazione in cui Tiberio Sempronio Gracco padre (v. ORF 4, n. 10 p. 98) bia-
simava Scipione per aver cercato, nel 18715, di salvare il fratello Lucio aggreden-
do i tribuni che ne stavano eseguendo l’arresto. A questa arroganza nei confron-
ti delle istituzioni e dello Stato, Tiberio Gracco nella sua orazione contrappone-
va la moderatio e la temperantia (Liv. 38, 56, 11) che lo stesso Scipione aveva mo-
strato in passato quando, ad esempio, oltre a biasimare l’intenzione del popolo
di nominarlo console e dittatore perpetuo, proibì che venissero collocate statue
in suo onore (Liv. 38, 56, 12: castigatum quondam ab eo [scil. Scipione] populum
ait [scil. Ti. Gracchus] quod eum perpetuum consulem et dictatorem uellet facere;
prohibuisse [scil. Scipionem] statuas sibi in comitio in rostris in curia in Capitolio
in cella Iouis poni16). Proprio i monumenti celebrativi in suo onore rifiutati in
quell’occasione da Scipione sarebbero – secondo Pascal (e chi ne ha accolto la te-
si) – quelli che a lui vengono offerti nel nostro frammento: le parole enniane,
dunque, non sarebbero una generica celebrazione di Scipione, ma ricorderebbe-
ro un episodio realmente avvenuto in cui venne espresso il desiderio di celebra-
re Scipione innalzando statue in suo onore; che tale desiderio venisse espresso
proprio dal popolo romano, come supponeva Pascal17, non è detto espressa-
mente da Livio, che al popolo romano attribuisce solo la volontà di nominare
Scipione console perpetuo18, ma si può facilmente sottintendere; inoltre, sempre
secondo la ricostruzione di Pascal, nel testo enniano, alla richiesta di innalzare
statue in onore di Scipione ricordata nel nostro frammento sarebbe seguito il di-
vieto che a tale riguardo, secondo la testimonianza liviana, venne manifestato da
Scipione.
Che il nostro frammento enniano alluda all’episodio narrato nel passo di Livio
ora citato era stato ritenuto probabile già da Vahlen (che cita il passo liviano nella
sezione dei ‘Testimonia’ della sua seconda edizione)19 e, probabilmente sulla scia
di quest’ultimo, da Courtney. Bisogna tuttavia ricordare che è stato autorevolmen-
te negata ogni realtà storica non solo all’offerta che il popolo romano rivolse a Sci-
pione di costruire statue in suo onore, ma anche a tutta l’orazione di Ti. Gracco
che ci riferisce questo episodio; proprio per il suo contenuto, infatti, tale orazione
(sulla cui autenticità, d’altro canto, lo stesso Livio in 38, 56, 5-6 si mostra dubbio-

15 Ma altri datano questo avvenimento al 184: cfr. T.R.S. Broughton, The magistrates pf the Romar republic,

Cleveland 1968: I 378 n. 4.


16 Da Livio dipende Val. Max. 4, 1, 6.
17 Cfr. Pascal 1915, 398: «il popolo, [...] fanatico di Scipione Africano, [...] avrebbe voluto crearlo console

a vita e dittatore ed elevargli statue dappertutto».


18 Il Pascal riferiva questa precisa circostanza il frammento enniano (Var. 4-5 V.2 = ann. 256 s. Sk.: uel tu dic-

tator uel equorum equitumque magister / esto uel consul) e ne rivendicava quindi l’attribuzione allo Scipio: ma
Skutsch 1985, comm ad loc., ha dimostrato che tale frammento si riferisce a una circostanza del tutto diversa, e
che esso deve essere attribuito agli Annales.
19 Che tuttavia non menziona il Pascal.
008_scipio FR. ecc.211 9-01-2008 12:28 Pagina 216

216 Le opere minori di Ennio

so) è stata ritenuta una falsificazione risalente all’epoca immediatamente prece-


dente alla morte di Cesare (cfr. Skutsch 1985, 438 s. e 753, che segue un’ipotesi di
Th. Mommsen, Rönische Forschunger, Berlin II (1879), 420); per la verità la tesi di
Mommsen era già stata contestata da Pascal 1915, 389, con argomenti che Skutsch
non solo non discute, ma neppura menziona, e che tuttavia a mio avviso non ap-
paiono disprezzabili: in attesa di ulteriori approfondimenti, in ogni caso, sarà op-
portuno lasciare la questione aperta20.
Ma anche ammesso, con Courtney, che l’episodio narrato da Livio sia real-
mente avvenuto, e che ad esso si riferisca il nostro frammento enniano, non è co-
munque possibile trarre da questa allusione le deduzioni a cui arriva Courtney
sulla base di un uso erroneo della testimonianza liviana che non era stato com-
piuto da quanti vi si erano richiamati in precedenza. In commento al frammen-
to, Courtney data il divieto espresso da Scipione di collocare statue in suo onore
all’anno 18721: anche sulla base di questo presupposto, Courtney, nell’introdu-
zione generale alle opere minori di Ennio, indica appunto il 187 come terminus
post quem dello Scipio22. Ma secondo la testimonianza liviana, come abbiamo vi-
sto, il 187 non è l’anno in cui Scipione vietò la collocazione di statue in suo ono-
re, ma l’anno in cui tale episodio venne ricordato nell’orazione di Ti. Gracco, il
quale sembra anzi presentare il divieto espresso da Scipione riguardo alle statue
in suo onore come un fatto appartenente a un’epoca ormai remota, quando Sci-
pione si mostrava ancora moderato e rispettoso delle istituzioni (tutti i compor-
tamenti virtuosi di Scipione, tra cui anche il rifiuto di avere statue in suo onore,
sono rubricati nel resoconto liviano tra le ueteres laudes moderationis et tempe-
rantiae di Scipione23). È possibile che qui Tiberio Gracco accentuasse la lonta-
nanza nel passato di questi fatti per enfatizzare il contrasto tra lo Scipione mo-
derato di un tempo e quello arrogante che si trovava di fronte: in ogni caso, dal-
la testimonianza liviana noi possiamo dedurre solo un terminus ante quem, ap-
punto il 187, e solo per datare l’episodio in cui Scipione vietò la collocazione del-
le statue; anche se si ritenesse sicuro, dunque, che il nostro frammento si riferi-
sca a tale episodio, noi non ricaviamo da questo dato alcun termine utile per la
datazione dello Scipio.

faciet: Skutsch, seguendo Lachmann, ritiene necessario correggerlo in statuet


sulla base dell’osservazione che in latino l’espressione specifica per dire “erigere

20 Si veda anche la bibliografia cit. dalla Malcovati in ORF4, n. 10 p. 98.


21 Cfr. Courtney 1993, 26: «It [cioè il frammento enniano] probably alludes to Scipio’s rejection of himself
(Livy 38,56,12; 187 BC.)»
22 Cfr. Courtney 1993, 4): «a possible [terminus post quem] for the Scipio of 187 (30 [cioè il nostro fr.], 34)»:

questo terminus viene considerato «possible» da Courtney non perché si metta in dubbio che il divieto espres-
so da Scipione risalga al 187, ma solo per esprimere quella cautela che, come abbiamo visto, Courtney manife-
sta in commento nel riferire il frammento proprio a questo episodio.
23 Liv. 38, 56, 11.
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Scipio - Commento, fr. I (= Var. 1-2 V.2 = Op. inc. IV Sk.) 217

una statua” era statuam statuere (cfr. ad es. Enn. ann. 567 V.2 = 574 Sk. huic sta-
tuam statui: altre attestazioni del sintagma nel comm. di Skutsch a questo fr., p.
720): ma non si può obbligare un autore a usare sempre lo stesso nesso, e d’altro
canto il nesso statuam facere è giustificabile se si considera che già in latino arcai-
co facere era usato come verbo buono per tutti gli usi24.

res tuas gestas: cfr. Cic., Marc. 29 laudibus ad caelum res tuas gestas efferent;
ibid. 4 enarrare res tuas gestas.

24 Riprendo qui gli argomenti con cui Sc. Mariotti difese la paternità enniana di faciet nell’ambito di un suo

seminario tenuto a Firenze il 31 ottobre 1996.


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218 Le opere minori di Ennio

Scip. II (= Var. 13 V.2)

Questo frammento ci è conservato da Aulo Gellio, il quale dichiara di dipen-


dere a sua volta da una citazione fattane dal grammatico Valerio Probo (circa 20-
105 d.C.): non abbiamo dunque elementi per poter stabilire che Gellio abbia vi-
sto direttamente lo Scipio, opera che Gellio non cita mai altrove esplicitamente1.
Gellio afferma esplicitamente che il frammento è un uersus quadratus, cioè un
settenario trocaico2, e l’indicazione del metro è in questo caso strettamente fun-
zionale all’esigenza di far apprezzare una particolarità prosodica per la quale il
nostro frammento è stato citato da Gellio e, prima, anche da Valerio Probo: in
Hannibalem bisogna presupporre che la penultima sillaba (-ba-) abbia non, co-
me è il caso più frequentemente attestato in latino, quantità breve, ma lunga
(Eum uersum quadrato numero factum subiecimus, in quo, nisi tertia syllaba de
Hannibalis nomine circumflexe promatur, numerus clausurus est). A questo pro-
posito, Courtney 1993, 28 rinvia sia a Leumann 1977, 111, sia al commento di
Skutsch a Enn. Ann. 371 Sk. (cioè Skutsch 1985, 538, a cui però si deve aggiun-
gere anche p. 60) per sostenere non solo che Hannib a l- era la quantità originaria
(ancora attestata in Varr. Men. 213) – e questa appare in effetti l’ipotesi più pro-
babile proprio alla luce della documentazione offerta da Leumann – ma anche
che Hannib â l, dunque con la prosodia più recente -b â-, sarebbe stato utilizzato
da Ennio in Ann. 371 Sk. per adattare il nome all’esametro. Ma questa ipotesi
sull’origine di Hannib â l è sostenuta in realtà solo da Skutsch: Leumann invece ri-
tiene che all’origine di Hannib â l vi sia la consueta tendenza del latino ad abbre-
viare le vocali in sillaba finale di parola non terminante per -s3, fenomeno che in-
vece Skutsch, in altre pagine del suo commento agli Annales, si mostra molto ri-
luttante ad ammettere in Ennio, ma senza reali ragioni (cfr. la nostra discussione
su splendêt in comm. a Scip. IV)4.
Il presupposto che, come ci conferma esplicitamente Gellio, il nostro verso fos-
se un settenario trocaico ci garantisce che esso, nella forma in cui ci è giunto, pre-
senta nella parte iniziale la lacuna di una sillaba; si può anche essere sicuri che ta-
le lacuna debba essere attribuita a un guasto verificatosi nella tradizione mano-

1 Courtney 1993, dopo altri, attribuisce allo Scipio anche un altro frammento (sc. 12 V.2 = Enn. 34 Court-

ney) che però Gellio cita senza indicarne l’opera di provenienza, e che, come cerco di mostrare nell’introduzio-
ne, p. 203 s., è opportuno inserire tra i frammenti di opera incerta.
2 Sul nome (trochaicus) quadratus, ricalcato sul greco tetravmetron, cfr. C. Questa, «QuadUrb» 1, 1966, 21

ss. e lo Specimen del Nomenclator metricus Graecus et Latinus a cura di G. Morelli e M. De Nonno, Hildeshein
2001, 40 s.
3 Leumann aggiunge inoltre l’ipotesi che l’abbreviamento per analogia con il nominativo Hanniba±l, si sia

introdotto anche nel resto della declinazione, dove bâ non si trovava in sillaba finale.
4 Sulla base di queste considerazioni appare ragionevole ritenere che se Hanniba±l negli Annales è dovuto

a necessità metrica, esso è stato comunque facilitato da una tendenza prosodica – appunto l’abbreviamento di
vocale in sillaba finale di parola non terminante per s – già attestata in altri passi enniani. Sulla questione cfr. an-
che H. Mýsliwiec, «Eos» 78, 1990, 315-324.
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Scipio - Commento, fr. II (= Var. 13 V.2) 219

scritta di Gellio, e non a una omissione da parte di Gellio stesso, il quale, come si
è visto, doveva aver citato il settenario trocaico per intero: per questo motivo a ra-
gione la lacuna è stata presupposta non solo nelle edizioni del frammento, ma an-
che nelle edizioni della fonte che ce lo tramanda.
Per sanare questa lacuna sono state avanzate varie integrazioni, alcune decisa-
mente improbabili, altre possibili, ma nessuna sicura. Ogni ipotesi di integrazio-
ne può essere comunque valutata più adeguatamente tenendo presente che il re-
sto del frammento, così come ci è stato tramandato, può essere interpretato in due
modi nettamente diversi:

1) secondo l’interpretazione più diffusa:


a) propter costituisce, in connessione con copias, un complemento di stato in
luogo («vicino alle truppe») che specifica il precedente locativo qua;
b) considerat è 3a pers. sing. del piuccheperfetto di consido ‘mi accampo’, for-
mato non sul più comune tema del perfetto consed-, bensì sul più raro tema
consid- (su cui cfr. Neue-Wagener III 314 s. e Th. l. L. IV [1907], 432, 66 ss.)5.

In questo modo il nostro frammento enniano significa «dove si era accampato


presso le truppe di Annibale».

2) Ma Warmington 1935 – a quanto mi risulta, per la prima volta – in alternativa


a questa interpretazione accolta anche da lui nel testo, propone in nota (p. 396
n. b) questa traduzione del testo: «wherefore he reconnoitres Hannibal’s host»
(«per cui egli passa in rassegna le truppe di Annibale»). Secondo tale alternati-
va, dunque:
a) propter, riferito a qua – che, secondo il testo tràdito, lo precede immediata-
mente – forma il nesso relativo causale quapropter («per la qual cosa»);
b) considerat è 3a persona singolare non del verbo consido, ma di considero (e
quindi copias ne è il complemento oggetto, e non più un accusativo che, in
connessione con propter, esprime un complemento di stato in luogo).

Quest’ultima interpretazione presuppone necessariamente la presenza di qua,


ed è dunque incompatibile con le ricostruzioni congetturali del frammento in cui

5 In Neue-Wagener anche il nostro frammento enniano viene citato appunto come testimonianza del tema

del perfetto di consido in consid-, ma si attribuisce a R, uno dei tre codici fondamentali della fonte Gellio, la va-
riante consederat: ma questo dato è erroneo, e dipende dalle numerose indicazioni contraddittorie che al riguar-
do venivano fornite dagli editori anteriori a Neue-Wagener, e che talora (come nell’app. cr. dell’editio maior di
Gellio curata da M. Hertz, 1883-1885) attribuivano ai codici VR anche la forma al plurale considerant (accolta
nel testo del frammento da Baehrens 1886; consederant era inoltre la lezione presupposta da Voss 1651, 10 cita-
to più avanti nel testo): per eliminare ogni ambiguità in una situazione così confusa, molto opportunamente Mar-
shall 1968, nella sua edizione di Gellio, esplicita in apparato che la lezione considerat accolta nel testo è tràdita
da tutti i 3 codici principali VPR.
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220 Le opere minori di Ennio

tale elemento è assente, come ad esempio et qui (o, in alternativa, quique) che Voss
1651, 10, proponeva per sanare la lacuna iniziale del verso. Che, d’altro canto, en-
trambe le integrazioni di Voss presuppongano la prima delle interpretazioni del
frammento che abbiamo indicato sopra, è dimostrato anche dal fatto che secon-
do Voss il testo tràdito è non considerat, ma consederant (al plurale e con la e in-
vece della i nel tema del perfetto6), e dunque una forma inequivocabilmente deri-
vata da consido: secondo la ricostruzione di Voss, dunque, qui era da intendersi
come plurale del pronome relativo e il frammento significherebbe: «e i quali si
erano accampati presso le truppe di Annibale». Entrambe le integrazioni <et> qui
o qui<que> sono tuttavia rese a priori improbabili dal fatto che esse prendevano
le mosse da qui 7, e non da qua che, come è stato appurato a partire dalla prima
edizione gelliana curata da M. Hertz (1853), è da considerare il testo tràdito, e non
vi sono ragioni che impongano di correggerlo: la lezione qua, infatti, non solo è
presupposta, come si è visto, dall’interpretazione 2 sopra indicata, ma risulta an-
che compatibile con l’interpretazione 1, purché si intenda qua non come relativo
connesso con propter, ma come avverbio di luogo a sé stante.
Ed è proprio sulla base di quest’ultima interpretazione che qua è stato accol-
to nel testo da tutti gli editori a partire da Hertz, che sulla base di questa lezio-
ne proponeva l’integrazione qua<que>. Certo, Hertz avanzava questa congettura
senza esplicitare quale interpretazione complessiva del frammento essa presup-
ponesse, ed è vero che la sua integrazione, che prevede l’inserzione dell’enclitica
-que tra qua e propter, non è a rigore incompatibile con l’interpretazione 2: si po-
trebbe, infatti, ipotizzare che il nesso causale quapropter sia usato in qua<que>
propter con una tmesi analoga a quella che si ritrova in Plaut. Amph. 815 quid ego
feci, qua istaec propter dicta dicantur mihi? E tuttavia, che Hertz abbia proposto
la congettura qua<que> presupponendo l’interpretazione 1 è dimostrato dalle
seguenti considerazioni: l’interpretazione 2 è stata esplicitamente prospettata,
come si è visto, nel 1935, da Warmington, e quindi molto dopo Hertz; l’inter-
pretazione 1 era proprio quella presupposta, come abbiamo visto, dalla prece-
dente congettura di Voss da cui Hertz prendeva le mosse; inoltre, Hertz non
poteva che presupporre sempre e soltanto l’interpretazione 1 quando, vent’anni
dopo, nella sua editio maior di Gellio (1883-85), proporrà (ma solo in appara-
to critico, e con espressioni di grande cautela) di correggere qua in qua<rto>8

6Sull’infondatezza di tale variante cfr. sopra, n. 5.


7Cfr. Voss 1651, 10: «apud eum [Gellium] perperam Qui pro et qui, vel quique, legitur vulgo».
8 «Possis etiam de Quarto cogitare in re perincerta». Nel testo Hertz accoglieva invece la congettura <si>

qua proposta da F. Bücheler («RhM» 20, 1865, 436) e ancora segnalata nel selettivo apparato critico dell’ed. di
Gellio curata da Marshall (1968): io tuttavia confesso di non capire quale interpretazione complessiva del fram-
mento tale integrazione presupponga (quale significato dovrebbe avere in questo caso qua?), né Bücheler forni-
va alcun chiarimento al riguardo. L’unica spiegazione possibile sarebbe, come mi suggerisce A. Cavarzere, por-
re una virgola dopo si, e considerare il resto come una sorta di inciso; in alternativa Cavarzere mi suggerisce l’in-
teressante integrazione ast, la cui caduta si spiegherebbe bene per semi-aplologia dopo est, che nella fonte pre-
cede immediatamente l’inizio del frammento enniano.
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Scipio - Commento, fr. II (= Var. 13 V.2) 221

(il frammento verrebbe così a significare: «per la quarta volta si accampò vicino
alle truppe di Annibale»): anche in questo modo veniva infatti escluso qua, la cui
presenza invece, come si è detto, è un presupposto indispensabile per l’interpre-
tazione 2.
La congettura qua<que> era accolta anche da Vahlen (in entrambe le sue edi-
zioni enniane) e anche in questo caso sulla base dell’interpretazione 19: lo dimo-
stra il fatto che Vahlen intende considerat (come bisogna intendere secondo l’in-
terpretazione 1) piuccheperfetto di consido, e appunto per documentare questa
particolare forma verbale, basata sul raro tema del perfetto consid-, in app. criti-
co al nostro frammento Vahlen cita un passo di Livio (9, 37, 7 quod sine muni-
mento considerant) in cui ricorre la stessa forma del tema del perfetto di consido10;
inoltre è solo sulla base dell’interpretazione 1, che Vahlen 1903, CCVI, – sulla
scorta di C. Lehmann, Der letze Feldzug des Hannibalischen Krieges, Leipzig 1894,
569 – poteva ritenere che il nostro frammento si riferisse alla stessa situazione
di cui ci parla anche Appiano Lib. (8) 39, 161: Skipivwn [...] plhsivon A j nnivbou
metestratopevdeusen («Scipione [...] spostò l’accampamento vicino ad Anniba-
le») e cioè a un episodio verificatosi nel 202, poco prima della battaglia di Zama,
quando Scipione e Annibale, per avere un colloquio di persona, avvicinarono i
propri accampamenti.
Questo confronto appare a prima vista molto stringente, e sembra quindi offri-
re un valido appiglio all’interpretazione 1, secondo la quale, appunto, nel nostro
frammento si parla di qualcuno (che, se si accoglie l’ipotesi di Lehmann, bisogne-
rebbe identificare con Scipione) che si accampa vicino alle truppe di Annibale; al-
la testimonianza di Appiano, inoltre, si potrebbe aggiungere ciò che, sullo stesso
fatto, ci riferisce un passo di Livio (30, 29, 8-9: Ceterum Scipio cum conloquium
haud abstinuisset, ambo ex composito duces castra protulerunt ut coire ex propinquo
possent. Scipio haud procul Naraggara urbe [...] consedit). Tuttavia – come già G. De
Sanctis, Storia dei Romani, III 2, Torino 1916, 595 (=Firenze 1968, 578) obiettava
a Lehmann – tra il frammento di Ennio e il passo di Appiano «non si riscontra al-
cuna caratteristica affinità di forma; ed è possibile che l’uno e l’altro testo si riferi-
scano allo stesso fatto, ma possibile soltanto»; e le stesse considerazioni si possono
fare anche a proposito del rapporto tra il nostro frammento enniano e il passo di
Livio. Che non vi siano elementi decisivi per stabilire che il nostro frammento si ri-
ferisca alla stessa circostanza testimoniata da Appiano (e da Livio) sembra implici-
tamente riconosciuto anche da Courtney, il quale, sempre presupponendo la prima
delle interpretazioni su indicate, propone in alternativa di vedere nel nostro fram-
mento un’affinità con Liv. 21, 45, 3-4: quinque milia passuum ab Victumulis conse-
dit: ibi Hannibal castra habebat: questo passo si riferisce a un episodio della fine di

9 Sulla base di quanto abbiamo visto finora, credo che a ragione Vahlen nella sua seconda edizione (1903)

ritenga qua<que> l’integrazione meno improbabile tra quelle proposte.


10 Ma Conway-Johnson, nella loro edizione di Livio, in 9, 37, 7 normalizzano considerant in consederant.
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222 Le opere minori di Ennio

settembre del 21811, quando il console P. Cornelio Scipione (è lui il soggetto di con-
sedit nel passo liviano ora citato), padre adottivo del futuro Africano, si accampa
nei pressi dell’esercito di Annibale il quale, da poco giunto in Italia, si era insedia-
to presso Victumulae12: in quella occasione, presso il Ticino, avvenne il primo scon-
tro tra Annibale e i romani, e Scipione junior, allora appena diciassettenne, ebbe
occasione di mettere in mostra il proprio valore quando, riportando gravi ferite,
salvò il padre in combattimento (cfr. Liv. 21, 46, 7-813).
Certo anche il riferimento a questo specifico episodio è destinato a rimanere
una pura ipotesi; bisogna tuttavia riconoscere che, sulla base dell’interpretazione
2, non è possibile riferire il frammento a nessuna circostanza precisa testimoniata
da altre fonti antiche.

