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Trama

Tutti sanno come è nato e come è morto Gesù. La stella cometa, la


mangiatoia, i Re Magi; e poi la passione, la crocifissione. Ma che cosa ha
combinato dall’infanzia ai trent’anni?
Su richiesta del Messia, a duemila anni dalla sua morte, un angelo fa
resuscitare il suo migliore amico, Levi detto Biff, a cui spetta il compito di
scrivere un nuovo Vangelo che racconti finalmente la vera storia di Gesù di
Nazaret. E quella di Biff è un’epopea ricca di miracoli, viaggi, scoperte, per
non parlare di demoni, morti viventi, kung fu, folli monaci tibetani e pupe da
sballo. Forse nemmeno l’astuzia e la devozione del migliore amico
riusciranno a risparmiare al Salvatore il suo tragico destino, ma Biff non
permetterà che si sacrifichi e ascenda al cielo senza aver lottato per impedirlo!

Christopher Moore



IL VANGELO SECONDO BIFF


Amico di infanzia di Gesù





Agartha 109















BENEDIZIONE DELL’AUTORE


Se ti sei avvicinato a queste pagine in cerca di risate,
ti auguro di trovarle.
Se sei qui per farti offendere, cresca la tua collera
fino a farti ribollire il sangue.
Se cerchi un’avventura, che questa storia
sia per te una fuga beata.
Se hai bisogno di mettere alla prova
o di confermare quello in cui credi, ti auguro
di giungere a conclusioni per te piacevoli.
Tutti i libri rivelano la perfezione, per quello
che sono o per quello che non sono.
Possa tu trovare quello che cerchi,
in queste pagine o altrove.
Possa tu trovare la perfezione
e conoscerla per nome.
Prologo

L’angelo stava vuotando e pulendo i suoi armadi quando giunse la
chiamata. Aureole e raggi di luna erano divisi in mucchi a seconda della
luminosità, le sacche con l’ira e i foderi dei lampi erano appesi a ganci in
attesa di essere spolverati. Da un otre in un angolo era fuoriuscita un po’ di
gloria, che provvide ad asciugare con un tampone. Ogni volta che muoveva lo
straccio, dall’armadio si levava un coro smorzato, come se avesse messo il
coperchio su un vaso di sottaceti colmo di Alleluia.
«Raziel, in nome del cielo, che cosa stai facendo?».
L’arcangelo Stephan era in piedi sopra di lui e brandiva una pergamena
quasi stesse rimproverando un cucciolo con una rivista arrotolata.
«Ordini?» chiese l’angelo.
«Terra».
«Ci sono appena stato».
«Due millenni fa».
«Sul serio?». Raziel diede un’occhiata all’orologio e picchiettò il cristallo
con un dito. «Ne sei sicuro?».
«Tu che ne pensi?». Gli porse la pergamena affinché potesse vedere il
sigillo del Roveto Ardente.
«Quando devo partire? Qui ho quasi finito».
«Subito. Prendi il dono delle lingue e qualche miracolo minore. Niente
armi, non si tratta di una faccenda di collera. Sarai sotto copertura. Resterai
nell’ombra, ma avrai un ruolo importante. Troverai tutto nei tuoi ordini». Gli
consegnò la pergamena.
«Perché proprio io?».
«È stata la mia stessa domanda».
«Ebbene?».
«Mi è stato ricordato il motivo della cacciata degli angeli».
«Wow! Dunque è una cosa tanto grave?».
Stephan diede un colpo di tosse: un chiaro gesto d’ostentazione, dal
momento che gli angeli non respirano. «Forse non dovrei saperlo, ma gira
voce che si tratti di un nuovo libro».
«Stai scherzando? Un seguito? Apocalisse 2, proprio quando pensavi che
peccare fosse lecito?».
«È un Vangelo».
«Un Vangelo dopo tutto questo tempo? E chi è l’autore?».
«Levi detto Biff».
Raziel lasciò cadere lo straccio e si raddrizzò. «Dev’esserci un errore».
«Viene direttamente dal Figlio».
«C’è un motivo se Biff non è mai stato menzionato negli altri libri, lo sai?
È un totale…».
«Non dirlo».
«Ma è una testa di cazzo».
«Usi un linguaggio del genere e poi ti chiedi perché vieni assegnato a
missioni come questa…».
«Ma perché adesso? Finora sono bastati i quattro Vangeli. E perché lui?».
«Perché secondo la cronologia terrestre cade una specie di anniversario
della nascita del Figlio, e Lui crede sia giunto il momento di raccontare tutta
la storia».
Raziel chinò la testa. «Sarà meglio che vada a preparare i bagagli».
«Il dono delle lingue» gli rammentò Stephan.
«Ma certo, così posso farmi insultare in mille idiomi diversi».
«Vai a ricevere la buona novella, Raziel. E portami del cioccolato».
«Cioccolato?».
«È uno snack degli abitanti della Terra. Ti piacerà. L’ha inventato Satana».
«Il cibo del diavolo?».
«Non puoi vivere di solo latticello, amico mio».
Mezzanotte. L’angelo era in piedi su un’arida collina alla periferia della
città santa di Gerusalemme. Sollevò le braccia, e un vento secco sferzò la
veste bianca facendola ondeggiare intorno al corpo.
«Alzati, Levi detto Biff».
Davanti a lui si formò una tromba d’aria che sollevò la terra in una colonna
somigliante a un essere umano.
«Alzati, Biff. Il tuo tempo è giunto».
Il vento prese a soffiare furiosamente, e l’angelo si passò la manica della
veste sul viso.
«Alzati, Biff, e cammina di nuovo tra i vivi».
Il turbine cominciò ad affievolirsi, mentre la colonna di terra e polvere
dalle sembianze umane rimase lì, sul fianco della collina. Un attimo dopo era
tornata la calma. L’angelo tirò fuori dalla sua sacca un vaso d’oro e lo
rovesciò sopra la colonna. La polvere svanì, rivelando un uomo nudo e
coperto di fango che farfugliava alla luce delle stelle.
«Bentornato tra i vivi» disse l’angelo.
L’uomo sbatté le palpebre, poi si mise una mano davanti agli occhi, come
se pensasse di poterla trapassare con lo sguardo.
«Sono vivo» disse in una lingua che non aveva mai udito prima. «Sì».
«Che cosa sono questi suoni, queste parole?».
«Hai ricevuto il dono delle lingue».
«L’ho sempre avuto, chiedilo a una qualunque delle ragazze che ho
frequentato. Che cosa sono questi vocaboli che escono dalla mia bocca?».
«Lingue. Hai ricevuto il dono che fu fatto agli apostoli».
«Allora il Regno è venuto». «Sì».
«E quand’è successo?».
«Duemila anni fa».
«Tu, inutile sacco di merda di cane» esclamò Levi detto Biff, colpendo
l’angelo alla bocca. «Sei in ritardo».
L’altro si riprese e si toccò il labbro con cautela. «Bel modo di rivolgersi a
un messaggero del Signore».
«È un dono».

PARTE PRIMA

Il fanciullo




Dio è un autore di commedie
il cui pubblico ha paura di ridere.
Voltaire
1

Voi pensate di sapere come va a finire questa storia, ma sbagliate. Fidatevi,
io c’ero. E lo so.

La prima volta che vidi l’uomo che avrebbe salvato il mondo, lui era
seduto vicino al pozzo centrale di Nazaret con una lucertola che gli penzolava
dalla bocca. Si vedevano solo l’estremità della coda e le zampe posteriori;
l’altra metà l’aveva già inghiottita. Aveva sei anni come me e non gli era
ancora spuntata la barba, quindi non somigliava molto alle immagini dove è
raffigurato. Gli occhi erano color miele scuro e mi sorridevano da sotto una
zazzera di riccioli nero-blu che gli incorniciavano il viso. In quegli occhi c’era
una luce più vecchia di Mosè.
«Immondo, immondo!» gridai indicandolo, così che mia madre potesse
capire che conoscevo la Legge; ma lei mi ignorò, così come tutte le altre
madri che stavano riempiendo le giare al pozzo.
Il ragazzino si tolse la lucertola di bocca e la passò al fratello più piccolo,
seduto accanto a lui sulla sabbia. Questi giocò con la bestiola per un po’,
stuzzicandola fino a farle alzare la testolina quasi volesse morderlo; poi prese
un sasso e gliela sfracellò. Perplesso, spinse la lucertola morta in mezzo alla
sabbia; assicuratosi che non sarebbe andata da nessuna parte, la prese e la
restituì al fratello maggiore.
Lui se la infilò in bocca e, prima che avessi il tempo di maledirlo di nuovo,
la bestiolina uscì contorcendosi, viva e vegeta e pronta a mordere ancora una
volta. La diede di nuovo al fratellino, che la colpì violentemente con il sasso,
ricominciando e completando l’intero processo.
Guardai la lucertola morire altre tre volte, e poi dissi: «Voglio farlo
anch’io».
Il Salvatore se la tolse di bocca e mi chiese: «Quale parte?».

A proposito, lui si chiamava Gesù. Jesus è la traduzione greca dell’ebraico
Yeshua, Gesù. Cristo non è un cognome.
E il corrispondente greco di messiah, un termine ebraico che significa
unto. Non ho idea del significato della S in Gesù S. Cristo. È una delle cose
che avrei dovuto chiedergli.
E io? Io sono Levi detto Biff. Niente secondo nome.
E Gesù era il mio migliore amico.

L’angelo dice che dovrei mettermi seduto e scrivere la mia storia,
ignorando quanto ho visto in questo mondo: ma come posso riuscirci? Negli
ultimi tre giorni ho visto più gente, più immagini e più meraviglie che nei
miei trentatré anni di vita, e lui mi chiede di ignorarlo. Sì, ho ricevuto il dono
delle lingue, quindi non c’è niente di cui non conosca il nome. Ma a che
serve? Forse mi è stato utile sapere che quella che mi terrorizzava a
Gerusalemme era una Mercedes? Ero così spaventato che mi sono tuffato in
un cassonetto dell’immondizia. E dopo che Raziel mi ha tirato fuori e mi si
sono spezzate le unghie mentre lottavo per rimanere nascosto là che cosa mi è
servito sapere che era stato un Boeing 747 a farmi chiudere a riccio nel
tentativo di mandar via le lacrime e di chiudere fuori tutto quel rumore e quel
fuoco? Sono solo un bambino che ha paura della sua stessa ombra o sono un
uomo che ha passato ventisette anni al fianco del Figlio di Dio?
Sulla collina dove mi ha tirato fuori dalla polvere, l’angelo ha detto:
«Vedrai molte cose strane. Non avere paura. Ti è stata affidata una missione
sacra, e io ti proteggerò».
Bastardo compiaciuto. Se avessi saputo cosa mi avrebbe fatto, l’avrei
colpito di nuovo. Anche adesso se ne sta sdraiato sul letto dall’altra parte
della stanza a guardare delle immagini che si muovono su uno schermo,
mentre mangia quei dolcetti appiccicosi che chiamano Snickers; e intanto io
incido la mia storia su un blocchetto di carta morbida come seta che porta la
scritta Hyatt Regency, St. Louis. Parole, parole, parole, un milione di milioni
di parole mi girano nella testa come falchi, aspettando di tuffarsi sul foglio per
strappare e lacerare le uniche due parole che ho voglia di scrivere: Perché io?
Eravamo in quindici - be’, quattordici dopo che impiccai Giuda. Quindi,
perché io? Gesù mi diceva sempre di non avere paura, perché sarebbe stato
sempre con me. Dove sei, amico mio? Perché mi hai abbandonato? Tu non
avresti paura, qui. Non ti lasceresti scoraggiare dalle torri, dalle macchine,
dalle luci e dal fetore di questo mondo. Coraggio, ordino una pizza
chiamando il servizio in camera. Ti piacerebbe la pizza. Il cameriere si
chiama Jesus. E non è nemmeno ebreo. Hai sempre amato l’ironia. Andiamo,
Gesù, l’angelo dice che sei ancora con noi. Puoi tenerlo fermo mentre io lo
picchio, e poi festeggiamo con una bella pizza.

Raziel sta guardando quello che scrivo, e continua a ripetere che devo
smetterla di piagnucolare e andare avanti con la storia. È facile per lui: non ha
passato gli ultimi duemila anni sepolto nella terra. Nondimeno, non mi lascerà
ordinare la pizza fino a quando non avrò terminato un paragrafo, quindi non
posso fare altro…
Sono nato in Galilea, nella città di Nazaret, ai tempi di Erode il Grande.
Mio padre Alfeo era uno scalpellino. Mia madre Naomi era tormentata dai
demoni, o almeno questo era quello che dicevo a tutti. Per Gesù era
semplicemente una donna difficile. Il mio vero nome, Levi, deriva dal
progenitore della stirpe sacerdotale; quanto al mio soprannome, Biff… me
l’aveva dato mamma, perché il mio passatempo preferito era biffticciare con i
miei fratelli…
Sono cresciuto sotto il dominio di Roma, anche se di Romani non ne vidi
molti prima di aver compiuto dieci anni. Stavano perlopiù a nord, nella città
fortificata di Zippori, a un’ora di cammino da Nazaret. Fu lì che io e Gesù
assistemmo all’assassinio di un soldato romano. Ma sto correndo troppo. Per
ora, presumiamo che il soldato in questione sia sano e salvo, felice con la sua
scopa sulla testa.
Gran parte degli abitanti di Nazaret erano contadini che coltivavano uva e
olive sulle colline rocciose fuori città, orzo e frumento nelle vallate
sottostanti. C’erano anche pastori che badavano alle greggi nelle zone di
montagna, mentre le famiglie risiedevano in città. Le case erano tutte in pietra
e quasi sempre avevano il pavimento di terra battuta (il nostro, invece, era
lastricato).
Ero il più grande di tre figli, quindi già all’età di sei anni mi preparavo ad
apprendere il mestiere di mio padre. Mamma mi insegnava la Legge e le
storie della Torah in ebraico, mentre il babbo mi portava in sinagoga ad
ascoltare gli anziani che leggevano la Bibbia. La mia prima lingua era
l’aramaico, ma a dieci anni sapevo parlare e leggere l’ebraico come quasi tutti
gli uomini.
A stimolare il mio apprendimento della lingua ebraica e della Torah fu
soprattutto la mia amicizia con Gesù: mentre gli altri ragazzi si divertivano a
molestare le pecore o a prendere a calci i Cananei, io e Gesù giocavamo a fare
i rabbini, e lui insisteva affinché nelle cerimonie ci attenessimo all’ebraico
rituale. Era più divertente di quanto non sembri… almeno finché mia madre
non ci sorprese mentre tentavamo di circoncidere il mio fratellino Shem con
una roccia appuntita. Andò fuori dai gangheri. E la mia argomentazione - il
fatto che Shem avesse bisogno di rinnovare il suo patto con il Signore - non
parve convincerla. Mi fece il posteriore a strisce con uno scudiscio in legno di
ulivo, e mi proibì di giocare con Gesù per un mese. Ho già detto che era
tormentata dai demoni?
Alla fine, credo che per Shem sia stato un bene. Era l’unico bambino in
grado di pisciare dietro gli angoli. Con un talento simile puoi guadagnare
bene, come mendicante. E non mi ha mai ringraziato.
Ah, i fratelli…

I bambini vedono la magia perché la cercano.
La prima volta che incontrai Gesù non sapevo che fosse il Salvatore; e
nemmeno lui, se è per questo. Una cosa era evidente, però: non aveva paura.
In mezzo a una stirpe di guerrieri vinti, in mezzo a un popolo che cercava di
trovare un po’ d’orgoglio mentre si faceva piccino piccino davanti a Dio e a
Roma, lui brillava come un fiore nel deserto. Ma forse lo vedevo soltanto io,
perché era quello che stavo cercando. Per tutti gli altri era solo un ragazzino
come tanti, con gli stessi bisogni dei suoi coetanei e le stesse probabilità di
morire prima di diventare adulto.
Quando raccontai a mamma del trucco con la lucertola, mi sentì la fronte
per controllare che non avessi la febbre e mi spedì a dormire sulla mia stuoia
con una misera scodella di brodo per cena.
«Ho sentito delle storie sulla madre di quel ragazzino» disse a mio padre.
«Sostiene di aver parlato con un angelo del Signore. E ha raccontato a Ester di
aver partorito il Figlio di Dio».
«E tu che cos’hai detto a Ester?».
«Che Maria dovrebbe stare attenta a non far udire i propri vaneggiamenti
ai farisei, se non vuole che qualcuno cominci a raccogliere pietre per punirla».
«Allora non dovresti più farne parola. Conosco suo marito, è un uomo
giusto».
«Sì, e ha la maledizione di avere una giovane folle per moglie».
«Poveretta» disse il babbo, strappando un grosso pezzo di pane. Le sue
mani erano dure come corno e squadrate come martelli, e il calcare con cui
lavorava le rendeva grigie come quelle dei lebbrosi. Quando mi abbracciava,
lasciava sulla mia schiena dei segni che talvolta sanguinavano; eppure, i miei
fratelli e io litigavamo per gettarci tra le sue braccia per primi quando
rientrava la sera, dopo il lavoro. Gli stessi graffi, inflitti in un momento di
rabbia, ci avrebbero fatto correre ad aggrapparci alle gonne di mamma. Ogni
notte mi addormentavo con la sua mano sulla schiena, a mo’ di scudo.
Ah, i padri.

«Ti va di schiacciare qualche lucertola?» chiesi a Gesù quando lo rividi.
Stava disegnando nella terra con un bastoncino e mi ignorò. Misi un piede sul
disegno. «Lo sapevi che tua madre è matta?».
«È mio padre che la riduce così» disse tristemente, senza sollevare lo
sguardo.
Mi sedetti accanto a lui. «La mia, di notte, a volte guaisce come i cani
selvatici».
«È pazza?» mi domandò.
«La mattina sembra normale. Mentre prepara la colazione canta».
Gesù annuì, apparentemente soddisfatto. Dalla pazzia si può guarire. «Una
volta vivevamo in Egitto».
«No, non è vero, è troppo lontano. Addirittura più lontano del Tempio». Il
Tempio di Gerusalemme era il posto più distante in cui fossi stato da
bambino. Ogni anno, a primavera, la mia famiglia affrontava i cinque giorni
di cammino per recarvisi, per festeggiare Pesah. E quei cinque giorni
sembravano durare un’eternità.
«All’inizio vivevamo qui, poi ci siamo trasferiti in Egitto, e adesso siamo
di nuovo a Nazaret» mi disse. «È stato un lungo viaggio».
«Stai mentendo, ci vogliono quarant’anni per andare in Egitto».
«Una volta, adesso è più vicino».
«Lo dice la Torah. Me l’ha letto il mio abbà. “Gli Israeliti viaggiarono nel
deserto per quarant’anni”». «Gli Israeliti si erano persi».
«Persi per quarant’anni?» chiesi ridendo. «Devono essere proprio stupidi».
«Siamo noi gli Israeliti».
«Sul serio?».
«Sì».
«Devo andare a cercare mia madre».
«Quando torni, possiamo giocare a Mosè e il faraone».

L’angelo mi ha confidato che intende chiedere al Signore di trasformarlo
nell’Uomo Ragno. È sempre davanti alla televisione, anche quando io dormo,
ed è ossessionato dalla storia del supereroe che combatte i demoni dai tetti dei
palazzi. Dice che la minaccia del male è molto più presente rispetto ai miei
tempi, e che per questo servono eroi più grandi. I bambini ne hanno bisogno,
secondo lui. Io penso che abbia soltanto voglia di lanciarsi da un edificio
all’altro con una tutina rossa aderente.
E comunque, quale eroe riuscirebbe a impressionare i bambini di oggi, con
le loro macchine, le medicine e le distanze annullate? (Raziel: è qui da meno
di una settimana e cederebbe la Spada di Dio pur di lanciare ragnatele.) Ai
miei tempi c’erano meno eroi, ma erano reali: alcuni di noi potevano
addirittura vantare una parentela con loro. Quando giocavamo, Gesù faceva
sempre l’eroe - Davide, se stesso, Mosè - mentre io impersonavo il cattivo di
turno: il faraone, Ahab e Nabucodonosor. Se avessi avuto un siclo per tutte le
volte che sono stato ucciso come filisteo, be’… non mi ritroverei entro breve
tempo a passare con un cammello attraverso la cruna di un ago. A posteriori,
mi rendo conto che Gesù stava facendo pratica per ciò che sarebbe diventato.