11 Cfr. G. De Sanctis, Storia dei Romani, Firenze 19682 (= Torino 1916), III 2, 83.
12 Città di collocazione incerta: De Sanctis, cit., 89 s. ipotizza che si trovasse nell’attuale Lomellina.
13 Secondo Servio (a Verg. Aen. 10, 799) a questo fatto storico si sarebbe ispirato Virgilio (Aen. 10, 789 ss.)

per la narrazione dell’episodio in cui il giovane Lauso sacrifica la propria vita per salvare il padre Mezenzio. È
sulla base di questi presupposti che già Colonna 1585-86, 271, come ora Courtney 1993 sulla base del passo di
Livio citato nel testo, riteneva che l’episodio di Scipione che salva il padre in combattimento fosse narrato nello
Scipio, e che da qui lo riprendesse Virgilio. G. De Sanctis, Storia dei Romani, III 2, Torino 1916, [=Firenze
19682], 25, n. 39 si mostra dubbioso sulla realtà dell’episodio perché Livio 21, 46, 10 ne registra una versione
differente, secondo la quale il console fu salvato non dal figlio, ma da uno schiavo ligure: ma ovviamente questo
non impedisce di pensare che Ennio abbia seguito nello Scipio la versione più favorevole a Scipione.
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Scipio - Commento, fr. III (= Var. 9-12 V.2) 223

Scip. III (= Var. 9-12 V.2)

Si tratta di quattro settenari trocaici (il primo dei quali incompleto del primo
piede: sull’integrazione infit cfr. sotto) con una struttura metrica particolarmente
regolare: in nessun verso vi sono casi di soluzione; il terzo e quarto verso sono gre-
canici, cioè non hanno spondei o dattili nelle sedi dispari; il terzo v. è addirittura
un settenario puro perché interamente composto di trochei (sulla prosodia
repressît cfr. Mariotti 1991, 123 e n. 20). Tale regolarità metrica non è casuale ma,
come in altri casi enniani (osserva sempre Mariotti) è in consapevole rapporto con
la solennità del contenuto, che consiste nella descrizione di un momento di so-
spensione cosmica.
Descrizioni di argomento analogo vengono usate nella tradizione letteraria
precedente (Jocelyn 1967, 296 s. cita testimonianze a partire da Eur. Bacch. 1084
s.) per enfatizzare la straordinarietà dell’avvenimento che ci si accinge a riferire
(cfr. anche RE suppl. IV 319). Nel caso di questo frammento, molti studiosi (a
partire da Ritter 1840, 390) hanno ritenuto che esso descriva le buone condizio-
ni climatiche che, come ci testimonia Livio 28, 17, 12, favorirono Scipione nel
suo viaggio per mare, compiuto nell’inverno 207-206, dalla città spagnola di Car-
tagena alle coste africane1. E tuttavia si osservi che: 1) la coincidenza tra il passo
ora citato di Livio e il frammento enniano è molto generica; nella sua pur breve
descrizione, anzi, Livio fornisce un particolare (la presenza di un vento leggero:
leni adiuvante uento) esplicitamente escluso dalla descrizione enniana (arbores
uento uacant); 2) per quanto in un’opera celebrativa (quale senz’altro doveva es-
sere lo Scipio) ci si possa aspettare l’esaltazione anche delle imprese meno signi-
ficative di Scipione, appare strano che Ennio abbia trattato con grande solennità
un episodio che, come quello riferito da Livio, appare assai poco glorioso e che
doveva risultare, anzi, assai imbarazzante per Scipione perché legato a una sua
impresa fallimentare2.
Non è possibile sapere se anche sulla base di queste considerazioni Pascal, nel
1897, ritenne il nostro frammento riferito non già alla traversata per mare del 207-
206, ma a quella del 204, quando Scipione, a capo di un’enorme flotta romana,
salpò dalla Sicilia e portò la guerra in Africa: Pascal infatti nella sua discussione
non menziona l’ipotesi alternativa sostenuta dagli studiosi precedenti. Certo è che
la traversata per mare del 204, rispetto a quella del 207-206, appare legata a
un’impresa decisamente più gloriosa di Scipione perché essa segnò una svolta de-

1 Cfr. Liv. 28, 17, 12: ipse [cioè Scipione] cum C. Laelio duabus quinqueremis ab Carthagine profectus tran-

quillo mari plurimum remis, interdum et leni adiuuante uento, in Africam.


2 Con la traversata per mare nell’inverno 207-206 di cui ci parla Livio, Scipione si era recato in Africa per

raggiungere Siface, il re dei Massili, con il quale il condottiero romano voleva stringere alleanza e procurarsi co-
sì un aiuto per realizzare il suo progetto di portare in Africa la guerra contro Cartagine. Siface, tuttavia, pur aven-
do stretto alleanza con Scipione, nel 205-204 a.C. si alleò con i Cartaginesi; sulla questione cfr. ad es. L. Pareti,
Storia di Roma, Torino 1952, II 484.
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224 Le opere minori di Ennio

cisiva a favore di Roma nella seconda guerra punica. Le stesse fonti antiche de-
scrivono la partenza della flotta romana dalla Sicilia come un evento epocale: co-
sì Livio mette in risalto l’eccezionalità dello spettacolo offerto dalla flotta in par-
tenza3 e Celio Antipatro parla in toni iperbolici dell’incalcolabile numero dei sol-
dati che presero parte a quella spedizione4. Per sostenere la propria ipotesi Pascal
si richiamava in particolare alla presunta affinità tra il nostro frammento e il se-
guente passo di Livio che descrive appunto un momento della traversata effettua-
ta da Scipione nel 204 (Liv. 29, 27, 13-15)5:
Prosperam nauigationem sine terrore ac tumultu fuisse permultis Graecis Latinisque auc-
toribus credidi. Coelius unus, praeterquam quod non mersas fluctibus naues, ceteros omnes
caelestes maritimosque terrores postremo abreptam tempestate ab Africa classem ad insulam
Aeginurum, inde aegre correctum cursum exponit, et prope obrutis nauibus iniussu impera-
toris scaphis, haud secus quam naufragos, milites sine armis cum ingenti tumultu in terram
euasisse.
Ma queste parole non permettono di sostenere che, secondo Livio e le fonti da
lui seguite, «l’approdo in Africa era avvenuto in mezzo al silenzio ed alla calma
della natura» (Pascal 1915, 389) e di ipotizzare così una precisa corrispondenza
con la situazione descritta nel frammento enniano. Le tappe finali della traversa-
ta di Scipione, infatti, erano già state descritte minutamente da Livio nei para-
grafi immediatamente precedenti a quelli citati da Pascal, e da questa descrizio-
ne risulta che alla flotta romana, quando ormai si trovava a non più di 5 miglia
dalla costa (§ 8: gubernator Scipioni ait non plus quinque milia passuum Africam
abesse), fu impedito l’approdo a causa del sorgere di una fitta nebbia (§ 10: ne-
bula [...] exorta conspectum terrae ademit) aggravata dal sopraggiungere della
notte (§ 11 Nox deinde incertiora fecit). Solo la mattina dopo, grazie al sorgere del
vento, la nebbia si dissolse, e la flotta romana riuscì a sbarcare in Africa (§ 12:
Ubi inluxit, uentus [...] coortus nebula disiecta aperuit omnia Africae litora). Può
sembrare strano che Livio, dopo aver descritto questo viaggio così travagliato, lo
riassuma con le parole prosperam nauigationem sine terrore ac tumultu: ma que-
sta espressione serve a Livio per contrapporre la versione da lui seguita a quella
risalente a Celio Antipatro, che ci descrive una navigazione certo assai più trava-
gliata. In ogni caso anche le condizioni climatiche meno sfavorevoli presupposte
dalla narrazione liviana sono ben poco affini a quella situazione di immobilità
della natura descritta nel frammento di Ennio (e qui, si osservi ancora una volta,
si ribadisce l’assenza del vento, che invece nella narrazione di Livio alterna con
la nebbia).

3Cfr. Liv. 29, 26, 1 non eo bello solum [...] sed ne priore quidem ulla profectio tanti spectaculi fuit.
4Come sappiamo sempre da Livio, 29, 25, 3-4.
5 Cfr. C. Pascal, «RFIC» 25, 1897, 86 s. (=Studii sugli scrittori latini, Torino 1900, 5), e poi ancora Pascal

1915, 386 s.; il confronto con questo passo liviano viene riproposto, senza menzionare Pascal, e quindi, a quan-
to pare, indipendentemente da lui, anche da Warmington 1935, 394, n. b.
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Scipio - Commento, fr. III (= Var. 9-12 V.2) 225

Ma le due ipotesi di contestualizzazione viste finora risultano improbabili, ol-


tre che per le singole obiezioni specifiche che abbiamo indicato sopra, anche per-
ché entrambe presuppongono che nel nostro frammento si stia parlando di con-
dizioni favorevoli alla navigazione: a questa situazione, tuttavia, come è stato no-
tato da molti studiosi spesso indipendentemente tra loro6, si addice certamente
soltanto il secondo verso del frammento, in cui si parla di Nettuno che placa le ac-
que (et Neptunus saeuos undis asperis pausam dedit), ma non gli altri, in cui si par-
la dell’arrestarsi del cielo (v. 1), del sole (v. 3) e dei fiumi (v. 4).
Per queste ragioni alcuni studiosi hanno ipotizzato che i nostri versi si riferi-
scano piuttosto a una situazione analoga a quella descritta in Verg. Aen. 10,100-
103 – dove, come riconosce anche la loro fonte Macrobio, abbiamo una chiara
imitazione del nostro frammento7 – e cioè il silenzio della natura che si viene a
creare nel momento in cui Giove, in un concilium deorum, si accinge a prendere
la parola dopo gli interventi di Venere e Giunone8; è appunto presupponendo che
anche nel nostro frammento si descriva il silenzio cosmico che accompagna l’ini-
zio di un discorso di Giove che Timpanaro (cit. nell’app. cr. ad loc.) integrava la
lacuna del primo verso con infit9. Particolarmente interessante è il confronto, ri-
proposto da vari studiosi indipendentemente l’uno dall’altro, tra il nostro fram-
mento e Paneg. in Mess. (31-27 a.C.), 124-12910 et fera discordes tenuerunt flami-
na uenti / curva nec adsuetos egerunt flumina cursus / quin rapidum placidis etiam

6 Cfr. ad es. Bolisani 1935, 42; F. Munari, Studi sulla “Ciris”, Firenze 1944, 285 (= rist., con pref. di S. Tim-

panaro, a c. di A. Cavarzere, Trento 1998, 47), n. 2 (con cui concorda S. Timpanaro nella rist. cit. degli Studi sul-
la “Ciris”, XXII e n. 19 e in 2005, 184 n. 75); osservazioni simili avanza anche Courtney 1993 senza menzionare
gli studiosi che l’avevano preceduto e dunque, forse, indipendentemente da loro. Tra questi studiosi vi sono al-
cune divergenze: Pascoli osservava che solo il v. 2 era pertinente a descrivere le condizioni meteorologiche di una
navigazione; Munari si limitava ad osservare che a questa situazione non si addiceva il v. 3, a cui Courtney ag-
giunge anche il v. 4.
7 Per la precisione, Macrobio inserisce il nostro frammento tra le imitazioni dove Virgilio introduce varia-

zioni più o meno marcate, ma in cui l’allusione ad autori precedenti è comunque evidente (6, 2, 1-30): i passi
menzionati in questa sezione vengono introdotti da Macrobio con queste parole (Sat. 6,2,1): nunc locos locis com-
ponere sedet animo, ut unde formati sint quasi de speculo cognoscas. Si noti tuttavia che in Virgilio vi è anche un
accenno al tremito che scuote la superficie terrestre (et solo tremefacta tellus) che non si trova in Ennio, ma in
Hom. Il. 1, 530 (che, assieme ai due versi precedenti, viene citato sempre da Macrobio – ma in Sat. 5, 13, 37 –
sempre a confronto di Verg. Aen. 10, 100 ss.): in base a quello che possiamo vedere, dunque, sembra che Virgi-
lio, in Aen. 10, 100 ss. abbia contaminato il passo dallo Scipio enniano con un passo omerico.
8 Sulla base di questo presupposto, Pascoli (seguìto da Bolisani 1935, 40 s.) riteneva che il nostro fram-

mento si riferisse a un concilio di dei riguardo alle sorti di Scipione, in pericolo per le tresche giudiziarie mac-
chinate dai due Petilli o dal tribuno Nevio; secondo Colonna 1585-86, che riteneva lo Scipio un poema epico, il
nostro frammento faceva parte del proemio in settenari trocaici (cfr. introduzione) e il silenzio dell’universo qui
descritto sarebbe determinato dallo stupore provato a sentire il canto del poeta che celebra le imprese di Sci-
pione.
9 Secondo Suerbaum 2003, 56 un’integrazione a questo verso è stata proposta anche da C. Brakman, En-

nius in Opstellen over onderwerpen uit de latijnsche letterkunde 4, Leiden 1934, 15-38: 36 s., a me inaccessibile.
10 Courtney attribuisce il confronto a Marastoni 1961, 14-15, ma esso era stato istituito precedentemente

già da Vahlen nelle postille alla sua seconda edizione (cfr. Lunelli 1980, 208: qui gli estremi «Tibull. IV, 1, 123-
130» indicano appunto il nostro passo dal Panegirico di Messalla), da Munari, loc. cit. e, prima di tutti, da Co-
lonna 1585-86, 268 ( = 1707, 1 67).
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226 Le opere minori di Ennio

mare constitit undis / [...] / quin largita tuis sunt multa silentia uotis; in questi ver-
si si parla di eventi successivi all’elezione di Messalla al consolato e che precedo-
no immediatamente il momento in cui Giove scende dall’Olimpo per ascoltare ed
esaudire le preghiere del console appena eletto.

1 Mundus caeli: mundus (su cui cfr. la relativa voce di A. Traina in Enc. Virg. III
[1987], 618-619 e Timpanaro 1996, 45 s. = 2005, 184 s.) è un calco semantico del
greco kovsmo", e all’epoca di Ennio, e fino all’età augustea, ha, come in greco, la
duplice accezione di “cielo” e “universo”: è dunque convincente l’ipotesi – avan-
zata da Timpanaro 1996, 45 s. [= 2005, 184 s.] – di riconoscere nell’espressione
mundus caeli un caso di genetivus inhaerentiae o identitatis11, dove il genitivo (in
questo caso caeli) determina un sostantivo suo sinonimo (mundus) secondo un sin-
tagma analogo a quello che si trova, ad es., in Plaut. Cist. 210 mentem animi12.
uastus: Skutsch 1985, 444 sembrerebbe escludere che qui uastus abbia il signi-
ficato, presupposto in tutte le traduzioni del verso a me note, di ‘vasto, immenso’
perché uastus non verrebbe mai altrove usato con questa accezione in latino ar-
caico; ma a me risulta poco chiaro in quale altro modo, secondo Skutsch, do-
vrebbe essere qui interpretato uastus.
constitit...dedit...repressit...constitere...uacant: Bolisani 1935, 42 giustamente
richiama l’attenzione sul passaggio dal tempo perfetto (usato nel caso dei primi 4
verbi), al presente uacant che, secondo Bolisani, starebbe «ad indicare il perdura-
re nel presente dell’effetto, concetto che è appunto indicato dal presente di que-
sto verbo». In realtà credo che il passaggio dal perfetto al presente debba essere
spiegato in modo diverso: i perfetti hanno aspetto momentaneo, e servono a indi-
care l’istantaneità con cui si verifica l’arrestarsi dell’universo, delle onde nel mare,
del sole nel cielo e dei fiumi sulla terra; in opposizione a questi perfetti, il presen-
te uacant ha aspetto durativo. Analoga alternanza, spiegabile con le stesse ragioni,
tra perfetto e presente si ha nel passo dell’Eneide ricalcato sul nostro frammento:
cfr. tum Zephyri p o s u e r e , p r e m i t placida aequora pontus (Verg. Aen.
10,103); sempre a proposito dell’alternarsi di verbi al perfetto e al presente,
cfr. anche Verg. Aen. 1, 82 ss. uenti ... / ... r u u n t et terras turbine p e r f l a n t . /
I n c u b u e r e mari etc.
silentio: il silentium che qui accompagna l’arrestarsi del mundus caeli sembra
presupporre la concezione, di ascendenza pitagorica, per cui, di converso, il mo-
vimento di rotazione delle sfere celesti causava un suono: cfr. Quintil. inst. 1, 10,
12 Pythagoras atque eum secuti acceptam sine dubio antiquitus opinionem uulgave-
rint mundum ipsum ratione esse compositum, quam postea sit lyra imitata, nec illa

11 Sulla terminologia utilizzata per descrivere questo fenomeno stilistico cfr. R. Oniga in J. B. Hofmann -

A. Szantyr, Stilistica latina, tr. it., Bologna 2002, 322.


12 Sul genetivus identitatis o inhaerentiae altri esempi e bibliografia in Timpanaro 1996, 183 e n. 71 (per

H. Sz. 794-795 citato da Timpanaro si può ora ricorrere anche alla traduzione italiana citata sopra, 179 s., dove
si potranno trovare ulteriori rinvii bibliografici).
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Scipio - Commento, fr. III (= Var. 9-12 V.2) 227

modo contenti dissimilium concordia, quam uocant aJrmonivan, sonum quoque his
motibus dederint; cfr. anche Porfirio, Vita di Pitagora 30; ricca raccolta di testi-
monianze in Pease II (1958), 1020.

2-3 et Neptunus saeuos undis asperis pausam dedit. / Sol equis iter repressit
ungulis uolantibus: nell’apparato critico relativo a questi due vv. Vahlen 1903 scri-
ve una nota curiosa: «Paene mirum est nondum exstitisse qui hos duos versus or-
dinem mutare iuberet ut paria cum paribus coniungerentur, quo nihil magis phi-
lologis placet». Vahlen sembra dunque constatare con stupore («paene mirum
est») che nessun filologo, fino alla sua epoca, avesse ancora proposto di invertire
l’ordine tràdito del II e III verso per fare in modo che «paria cum paribus co-
niungerentur». Se non intendo male, Vahlen con queste ultime parole si riferisce
all’intento di riunire assieme, grazie appunto all’inversione dei vv. 2 e 3, la descri-
zione, da una parte, di fenomeni che avvengono in cielo (l’arrestarsi della rotazio-
ne celeste di cui si parla nel v. 1, da ricongiungere al v. 3, che descrive l’arrestarsi
del sole) e, dall’altra, di fenomeni che avvengono sulla terra (il placarsi del mare a
cui si riferisce il v. 2, da ricongiungere al v. 4, che riguarda l’arrestarsi dei fiumi e
dei venti). In realtà queste considerazioni non giustificano affatto l’inversione dei
versi 2 e 3: anche nel passo in cui Virgilio ha imitato i versi enniani che stiamo di-
scutendo (cfr. sopra, p. 218) si descrivono fenomeni terrestri (et tremefacta solo
tellus), poi fenomeni celesti (silet arduus aether), quindi si ritorna sulla terra, per
descrivere il placarsi dei venti e dei mari (tum uenti posuere, premit placida aequora
pontus). D’altro canto lo stesso Vahlen, nella nota citata sopra, mi pare non pro-
porre, ma prevenire e, al tempo stesso, contestare ironicamente l’ipotesi di inver-
tire i vv. 2 e 3; sembra anzi che Vahlen abbia prospettato questa ipotesi soprattut-
to per avere l’occasione di ironizzare, più in generale, sulla netta propensione dei
filologi verso un certo tipo, non meglio esplicitato («quo nihil magis philologis
placet»), di critica testuale (forse quella tendente a normalizzare i testi sulla base
di un razionalismo troppo angusto?).
Neptunus saeuos: ci si potrebbe domandare se qui saeuos, come in Plaut. Trin.
825 te [scil. Neptunum] omnes saeuomque seuerumque [...] commemorant signifi-
chi, secondo il suo valore comune, «crudele»: può infatti sembrare strano che
Nettuno venga qualificato come tale proprio nel momento in cui placa le acque
del mare, e dunque non manifesta affatto la sua crudeltà. È probabilmente per eli-
minare questa contraddizione che Bolisani 1935 aveva tradotto «fieramente Net-
tuno impose calma alle aspre onde»13: qui, come si vede, saeuos viene inteso con
funzione predicativa e in questo modo l’aggettivo viene a designare non, con con-
notazione negativa, la crudeltà di Nettuno ma, con connotazione positiva (o, al-
meno, non negativa), l’energia con cui il dio placa le acque del mare. Ma per un

13 Ma Bolisani riprende tacitamente la parafrasi del verso proposta già da Pascal 1915, 386 s.: «Nettuno [...]

fieramente impone calma alle aspre onde».


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228 Le opere minori di Ennio

tale uso di saeuos non si possono addurre paralleli; per eliminare la contraddizio-
ne si potrebbe piuttosto ritenere che qui saeuos significhi non ‘crudele’ ma ‘tem-
pestoso’14, con quel valore tecnico che l’aggettivo ha spesso in unione a termini
che designano il mare15 (e che Ennio avrebbe qui riferito a Neptunus in quanto
personificazione del mare): l’espressione Neptunus saeuos undis asperis pausam de-
dit verrebbe così a equivalere a «il mare in tempesta si calmò» (cfr. Verg. Aen. 4,
523 saeua quierant aequora). Ma, seguendo Traina (cit. alla n. 15), ritengo preferi-
bile continuare a intendere saeuos con il suo valore normale di ‘crudele’. Credo
inoltre che con questo significato l’aggettivo abbia qui non funzione puramente
esornativa, ma semmai una sfumatura concessiva («Nettuno, benché crudele,...»)
che ha l’effetto di rilevare la miracolosità di un fenomeno ponendolo in contrasto
con le premesse da cui scaturisce: analogamente, al quarto verso, Ennio specifica
che a fermarsi sono proprio i fiumi perennes; probabilmente per la stessa ragione,
al terzo v., Ennio descrive i cavalli che trainano il sole con l’ablativo di qualità un-
gulis uolantibus proprio nel momento in cui essi sono costretti a fermarsi.
pausam dedit: cfr. Plaut. Pers. 818 (da pausam) e Lucil. 18 M. (haec ubi dicta,
dedit pausam ore loquendi) con il comm. di Marx ad loc.

3-4 Sol equis iter repressit ungulis uolantibus: il motivo dei cavalli che traina-
no il sole viene utilizzato da Ennio anche negli Annales (600 V.2 = 606 Sk. fun-
duntque elatis naribus lucem) e in un frammento tragico proveniente dagli Hecto-
ris lutra (sc. 184 V.2 = tr. 169 Joc. sublime iter ut [ut Joc.: secl. Vahl.] quadrupe-
dantes flammam halitantes. Come osserva Skutsch 1985, 738, si tratta di un’im-
magine attestata non in Omero, ma a partire dagli inni omerici (Herm. 69, Dem.
63, Hel. 9 e 15).
iter repressit: iter in rapporto all’apparente movimento del sole e degli astri si
trova anche in Enn. scen. 184 V.2 = tr. 169 Joc. citato sopra; altre attestazioni in
poesia successiva citate dal Th. l. L. VII 2, 540 [1967], 57 ss. sono Cic. Arat. 100
solis iter; Lucret. 5,404 e 653; in prosa si trova in Varr. rust. 1,46. Per il nesso iter
reprimere cfr. Cic. Att. 10,9,1 dubitabat nostrum nemo, qui Caesar itinera repres-
sisset: uolare dicitur e Claud. 26, 353 s. tenebris si caeca repressit / nox iter.
ungulis uolantibus: la funzione sintattica di questo nesso è incerta anche a cau-
sa della sua ambigua morfologia: Skutsch «Harv. Stud.» 71, 1966, 137 ( = Skutsch
1968, 187 s.) lo considera un ablativo separativo in dipendenza da repressit (come
in Verg. geor. 4,484 uento rota constitit orbis), senza escludere tuttavia una conno-

14 A sostegno di questa ipotesi si potrebbe osservare anche che Scipione stesso, stando a Polibio (10, 11, 7),

aveva dichiarato di godere del favore di Nettuno affermando che il dio, alla vigilia dell’assalto alla città di Car-
tagena, si sarebbe presentato in sogno al condottiero romano per assicurargli il suo appoggio decisivo nella du-
ra battaglia che si accingeva a combattere (e infatti i soldati credettero davvero che il ritirarsi delle acque che fa-
cilitò l’assalto alle mura di Cartagena fosse una miracolosa opera di Nettuno: cfr. Polibio 10, 14, 12).
15 Così a partire da Liv. Andr. fr. 9, 2 Mariotti mare saeuom: cfr. A. Traina, Livio Andronico interprete di Ome-

ro [red. orig. 1953] in Vortit barbare. Le traduzioni poetiche da Livio Andronico a Cicerone, Roma 19742, 24 e n. 2.
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Scipio - Commento, fr. III (= Var. 9-12 V.2) 229

tazione strumentale nata per analogia con espressioni, come iter facere ungulis uo-
lantibus, che indicano il concetto inverso a reprimere iter; Courtney non prende in
considerazione questa esegesi, che appare assai intricata, e oltre a quella tradizio-
nale, che menzionerò tra poco, prospetta due interpretazioni alternative di ungu-
lis uolantibus: 1) ablativo assoluto con valore temporale; 2) dativo giustapposto al
dativo equis: quest’ultimo indicherebbe allora l’intero, ungulis uolantibus una sua
parte, secondo la costruzione del doppio dativo ‘dell’intero e della parte’ (cfr.
ad es. Plaut. Cas. 337 mihi subueniet tergo aut capiti e, sul costrutto in generale,
H.-Sz. 44). Ma per le ragioni indicate sopra in commento a Neptunus saeuos, ri-
tengo preferibile l’interpretazione tradizionale, secondo la quale ungulis uolanti-
bus è un ablativo di qualità che determina equis (così già E. Bennett, Syntax of
early latin, II, Boston 1914, 321; e cfr. la trad. di Traglia 1986, 375: «i cavalli dai
volanti zoccoli»); quest’ultima interpretazione mi pare inoltre, come pareva già a
Mariotti (1991, 123 n. 19), la «più naturale».
constitere amnes perennes, arbores uento uacant: come è già stato segnalato
nell’introduzione generale allo Scipio, p. 193 ss. (a cui rimando per ulteriori con-
siderazioni al riguardo) un verso quasi identico Ennio usa anche in sc. 185 Vahl.2
= tr. 159 Joc.: constitit credo Scamander, arbores uento uacant [edd.: uagant cdd.].
L’affinità con questo verso è tanto più notevole se si considera che esso proviene
dagli Hectoris lutra dove, come abbiamo visto sopra, si ritrova anche il motivo dei
cavalli trainati dal sole di cui Ennio parla anche nel terzo v. del nostro frammen-
to: questa considerazione ha indotto Vahlen 1903 (nell’app. cr. a sc. 184 V.2) a ipo-
tizzare che negli Hectoris lutra il verso sui cavalli del sole e quello sull’arrestarsi
dello Scamandro e del vento appartenessero, come nei corrispondenti versi del
nostro frammento, allo stesso contesto (Jocelyn 1967, 303 non accoglie questa
ipotesi, ma la ritiene «an acute suggestion»).
constitere: è giustamente accolto da tutti gli editori, ma tra quelli recenti solo
Willis, nella sua edizione di Macrobio, segnala che si tratta di correzione conget-
turale di consistere, unanimemente tràdito dai codici (Vahlen 1854 attribuiva la
correzione a Scriverius 1620, ma essa deve essere anteriore a Colonna 1585-86,
che riporta consistere senza proporla come una sua congettura; nell’indicare la pa-
ternità della congettura, Willis si limita più cautamente a un generico «vulgo»).
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230 Le opere minori di Ennio

Scip. IV (= Var. 14 V.2)

Il nostro frammento, assieme ad altri due frammenti enniani e a un passo di


Omero, viene citato da Macrobio nei Saturnalia all’interno di una discussione
sull’uso del verbo horrere (cioè, propriamente, ‘essere irto’) in Verg. Aen. 11,601
s.: tum late ferreus hastis / horret ager1. Solo nel nostro frammento, per la verità,
si ritrova, come in Virgilio, proprio il verbo horreo: ma negli altri passi citati da
Macrobio ricorre comunque horresco, che di horreo è l’incoativo, e dunque una
forma derivata, o frivssw (come in Omero) che di horreo è il corrispondente gre-
co. Inoltre queste forme verbali diverse, ma etimologicamente o semanticamen-
te connesse tra loro, presentano nei passi citati da Macrobio un’altra caratteristi-
ca che le accomuna: ricorrono tutte nello stesso contesto, e precisamente quello
bellico.
Ma innanzitutto è da osservare che l’esemplificazione raccolta da Macrobio sul-
l’uso in questo contesto dei verbi horreo/horresco e frivssein è lacunosa, e sarà
quindi opportuno cercare di completarla e ordinarla cronologicamente:

1) Hom. Il. 4, 281 s.


dhvio> n ej" povlemon pukinai; kivnunto favlagge"
kuavneai, savkesivn te kai; e[gcesi pefrikui`ai
(«dense file movevano verso la trista battaglia buie, irte di scudi e di lance») tr. di;

2) Hom. Il. 13, 339 ss. (di cui Macrobio cita solo il primo verso)
e[frixen de; mavch fqisivmbroto" ejnceivhs / i
makrh/"` , a}" ei|con tamesivcroa": o[sse d∆a[merden
aujgh; calkeivh koruvqwn a[po lampomenavwn
qwrhvkwn te neosmhvktwn sakevwn te faeinw`n
ejrcomevnwn a[mudi".
«La lotta flagello dell’uomo era irta dell’aste
lunghe, affilate, che avevano in mano: e gli occhi accecava
il lampo bronzeo degli elmi scintillanti,
delle corazze polite di fresco, degli scudi lucenti,
che tutti insieme avanzavano»2;

3) Eur. Phoen. 1105


lovcon puknai`si ajspivsin pefrikovta («schiera irta di fitti scudi»);

1 Rispetto al testo originale qui citato, Macrobio omette di riportare late, che costituiva un particolare

secondario rispetto all’argomento della sua discussione.


2 Trad. di Rosa Calzecchi Onesti, in Omero, Iliade, pref. di F. Codino, versione di R. C. O., Torino 1950.
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Scipio - Commento, fr. IV (= Var. 14 V.2) 231

4) Lycophron Alex. 252


pevfrikan d∆w{ste lhivou guvai
lovgcai" ajpostivlbonte"
«i prati sono irti e splendenti di lance come un campo di spighe»3;
5) Apoll. 3, 1354 ss.
OiJ d∆h[dh kata; pa`san ajnastacuveskon a[rouran
ghgeneve": fri`xen de; peri; stibaroi`" sakevessi
douvrasiv t∆ajmfiguvoi" koruvqessiv te lampromevnh/sin
«Arho" tevmeno" fqisimbrovtou: i[keto d∆ai[glh
neiovqen Ou[lumpon de; di’hjerv o" ajstravptousa
«Ma ormai per tutto il campo fiorivano i figli del suolo; e la piana di Ares, l’uc-
cisore di uomini, fu irta di solidi scudi, di lance, di elmi brillanti: dal fondo i ba-
gliori salivano, attraverso l’aria, all’Olimpo»4;
6) Enn. Scip. IV (cit. da Macrobio)
sparsis hastis longis campus splendet et horret;
7) Enn. scen. 140 V.2 = tr. 143 Joc. (cit. da Macrobio)
arma arrigunt horrescunt tela;
8) Enn. ann. 393 V.2 = 384 Sk. (cit. da Macrobio)
horrescit telis exercitus asper utrimque;
9) Enn. ann. 285 V.2 = 267 Sk.
densantur campis horrentia tela uirorum;
10) Hor. sat. 2, 1, 13 s.
horrentia pilis
agmina5;
11) Liv. 44, 41, 6
(phalangis) intentis horrentis hastis
12) Verg. georg. 2, 142
nec galeis densisque uirum seges horruit hastis;

3 Tr. di G. Paduano in Licofrone, Alessandra, a c. di M. Fusillo, A. Horst e G. Paduano, Milano 1991.


4 Trad. di G. Paduano in Apollonio Rodio, Le Argonautiche, tr. di G. P., intr. e comm. di G. P. e M. Fusil-
lo, Milano 1986.
5 È probabile che in questo passo Orazio alluda proprio al verso dello Scipio che stiamo discutendo: cfr.

Freundenburg 2001, 82-92 (ma questa tesi era già stata sostenuta da Pasoli 1964a, 474 ss. il quale, tuttavia, ri-
guardo alle motivazioni dell’allusione oraziana, giungeva a conclusioni in parte divergenti da quelle a cui giunge
Freundenburg).
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232 Le opere minori di Ennio

13) Verg. Aen. 7, 525 ss.


atraque late
horrescit strictis seges ensibus aeraque fulgent
sole lacessita et lucem sub nubila iactant;
14) Verg. Aen. 10, 178
mille rapit densos acie atque horrentibus armis;
15) Verg. Aen. 11, 601 s. (riportato da Macrobio solo fino a ager)
tum late ferreus hastis
horret ager campique armis sublimibus ardent;
16) Verg. Aen. 12, 663 s.
strictisque seges mucronibus horret
ferrea.

L’interesse esclusivo per le ricorrenze dei verbi horreo/horresco e frivssein nel-


la descrizione di battaglie ha indotto Macrobio a trascurare, da una parte, alcune
divergenze, dall’altra, ulteriori affinità riscontrabili anche nei soli passi da lui stes-
so citati: questo spiega perché, nel riportare Hom. Il. 13, 399, Macrobio si limita
a citare il primo verso, omettendo dunque makrh/" ` che si trova all’inizio del verso
immediatamente successivo (cfr. sopra, n.° 2) e che dà luogo a un nesso (ejgceivh/si
makrh/" ` ) con un significato («per le lunghe aste») e una funzione sintattica (dati-
vo strumentale riferito a e[frixen) del tutto corrispondenti all’ablativo strumenta-
le hastis longis, che nel nostro frammento enniano determina horret6.
Inoltre, se leggiamo i passi di Hom. Il. 13, 399 ss. e Verg. Aen. 11, 601 s. in for-
ma più ampia di quella riportata da Macrobio, rileviamo un’ulteriore affinità tra
essi e il nostro frammento dallo Scipio: in tutti e tre i passi in questione, all’imma-
gine del rizzarsi delle armi viene associata la descrizione del loro fulgore: cfr. la
lunga descrizione che nei versi omerici omessi da Macrobio (cfr. n.° 2) è dedicata
allo splendore accecante delle armature dei guerrieri, e a cui corrisponde, nel
frammento dallo Scipio, il sintetico splendet, e, in Virgilio, campique armis subli-
mibus ardent (dove ardent viene giustamente chiosato da Servio, ad loc., con
resplendent). L’associazione tra lo splendore delle armi e il loro ispido rizzarsi in
battaglia si ritrova anche in Lycophr. Alex. 252 (n.° 4), Apoll. 3, 1354 ss. (n.° 5) e
di nuovo in Verg. Aen. 7, 525 ss. (n.° 13).
Ma nei passi di Omero, di Apollonio, di Licofrone, dello Scipio enniano e di

6 La coincidenza tra ejgceivh/sin makrh/"


` e hastis longis era stata rilevata anche da F. Marx (comm. a Lucil.
1190, II 376), ma con una formulazione («makrh/s ` ∆ debuit [scil. Macrobius] addere sicuti scriptum est N 339
quo magis appareat Ennii imitatio») che sembra trascurare il fatto che Macrobio non vuole dimostrare la di-
pendenza del frammento dello Scipio dal passo omerico ma, come si è visto sopra, discutere solo l’uso di horre-
re in Virgilio.
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Scipio - Commento, fr. IV (= Var. 14 V.2) 233

Virgilio ora citati è possibile riscontrare ulteriori affinità e divergenze: in Hom. Il.
13, 339 il soggetto del verbo e[frixen è la battaglia (mavch)7; negli altri casi, il sog-
getto di frivssw e di horreo è invece il campo in cui avviene la battaglia, che in
Apollonio viene indicato con «Arho" tevmeno", in Licofrone con guvai, in Ennio
con campus, in Virgilio Aen. 7,526 con seges e in Aen. 11,602 con ager; quest’ulti-
ma somiglianza è tanto più significativa se si pensa che, negli altri due frammenti
enniani citati da Macrobio, soggetto di horresco sono invece l’exercitus (n.° 8)8 e
gli arma (n.° 7)9.
Anche in Verg. georg. 2, 142 e Aen. 12, 663 soggetto di horreo è il campo e, più
precisamente, come in Verg. Aen. 7,526, la seges. E proprio passi come questi do-
vrebbero spiegare, secondo Vahlen 1903 e Skutsch 198510, attraverso quale pro-
cesso metaforico i verbi horrere e frivssein sono stati utilizzati all’interno di de-
scrizioni di battaglie. Né Vahlen né Skutsch precisano meglio questa affermazio-
ne, per cui si può solo ipotizzare che essi intendessero dire che alla base dell’uso
metaforico di horrere e frivssein nell’ambito di una battaglia vi sia l’immagine, ri-
chiamata appunto nei passi virgiliani con seges, dell’horrere delle spighe in un
campo di grano. L’ipotesi è attraente, e può essere che questa idea fosse implicita
già fin da Omero; ma l’identificazione tra il rizzarsi delle armi nel campo di bat-
taglia e delle spighe di grano nel campo è esplicitata, come risulta dai passi indi-
cati sopra, solo a partire da Licofrone: lo stesso Vahlen (seguito ancora una volta
da Skutsch) rinvia al commento all’Alessandra di Licofrone a cura di C. von Hol-
zinger (Leipzig 1895) dove, nel comm. ad loc., si ipotizza che sia stato proprio Li-
cofrone a unire le due immagini del campo di grano e dell’horrere del campo di
battaglia.
La discussione svolta finora ci permetterà di valutare adeguatamente la nota
che Servio appone a Virgilio Aen. 11, 601 s., passo da cui prende le mosse, come
abbiamo visto, anche la discussione di Macrobio dove viene citato il nostro fram-
mento dallo Scipio di Ennio:

HORRET AGER: terribilis est: est autem uersus Ennianus uituperatus a Lucilio di-
cente per inrisionem debuisse eum dicere [Lucil. 1190 Marx] ‘horret et alget’: un-
de Horatius de Lucilio [Sat. 1, 10, 54] ‘non ridet uersus Enni grauitate minores?’
Come si vede, Servio fornisce innanzitutto un’interpretazione di horret ager:
terribilis est (scil. ager), (il campo) ‘è spaventoso’. Assai raramente è stato notato

7 Nessun altro parallelo è attestato.


8 Frivssw e il suo corrispondente horreo / horresco sono riferiti alle truppe anche in Hom. Il. 4, 281 s.
(n.° 1), Eur. Phoen. 1105 (n.° 3) ; Hor. sat. 2, 1, 13 s. (n.° 10) ; Liv. 44, 41, 6 (n.° 11).
9 Le armi sono soggetto di horreo anche in Enn. ann. 285 V.2 = 267 Sk. (n.° 9) e Verg. Aen. 10,178 (n.° 14).
10 Cfr., in Vahlen 1903, la sezione dei ‘Testimonia’ relativa a Enn. ann. 393 (p. 71, da cui dipende Skutsch

1985, 548) dove vengono citati Verg. Aen. 7, 526 (n.° 13) e 12, 663 (n.° 16) a cui Skutsch, loc. cit., aggiunge georg.
2, 142 (n.° 12).
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234 Le opere minori di Ennio

che tale interpretazione serviana11 di horret ager è, se non sbagliata, piuttosto ap-
prossimativa, e comunque in contrasto con l’interpretazione oggi comunemente
accolta e secondo la quale horret denota in primo luogo il ‘diventare irto’ del cam-
po a causa del rizzarsi delle lance impugnate dai soldati. Servio sembra piuttosto
prendere in considerazione solo un possibile valore connotativo di horret ager, e
cioè l’idea di terrore che può suscitare l’immagine di un campo irto di armi in bat-
taglia.
Subito dopo l’interpretazione di horret ager, Servio prosegue con le seguenti
parole: est autem uersus Ennianus etc. È certo possibile che il soggetto di questa
frase sia non solo horret ager, di cui Servio ha appena parlato, ma tutto il verso vir-
giliano di cui horret ager costituisce l’inizio. Ma sulla base di questo legittimo pre-
supposto, alcuni studiosi in passato avevano tratto l’erronea conclusione che tut-
to il verso virgiliano horret ager campique armis sublimibus ardent fosse una ripre-
sa testuale da Ennio appunto perché esso viene qualificato senz’altro da Servio co-
me uersus Ennianus.
In realtà è stato osservato che con espressioni come versus Ennianus (o versus
Ennii) Servio qualifica passi più o meno ampi di Virgilio che consistono in ripre-
se non letterali, e talvolta anzi molto libere, di passi enniani: dalla ricca documen-
tazione raccolta al riguardo da Vahlen 1903, CVI s. e Skutsch 1985, 40 s., basti ci-
tare il solo esempio di Serv. ad Aen. 6,219 ‘corpusque [Miseni] lauant frigentis et
ungunt’: uersus Ennii qui ait [Ann. 147 Sk.] ‘Tarquinii corpus bona femina lauit et
unxit’.
Anche nel nostro caso, dunque, le parole est autem uersus Ennianus possono
indicare che il verso virgiliano horret ager campique armis sublimibus ardent è un
libero riadattamento di un passo enniano che, come viene oggi comunemente am-
messo, andrà identificato proprio con il verso dallo Scipio: è con questo che, co-
me si è già visto che, tra tutti i versi virgiliani, proprio Aen. 11, 601 s. presenta le
affinità più strette e numerose.
Appurato che il verso dallo Scipio è probabilmente il uersus Ennianus cui allu-
de Servio nel suo commento a Aen. 11, 601, dobbiamo allora concludere che il
nostro verso è anche quello, come dice sempre Servio, che fu uituperatus a Luci-
lio dicente per inrisionem debuisse eum dicere [Lucil. 1190 Marx] ‘horret et alget’.
Dunque, stando a Servio, Lucilio aveva criticato il nostro verso enniano, e per
questo ne aveva fatto la parodia affermando che Ennio avrebbe dovuto dire hor-
ret et alget.
Come si vede, Servio non indica esplicitamente quale aspetto del verso ennia-
no fosse l’oggetto delle critiche di Lucilio, e gli studiosi hanno proposto al ri-
guardo varie ipotesi: ma su tale problema ritorneremo più avanti, perché la paro-
dia luciliana è stata utilizzata in vario modo anche per stabilire il metro e il testo

11 A cui si avvicina la traduzione di horret nel nostro frammento proposta da Bolisani 1935, 36: «splende ed

è orrido ad un tempo».
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Scipio - Commento, fr. IV (= Var. 14 V.2) 235

del nostro frammento, problemi su cui dobbiamo quindi qui soffermarci prelimi-
narmente.
Come si è visto nell’introduzione, l’identificazione del metro di questo fram-
mento è stata particolarmente discussa anche perché essa ha delle importanti ri-
percussioni sulla valutazione complessiva dello Scipio. Se infatti consideriamo il
frammento, secondo la scansione più naturale, un esametro completo, dobbiamo
dedurre che nello Scipio erano compresenti metri diversi, perché gli altri due
frammenti esplicitamente assegnati dalle fonti antiche a quest’opera sono in set-
tenari trocaici. È proprio per evitare la polimetria dello Scipio che, da ultimo, an-
che Courtney 1993, 29, dopo altri, ha proposto di scandire il verso come settena-
rio trocaico incompleto. Ma tale interpretazione è stata in seguito nuovamente re-
spinta da Mariotti 1998, 207, che nella sua recensione a Courtney ha ribadito la
scansione esametrica, poi senz’altro accolta da Prinzen 1998, 109-110 e Timpana-
ro 2002, 674 s. (ma Mariotti, Prinzen e Timpanaro, come vedremo, difendono la
scansione esametrica sulla base di argomentazioni parzialmente diverse tra loro).
Certo Courtney ha ragione ad osservare che non è possibile difendere la scan-
sione esametrica del frammento osservando che la sua fonte, Macrobio, tende a
citare per unità metriche12: lo stesso Macrobio cita proprio un frammento dello
Scipio (II) al cui primo primo verso manca un trocheo. Ma una volta riconosciuto
questo, bisogna anche riconoscere che nessuno degli argomenti addotti da Court-
ney contro la scansione esametrica appare decisivo:

1) la scansione esametrica non può essere esclusa sulla base del fatto che essa
presume la prosodia splendêt, con abbreviamento della vocale in sillaba di finale
di parola non terminante per s, anziché splendêt, con conservazione della origina-
ria quantità lunga, l’unica ammissibile in Ennio. Courtney sostiene questa tesi sul-
la base di un rinvio a Skutsch 1985, 59 che tuttavia già Sc. Mariotti 1998, 207 li-
quidava senz’altro come «improprio». Tale giudizio, del tutto condivisibile, è sta-
to espresso da Mariotti nella forma necessariamente sintentica imposta dagli spa-
zi ristretti di una recensione; ma, per le ragioni che cerco di chiarire qui di segui-
to, credo che nelle intenzioni di Mariotti esso dovesse riferirsi anche alla discuti-
bilità della stessa tesi di Skutsch a cui Courtney si richiama, e non solo all’uso che
quest’ultimo ne fa.
Skutsch 1985, 58 s. non nega esplicitamente che in Ennio vi sia l’abbreviamen-
to di vocale in sillaba finale di parola davanti a consonante conclusiva diversa da
s (come appunto bisognerebbe presupporre in splendêt), ma sembra in effetti su-
bordinare tale fenomeno prosodico a una serie di condizioni che paiono esclu-
derne la presenza nel nostro caso: infatti Skutsch ritiene che l’abbreviamento non
si verifica: 1) in parole (o terminazioni di parole) a struttura anapestica (dove si

12 Così Jocelyn «CR» 15, 1965, 147.


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236 Le opere minori di Ennio

conserva la quantità originale – come ad es. in Ann. 135 Sk. dêdêrat – perché al-
trimenti la parola non rientrerebbe nell’esametro); 2) nei monosillabi; 3) nei bisil-
labi giambici e, infine, 4) nei bisillabi spondiaci, come appunto nel nostro caso. È
vero che a proposito di quest’ultima categoria di parole lo stesso Skutsch sembra
ammettere alcuni casi in cui la vocale finale originariamente lunga viene abbre-
viata (Ann. 147 Sk. lauit; 523 uicit; 396 sudor): e questi casi sembrerebbero auto-
rizzare splende±t; ma poi Skutsch, in n. 48, sembra prospettare un’ulteriore limita-
zione osservando che lauit e uicit sono forme verbali al tempo perfetto, dove l’ab-
breviamento sarebbe stato facilitato dal fatto che in questo tempo verbale non vi
è la conservazione dell’originaria quantità della vocale che è invece ben riconosci-
bile nella 2a persona singolare e nella 1a e 2a persona plurale del presente dei ver-
bi della II coniugazione (uides, uidemus, uidetis): e queste forme, secondo Skut-
sch, avrebbero spinto a conservare per analogia la quantità lunga anche alla 3a
persona sing. del presente (uidet). Se si accogliessero queste osservazioni di Skut-
sch, dunque, bisognerebbe dedurre in effetti che splendet, bisillabo spondiaco di
una forma verbale al presente, deve conservare l’originaria quantità lunga della e
della sillaba finale. Tuttavia, la discussione che abbiamo delineato a me pare, co-
me doveva essere già apparsa a Mariotti, un caso esemplare di quella tendenza di
Skutsch a stabilire leggi prosodiche ispirate a un rigore inaccettabile e smentito da
numerose eccezioni13: e, infatti, neppure ricorrendo alla complicata casistica che
abbiamo visto sopra Skutsch riesce a rendere conto di tutte le oscillazioni che, ri-
guardo al trattamento enniano della vocale in sillaba finale, ci sono attestate dai
soli 600 versi degli Annales pervenutici: particolarmente significativa è l’opposi-
zione tra ponebat (Ann. 364 Sk.) e mandebât (Ann. 125 Sk.): si noti che qui ab-
biamo a che fare con forme verbali non solo analoghe, ma anche prosodicamente
equivalenti e che smentiscono quindi il presunto rapporto che, come abbiamo vi-
sto, viene istituito da Skutsch tra trattamento della quantità della vocale in sillaba
finale e struttura prosodica complessiva della parola in cui tale vocale si trova; l’a-
nalogia non ha poi impedito, come presupponeva invece Skutsch per verbi come
uidet, che, accanto a esset in Ann. 78 Sk., Ennio usasse il suo composto potessêt
in Ann. 213 Sk.14: e l’unica conclusione ragionevole che si può trarre da questi
esempi è che per Ennio sono legittime sia le forme con conservazione dell’origi-
naria quantità lunga, che le forme dove tale vocale viene abbreviata, come ap-
punto bisognerebbe presupporre in splendet qualora scandissimo il nostro verso
come esametro.

13 In generale, questa tendenza di Skutsch era stata contestata esplicitamente da Mariotti in 1991, 38.
14 Timpanaro 1994 (red. orig. 1986), 173 contrappone anche infit (Ann. 385 Sk.) contro erât (Ann. 209 Sk.:
per l’attribuzione a Ennio anche di questa parola cfr. Timpanaro, ibid. 179 s., n. 30). Questo esempio, assieme
agli altri due citati nel testo, sono addotti da Timpanaro all’interno della sua polemica (172-175), ricca anche di
importanti osservazioni di metodo, che documenta, contro l’iperanalogismo di Skutsch, le oscillazioni di Ennio
anche in altri ambiti, oltre a quello strettamente prosodico.
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Scipio - Commento, fr. IV (= Var. 14 V.2) 237

2) Courtney respinge la scansione esametrica anche perché essa presuppone un


verso privo di cesure (che appare difficile introdurre congetturalmente)15. Il dato
da cui Courtney prende in questo caso le mosse è indiscutibile: discutibili sono in-
vece le conclusioni che Courtney trae da tale dato. A questo riguardo è necessa-
rio innanzitutto fare qualche precisazione. Courtney osserva che né «Ennius nor
any Roman poet writes a hexameter with no caesura either in the second, the third
or the fourth foot». Ma non è chiaro se, quando richiama l’attenzione sull’assen-
za della cesura solo in alcune sedi dell’esametro, Courtney intenda riferirsi preci-
samente alle cesure che diventeranno canoniche nell’esametro latino classico (la
semiternaria, la semiquinaria e la semisettenaria), e che implicano fine di parola
dopo la prima sillaba lunga rispettivamente del secondo, del terzo e del quarto
dattilo, oppure includa anche le cosiddette cesure femminili che si presentino in
quelle sedi, per cui si ha fine di parola tra le due sillabe brevi del dattilo. Ora, se
Courtney intendeva riferirsi solo alle cesure canoniche semiternarie, semiquinarie
e semisettenarie, esse risultano del tutto assenti anche in Ann. 42 Sk.

corde capessere semita nulla pedem stabilibat


(dove si ha però cesura femminile dopo il primo e il quarto trocheo, oltre che
cesura maschile dopo la prima lunga del quinto piede16) e in Ann. 221 Sk.

cui par imber et ignis, spiritus et grauis terra


(con cesura femminile, però, nel secondo piede). Ma tra i frammenti enniani vi
sono anche casi in cui, nel secondo, nel terzo e nel quarto metro è assente qual-
siasi tipo di cesura, anche quella femminile: cfr. Ann. 117 Sk.
Palatualem Furinalem Floralemque
e Ann. 218 Sk.
poste recumbite uostraque pectora pellite tonsis
(quest’ultimo con cesura femminile dopo il primo trocheo).