«Lascia andare il mio popolo» disse Gesù, che interpretava Mosè.
«Okay».
«Non puoi dire semplicemente “okay”».
«No?».
«No, il Signore ha indurito il tuo cuore, così che tu non possa accogliere le
mie richieste».
«Perché l’ha fatto?».
«Non lo so, l’ha fatto e basta. Ora lascia andare il mio popolo».
«No». Incrociai le braccia e distolsi lo sguardo, come una persona dal
cuore indurito.
«Ecco, ora trasformerò questo bastone in serpente. E adesso, lascia libero il
mio popolo!».
«Okay».
«Non puoi rispondere “okay”!».
«Perché? È un bel trucco quello del serpente».
«Ma la storia non è così».
«Okay. Impossibile, Mosè, il tuo popolo deve restare».
Gesù mi agitò il bastone davanti al viso. «Ora ti manderò la piaga delle
rane. Riempiranno la tua casa e la tua camera da letto e saliranno
dappertutto».
«E allora?».
«E allora non è una bella cosa. Lascia andare il mio popolo, faraone».
«A me non dispiacciono le rane».
«Rane morte» mi minacciò Mosè. «Mucchi di rane fetide e fumanti».
«Oh, in questo caso farai meglio a prendere la tua gente e andartene.
Comunque, ho delle sfingi e delle altre cose da costruire».
«Dannazione, Biff, la storia non è così! Ho altre piaghe in serbo per te».
«Voglio farlo io Mosè».
«Non puoi».
«Perché?».
«Perché il bastone ce l’ho io».
«Oh».

E via dicendo. Non sono sicuro che fare il cattivo mi piacesse quanto a lui
fare l’eroe. Ogni tanto arruolavamo i nostri fratellini per fargli recitare i ruoli
più spregevoli. I fratelli minori di Gesù, Giuda e Giacomo, interpretavano
interi popoli, come i sodomiti fuori dalla porta di Lot.
«Mandaci quei due angeli, in modo da poterli conoscere».
«Non lo farò» dissi. Interpretavo Lot, un buono, solo perché Gesù voleva
giocare agli angeli. «Ma ho due figlie che non conoscono nessuno, posso
mandarvele».
«Okay» disse Giuda.
Spalancai la porta e accompagnai fuori le mie due figlie immaginarie,
affinché conoscessero i sodomiti…
«Piacere».
«Ne sono certo».
«Lieto di conoscervi».
«NON È COSÌ!» gridò Gesù. «Voi tentate di buttar giù la porta, e io vi
castigo rendendovi ciechi».
«E poi distruggi la nostra città?» chiese Giacomo. «Sì».
«Preferiremmo conoscere le figlie di Lot».
«Lascia andare il mio popolo». Giuda, che aveva solo quattro anni, spesso
faceva confusione tra una storia e l’altra. Amava particolarmente l’Esodo,
perché lui e Giacomo potevano versarmi addosso brocche d’acqua mentre
conducevo i miei soldati attraverso il Mar Rosso, inseguendo Mosè.
«Ora vi spiego» disse Gesù. «Giuda, tu sei la moglie di Lot. Vai a metterti
là».
Di tanto in tanto a Giuda toccava quella parte, indipendentemente dalla
storia che stavamo mettendo in scena. «Non mi va».
«Silenzio, le statue di sale non parlano».
«Non voglio fare una femmina».
I nostri fratelli interpretavano sempre parti femminili. Io non avevo sorelle
da tormentare, e l’unica sorella di Gesù, Elisabetta, all’epoca era ancora in
fasce. Questo prima che conoscessimo Maddalena. Con lei cambiò tutto.

Dopo aver udito per caso una conversazione tra i miei genitori, che
parlavano della pazzia della mamma di Gesù, mi capitò spesso di osservarla
per scorgere qualche segnale, ma a me sembrava che si occupasse delle
proprie faccende come tutte le altre madri: badava ai piccoli, lavorava
nell’orto, andava a prendere l’acqua e preparava da mangiare. Non l’avevo
mai vista a quattro zampe o con la bava alla bocca, come mi sarei aspettato.
Era più giovane di tante mamme, e aveva diversi anni meno di suo marito
Giuseppe, che per i criteri di allora era un vecchio. Gesù diceva che non era il
suo babbo, ma non voleva rivelare l’identità di quello vero. Quando saltava
fuori l’argomento ed era vicina, Maria chiamava Gesù e si portava un dito alle
labbra in segno di ammonimento.
«Non è il momento, Gesù. Biff non capirebbe».
Mi bastava sentirle pronunciare il mio nome per avere un tuffo al cuore.
Sin dall’inizio sviluppai un amore fanciullesco nei confronti della madre di
Gesù, che accendeva le mie fantasie sul matrimonio, sulla famiglia e sul
futuro.
«Tuo padre è vecchiotto, eh, amico?».
«Non eccessivamente».
«Quando morirà, tua madre sposerà suo fratello?».
«Lui non ha fratelli. Perché?».
«Così. Che cosa penseresti se tuo padre fosse più basso di te?».
«Non lo è».
«Ma quando il babbo morirà, tua madre potrebbe sposare un uomo più
basso di te, che a quel punto diventerebbe tuo padre. E dovresti fare quello
che ti dice».
«Lui non morirà mai. È eterno».
«Questo lo dici tu. Ma io penso che, quando sarò uomo e lui se ne andrà,
prenderò in sposa tua madre».
A quel punto Gesù fece una smorfia come se avesse dato un morso a un
fico acerbo. «Non dirlo, Biff».
«Non m’importa se è pazza. Mi piace il suo mantello blu. E mi piace il suo
sorriso. Sarò un buon padre e ti insegnerò a fare lo scalpellino. E ti picchierò
solo se farai il moccioso».
«Meglio giocare con i lebbrosi che sentire certe cose». Gesù fece per
andarsene.
«Aspetta. Sii educato con tuo padre, Gesù figlio di Biff». Mio padre usava
il mio nome per intero quando voleva chiarire un punto. «Non è stato forse
Mosè a dire che devi onorarmi?».
Il piccolo Gesù si girò sui tacchi. «Io non mi chiamo Gesù figlio di Biff, e
nemmeno Gesù figlio di Giuseppe. Io sono Gesù figlio di Geova!».
Mi guardai intorno, sperando che non l’avesse sentito nessuno. Non volevo
che il mio unico figlio (poiché avevo in mente di vendere Giuda e Giacomo
come schiavi) fosse lapidato a morte per aver nominato il nome di Dio
invano. «Non dirlo mai più. Non sposerò tua madre».
«No, non lo farai».
«Scusa».
«Sei perdonato».
«Sarà una concubina fantastica».
Non fidatevi quando vi dicono che il Principe della Pace non alzò mai le
mani su nessuno. A quei tempi, prima di diventare chi sapete, Gesù mi colpì
al naso più di una volta. Quella fu la prima.
Maria restò il mio grande amore fino a quando non vidi Maddalena.

Se gli abitanti di Nazaret pensavano che la madre di Gesù fosse pazza, non
ne parlavano molto per rispetto di suo marito, Giuseppe. Conosceva
approfonditamente la Legge, i Profeti e i Salmi, ed erano poche le mogli nel
villaggio che non servivano la cena nelle sue scodelle di legno d’ulivo
levigato. Era onesto, forte e saggio. La gente diceva che un tempo aveva fatto
parte della fratellanza degli esseni, quegli ebrei austeri e ascetici che se ne
stavano per conto proprio, non si sposavano e non si tagliavano mai i capelli;
ma non partecipava alle loro riunioni e, diversamente da loro, aveva
conservato la capacità di sorridere.
In quei primi anni lo vidi molto poco, dal momento che era sempre a
Zippori a costruire strutture per i romani, i greci e gli ebrei che possedevano
terre nella roccaforte; ogni anno, però, con l’approssimarsi della Festa dei
Primi Frutti, Giuseppe abbandonava il lavoro nella città fortezza e rimaneva a
casa a intagliare scodelle e cucchiai per il Tempio, ai cui sacerdoti era
tradizione donare i primi agnelli, il primo frumento e i primi frutti. Persino i
primogeniti nati durante l’anno venivano dedicati al Tempio, con la promessa
di destinarli a un lavoro quando fossero cresciuti, o dando un’offerta in
denaro. Gli artigiani come mio padre e Giuseppe potevano donare oggetti da
loro fabbricati; qualche volta il babbo scolpiva mortai, pestelli o macine,
qualche altra pagava le decime in moneta sonante. Qualcuno in occasione di
questa festa si recava in pellegrinaggio a Gerusalemme; ma dal momento che
cadeva soltanto cinquanta giorni dopo Pesah, molte famiglie non potevano
permettersi di affrontare il viaggio e si limitavano a offrire doni alla sinagoga
del villaggio.
Durante le settimane che precedevano la festa, Giuseppe sedeva davanti
casa all’ombra della copertura di tela che lui stesso aveva costruito e lavorava
il nodoso legno d’ulivo con ascia e scalpello, mentre io e Gesù giocavamo ai
suoi piedi. Indossava la tunica che portavamo tutti, un rettangolo di stoffa
cucito in un unico pezzo con un buco per il collo al centro, fermata da una
fascia in vita in modo tale che le maniche arrivassero ai gomiti e l’orlo alle
ginocchia.
«Forse quest’anno offrirò il mio primogenito al Tempio, eh, Gesù? Non ti
piacerebbe ripulire gli altari dopo i sacrifici?». Sorrise tra sé e sé senza
sollevare gli occhi dal suo lavoro. «Devo donargli il mio primogenito, lo sai.
Eravamo in Egitto a festeggiare la Festa dei Primi Frutti quando sei nato».
Era evidente che l’idea di venire a contatto con il sangue lo terrorizzava,
come terrorizzava qualunque ragazzino ebreo. «Dagli Giacomo, abbà. È lui il
tuo primogenito».
Giuseppe lanciò un’occhiata verso di me, per vedere un’eventuale reazione
da parte mia. E la reazione ci fu, ma solo perché stavo considerando il mio
status di primogenito, augurandomi che il mio babbo non stesse facendo il
medesimo ragionamento. «Giacomo è un secondogenito. E i sacerdoti non
vogliono i secondogeniti. Toccherà a te».
Gesù mi guardò prima di rispondere, e poi rivolse di nuovo lo sguardo a
suo padre. Sorrise. «Ma, abbà, se tu dovessi morire, chi si prenderà cura della
mamma se io sarò al Tempio?».
«Qualcuno penserà a lei» dissi. «Ne sono certo».
«Io non morirò prima che siano passati molti, molti anni». Giuseppe si tirò
la barba grigia. «La mia barba sta diventando bianca, ma ho ancora tanto da
vivere».
«Io non ne sarei così sicuro, abbà».
Giuseppe lasciò cadere la scodella a cui stava lavorando e si fissò le mani.
«Filate a giocare, voi due» disse, la voce poco più che un sussurro.
Gesù si alzò e si allontanò. Avrei voluto gettare le braccia intorno al collo
di quel vecchio: era la prima volta che vedevo un adulto spaventato, ed ebbi
paura anch’io. «Posso aiutarti?» gli chiesi, indicando la scodella non finita
che teneva in grembo.
«Vai con Gesù. Ha bisogno di un amico che gli insegni a essere umano.
Così io potrò insegnargli a essere un uomo».
2

L’angelo vuole che metta un po’ più d’impegno nel descrivere la grazia di
Gesù. Grazia? Per carità, sto cercando di parlarvi di un bambino di sei anni,
quanta grazia poteva avere? Non è che dal lunedì alla domenica se ne andasse
in giro a professare che era il Figlio di Dio. Perlopiù, era un ragazzino
normale. Faceva quel trucco con le lucertole, e una volta trovammo
un’allodola mattolina morta e lui la riportò in vita; quando avevamo otto anni,
poi, risanò il cranio che suo fratello Giuda si era fratturato dopo che il gioco
“lapida l’adultera” ci era sfuggito di mano. (Giuda non era proprio tagliato per
fare l’adultera. Se ne stava lì rigido come la moglie di Lot. Non è possibile.
Un’adultera dev’essere agile e scaltra.) I miracoli di Gesù erano discreti,
silenziosi, come tendono a essere tutti i miracoli quando ti ci abitui. Ma i
problemi nascevano da quelli che accadevano intorno a lui,
indipendentemente dalla sua volontà. Mi vengono in mente pane e serpenti.

Mancavano pochi giorni a Pesah, e molte famiglie di Nazaret non si
sarebbero recate in pellegrinaggio a Gerusalemme. Le piogge non erano state
abbondanti durante l’inverno, pertanto sarebbe stato un anno difficile.
Numerosi coltivatori non potevano permettersi di lasciare i campi per andare
e tornare dalla città santa. Il padre di Gesù e il mio stavano lavorando a
Zippori, e i Romani non avrebbero concesso loro altri giorni di permesso,
oltre a quelli di festa. Quando rincasai dopo essere stato a giocare nella
piazza, mamma stava preparando il pane azzimo.
Aveva una dozzina di cialde piatte davanti a sé e sembrava volesse
sbatterle sul pavimento da un momento all’altro. «Biff, dov’è il tuo amico
Gesù?». I miei fratellini mi guardavano con un ghigno da dietro le sue gonne.
«A casa, suppongo. Ci siamo appena lasciati».
«Che cos’avete combinato, voi due?».
«Niente». Cercai di ricordare se avessi commesso qualcosa che l’aveva
fatta arrabbiare, ma non mi venne in mente nulla. Stranamente, quel giorno
non avevo combinato guai. Entrambi i miei fratelli erano sani e salvi, a quanto
ne sapevo.
«Dimmi come siete riusciti a fare questo…». Mi mostrò una delle cialde di
pane azzimo e lì, in rilievo sulla crosta dorata e croccante, c’era il viso del
mio amico Gesù. Ne afferrò un’altra e, di nuovo, vidi la sua faccia. Idoli. Un
peccato molto grave. Gesù sorrideva. Mamma osservò accigliata
quell’espressione allegra. «Allora? Devo andare a casa del tuo amico e
domandarlo a quella povera pazza di sua madre?».
«Sono stato io. Ho messo io la faccia di Gesù sul pane». Sperai soltanto
che non mi chiedesse come avessi fatto.
«Tuo padre ti punirà, quando tornerà a casa questa sera. E adesso esci di
qui».
Sentii i miei fratelli che ridacchiavano, mentre sgattaiolavo fuori dalla
porta; una volta in strada, però, le cose peggiorarono. Le donne tornavano dai
loro forni di pietra, ciascuna con le proprie azzime, e ognuna di loro
mormorava una frase del tipo: «Ehi, sul mio pane c’è la faccia di un
ragazzino».
Corsi a casa di Gesù e piombai dentro senza bussare. Lui e i suoi fratelli
erano a tavola e stavano mangiando. Maria stava allattando Miriam, l’ultima
nata.
«Sei in guai seri» sussurrai all’orecchio del mio amico, con tanta forza da
rischiare di rompergli il timpano.
Lui sollevò la cialda che stava sbocconcellando e ghignò: la stessa
espressione era impressa sul pane. «È un miracolo».
«Ed è anche buono» disse Giacomo, staccando con un morso un angolo
della testa di suo fratello.
«È in tutta la città, Gesù. Non solo a casa tua. Tutti i pani portano la tua
faccia impressa».
«È davvero il Figlio di Dio» disse Maria con un sorriso beato.
«Oh, cribbio, mamma» disse Giacomo.
«Già, cribbio, mamma» ripeté Giuda.
«La sua immagine domina la Pasqua. Dobbiamo fare qualcosa». Non
sembravano afferrare la gravità della situazione. Io ero già nei guai, e mia
madre nemmeno sospettava che dietro ci fosse qualcosa di soprannaturale.
«Devi tagliarti i capelli, Gesù».
«Perché?».
«Non è possibile» disse Maria. Gli aveva sempre fatto portare i capelli
lunghi, come gli esseni, poiché diceva che era un nazareno come Sansone. Era
solo uno dei tanti motivi per cui in molti, in città, la consideravano folle.
Noialtri portavamo i capelli corti, come i greci che avevano governato il
nostro paese sin dai tempi di Alessandro, e i Romani dopo di loro.
«Se gli tagliamo i capelli, sarà uguale a noi. Potremo affermare che quello
sul pane è qualcun altro».
«Mosè» disse Maria. «Il giovane Mosè». «Sì!».
«Vado a prendere un coltello».
«Giacomo, Giuda, venite con me» dissi. «Dobbiamo spargere la voce che
il viso di Mosè si è manifestato in occasione della Pasqua».
Maria si staccò Miriam dal seno, si chinò e mi diede un bacio sulla fronte.
«Sei un buon amico, Biff».
Quasi mi sciolsi nei miei sandali, ma poi notai lo sguardo accigliato di
Gesù. «Ma dire che quello è Mosè sarebbe una bugia» obiettò.
«Ti eviterà il giudizio dei farisei».
«Non ho paura di loro» disse quel ragazzino di nove anni. «Non sono stato
io a far comparire la mia immagine sul pane».
«Allora perché prendertene la colpa e subire la punizione?».
«Non lo so. A quanto pare devo farlo, no?».
«Stai seduto e non ti muovere, così tua madre potrà tagliarti i capelli».
Corsi fuori dalla porta, subito seguito da Giacomo e Giuda. Belavamo come
agnelli in primavera.
«Guardate! Mosè ha impresso il suo viso sul pane per la Pasqua!
Guardate!».
Miracoli. Maria mi aveva baciato. Il sacro volto di Mosè impresso sul pane
azzimo! E Maria mi aveva baciato.

Il miracolo del serpente? Fu un presagio, in un certo senso, anche se posso
affermarlo solo per via di quanto accadde in seguito tra Gesù e i farisei.
All’epoca lui pensò che fosse il compimento di una profezia (almeno, questo
è quello che cercammo di far credere ai suoi genitori).
Era tarda estate e stavamo giocando in un campo di grano fuori città,
quando Gesù trovò il nido di vipere.
«Un nido di vipere!» gridò. Il frumento era così alto che non riuscivo a
vedere da dove provenisse la sua voce.
«Che venga un accidente a tutta la tua famiglia» risposi.
«No, c’è un nido di vipere. Davvero!».
«Oh, pensavo mi stessi prendendo in giro. Scusa, ritiro quello che ho
detto».
«Vieni a vedere».
Corsi da lui schiacciando le spighe e lo trovai in piedi accanto a un
mucchio di pietre con cui un contadino aveva segnato il confine del suo
campo. Mi misi a strillare, e feci marcia indietro così velocemente che persi
l’equilibrio e caddi. Un groviglio di serpi si contorceva ai suoi piedi,
scivolando sui sandali e attorcigliandosi intorno alle sue caviglie. «Gesù,
vieni via da lì».
«Non mi faranno alcun male. Sta scritto in Isaia».
«Sì, ma nel caso non abbiano letto i Profeti…».
Si spostò da un lato sparpagliando i serpenti. E lì, dietro di lui, c’era il
cobra più grande che avessi mai visto. Si sollevò fino a superare Gesù in
altezza, allargando il cappuccio quasi fosse un mantello.
«Corri!».
Lui sorrise. «È una femmina. La chiamerò Sara, in onore della moglie di
Abramo. Questi sono i suoi piccoli».
«Non stai scherzando? Okay, adesso salutali, Gesù».
«Voglio mostrarli a mamma. Lei adora le profezie». Con ciò, si mise in
cammino verso il villaggio, mentre quella serpe gigante lo seguiva come
un’ombra. I piccoli rimasero nel nido, e io indietreggiai con cautela prima di
correre dietro al mio amico.
Una volta portai a casa una rana, sperando di tenerla come animaletto
domestico. Non era grossa, stava in una mano ed era silenziosa e ben educata.
Mamma mi obbligò a liberarla, e poi mi fece immergere nella vasca per il
bagno rituale, il mikvah, alla sinagoga. Ma non mi permise di rientrare in casa
fino a dopo il tramonto, perché ero immondo. Gesù si presentò con un cobra
di oltre quattro metri e sua madre strillò di gioia. Mamma non strillava mai.

Maria si mise la bimba su un fianco e s’inginocchiò davanti a suo figlio,
citando Isaia: «“Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà
accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un
fanciullo li guiderà. La vacca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno
insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si
trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di
serpenti velenosi”».
Giacomo, Giuda ed Elisabetta erano acquattati in un angolo, troppo
spaventati per piangere. Io rimasi fuori, oltre la soglia, a osservare la scena.
Il serpente ondeggiava alle spalle di Gesù come se si stesse preparando
all’attacco. «Si chiama Sara».
«Questi erano cobra, non aspidi» gli feci notare. «Un mucchio di cobra».
«Possiamo tenerla?» chiese a sua madre. «Le catturerò dei ratti e le
costruirò un letto accanto a quello di Elisabetta».
«Decisamente non erano aspidi. Se ne vedessi uno, lo riconoscerei. Cobra,
direi». (In realtà, non avrei saputo distinguere un aspide da un buco per terra.)
«Shhh, Biff» disse Maria. La durezza nella sua voce mi spezzò il cuore.
Proprio in quel momento, Giuseppe svoltò l’angolo e varcò la soglia di
casa prima che avessi il tempo di fermarlo. Nulla di che preoccuparsi: un
attimo dopo era di nuovo fuori.
«Per Giosafat!».
Lo esaminai per vedere se gli si fosse fermato il cuore; in quei pochi istanti
avevo deciso che, una volta sposata Maria, il serpente sarebbe sparito, o
perlomeno avrebbe dormito fuori. Ma il corpulento falegname sembrava
soltanto scosso, e un po’ impolverato per via della fuga all’indietro attraverso
la porta.
«Non è un aspide, vero?» chiesi. «Gli aspidi sono piccoli perché devono
stare tra i seni delle regine d’Egitto, giusto?».
Giuseppe mi ignorò. «Figliolo, indietreggia lentamente. Vado a prendere
un coltello nel mio laboratorio».
«Non ci farà del male» disse Gesù. «Si chiama Sara. Viene dalle pagine di
Isaia».
«È nella profezia, Giuseppe» aggiunse Maria.
Lo vidi frugare nella sua memoria alla ricerca di quel passaggio. Malgrado
fosse soltanto un laico, conosceva le Scritture come tutti. «Non ricordo il
brano su Sara».
«Non credo sia una profezia» suggerii. «Là si parla di aspidi e Sara
decisamente non lo è. Potrei quasi dire che morderà il posteriore di Gesù se
non ti sbrighi ad afferrarla, Giuseppe». (Bisogna pur giocare le proprie carte.)
«Posso tenerla?» chiese Gesù.
Giuseppe aveva ritrovato la consueta compostezza. Evidentemente, una
volta accettato che la moglie era andata a letto con Dio, avvenimenti
straordinari come questo dovevano sembrargli abbastanza comuni.
«Riportala dove l’hai trovata, Gesù. Ormai la profezia si è compiuta».
«Ma io voglio tenerla».
«No».
«Non sei il mio padrone».
Ebbi il sospetto che Giuseppe avesse già sentito quelle parole. «Per
favore» disse «riporta Sara dove l’hai trovata».
Gesù si precipitò fuori, subito seguito dal serpente. Io e Giuseppe ci
scansammo. «Cerca di non farti vedere» gli disse. «La gente non capirebbe».
Aveva ragione, naturalmente. Mentre uscivamo dal villaggio, ci
imbattemmo in una banda di ragazzi più grandi guidata da Jakan, figlio di
Iban il fariseo. E non capirono.

C’erano forse una dozzina di farisei a Nazaret: uomini istruiti, maestri che
trascorrevano gran parte del tempo alla sinagoga a discutere della Legge.
Spesso venivano utilizzati come giudici e scribi, e per questo godevano di una
certa autorevolezza tra gli abitanti del villaggio, tanto da essere usati dai
Romani come portavoce per il nostro popolo. Dalla fama deriva l’autorità, e
dall’autorità gli abusi. Jakan era solo il figlio di un fariseo. Aveva due anni
appena più di me e Gesù, ma mostrava già la crudeltà di chi vuole dominare.
Se c’è un aspetto positivo nell’aver perso tutte le persone conosciute duemila
anni fa, è sapere che tra loro c’era anche Jakan. Che il suo grasso crepiti nelle
fiamme dell’inferno per l’eternità!
Gesù ci insegnò a non odiare… ma quella fu una lezione ostica per me, un
po’ come la geometria. Colpa di Jakan nel primo caso, di Euclide nel secondo.
Gesù correva tra le case e le botteghe del villaggio, seguito a breve
distanza dal serpente, e poi dal sottoscritto. Quando svoltò l’angolo vicino al
laboratorio del fabbro, si scontrò con Jakan facendolo cadere a terra.
«Idiota!» gli urlò quest’ultimo, rialzandosi e togliendosi la polvere di
dosso. I suoi tre amici risero e lui si girò a guardarli come una tigre furiosa.
«Questo qui ha bisogno di lavarsi il viso nello sterco. Tenetelo».
I ragazzi si accanirono contro Gesù: due lo afferrarono per le braccia e il
terzo lo prese a pugni nello stomaco. Jakan cercò un mucchio di letame in cui
strofinargli la faccia. Sara apparve da dietro l’angolo e spuntò alle spalle di
Gesù, allargando il glorioso cappuccio sopra le nostre teste.
«Ehi» gridai mentre giravo l’angolo. «A voi sembra un aspide?». La mia
paura nei confronti di quella serpe si era trasformata in una sorta di cauto
affetto. Sembrava sorridere. Di certo io lo stavo facendo. Sara ondeggiava da
una parte all’altra, come uno stelo di frumento al vento. I ragazzi lasciarono
andare Gesù e corsero da Jakan, che si era voltato e indietreggiava
lentamente.
«Gesù parlava di aspidi» continuai «ma a parer mio questo è un cobra».
Il mio amico era piegato in due e si sforzava ancora di respirare, ma mi
guardò con una smorfia.
«Certo, non sono il figlio di un fariseo, ma…».
«È in combutta con il serpente» gridò Jakan. «Frequenta i demoni!».
«Demoni!» gridarono gli altri, mentre tentavano di nascondersi dietro al
loro grasso amico.
«Lo dirò a mio padre e verrai lapidato».
Una voce alle spalle di Jakan: «Cos’è tutto questo gridare?». Una voce
dolce.
Lei uscì dalla casa accanto alla bottega del fabbro. La sua pelle brillava
come rame e aveva gli occhi azzurri della gente del deserto del nord. Ciocche
di capelli castano-rossicci spuntavano dallo scialle viola. Non poteva avere
più di nove o dieci anni, ma nei suoi occhi c’era qualcosa di antico. Quando la
vidi, smisi di respirare.
Jakan si gonfiò come un rospo. «Stai indietro. Questi due sono in combutta
con un demone. Lo dirò agli anziani e saranno giudicati».
La ragazzina sputò ai suoi piedi; Non avevo mai visto una fanciulla sputare
prima di quel giorno. Rimasi affascinato. «A me sembra un cobra».
«Visto? L’avevo detto io».
Si avvicinò a Sara come se fosse un fico da cui raccogliere i frutti; non
mostrava alcuna paura, solo interesse. «Voi pensate che questo sia un
demone?» disse senza voltarsi a guardare Jakan. «Non proverete imbarazzo
quando gli anziani scopriranno che avete scambiato una comune serpe per un
demone?».
«Ma lo è».
La ragazzina sollevò la mano e Sara fece per morderla, poi abbassò la testa
fino a sfiorarle le dita con la lingua biforcuta. «È decisamente un cobra,
moccioso. E questi due probabilmente lo stavano riportando nei campi, dove
avrebbe dato una mano agli agricoltori mangiando i ratti».
«Sì, è esattamente quello che stavamo facendo» dissi.
«Assolutamente» confermò Gesù.
La fanciulla si girò verso Jakan e i suoi amici. «Un demone?».
Jakan pestò i piedi come un asino infuriato. «Tu sei d’accordo con loro».
«Non essere sciocco, la mia famiglia si è appena trasferita da Magdala,
questi due non li ho mai visti prima. Ma è ovvio quello che stavano facendo.
Al mio paese lo facciamo sempre. Del resto, qui a Nazaret siete così
arretrati».
«Lo facciamo anche qui» ribatté Jakan. «Io stavo… ecco… questi due ci
danno problemi».
«Problemi» gli fecero eco i suoi amici.
«Perché non li lasciamo portare a termine quello che stavano facendo?».
Gli occhi di Jakan balzarono dalla fanciulla al cobra, e viceversa. Poi
condusse via i suoi amici. «Mi occuperò di voi due un’altra volta».
Non appena ebbero svoltato l’angolo, la ragazzina si allontanò dalla serpe
con un salto e corse verso la porta di casa.
«Aspetta» gridò Gesù.
«Devo andare».
«Come ti chiami?».
«Maria di Magdala, figlia di Isacco» rispose. «Chiamatemi Maddi».
«Vieni con noi, Maddi».
«Non posso, devo andare».
«Perché?».
«Perché mi sono fatta la pipì addosso».
Scomparve dietro la porta.
Miracoli.

Una volta tornati nel campo di frumento, Sara si diresse verso il suo nido.
La guardammo da lontano mentre scivolava nella sua tana.
«Gesù. Come ci sei riuscito?».
«Non ne ho idea».
«Continueranno a succedere cose del genere?».
«È probabile».
«Finiremo in un sacco di guai, vero?».
«Sono forse un profeta?».
«Rispondi alla mia domanda».
Gesù fissò il cielo quasi fosse in trance. «L’hai vista? Non ha paura di
nulla».
«È una serpe gigantesca, che cosa dovrebbe temere?».
Corrugò la fronte. «Non fare il finto tonto, Biff. Siamo stati salvati da un
cobra e da una fanciulla, e non so che cosa pensare in proposito».
«Perché pensarci? È successo e basta».
«Niente accade se non per volontà di Dio. E non si accorda con il
testamento di Mosè».
«Forse è un testamento nuovo».
«Non stai fingendo, vero?» disse. «Sei davvero tonto».
«Credo preferisca te a me».
«Sara?».
«Certo, sono io il tonto…».

Non so se adesso, dopo aver vissuto come un adulto e dopo essere morto,
sarò in grado di scrivere dell’amore di un ragazzino. A quanto ricordo, però, è
il dolore più puro che abbia mai provato. Un amore senza desiderio,
condizioni o limiti: un bagliore puro e radioso che splendeva nel mio cuore e
riusciva a rendermi contemporaneamente gaio e triste e glorioso. Dove va a
finire? Perché, insieme a tutti i loro esperimenti, i Magi non provarono mai a
rinchiudere quella purezza in una bottiglia? Forse non potevano. Forse la
perdiamo quando diventiamo adolescenti, e non c’è magia che possa
riportarla indietro. Forse la rammento soltanto perché dedicai molto tempo a
cercare di capire l’amore che Gesù sentiva per tutti.
In Oriente ci insegnarono che la sofferenza deriva dal desiderio, e quella
bestia violenta mi avrebbe perseguitato tutta la vita; ma quel pomeriggio, e
per un po’ di tempo a seguire, toccai la grazia. La notte me ne stavo disteso,
sveglio, ascoltando il respiro dei miei fratelli nel silenzio della casa, nella mia
mente rivedevo i suoi occhi, come un fuoco blu nell’oscurità. Una deliziosa
tortura. Adesso mi chiedo se Gesù non abbia reso una tortura tutta la sua vita.
Maddi: la più forte di tutti noi.

Dopo il miracolo del serpente, Gesù e io cominciammo a trovare delle
scuse per passare davanti alla bottega del fabbro, dove potevamo imbatterci in
Maddi. Tutte le mattine ci alzavamo presto e andavamo da Giuseppe,
offrendoci di andare a comprargli dei chiodi o a far riparare qualche utensile.
E il poverino pensava fosse entusiasmo per il lavoro del falegname.
«Vi andrebbe di venire con me a Zippori, domani?» ci chiese un giorno,
mentre lo tormentavamo per farci mandare dal fabbro. «Biff, tuo padre
sarebbe d’accordo se ti insegnassi i primi rudimenti del mio mestiere?».
Ero mortificato. A dieci anni ci si aspettava che un ragazzino cominciasse
ad apprendere il mestiere del genitore, ma a me mancava ancora un anno:
un’eternità, quando ne hai nove. «Io… io sto ancora pensando a quello che
farò da grande» dissi. Il giorno prima, il mio babbo aveva fatto una proposta
simile a Gesù.
«Quindi non farai lo scalpellino?».
«Pensavo di diventare l’idiota del villaggio, se mio padre me lo
permetterà».
«Ha un vero talento, un dono di Dio» disse Gesù.
«Ho parlato con Bartolomeo l’idiota. Mi insegnerà a lanciare i miei
escrementi e ad andare a sbattere di testa contro i muri».
Giuseppe mi rivolse un’occhiata arcigna. «Forse voi due siete ancora
troppo giovani. Ne riparliamo l’anno prossimo».
«D’accordo» disse il mio amico «il prossimo anno. Adesso possiamo
andare, Giuseppe? Biff deve vedere Bartolomeo per la sua lezione».
L’uomo annuì e ce ne andammo prima che potesse infliggerci altre
gentilezze. Eravamo davvero diventati amici dell’idiota del villaggio. Puzzava
e sbavava, ma era grosso e ci offriva un po’ di protezione da Jakan e dai suoi
bulli. Inoltre, Bart passava gran parte del tempo a mendicare vicino alla
piazza cittadina, dove le donne venivano a prendere l’acqua al pozzo. Di tanto
in tanto scorgevamo Maddi che passava con un’anfora in equilibrio sulla
testa.
«Sai, presto dovremo cominciare a lavorare» mi disse Gesù. «Non ci
vedremo più quando comincerò ad aiutare mio padre».
«Guardati intorno: vedi qualche albero?».
«No».
«E quelli che abbiamo, gli ulivi, sono contorti e nodosi, giusto?».
«Giusto».
«Intendi davvero diventare falegname come tuo padre?».
«Esiste una possibilità».
«Una parola, Gesù: pietre».
«Pietre?».
«Guardati intorno. Ci sono pietre fin dove puoi spingere lo sguardo. La
Galilea non è che una distesa di roccia, terra e ancora roccia. Diventa
scalpellino, come me e mio padre. Potremo costruire città per i Romani».
«In verità, io stavo pensando di salvare l’umanità». «Dimentica
quelle sciocchezze, Gesù. Pietra: dai retta a me».
3

L’angelo non vuole dirmi nulla di ciò che è successo ai miei amici; non
vuole raccontarmi nulla dei dodici, di Maddi. Si limita a dirmi che sono morti
e che io devo scrivere la mia versione della storia. E mi racconta anche inutili
aneddoti sugli angeli: di come Gabriele una volta sparì per sessant’anni e fu
ritrovato sulla Terra, nel cadavere di un uomo di nome Miles Davis; o di come
Raffaele riuscì a svignarsela dal paradiso per andare a trovare Satana, per poi
fare ritorno con un oggetto chiamato telefono cellulare (evidentemente adesso
all’inferno ce l’hanno tutti). Raziel guarda la televisione e, quando fanno
vedere un terremoto o un tornado, dice: «Una volta ho distrutto una città con
uno di quelli. Ma il mio era meglio». Sono inondato da inutili chiacchiere
angeliche, ma a proposito della mia epoca so soltanto quello che ho visto. E,
quando in televisione parlano di Gesù, Raziel cambia canale prima che abbia
il tempo di apprendere qualcosa.
Non dorme mai. Passa il suo tempo a guardare me o la tv. Oppure mangia.
Non lascia mai la stanza.
Oggi, mentre cercavo degli asciugamani grandi, ho aperto un cassetto e,
sotto una busta di plastica per la biancheria sporca, ho trovato un libro: La
Sacra Bibbia recitava il titolo in copertina. Grazie a Dio non l’ho tirato fuori
ma l’ho aperto dando le spalle all’angelo. Ci sono dei capitoli che non avevo
mai visto in nessuna Bibbia di mia conoscenza. Ho visto i nomi di Matteo e
Giovanni, dei Romani e dei Galati: è un libro dei miei anni.
«Che stai facendo?».
Ho coperto la Bibbia e ho richiuso il cassetto. «Cercavo degli asciugamani.
Ho bisogno di farmi un bagno».
«Te lo sei fatto ieri».
«La pulizia è importante per la mia gente».
«Lo so. Cos’è, pensi che non lo sappia?».
«Non sei esattamente la più brillante fra le aureole».
«Allora fattelo. E allontanati dal televisore».
«Perché non vai a prendermi degli asciugamani?».
«Chiamerò la reception».
E così ha fatto. Se voglio dare un’occhiata a quel libro, devo riuscire a
farlo uscire dalla stanza.

A Giaffa, il villaggio gemello di Nazaret, la madre di un sacerdote del
Tempio morì a causa dell’aria malsana. Si chiamava Ester. I sadducei, o
sacerdoti di Levi, possedevano notevoli ricchezze grazie ai tributi che
versavamo al Tempio, e pagarono gli abitanti di tutti i villaggi circostanti
perché si recassero a piangere la defunta. Le famiglie di Nazaret andarono
sulla collina vicina per il funerale e, durante il tragitto, per la prima volta
Gesù e io avemmo modo di passare un po’ di tempo con Maddi.
«Allora» disse lei senza guardarci «avete giocato con qualche cobra di
recente?».
«Stiamo aspettando che il leone giaccia con l’agnello» rispose Gesù. «È la
parte successiva della profezia». «Quale profezia?».
«Lascia stare» dissi. «I serpenti sono roba da maschi. Noi siamo quasi
uomini. Cominceremo a lavorare dopo la Festa dei Tabernacoli. A Zippori».
Mi stavo atteggiando a uomo di mondo, ma Maddi non sembrò affatto
impressionata.
«E imparerai il lavoro di falegname?» chiese a Gesù.
«Alla fine farò il mestiere di mio padre, sì».
«E tu?» chiese a me.
«Sto pensando di fare il dolente di professione, ai funerali. Quanto può
essere dura? Ti strappi i capelli, canti un lamento funebre o due e hai il resto
della settimana libero».
«Suo padre è scalpellino» disse Gesù. «Potremmo imparare entrambi il
mestiere». Dietro mia insistenza, papà si era offerto di prendere Gesù come
apprendista se Giuseppe fosse stato d’accordo.
«Oppure potrei fare il pastore» aggiunsi rapido. «Sembra facile. La scorsa
settimana sono andato con Kaliel a curare il tuo gregge. La Legge dice che
devono esserci due persone con U gregge per impedire che accada un
abominio. E io riesco a Individuare un abominio a cinquanta passi di
distanza».
Maddi sorrise. «Ci sei già riuscito?».
«Oh, sì. Ho tenuto a bada tutti gli abomini mentre Kaliel giocava con la
sua pecora preferita dietro ai cespugli».
«Biff» disse Gesù severo «quello è l’abominio che avresti dovuto
prevenire».
«Sul serio?».
«Sì».
«Ops. Comunque penso che come dolente sarei eccezionale. Conosci le
parole di qualche lamento funebre, Maddi? Devo impararne qualcuno».
«Quando sarò cresciuta» annunciò lei «penso che tornerò a Magdala e farò
la pescatrice sul mare di Galilea».
Scoppiai a ridere. «Non essere sciocca, sei una ragazza. Non puoi farlo».
«Invece sì».
«No. Devi sposarti e avere dei figli. A proposito, sei già promessa a
qualcuno?».
«Vieni con me, Maddi, e farò di te una pescatrice di uomini» disse Gesù.
«E questo che cosa diavolo significa?».
Afferrai Gesù per la parte posteriore della tunica e lo trascinai via. «Non
badargli. È matto. Ha preso da sua madre. Una donna adorabile ma folle.
Coraggio Gesù, cantiamo un lamento funebre».
«La-la-la. Oh, siamo davvero tristi che la tua mamma sia morta. È un vero
peccato che tu sia un sadduceo e non creda nella vita dopo la morte, perché
così tua mamma diventerà solo cibo per i vermi, la-la. Forse vorresti
ripensarci, eh ? Fa-la-la-la- la-la-wacka-wacka». (In aramaico veniva
benissimo. Davvero.)
«Siete proprio due stupidi».
«È ora di andare. Dobbiamo fare i dolenti. Ci vediamo».
«Pescatrice di donne?» fece Gesù.
«Fa-la-la-la, non essere triste - era vecchia e senza denti, la- la-la.
Coraggio gente, le parole le conoscete!».

Più tardi dissi a Gesù: «Non puoi continuare a dire cose del genere: fanno
venire i brividi. “Pescatrice di uomini”. Vuoi farti lapidare dai farisei? È
questo che vuoi?».
«Sto solo facendo il lavoro di mio padre. E poi Maddi è nostra amica, non
dirà nulla».
«Finirai per spaventarla e farla andare via».
«No. Lei resterà con noi, Biff».
«Intendi sposarla?».
«Non so nemmeno se mi sia permesso, amico mio. Guarda».
Eravamo in cima alla collina e stavamo entrando a Giaffa; la folla dei
dolenti si stava radunando intorno al villaggio. Gesù mi stava indicando un
pennacchio rosso che svettava sulla gente: il pennacchio dell’elmo di un
centurione romano. Stava parlando con un sacerdote levita vestito di bianco e
oro, con una lunga barba canuta che gli arrivava sotto la cintura. Entrando nel
villaggio, vedemmo venti o trenta soldati sorvegliare la folla.
«Perché sono qui?».
«Non sono felici quando ci raduniamo» mi rispose, fermandosi a studiare il
comandante. «Devono assicurarsi che non organizziamo una rivolta».
«E perché il sacerdote sta parlando con lui?».
«Il sadduceo vuole rassicurare i Romani in merito alla sua influenza su di
noi. Non sarebbe bello se ci fosse un massacro il giorno del funerale di sua
madre».
«Quindi sta all’erta per noi».
«Sta all’erta per se stesso. Solo per se stesso».
«Non dovresti dire una cosa simile di un sacerdote del Tempio, Gesù». Era
la prima volta che lo sentivo parlar male dei sadducei, e la cosa mi spaventò.
«Oggi credo che quell’uomo capirà a chi appartiene il Tempio».
«Detesto sentirti parlare così. Forse dovremmo tornare a casa».
«Ricordi quando abbiamo trovato quell’allodola mattolina morta?».
«Ho un brutto presentimento».
Gesù mi guardò con un sorriso. Pagliuzze d’oro brillavano nei suoi occhi.
«Intona il tuo lamento funebre, Biff. Credo che Maddi sia rimasta
impressionata dal tuo canto».
«Davvero? Lo pensi sul serio?».
«No».