15 Vahlen 1903, che scandiva questo verso come esametro, proponeva di introdurvi la correzione longe is in

luogo di longis e di interpretare 1) is campus come espressione che richiamerebbe un campo di cui si era parla-
to nei versi precedenti, e 2) longe come avverbio riferibile o a sparsis o a splendet. Ma questa correzione, che già
Vahlen proponeva dubbiosamente in apparato, e che non è stata giustamente più ripresa da alcuno studioso, è
senz’altro da scartare: non si capisce infatti come essa possa rendere l’esametro dello Scipio, come affermava Vah-
len, «clementiorem», cioè meno duro: anche con longe is resta pur sempre un esametro privo di cesure; inoltre
risulta sconsigliabile privare hastis del suo attributo longis, non tanto perché, come afferma Vahlen citando pas-
si da Euripide e dall’Eneide, longa (o makrhv) è epiteto tradizionale dell’hasta, ma soprattutto perché questo at-
tributo (come abbiamo visto sopra, p. 225 e n.° 6) si ritrova riferito alle ejgceivh/si proprio nel passo di Omero
imitato da Ennio.
16 Skutsch 1985, 199 parla per questo verso di «absence of a caesura», espressione che si deve evidente-

mente intendere nel senso di «assenza delle cesure canoniche». Io invece utilizzo qui il termine «cesura» nella
sua accezione più vasta per indicare ogni fine di parola all’interno di un piede (o meglio, nel caso dell’esametro,
del metro).
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238 Le opere minori di Ennio

Tutti questi esempi, che venivano citati in passato per giustificare l’assenza di
cesure che avremmo scandendo il nostro frammento come esametro17, sono rite-
nuti da Courtney non probanti sulla base di due secchi rinvii a Jocelyn «CR» 15,
1965, 147 e a Skutsch 1985, 47: ma il rinvio a Jocelyn risulta erroneo18, e quello a
Skutsch avrebbe richiesto almeno qualche parola di chiarimento perché, nella pa-
gina citata da Courtney, Skutsch non prende in considerazione il nostro verso dal-
lo Scipio: si può dunque solo ipotizzare che, nelle intenzioni di Courtney, il rinvio
a Skutsch serva a dimostrare che l’assenza di cesure nell’esametro dello Scipio non
è ammissibile perché essa non potrebbe trovare le motivazioni addotte da Skut-
sch per giustificare l’assenza di cesure canoniche negli esametri degli Annales (tra
i quali Skutsch inserisce anche Ann. 577 Sk. cum legionibus quom proficiscitur in-
duperator). Bisogna però osservare che anche per gli esametri degli Annales tali ra-
gioni possono essere indicate con sicurezza solo in alcuni casi (per es. in Ann. 117
Sk., essa sarà dovuta alla difficile sfida di riunire in una successione ininterrotta
tre difficili nomi propri); in altri casi, l’assenza di cesure viene giustificata da Skut-
sch con opinabili impressioni soggettive: si noti ad esempio che lo stesso Skutsch
1985, a proposito di Ann. 42 Sk., nella citata p. 47 a cui rinvia Courtney, ritiene
che «the rhythm is clearly expressive of content» (spaziato mio), ma in commen-
to al frammento, p. 199, si mostra meno sicuro («the absence of a caesura is
p e r h a p s deliberate»: spaziato mio), e solo in forma di cauta ipotesi sostiene che
con l’assenza di cesura il verso risulterebbe instabile come il piede di Ilia di cui lì
si parla; per Ann. 221 Sk., che consiste in una descrizione della Discordia, Skutsch
(p. 397) osserva: «the line is metrically monstrous, being divided into two equal
halves by diaeresis after the spondiac third foot», e poi si limita a proporre in for-
ma di domanda: «is the rhythm used symbolically to describe the monster?». Se
si accoglie questo tipo di considerazioni (non assurde, ma difficilmente verifica-
bili), anche l’assenza di cesure che si ha scandendo il verso dello Scipio come esa-
metro potrebbe essere considerata «metrically monstrous», e giustificata con l’in-
tento di descrivere l’orrore di un campo dopo una battaglia; l’uso degli spondei,
che hanno l’effetto di rallentare il ritmo, potrebbe essere visto come un tentativo
di enfatizzare il contrasto tra la furia che imperversa durante la battaglia, e la cal-
ma spettrale che la segue; un’altra motivazione, né più né meno probabile di quel-

17 Cfr. ad es. Hug 1852, 32 s.; L. Müller, De re metrica poetarum Latinorum praeter Plautum et Terentium,

Lipsiae 1861 (18942 = Hildesheim 1967, da cui cito), 194.


18 Qui infatti Jocelyn ribadisce la scansione esametrica del nostro frammento e sostiene dunque una tesi

esattamente contraria a quella che gli attribuisce Courtney; questo errore è dovuto probabilmente a un frain-
tendimento della seguente affermazione di Jocelyn, ripresa quasi alla lettera da Courtney nel suo commento: «su-
ch a dactylic hexameter as sparsis etc. with no caesura in second, third or fourth foot does not occour in classi-
cal Latin poetry». Ma Jocelyn, dopo aver qui constatato l’assenza di esametri senza cesura in poesia latina di
epoca classica, si impegna subito dopo a dimostrare come tali esametri siano ammissibili in Ennio, perché que-
sto autore è ricco di particolarità metriche mai altrove attestate; e come esempi «almost as caesuraless» come il
nostro, Jocelyn cita proprio quegli esametri enniani che abbiamo menzionato sopra nel testo e che Courtney ri-
tiene non probanti.
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Scipio - Commento, fr. IV (= Var. 14 V.2) 239

le suggerite da Skutsch per alcuni esametri degli annales, aveva suggerito Hug
1852, 33, secondo il quale in questo verso Ennio «voluit asperitatem hastarum po-
st aciem disiectarum et hinc illinc eminentium sono exprimere»19.
Piuttosto che avventurarsi in questo genere di considerazioni, tuttavia, è meglio
limitarsi ad osservare che, come nel caso degli esametri dagli Annales, la mancan-
za di motivazioni chiare e sicure non permette di per sé di escludere neppure l’as-
senza di cesure che avremmo nel nostro verso se lo scandissimo come esametro.
È curioso poi che Courtney, dopo aver scartato, senza argomenti, i paralleli offer-
ti dagli esametri degli Annales – che, pure, oltre a essere di Ennio, non presenta-
no incertezze testuali –, sia invece disposto a prendere in considerazione, come
possibile parallelo, il seguente frammento di Lucilio 870 M.:
nec uentorum flamina flando suda secundent.
Ma, innanzitutto, neppure in questo caso si vedono particolari ragioni che pos-
sano motivare l’assenza di cesure; inoltre, il testo del frammento luciliano è mol-
to discusso: Marx stampa il testo come parte finale e iniziale di due settenari tro-
caici e vi introduce un’integrazione:
nec uentorum flamina
flando suda <iter> secundent.
Su un punto piuttosto bisogna richiamare l’attenzione: se non è vero, come af-
ferma Courtney, che non vi sono altri esametri privi di cesura al II, III e IV piede,
è vero, tuttavia, che nessun altro esametro presenta, come il nostro, una così pre-
cisa corrispondenza tra piede e parola. E tuttavia anche questo fatto può essere
ammesso richiamandosi, com’è stato fatto più volte, proprio allo sperimentalismo
– anche metrico – di Ennio, e di cui sono testimonianza, tra gli altri, anche i ver-
si degli Annales citati sopra; a questo riguardo, Mariotti (1998, 207) citava l’esa-
metro olospondiaco Ann. 31 Sk., nonché i già citati Ann. 218 e 577 Sk., in cui tut-
tavia Mariotti segnalava non solo l’assenza di cesure canoniche, ma anche la par-
tizione, che è possibile ravvisare anche nel nostro esametro, in 3 dipodie, secon-
do «un tipico gusto arcaico per la suddivisione dei versi in membri uguali»20; e

19 Anche J. Marouzeau, Traité de stylitstique latine, Paris 19624, 302, scandisce il nostro frammento come

esametro, e mette in connessione l’assenza di cesure con l’intento di far susseguire nel verso parole legate dal-
l’omeoteleuto e «tout égaux» (cioè, penso, isoprosodiche), e che dovrebbero suggerire, con il loro allineamento
regolare, il rizzarsi parallelo delle lance nella pianura (e analogo concetto il Marouzeau ribadisce a p. 57): credo
tuttavia che questa interpretazione si adatti meglio alla descrizione delle lance quando esse sono ancora in ma-
no ai soldati schierati ordinatamente prima della battaglia, e non quando, come nel nostro frammento, sono già
state scagliate (sparsis hastis), perché in questa situazione si presume piuttosto che le lance siano ormai dissemi-
nate disordinatamente qua e là per il campo.
20 Così Mariotti 1951, 122 = 1991, 77. Traglia 1986, 376 n. 6 attribuisce anche a Mariotti la scansione in set-

tenari trocaici del nostro frammento: ma Mariotti presenta il verso come un «famoso esametro», senza neppure
accennare alla possibilità di scansioni alternative. Il fraintendimento di Traglia deriva evidentemente dal fatto che
Mariotti, come verso parallelo al nostro in cui non solo le dipodie, ma addirittura i singoli piedi vengono netta-
mente distinti, citava appunto un settenario trocaico, e cioè il famoso uersus Carbonis (276 Morel): postquam
Crassus carbo factus, Carbo crassus factus est.
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240 Le opere minori di Ennio

Bartalucci ritiene che su un esametro come il nostro possa aver influito anche un
verso come Hom. Il. 1, 214, privo di cesure maschili e con coincidenza quasi as-
soluta tra parola e piede: u{brio" ei{neka th`"de: su; d∆ i[sceo, peivqeo d∆hJmi`n.

3) Courtney vorrebbe dimostrare l’inesistenza di esametri completamente pri-


vi di cesura osservando che, se essi fossero esistiti davvero, non sarebbero stati
esemplificati da Diomede (GL I 499, 12 ss. Keil partipedes sunt qui in singulis pe-
dibus singulas orationis partes adsignant, ut «miscent fida flumina candida sangui-
ne sparso») e da Mario Vittorino (GL VI 215, 1 ss. Keil) tramite un verso inventa-
to. Ma è già stato osservato (da De Nonno 1990, 622 s.) che i grammatici antichi
discutono l’esametro tenendo assai poco conto della poesia previrgiliana; e anche
a proposito degli esametri olospondiaci i grammatici preferiscono ricorrere, piut-
tosto che ai casi sicuri di esametri olospondiaci enniani (5 esempi: cfr. Skutsch
1985, 49), ad exempla ficta ottenuti grazie ad alterazioni di esametri di Virgilio
(dove gli olospondiaci sono assenti21).
Dalla formulazione di Courtney, inoltre, sembra che i passi di Diomede e di
Mario Vittorino citati sopra presentino gli esametri senza cesura come una «ano-
maly»: ma i passi dei due grammatici potrebbero invece essere utilizzati per una
deduzione del tutto opposta, perché essi presentano gli esametri senza cesura sen-
za accennare non solo a una loro anomalia, ma neppure alla loro rarità; si noti per
contrasto che Diomede, nel passo citato in n. 21, si preoccupa di rilevare la rarità
dell’esametro olospondiaco che invece, come abbiamo visto, è sicuramente atte-
stato nei frammenti enniani.

Alla mancanza di argomenti decisivi contro la scansione esametrica, bisogna


aggiungere le difficoltà in cui incorre ogni tentativo di dare al nostro frammento
una scansione alternativa. Mackay «CR» 13, 1963, 264 propose di considerare il
verso come parte iniziale di un settenario trocaico (privo della sequenza finale –
! –): in questo modo si eliminerebbe la polimetria dello Scipio, perché anche gli
altri frammenti attribuiti a quest’opera sono in settenari trocaici. Ma, come già
Jocelyn («CR» 15, 1965, 147) aveva obiettato a Mackay, per ottenere dal nostro
frammento una parte di settenario trocaico senza correggere il testo bisognereb-
be presupporre fine di parola polisillaba all’interno di elemento bisillabico
(splendêt êt), e dunque un’infrazione alla norma di Ritschl che sarebbe azzarda-
to accettare anche quando, come nel nostro caso, riguarda il decimo elemento
del settenario trocaico: che in questa sede sia ammessa la violazione della norma

21 Un esempio si trova proprio in Diomede (GL I 496, 12 ss. K.): uersus heroicus [...] ex omnibus spondeis

erit et ob hoc spondiazon dicitur, quod uix apud Latinos inuenitur, raro apud Graecos est, et erit huius modi uersus
monoschematismus, id est unius figurae, ut si facias ‘aut leuis lamnas lento ducunt argento’. Come si vede, qui è lo
stesso Diomede che, introducendone la citazione con ut si facias, presenta l’esametro olospondiaco aut leuis lam-
nas lento ducunt argento come exemplum fictum (che, come possiamo constatare, è ottenuto dalla rielaborazio-
ne di Verg. Aen. 7,634 aut leuis ocreas lento ducunt argento).
008_scipio FR. ecc.211 9-01-2008 12:28 Pagina 241

Scipio - Commento, fr. IV (= Var. 14 V.2) 241

di Ritschl è infatti molto incerto22.


Proprio per evitare l’elemento bisillabico strappato anche Courtney 1993, do-
po altri, nel tentativo di dare una scansione trocaica, ha espunto la congiunzione
et che si trova tra splendet e horret23. Questa correzione è in sé assai economica,
perché l’intrusione della corruttela et potrebbe facilmente giustificarsi per ditto-
grafia delle lettere finali di splendet che precede. L’espunzione di et, tuttavia, co-
me è stato obiettato a Courtney da Mariotti 1998, 207, è resa improbabile dalla
parodia che del verso enniano fece, come si è visto sopra (cfr. p. 227), Lucilio, se-
condo il quale Ennio avrebbe dovuto dire horret et alget: questa espressione sem-
bra ricalcata proprio sul tràdito splendet et horret.
Come si vede, Mariotti difendeva la lezione splendet et horret, e dunque la scan-
sione esametrica del nostro frammento, esclusivamente sulla base della f o r m a
della parodia che di quel frammento aveva fatto Lucilio. Si sarebbe inoltre tenta-
ti di difendere la scansione esametrica del frammento enniano anche sostenendo
che proprio tale scansione, a causa della particolare struttura quasi olospondiaca
e priva di cesure che essa implica, costituisse l’o g g e t t o della parodia luciliana;
e certo questa ipotesi sul contenuto dell’ironia luciliana24 è superiore a quella che,
per difendere la scansione trocaica del frammento enniano, è stata proposta in al-
ternativa da Scholz 1984, 186-18925; a ragione, dunque, l’ipotesi di Scholz non è
stata menzionata da Courtney il quale, sempre per difendere la scansione trocai-
ca del nostro frammento, avanza la più plausibile ipotesi che Lucilio ne abbia cri-
ticato non la struttura metrica, ma l’uso insistito degli omeoteleuti26.

22 Cfr. Questa 1973, 519.


23 Courtney attribuisce a se stesso questa correzione, ma essa era già stata avanzata da Ribbeck 1873, CX-
VII e, prima ancora, da I. H. Neukirch, De fabula togata Romanorum. Accedunt togatarum reliquiae, scripsit et
ed. I. H. N., Lipsiae 1833, p. 64. Una soluzione analoga, accompagnata inoltre da una proposta di integrazione
per completare il settenario trocaico, avanzava anche Ritter 1840, 391: splendet [et] horret<que et gemit>. Una
diversa integrazione del verso è proposta anche da Courtney, ma solo exempli gratia in commento: splendet [et]
horret <fluctuat>: dunque avremmo una successione di 3 verbi in asindeto.
24 Sostenuta, dopo altri, con particolare impegno da I. Mariotti, Horret et alget, in Lanx Satura Nicolao Ter-

zaghi oblata, Genova 1963, 249-260, a cui Timpanaro 2002, 675 si richiama.
25 Secondo Scholz, Lucilio avrebbe invece criticato il nostro frammento non per la sua struttura metrica,

ma per la presenza in esso dell’espressione splendet et horret; per sostenere questa tesi, Scholz parte dall’indi-
scutibile presupposto che al verbo horret, che si trova nel nostro frammento, corrisponde a e[frixen che, come
abbiamo visto, si trova nel suo modello omerico; ma Scholz osserva che in vari passi omerici proprio il verbo
frivssein verrebbe utilizzato in associazione all’idea di oscurità; per questa ragione, secondo Scholz, a Lucilio
avrebbe dato fastidio che in Ennio horret fosse accostato a un verbo che invece esprime l’idea di luminosità co-
me splendet; ma è un fatto che il frivssein delle armi viene accostato al loro splendore proprio in quel passo di
Omero ripreso da Ennio: in Omero, anzi, si indugia con particolare insistenza su questo particolare. E inoltre,
come si è visto, la stessa associazione si ritrova anche in Licofrone, Apollonio Rodio e Virgilio. Un’ipotesi ana-
loga a quella di Scholz era stata proposta da Roeper 1868, 11, secondo il quale a Lucilio sarebbe spiaciuto l’ac-
costamento di due verbi dal significato contrastante come horrere e splendere.
26 Courtney con ogni probabilità ha implicitamente presente la testimonianza di Gell. 18, 8, secondo la qua-

le appunto anche gli omeoteleuti, oltre ad altre figure di suono, erano state oggetto della critica di Lucilio (e cfr.
Lucil. 181 ss. M. = 182 ss. K.). L’ipotesi di Courtney è accolta da Freundenburg 2001, 90, che però di fatto nel-
la sua discussione oscilla tra una scansione esametrica del frammento, per cui Lucilio ne avrebbe criticato la
struttura, e una scansione trocaica, per cui Lucilio ne avrebbe criticato l’eccesso di omeoteleuti.
008_scipio FR. ecc.211 9-01-2008 12:28 Pagina 242

242 Le opere minori di Ennio

Ma la documentazione in nostro possesso rende improbabile l’ipotesi di Court-


ney, e autorizza piuttosto a sostenere – come è stato proposto non per la prima
volta, ma in modo particolarmente convincente da E. Pasoli (1964, 474 s.)27 – che
la critica di Lucilio si appuntasse in primo luogo «sull’uso insolito [...] di horrere
per “essere irto” applicato al campo di battaglia»: proprio su questa espressione,
come abbiamo visto sopra, si incentrava l’attenzione sia di Macrobio (che citava il
nostro frammento di Ennio, assieme ad altri, per dimostrare che in Virgilio Aen.
11, 602 ‘horret’ mire se habet, cioè ‘va benissimo’: e queste parole sembrano pre-
supporre che l’uso di horrere in questo contesto fosse stato oggetto di discussio-
ne) che di Servio (il quale menzionava la parodia di Lucilio a partire ancora una
volta dall’espressione horret ager di Virgilio). E queste stesse osservazioni rendo-
no inoltre incerta anche l’ipotesi che Lucilio rivolgesse le proprie critiche alla
struttura metrica del nostro verso28.

27 Queste pagine sono in genere sfuggite agli studiosi enniani: su di esse ha richiamato l’attenzione, con vi-

vo consenso, A. Traina, Elio Pasoli, repuvlic. origin. nel 1983 e rist. in A.T., Poeti latini (e neolatini). Note e Sag-
gi filologici, III, Bologna 1989, 311-329: 325 n. 67. Che oggetto dell’ironia di Lucilio sia l’uso di horret è stato so-
stenuto anche da H. Prinzen, Ennius im Urteil der Antike, Stuttgart-Weimar 1998, 111 e n. 44, che però erro-
neamente attribuisce tale tesi a I. Mariotti (cit. alla n. 21).
28 Ed è forse per questa ragione che esso, come si è visto, non veniva preso in considerazione da Sc. Ma-

riotti nella sua discussione a sostegno della scansione esametrica del nostro frammento. Secondo Timpanaro
2002, 674 s., Lucilio non rivolgeva «la propria ironia soltanto [il corsivo è nel testo] contro l’uso di horret», ma
anche contro la struttura metrica dell’esametro enniano.
009_sota_243 9-01-2008 12:29 Pagina 243

IV. Sota
Testimonianze e frammenti

Sota
Sota: così gli editori a partire da Müller 1833, 25 sulla base di Varr., l. L. 5, 65 in Sota
Enni e Aur. Fronto, 56, 1-2 v. d. H.2 [Test. I] Sota Ennianus.

A. TESTIMONIANZE

Test. I
AUR. FRONTO, 56, 1-2 v. d. H.2: Sota
Ennianus remissus a te et in charta purio-
re et uolumine gratiore et littera festiuiore quam antea fuerat uidetur.

Test. II
PLIN. EPIST. 5, 3, 6 Inter quos uel praecipue numerandus est P. Vergilius, Cor-
nelius Nepos et prius Accius Enniusque [Ennius Acciusque alcuni codd.].
Accius Enniusque: queste parole sono state riferite al Sota di Ennio e ai Sotadica di Ac-
cio da Courtney 1993, 4 e 61: cfr. sotto, p. 243.

B. FRAMMENTI

fr. I (= Var. 25 V.2)


Sot ibant malaci uiere Veneriam corollam

VARR. l.L. 5, 62 ss.: Ideo haec [scil. Victoria] cum corona et palma, quod corona uinclum
capitis et ipsa a uinctura dicitur uieri, <id> est uinciri [Scioppius 1605, edd.: uiere ê uince-
re F]; a quo est in Sota Enni: ‘Ibant ~ corollam’. Palmam, quod ex utraque parte natura uinc-
ta habet paria folia;
FEST. 514, 15 ss. L.: Viere alligare significat, ut hic uersus demonstrat: ‘Iba<nt> [cdd.
dett.] ~ corollam’. Unde uimina, et uasa uiminea, quae uinciuntur ligan †... strovfoi;
PS. CENS. frg. 14,8 (= GL VI 613,14 s. Keil): Ionicus septenarius: ‘Ibant ~ coronam’.
mala ciuiere cd. F di Varrone (corr. Turnebus 1565, XXI 36): mala cluere o simili i cdd.
di Ps. Cens. frg. || coronam Ps. Cens. frg.
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244 Le opere minori di Ennio

fr. II (= Var. 26 V.2)


Sot Cuprio boui merendam

Paul. - Fest. 51, 23 ss. M.: ‘Cyprio boui merendam’ Ennius Sotadico uersu cum dixit,
significauit id quod solet fieri in insula Cypro in qua boues humano stercore pascuntur.

fr. III (= Var. 27 V.2)


Sot alius in mari uolt magno tenere tonsam

Fest. 488, 32 ss. L.: ‘Tonsam’ Ennius significat remum, quod quasi tondeatur ferro, cum
ait [...] in [a] Sota: ‘alius ~ tonsam’.

**fr. IV (= Var. 29 V.2)


Sot ille ictus retro reccidit in natem supinus

Ps. Cens. frg. 14, 8 (GL VI 613,17 Keil): ionicus <a> [Hultsch 1867] maiore […] habet
uitium in tertia syllaba: ‘Ille ~ supinus’.
retro reccidit Lachmann in Jahn 1845, retro recidit C, retrorecedit V, retrocecidit cdd.
dett. || in natem i cdd. migliori

ALTRE PROPOSTE CONGETTURALI

SOTA. Titolo: Asotus o Asota nelle edizioni più antiche sulla base della corruttela in
Fest. 488, 32 ss. L. Ennius ... in [na]sota, Sotadicum (?) Scaliger 1565, 28 (sulla base di
Paul. - Fest. 51, 23 ss. M. Ennius Sotadico versu cum dixit); I: malaci: malacam Scaliger
1565, 28; IV: ictus ille Santen 1825, 120 || retrocidit Santen, cit.
009_sota_243 9-01-2008 12:29 Pagina 245

Sota - Bibliografia 245

Sota
Bibliografia

Edizioni e commenti
Le edizioni e i commenti al Sota coincidono con quelle delle Saturae alla cui bibliogra-
fia quindi si rimanda.