C’era una folla di cinquecento persone fuori dalla tomba. Gli uomini
davanti si erano messi degli scialli a strisce sulla testa e pregavano
dondolandosi. Le donne erano sul retro, separate: fatta eccezione per le
dolenti, che venivano pagate, era come se non esistessero. Cercai di scorgere
Maddi, ma in mezzo a tanta gente non riuscii a individuarla. Quando mi voltai
di nuovo, vidi che Gesù si era fatto strada fino a portarsi davanti agli uomini,
dove il sadduceo era in piedi accanto al cadavere della madre morta e leggeva
un rotolo della Torah.
Le donne avevano avvolto il cadavere nel lino dopo averlo unto con oli
profumati. Riuscivo a sentire l’odore del legno di sandalo e del gelsomino in
mezzo al sudore acre dei dolenti, mentre andavo a mettermi accanto a Gesù.
Lui guardava oltre il sacerdote, fissando il corpo; gli occhi erano socchiusi e
concentrati. Tremava, quasi fosse stato investito da un vento gelido.
Il sacerdote terminò la lettura e cominciò a cantare, accompagnato dalle
voci dei cantori pagati e venuti sin lì dal Tempio di Gerusalemme.
«Bello essere ricchi, eh?» sussurrai a Gesù, dandogli una gomitata nelle
costole. Lui mi ignorò e serrò i pugni, che tenne lungo i fianchi. Gli si gonfiò
una vena sulla fronte mentre con sguardo sembrava trapassare il cadavere
della donna.
E lei si mosse.
All’inizio fu solo uno spasmo. Un sussulto della mano sotto sudario di
lino. Credo di essere stato l’unico a notarlo. «No, Gesù, non farlo» dissi.
Cercai i Romani, che si erano raccolti a gruppi di cinque intorno alla folla.
Avevano l’aria annoiata, la mano sull’impugnatura dello spadino.
Il cadavere ebbe un altro sussulto e sollevò un braccio. Si udì un rantolo, e
un ragazzino urlò. Gli uomini cominciarono a indietreggiare, mentre le donne
premevano per vedere che cosa stava succedendo. Gesù cadde in ginocchio e
si premette i pugni contro le tempie. Il sacerdote continuava a cantare.
Il cadavere si mise seduto.
I cantori si fermarono e finalmente il sadduceo si voltò e vide la madre
morta, che aveva portato le gambe giù dalla tavola e sembrava voler provare a
mettersi in piedi. L’uomo indietreggiò incespicando tra la folla, cercando di
aggrapparsi all’aria come se fosse stata la sua immaginazione a procurargli la
tremenda visione.
Gesù dondolava sulle ginocchia, mentre le lacrime gli scendevano lungo le
guance. Il cadavere si alzò in piedi e, ancora avvolto nel sudario, si girò come
se si stesse guardando intorno. Notai che diversi Romani avevano sguainato le
spade. Diedi un’occhiata in giro e vidi il comandante dei centurioni in piedi
nella parte posteriore di un carro: faceva segno ai suoi uomini di mantenere la
calma. Quando mi voltai di nuovo, mi resi conto che io e il mio amico
eravamo stati abbandonati da tutti i dolenti, ed eravamo rimasti soli in quello
spazio vuoto.
«Adesso basta, Gesù» gli sussurrai all’orecchio, ma lui continuò a oscillare
e a concentrarsi sulla salma, che mosse il primo passo.
La folla sembrava paralizzata dalla visione del cadavere in movimento, ma
noi due eravamo troppo isolati e sapevo che entro poco tempo qualcuno
avrebbe notato che il mio amico si dondolava a terra. Gli misi un braccio
intorno alla gola e lo trascinai via, verso un gruppo di uomini che si stavano
allontanando piangendo.
«Sta bene?» mi sussurrò una voce all’orecchio. Mi voltai e vidi Maddi
accanto a me.
«Aiutami a portarlo via».
Lo afferrammo per le braccia e lo trascinammo. Il corpo era rigido come
un bastone, lo sguardo era fisso sul cadavere.
La donna morta camminava verso il figlio, che indietreggiava brandendo il
rotolo quasi fosse una spada, con gli occhi sgranati.
Alla fine la defunta cadde a terra, ebbe uno spasmo e rimase immobile.
Gesù si afflosciò tra le nostre braccia.
«Portiamolo fuori da qui» dissi a Maddi. Lei annuì e mi aiutò a trascinarlo
dietro il carro da dove il centurione impartiva ordini ai soldati.
«È morto?» ci chiese.
Gesù sbatteva le palpebre come se fosse stato destato da un sonno
profondo. «Non lo sappiamo mai con certezza, signore» dissi.
Lui gettò indietro la testa e rise. L’armatura a scaglie tintinnò
rumorosamente mentre scrollava le spalle. Era più vecchio degli altri soldati e
aveva i capelli grigi, ma era magro e forte, e per nulla preoccupato dalla
reazione teatrale della folla. «Bella risposta, ragazzo. Come ti chiami?».
«Biff, signore. Levi figlio di Alfeo, detto Biff. Di Nazaret».
«Bene, Biff. Io sono Gaius Justus Gallicus, sottocomandante di Zippori. E
credo che voi ebrei fareste meglio ad accertarvi della morte dei vostri defunti,
prima di seppellirli».
«Sì, signore» dissi.
«E tu, ragazzina. Sei graziosa. Come ti chiami?».
Notai che Maddi era rimasta impressionata dall’attenzione del romano.
«Maria di Magdala, signore». Mentre parlava, asciugava la fronte di Gesù con
l’orlo dello scialle.
«Un giorno spezzerai il cuore a qualcuno, eh, piccolina?».
Non rispose. Ma io dovetti avere qualche reazione a quella domanda,
perché Justus rise ancora. «O forse l’ha già fatto, eh, Biff?».
«Da noi funziona così, signore. Per questo seppelliamo le nostre donne
quando sono ancora vive. Per limitare i cuori spezzati».
Il romano si tolse l’elmo, si passò una mano tra i capelli corti e mi gettò
addosso il suo sudore. «Avanti, voi due, portate il vostro amico all’ombra.
Qui fuori fa troppo caldo per un ragazzino che si sente male. Coraggio».
Maddi e io aiutammo Gesù a rimettersi in piedi e cominciammo ad
allontanarci. Ma avevamo fatto solo pochi passi quando lui si fermò e si voltò
a osservare il romano. «Ucciderete il mio popolo se seguiremo il nostro Dio?»
gridò.
Gli mollai uno schiaffo alla nuca. «Sei diventato matto?».
Justus lo fissò con occhi socchiusi, e dal suo sguardo scomparve ogni
sorriso. «Qualunque cosa ti dicano, ragazzo, Roma ha solo due regole: paga le
tasse e non ribellarti. Seguile e sopravviverai».
Con uno strattone, Maddi fece girare Gesù e sorrise al romano. «Grazie,
signore, lo accompagneremo in un posto all’ombra». Poi si voltò di nuovo
verso Gesù. «C’è qualcosa che volete dirmi voi due?».
«Non si tratta di me» dissi. «Ma di lui».

L’indomani, incontrammo l’angelo per la prima volta. Maria e Giuseppe ci
dissero che Gesù era uscito di casa all’alba e non si era più fatto vivo.
Trascorsi buona parte della mattinata a cercarlo in tutto il villaggio, sperando
di incontrare Maddi. La piazza era animata dalle storie sulla morta che si era
messa a camminare, ma dei miei due amici non v’era traccia. A mezzodì mia
madre mi chiamò per badare ai fratellini mentre lei andava a lavorare con le
altre donne nel vigneto. Tornò al crepuscolo. Sapeva di sudore e vino dolce, e
aveva i piedi viola per aver pigiato i grappoli nella pressa. Finalmente libero,
corsi in cima alla collina e ispezionai tutti i nostri angoli preferiti, e alla fine
trovai Gesù in ginocchio in un uliveto. Si dondolava avanti e indietro, e
intanto pregava. Era zuppo di sudore e temetti che potesse avere la febbre.
Strano, non avevo mai provato preoccupazioni simili per i miei fratelli, ma sin
dal principio Gesù mi aveva provocato un’inquietudine d’ispirazione divina.
Rimasi a guardare e aspettai e, quando smise di dondolare e si sedette sui
talloni per riposarsi, finsi un colpo di tosse per avvertirlo del mio arrivo.
«Forse dovresti esercitarti un altro po’ con le lucertole».
«Ho fallito. Ho deluso mio padre».
«È stato lui a dirtelo, o lo sai e basta?».
Ci pensò un momento e fece per scostarsi i capelli dal viso; poi si ricordò
che adesso li portava corti e lasciò cadere la mano in grembo. «Gli chiedo di
guidarmi, ma non mi risponde. Sento che dovrei fare delle cose, ma non so
quali. E non so come».
«A me sembra che il sacerdote sia rimasto stupito. Di sicuro per me è stato
così. E anche per Maddi. La gente ne parlerà per mesi».
«Ma io volevo che quella donna tornasse a vivere. Che camminasse con
noi. E che parlasse del miracolo».
«Be’, sta scritto: “Due volte su tre non è male”».
«Dove sta scritto?».
«Dalmati 9,7 credo… ma che importa? Nessun altro avrebbe potuto fare
quello che hai fatto tu».
Gesù annuì. «Che cosa dice la gente?».
«Credono che sia stato qualcosa che hanno usato le donne per preparare il
cadavere. La purificazione durerà ancora due giorni, quindi nessuno può
domandare niente».
«Quindi non sanno che sono stato io?».
«Spero proprio di no. Gesù, non capisci che non puoi andartene in giro a
fare questo genere di cose? La gente non è pronta».
«Ma molti di loro lo vogliono. Non fanno che parlare del Messia che verrà
a salvarci. Non devo far vedere che è arrivato?».
Come si risponde a una domanda del genere? Aveva ragione; da che
ricordassi, avevo sempre sentito parlare dell’avvento del Salvatore e del
Regno di Dio, della liberazione del nostro popolo dai Romani: le colline
brulicavano di fazioni diverse di zeloti, impegnate in scaramucce con i
Romani nella speranza di portare il cambiamento tanto atteso. Eravamo i
prescelti del Signore, benedetti e puniti come nessun altro popolo al mondo.
Quando gli ebrei parlavano, Dio ascoltava. E adesso toccava a Lui parlare.
Evidentemente, il mio amico doveva essere il Suo portavoce. Ma allora non ci
credevo: nonostante quello che avevo visto, Gesù era il mio amico e non il
Messia.
«Sono abbastanza sicuro che il Messia debba avere la barba».
«Quindi non è ancora il momento? È questo che mi stai dicendo?».
«Esatto, Gesù. Quando tu non sai una cosa, la so io. Dio mi ha mandato un
messaggero che mi ha detto: “A proposito, di’ a Gesù di aspettare il momento
in cui comincerà a radersi, prima di condurre il mio popolo fuori dalla
schiavitù”».
«Potrebbe succedere».
«Non chiederlo a me, ma a Dio».
«È quello che sto facendo. Ma Lui non risponde».
Nell’uliveto si faceva sempre più buio e riuscivo a malapena a vedere la
luminosità dei suoi occhi, quando a un tratto intorno a noi si fece luce come
fosse giorno. Sollevammo gli occhi e vedemmo Raziel che scendeva su di noi
dalla cima degli alberi. Naturalmente allora non sapevo che fosse il
temutissimo Raziel; ero semplicemente terrorizzato. L’angelo splendeva sopra
di noi come una stella e aveva lineamenti così perfetti da far impallidire
persino la bellezza della mia amata Maddi. Gesù nascose il viso e si
rannicchiò contro il tronco di un ulivo.
Immagino che si lasciasse sorprendere dal soprannaturale più di quanto
facessi io, che rimasi semplicemente lì con la bocca aperta, sbavando come
l’idiota del villaggio.
«Non temete, porto notizie di grande gioia per tutti gli uomini. Oggi, nella
città di Davide, è nato il Salvatore, Cristo nostro Signore». Poi si librò sopra
di noi per un secondo e aspettò che il suo messaggio facesse presa.
Gesù alzò il volto e sfidò l’angelo con lo sguardo.
«Ebbene?».
Mi ci volle un secondo per digerire il significato delle sue parole, e aspettai
che Gesù dicesse qualcosa; ma lui guardava il cielo e sembrava bearsi della
luce, con uno sciocco sorriso stampato sul volto.
Alla fine indicai il mio amico e dissi: «Lui è nato nella città di Davide».
«Sul serio?».
«Sì».
«Sua madre si chiama Maria?». «Sì».
«Ed è vergine?».
«Adesso lui ha due fratelli e due sorelle, ma all’epoca lo era».
L’angelo si guardò intorno nervosamente, come se da un momento all’altro
si potesse manifestare una moltitudine di milizie celesti. «Quanti anni hai,
ragazzino?».
Gesù continuava a fissarlo, sorridente.
«Ne ha dieci» dissi io.
L’angelo si schiarì la gola e si agitò un po’, e nel farlo scese di un paio di
metri verso terra. «Mi sono messo in un bel guaio. Mentre venivo qui mi sono
fermato a parlare con Michele; aveva un mazzo di carte. Sapevo che era
passato un po’ di tempo, ma…». A Gesù chiese: «Ragazzino, sei nato in una
stalla? Eri avvolto in fasce e stavi in una mangiatoia?».
Lui non disse nulla.
«Così racconta sua madre».
«Perché non parla? È ritardato?».
«Credo che tu sia il suo primo angelo. È solo un po’ impressionato».
«E che mi dici di te?».
«Io sono nei guai perché arriverò in ritardo di un’ora per la cena».
«Capisco cosa intendi. Farò meglio a tornare indietro per controllare
questa cosa. Se doveste vedere dei pastori che vegliano sulle loro greggi di
notte, potreste dire loro che… ehm… a un certo punto, ehm, più o meno dieci
anni fa… è nato il Salvatore? Lo fareste?».
«Certo».
«Okay. Gloria a Dio nell’alto dei cieli. E pace in terra agli uomini di buona
volontà».
«Lo stesso a te».
«Grazie. Ciao».
E così, rapido com’era venuto, l’angelo sfrecciò via in una stella cadente, e
l’uliveto tornò di nuovo buio. Riuscivo appena a distinguere il viso di Gesù
quando si voltò a guardarmi.
«Ecco qui» dissi. «Qual è la prossima domanda?».

Suppongo che ogni ragazzino si chieda che cosa farà da grande. E
suppongo che in molti, vedendo i loro coetanei che compiono grandi cose, si
domandino: «Avrei potuto farlo anch’io?». Per me, a dieci anni, era
decisamente troppo sopportare che il mio migliore amico fosse il Messia
sapendo che io avrei vissuto e sarei morto da scalpellino. La mattina
successiva al nostro incontro con l’angelo, andai in piazza e mi sedetti con
Bartolomeo, l’idiota del villaggio, sperando che Maddi venisse al pozzo. Se il
mio destino era lavorare con mio padre, se non altro avrei potuto avere
l’amore di una donna affascinante. A quei tempi, a dieci anni cominciavamo
ad apprendere quello che sarebbe stato il nostro mestiere, e a tredici
ricevevamo lo scialle di preghiera e i filatteri che segnavano il nostro
passaggio all’età adulta. Poco dopo ci si aspettava che ci fidanzassimo e, a
quattordici anni, ci sposavamo e mettevamo su famiglia. Quindi, come potete
vedere, non ero troppo giovane per vedere in Maddi una possibile moglie (in
alternativa, avrei sempre potuto chiedere a Maria di sposarmi, una volta morto
Giuseppe).
Le donne andavano e venivano; prendevano l’acqua, lavavano i vestiti e,
mentre il sole si levava alto nel cielo e la piazza si vuotava, Bartolomeo se ne
stava seduto all’ombra di una palma da datteri e si metteva le dita nel naso.
Maddi non si fece viva. È buffa la facilità con cui un cuore può spezzarsi. Ho
sempre avuto un gran talento, in tal senso.
«Perché piangi?» mi chiese Bartolomeo.
Era più grosso di qualunque altro uomo presente a Nazaret; la barba e i
capelli erano incolti e aggrovigliati, e la polvere gialla che lo ricopriva da
capo a piedi lo faceva sembrare un leone incredibilmente stupido. La sua
tunica era ridotta a brandelli e non portava i sandali. L’unica cosa che
possedeva era la ciotola di legno da cui mangiava, che ripuliva con una
leccata. Viveva della carità degli altri, e della spigolatura del grano (nei campi
ne rimaneva sempre un po’ per i poveri, come stabilito dalla Legge). Non
scoprii quanti anni aveva. Passava le sue giornate in piazza a giocare con i
cani del villaggio, ridacchiando tra sé e sé e grattandosi l’inguine. Quando
passavano le donne tirava fuori la lingua e faceva: «Bleah». Mamma diceva
che aveva il cervello di un bambino. Come al solito, si sbagliava.
Mi posò la sua grossa zampa sulla spalla e mi massaggiò, lasciando un
polveroso cerchio d’affetto sulla mia veste. «Perché piangi?» ripeté.
«Sono solo triste. Non capiresti».
Bartolomeo si guardò intorno e, quando vide che non c’era nessun altro a
parte i suoi amici cani, mi disse: «Tu pensi troppo. E pensare non ti porterà
che sofferenza. Sii più ingenuo».
«Cosa?». Era il discorso più coerente che gli avessi mai sentito fare.
«Mi vedi mai piangere? Io non ho niente e non faccio niente, quindi non
sono schiavo di nulla».
«Che cosa ne sai?» chiesi secco. «Tu vivi in mezzo alla polvere. Sei
sporco! Non fai niente. La prossima settimana comincerò a lavorare e lo farò
per tutta la vita, fino a quando non morirò con la schiena rotta. La ragazza che
desidero è innamorata del mio migliore amico, e lui è il Messia. Io non sono
niente, e tu, tu… tu sei un idiota».
«No, invece. Io sono un greco. Un cinico».
Mi voltai e lo guardai veramente. I suoi occhi, normalmente torbidi come
fango, brillavano come gioielli neri nel deserto polveroso del suo viso. «Che
cos’è un cinico?».
«Un filosofo. Sono un allievo di Diogene. Lo conosci?».
«No, ma come avrebbe potuto farti da maestro? I tuoi unici amici sono i
cani».
«Diogene se ne andava in giro per Atene con una lanterna, in pieno giorno,
e la metteva davanti al viso delle persone dicendo che andava in cerca di un
uomo onesto».
«Quindi era una specie di profeta degli idioti?».
«No, no, no». Bart sollevò un piccolo terrier e cominciò a gesticolare per
fargli capire quello che stava dicendo. Il cane sembrò divertirsi. «I greci si
erano lasciati ingannare dalla loro cultura. Diogene gli insegnò che tutte le
ostentazioni della vita moderna erano false, che un uomo doveva vivere
semplicemente, all’aperto, senza nulla… e che non doveva occuparsi di arte,
di poesia, di religione…».
«Come un cane» dissi.
«Esatto!». Bart fece un gesto plateale con il terrier. «Esatto!». Il cagnolino
sembrò sul punto di vomitare. Rimesso a terra, si allontanò barcollando.
Una vita senza preoccupazioni: in quel momento mi parve meravigliosa.
Voglio dire, non mi andava di vivere nella polvere e di essere preso per matto.
Ma una vita da cani non sembrava affatto male. Per tutti quegli anni, l’idiota
aveva nascosto una profonda saggezza.
«Sto cercando di imparare a leccarmi le palle» fece Bart.
Forse avevo giudicato male. «Devo trovare Gesù» dissi.
«Tu sai che è il Messia, non è vero?».
«Aspetta un minuto, tu non sei ebreo… pensavo non credessi in alcuna
religione».
«Sono stati i cani a dirmi che è il Messia. E io mi fido di loro. Dillo a
Gesù».
«Te l’hanno detto i cani?».
«Sono cani ebrei».
«Già. Fammi sapere come va il leccaggio delle palle».
«Shalom».
Chi poteva mai pensare che Gesù avrebbe trovato il suo primo apostolo in
mezzo alla polvere e ai cani di Nazaret? Bleah.

Incontrai Gesù alla sinagoga. Stava ascoltando una lezione dei farisei sulla
Legge. Passai in mezzo a un gruppo di ragazzi seduti sul pavimento, e gli
sussurrai: «Bartolomeo dice di sapere che tu sei il Messia».
«L’idiota? Gli hai domandato da quanto lo sa?».
«Gliel’hanno detto i cani del villaggio».
«Non ho mai pensato di chiederlo a loro».
«Dice anche che dovremmo vivere in semplicità, come i cani, senza nulla,
senza ostentazioni… qualunque cosa comporti».
«L’ha detto Bartolomeo? Sembra il discorso che farebbe un esseno. È
molto più intelligente di quanto non sembri».
«Sta cercando di imparare a leccarsi le palle».
«Sono certo che la Legge lo vieta. Chiederò al rabbino».
«Non sono sicuro che sia il caso di parlarne con il fariseo».
«Hai detto a tuo padre dell’angelo?».
«No».
«Bene. Io ho parlato con Giuseppe, mi permetterà di imparare a fare lo
scalpellino insieme a te. Non voglio che il tuo babbo cambi idea e non mi
insegni più. Credo che la storia dell’angelo lo spaventerebbe». Gesù mi scrutò
per la prima volta, distogliendo lo sguardo dal fariseo che continuava a
recitare in ebraico, nel suo tono monotono. «Hai pianto?».
«Io? No, il tanfo di Bart mi ha fatto lacrimare gli occhi».
Mi posò una mano sulla fronte e tutta la tristezza e la trepidazione
sembrarono abbandonarmi in un istante. Sorrise. «Va meglio?».
«Sono geloso di te e Maddi».
«Non credo faccia bene al collo».
«Cosa?».
«Cercare di leccarsi le palle. Dev’essere uno sforzo notevole per il collo».
«Hai sentito quello che ho detto? Sono geloso di te e Maddi».
«Sto ancora imparando, Biff. Ci sono cose che non capisco. Il Signore ha
detto: “Sono un Dio geloso”. Quindi, suppongo che la gelosia sia una cosa
buona».
«Ma mi fa stare davvero male».
«Dunque vedi che rompicapo? La gelosia ti fa stare male, ma Dio è geloso
e quindi dev’essere una cosa buona; invece quando un cane si lecca le palle
sembra divertirsi, ma per la Legge è un atto sbagliato».
D’un tratto, qualcuno lo fece alzare in piedi prendendolo per un orecchio.
Il fariseo lo guardò torvo. «Forse la Legge di Mosè è troppo noiosa per te,
Gesù figlio di Giuseppe?».
«Ho una domanda, rabbino» gli disse.
«Oddio». Nascosi il viso tra le braccia.
4
Ecco un altro motivo per cui detesto quel rifiuto celeste con cui divido la
stanza: oggi ho scoperto di aver offeso l’intrepido cameriere del servizio in
camera, Jesus. Come potevo saperlo? Quando ha portato le nostre pizze per
cena, gli ho allungato una delle monete d’argento americane che ci hanno
dato da Cinnabon, il negozio di dolciumi all’aeroporto. Si è fatto beffe di me:
beffe, capite? Poi, a pensarci meglio, ha detto: «Señor, so che lei è straniero e
non può saperlo, ma questo genere di mancia è un vero insulto. Farebbe
meglio a firmare semplicemente la ricevuta del servizio in camera, così
ottengo la mancia che viene aggiunta automaticamente. Glielo dico perché è
stato molto gentile e so che non intendeva offendermi, ma un altro cameriere
le avrebbe sputato nel piatto, davanti a un’offerta del genere».

Ho lanciato un’occhiata truce all’angelo, che come al solito era disteso sul
letto a guardare la televisione, e per la prima volta mi sono reso conto che non
comprende la lingua di Jesus. Non ha il dono delle lingue che è stato concesso
al sottoscritto. Con me parla in aramaico, e apparentemente conosce l’ebraico
e l’inglese quel tanto che gli basta per capire la tv; ma non sa una parola di
spagnolo. Ho chiesto scusa a Jesus e l’ho congedato, promettendogli che avrei
rimediato, e poi mi sono girato verso il mio compagno di stanza.
«Razza di stupido, queste monete non valgono quasi niente qui».
«Che vuoi dire? Somigliano ai denari d’argento che abbiamo riportato alla
luce a Gerusalemme, valgono una fortuna».
Aveva ragione, in un certo senso. Dopo che mi aveva risvegliato dalla
morte, l’avevo condotto in un cimitero nella valle di Ben Hinnom e lì,
nascosti sotto una pietra dove Giuda li aveva messi duemila anni fa, avevamo
trovato i trenta denari d’argento: il denaro che grondava sangue. Tolto il fatto
che si erano leggermente ossidati, erano identici al giorno in cui li avevo
presi, e somigliavano moltissimo alle monete che in questo paese valgono
dieci centesimi (con un’unica eccezione: sui denari era impressa l’immagine
di Tiberio, mentre su queste monete c’è un altro Cesare). Avevamo portato i
denari a un antiquario nella città vecchia (che era rimasta quasi identica ad
allora, solo che al posto del Tempio c’erano due grandi moschee).
L’antiquario ci aveva dato ventimila dollari americani, soldi che avevamo
usato per viaggiare e che avevamo lasciato in deposito alla reception
dell’hotel per le spese. L’angelo mi aveva detto che le monete da dieci
centesimi dovevano avere più o meno lo stesso valore dei denari e io gli
avevo creduto come uno stupido.
«Avresti dovuto avvertirmi» gli ho detto. «Se potessi uscire da questa
stanza l’avrei scoperto da solo».
«Hai del lavoro da fare» mi ha risposto. Poi è balzato in piedi e ha urlato
alla televisione: «Che l’ira di Dio si abbatta su di te, Stephanos!».
«Con chi accidenti ce l’hai?».
Ha agitato un dito verso lo schermo. «Ha scambiato il figlio di Catherine
con il suo malvagio fratellastro, che ha avuto dalla sorella di lei mentre era in
coma, ma Catherine non se n’è accorta perché si è rifatto il viso per
impersonare il direttore della banca che sta impedendo il riscatto dell’azienda
di suo marito. Se non fossi bloccato qui, penserei personalmente a trascinare
quel demonio all’inferno».
Da giorni ormai sta guardando i drammi a puntate trasmessi dalla tv,
gridando contro lo schermo o scoppiando in lacrime. Ha smesso di leggere
quello che scrivo da sopra la mia spalla, così ho semplicemente cercato di
ignorarlo. Ma adesso ho capito qual è il problema.
«Non è reale, Raziel».
«Che intendi dire?».
«Sono dei drammi, come quelli che scrivevano i greci. E i protagonisti
sono attori».
«No, nessuno potrebbe fingere una cattiveria simile».
«E non è finita. Hai presente l’Uomo Ragno e Dottor Octopus? Nemmeno
loro sono reali».
«Cane bugiardo!».
«Se ogni tanto uscissi da questa stanza e guardassi come parla la gente
vera, lo capiresti, razza di cretino dai capelli gialli. Invece no, te ne stai qui
appollaiato sulla mia spalla come un uccello ammaestrato. Sono morto da
duemila anni, e persino io so più cose di te». (Ho ancora bisogno di dare
un’occhiata a quel libro nel cassettone. Forse, ma dico forse, potrei spingerlo
a regalarmi cinque minuti di privacy.)
«Tu non sai un bel niente. Ai miei tempi, ho distrutto intere città».
«Viene da chiedersi se tu abbia distrutto quelle giuste. Sarebbe
imbarazzante, eh?».
A quel punto, sullo schermo è comparsa la pubblicità di una rivista che
promette di “colmare tutte le tue lacune” e di farti conoscere la vera storia di
tutte le telenovele: Soap Opera Digest, così si chiama. Ho visto l’angelo
sgranare gli occhi. Ha afferrato il telefono e ha chiamato la reception.
«Che cosa stai facendo?».
«Ho bisogno di quella rivista».
«Fatti mandare Jesus» gli ho detto. «Ti aiuterà a procurartelo».

Era il nostro primo giorno di lavoro, e Gesù e io eravamo già in piedi
prima dell’alba. C’incontrammo nei pressi del pozzo e riempimmo gli otri che
ci avevano dato i nostri padri, e poi facemmo colazione con pane azzimo e
formaggio mentre camminavamo verso Zippori. Sebbene fosse perlopiù in
terra battuta, la strada era liscia e agevole (se mai Roma si occupò di
qualcosa, nei suoi territori, fu della salvaguardia delle strade utilizzate dal suo
esercito). Durante il tragitto, le colline disseminate di rocce si tinsero di rosa
sotto il sole che sorgeva, e vidi Gesù rabbrividire come se un vento gelido gli
avesse percorso la spina dorsale.
«La gloria di Dio è in tutto ciò che vediamo» disse. «Non dobbiamo mai
dimenticarlo».
«Ho appena messo il piede su una cacca di dromedario. Domani partiremo
quando avrà già fatto chiaro».
«E io ho appena compreso che è questo il motivo per cui quella vecchia
non poteva più rivivere. Avevo dimenticato che il potere di farla alzare non
apparteneva a me, ma a Dio. L’avevo fatta tornare in vita per il motivo
sbagliato: la mia arroganza. E così è morta un’altra volta».
«Mi è finita su un lato del sandalo. Grandioso, ora sentirò la puzza tutto il
giorno».
«Ma forse è successo perché non l’ho toccata. Quando ho riportato in vita
le altre creature, le ho sempre toccate».
«La Legge parla della necessità di togliere il dromedario dalla strada,
quando deve fare i suoi bisogni? Dovrebbe contemplarlo. Se non quella
mosaica, almeno quella romana. Voglio dire, non esitano a crocifiggere un
ebreo che si ribella, quindi devono aver previsto qualche punizione per chi
imbratta le loro strade. Non credi? Non sto parlando di crocifissione, ma di un
bello schiaffo sulla bocca o qualcosa di simile».
«Ma come avrei potuto toccare il cadavere se è vietato dalla Legge? I
dolenti mi avrebbero fermato».
«Possiamo fermarci un momento, così mi pulisco il sandalo? Aiutami a
trovare un bastoncino. Quella cacca era grossa quanto la mia testa».
«Tu non mi stai ascoltando, Biff».
«Sì, invece. Ascolta, Gesù, non credo che la Legge valga per uno come te.
Voglio dire, tu sei il Messia. Dio dovrebbe dirti che cosa vuole, no?».
«Io domando, ma non ricevo mai risposta».
«Senti, te la stai cavando bene. Forse quella donna non è resuscitata solo
perché era una testona. Gli anziani lo sono spesso. Se vuoi far alzare mio
nonno dopo il pisolino pomeridiano, devi lanciargli una secchiata d’acqua.
Prova con un defunto giovane, la prossima volta».
«E se non fossi davvero il Messia?».
«Vuoi dire che non ne sei sicuro? L’angelo non se l’è lasciato sfuggire?
Credi che Dio potrebbe farti uno scherzo? Io non penso. Non conosco la
Torah come te, Gesù, ma non mi pare di ricordare che Dio abbia il senso
dell’umorismo».
Finalmente riesco a strappargli un sorriso. «Mi ha dato te come migliore
amico, no?».
«Aiutami a trovare un legnetto».
«Credi che diventerò un bravo scalpellino?».
«Cerca solo di non essere migliore di me. Non chiedo altro».
«Biff, tu puzzi».
«Cos’è che stavo cercando di dirti?».
«Pensi davvero che io piaccia a Maddi?».
«Hai intenzione di essere così tutte le mattine? Perché in tal caso puoi
venire al lavoro da solo».

Le porte di Zippori erano intasate di persone. Gli agricoltori uscivano per
raggiungere i campi e le piantagioni, gli artigiani e i costruttori entravano in
massa, mentre i mercanti portavano in giro le loro merci e i mendicanti
gemevano ai lati della strada. Gesù e io ci fermammo fuori dalle porte,
meravigliati, e per poco non fummo investiti da un uomo che guidava una fila
di scimmie cariche di ceste piene di pietre.
Non è che non avessimo mai visto una città, prima. Gerusalemme era
cinquanta volte più grande di Zippori e c’eravamo stati spesso in occasione
delle feste; ma era una città ebraica. Era la città ebraica. Zippori, invece, era
la fortezza romana in Galilea e, non appena vedemmo la statua di Venere
davanti alle porte, capimmo che c’era qualcosa di diverso.
Diedi una gomitata nelle costole al mio amico. «Un idolo». Non avevo mai
visto prima la forma umana riprodotta.
«Che cosa peccaminosa».
«E nuda».
«Non guardare».
«E completamente nuda».
«E vietato. Dobbiamo andarcene di qui, trova tuo padre». Mi prese per una
manica e mi trascinò in città attraverso le porte.
«Come possono permetterlo?» chiesi. «La nostra gente dovrebbe abbattere
quella statua».
«L’ha fatto. Un gruppo di zeloti. Me l’ha detto Giuseppe. I Romani li
hanno sorpresi e li hanno crocifissi sul ciglio della strada».
«Non me l’avevi mai detto».
«Giuseppe mi ha chiesto di non parlarne».
«Si vedono i seni».
«Non ci pensare».
«E come faccio? Non avevo mai visto un seno senza un bambino attaccato.
Sono più… amichevoli visti così… in coppia».
«Da che parte, per il posto in cui dobbiamo andare a lavorare?».
«Il babbo ha detto di portarci all’angolo occidentale della città; da lì
dovremmo vedere dove stanno lavorando».
«Andiamo, allora». Mi trascinava, avanzando a testa bassa con passo
pesante, come un mulo.
«Credi che i seni di Maddi somiglino a quelli?».

Mio padre aveva ricevuto l’incarico di costruire una casa per un ricco
greco nella parte ovest della città. Quando arrivammo era già lì: dava
istruzioni agli schiavi, che stavano sollevando una pietra per sistemarla nella
parete. Probabilmente mi aspettavo una cosa diversa. Probabilmente ero
sorpreso che qualcuno - persino uno schiavo - facesse quello che diceva mio
padre. Gli schiavi erano nubiani, egizi, fenici, criminali, debitori, bottini di
guerra, uomini nati per sbaglio; erano tenaci, sporchi, e molti non portavano
che un paio di sandali e un perizoma. In un’altra vita forse avevano
comandato un esercito o abitato in un palazzo, ma adesso sudavano all’aria
gelida del mattino, e spostavano pietre grandi abbastanza da sfiancare un
asino.
«Sono i tuoi schiavi?» chiese Gesù a mio padre.
«Sono forse un uomo ricco, Gesù? No, questi appartengono ai Romani. Il
greco per cui lavoro li ha presi a servizio per la costruzione della sua casa».
«Perché fanno quello che gli ordini? Sono così tanti. E tu sei uno solo».
Mio padre chinò il capo. «Spero che tu non debba mai vedere cosa
possono fare sul corpo di un uomo le sfere di piombo di ima frusta romana.
Tutti questi uomini l’hanno visto, ed è bastato a distruggere il loro spirito.
Prego per loro ogni sera».
«Io odio i Romani» dissi.
«Davvero, piccolo?» chiese una voce alle mie spalle.
«Ave, centurione» fece mio padre sgranando gli occhi.
Io e Gesù ci voltammo e ci trovammo di fronte Justus Gallicus, il
centurione del funerale di Giaffa, in piedi in mezzo agli schiavi. «Alfeo, a
quanto pare stai allevando una cucciolata di zeloti».
Il babbo ci prese per le spalle. «Questo è mio figlio Levi, e lui è il suo
amico Gesù. Oggi per loro è il primo giorno di apprendistato. Sono solo
ragazzi» disse, scusandosi.
Justus si avvicinò dandomi una rapida occhiata, e poi guardò a lungo Gesù.
«Io ti conosco, ragazzo. Ti ho già visto».
«Il funerale di Giaffa» mi affrettai a rispondergli. Non riuscivo a togliere
gli occhi dalla spada corta e stretta che gli pendeva dalla cintura.
«No». Il romano sembrò cercare tra i suoi ricordi. «Non a Giaffa. Ho già
visto questa faccia raffigurata».
«Impossibile» disse mio padre. «La nostra fede ci vieta di riprodurre le
forme umane».
Justus gli lanciò un’occhiata torva. «Non sono estraneo alle credenze
primitive del vostro popolo, Alfeo. Eppure, il ragazzo ha un volto familiare».
Gesù fissò il centurione con espressione vuota.
«Provi pietà per questi schiavi, ragazzo? Li libereresti, se potessi?».
Gesù annuì. «Sì. Un uomo dovrebbe essere libero di rendere il proprio
spirito a Dio».
«Sai, ottant’anni fa c’era uno schiavo che parlava come te. Sollevò
un’armata di schiavi contro Roma, sconfisse due dei nostri eserciti e
conquistò tutti i territori a sud della città. È una storia che ogni soldato
romano dovrebbe imparare».
«Perché? Che cosa accadde?» chiesi.
«Lo mettemmo in croce. Sul ciglio della strada. E il suo corpo divenne
cibo per i corvi. La lezione è la seguente: nulla può mettersi contro Roma. E
dovresti impararla anche tu, ragazzo, insieme all’arte di tagliare le pietre».
In quel momento si avvicinò un altro soldato romano, un legionario privo
di mantello ed elmo. Disse qualcosa a Justus, in latino, poi diede un’occhiata
a Gesù e s’interruppe. Nel suo aramaico stentato disse: «Ehi, ma io questo qui
non l’ho già visto su una cialda di pane?».
«Non era lui» dissi.
«Sul serio? A me sembra di sì».
«No. Quello sul pane era un altro».
«Ero io» mi contraddisse Gesù.
Gli mollai un manrovescio sulla fronte, mettendolo a terra. «Non è vero. È
pazzo, dovete scusarlo».
Il soldato scosse la testa e si affrettò a raggiungere Justus, che si era
allontanato.
Aiutai il mio amico a rialzarsi.
«Devi imparare a mentire».
«Dici? Ma sento di essere qui per portare la verità».
«Già, sicuro. Ma non adesso».
Non so che cosa mi aspettassi esattamente dal lavoro di scalpellino; dopo
una settimana, però, Gesù cominciava ad avere dei ripensamenti riguardo alla
decisione di non fare il falegname. Tagliare delle pietre enormi con dei piccoli
scalpelli di ferro era una faticaccia. E chi se lo immaginava?
«Guardati intorno, vedi degli alberi?» mi prese in giro. «Pietre, Gesù,
pietre».
«È dura solo perché non sappiamo quello che facciamo. Andando avanti
sarà più facile».
Gesù guardò mio padre, nudo fino alla vita, che lavorava a una pietra delle
dimensioni di un asino, mentre una dozzina di schiavi aspettava che finisse
per sollevarla e metterla al suo posto. Era cosparso di polvere grigia e rivoli di
sudore tracciavano linee scure tra i filamenti dei muscoli tesi della schiena e
delle braccia. «Alfeo» lo chiamò Gesù «diventa più facile quando hai la
consapevolezza di ciò che stai facendo?».
«I polmoni ti si riempiono di polvere, e gli occhi ti si velano per il sole e i
frammenti di pietra che saltano via dallo scalpello. Sputi sangue per costruire
opere per i Romani, gli stessi che si prendono i tuoi soldi con le tasse per
nutrire soldati che inchioderanno su una croce il tuo popolo solo perché sogna
la libertà. Ti spezzi la schiena, ti rompi le ossa, tua moglie ti grida dietro e i
tuoi bambini ti danno il tormento con quelle bocche sempre aperte e pronte a
mendicare qualcosa, come avidi uccellini in un nido. La sera, quando ti
corichi, sei così stanco e abbattuto che preghi il Signore di mandare l’angelo
della morte a prenderti durante il sonno, così non dovrai affrontare un’altra
mattina. Anche questo ha il suo lato negativo».
«Grazie». Gesù mi guardò sollevando un sopracciglio.
«Io sono convinto» dissi. «Sono pronto a tagliare qualche pietra. Stai
indietro, Gesù, il mio scalpello è in fiamme. La vita si apre davanti a noi
come un enorme bazar, e non vedo l’ora di assaggiare le dolcezze che ci
offrirà».
Lui chinò il capo come un cane disorientato. «Io non ho tratto la stessa
conclusione dalla risposta di tuo padre».
«È sarcasmo».
«Sarcasmo?».
«Viene dal greco, sarkasmos. Mordersi le labbra. Significa che non dici
davvero quello che pensi, ma che gli altri capiscono comunque. Il concetto
l’ho inventato io, e Bartolomeo gli ha dato un nome».
«Be’, se il nome gliel’ha dato l’idiota del villaggio, sono sicuro che è una
buona cosa».
«Vedi? Hai afferrato perfettamente».
«Afferrato che cosa?».
«Il sarcasmo».
«No, io parlavo sul serio».
«Sicuro».
«Questo era sarcasmo?».
«Ironia, credo».
«Che differenza c’è?».
«Non ne ho la più pallida idea».
«Quindi adesso sei ironico, giusto?».
«No, non lo so davvero».
«Forse dovresti chiederlo all’idiota».
«Adesso ci sei».
«Cioè?».
«Hai afferrato il significato di sarcasmo».
«Biff, sei sicuro di non essere stato mandato dal demonio per
tormentarmi?».
«Può darsi. Come sto andando? Ti senti vessato?».
«Sì. E mi fanno male le mani a forza di stringere questi arnesi».
Colpì lo scalpello con il martello di legno e ci piombarono addosso scaglie
di pietra.
«Forse Dio mi ha mandato per convincerti a diventare uno scalpellino, così
ti sbrigherai a mollare tutto per fare il Messia».
Colpì di nuovo lo scalpello, poi sputò e, tra i frammenti che volavano,
farfugliò: «Io non so come si fa».
«E allora? Una settimana fa non sapevamo fare gli scalpellini, e guardaci
adesso. Diventa più semplice quando capisci quello che stai facendo».
«Fai di nuovo l’ironico?».
«Dio, spero di no».