Studi generali sul Sota


M. Bettini, A proposito dei versi sotadei, greci e romani: con alcuni capitoli di ‘analisi me-
trica lineare’, «MD» 9, 1982, 59-105.
009_sota_243 9-01-2008 12:29 Pagina 246

246 Le opere minori di Ennio

I frammenti attribuiti al Sota da editori e altri studiosi


* = frammenti di attribuzione congetturale

I numeri indicano la posizione del frammento all’interno dell’edizione

Stephanus Colonna Vahlen Müller Baehrens Vahlen Bolisani Warmington Traglia Courtney Edizione
1564 1585 1854 1884 1886 1903 1935 1935 1986 1993 presente
Var. 25 V. 2 2 1 1 3 3 1 1 2 2 1 1
* (?) Var. 26 V. 2 1 4 2 5 5 2 2 1 1 5 2
Var. 27 V. 2 2 3 1 1 3 3 3 3 2 3
*Var. 28 V. 2 3 4 2 2 4 4 4 4 3
*Sat. 66 V. 2 5
*Inc. 7 V.2 6 6
*Sat. 65 V. 2 7
*Var. 29 V. 2 5 4 4 5 5 5 5 4 4
*Inc. 21 V.2 ( 1)
*Inc. 42 V.2 ( 2)

Con uno strano errore, M. van den Hout, A Commentary on the Letters of Fron-
to, Leiden 1999, 149 sostiene che «Vahlen XC» avrebbe attribuito al Sota il fram-
mento tràdito da Marc. Aurel. ad Fronto. 55,15 v. d. H.2 oro te, ut Quintus noster
ait, «pervince pertinaci pervicacia»; di tale attribuzione al Sota, tuttavia, non ho tro-
vato alcuna traccia in nessuna delle due edizioni enniane del Vahlen il quale, in-
vece, nella seconda edizione, inserisce il frammento tra quelli di opera teatrale in-
certa (Sc. 379 V.2)3.
Viene piuttosto il sospetto che, all’attribuzione al Sota, il van den Hout sia sta-
to indotto da considerazioni, non esplicitate, di tipo diverso. Le parole pervince
pertinaci pervicacia potrebbero, forse, essere ritenute una testimonianza della let-
tura diretta, da parte di Marco Aurelio, del Sota enniano che in quel momento era
oggetto di interesse comune sia per Frontone, che per il suo devoto allievo: pro-
prio alla fine della stessa lettera in cui viene citato il frammento, infatti, compare
l’importante testimonianza in cui Marco Aurelio parla della restituzione di una
copia del Sota enniano da parte del suo maestro Frontone (cfr. Test. 1). A questo
comune interesse per il Sota potrebbe riferirsi quel noster con cui Marco Aurelio
accompagna la menzione dell’autore del frammento, Quintus (scil. Ennius): Quin-
tus noster potrebbe dunque significare «l’Ennio di cui ci stiamo interessando io e
te [cioè il Sota]».

1 Questo frammento, come anche il successivo, è stato attribuito al Sota da Puelma Piwonka 1949, 182 n.

1, per le ragioni discusse qui sotto, p. 253.


2 Vedi n. 1.
3 Attribuzione ribadita da Vahlen 1903, LXXXIII e, curiosamente, riportata esattamente nella edizione cri-

tica di van den Hout stesso, nella sezione dei ‘Testimonia’ relativa al passo.
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Frammenti attribuiti al Sota da editori e altri studiosi 247

Ma, ammesso che l’attribuzione del frammento a Ennio sia esatta4, bisogna os-
servare che: 1) appare molto difficile una scansione sotadica del frammento, che
invece può assai agevolmente essere scandito come inizio di un senario giambico;
2) non vi sono elementi di contenuto che rendano probabile una attribuzione al
Sota; 3) l’espressione Quintus noster può assai facilmente essere intesa non come
un riferimento a una specifica opera enniana, ma come un segno, più in generale,
di quell’amore e di quella familiarità verso Ennio (non a caso indicato con il pre-
nome) che Marco Aurelio, in sintonia con il gusto arcaizzante dell’epoca, voleva
mostrare di condividere con il suo amato maestro Frontone.

4 O. Ribbeck (Tragicorum Romanorum fragmenta, Lipsiae 18712) – pur accogliendo il frammento tra quel-

li enniani di opera incerta (408) – nella relativa sezione dei ‘Testimonia’ (p. 75) pensa che Marco Aurelio citi, sin-
tetizzandolo, un frammento di Accio (4-9 R.2) e che lo attribuisca erroneamente a Ennio.
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SOTA

Introduzione

Il Sota enniano viene menzionato solo da tre fonti antiche (Varrone, Festo,
Marco Aurelio) e in ognuna di queste solo una volta. Se accogliamo l’ipotesi di
Courtney 1993, 4 (e cfr. ibid. p. 61), forse il Sota era noto anche a Plinio il giova-
ne (Test. II: epist. 5, 3, 6 Inter quos uel praecipue numerandus est P. Vergilius, Cor-
nelius Nepos et prius Accius Enniusque [Ennius Acciusque alcuni cdd.]).
In questa lettera Plinio si difende dalle accuse che gli venivano rivolte per aver scritto
uersiculi (così nel § 1; nel § 2 si parla anche di uersiculi seueri parum), cioè generi di poe-
sia poco consoni al suo rango di senatore. Tra i vari argomenti che adduce in sua difesa,
Plinio ricorda che un tipo di poesia del genere è stato praticato anche da figure di auto-
rità e rispettabilità indiscusse: «tra queste – dice Plinio – bisogna annoverare innanzitutto
Virgilio, Cornelio Nepote e, prima, Accio e Ennio».
Courtney ha dedotto con molta verosimiglianza che la produzione poetica minore di
Ennio e Accio a cui si sta riferendo qui Plinio sia da identificare rispettivamente con il
Sota e con i Sotadica1. A sostegno di questa ipotesi si può osservare che nella stessa lette-
ra (§ 2), Plinio confessa non solo di scrivere uersiculi in proprio, ma anche di dilettarsi di
vari generi letterari, ritenuti poco nobili, praticati da altri: Plinio elenca, stando alla tradi-
zione manoscritta, comoedias, mimos, lyricos e, per finire, Socraticos. Ma quest’ultimo ter-
mine è quasi sempre apparso del tutto fuori luogo qui e corretto in Sotadicos2. A confer-
ma di questa congettura3 si osservi che Plinio indica anche, ogni volta con verbi diversi, il
particolare modo con cui ogni genere letterario del suo elenco doveva essere fruito: et co-
moedias audio et specto mimos et lyricos lego et Socraticos /Sotadicos intellego. Come ha os-
servato Bettini 1982, 66 s., intellego si presta benissimo a indicare il modo di fruizione, ap-
punto, dei versi sotadei, i quali giocavano spesso su doppi sensi che richiedevano di esse-
re colti, al di sotto del significato letterale, con un’opera di decifrazione. Considerate nel
complesso, direi che la congettura Sotadicos al § 2, e l’allusione al Sota enniano individua-
ta da Courtney in Accius Enniusque al § 6, sono due ipotesi che si rafforzano a vicenda:
nel primo passo si indica un genere letterario di cui, nel secondo passo, si indicano alcu-
ni cultori.

In ogni caso è certo che il Sota sopravvisse almeno fino alla metà del II sec.,
data a cui risale la testimonianza di Marco Aurelio (Fronto. 56, 1-2 v. d. H.2: Sota

1 Vahlen 1903, LXXIX si limitava a osservare che questa è l’unica menzione di Ennio in Plinio. A.N.

Sherwin - White, comm. alle lettere di Plinio il giovane, Oxford 1966, 318 ritiene, con poca verosimiglianza, che
Plinio si stia riferendo a passi enniani tratti da opere teatrali.
2 La congettura, è attribuita a I.M. Catanaeus (Giovanni Maria Cattaneo), nella sua seconda edizione di

Plinio, 1518.
3 Ritenuta necessaria da Sherwin – White, cit., sulla base di S.E. Stout, Scribe and Critic at work in Pliny’s

Letters, Bloomington 1954, 196 che non ho potuto vedere; Sotadicos è accolta nella ed. oxoniense di Plinio cu-
rata da R.A.B. Mynors (1966). Non è accolta da M. Schuster (ed. teubneriana di Plinio il giovane, Lipsiae 19522),
ma le sue argomentazioni esposte in «WS» 53, 1935, 110-133: 125 non sono convincenti.
010_sota introduzione249 9-01-2008 12:30 Pagina 250

250 Le opere minori di Ennio

Ennianus remissus a te et in charta puriore et uolumine gratiore et littera festiuiore


quam antea fuerat uidetur: «Il Sota enniano che mi hai restituito sembra in carta
più liscia, in un volume più accurato4 e in una grafia più elegante di prima».
In questa testimonianza, pubblicata per la prima volta nel 18235, Marco Aure-
lio dichiara, in una sorta di post-scriptum, di aver ricevuto da Frontone una copia
del Sota di Ennio6. Si tratta di una testimonianza interessante perché ne possiamo
ricavare non solo, come si è detto, che 1) il Sota enniano era giunto integro alme-
no fino alla metà del II sec. d.C. – epoca di composizione di questa lettera7 – ma
anche che 2) in quell’epoca il Sota circolava come opera a sé stante e che 3) era
un’opera di una certa estensione perché occupava un uolumen apposito: anche
questi dati contribuiscono a rendere difficilmente sostenibile la tesi per cui Satu-
rae sarebbe il titolo dato (da Ennio stesso o da qualche grammatico successivo) a
una raccolta della produzione enniana minore (all’interno della quale si fa rien-
trare anche il Sota)8.
La testimonianza di Marco Aurelio ha però dato luogo, su un punto, a due divergenti
interpretazioni che convivono da lungo tempo ignorandosi a vicenda: del Sota enniano
Frontone ha restituito a Marco Aurelio a) il codice che gli era stato prestato9 oppure
b) una nuova copia del codice, appositamente compiuta da Frontone per il suo allievo?10
A quest’ultima ipotesi gli studiosi saranno stati indotti dalle parole di Marco Aurelio, il
quale sembra in effetti istituire un confronto tra due copie distinte del Sota: 1) l’antigrafo
prestato da M. Aurelio a Frontone; 2) l’apografo fattone da Frontone e di cui Marco Au-
relio starebbe qui elogiando, attraverso una serie di comparativi, alcune caratteristiche mi-
gliori (et in charta puriore et volumine gratiore et littera festiuiore) rispetto all’originale
(quam antea fuerat). A queste considerazioni si sarà aggiunto il fatto che l’uso di scam-
biarsi copie di opere letterarie (intere o in estratti) è ben attestato nell’epistolario fronto-
niano11.

4 Per una spiegazione dei termini usati per descrivere la copia del Sota cfr. il comm. di van den Hout (cit.

sopra, p. 240), p. 149.


5 A quell’anno risale infatti l’editio princeps (a cura di A. Mai, Roma) della parte vaticana del palinsesto di

Frontone in cui, stando alle indicazioni di van den Hout, si trova il nostro passo. Ma la testimonianza non com-
pare ancora nella prima edizione enniana di Vahlen (1854; cfr. p. XC e 164).
6 Immediatamente prima Marco Aurelio si era congedato dal maestro con un saluto affettuoso: vale mi

Fronto carissime et supra omnis res dulcissime.


7 Per la datazione della lettera agli anni 143-145 cfr. comm. di van den Hout, p. 142 ad 53,9.
8 Sulla questione cfr. l’introduzione alle Saturae (cfr. p. 70 ss.).
9 Così ad es. Courtney 1993, p. 4; S. Timpanaro, Per la storia della filologia virgiliana antica, Roma

1986=20022, 199 e Virgilianisti antichi e tradizione indiretta. Firenze 2001, 162. Si avverta che in questi luoghi
Timpanaro, nel discutere il passo della lettera, ne inverte per una svista mittente e destinatario.
10 Cfr. ad es. van den Hout (edizione critica di Frontone, Leipzig 19882, p. 277 dove si inserisce il codice del

Sota tra quelli che Frontone «describendos curavit, sed non edidit»; comm. a Frontone, cit., p. 40); C.R. Haines,
ed. di Frontone, Cambridge-Mass. 19292, II, 330 (si tratta dell’indice delle cose notevoli dove, in riferimento al
nostro passo, si afferma: «Sota, a new copy»). Questa interpretazione sembra originare da Vahlen 1903, LXXXIII:
«Fronto igitur novum exemplar Sotae Enniani a se descriptum et pulchre adornatum ad Caesarem remisit».
11 Cfr., oltre a Fronto 15, 4 ss. v. d. H.2 a cui si richiamava già Vahlen 1903, LXXXIII (Frontone esprime la

propria gioia per aver ricevuto una copia di una sua orazione scritta dalla mano di Marco Aurelio), anche i casi
citati da van den Hout, ed. di Frontone, cit., p. 277 (è il luogo già cit. sopra, n. 10); in 105,12 ss. v. d. H.2 Mar-
co Aurelio chiede che Frontone gli invii alcuni estratti, tra gli altri, anche di Ennio.
010_sota introduzione249 9-01-2008 12:30 Pagina 251

Sota - Introduzione 251

Se l’ipotesi di nuova copia del Sota compiuta da Frontone non è, a rigore, inconcilia-
bile con la testimonianza di Marco Aurelio, ritengo comunque più probabile che Marco
Aurelio non si riferisca a due copie distinte, ma solo ad un’unica copia. Che Marco Aure-
lio stia istituendo solo apparentemente un confronto tra due copie distinte del Sota è sta-
to ben dimostrato da Timpanaro12: a Marco Aurelio il codice del Sota enniano che aveva
prestato a Frontone sembra adesso più bello di prima per il semplice fatto che è stato in
mano al suo amato maestro. Si tratta insomma di una di quelle lodi spesso assai sdolcina-
te che Frontone e il suo allievo si scambiano vicendevolmente nelle lettere. D’altro canto,
le lodi di Marco Aurelio, accompagnate da quel uidetur, risulterebbero piuttosto tiepide
se riferite, anziché alla stessa copia di prima, a una nuova copia approntata dallo stesso
Frontone.

Le fonti attribuiscono al Sota solo due frammenti (qui I e III) e, in forma me-
no esplicita, un altro frammento incompleto (qui II). Nelle edizioni sono stati at-
tribuiti al Sota ulteriori frammenti (cfr. sopra, p. 240 s.) sulla base di ipotesi più o
meno fondate che, per le ragioni che verranno indicate a suo luogo, solo in mini-
ma parte sono state qui accolte.
Il titolo Sota ha tardato ad affermarsi nelle edizioni per il fatto che, per la sua
ricostruzione, per lungo tempo ci si poté basare solo su due testimonianze, e per
di più non esattamente concordanti: in Varrone, l. L. 5, 62 si legge Ennius in So-
ta; in Fest. M. si legge Ennius ... in nasota. Da quest’ultima testimonianza, i primi
editori moderni ricavavano una forma dell’aggettivo asotus (= ‘debosciato’), che è
testimoniato anche come titolo di una commedia di Cecilio (cfr. Com. 9-17 R.3):
Asotus o, anche, al femminile, Asota (più vicino al testo tràdito sia di Varrone che
di Festo) erano, ad esempio, i due possibili titoli indicati in Stephanus 1564, 111
dove, probabilmente sulla scorta dell’Asotus di Cecilio, si inseriva l’opera tra i
frammenti scenici.
Che, invece, nel titolo dell’opera enniana vi fosse un’allusione al poeta elleni-
stico Sotade di Maronea, fu intravisto da G.G. Scaligero nel 1565 (28 = 1573, 30)
il quale, sulla base di Fest. M. Ennius Sotadico uersu cum dixit proponeva di in-
trodurre anche in Varrone e nell’altra testimonianza di Festo (M. in nasota) la cor-
rezione in Sotadico13.
Il titolo si è fissato nella forma Sota, oggi comunemente accolta, solo grazie a
K.O. Müller che, nella sua edizione del de lingua Latina di Varrone del 1833, con-
ferma la lezione Sota sulla base della testimonianza di Marco Aurelio apud Fron-
tone, il cui codice – come si è detto sopra – era stato da poco scoperto e pubbli-
cato per la prima volta (1823). Inoltre, K.O. Müller ritornò sulla questione nella
sua edizione di Festo del 1839, p. 413, dove giustificava ulteriormente il titolo
Sota come corrispondente latino non del nome in forma completa Swtavdhı, ma

12 Cit. sopra, n. 9.
13 Se con questa congettura Scaligero intendesse ricostruire un possibile titolo Sotadicum (carmen), o la sem-
plice indicazione del metro in cui il verso è scritto, non è possibile stabilire con sicurezza.
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252 Le opere minori di Ennio

del suo diminutivo Swta`ı formato con il suffisso -a`ı tipico di altri diminutivi di
nomi propri: Müller citava l’esempio di Alexa`
j ı in luogo di Aj levxandroı14.
La spiegazione del titolo fornita da Müller ha giustamente avuto un successo
pressoché indiscusso15: l’uso di desumere il titolo di un’opera dal nome di un au-
tore greco è molto diffuso nella letteratura latina e viene introdotto proprio da
Ennio (cfr. Euhemerus e Epicarmus), seguìto da Accio (cfr. Praxidicus16). Il richia-
mo al poeta Sotade di Maronea che bisogna desumere dal titolo Sota è conferma-
to anche dal fatto che tutti i frammenti esplicitamente attribuiti dalle fonti all’o-
pera sono sicuramente scandibili in sotadei, il metro che, come si desume dal no-
me, era tradizionalmente legato appunto a Sotade. Ora possiamo inoltre docu-
mentare l’esistenza sia del nome Swta`ı17, sia del suo corrispondente latino So-
ta(s)18. Che fosse uso indicare anche il poeta Sotade in particolare con il suo di-
minutivo è un dato che Escher 1913, 9 ricava proprio dal titolo enniano; ma in
mancanza di altre attestazioni, sarà più prudente considerare l’ipocoristico Sota in
riferimento al poeta un’innovazione enniana (destinata a rimanere isolata anche in
séguito).
Si può invece ipotizzare che per Ennio Sota avesse perduto il suo originario va-
lore diminutivo (secondo un’evoluzione assai frequente e ben nota dei diminutivi
che finiscono per sostituire il loro corrispondente termine positivo: cfr. agnus>
agnellus). Ma proprio il fatto che, come si è visto, non vi sia nessun altra attesta-
zione di Sota in rapporto al poeta Sotade, rende più probabile che Sota fosse per-
cepito da Ennio con piena forza diminutiva e che sia quindi corrispondente a
espressioni italiane come «Sotaduccio» e simili.
Non abbiamo dati sicuri per la datazione del Sota: Havet 1890, 31 l’ha ritenu-
to anteriore all’Amphitruo di Plauto (e dunque all’anno 184, anno di morte del
suo autore) perché in questa commedia si trovano dei sotadei (vv. 168 ss.). Si trat-
ta di una proposta rimasta isolata, ma soprattutto perché, credo, avanzata all’in-
terno di un articolo di note sparse a vari autori e per questa ragione sfuggita agli

14 Altri esempi in F. Bechtel - A. Fick, Die Griechischen Personennamen nach ihrer Bildung erklärt und sy-

stematisch geordnet, Göttingen 18942, 29 s.


15 Non è giustificato il dubbio che pare emergere dalla fornulazione di Warmington 1935, 403.
16 Questa la forma del titolo rivendicata, dopo altri, da Timpanaro 1994, 227-240 (art. pubblic. orig. nel

1982).
17 Cfr. ad es., tra le tante attestazioni che si possono ricavare dal Lexicon of Greek Personal Names, quelle

indicate in III A, p. 417 dove si segnala, tra gli altri casi, Swta`ı in un’epigrafe di Pompei del I sec. a.C. / I sec.
d.C. Escher 1913, 9 n. 1 indicava una attestazione di Swta`ı, non riferito al poeta Sotade e databile al 295 d.C.
(POxy. VIII 1121, 16, p. 212).
18 Cfr. H. Solin, Die griechische Personennamen in Rom, Berlin-New York 20032, III 1384 s. segnala 13 atte-

stazioni a Roma, la più antica delle quali è anteriore all’epoca di Annibale. Se l’attestazione del titolo in Marco Au-
relio (l’unico che ci indica il titolo al nominativo) è affidabile, dobbiamo dedurre che Ennio usò la forma latina,
più arcaico-popolare, con nominativo in -a del nome, anziché greca con l’uscita in -as. Sull’oscillazione di Ennio
nell’uso delle due forme per i nomi propri greci della prima declinazione cfr. S. Timpanaro, 1994, 165-202 (art.
del 1986): 183-194 a cui andrà aggiunto, come ulteriore testimonianza, proprio il titolo Sota. Da Solin, loc. cit., si
ricavano 3 attestazioni sicure la più antica delle quali risale alla prima età imperiale del nominativo Sota.
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Sota - Introduzione 253

studiosi; tale datazione, comunque, si basa su una considerazione analoga a quel-


la che, indipendentemente da Havet, ha indotto Courtney 1993, 4 a ritenere il So-
ta anteriore alle Saturae enniane perché anche in queste ultime vi sarebbero dei
sotadei19: sia Havet che Courtney sembrano infatti presupporre che il sotadeo ab-
bia fatto la sua prima comparsa nella letteratura latina proprio con il Sota ennia-
no. Una considerazione del genere, vista la lacunosità della nostra documentazio-
ne, è da accogliere ovviamente con molta cautela, ma non sarebbe del tutto tra-
scurabile: al contrario di molti altri versi greci che, come ad esempio gli esametri,
avevano avuto una ampia circolazione nella cultura latina anche in epoca prelet-
teraria, il sotadeo appare un metro tipicamente alessandrino (molto probabil-
mente inventato da Sotade stesso: cfr. Pretagostini 2000, 288), e sembra difficile
pensare a una sua diffusione a Roma prima di Ennio.

Il titolo Sota costituisce, di per sé, una preziosa testimonianza perché ci con-
ferma la familiarità di Ennio con la letteratura greca più recente e in particolare
con quella alessandrina: Sotade di Maronea è un poeta dei primi decenni del III
secolo a.C. che svolse la sua attività alle corti di vari regnanti dell’epoca (tra i qua-
li Tolemeo Filadelfo, ad Alessandria, e Lisimaco, re di Tracia e poi di Macedonia)
e che morì dopo gli anni 278-7520. Oltre alle testimonianze di Callimaco negli Ai-
tia e di Egesandro di Delfi (sulle quali cfr. sotto), ve ne sono altre che documen-
tano un certo interesse per la figura di Sotade e la sua opera nei secoli III e II a.C.:
Apollonio, figlio di Sotade, scrisse un commento sull’opera del padre (cfr. Athen.
14, 620 f). Nell’ultimo terzo del II sec. a.C. Caristio di Pergamo (su cui cfr. F. Ja-
coby, RE s. v. ‘Karystios’, X [1919], coll. 2254 s.) dedicò a Sotade un nuovo com-
mento (cfr. Athen. 14, 620f) dopo quello già compiuto da Apollonio. A Roma nel
frattempo, poco dopo Ennio, si richiamò a Sotade Accio, come ci lascia capire il
titolo Sotadica di una sua opera, di cui però possediamo solo un verso di attribu-
zione sicura.

La pur preziosa indicazione del modello letterario fornita dal titolo, non rie-
sce tuttavia a compensare la nostra scarsa conoscenza del Sota che, come si è
detto, doveva occupare un intero uolumen, ma di cui ci è stata conservata una
parte assai piccola (due soli versi di sicura attribuzione e un verso incompleto di
attribuzione probabile). Anche dell’ampia produzione che nell’antichità circo-
lava sotto il nome di Sotade21 ci sono giunti solo una ventina di frammenti, per

19 Cfr. Sat. XII: per questa ragione Courtney, mutando l’ordine invalso a partire dalla seconda edizione en-

niana di Vahlen del 1903, stampa il Sota prima delle Saturae.


20 A quest’epoca si colloca probabilmente il matrimonio, satireggiato da Sotade, di Tolemeo Filadelfo con

la sorella Arsinoe II: cfr. Pretagostini 1984, 141 n. 10.