Solo due mesi dopo incontrammo di persona il greco che aveva
commissionato la casa a mio padre. Era un tizio basso dall’aria viscida, che
indossava una veste bianca come quella dei sacerdoti di Levi, bordata da
rettangoli dorati intrecciati. Arrivò su un paio di bighe, seguito a piedi da due
schiavi personali e da mezza dozzina di guardie del corpo, probabilmente
fenici. Dico che arrivò su “un paio di bighe” perché stava sulla prima insieme
a un cocchiere, ma dietro di loro ne veniva una seconda su cui era posta la
statua in marmo di un uomo nudo, alta all’incirca tre metri. Il greco scese e
andò dritto da mio padre. Gesù e io stavamo mescolando la malta e ci
fermammo a guardare.
«Un idolo» disse il mio amico.
«L’ho visto. In quanto a idoli, preferisco la Venere fuori dalla porta della
città».
«Quella statua non è ebraica» fece Gesù.
«Decisamente». La virilità della statua, per quanto abbondante, non era
circoncisa.
«Alfeo» disse il greco «perché non hai ancora posato il pavimento della
palestra? Ho portato questa statua da esporre, e al posto della mia palestra
vedo solo un buco».
«Come ti ho detto, questo terreno non è buono per essere edificato. Non
posso costruire sulla sabbia. Ho ordinato agli schiavi di scavare fino a trovare
la roccia. Ora dobbiamo colmare tutto con le pietre, e poi cominciare a
battere».
«Ma io voglio posare la mia statua» piagnucolò il greco. «L’ho fatta
arrivare sin qui da Atene».
«Preferiresti che la casa crollasse sulla tua preziosa statua?».
«Non rivolgerti a me in questo modo, ebreo, io ti pago bene per costruire la
mia casa».
«E io lo sto facendo con criterio, quindi non la edificherò sulla sabbia.
Metti via la tua statua e lasciami lavorare».
«Bene, scaricatela. Schiavi, scaricate la statua». Il greco si stava
rivolgendo a me e a Gesù. «Tutti voi, venite a dare una mano».
Indicò gli uomini che sin dal suo arrivo facevano solo finta di lavorare, e
adesso erano incerti se sarebbe stato vantaggioso per loro partecipare a un
progetto cui il padrone era contrario. Sollevarono tutti lo sguardo con
un’espressione che sembrava chiedere: “Chi, io?”. Espressione che era la
stessa in ogni lingua.
Gli schiavi si avvicinarono alla biga e cominciarono a slegare le corde che
tenevano ferma la statua. Il greco ci guardò. «Voi due, siete sordi? Andate ad
aiutarli!». Si precipitò alla biga e rubò la frusta al cocchiere.
«Quelli non sono schiavi» disse mio padre. «Sono i miei apprendisti».
Il greco si girò di scatto a guardarlo. «E dovrebbe importarmene qualcosa?
Muovetevi! Subito!».
«No» rispose Gesù.
Pensai che il padrone di casa sarebbe esploso. Sollevò la frusta come per
colpirlo. «Che cos’hai detto?».
«Ha detto no». Mi misi al fianco del mio amico.
«Il mio popolo crede che costruire idoli e statue sia peccato» disse mio
padre, con un tono di voce che rasentava il panico. «I ragazzi si stanno solo
mostrando fedeli al nostro Dio».
«Be’, quella è una statua di Apollo, un vero dio. Quindi daranno una mano
a scaricarla esattamente come farai tu, o troverò un altro muratore per
costruire la casa».
«No» ripeté Gesù. «Non lo faremo».
«Esatto, brutto vaso lebbroso di catarro di dromedario» feci io.
Gesù mi guardò un po’ disgustato. «Cribbio, Biff».
«Ho esagerato?».
Il greco strillò e cominciò a far roteare la frusta. L’ultima cosa che vidi,
mentre mi coprivo la faccia, fu mio padre che si tuffava su di lui. Mi sarei
anche preso una frustata per difendere Gesù, ma non volevo perdere un
occhio. Mi preparai a sentire il dolore, ma non arrivò. Si udì un rumore sordo,
poi una vibrazione e, quando mi tolsi le mani dalla faccia, il greco era sdraiato
supino a terra, con la veste bianca coperta di polvere e il viso rosso di rabbia.
La frusta era tesa dietro di lui, e a terra, sulla punta, c’era il sandalo chiodato e
corazzato di Gaius Justus Gallicus, il centurione. Il greco si rotolò nella terra,
pronto a sfogare la sua ira su chiunque gli avesse fermato la mano, ma quando
vide chi era perse vigore e finse di tossire.
Una delle sue guardie del corpo fece un passo avanti. Justus gli puntò un
dito contro. «Preferisci farti indietro, o vuoi sentire il piede dell’Impero
romano sul collo?».
La guardia arretrò insieme ai suoi compagni.
Il romano ghignava come un asino che mangia una mela. «Allora, Castor,
devo dedurre che ti servono altri schiavi romani per costruire la tua casa? O
quello che sento dire su voi greci è vero? Che frustare i ragazzi è un
divertimento e non un metodo per imporre la disciplina?».
Il greco sputò della terra mentre si rimetteva in piedi. «Gli schiavi che ho
sono sufficienti, non è così, Alfeo?». Rivolse uno sguardo supplichevole a
mio padre.
E il babbo si ritrovò in mezzo a due mali, senza saper decidere quale fosse
il minore. «Probabile» disse infine.
«Bene» fece Justus. «Allora mi aspetto che tu conceda loro un bonus per il
lavoro extra che stanno facendo. Proseguite».
Attraversò il cantiere come se non si rendesse conto di avere tutti gli occhi
puntati addosso, o come se non gli importasse, e si fermò quando passò
davanti a Gesù e a me.
«Vaso lebbroso di catarro di dromedario?» chiese a bassa voce.
«Antica benedizione ebraica?» tentai.
«Voi due dovreste stare sulle colline insieme agli altri ebrei ribelli». Rise,
ci scompigliò i capelli e se ne andò.

Quella sera il tramonto tingeva di rosa i fianchi delle colline, mentre
tornavamo a Nazaret. Oltre a essere esausto per il lavoro, Gesù sembrava
tormentato dagli avvenimenti del giorno.
«Tu lo sapevi che non si può costruire sulla sabbia?» mi chiese.
«Certo. Mio padre è da molto che lo dice. Puoi farlo, ma quello che
costruisci crolla».
Gesù annuì pensieroso. «E che mi dici della terra? Su quella si può
costruire?».
«La roccia è meglio, ma immagino che vada bene anche la terra dura».
«Dovrò ricordarmelo».
Adesso che lavoravamo con mio padre, Maddi la vedevamo di rado, e così
mi ritrovai ad attendere con impazienza lo Shabbat, quando andavamo alla
sinagoga. Io restavo fuori e gironzolavo tra le donne che si assiepavano
disordinatamente, mentre gli uomini erano dentro ad ascoltare la lettura della
Torah o le discussioni dei farisei. Era una delle rare occasioni in cui riuscivo a
parlare con Maddi senza avere Gesù intorno: infatti, anche se il
comportamento dei farisei aveva già cominciato a irritarlo, passava lo Shabbat
ad ascoltare i loro insegnamenti. Mi domando ancora se quei momenti rubati
con Maddi fossero in qualche modo sleali nei confronti del mio amico. Ma in
seguito, quando glielo chiesi, mi rispose: «Dio è disposto a perdonarti il
peccato che porti dentro di te per essere figlio di un uomo, ma tu devi
perdonare a te stesso il fatto di essere stato un bambino».
«Suppongo tu abbia ragione».
«Certo che ho ragione, sono il Figlio di Dio, stupido. E poi Maddi vuole
sempre parlare di me, non è così?».
«No, non sempre». Era una bugia.

Lo Shabbat prima dell’assassinio, trovai Maddi fuori dalla sinagoga. Era
sola e sedeva sotto una palma da datteri. Mi mossi verso di lei, guardando
fisso a terra. Sapevo che, se l’avessi guardata negli occhi, mi sarei scordato
quello che volevo dirle; così mi limitai a qualche rapida occhiata, come un
uomo che guarda il sole in una giornata soffocante per conoscere la fonte di
tanto calore.
«Gesù dov’è?» furono le prime parole che uscirono dalla sua bocca,
naturalmente.
«A studiare insieme agli uomini».
Per un attimo sembrò delusa, ma poi s’illuminò. «Come va il lavoro?»
«È dura, preferirei giocare».
«E com’è Zippori? Come Gerusalemme?».
«No, è più piccola. Ma ci sono un sacco di Romani». Maddi ne aveva visti
pochi. E a me serviva qualcosa per impressionarla. «E ci sono idoli… statue
che raffigurano persone».
Si coprì la bocca per soffocare un risolino. «Statue? Sul serio? Mi
piacerebbe vederle».
«Allora vieni con noi. Partiamo domattina molto presto, quando tutti
dormono».
«Non posso. Che cosa dico a mia madre?».
«Dille che vai a Zippori con il Messia e il suo migliore amico».
Sgranò gli occhi e io distolsi rapidamente i miei, prima di restare vittima
del loro incantesimo. «Non dovresti parlare così, Biff».
«Ho visto l’angelo».
«Hai promesso che non l’avremmo detto».
«Stavo scherzando. Di’ a tua madre che ti ho parlato di un alveare, e che
vuoi prendere un po’ di miele finché le api sono ancora intontite dall’aria
fredda del mattino. Stanotte c’è la luna piena, quindi non avrai difficoltà a
vedere. Potrebbe anche crederti».
«Potrebbe. Ma saprà che ho mentito quando tornerò a casa a mani vuote».
«Dille che era un nido di calabroni. Tanto già pensa che Gesù e io siamo
due stupidi, no?».
«Pensa che Gesù sia un po’ toccato, sì… e che tu sia stupido».
«Lo vedi? Il mio piano funziona. Perché sta scritto “Se l’uomo saggio
appare sempre stolto, i suoi insuccessi non deludono, mentre i suoi successi
sono una piacevole sorpresa”».
Maddi mi diede uno schiaffo sulla gamba. «Non sta scritto da nessuna
parte».
«Sì, invece. Imbecilli, capitolo 3, versetto 7».
«Non esiste nessun libro degli Imbecilli».
«Sgobboni, capitolo 5, versetto 4?».
«Te lo stai inventando».
«Vieni con noi, sarai di ritorno in tempo per andare a prendere l’acqua del
mattino».
«Così presto, e perché? Che cosa state combinando, voi due?».
«Vogliamo circoncidere Apollo».
Non disse nulla; si limitò a guardarmi come se avessi scritto in fronte
“bugiardo” a caratteri di fuoco.
«Non è stata una mia idea» dissi. «Ma di Gesù».
«Allora ci vengo».
5

Ha funzionato, finalmente sono riuscito a convincere l’angelo a lasciare la
stanza. Ecco com’è andata.
Raziel ha chiamato la reception e ha chiesto di mandare su Jesus. Qualche
minuto dopo il nostro amico ispanico era sull’attenti, ai piedi del suo letto.
«Digli che ho bisogno del Soap Opera Digest» mi ha intimato.
E io mi sono rivolto a Jesus, in spagnolo: «Buon pomeriggio, Jesus. Come
stai oggi?».
«Bene, signore. E lei?».
«Non potrei stare meglio, considerato che quest’uomo mi tiene
prigioniero».
«Digli di sbrigarsi» ha insistito Raziel.
«Non capisce lo spagnolo?».
«Neanche una parola, ma non cominciare a parlargli in ebraico o sono
perduto».
«Davvero la tiene prigioniero? Mi domandavo perché voi due non lasciaste
mai questa stanza. Devo chiamare la polizia?».
«No, non sarà necessario. Ma, ti prego, scuoti la testa e assumi
un’espressione mortificata».
«Perché ci stai mettendo tanto?» ha voluto sapere Raziel. «Dagli i soldi e
digli di andare».
«Ha detto che non ha il permesso di andare a comprarti delle riviste, ma
può suggerirti dove trovarle».
«È ridicolo. Lui è un servo, no? E allora farà quello che gli dico».
«Oh cielo, Jesus, ha chiesto se vuoi sentire la potenza della sua nudità
virile».
«Ma è pazzo? Io ho moglie e due figli».
«Sfortunatamente sì, lo è. Per favore, fagli capire che ti ha offeso: sputagli
addosso ed esci di corsa dalla stanza».
«Non so, signore. Sputare su un ospite…».
Gli ho allungato una manciata di banconote che, a quanto mi aveva
spiegato, rappresentavano una mancia adeguata. «Per piacere, gli farà bene».
«D’accordo, signor Biff».
Si è raschiato la gola raccogliendo un impressionante grumo di catarro, che
ha poi sputato sul davanti della veste dell’angelo, dove si è spiaccicato. Poi è
corso verso la porta.
Raziel è balzato in piedi.
«Ben fatto, Jesus. Adesso impreca».
«Coglione!».
«In spagnolo».
«Mi scusi, volevo farvi vedere come parlo bene la vostra lingua. Conosco
un sacco di parolacce».
«Bene. In spagnolo, per favore».
«¡Pendejo!».
«Splendido, adesso esci di corsa».
Jesus ha girato i tacchi ed è uscito dalla stanza sbattendo la porta.
«Mi ha sputato addosso?». Raziel non riusciva ancora a crederci. «Ha
sputato addosso a un angelo del Signore?».
«Sì, tu l’hai offeso».
«Mi ha chiamato coglione. L’ho sentito»,
«Per la sua cultura, chiedere a un uomo di comprarti il Soap Opera Digest
è un affronto. Saremo fortunati se ci porterà ancora la pizza».
«Ma io lo voglio».
«Ha detto che puoi comprartene uno in strada. Se vuoi, sarò felice di
andartelo a prendere».
«Non così in fretta. Non tentare uno dei tuoi trucchi. Ci vado io, tu resta
qui».
«Ti serviranno dei soldi». Gli diedi delle banconote.
«Se lasci la stanza ti ritroverò in un istante, lo sai vero?».
«Certo».
«Non puoi nasconderti».
«Non me lo sognerai mai. E adesso sbrigati».
Si è trascinato verso la porta. «Non provare a chiudermi fuori. Mi porto via
una chiave. Non che mi serva, essendo un angelo del Signore».
«Per non parlare del coglione».
«Non so nemmeno che cosa significhi».
«Vai, vai, vai». L’ho spinto attraverso la porta. «Che Dio sia con te,
Raziel».
«Lavora al tuo Vangelo, mentre sono via».
«D’accordo». Gli ho sbattuto la porta in faccia e ho chiuso con la serratura
di sicurezza. Raziel aveva guardato per ore i programmi della tv americana, e
avrebbe dovuto notare che la gente porta le scarpe quando esce.

Il libro è una Bibbia, proprio come sospettavo, ma è scritta in uno stile più
fiorito di quello che sto usando io. La traduzione dall’ebraico della Torah e
dei Profeti in qualche punto è confusa, ma la prima parte sembra in tutto e per
tutto la nostra Bibbia. Questo linguaggio è stupefacente… ci sono così tanti
vocaboli! Ai miei tempi ne avevamo pochissimi - forse un centinaio che
usavamo sempre, e trenta di essi erano sinonimi di “colpa”. Col linguaggio di
oggi, invece, puoi imprecare per un’ora senza usare lo stesso termine due
volte. Greggi e banchi e mandrie di parole: per questo devo usare tale lingua
per raccontare la storia di Gesù.
Ho nascosto il libro nel bagno, così potrò sfogliarlo di nascosto quando
l’angelo è in camera. In effetti non ho avuto il tempo di leggere molto della
parte intitolata Nuovo Testamento, ma è evidente che si tratta della storia di
Gesù. Di alcune parti, almeno.
La studierò più tardi, ma adesso devo continuare con quella vera.

Suppongo che avrei dovuto considerare l’esatta natura di quello che
stavamo facendo, prima di invitare Maddi a unirsi a noi. Voglio dire, c’è un
po’ di differenza tra la circoncisione di un bimbo di otto giorni - operazione a
cui le era già capitato di assistere - e quella di una statua di un dio greco alta
tre metri.
«Bontà divina, è… impressionante» disse Maddi fissando il membro di
marmo.
«È un idolo» sussurrò Gesù. Anche alla luce della luna, capii che stava
arrossendo.
«Facciamolo». Tirai fuori dalla borsa un piccolo scalpello di ferro. Gesù
stava avvolgendo in un pezzetto di pelle la testa del suo martello di legno, per
attutire il rumore. Zippori dormiva intorno a noi, e a rompere il silenzio
giungeva solo l’occasionale belato di una pecora. I fuochi accesi la sera prima
per cucinare si erano spenti da tempo, la nuvola di polvere che si alzava in
città durante il giorno si era posata, e l’aria della notte era immobile e
limpida. Di tanto in tanto, da Maddi mi giungeva una dolce zaffata di legno di
sandalo che mi confondeva i pensieri. Buffi i particolari che la mente ricorda.
Trovammo un secchio e lo girammo perché Gesù potesse salirci mentre
lavorava. Posò la punta del mio scalpello sul prepuzio di Apollo e provò a
dare un colpetto leggero con il martello. Fece saltar via una piccola scheggia
di marmo.
«Dagli un bel colpo» dissi.
«Non posso, farò troppo rumore».
«No, la pelle lo attutirà».
«Ma rischio di staccare tutta la punta».
«Se lo può permettere» disse Maddi, e ci voltammo entrambi a guardarla, a
bocca aperta. «Forse» si affrettò ad aggiungere. «Sto tirando a indovinare.
Che cosa posso saperne io? Sono solo una ragazza. Ma non sentite uno strano
odore?».
Avvertimmo l’odore del romano prima di sentirlo, e lo sentimmo prima di
vederlo. I Romani si cospargevano d’olio d’oliva prima di fare il bagno,
quindi, se il vento soffiava nella direzione giusta, in una giornata
particolarmente calda li sentivi a trenta passi di distanza. Tra l’olio d’oliva
sulla pelle e l’aglio e le acciughe essiccate con cui condivano l’orzo, le
legioni che marciavano per andare in battaglia dovevano sembrare
un’invasione di pizzaioli. Se avessero inventato la pizza.
Gesù sferrò un colpo rapido e violento con il martello di legno e lo
scalpello gli scivolò tranciando di netto il membro di Apollo, che cadde a
terra con un tonfo sordo.
«Ops» disse il Salvatore.
«Shhhhhhhh» feci io.
Sentimmo i chiodi dei sandali del romano che graffiavano la pietra. Gesù
saltò giù dal secchio e, frenetico, si guardò intorno in cerca di un
nascondiglio. Le pareti del bagno del greco erano quasi ultimate e pertanto
non avevamo vie di fuga a disposizione, a parte quella da cui veniva il
soldato.
«Ehi, che cosa fate qui?».
Restammo immobili come la statua. Riconobbi il legionario che avevamo
visto insieme a Justus il nostro primo giorno a Zippori.
«Signore, siamo noi. Biff e Gesù. Vi ricordate? Il ragazzino del pane…».
Il soldato si avvicinò, la mano sull’elsa dello spadino semisguainato.
Quando vide il mio amico si rilassò un pochino. «Che ci fate qui così presto?
Non dovrebbe esserci in giro nessuno a quest’ora».
D’un tratto, qualcuno strattonò il soldato e lo fece cadere all’indietro, poi
una figura avvolta nell’ombra si abbatté su di lui e gli infilzò il petto con una
lama, più e più volte. Maddi gridò e la figura si voltò verso di noi. Io
cominciai a correre.
«Fermo» sibilò l’assassino.
Rimasi pietrificato. Maddi mi gettò le braccia intorno al collo e nascose il
viso nella mia veste. Io tremavo. Dal soldato provenne un gorgoglio, ma lui
non si mosse. Gesù fece per andare verso l’assassino, e io gli misi un braccio
sul petto per impedirglielo.
«Questo è sbagliato» disse quasi in lacrime. «Non dovevi uccidere
quell’uomo».
L’assassino sollevò la lama insanguinata e se la portò al viso, guardandoci
con un ghigno. «Non sta forse scritto che Mosè divenne profeta solo dopo
aver ucciso un padrone egiziano? Nessun padrone all’infuori di Dio!».
«Sicarii» dissi.
«Esatto, ragazzo. Sicarii. Solo quando tutti i Romani saranno morti, il
Messia verrà a liberarci. Uccidendo questo tiranno, io servo il Signore».
«Tu servi il male» disse Gesù. «Il Messia non ti ha chiesto il sangue di
questo romano».
L’assassino sollevò la lama e venne verso di lui. Maddi e io facemmo un
salto indietro, ma Gesù rimase dov’era. L’uomo lo afferrò per la veste e se lo
tirò vicino. «Tu che ne sai, ragazzo?».
Alla luce della luna, riuscimmo a vedere distintamente il suo volto.
«Geremia» disse Maddi senza fiato.
Lui sgranò gli occhi, non so se per la paura o per il fatto di averla
riconosciuta. Lasciò andare Gesù e fece per prendere lei, ma io la tirai via.
«Maria?». La sua voce aveva perso ogni traccia di rabbia. «Sei la piccola
Maria?».
Lei non disse nulla, ma la sentii sollevare le spalle in preda ai singhiozzi.
«Non farne parola con nessuno» intimò l’assassino, che adesso parlava
come se fosse in trance. Indietreggiò e si mise vicino al soldato morto.
«Nessun padrone all’infuori di Dio» ribadì. Poi si voltò e corse via nella notte.
Gesù posò una mano sul capo di Maddi, e lei smise immediatamente di
piangere.
«Geremia è il fratello di mio padre» disse.

Prima che continui con la mia storia, è necessario che sappiate qualcosa
dei sicarii, e quindi degli Erodi.
Qualche anno prima che io e Gesù ci conoscessimo, Erode il Grande era
morto dopo aver regnato su Israele (sotto i Romani) per oltre quarant’anni. In
effetti, fu la sua morte che permise a Giuseppe di riportare la sua famiglia
dall’Egitto a Nazaret; ma questa è un’altra storia. Adesso dovete sapere di
Erode.
Il fatto che fosse chiamato “il Grande” non significava che fosse un
sovrano amato dai suoi sudditi; in effetti, era un tiranno grasso, paranoico e
sifilitico, che uccise migliaia di ebrei, inclusa la sua sposa e molti dei suoi
figli. Il soprannome era dovuto al fatto che costruì molte cose. Cose
straordinarie: fortezze, palazzi, teatri, porti… e un’intera città, Panea (che con
Erode Antipa divenne Cesarea), modellata sull’ideale romano.
L’unica cosa che fece per il popolo ebraico, che lo detestava, fu ricostruire
il Tempio di Salomone sul monte Moria, il centro della nostra fede. Quando
morì, Roma divise il suo regno fra i tre figli, Archelao, Erode Filippo ed
Erode Antipa. Fu quest’ultimo a condannare a morte Giovanni Battista, e a
consegnare Gesù a Pilato. Antipa, brutto cazzone piagnucoloso: se soltanto
allora avessimo avuto quest’espressione. Furono le sue ruffianerie nei
confronti dei Romani a indurre centinaia di bande di ribelli ebrei a insorgere
sulle colline. I Romani li chiamavano genericamente zeloti, come se
seguissero un unico metodo e difendessero la stessa causa, ma in realtà erano
frammentati come gli ebrei dei villaggi. Tra le bande nate in Galilea c’erano i
sicarii, che manifestavano la propria disapprovazione nei confronti dei
Romani uccidendo soldati e ufficiali. Sebbene non fossero il gruppo più
numeroso tra gli zeloti, tuttavia erano quelli che attiravano maggiormente
l’attenzione per via delle loro azioni. Nessuno sapeva da dove venissero, né
dove andassero dopo aver ucciso, ma ogni volta che questi colpivano, i
Romani facevano del loro meglio per renderci la vita un inferno, affinché
consegnassimo gli assassini. E, quando i Romani prendevano uno zelota, non
si limitavano a crocifiggere il capo: no, mettevano sulla croce tutti i membri
della banda, le loro famiglie e chiunque fosse sospettato di averli aiutati. Più
di una volta ci capitò di vedere la strada che usciva da Zippori fiancheggiata
da croci e cadaveri. I cadaveri della mia gente.

Attraversammo la città che ancora dormiva e ci fermammo solo dopo aver
varcato la porta di Venere, dove crollammo a terra ansimanti.
«Dobbiamo riportare a casa Maddi e tornare qui a lavorare» disse Gesù.
«Potete restare. Posso tornare da sola».
«No, dobbiamo accompagnarla» disse Gesù, e quando allargò le braccia
notammo le impronte di sangue che l’assassino gli aveva lasciato sulla veste.
«Devo pulirla prima che qualcuno la veda».
«Non puoi semplicemente farla sparire?» chiese Maddi. «È soltanto una
macchia. Pensavo che il Figlio di Dio fosse capace di far sparire una
macchia».
«Sii comprensiva» le dissi. «Non è ancora bravo con le cose da Messia.
Dopotutto, quell’uomo era tuo zio…».
Maddi balzò in piedi. «Siete stati voi due a voler fare quella
stupidaggine…».
«Basta così!» ci zittì Gesù, sollevando la mano come se volesse infonderci
silenzio. «Se Maddi non fosse stata con noi, a quest’ora forse saremmo già
morti. E probabilmente non saremo più al sicuro quando i sicarii si
renderanno conto che ci sono in giro tre testimoni».
Un’ora dopo la nostra amica era a casa sana e salva, e Gesù emergeva dal
bagno rituale fuori dalla sinagoga con i vestiti fradici e l’acqua che gli
scendeva in rivoli dai capelli. (Molti di noi avevano questi mikvah fuori casa,
e ce n’erano centinaia davanti al Tempio di Gerusalemme: erano fosse
rivestite di pietra con due scale alle estremità, così che potevi entrare da una
parte e uscire dall’altra, dopo esserti purificato. Secondo la Legge, qualunque
contatto con il sangue richiedeva una purificazione. E Gesù pensò che fosse
una buona occasione per rimuovere anche la macchia dalla veste.)
«È fredda». Tremava e saltellava da un piede all’altro, come se stesse
camminando sui carboni ardenti. «Freddissima».
(Sopra le vasche c’era un piccolo capanno di pietra che le riparava dalla
luce diretta del sole, e di conseguenza l’acqua non si scaldava mai. E
l’evaporazione, all’aria secca della Galilea, la rendeva ancora più gelida.)
«Forse dovresti venire a casa mia. Mamma ormai avrà acceso il fuoco per
la colazione, e potresti scaldarti».
Gesù strizzò la veste e l’acqua gli scese lungo le gambe. «E come faccio a
spiegarle questo?».
«Ehm… le diremo che hai peccato e che ti sei dovuto sottoporre a una
purificazione d’emergenza».
«Peccato? All’alba? E di che cosa mi sarei potuto macchiare prima del
sorgere del sole?».
«Del peccato di Onan?».
Gesù spalancò gli occhi. «Tu l’hai commesso?».
«No, ma non vedo l’ora di farlo».
«Non posso dire a tua madre che l’ho fatto, se non è vero».
«Puoi farlo, se sei rapido».
«Sopporterò il freddo».
Il caro, vecchio peccato di Onan. Quanti ricordi.

Il peccato di Onan. Spargere il seme a terra. Picchiare il dromedario.
Bastonare l’asino. Flagellare il fariseo. L’onanismo, un peccato che richiede
centinaia di ore di pratica per essere commesso alla perfezione, o almeno
questo è quello che mi ripetevo. Dio uccise Onan per aver sparso il suo seme
a terra (il seme di Onan, non quello di Dio. Il seme di Dio era il mio migliore
amico. Pensate che guaio spargere il seme del Signore… Provateci voi a
spiegare una cosa del genere.) Secondo la Legge, se avevi il minimo contatto
con le “emissioni notturne” (che non erano i gas che uscivano di notte dai tubi
di scappamento: allora non avevamo le automobili) dovevi purificarti con il
battesimo, e non potevi stare insieme agli altri fino al giorno successivo.
Intorno ai tredici anni, passavo un sacco di tempo dentro e fuori dal nostro
mikvah… Quanto alla solitudine forzata, imbrogliavo sempre: in fondo, non
avrebbe aiutato a risolvere il problema.
Spesso, la mattina, quando Gesù e io c’incontravamo per andare al lavoro,
ero ancora gocciolante e tremante.
«Hai sparso di nuovo il tuo seme a terra?» mi chiedeva. «Sì».
«Sei immondo, lo sai?».
«Sì, sto diventando tutto raggrinzito a forza di purificarmi».
«Potresti darci un taglio».
«Ci ho provato. Credo di essere tormentato da un demone».
«Potrei tentare di guarirti».
«Lascia perdere, Gesù, ho già abbastanza problemi con l’imposizione delle
mie mani».
«Non vuoi che ti liberi dal tuo demone?».
«Ho pensato che proverò a sfinirlo, prima».
«Potrei riferirlo agli scribi, che ti farebbero lapidare». (Il mio amico
cercava sempre di rendersi utile.)
«Probabilmente funzionerebbe, ma “il peccatore troverà la propria strada
verso la salvezza”».
«Non è scritto da nessuna parte».
«Sì, invece. In… ehm, Isaia».
«Non è vero».
«Devi studiare i Profeti, Gesù. Come puoi fare il Messia se non conosci i
loro scritti?».
Abbassò la testa. «Hai ragione».
Gli diedi una pacca sulla spalla. «Avrai tempo per imparare. Tagliamo per
la piazza e vediamo se c’è qualche ragazza a prendere l’acqua».
Ovviamente cercavo Maddi. Sempre lei.

Quando giungemmo a Zippori, il sole era già alto in cielo, ma non c’era il
consueto flusso di mercanti e contadini che normalmente si riversava
attraverso la porta di Venere. I soldati romani fermavano e perquisivano
chiunque cercasse di lasciare la città, rispedendolo indietro. Un gruppo
composto da uomini e donne attendeva fuori dalla porta per entrare, e tra loro
c’erano anche mio padre e alcuni dei suoi aiutanti.
«Levi!» mi chiamò il babbo. Ci corse incontro e ci portò al lato della
strada.
«Che cosa succede?» chiesi, cercando di assumere un’aria innocente.
«La scorsa notte è stato ucciso un soldato romano. Oggi non si lavora, voi
due potete tornare a casa e rimanerci. Dite alle vostre madri di non far uscire i
bambini. Se i Romani non trovano l’assassino, prima di mezzogiorno Nazaret
sarà invasa dai soldati».
«Dov’è Giuseppe?» chiese Gesù.
Mio padre gli mise un braccio intorno alle spalle. «È stato arrestato.
Dev’essere venuto al lavoro molto presto. L’hanno sorpreso alle prime luci
del mattino vicino al corpo del soldato ucciso. So solo quello che si sentiva
urlare in città, i Romani non permettono a nessuno di entrare e uscire. Di’ a
tua madre di non preoccuparsi: Giuseppe è un brav’uomo, il Signore lo
proteggerà. E poi, se i Romani l’avessero ritenuto colpevole sarebbe già stato
processato».
Gesù indietreggiò con passi rigidi e incerti. Guardava fisso davanti a sé,
ma era ovvio che non vedeva niente.
«Portalo a casa, Biff. Io verrò appena posso. Voglio scoprire che cos’hanno
fatto a Giuseppe».
Annuii e trascinai via il mio amico afferrandolo per le spalle.
Ci eravamo appena incamminati lungo la strada quando disse: «Giuseppe è
venuto a cercarmi. Stava lavorando dall’altra parte della città. Se si trovava
vicino alla casa del greco è solo perché stava cercando me».
«Diremo al centurione che sappiamo chi ha ucciso il soldato. Ci crederà».
«E se crederà che a farlo sono stati i sicarii, che cosa accadrà a Maddi e
alla sua famiglia?».
Non sapevo che cosa dire. Gesù aveva ragione e mio padre aveva torto;
Giuseppe non era in una bella situazione. Con ogni probabilità i Romani lo
stavano interrogando proprio in quel momento, magari torturandolo per
sapere dove fossero i suoi complici. Il fatto che non sapesse nulla non
l’avrebbe salvato. E una testimonianza da parte di suo figlio sarebbe servita
soltanto a mandare altre persone sulla croce insieme a lui. In un modo o
nell’altro, per questa faccenda sarebbe stato versato il sangue degli ebrei.
Gesù si scrollò di dosso le mie mani e lasciò la strada per correre in un
boschetto di ulivi. Io feci per seguirlo, ma improvvisamente si voltò verso di
me e la ferocia del suo sguardo mi indusse a fermarmi dov’ero.
«Aspetta qui» disse. «Devo parlare con mio padre».

Lo aspettai per quasi un’ora. Quando uscì dall’uliveto, sembrò che
un’ombra gli fosse scesa sul viso per restarci.
«Sono perduto» disse.
Indicai un punto sopra la mia spalla. «Nazaret è da quella parte, Zippori
dall’altra. Tu sei al centro. Ti senti meglio?».
«Sai che cosa intendo».
«Nessun aiuto da parte di tuo padre, quindi?». Provavo sempre una strana
sensazione quando gli chiedevo delle sue preghiere. Dovevate vederlo,
soprattutto a quei tempi, quando ancora non avevamo cominciato a viaggiare.
Si sforzava e tremava tutto, come se tentasse di farsi venire la febbre con la
sola forza di volontà. Non c’era pace nel suo modo di pregare.
«Sono solo».
Gli diedi un pizzicotto al braccio, forte. «Allora questo non l’hai sentito».
«Ahi. Perché l’hai fatto?».
«Spiacente, qui non c’è nessuno che possa risponderti. Sei così
soooooooolo».
«Lo sono davvero!».
Mi preparai a mollargli un pugno con tutta la forza che avevo. «Allora non
t’importa se ti pesto a sangue».
Sollevò le mani e fece un salto indietro. «No, non farlo».
«Quindi non sei solo?».
«Immagino di no».
«Bene, allora aspetta qui. Andrò io a parlare con tuo padre». Detto ciò,
entrai con passo pesante nel boschetto di ulivi.
«Non devi andare lì per parlargli. Lui è ovunque».
«Già, certo, come se tu ne sapessi qualcosa. Se lui è ovunque, com’è che
sei solo?».
«Giusta osservazione».
Lo lasciai accanto alla strada e andai a pregare.

E pregai così: «Padre che stai nei cieli, Dio di mio padre e del padre di mio
padre, Dio di Abramo e di Isacco, Dio di Mosè - che guidò il nostro popolo
fuori dall’Egitto - Dio di Davide e di Salomone… Be’, insomma, lo sai chi
sei. Padre che stai nei cieli, lungi da me l’idea di mettere in discussione la tua
capacità di giudizio, essendo tu l’Onnipotente, il Dio di Mosè e tutto il
resto… ma che cosa stai tentando di fare esattamente con questo povero
ragazzo? Voglio dire, è tuo figlio, no? Ed è il Messia, giusto? Lo stai
sottoponendo alla prova di fede di Abramo? Nel caso non l’avessi notato, si
trova in un bel pasticcio, dal momento che ha assistito a un assassinio, e il suo
patrigno è stato arrestato dai Romani. E con ogni probabilità molti di noi (del
popolo che in più di un’occasione hai affermato di preferire, e di cui io faccio
parte) verranno torturati e uccisi se non facciamo qualcosa. O meglio, se lui
non fa qualcosa. Quindi, quello che ti chiedo è questo: non potresti gettare un
osso al ragazzo come facesti con Sansone quando si ritrovò in un angolo
disarmato contro i filistei? Con tutto il rispetto, il tuo amico, Biff. Amen».

Non sono mai stato molto bravo a pregare. Con le storie invece me la cavo
bene. In effetti, ho creato una storiella universale che è sopravvissuta fino a
oggi: lo so perché l’ho sentita in tv.
Fa così: «Due ebrei entrano in un bar…».
Chi erano quei due? Io e Gesù. È la pura verità.
Comunque, non sono mai stato bravo a pregare. Ma prima che pensiate che
ero stato un po’ rude con l’Onnipotente, c’è una cosa che dovete sapere sul
mio popolo. La nostra relazione con Dio era diversa da quella degli altri
popoli con le loro divinità. Certo, c’erano la paura e il sacrificio e tutto il
resto, ma fondamentalmente non eravamo noi ad andare da lui: era lui che
veniva da noi. Fu lui a dirci che eravamo gli eletti, che ci avrebbe aiutato a
moltiplicarci fino alla fine del mondo, che ci avrebbe dato una terra di latte e
miele. Noi non andavamo da lui. Non gli chiedevamo nulla. E per questo
pensiamo di poterlo ritenere responsabile per quello che fa e per quello che ci
succede. Perché sta scritto che “chi decide di andare via, è responsabile del
fatto”. E una cosa s’impara leggendo la Bibbia: che il mio popolo se n’è
andato molto spesso. Non potevi voltarti un attimo che ci trovavi a Babilonia
ad adorare dei fasulli, a costruire falsi altari o a dormire con donne inadatte
(anche se quest’ultima caratteristica appartiene più ai ragazzi in genere che
agli ebrei). E, quando ci comportavamo in quel modo, a Dio non importava di
ridurci in schiavitù o di massacrarci. Abbiamo un rapporto così, con lui.
Siamo come una famiglia.
Quindi non sono un maestro nell’arte del pregare, ma in quell’occasione
non dovetti cavarmela tanto male, perché Dio mi rispose. O comunque, mi
lasciò un messaggio.

Mentre riemergevo dal boschetto, Gesù sollevò una mano e disse: «Dio ha
lasciato un messaggio».
«È una lucertola» feci. In effetti ne stava tenendo una in mano, piccolina.
«Appunto. Non capisci?».
Come potevo sapere che cosa stava succedendo? Gesù non mi aveva mai
mentito. Quindi, se diceva che quella bestiola era un messaggio di Dio, chi
ero io per contestare? Caddi in ginocchio e chinai il capo sotto la sua mano
tesa. «Signore, abbi pietà di me, mi aspettavo un roveto ardente o qualcosa
del genere. Mi dispiace. Sul serio». Poi, rivolto a Gesù: «Non sono sicuro che
tu debba prenderlo sul serio. Stando ai precedenti, i rettili non sono affidabili
come messaggeri. Lasciami trovare un esempio… oh, certo, quella storia di
Adamo ed Eva».
«Qui è diverso, Biff. Mio padre non si è espresso a parole, ma questo
messaggio è chiaro come se fosse giunta la sua voce dai cieli».
«L’avevo capito». Mi rialzai. «E sarebbe?».
«È tutto nella mia mente. Te n’eri andato da pochi minuti quando questa
lucertola mi è salita sulla gamba e si è appollaiata sulla mia mano. Mi sono
reso conto che era la risposta di mio padre al nostro problema».
«E il messaggio sarebbe…?».
«Ti ricordi il gioco che facevamo da bambini con le lucertole?».
«Certo. Ma qual è il messaggio?».
«Quindi ricordi anche che le facevo resuscitare».
«Un trucco formidabile, Gesù. Tornando al messaggio…».
«Non capisci? Se il soldato non è morto, non c’è stato nessun omicidio. Se
non c’è stato nessun omicidio, non c’è motivo per cui i Romani debbano fare
del male a Giuseppe. Quindi, tutto quello che dobbiamo fare è assicurarci che
il soldato sia ancora vivo. Semplice».
«Certo, semplice». Studiai la lucertola per un minuto, guardandola da
diverse angolazioni. Era marroncina, e sembrava piuttosto felice di stare sul
palmo del mio amico. «Chiedi a tuo padre che cosa dobbiamo fare, adesso».
6


Di ritorno a Nazaret, ci aspettavamo di trovare la madre di Gesù fuori di sé
per la preoccupazione; invece aveva radunato i suoi fratelli e le sue sorelle
fuori casa, li aveva fatti mettere in fila e stava lavando loro il viso e le mani
come se li preparasse per il pranzo dello Shabbat.
«Gesù, aiutami a preparare i piccolini, andiamo tutti a Zippori».
Il mio amico rimase scioccato. «Davvero?».
«L’intero villaggio vuole chiedere ai Romani di liberare Giuseppe».
Apparentemente, Giacomo era l’unico tra i bimbi ad aver capito che cosa
era successo al loro babbo. Le lacrime gli rigavano le guance. Gli misi un
braccio intorno alle spalle. «Andrà tutto bene» dissi, cercando di usare un
tono allegro. «Tuo padre è forte, dovranno torturarlo per giorni prima che
renda l’anima». Gli feci un sorriso incoraggiante.
Lui si divincolò dal mio abbraccio e corse in casa piangendo, e Maria si voltò
e mi lanciò un’occhiata severa. «Non dovresti essere con la tua famiglia,
Biff?».
Oh, il mio cuore spezzato, il mio ego ferito! Sebbene Maria avesse assunto
il ruolo di “moglie di riserva” del sottoscritto, la sua disapprovazione mi
umiliò. E a mio favore devo dire che mai una volta, in quel momento difficile,
pensai di fare del male a Giuseppe. Mai. In fondo ero ancora troppo giovane
per prendere moglie e se fosse rimasta vedova prima che io avessi compiuto
quattordici anni qualche anziano raccapricciante se la sarebbe portata via
senza darmi la possibilità di salvarla.
«Perché non vai a chiamare Maddi?» suggerì Gesù, smettendo solo per un
secondo di strofinare il viso a suo fratello Giuda. «La sua famiglia vorrà
venire con noi».
«Sicuro» dissi, e corsi alla bottega del fabbro in cerca di approvazione da
parte della mia “prima scelta”.