21 Suida (s. v. Swtavdh" p. 409, 23 sgg. Adler) ci parla di una Catabasi nell’Ade, di un Priapo, di un com-

ponimento contro Belestiche – l’amante di Tolemeo –, di un’Amazzone e conclude il suo elenco esemplificativo
con un kai; e{tera; sappiamo inoltre di un Adone e di una riscrittura in sotadei dell’Iliade: cfr. le fonti citate in
Pretagostini 2000, 280 nn. 25 e 27.
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254 Le opere minori di Ennio

un totale di circa 80 versi22. È forse per questa ragione che tra il Sota e il suo
modello greco possiamo trovare, come vedremo, affinità significative, ma in nes-
sun caso possiamo rilevare che Ennio abbia tradotto, più o meno liberamente,
dei versi di Sotade, e i giudizi al riguardo espressi da alcuni studiosi (divisi tra
chi considera il Sota una rielaborazione più o meno libera dell’opera di Sotade23
e chi lo considera una semplice traduzione24) sono pure ipotesi non verificabili:
al riguardo, giustamente cauti si mostrano F. Skutsch 1905 (2599 e 2602), e Tim-
panaro 1994, 239.

Il riferimento a Sotade contenuto nel titolo apre inoltre l’ulteriore problema di


stabilire se Ennio dipenda solo dal Sotade autentico oppure da quella tradizione
letteraria che circolava sotto il nome di Sotade, ma che da tempo viene ritenuta
spuria e che ci è documentata da una settantina di versi citati da Stobeo (frr. 6-14
Powell)25.
Se si tiene presente questa distinzione tra Sotade e pseudo-Sotade, si capisce la
ragione per cui, per lungo tempo, gli studiosi, nel tentativo di caratterizzare l’o-
peretta enniana trasponendovi le caratteristiche del suo modello greco, hanno
oscillato tra ipotesi diverse, talora diametralmente opposte: alcuni hanno ricono-
sciuto nel Sota un moralismo sentenzioso (e in questo caso ci si riferiva esplicita-
mente ai sotadei citati da Stobeo)26, ora un contenuto osceno (presupponendo im-
plicitamente una caratteristica saliente del Sotade ritenuto autentico)27; ora si è
pensato, in una sorta di tacito compromesso tra le due posizioni precedenti, a un
«contenuto serio in una veste allegra»28 e «che le burle e gli scherzi osceni non fos-
sero per Ennio che un pretesto per delle considerazioni di ordine pratico»29. Ma
si tratta di ipotesi in genere solo accennate, ed è comprensibile che altri studiosi
abbiano lasciato aperto il problema30.
La tesi di una dipendenza del Sota enniano solo dal Sotade autentico è stata in-

22 Edizione in I.U. Powell, Collectanea Alexandrina, Oxford 1925 [=Chicago 1981], pp. 238-244.
23 Cfr. Marastoni 1961, 19 S.: «L’opera non fu né una traduzione, né una vera e propria imitazione».
24 Cfr. Warmington 1935, 403: «this title [Sota] was probably one given by Ennius to some poem of Sota-

des […] which he translated»; all’interno di questo gruppo è da segnalare la divergenza tra chi ritiene il Sota tra-
duzione di tutta l’opera di Sotade (O. Ribbeck, Gesch. d. röm. Dicht.2, Stuttgart, I [1887], p. 18), e chi solo di
una parte (Vahlen 1903, CCXII): incerto fra le due possibilità Escher 1913, 33.
25 Così a partire A. Meineke, Analecta Alexandrina, Berlin 1843 [= Hildesheim 1964], 246 s. la cui tesi è

stata ribadita recentemente (da Bettini 1982 e Pretagostini 2000) contro alcuni tentativi di rimetterla in discus-
sione.
26 Cfr. Vahlen 1854, XC-XCI che nella seconda edizione cambierà tuttavia opinione (cfr. sotto).
27 Cfr. L. Müller 1884, 116, 98 dove Sotade viene presentato come «der Hauptvertreter einer meist schlüp-

frigen Unterhaltungsgattung […] Sie führte Ennius in die römische Literatur ein und mit ihr zugleich das me-
trum Sotadeum».
28 Secondo la definizione di Leo 1913, 204.
29 Cfr. Bolisani 1935, 102
30 Cfr. Vahlen 1903, CCXVII, che dunque cambiò opinione rispetto alla prima edizione in cui, come si è vi-

sto, ipotizzava una dipendenza di Ennio dal Sotade autentico; cfr. anche Skutsch 1905, 2599.
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Sota - Introduzione 255

vece sostenuta con particolare impegno da Bettini 1982 sulla base di una sua più
generale ricostruzione complessiva della tradizione sotadica antica che, tuttavia,
come cerco di mostrare in appendice, non risulta convincente: qui mi limito solo
a considerazioni che riguardano direttamente il Sota.
Innanzitutto Bettini, con l’intento di mostrarne l’affinità con il Sota enniano (ri-
condotto a una «letteratura di piacevole intrattenimento»31), omette di ricordare
che la poesia di Sotade non si esauriva in un puro divertissement letterario, ma
conteneva anche aperte critiche contro autorevolissimi rappresentanti del potere
politico, come viene confermato nei pur pochi frammenti di Sotade a noi perve-
nuti (il fr. 1 Powell era indirizzato non contro un qualche ignoto contemporaneo,
ma contro Tolemeo Filadelfo, il cui matrimonio incestuoso con la sorella era cen-
surato da Sotade non per il gusto dell’oscenità fine a se stessa, ma per ragioni emi-
nentemente politiche32), ed è ben sottolineato dalle testimonianze antiche. Anzi,
l’immagine di un «Sotade poeta del biasimo e del dissenso»33 è l’unica messa in
risalto nelle testimonianze contemporanee a Ennio, o a lui di poco precedenti:
proprio per aver oltraggiosamente dileggiato il matrimonio incestuoso di Tole-
meo, Sotade viene criticato, in forma sottilmente allusiva, da Callimaco nel terzo
libro degli Aitia34. Egesandro di Delfi, un autore di letteratura aneddotica della
prima metà del II sec. a.C., raccontava (come ci riferisce Athen. 14,621 a) il mo-
do atroce in cui, per ordine di Tolemeo, irritato per gli attacchi da parte del poe-
ta, fu eseguita la condanna a morte di Sotade (chiuso in una cassa di piombo, fu
calato in mare e lasciato affogare; secondo Plut. lib. educ. 14 (11 A), invece, Tole-
meo condannò Sotade al carcere a vita)35.
A Ennio – che anche altrove nella sua opera sembra risentire dei gravi conflit-
ti e delle mutevoli alleanze tra il suo influente patrono Marco Fulvio Nobiliore e
altri autorevoli esponenti della classe dirigente romana36 – non saranno certo
mancate occasioni di essere coinvolto in polemiche politiche, che forse potevano
trovarsi in parti del Sota che non ci sono pervenute; tuttavia, è un fatto che, sulla

31 Così Bettini 1982, 75.


32 Cfr. R. Pretagostini, La duplice valenza metaforica di kevntron in Sotade fr. 1 Powell, «QUCC» n. s. 39 (68),
1991, 85-87.
33 Così R. Pretagostini ha significativamente intitolato un capitolo del suo libro Ricerche sulla poesia ales-

sandrina, Roma 1984, 139-147, a cui rinvio per una discussione più approfondita di quest’aspetto della poesia di
Sotade e delle testimonianze ad esso connesse.
34 Cfr. fr. 75, 4-5 Pf.: su questa allusione cfr. Pretagostini 1984, 146. Non possiamo determinare se e in che

modo questa critica callimachea abbia influito sulla scelta enniana di ispirarsi a Sotade; noi possiamo limitarci a
constatare che, se si considera l’allusione callimachea negli Aitia, il Sota presenta una analogia con un’altra ope-
retta enniana, l’Euhemerus, ispirato a Evemero di Messina, anch’esso criticato da Callimaco, in questo caso nei
Giambi (fr. 191, 10s.). Anche le critiche che Callimaco muove a Sotade e a Evemero presentano delle analogie,
perché entrambe puntano a sottolineare il contenuto oltraggioso della loro opera (oujc oJsivh vengono giudicati
gli argomenti cantati da Sotade; a[dika sono i libri di Evemero).
35 Escher 1913, 11 ritiene che il racconto di Egesandro sia inventato, ma a noi interessa stabilire quali noti-

zie su Sotade circolassero all’epoca di Ennio.


36 Cfr. Martina 1979.
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256 Le opere minori di Ennio

base dei frammenti e delle testimonianze antiche in nostro possesso, non abbiamo
elementi per ipotizzare che si trovassero anche nel Sota attacchi, più o meno vio-
lenti, contro personalità politiche.
Alcuni significativi punti di contatto tra i pochi resti enniani e ciò che ci è do-
cumentato per il Sotade autentico sono invece assolutamente chiari. Nel fr. I
(ibant malaci uiere Veneriam corollam) si ritrova infatti il gusto per l’espressione
ambigua (tipica della produzione sotadica37) che nasconde un contenuto erotico
(forse omosessuale: cfr. commento) come nel già citato fr. 1 Powell, in cui Sotade
biasima allusivamente il rapporto incestuoso tra Tolemeo Filadelfo e sua sorella
Arsinoe II:

Eij" oujc oJsivhn trumalih;n to; kevntron w[qei38


«Spingeva il pungolo in un buco non consentito» (trad. Pretagostini 2000, 278).

In fr. 2 Powell i doppi sensi servono a descrivere in modo comico e aulico una
roboante flatulenza (che forse rimanda anch’essa a pratiche erotiche, in questo ca-
so di un omosessuale maschile passivo39):

O
J d∆ajpostegavsa" to; trh`ma th`" o[pisqe lauvrh"
dia; dendrofovrou favraggo" ejxevwse bronth;n
hjlevmaton, oJkoivhn ajroth;r gevrwn cala/` bou`"
«ed egli, aperto il buco del cunicolo posteriore,
attraverso la forra ricca di alberi emise un tuono
vano, grande come quello che lascia andare un vecchio bue da lavoro» (trad. Pretago-
stini 2000, 277)

Per la loro compiaciuta allusione a un contenuto specificamente scatologico,


questi ultimi versi di Sotade possono essere accostati a un frammento del Sota (II:
Cuprio bovi merendam) dove si indicano gli escrementi umani con una elaborata
perifrasi che solo chi conosceva le usanze coprofaghe dei buoi di Cipro poteva
adeguatamente decrittare. In Sot. IV (ille ictus retro reccidit in natem supinus) Bet-
tini vede con molta probabilità una parodia di una scena epica come la caduta di
un eroe colpito in battaglia.
Il rapporto tra il Sotade autentico e il frammento Sot. III (alius in mari uolt ma-
gno tenere tonsam) – che a partire da Scaligero (1565, 28) si unisce a Enn. Var. 28
V.2 (alii rhetorica tongent), citato senza indicazione dell’opera di provenienza –,

37 Come ha ben mostrato Bettini 1982, 66 s.: «I sotadei vanno in certo modo ‘interpretati’ [...], la loro frui-

zione consiste nel ricomporre le fila di un contenuto (di tipo evidentemente ‘basso’) nascosto dietro le formula-
zioni metaforiche del linguaggio letterario».
38 Per w[qei cfr. Pretagostini 2000, 278 n. 17.
39 Così secondo la convincente interpretazione proposta da E. Magnelli, «SemRom» 2, 1999, 99-105.
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Sota - Introduzione 257

richiede un discorso più articolato.


Se fosse sicuro che Scaligero univa i due frammenti «a motivo della somiglian-
za di attacco» – come interpreta Bettini 1982, 71 la spiegazione di Scaligero («al-
tera ajkrosticiv" a nobis addita est») – bisognerebbe riconoscere con Bettini
(1982, 72) che l’unione di due frammenti poggerebbe su presupposti assai fragili.
Ma io ritengo che già Scaligero proponesse questa connessione presupponendo
l’interpretazione che Bettini fa risalire solo a Vahlen (1903, CCXVII) e secondo la
quale i due versi farebbero parte di una sequenza in cui Ennio descrive le diverse
sorti e inclinazioni degli uomini40: chi vuole andare per mare, chi è esperto di re-
torica. Ora, sequenze del genere si trovano frequenti e insistite proprio nei sota-
dei citati da Stobeo. Si veda ad esempio il fr. 6, 3 ss. Pow.:

Ploutei` ti" a[gan, ajlla; pavqo" parevlaben aujtovn.


Eujsebhv" tiv" ejstin, penivan devdwken auJtw/.`
Mevga" ejsti; tecnivth", ajtuch` pepoivhc∆ auJtovn.
Ka]n ejpi; to; mevgiston divkaio" krith;" uJpavrch/,
dei` to;n fuvsei nikwvmenon a[dikon aujto;n eijpei`n.
Plouvsiov" tiv" ejstin, to; mevga ptw`ma fobei`tai.
jIscurov" uJpavrcei, novsou pei`ran eujlabei`tai.
«Uno è molto ricco, ma lo prese il dolore.
Uno è pio, ma ha dato a se stesso la povertà.
Un artigiano è grande, ma ha reso se stesso sfortunato.
Se un giudice giusto si offre per una causa molto importante,
bisogna che egli condanni chi ha ceduto alla propria natura.
Uno è ricco, ma teme il grande tracollo.
Uno è forte, ma si preoccupa di dover sperimentare la malattia.» (trad. Pretagostini
2000, 284 s.)

Ora, chi non volesse seguire l’ipotesi di L. Müller41, dovrà convenire che qui
Ennio è più vicino ai sotadei moralistici di Stobeo42. Bisogna tuttavia riconoscere
che la discutibile esigenza di staccare il Sota enniano da questo tipo di sotadei ha
comunque avuto l’effetto positivo di indurre Bettini (1982, 72 s.) a rilevare l’arbi-
trarietà della pur attraente connessione tra i due frammenti enniani43: ingiusta-
mente Courtney ha del tutto ignorato questa indicazione.
Ma anche tolta la connessione con alii retorica tongent, resta da spiegare il ver-
so alius in mari uolt magno tenere tonsam dove, con buona verosimiglianza, Betti-

40 In ogni caso, questa interpretazione veniva indicata esplicitamente già da Merula 1595, DCII.
41 Secondo il quale il motivo del quot capitum uiuont, totidem studiorum milia veniva usato all’inizio del
Sota per giustificarne il contenuto lascivo.
42 Così, giustamente, anche W. Aly, RE III A1 [1927], 1209.
43 Contro l’assegnazione al Sota Bettini obietta anche che per ottenere una scansione sotadica di alii retori-

ca tongent si dovrebbe presumere la presenza di una lunga irrazionale, che secondo Bettini non sarebbe usata da
Ennio: ma contro questo argomento cfr. qui sotto, l’appendice, p. 253 ss.
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258 Le opere minori di Ennio

ni (1982, 74) – fedele al suo assunto di avvicinare il Sota enniano solo allo stile e
ai contenuti che ritiene esclusivi del Sotade autentico – rileva il linguaggio epico
(analogo, in effetti, a certi frammenti omerizzanti di Sotade). Ma non si capisce
quale significato complessivo bisognerebbe dare al frammento enniano se qui ton-
sa fosse da considerare, come ipotizza Bettini, una metafora per indicare il mem-
bro virile. Forse è possibile trovare qualche possibilità di avvicinare questo fram-
mento alle tematiche erotiche tipiche di Sotade, ma si tratta di pure ipotesi prive
di indizi probanti44, e quindi non necessariamente preferibili a quella per cui nel
frammento (come riteneva possibile, ad es., Traglia 1986, 380) ci si riferirebbe
semplicemente a qualcuno che vuol navigare per dedicarsi ai commerci; quest’ul-
tima interpretazione, anzi, permetterebbe di far rientrare il frammento enniano in
una di quelle critiche dell’avidità umana che si ritrovano spesso nei frammenti del-
lo pseudo Sotade (cfr., ad es., fr. 10 Powell). Ma io credo che debba essere presa
in particolare considerazione l’ipotesi di Timpanaro (1994 [red. orig. 1991], 138
n. 92) il quale, come possibile alternativa all’intepretazione di Traglia, suppone
che nel frammento enniano il riferimento alla navigazione sia un’espressione figu-
rata e serva a indicare «un individuo audace (troppo audace? gli antichi greci e ro-
mani, come è noto, anche quando ebbero grandi navi, preferirono sempre avven-
turarsi il meno possibile in alto mare) che vuole arrischiarsi in grandi imprese».
Timpanaro per la propria interpretazione rinvia a Hor. carm. 2, 10, dove l’invito a
non affrontare il mare alto si accompagna a un’esortazione all’aurea mediocritas,
corrispondente alla greca metriotes, che è proprio il valore etico che – come ha
ben osservato anche Pretagostini (2000, 286) – viene massimamente propugnato
negli pseudo-sotadei.
E se non è legittima la sua connessione con alii retorica tongent, è comunque ve-
ro che il nostro verso, con quell’alius in posizione iniziale, si presta comunque be-
ne a rientrare in un elenco in cui – secondo un modulo tipico nelle discussioni di
carattere etico e che è possibile ipotizzare nel nostro caso – si passano in rassegna
i vari comportamenti degli uomini, proprio come nel frammento 9 Powell dello
pseudo-Sotade, il quale termina con la rivendicazione dell’ideale della metriotes.
L’affinità del Sota enniano con tematiche che riscontriamo in frammenti di So-
tade che oggi consideriamo spuri può essere spiegata in vari modi: essa può

44 Si potrebbe pensare, ad es., che si stia parlando di un marito che, per i proprio commerci, si mette in ma-

re lasciando la propria moglie vittima di attentati alla propria pudicizia, secondo una situazione presente nel I
mimiambo di Eronda e in Orazio c. 3, 7 e che F. Marx ipotizzava per un un frammento luciliano (996 M. uir ma-
re metitur magnum et se fluctibus tradit) che presenta qualche affinità anche espressiva con il frammento ennia-
no di cui ci stiamo occupando. Una contestualizzazione alternativa si avrebbe riconoscendo nell’espressione in
mari ... magno l’immagine tradizionale, su cui ha richiamato la mia attenzione Gabriella Moretti, del “mare d’a-
more” (su cui cfr. Ieranò 2003) e ritenere quindi che il nostro frammento parli di qualcuno che è deciso ad af-
frontare la passione d’amore. E, tenuto conto della propensione, ben attestata nel Sotade autentico, a parlare di
rapporti sessuali trasgressivi, si potrebbe pensare che in Ennio l’immagine del “mare d’amore” sia riferita a chi
è dedito a rapporti pederastici (come in Meleagro, AP 12, 157), e in questo contesto tonsam potrebbe avere quel
doppio senso osceno ipotizzato da Bettini.
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Sota - Introduzione 259

dipendere dal fatto che Ennio attingeva effettivamente a una tradizione pseudo-
sotadica o nella quale versi autentici erano mescolati a versi spuri. Ma si potreb-
be anche ipotizzare che considerazioni su un motivo diffuso come quello della me-
triotes si trovassero già nel Sotade autentico e che Ennio le riprendesse diretta-
mente da qui. In ogni caso credo che, in base all’analisi dei frammenti, sembra da
condividere l’opinione del Leo, secondo il quale, come abbiamo visto, il Sota en-
niano era caratterizzato da un «contenuto serio in una veste allegra»45.
Appare invece azzardato sostenere che «principale argomento del Sota» fosse
quello «grammaticale, con particolar interesse per la metrica»46: questa ipotesi è
sconfessata dai pochi frammenti del Sota di sicura attribuzione, e può poggiare so-
lamente sulla tradizione sotadica rappresentata per noi dai sotadei utilizzati da Te-
renziano Mauro (III secolo d.C.) per il suo trattato De litteris (cioè, diremmo noi,
sulla fonetica: GL VI 328 ss. Keil). Su queste basi, non si possono accogliere nel
Sota – come è stato ipotizzato47 – frammenti enniani di argomento grammaticale
che sono però tramandati senza indicazione dell’opera di provenienza e troppo
brevi per ipotizzarne una qualsiasi scansione metrica.

Appendice - Alcune osservazioni provvisorie sulla tradizione sotadica

Sulla base delle differenze che hanno da tempo indotto gli studiosi a distin-
guere i frammenti del Sotade autentico da quelli spuri, rappresentati per noi dai
sotadei citati da Stobeo, si è arrivati a sostenere che tutta la tradizione sotadica
greca e romana sarebbe divisa in due filoni in opposizione tra loro e caratterizza-
ti da una stabile associazione tra forme metriche e contenuti: quello ispirato al So-
tade autentico, e a cui si richiamerebbero il Sota di Ennio e i sotadei di Petronio,
sarebbe caratterizzato da doppi sensi osceni, tematiche cinediche e uso parodico
del linguaggio epico espressi in forme metriche regolari; nell’altro filone, rappre-
sentato dallo pseudo-Sotade e nel quale rientrerebbero anche i sotadei di Accio e
Varrone, si troverebbero contenuti moraleggianti e didascalici associati ad un uso
più irregolare del sotadeo48.
Questa ricostruzione è suggestiva – come dimostra il suo successo49 – ma su-
scita qualche perplessità. Un criterio fondamentale per distinguere i due presunti
filoni della tradizione sotadica dovrebbe essere, come abbiamo visto, l’osservanza
di determinate leggi metriche, e in particolare l’uso della cosiddetta lunga irrazio-
nale, cioè di una lunga in luogo di una delle brevi che costituiscono gli ionici a
maiore da cui è composto il verso sotadeo. È vero che la lunga irrazionale – men-

45 Così Leo 1913, 204; giudizio analogo in Bolisani 1935, 102


46 F. Della Corte, La filologia latina dalle origini a Varrone, Torino 1937, 25 n.
47 Cfr. Puelma Piwonka 1949, 182 n. 1 che si richiama esplicitamente alla ipotesi di Della Corte.
48 Cfr. Bettini 1982.
49 Da ultimo è stata accolta da W. Furley, Der neue Pauly XI (2001), 750 s.
010_sota introduzione249 9-01-2008 12:30 Pagina 260

260 Le opere minori di Ennio

tre si trova spesso negli pseudo-sotadei e ricorre anche in Accio – non si trova nel
Sotade autentico e in Ennio. Tuttavia bisogna osservare che:
• abbiamo una documentazione molto esigua non solo, come si è visto, di Sotade (una
decina di versi) e di Ennio (tre soli versi di attribuzione sicura, di cui uno incompleto),
ma anche di Accio (un solo verso di attribuzione sicura)50: una documentazione così
scarsa ci dovrebbe indurre, già in linea di principio, a una grande cautela metodica nel
fissare delle leggi metriche, tanto più che nel caso della lunga irrazionale si vorrebbe di-
mostrare non solo la sua frequenza nello pseudo-Sotade, ma anche la sua assenza in
Sotade e in Ennio: ma questi ultimi potevano aver fatto ricorso alla lunga irrazionale
nell’ampia parte della loro opera che non ci è pervenuta;
• anche sulla base di questa esigua documentazione, le presunte leggi metriche che do-
vrebbero distinguere i due filoni sotadici vengono talora ricavate in maniera incoeren-
te: il molosso che ricorre in Ennio si trova solo negli pseudo-sotadei, e su questa base
si ritiene possibile che fosse presente anche nel Sotade autentico per attribuirgli il fram-
mento inc. 17 Powell51;
• se il sotadeo più irregolare è stabilmente associato a contenuti didattici, non si capisce
perché Terenziano Mauro, per una discussione programmaticamente didattica come il
suo trattato De syllabis (cioè di fonetica: GL VI 328-333 Keil) utilizzi una sequenza
ininterrotta di 193 sotadei assolutamente regolari, del tutto privi di lunga irrazionale;
• se prerogativa esclusiva del filone pseudo-sotadeo è l’uso della lunga irrazionale, non si
capisce come possa essere spiegata la sua frequente presenza nei sotadei del cosiddet-
to “Romanzo di Iolao”52, versi che per la loro affinità tematica con i sotadei di Petro-
nio53, dovrebbero rientrare nel filone che si richiama al Sotade autentico54.

Per quanto riguarda il contenuto, abbiamo già visto che:


• per individuare il filone che si richiamerebbe al Sotade autentico, non si mette in rilie-
vo che in quest’ultimo era fondamentale il tema della satira contro i potenti, che inve-
ce non si ritrova nei suoi presunti continuatori Ennio e Petronio (cfr. anche sopra,
p. 249 s.);
• un verso del Sota enniano può, di converso, essere accostato, per il motivo dell’aurea
mediocritas, ai frammenti dello pseudo-Sotade (cfr. sopra, p. 250 ss.).

50 Sulla base di quest’unico verso Bettini 1982, 80 deduce che il sotadeo acciano «ammette tali e tante pos-

sibilità che in pratica può rientrarci un po’ di tutto»: si tratta di un criterio ben poco utile per stabilire conget-
turalmente la scansione sotadica di altri versi acciani il cui metro è in realtà molto discusso. Più opportuna sa-
rebbe stata una discussione dei 4 versi dalle Saturae enniane (fr. XII) che, se si accogliesse la loro scansione so-
tadica comunemente ammessa da lungo tempo, presenterebbero frequenti casi di lunga irrazionale (cfr. da ulti-
mo la scansione proposta da Courtney e cit. qui sopra, p. 148 s.).
51 Cfr. Bettini 1982, 62.
52 Dove ricorre sicuramente ben 4 volte (POxy. 3010, rr. 26, 27 [bis], 28) in soli 19 versi, molti dei quali fra

l’altro estremamente frammentari: cfr. adesso l’edizione in S.A. Stephens - J.J. Winkler (edd.), Ancient Greek No-
vels. The Fragments, Princeton 1995, 358-374.
53 Come riconosce anche Bettini 1982, 90 n. 104.
54 Che Bettini 1982, 91 n. 104 attribuisca scarso rilievo alla presenza della lunga irrazionale in questi versi

è in contraddizione con l’assunto fondamentale di tutta la sua ricostruzione della tradizione sotadica: cfr. ad es.
p. 69, dove Bettini riassume gli usi metrici nella tradizione che si richiama al Sotade autentico con la «regola dei
XXII tempora complessivi (regola che esclude automaticamente, come si vede, l’uso di lunghe irrazionali»).
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Sota - Introduzione 261

Sulla base di queste considerazioni mi domando se la discussione, soprattutto


quella più recente, sul rapporto tra Sotade e lo pseudo-Sotade non rischi di esse-
re viziata da un’erronea impostazione secondo la quale si prendono in considera-
zione solo le due alternative: o 1) marcare una rigida separazione tra Sotade e lo
pseudo-Sotade (e i loro rispettivi continuatori) o 2) ammettere l’autenticità dei so-
tadei tramandati da Stobeo. Ma una volta riconosciuto, giustamente, che i sotadei
citati da Stobeo sono spuri, io credo che sia da riconsiderare una terza ipotesi al-
ternativa: che anche gli pseudo sotadei, per quanto spuri, cerchino di rispecchia-
re alcuni aspetti – magari ora enfatizzandoli a discapito di altri, ora distorcendoli,
ora banalizzandoli – già presenti nel Sotade autentico55, con il quale gli pseudo-
sotadei si ponevano, almeno nelle intenzioni, non in un rapporto di opposizione,
ma di continuità56. Questa ipotesi è possibile, come abbiamo visto, non solo per
la metrica57, ma anche per il contenuto. Come è stato ben osservato, l’atteggia-
mento egualitario che emerge nello pseudo-sotadeo 9 Powell (Eij kai; basileu;"
pevfuka", wJ" qnhto;" a[kouson: «seppure sei nato re, presta ascolto come un co-
mune mortale»: trad. Pretagostini 2000, 289) dove i re vengono posti sullo stesso
piano di tutti gli altri uomini, può trovare una radice nelle caustiche critiche con
cui Sotade censurava il comportamento dei re che non si ritenevano vincolati alla
morale comune58.

55 Così già W. Aly, RE III A1 [1927], 1209, rr. 11-13.


56 Ad un rapporto di continuità e non di opposizione sembra d’altro canto pensare A. Meineke (Analecta
Alexandrina, Berlin 1843, 246), che per primo considerò spuri i sotadei tramandati da Stobeo, ma considerando
il loro rapporto con il Sotade autentico analogo a quello che sussiste fra Anacreonte e le anacreontee: in questo
modo gli pseudo-sotadei si configurano come un tentativo, per quanto mal riuscito, di imitare Sotade.
57 Forse si potrebbe anche pensare che l’uso della lunga irrazionale negli pseudo-sotadei sia nato da un

fraintendimento di quei casi in cui il Sotade autentico presenta delle lunghe irrazionali che Bettini (1982, 63 s.,
da integrare con le precisazioni di Pretagostini 2000, 281 n. 29 e 282 s.) ritiene di poter eliminare presupponen-
do delle licenze prosodiche.
58 Cfr. Pretagostini 2000, 289.
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011_SOTA FR. ecc.263 9-01-2008 12:31 Pagina 263

Sota - Commento, fr. I (= Var. 25 V.2) 263

Sota
Commento ai frammenti

Sot. I (= Var. 25 V.2)

Questo verso enniano è tradito in forma assai corrotta nel cosiddetto Fragmen-
tum de Metris (un tempo attribuito erroneamente a Censorino), ma oggi si può ri-
costruire con assoluta sicurezza sulla base delle altre due fonti del frammento,
Varrone e Festo: in quest’ultimo, tuttavia, il frammento enniano compare solo nel-
le edizioni a partire da quella uscita a Firenze nel 1582.

Prima di questa data, in assenza dell’importante testimonianza di Festo (che offre il te-
sto più corretto), è risultato difficile individuare la presenza, all’interno del frammento en-
niano, di una forma del raro aggettivo malacus, oscurato in Varrone da un’erronea divi-
sione di parole (mala civiere) e ulteriormente corrotto nel Fragmentum (mala cluere / ma-
la eluere / mala duere / mala due: cfr. Sallmann 1983 ad loc.); ad esempio, un editore di
Varrone non ben identificato (ma anteriore al 1563, perché la sua proposta viene citata –
con assenso – nell’edizione di Varrone uscita in quell’anno a cura di Vertranius) aveva con-
getturato mane viere. Rispetto a questa situazione testuale, nel 1565, sia G.G. Scaligero
che A. Turnebus, indipendentemente l’uno dall’altro e sulla base di presupposti comple-
tamente diversi, compiono un significativo progresso proponendo di leggere rispettiva-
mente malacam viere e malaci viere.
Con l’introduzione di malacam G.G. Scaligero (1565, 28) intendeva innanzitutto otte-
nere una scansione sotadica del verso e portare così un altro elemento a sostegno della sua
brillante intuizione, che solo nell’800 verrà confermata e ulteriormente precisata, secondo
la quale il verso enniano proveniva da un’opera legata appunto alla tradizione sotadica e
non, come si era creduto fino ad allora, a quella teatrale (cfr. sopra, p. 245). Che Scalige-
ro sia poi arrivato a congetturare malacam in luogo di malaci – che pure avrebbe permes-
so anch’esso di ottenere un sotadeo e che si sarebbe già potuto agevolmente ricavare an-
che dalla sola testimonianza di Varrone – si spiega con la concomitanza di due cause:
1) la mancanza della conferma di malaci da parte di Festo, la cui testimonianza – come si
è visto – all’epoca in cui Scaligero propose malacam non era stata ancora pubblicata;
2) l’ipotesi, avanzata dallo stesso Scaligero, che il verso enniano fosse traduzione di un
verso greco adespoto citato da Efestione (11,5 p. 36 Consbruch) pov<i>a" tevren a[nqo"
malako;n mavteisai (così oggi in Inc. auct. 16,3 Voigt: in Scaligero è citato con lievi va-
rianti qui ininfluenti). L’interpretazione di questo verso greco non è esplicitata da Scalige-
ro ed è oggi discussa: «sfiorando dolcemente la tenera erba» è la traduzione proposta da
B. Marzullo, Frammenti della lirica greca, Firenze 19672, 72 (con malakovn avverbiale,
a[nqo" = ‘sommità’ e mavthmi, di cui mavteisai è participio presente, inteso con il signifi-
cato di ‘calpestare’) contro la traduzione alternativa «cercando il tenero, molle fiore del-
l’erba» (secondo la quale mavthmi significa ‘cercare’ e malakovn è attributo di a[nqo"; era
evidentemente partendo da quest’ultima interpretazione di malakovn che Scaligero era in-
dotto a introdurre in Ennio malacam per riferire questo aggettivo, con il suo significato
originario di ‘morbido’, a corollam). Ma, anche dopo l’introduzione di malacam, la pre-
sunta somiglianza tra il verso enniano e quello greco, in qualsiasi modo lo si interpreti,
011_SOTA FR. ecc.263 9-01-2008 12:31 Pagina 264

264 Le opere minori di Ennio

continua in realtà ad apparire molto vaga (nel testo greco manca, ad esempio, qualsiasi ri-
ferimento al uiere e a Venere); inoltre il verso greco sia per il metro (l’ipotesi di una scan-
sione sotadica presupposta da Scaligero – ma si tratterebbe comunque di un sotadeo in-
completo – non è più presa in considerazione oggi da nessuno), sia per il contenuto (che
parrebbe consistere nella descrizione di una danza: cfr. Marzullo, cit.) non presenta carat-
teristiche evidenti che lo facciano rientrare nella tradizione sotodica.
Indipendentemente da Scaligero (e senza tener conto né della sua ‘ipotesi sotadica’, né
del confronto con il verso greco), malacam viene preso in considerazione anche da Tur-
nebus (1565, Adversaria XXI 36) il quale, tuttavia, alla fine preferisce malaci in quanto te-
sto tràdito e lo interpreta nel senso traslato di «homines [...] molles». Turnebus non si sof-
ferma ulteriormente sul contenuto del frammento, ma con la sua difesa e interpretazione
di malaci sembra avervi scorto quell’allusione erotica che noi oggi possiamo riconoscere
come una delle tematiche della poesia sotadica.

Le tre fonti citano il frammento enniano per tre ragioni diverse: sintattiche per
Varrone (che vuole documentare il nesso coronam viere, dove il verbo uiere è un
sinonimo di uincire, come ci dice Varrone stesso); lessicali per Festo (che vuole
spiegare il significato del verbo uiere); metriche per il Fragmentum (che cita il ver-
so come esempio di Ionicus septenarius, cioè di sotadeo).
Sulla base del testo oggi comunemente accolto (e dunque con la correzione vieri <id>
est vinciri in luogo di viere ê vincere del fondamentale codice F1; per altre proposte di cor-
rezione cfr. l’apparato di Spengel 1885 e Goetz-Schoell 1910, 251), interpreterei il diffici-
le passo di Varrone nel seguente modo: per dimostrare che il nome della dea Victoria de-
riva non da uincere ma da uincire, Varrone osserva che simboli tradizionali con cui pro-
prio questa dea viene rappresentata sono la corona e la palma (Ideo haec [cioè appunto la
dea Victoria] cum corona et palma). La corona infatti, è il ragionamento di Varrone, ri-
chiama il uincire per due ragioni: 1) perché lega la testa (quod [...] uinclum capitis); 2) per-
ché la corona stessa (ipsa) si ottiene tramite un’operazione di legatura; la corona, con una
parola che deriva da uinctura (a vinctura), si dice uieri, cioè uinciri. Da ciò (a quo, cioè dal
sintagma coronam uiere) si trova nel Sota di Ennio [...] uiere corollam: la citazione ennia-
na viene introdotta con a quo per specificare che Ennio ha preso appunto le mosse dal nes-
so uiere coronam, modificandolo tuttavia con l’introduzione del diminutivo corollam. Su-
bito dopo la citazione del frammento enniano, Varrone passa a esporre le ragioni per cui
il legame etimologico tra uincire e la dea Victoria è dimostrato, oltre che dalla corona, an-
che dalla palma: essa ha le foglie legate (uincta) per natura (natura) in numero pari da en-
trambe le parti (del ramo). Si noti che qui natura vuole esprimere un’opposizione tra la co-
rona e la palma: l’atto del legare è l’effetto di un processo artificiale nel primo caso, e na-
turale nel secondo. In questo modo, il testo di Varrone (valutato ovviamente iuxta propria
principia etymologica) acquista una salda coerenza logica, secondo la quale la citazione da
Ennio è strettamente legata al contesto generale del discorso: essa serve a dimostrare la se-
conda delle ragioni per cui, secondo Varrone, la corona dimostra il rapporto etimologico
tra uincire e la dea Victoria.

1 Confermo per esame autoptico (su microfilm) che il codice F non ha vincire (come affermato nell’app.

critico di Collart 1954) ma vincere.


011_SOTA FR. ecc.263 9-01-2008 12:31 Pagina 265

Sota - Commento, fr. I (= Var. 25 V.2) 265

La scansione è — — ! ! | — ! — ! | !! ! — ! | — — . Il sintagma
ire + infinito (con valore finale) attestato in ibant ... uiere non è grecismo (come ri-
teneva Bolisani 1935, 103), ma appartiene alla lingua d’uso arcaica (così, sembra,
anche H.-Sz. 344; più chiaramente Timpanaro 1950). Viere è citato molto spesso
in testi grammaticali antichi a partire da Varrone per stabilirne rapporti etimolo-
gici con varie parole (cfr. Maltby 1991, s. v. uieo, p. 645 e Adkin 2005, 95), ma in
testi letterari si trova solo in questo passo di Ennio. Probabilmente a ragione, dun-
que, Eernout-Maillet4, p. 735, lo considerano un termine tecnico (comunque si
tratta di un termine raro: Varrone e Festo sentono la necessità di glossarlo). Nel
nostro passo enniano, il verbo non ha solo il significato proprio rilevato dalle fon-
ti, ma anche un doppio senso erotico, desumibile innanzitutto dalla presenza di
Veneriam, il cui significato traslato di “erotico, lascivo” si trova ad es. in Varr. Men.
11 (con senso proprio si trova usato invece in Plaut. rud. 329 Veneria sacerdos). In
generale, Ennio, con un gusto per le anfibologie ben attestato nella letteratura so-
tadica (cfr. introduzione, p. 250), sembra giocare su un doppio senso uiere Vene-
riam corollam, espressione che può essere interpretata con il significato di: 1) in-
trecciare una corona in onore a Venere (in una cerimonia rituale: con questo solo
significato il passo enniano è interpretato nel Th. l. L. IV [1908] 976, 40 ss.);
2) avere rapporti sessuali. Corollam è un diminutivo positivato di corona 2, specia-
lizzato nell’indicare la corona di fiori e foglie (cfr. Th. l. L. IV [1908] 976, 40 s.);
l’uso metaforico (in senso erotico) di corolla non risulta mai altrove attestato, ma
qui risulta facilmente intuibile in base al contesto3. È impossibile stabilire con si-
curezza se in questo frammento si stia parlando di rapporti etero od omosessuali,
anche se a quest’ultima ipotesi sembra indurre la presenza di malaci.

Malacus è un grecismo – cfr. malakov" – attestato in poesia latina solo di età arcaica (cfr.
Th. l. L. VIII 161, 49 ss.) e al quale, nei testi letterari di epoca classica, verrà preferito il
suo sinonimo mollis; malacus sembra tuttavia continuare a sopravvivere in latino perché,
seguendo un percorso di molte altre parole latine e ben noto, pare riemergere in testi di
epoca tarda (cfr. i passi di Porfirione e Nonio citati sotto). Con il suo significato origina-
rio di “soffice, morbido” malacus si trova sicuramente usato in Nevio (tr. 46 R.3) riferito
ai mortualia (le vesti da lutto), e in due passi plautini (mil. 688 e Bacch. 71) riferito a un
pallium. Ma questo significato di base si presta a vari usi traslati, non sempre tutti distin-
guibili nettamente. Per questa ragione, e per la mancanza di un contesto più ampio, risul-
ta difficile precisare l’esatto significato di malaci nel nostro frammento, e ancor più diffi-
cile è stabilirne la funzione sintattica: malaci è stato inteso ora come predicativo (cfr. Tra-
glia 1986, 379: «essi andavano voluttuosamente a intrecciare una ghirlanda di Venere»),

2 Rispetto a corollam, garantito dall’accordo di Varrone e Festo e quindi da accogliere in Ennio, coronam

di tutti i codici del Fragmentum è certo una variante erronea che, tuttavia, può essere addebitata non alla tradi-
zione manoscritta, ma all’autore stesso del Fragmentum: sulla base di questa ipotesi è condivisibile la scelta de-
gli editori di accogliere coronam nel testo del Fragmentum.
3 Per una metafora erotica analoga a Veneriam corollam, L. Müller, nella sua edizione di Ennio (1884, 211)

citava Lucr. 4, 1113 e 1204 Veneris compages.


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266 Le opere minori di Ennio

ora come soggetto (cfr. Bolisani 1935, 100: «quegli effeminati si recavano a cingere il ser-
to di Venere»). Non si può escludere, a rigore, che il concetto di ‘morbidezza’ alla base di
malaci indichi metaforicamente la scioltezza dei movimenti e dunque equivalga a «fles-
suosi» (e con questo valore malaci si presterebbe bene ad essere complemento predicati-
vo di ibant), secondo un’accezione che già il Th. l. L. s. v. ritiene giustamente prevalente
in Plaut. mil. 668 (tum ad saltandum non cinaedus malacus aequest atque ego: in questo
contesto malacus sembra infatti voler soprattutto sottolineare l’agilità nel ballo tipica dei
cinaedi). Ma, nel contesto erotico del frammento enniano, un eventuale riferimento alla
flessuosità del portamento (o a un aspetto troppo curato) parrebbe mirato a enfatizzare
soprattutto la mollezza morale di chi è tutto dedito alle raffinatezze e alla ricerca del pia-
cere: e quest’ultima, anzi, è forse l’unica accezione di malacus nel nostro frammento (co-
me in Plaut. Bacch. 355 hic nostra agetur aetas in malacum modum). Questa è l’interpreta-
zione alla base della traduzione non solo (come abbiamo visto) di Traglia, ma anche di al-
tri studiosi, i quali danno tuttavia all’aggettivo una connotazione negativa più accentuata
(cfr. «effeminati» di Bolisani cit. sopra; «lechers [= dissoluti]» di Warmington 1935, 405
che, nel presentare il frammento, parla anche di «wanton living [= scostumati]»); questo
è un ulteriore sviluppo del significato originario di malacus che non risulta documentato
nelle altre attestazioni di questo aggettivo in poesia latina arcaica, ma che appare assai na-
turale. Con una chiara connotazione negativa malacus è usato per spiegare il valore di
“effeminato” del termine maltha in Porph. ad Hor. sat. 1,2,25 (maltha [...] malacos [no-
minativo con desinenza greca] dicitur) e in Non. 37,6 ss. M. (maltas veteres molles appel-
lari voluerunt, a Graeco, quasi malacus [malakouvı Lindsay]): in queste attestazioni, anzi,
quello di «effeminato», con connotazione nettamente negativa, sembra ormai il significa-
to esclusivo di malacus. La connotazione chiaramente negativa di malacus è inoltre am-
piamente attestata per il suo corrispondente greco malakovı, usato metaforicamente per
designare la mollezza fisica e morale (cfr. LSJ s. v. III 2). È possibile inoltre precisare ul-
teriormente il valore di malaci pensando che quest’aggettivo nel frammento enniano ser-
va a designare due omosessuali maschili: con questo valore (probabilmente già implicito
nelle testimonianze di Porfirione e Nonio) è usato senz’altro malakovı (cfr. LSJ s. v. III 2
d); d’altro canto, malacus è riferito altrove a moechi e cinaedi (cfr. rispettivamente Plaut.
truc. 609 e il già citato Plaut. mil. 668); analogamente, l’aggettivo mollis, destinato nei te-
sti letterari successivi all’epoca arcaica a sostituire completamente malacus, viene spesso
riferito a pathici e cinaedi (cfr. Th.l.L. s. v. mollis VIII 1379 [1960], 26 ss.: tra questi casi
vi è anche quello di molles riferito agli spatalocinaedi nei sotadei di Petron. 23); Plut. Cic.
7,7 usa malakiva per alludere all’omosessualità.

Il riferimento ad amori omosessuali si addice bene alla tradizione sotadica, che


secondo le fonti antiche era caratterizzata dalla kinaidologiva (cfr. Ath. 14,620f),
forse riscontrabile nel fr. 1 Powell (cfr. sopra, introduzione, p. 250), ed è ben te-
stimoniata dai sotadei di Petronio 23 (un rapporto omosessuale è comunque pre-
supposto nell’interpretazione di questo frammento proposta da Havet 1890, 30 su
cui vedi sotto, comm. a Sota II).
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Sota - Commento, fr. II (= Var. 26 V.2) 267

Sot. II (= Var. 26 V.2)

Il frammento costituisce sicuramente una parte di sotadeo (scansione esplicita-


mente indicata dalla fonte): non è altrettanto sicuro che ne fosse la parte finale:
< — — ! ! |— — > ! ! | — + — + | — —; si potrebbe pensare anche ad al-
tre sistemazioni metriche come ad esempio: < — — > ! ! |— + — + | — —
< ! ! | — — >; si tenga presente inoltre che l’accusativo merendam potrebbe
essere dovuto ad adattamento alla sintassi del contesto in cui il frammento viene
citato: nell’originale poteva trovarsi il nominativo merendâ). Merenda è un agget-
tivo sostantivato derivato da mereo e che indicava propriamente il pasto, da con-
sumarsi tra il pranzo e la cena, offerto ai soldati mercenari come parte della loro
ricompensa (cfr. Th. l. L. VIII [1952] 801, 81 ss.). I buoi di Cipro avevano fama
di essere coprofagi: cfr. Paroemiographi Graeci I, p. 224 n. 49 e II p. 331 n. 100;
Antiph. 126 Kock = PCG II 124 Kassel-Austin [su cui cfr. J. Vahlen, «Hermes»
1908, 514 e Lunelli 1980, 209 e nn. 1 e 2]; Eudox. F 361 b Lasserre; secondo An-
tifane i buoi erano spinti alla coprofagia da Afrodite, che voleva così tenere lon-
tani da questa pratica i maiali a lei cari; secondo il tentativo di spiegazione più ra-
zionalista di Plin. n. h. 28,266, i buoi di Cipro ricorrevano alla coprofagia per cu-
rare le infezioni intestinali).
Tutta l’espressione Cuprio boui merendam è dunque una elaborata perifrasi per
indicare sicuramente gli escrementi, ma non possiamo stabilire in quale contesto
essa venisse usata (forse per esprimere il disgusto verso un cibo ripugnante; di-
versamente Havet 1890, 30, pensava che questo frammento e Sot. fr. I fossero ri-
feriti a un rapporto omosessuale maschile e descrivessero una situazione analoga
a quella a cui fa riferimento anche Lucil. 1186 Marx). Non convincente è la di-
versa interpretazione complessiva del frammento proposta da A. Kessissoglu,
«RhM» 133, 1990, 73 s., secondo il quale bos Cyprius sarebbe invece da riferire
non, letteralmente, all’animale ma, metaforicamente, a una persona non identifi-
cabile e di cui si vuole così ridicolizzare la schiena deforme: a sostegno della pro-
pria tesi, Kessissoglu si serve anche dell’osservazione – in sé giusta – che merenda
non si trova mai altrove documentato per indicare il pasto di un animale: ma l’u-
so di merenda in questo contesto si può giustificare proprio con quel gusto – di
cui Kessissoglu non pare consapevole – per la scatologia camuffata che caratteriz-
za la tradizione sotadica (cfr. in part. il fr. 2 Powell di Sotade, citato sopra, p. 250).
Pare inoltre probabile che Ennio, per riferirsi al pasto dei buoi di Cipro, tra i va-
ri possibili termini per indicare il cibo, abbia usato proprio merenda pensando iro-
nicamente al rapporto etimologico di questa parola con mereo: bel tipo di ricom-
pensa è quella di cui si parla!

Altre argomentazioni usate da Kessissoglu sono ancora più deboli. Innanzitutto Servio
Dan. (ad georg. 1, 138) non testimonia – come vorrebbe Kessissoglu – che con bos Cyprius
«Romans denoted […] physical deformity», ma solo che i buoi di Cipro erano caratteriz-
011_SOTA FR. ecc.263 9-01-2008 12:31 Pagina 268

268 Le opere minori di Ennio

zati dalla gobba (quidam autem [scil. dicunt] non omnium boum u{bon, sed eorum tantum
qui sunt, ita ut Cyprii, gibberi). Kessissoglu inoltre osserva che se non riferissimo bos Cy-
prius metaforicamente a una persona, solo in questo passo enniano il sintagma avrebbe un
significato strettamente letterale: osservazione che avrebbe qualche valore se avessimo al-
tre testimonianze del sintagma bos Cyprius, e in tutte queste l’espressione fosse usata solo
metaforicamente, ma Kessissoglu non cita neppure un esempio; lo stesso K., d’altronde,
afferma che «the phrase [bos Cyprius] is nowhere used in the entire history of the langua-
ge»: affermazione peraltro dovuta a una concezione della lingua un po’ meccanica: non si
vede perché bos Cyprius debba essere considerato un sintagma particolare e non sempli-
cemente un modo per indicare la localizzazione dei buoi e quindi equivalente, in buona
sostanza, all’espressione boues in Cypro usata da Plinio (citato dallo stesso K.); anche in
Servio Dan. Cyprii sarà da integrare, in base al contesto, con boves): e sia in Plinio che,
come abbiamo visto sopra, nel Servio Dan., l’espressione non può evidentemente essere
riferita che ai buoi.

Per le caratteristiche che abbiamo evidenziato sopra, l’attribuzione del fram-


mento al Sota è certo assai probabile, ma non si può escludere una sua apparte-
nenza alle Saturae se si considera che in questo caso Festo, il quale accompagna la
citazione del frammento con l’espressione Ennius Sotadico uersu, «non avrebbe al-
cuna ragione di richiamare l’attenzione sul metro» (Courtney): questo argomento
servirebbe semmai a dimostrare il contrario, perché la specificazione del metro
avrebbe più senso per un frammento proveniente dalle Satire (dove i metri usati
erano diversi: Gellio cita due versi dalle Satire, fr. XIb, indicando anche che si trat-
ta di uersus quadrati), piuttosto che dal Sota, dove il metro adottato era già indi-
cato implicitamente dal titolo.
011_SOTA FR. ecc.263 9-01-2008 12:31 Pagina 269

Sota - Commento, fr. III (= Var. 27 V.2) 269

Sot. III (= Var. 27 V.2)

Per l’interpretazione e la contestualizzazione di questo frammento (in genere


connesso con il fr. II) cfr. l’introduzione, p. 250 ss.

La scansione è ! ! ! — ! |— — — |— ! — ! | — — . Il verso appare par-


ticolarmente ricercato per disposizione delle parole e figure di suono: due sintag-
mi allitteranti (mari ... magno e tenere tonsam), il primo dei quali in iperbato; nel
secondo, il gruppo di suoni allitteranti presenta una variazione della vocale inter-
posta tra le due consonanti, secondo un modulo frequente in poesia latina arcai-
ca già a partire da Liv. Andr. Odusia Mariotti 1 uirum .. uorsutum (non uersutum:
cfr. A. Perutelli, «Philologus» 149, 2005, 162-3): cfr. Sc. Mariotti, Livio Andronia
e la traduzione artistica, Urbino 19862, 29 s.; nel nostro caso questa allitterazione
è posta in particolare rilievo dalla collocazione in finale di verso (come nell’esa-
metro enniano sat. 66 V.2 ... piscibus pascit). Anche il lessico appare di stile eleva-
to: il nesso mare magnum, attestato fin da Livio Andronico tr. 33 R.3, si ritrova in
frammenti epici e tragici dello stesso Ennio (sc. 65 V.2; ann. 434 Sk.) e avrà gran-
de fortuna almeno fino a Stazio (Theb. 4,28), soprattutto in poesia e prosa eleva-
ta (Sall. Iug. 18,6); probabilmente come ennianismo si ritrova assai spesso in
Lucrezio (2,1; 2,553; 3,1029; 5,276; 6,142; 6,506; 6,615) e, una volta, in Virgilio
(Aen. 5,626). L’unica altra attestazione del nesso tenere tonsam (= ‘remare’) si ri-
trova probabilmente negli annales enniani (294 Sk. tonsamque [Carrio: tusante
cdd.] tenentes); Skutsch 1985, 474 osserva che in latino l’unico verbo singolo che
esprime lo stesso concetto sarebbe remigare, che tuttavia non è mai attestato in la-
tino arcaico, e che si adatta male al metro. Ma anche riconosciuta questa difficoltà
per l’esametro, essa non varrebbe certo per i sotadei, dove re–mi±ga–re± poteva inse-
rirsi assai facilmente: è probabile che nel nostro caso il nesso sia usato, oltre che
per le sue caratteristiche di nesso allitterante, anche per utilizzare un vocabolo ri-
cercato come tonsa (= ‘remo’) su cui cfr. Timpanaro 1994 (red. orig. 000), 135-
140: si tratta di un «participio sostantivato [da tondeo], riferito a un’abies o pinus
sottintese» (Timpanaro, cit. 139: diversamente Skutsch 1985, 218) e di «parola ri-
gorosamente limitata al linguaggio poetico, da Ennio fino, almeno, a poeti della
cosiddetta età argentea: non, dunque, un termine marinaresco né del linguaggio
tecnico» (Timpanaro, cit. 136).
011_SOTA FR. ecc.263 9-01-2008 12:31 Pagina 270

270 Le opere minori di Ennio

Sot. IV (= Var. 29 V.2)

Questo frammento è citato – senza indicazione né dell’opera di provenienza, né


del suo autore – nel Fragmentum de metris dello pseudo-Censorino a esemplifica-
zione di uno ionicus <a> maiore, cioè di un sotadeo, che presenta un uitium nella
terza sillaba: dunque la fonte scandiva il primo ionico ill(e) ictus re|tro rilevando
come anomala la sequenza — — — !, con una lunga irrazionale eliminata da San-
ten con la trasposizione ictus ille (che dà luogo alla sequenza — ! — !). Ma que-
sta correzione non è accettabile perché essa, come osservava Jahn 1845, fa scom-
parire il uitium presupposto dalla fonte; è possibile che l’autore del Fragmentum,
come supponeva Lachmann1, rilevasse un uitium nel nostro verso perché in ictus
non riconosceva il fenomeno della s caduca, che permetterebbe di ottenere uno
ionico senza lunga irrazionale (la cui presenza nei sotadei non si può però esclu-
dere a priori: cfr. sopra, p. 253 s.). Ma dalla testimonianza della fonte non penso
che si debba dedurre necessariamente che, come supponeva Butzer 1889, 19, il
fenomeno della lunga irrazionale fosse ignoto all’autore del Fragmentum: si po-
trebbe anche pensare che il Fragmentum indicasse come uitium un fenomeno cer-
to anomalo, ma non impossibile e comunque attestato, come in Serv. ad Aen. 8,
83 si giudica uitiosum il fatto che un esametro finisca con un monosillabo.
L’attribuzione al Sota enniano di questo frammento viene accettata da tutti gli
editori moderni2 sulla base di un rapido suggerimento di K. Lachmann in una no-
ta a Lucr. I 186 (tuttavia Lachmann si era espresso con cautela «Sotadeum, qui
potest Ennii esse»): l’attribuzione può contare come elemento a suo favore il fat-
to che la stessa fonte ci tramanda un altro frammento sicuramente proveniente dal
Sota enniano. Certo il frammento, indipendentemente dal suo autore, si inserisce
bene nella tradizione sotadica perché esso sembra parodiare, come osserva Betti-
ni (1982, 74 s.) il motivo epico tradizionale secondo il quale l’eroe in combatti-
mento cade in avanti: anche nel nostro frammento sembra che si stia parlando di
qualcuno colpito in combattimento (cfr. ictus); è forse per enfatizzare le modalità
specularmente opposte a quelle delle cadute tradizionali degli eroi epici che, nel
nostro frammento, viene sottolineato in modo ridondante il fatto che la caduta av-
viene all’indietro (cfr. retro3, supinus, in natem).
Questa interpretazione del frammento, per quanto ipotetica, appare comunque
più fondata di quella di Bolisani 1935, p. 103, il quale ritiene che «forse» anche in

1Come riferisce Jahn 1845 nell’apparato critico della sua edizione di Censorino, ad loc.
2Qualche perplessità mostra Traglia per il quale «il contenuto sembrerebbe più appropriato alla rappre-
sentazione di una scena comica».
3 Tenuto conto del modo farraginoso in cui è stato compilato, non credo che dall’apparato critico di Sall-

mann – dove retrocedit e retrocecidit vengono presentate come varianti di recidit e recedit della tradizione più au-
torevole (C, P e V) – si possa dedurre che in questi ultimi codici sia stato omesso retro: la sua presenza in C e V
è chiaramente attestata dall’apparato critico di Hultsch 1867 (che si fonda su una collazione diretta dei codici,
qui indicati con la lettera D).
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Sota - Commento, fr. IV (= Var. 29 V.2) 271

Ennio, come in Prop. IV 8, 44 (reccidit inque suos mensa supina pedes) – dove Bo-
lisani considera «palese una reminiscenza enniana» – si parli di uno dei tristi pre-
sagi che anticipano la scoperta di un adulterio: ma l’elemento che ha indotto Bo-
lisani ad accostare i passi di Ennio e Properzio è molto debole (cfr. sotto). Recci-
dit – introdotto congetturalmente metri causa da Lachmann (re±cidit non potrebbe
trovare posto all’interno di questo sotadeo) – viene solitamente inteso come per-
fetto, ma sembra attestato il suo uso anche come presente (cfr. N.-W., III3, [1897],
367). In ogni caso reccid- è la forma consueta di perfetto per cui la sua ricorrenza
in Prop. IV 8, 44 non è sufficiente per stabilire che in questo passo Properzio si
ricordi del nostro frammento enniano, come sembra invece supporre Bolisani cit.
Credo che in natem determini non ictus (come presuppone evidentemente Boli-
sani nella sua traduzione: «quegli cadde all’indietro supino, colpito alla natica»),
ma reccidit supinus (così anche nella traduzione di Traglia: «Egli colpito cadde al-
l’indietro supino, poggiando col deretano»): è vero che di solito in e l’accusativo,
quando completa rec(c)idere, sembra avere prevalentemente valore di moto a luo-
go (anche figurato, come in Varr. Men. 107 si in somnum reccideris), mentre qui
deve indicare il punto su cui poggia chi cade, ma con quest’ultimo valore in e l’ac-
cusativo è frequentemente usato in unione al verbo semplice cado (cfr. Ov. met.
4,579 in pectus ... cadit pronus; Sil. 5,300 [Isalcam] lapsu resupino in terga caden-
tem e Th. l. L. s. v. cado III [1906], 21, rr. 73 s.) e potrà essere ammesso facilmen-
te anche qui in unione al composto rec(c)ido.
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012_traduz.frammenti 273 9-01-2008 12:31 Pagina 273

Ennio
Praecepta, Protrepticus, Saturae, Scipio, Sota
Traduzione dei frammenti

Praecepta

fr. I (= Var. 31-33 V.2)


Quando vede l’avena e il loglio crescere in mezzo al frumento,
trasceglie, strappa, toglie; quando ha aggiunto con impegno questo lavoro,
poiché ha seminato con tanta dedizione...

Protrepticus

fr. I (= Var. 30 V.2)


di panni

Saturae
Dal libro I

fr. I (= Sat. 1 V.2)


Con grande suo danno, per Ercole, banchetta smoderatamente

fr. II (= Sat. 2 V.2)


Purché, qualsiasi cosa tu dia, tu la dia rapidamente

Dal libro II

fr. III (= Sat. 3-4 V.2)


contemplo
da lì le limpide e rigide regioni del cielo
012_traduz.frammenti 273 9-01-2008 12:31 Pagina 274

274 Le opere minori di Ennio

fr. IV (= Sat. 5 V.2)


Si fermano continuamente, ti vengono addosso, si mettono in mezzo, si accalca-
no, spingono

Dal libro III

fr. V (= Sat. 6-7 V.2)


Salve, poeta Ennio, che offri ai mortali versi infuocati che provengono dal cuore!

fr. VI (= Sat. 10-11 V.2)


Ne sono testimoni i vasti campi ben coltivati di cui si ricopre la terra d’Africa

Dal libro III o dal libro IV

fr. VII (= Sat. 8-9 V.2)


Infatti non ti vuol bene chi lancia false accuse al tuo cospetto

Dal libro IV?

fr. VIII (= Sat. 12-13 V.2)


Né va in cerca della triste senape, né della mesta cipolla

Da libri incerti

fr. IX (= Sat. 14-19 V.2)


E infatti quando tu arrivi tranquillo, beato, tutto pulito, con le mascelle in assetto
da guerra, le braccia pronte all’attacco, baldanzoso, spavaldo e con un appetito da
lupo, quando poi ti stai sbafando la roba altrui, in quale stato d’animo pensi che
si trovi chi ti ospita? In nome degli dei! Quello è tutto triste mentre osserva il ci-
bo, tu ti rimpinzi ridendo.

fr. X (= Sat. 20 V.2)


la Morte e la Vita, di cui Ennio ci riferisce una contesa
012_traduz.frammenti 273 9-01-2008 12:31 Pagina 275

Praecepta, Protrepticus, Saturae, Scipio, Sota: traduzione dei frammenti 275

fr. XIa (= Sat. 21-56 V.2)


(3) «C’è un uccellino – racconta [scil. Esopo] – chiamato ‘allodola col ciuffo’. (4)
Abita e nidifica nei campi di biade giusto per il tempo che i piccoli mettano le piu-
me quando il momento della mietitura è imminente. (5) L’allodola una volta aveva
costruito il nido in un campo di biade precoci; perciò quando il grano si stava ormai
già imbiondendo, i piccoli non erano ancora in grado di volare. (6) L’allodola dun-
que, allontanandosi in cerca di cibo per i piccoli, li avverte di stare attenti se lì càpi-
ta o si dice qualche cosa di nuovo, di riferirla a lei al suo ritorno. (7) Il padrone di
quelle messi, in séguito, chiama il giovane figlio e gli dice: «Vedi come queste messi
sono maturate e richiedono che ci si metta mano? Perciò domani, sul far della luce,
guarda di recarti dagli amici e di chieder loro che vengano a darci una mano e ci aiu-
tino a mietere». (8) Detto questo, se ne andò. Ma quando ritornò l’allodola, ecco i
piccoli, tremanti e agitati, strepitare attorno alla madre e pregarla che si affretti sù-
bito a trasportarli altrove: «infatti il padrone – dicono – ha mandato a chiedere agli
amici che, al sorgere del sole, vengano e taglino le messi». (9) La madre li esorta a
star tranquilli: «se infatti il padrone – dice – fa conto sugli amici per la mietitura, do-
mani la messe non verrà tagliata e non c’è necessità che io vi porti via oggi». (10) Il
giorno dopo – prosegue [scil. Esopo] – vola via in cerca di cibo. Il padrone aspetta
quelli a cui si era rivolto. Il sole ormai divampa e non succede nulla; passa la gior-
nata, e non passa alcun amico. (11) Allora lui di nuovo al figlio: «Questi amici sono
una banda di fannulloni. Sarà il caso che ci rivolgiamo ai nostri congiunti e parenti,
e chiediamo a loro di aiutarci domattina di buon’ora a mietere». I piccoli, spaventa-
ti, riferiscono anche questo alla madre. (12) E la mamma li invita anche questa vol-
ta a non temere e a non preoccuparsi; dice che non c’è quasi nessun congiunto o pa-
rente tanto disponibile da sobbarcarsi a una fatica senza indugio, e che acconsenta
sùbito a una richiesta. «Solo, voi state attenti – afferma – se di nuovo si dice qual-
cosa». (13) Sorto un altro giorno, l’uccello se ne va alla ricerca di cibo; i congiunti e
i parenti chiamati in aiuto non si fanno vedere. (14) Alla fine dunque il padrone di-
ce al figlio: «Tanti saluti agli amici e ai parenti: domani, alle prime luci dell’alba, por-
terai due falci; una me la prendo io, l’altra la prendi tu, e noi stessi, con le nostre ma-
ni, mieteremo il frumento. (15) Non appena la madre venne a sapere dai piccoli que-
ste parole, disse: «È tempo di muoversi e andar via: ciò che egli prospetta, ora av-
verrà senza alcun dubbio. La questione riguarda lo stesso interessato e non dipende
dall’aiuto altrui». (16) E così l’allodola trasferì il nido e la messe fu tagliata dal pa-
drone.

fr. XIb (= Sat. 57-8 V.2)


Avrai sempre presente questo apologo,
affinché tu non ti aspetti che gli amici facciano qualcosa che puoi fare tu stesso.
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276 Le opere minori di Ennio

fr. XII (= Sat. 59-62 V.2)


Infatti chi vuole ingannare per bene un altro
s’inganna a dire che quello che inganna viene ingannato.
Infatti se chi inganni si accorge di essere ingannato,
chi inganna rimane ingannato, se non è quello a essere ingannato.

fr. XIII (= Sat. 63 V.2)


... non è mio costume come se mi avesse morso un cane ...

fr. *XIV (= Sat. 64 V.2)


non mi dedico mai a comporre versi se non quando sono affetto dalla podagra

fr. *XV (= Sat. 65 V.2)


Una volta un flautista stava presso la distesa del mare

fr. *XVI (= Sat. 67-68 V.2)


che dieci Cocliti scavarono in cima ai monti Rifei

fr. *XVII (= Sat. 69 V.2)


Quanto è simile a noi quella turpissima bestia della scimmia

fr. *XVIII (= Sat. 70 V.2)


Cercano, come si dice, un nodo in un giunco

Scipio

fr. I (= Var. 1-2 V.2 = Op. inc. IV Sk.)


che grande statua potrebbe fare il popolo romano, che grande colonna
che parli delle tue imprese?

fr. II (=Var. 13 V.2)


dove si era accampato vicino alle truppe di Annibale

fr. III (= Var. 9-12 V.2)


il vasto cielo si è fermato in silenzio,
e il crudele Nettuno ha fermato le onde in tempesta,
012_traduz.frammenti 273 9-01-2008 12:31 Pagina 277

Praecepta, Protrepticus, Saturae, Scipio, Sota: traduzione dei frammenti 277

il Sole ha bloccato la corsa dei cavalli dagli zoccoli volanti,


i fiumi perenni si sono fermati, tra gli alberi non passa il vento

fr. IV (= Var. 14 V2)


di lunghe lance scagliate il campo luccica ed è irto

SOTA

fr. I (=Var. 25 V.2)


quei dissoluti andavano a intrecciare una corona di Venere

fr. II (= Var. 26 V.2)


la merenda del bue di Cipro

fr. III (= Var. 27 V.2)


un altro vuole remare nel vasto mare

fr. IV (=Var. 29 V.2)


Quello colpito cadde all’indietro finendo supino sul sedere
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013_abbr.Bibliografiche279 9-01-2008 12:32 Pagina 279

Abbreviazioni bibliografiche

I periodici sono citati secondo le abbreviazioni dell’Année Philologique o,


quando è parso opportuno, in forma più estesa.

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cuni capitoli di ‘analisi metrica lineare’, «MD» 9, 1982, 59-105.
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013_abbr.Bibliografiche279 9-01-2008 12:32 Pagina 280

280 Le opere minori di Ennio

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scons. nostrae aetatis facile Principem. Lugduni, Apud Guliel.
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«SIFC» n. s. 21, 1946, 41-81.
Timpanaro 1947 S. Timpanaro, Per una nuova edizione critica di Ennio, II e III,
«SIFC» n. s. 22, 1947, 33-77 e 179-207.
Timpanaro 1948 S. Timpanaro, Per una nuova edizione critica di Ennio, IV,
«SIFC» n. s. 23, 1948-1949, 5-58 e 235.
Timpanaro 1978 S. Timpanaro, Contributi di filologia e storia della lingua lati-
na, Roma 1978.
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288 Le opere minori di Ennio

Timpanaro 1988 S. Timpanaro Alcuni tipi di sinonimi in asindeto in latino ar-


caico e loro sopravvivenza in latino classico, «RFIC» 106, 1988,
257-297 e 385-428 = Timpanaro 1994, 1-74.
Timpanaro 1994 S. Timpanaro, Nuovi contributi di filologia e storia della lingua
latina, Bologna 1994.
Timpanaro 1996 S. Timpanaro, La volta celeste e il cielo stellato in Ennio,
«SCO» 46, 1996 (ma 1999), 29-59.
Timpanaro 1998 S. Timpanaro, Minima Enniana: su alcuni frammenti
dell’«Achilles Aristarchi», con una postilla su un verso del
«Phoenix», in Teresa De Robertis - G. Savino (curr.), Tra libri
e carte. Studi in onore di Luciana Mosiici, Firenze 1998 (ma la
redazione del contributo risale al 1994).
Timpanaro 2002 S. Timpanato, rec. a Prinzeh 1998, «Gnomon» 74, 2002, 673-
681.
Timpanaro 2005 S. Timpanaro, Contributi di filologia greca e latina, a c. di E.
Narducci, Firenze 2005.
Titius 1583 R. Titii Burgensis locorum controversorum libri decem in qui-
bus plurimi scriptorum loci conferuntur, explicantur et emen-
dantur, Florentiae 1583.
Turnebus 1564 e 1565 A. Turnebi [...] Aduersariorum Tomus primus duodecim li-
bros continens. [...]. Parisiis 1564; A. T. [...] Aduersariorum
Tomus secundus duodecim libros continens. [...], Parisiis
1565.
V.2 = Vahlen 1903.
Vahlen 1859 J. Vahlen, Bemerkungen zu Ennius, «RhM» 14, 1859, 552-569.
Vahlen 1861 J. Vahlen, Zu Ennius, «RhM» 16, 1861, 571-585 (= Vahlen
1911, I, 409-423.
Vahlen 1879 L. Annaei Senecae, Dialogorum libri. XII. Ex rec. et cum ap-
par. cr. H. A. Koch Editionem Kochii morte interruptam ab-
solvendam curant J. Vahlen, Jenae, Lipsiae 1879.
Vahlen 1880 J. Vahlen, Index lectionum aestivarum 1880, 3-17 (= J.V. Opu-
scula Academica, 2 vll., Lipsiae 1907-1908: I (1907), 103-120).
Vahlen 1903 Ennianae poesis reliquiae, iteratis curis recensu it Ioannes
Vahlen, Lipsiae 1903 (= 1928 = Amsterdam 1963 = 1967).
Vahlen 1911 J. Vahlen, Gesammelte philol. Schriften, 2 vll., Leipzig-Berlin:
I 1911; II 1923.
Valmaggi 1900 Ennio, I frammenti degli Annali, commento e note di L. Val-
maggi, Torino 1900 (e numerose ristampe successive)
van den Hout 1999 M.P.S; van den Hout, A commentary on the letters of M. Cor-
nelius Fronto, Leider 1999.
van Rooy 1965 C.A. van Rooy, Studies in Classical Satire and related literary
theory, Leiden 1965.
Varro 1573 M. Terentii Varronis opera quae supersunt. In lib. de ling. Lat.
Coniectanea I. Scaligeri, recognita et appendice aucta. In li-
bros de re rust. Notae eiusdem Ios. Scal. non antea editae. His
013_abbr.Bibliografiche279 9-01-2008 12:32 Pagina 289

Abbreviazioni bibliografiche 289

adiuncti fuerunt Adr. Turn. Comment. in lib. De lingua Lati-


na: cum Emendationibus Ant. Augustini. Item P. Victorii Ca-
stigationes in lib. De re rustica, excudebat Henr. Stephanus,
[Geneva] 1573.
Vertranius 1563 Marcus Vertranius Maurus, Varro, De lingua Latina, Lugduni
1563.
Voss 1651 G. I.Vossii De historicis Latini libri III, editio altera, priori
emendatior, et duplo auctior, Lugduni Batavorum 1651.
Warmington 1935 Remains of old Latin, edited and translated by E. H. War-
mington, 4 vll., Cambridge (Massachusetts), 1935-19401: I,
Ennius and Caecilius, (‘revised and reprinted’ 1956, 1961,
1967, 1979, 1988).
Waszink 1950 J. H. Waszink, The proems of the Annales of Ennius, «Mne-
mosyne» s. IV, 3, 1950, 215-240.
Waszink 1962 J. H. Waszink, Retractatio Enniana, «Mnemosyne» 15, 1962,
113-32.
Waszink 1972 J. H. Waszink, Problems concerning the Satura of Ennius, in
Hardt 1972, 99 sgg.
Weinreich 1949 O. Weinreich, Römische Satiren. Ennius, Lucilius, Varro, Ho-
raz, Persius Juvenal, Seneca, Petronius, eingeleitet und über-
tragen von O. W.,Artemis, Zürich 1949.
Wessner 1899 P. Wessner, Untersuchungen zur lateinischen Scholienliteratur,
Bremerhaven (Festschr. z. 45 Philol.-Vers.) 1899, pp. 1-28.
Westerhov 1726 P. Terentii Afri Comoediae sex [...]. Accedunt interpretes ve-
tustiores, Aelius Donatus, [...] Curavit Arn. Henr. Westerho-
vius, 2 vll., Hagae Comitum 1726.
Winiarczyk 1994 M. Winiarczyk, Ennius’ ‘Euhemerus sive sacra historia’,
«RhM» 137, 1994, 274-291.
013_abbr.Bibliografiche279 9-01-2008 12:32 Pagina 290
014_indice volume 9-01-2008 14:29 Pagina 279

Indice

Premessa 9

Le edizioni delle opere minori di Ennio e i criteri adottati


nella presente edizione 11

Edizioni complessive e commenti delle opere minori di Ennio. Bibliografia 31

Fonti 33

I. Praecepta e Protrepticus. Testimonianze e frammenti 39


Introduzione 41
Commento ai frammenti 45

II. Saturae. Testimonianze e frammenti 49


Introduzione 65
Commento ai frammenti 86

III. Scipio. Testimonianze e frammenti 187


Introduzione 193
Commento ai frammenti 211

IV. Sota. Testimonianze e frammenti 243


Introduzione 249
Commento ai frammenti 263

Ennio. Praecepta, Protrepticus, Saturae, Scipio, Sota


Traduzione dei frammenti 273

Abbreviazioni bibliografiche 279


014_indice volume 9-01-2008 14:29 Pagina 280

Finito di stampare nel mese di dicembre 2007


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