Quando arrivai, Maddi era seduta fuori dalla bottega del padre insieme ai
suoi fratelli e alle sue sorelle. Sembrava spaventata come quando avevamo
assistito all’omicidio. Avrei voluto abbracciarla e confortarla.
«Abbiamo un piano» le riferii. «Voglio dire, Gesù ha un piano. Vai anche
tu a Zippori con tutti gli altri?».
«Tutta la mia famiglia» rispose. «Mio padre ha fabbricato dei chiodi per
Giuseppe, sono amici». Con la testa indicò il capanno aperto che ospitava la
fucina. Due uomini vi stavano lavorando. «Tu vai avanti con Gesù, Biff. Noi
vi raggiungeremo». Cominciò a far segno di allontanarmi, e mosse le labbra
per dirmi qualcosa che non afferrai.
«Che cosa dici? Eh? Come?».
«E chi è il tuo amichetto, Maddi?». Una voce maschile giunse dalla fucina.
Lanciai un’occhiata in quella direzione e capii che cosa stava cercando di
dirmi.
«Zio Geremia, questo è Levi figlio di Alfeo. Noi lo chiamiamo Biff. E
adesso deve andare».
Cominciai a indietreggiare, prendendo le distanze dall’assassino. «Sì, devo
andare». Guardai Maddi, non sapendo che fare. «Io… noi… dobbiamo…».
«Ci vediamo a Zippori» mi disse lei.
«Sicuro». Mi voltai e scappai: mai in vita mia mi sono sentito tanto
codardo come in quel momento.
Quando arrivammo a Zippori c’era una nutrita folla di ebrei - forse
duecento persone - fuori dalle mura delle città: riconobbi molte facce,
venivano da Nazaret. Più che di una ‘ folla sediziosa si trattava di un’adunata
di gente spaventata. Metà erano donne e bambini. In mezzo, un contingente di
soldati romani respingeva gli spettatori, mentre due schiavi scavavano una
tomba. Come la mia gente, anche i Romani non perdevano tempo con i loro
morti. A meno che non ci fosse una battaglia in corso, spesso i soldati
venivano seppelliti quando erano ancora caldi.
Io e Gesù scorgemmo Maddi in piedi tra il padre e lo zio assassino, ai
margini della folla. Gesù s’incamminò verso di lei. Io lo seguii ma, prima che
fossi riuscito ad avvicinarmi, lui la prese per mano e la trascinò in mezzo alla
confusione. Vidi che Geremia tentò di seguirli. Mi tuffai nella ressa e strisciai
tra i piedi della gente, fino a quando non m’imbattei in un paio di sandali
chiodati che contraddistinguevano l’estremità inferiore di un soldato romano.
L’altra estremità, altrettanto romana, mi stava osservando con sguardo
arcigno. Mi alzai in piedi.
«Semper fido» dissi nel mio latino migliore, accompagnando le parole con
il sorriso più smagliante che riuscii a sfoggiare.
Il soldato si fece ancora più arcigno. D’un tratto sentii profumo di fiori, e
due labbra calde e dolci mi sfiorarono l’orecchio. «Credo che tu gli abbia
appena detto “Sempre cane”» mi sussurrò Maddi.
«Per questo ha un’espressione così sgradevole?» chiesi, farfugliando.
All’altro orecchio giunse un altro sussurro familiare, anche se non
altrettanto dolce. «Canta, Biff. Ricorda il piano».
«D’accordo». E così mi lanciai in uno dei miei famosi lamenti funebri.
«La-la-la. Ehi, romano, è un vero peccato che ti abbiano pugnalato. La-la-la.
Probabilmente non è un messaggio di Dio, nulla del genere. La-la-la. Non
voleva dirti che avresti fatto meglio a tornartene a casa. La-la-la. Invece di
vessare il popolo eletto che Dio stesso ha detto di preferire a te. Fa, la, la,
la».
Il soldato non parlava l’aramaico, quindi le parole non lo commossero
come avevo sperato. Ma probabilmente la melodia fortemente ritmica stava
cominciando a catturarlo. Mi lanciai nella seconda strofa.
«La-la-la, non ti avevamo detto che non dovevi mangiare maiale, la-la?
Anche se, guardando le ferite che hai nel petto, forse una dieta diversa non
avrebbe fatto molta differenza. Boom shaka-laka-laka-laka, boom shaka-laka-
lak. Andiamo, le parole le conoscete!».
«Basta così!».
Il soldato venne strattonato e spostato da una parte, e davanti a noi
comparve Gaius Justus Gallicus, fiancheggiato da due suoi ufficiali. Dietro di
lui, disteso a terra, c’era il cadavere del soldato.
«Ben fatto, Biff» mormorò Gesù.
«Vi stiamo offrendo i nostri servizi come dolenti professionisti» dissi con
un ghigno che il centurione non era affatto ansioso di ricambiare.
«Quell’uomo non ha bisogno di gente che venga a piangerlo; ha già chi lo
vendicherà».
Una voce si levò dalla folla. «Ehi, centurione, lascia andare Giuseppe di
Nazaret. Non è un assassino».
Justus si voltò e la folla si aprì, creando un corridoio tra lui e l’uomo che
aveva parlato. Era Iban il fariseo, insieme a molti altri farisei di Nazaret.
«Vuoi forse prendere il suo posto?».
Il fariseo indietreggiò, abbandonando ogni risolutezza davanti a quella
minaccia.
«Allora?». Justus avanzò e la folla intorno a lui si fece da parte. «Tu stai
parlando per la tua gente, fariseo. Bene, di’ loro di darmi un assassino. O
preferisci che cominci a crocifiggere ebrei finché non avrò trovato il
colpevole?».
Iban, in preda all’agitazione, cominciò a borbottare un’accozzaglia di
versetti della Torah. Mi guardai intorno e vidi lo zio di Maddi pochi passi
dietro di me. Quando incrociai il suo sguardo, fece scivolare la mano sotto la
veste, senza dubbio per afferrare il pugnale.
«Giuseppe non ha ucciso quel soldato!» gridò Gesù.
Justus si voltò a guardarlo e il fariseo colse l’opportunità per correre nelle
retrovie. «Lo so» disse il centurione.
«Davvero?».
«Certo, ragazzo. Non è stato un falegname a uccidere quel soldato».
«E come fai a dirlo?» gli chiesi.
Justus fece segno a uno dei suoi legionari, che venne avanti con un cestino.
A un cenno del centurione, lo rovesciò. Il pene di pietra di Apollo cadde
davanti a noi con un tonfo.
«Uh-oh» dissi.
«È stato uno scalpellino» disse Justus.
«Cielo, è davvero impressionante» fece Maddi.
Notai che Gesù si stava avvicinando al cadavere del soldato. Dovevo
distrarre il centurione. «Ah» dissi «qualcuno ha colpito il soldato a morte con
un pene di pietra. Dev’essere senz’altro opera di un greco o di un
samaritano… nessun ebreo farebbe una cosa del genere».
«No?» chiese Maddi.
«Cribbio, Maddi».
«Credo che tu abbia qualcosa da dirmi, ragazzo» disse Justus.
Gesù aveva imposto le mani sul soldato morto.
Sentivo gli occhi di tutti su di me. Mi chiesi dove fosse Geremia. Era alle
mie spalle, pronto a mettermi a tacere con una coltellata? O si era dato alla
fuga? Comunque, non riuscii a dire una parola. I sicarii non agivano da soli.
Se l’avessi denunciato, il pugnale di un suo compagno mi avrebbe ucciso
prima dello Shabbat.
«Non potrebbe dirtelo, centurione, nemmeno se lo sapesse» disse Gesù,
che era tornato al fianco di Maddi. «Perché nei nostri testi sacri sta scritto che
nessun ebreo tradirà un altro ebreo, per quanto malvagi possano essere
entrambi».
«È scritto davvero da qualche parte?» chiese Maddi.
«Lo è adesso» rispose Gesù in un sussurro.
«Mi hai appena dato del malvagio?» chiesi.
«Guardate!». Una donna in prima fila indicò il soldato morto. Un’altra
gridò. Il cadavere si stava muovendo.
Justus si voltò verso quella confusione e io ne approfittai per cercare
Geremia. Era dietro di me, a poche persone di distanza, ma aveva la bocca
aperta e fissava il soldato morto, che adesso era in piedi e si toglieva la
polvere dalla veste.
Gesù era molto concentrato, ma non vedemmo il sudore o i tremori a cui
avevamo assistito al funerale di Giaffa.
In onore di Justus bisogna dire che, sebbene all’inizio fosse apparso
spaventato, rimase fermo dov’era mentre il cadavere avanzava lemme lemme
verso di lui, con le gambe rigide. Gli altri soldati stavano indietreggiando
insieme a tutti gli ebrei, eccetto Maddi, Gesù e il sottoscritto.
«Devo denunciare un’aggressione, signore» disse l’ex morto, con un saluto
romano molto rigido.
«Tu… tu sei morto» disse Justus.
«No».
«Hai il torace pieno di ferite da pugnale».
Il soldato abbassò lo sguardo, si toccò le ferite con molta cautela e poi
tornò a guardare il suo comandante. «A quanto pare mi hanno lasciato qualche
segno, signore».
«Segno? Segno? Sei stato pugnalato una mezza dozzina di volte. Sei morto
stecchito».
«Io non credo, signore. Guarda, non sanguino nemmeno».
«E perché non hai più sangue, figliolo. Sei morto».
In quel momento il soldato barcollò e per poco non cadde, ma riuscì a
restare in piedi. «Mi sento un po’ intontito. La scorsa notte sono stato
aggredito, signore, nel luogo in cui stanno costruendo la casa del greco. Lui
c’era». Mi indicò.
«E c’era anche lui». Indicò Gesù.
«E la ragazzina».
«Sei stato aggredito da questi ragazzi?».
Sentii mormorare alle mie spalle.
«No, non da loro. Da quell’uomo laggiù». Indicò Geremia, che si guardò
intorno come un animale in trappola. Erano tutti immobili, intenti a fissare il
miracolo del cadavere che camminava. E l’assassino non poté farsi strada per
scappare.
«Arrestatelo!» ordinò Justus, ma i suoi soldati erano altrettanto storditi per
via della resurrezione del loro compagno.
«Adesso che ci penso» fece quest’ultimo «ricordo di essere stato
pugnalato».
Non avendo vie d’uscita, Geremia si voltò verso il suo accusatore ed
estrasse una lama da sotto la veste. Quel gesto sembrò scuotere gli altri
soldati, che cominciarono ad avanzare verso di lui da varie direzioni, con le
spade sguainate.
Alla vista della lama si allontanarono tutti dall’assassino, lasciandolo
isolato, e l’unica via che gli si aprì portava verso di noi.
«Nessun padrone all’infuori di Dio!» gridò, poi fece tre passi veloci e
balzò su di noi con il pugnale sollevato. Io mi tuffai su Maddi e Gesù,
sperando di far loro da scudo, ma mentre aspettavo di sentire il dolore acuto
provocato dalla lama tra le scapole, udii l’urlo di Geremia, poi un grugnito e
un gemito prolungato che si estinse come un patetico strillo.
Rotolai su me stesso e vidi Gaius Justus Gallicus con lo spadino affondato
fino all’impugnatura nel plesso solare del nostro assalitore, che aveva lasciato
cadere il coltello e stava fissando la mano del romano quasi ne fosse offeso.
Cadde in ginocchio. Justus liberò l’arma e la ripulì sulla veste di Geremia
prima di fare un passo indietro, lasciando che si accasciasse a terra.
«È stato lui» disse il soldato morto. «Quel bastardo mi ha ucciso». Cadde
in avanti, vicino al suo assassino, e rimase immobile.
«È andata molto meglio rispetto all’ultima volta, Gesù» dissi.
«Già, molto meglio» fece Maddi. «Ha camminato e ha parlato. L’hai fatto
muovere».
«Mi sentivo bene e avevo fiducia in me stesso, ma è stato un lavoro di
squadra» rispose il nostro amico. «Non ce l’avrei fatta se ciascuno di noi non
avesse dato il massimo, Dio incluso».
Sentii qualcosa di aguzzo contro una guancia. Con la punta della spada,
Justus guidò il mio sguardo verso il pene di Apollo, che giaceva nella polvere
accanto ai due corpi. «E questo? Vuoi spiegarmi com’è successo?».
«Sifilide?» chiesi.
«Sì, la sifilide può fare cose simili» confermò Maddi. «Può farlo marcire
finché non cade».
«Come lo sai?» chiese Gesù.
«Ho tirato a indovinare, tutto qui. Naturalmente sono felice che sia tutto
finito».
Justus lasciò ricadere lo spadino lungo il fianco e sospirò. «Andate a casa.
Tutti. Io, Gaius Justus Gallicus, sottocomandante della Sesta Legione e
comandante della Terza e della Quarta Centuria, con l’autorità dell’imperatore
Tiberio e dell’Impero romano, vi ordino di tornare a casa e di non fare più
stronzate fino a quando non mi sarò ubriacato per bene e non avrò avuto
qualche giorno per smaltire la sbornia».
«Quindi rilascerai Giuseppe?» chiese Maddi.
«È in caserma. Andate a prenderlo e riportatelo a casa».
«Amen» fece Gesù.
«Semper fido» aggiunsi io, in latino.

Il fratellino di Gesù, che all’epoca aveva sette anni, corse intorno alla
caserma dei Romani urlando «Liberate il mio popolo! Liberate il mio
popolo!» fino a quando non gli venne la voce rauca (Giuda aveva deciso
molto presto che da grande avrebbe fatto Mosè, solo che questa volta Mosè
sarebbe entrato nella terra promessa… in groppa a un pony). Venne fuori che
Giuseppe ci stava aspettando alla porta di Venere. Era un po’ confuso, ma per
il resto era illeso.
«Dicono che un morto ha parlato» disse.
Maria era estasiata. «Sì, e ha camminato. Ha indicato l’assassino ed è
morto di nuovo».
«Mi dispiace» si scusò Gesù «ho tentato di farlo vivere, ma è durato solo
un minuto».
Giuseppe aggrottò le sopracciglia. «Hanno visto tutti quello che hai
fatto?».
«Non sanno che sono stato io, ma l’hanno visto».
«Ci ho pensato io a distrarli, con uno dei miei eccellenti lamenti funebri»
intervenni.
«Non puoi correre rischi simili» disse Giuseppe al mio amico. «Non è
ancora il momento».
«Se non per salvare mio padre, allora quando?».
«Io non sono tuo padre». Giuseppe sorrise.
«Sì che lo sei». Gesù chinò il capo.
«Ma non sono il tuo padrone». Il sorriso si allargò in un ghigno.
«No, suppongo di no».
«Non ti saresti dovuto preoccupare, Giuseppe» dissi. «Se i Romani ti
avessero ucciso, mi sarei occupato io di Maria e dei bambini».
Maddi mi colpì al braccio con un pugno.
«Buono a sapersi» disse Giuseppe.

Lungo la strada per Nazaret camminai con Maddi, qualche passo più
indietro rispetto a Gesù e alla sua famiglia. I parenti di Maddi erano talmente
sconvolti per quello che era accaduto a Geremia da non accorgersi della sua
assenza.
«È stato molto più forte, rispetto all’ultima volta» disse.
«Non preoccuparti, domani sarà un disastro: “Oh, ma dove ho sbagliato?
Oh, la mia fede non è stata abbastanza salda. Oh, non sono degno del mio
compito”. Per tutta la prossima settimana sarà insopportabile. Saremo
fortunati se smetterà di pregare giusto il tempo di mettere qualcosa nello
stomaco».
«Non dovresti prenderti gioco di lui. Ci sta provando duramente».
«La fai facile, tu: non dovrai stare con l’idiota del villaggio finché Gesù
non l’avrà superata».
«Ma non ti commuove il fatto di sapere chi è? Che cos’è?».
«E a che pro? Se passassi il tempo a bearmi della luce della sua santità,
come potrei prendermi cura di lui? Chi penserebbe a mentire e a imbrogliare
al posto suo? Nemmeno lui può pensare sempre a quello che rappresenta,
Maddi».
«Io penso a lui in continuazione. Prego per lui in ogni momento».
«Davvero? E preghi mai per me?».
«Una volta ti ho ricordato, sì».
«Davvero? E in che contesto?».
«Ho chiesto a Dio di aiutarti a non essere tanto stupido, affinché potessi
vegliare su Gesù».
«Stupido… nel senso più affascinante del termine, non è vero?».
«Naturalmente».
7


«Quale profeta l’ha scritto?» ha chiesto l’angelo. «Perché questo libro
predice tutti gli eventi che accadranno nel corso della prossima settimana in
Days of Our Lives e La valle dei pini».
E io gli ho risposto: «Brutto e stupido ammasso di piume, qui i profeti non
c’entrano. Sanno che cosa accadrà perché scrivono in anticipo la trama su cui
si baserà la recitazione degli attori».
«Così sta scritto, così andrà» ha ribattuto.
Ho attraversato la stanza e mi sono seduto sul bordo del letto, accanto a lui.
Aveva sempre gli occhi incollati sul suo Soap Opera Digest. Ho abbassato la
rivista in modo che fosse costretto a guardarmi in faccia.
«Raziel, ricordi quel periodo che precedette l’avvento dell’uomo, quando
c’erano soltanto Dio e le milizie celesti?».
«Sì, fu in assoluto l’epoca migliore. Tolta la guerra, naturalmente. Ma, a
parte questo, fu davvero un periodo magnifico».
«E voi angeli eravate belli e forti come l’immaginazione divina, le vostre
voci cantavano per lodare il Signore e la Sua gloria fino alla fine
dell’universo, eppure Lui pensò che fosse giusto creare noi uomini, deboli,
contorti e profani, dico bene?».
«Fu allora che le cose cominciarono a deteriorarsi, se vuoi sapere come la
penso».
«Sai perché Dio prese quella decisione?».
«No. Non spetta a noi giudicare la Sua Volontà».
«Perché voi angeli siete dei fottuti stupidi, ecco perché. Siete irrazionali
come la materia stellare. Gli angeli sono solo begli insetti. Days of Our Lives
è una serie tv, Raziel, un dramma a puntate. Non è reale, riesci ad afferrare il
concetto?».
«No».
E in effetti non capiva. Ho scoperto che oggigiorno circolano molte
storielle sulla stupidità delle persone con i capelli biondi. Chissà da dove
vengono.

Tutti noi ci aspettavamo che ogni cosa sarebbe tornata alla normalità, una
volta scoperto l’assassino; apparentemente, però, i Romani erano più
interessati allo sterminio dei sicarii che a un singolo episodio di resurrezione.
In effetti, bisogna ammettere che all’epoca le resurrezioni non erano così rare.
Come ho detto, noi ebrei seppellivamo i nostri morti senza perdere tempo, e la
fretta porta inevitabilmente a commettere degli’ errori. Di tanto in tanto
qualche poveretto perdeva conoscenza e, quando tornava in sé, si ritrovava
avvolto nel lino e pronto per la tomba. Ma i funerali erano un bel modo per
riunire la famiglia, e alla sepoltura seguiva sempre un lauto banchetto; quindi
nessuno si lamentava mai veramente, tranne forse quelle persone che non si
svegliavano prima di essere sepolte… E se lo facevano… be’, sono certo che
Dio le sentisse (ai miei tempi avere il sonno leggero era un vantaggio). Così il
giorno dopo, per quanto impressionati dal cadavere che aveva camminato, i
Romani cominciarono a radunare i sospetti cospiratori. All’alba, gli uomini
della famiglia di Maddi furono trascinati a Zippori.
Nessun miracolo avrebbe portato alla liberazione dei prigionieri, ma nei
giorni che seguirono non ci sarebbero state nemmeno crocifissioni. Dopo due
settimane trascorse senza notizie, Maddi, sua madre, le sue zie e le sue sorelle
andarono alla sinagoga per lo Shabbat e chiesero aiuto ai farisei.
Il giorno seguente, i farisei di Nazaret, Giaffa e Zippori si presentarono alla
guarnigione romana per chiedere a Justus di rilasciare i prigionieri. Non so
che cosa dissero, né a quale sistema ricorsero per smuovere i Romani, ma il
giorno dopo ancora, all’alba, gli uomini della famiglia di Maddi tornarono
barcollando al villaggio, malconci, affamati e coperti di sudiciume, ma
decisamente vivi.
Non ci furono banchetti né festeggiamenti: nei mesi a seguire, noi ebrei
cercammo di non dare nell’occhio cosicché i Romani si calmassero. Durante
le settimane successive Maddi si mostrò distante; Gesù e io non vedevamo
più quel sorriso che ci toglieva il fiato. Sembrava evitarci, scappando dalla
piazza ogni volta che la vedevamo, e per lo Shabbat stava così appiccicata
alle donne della sua famiglia che non avevamo modo di parlarle. Alla fine,
dopo un mese - e senza la minima considerazione per le usanze o la comune
cortesia - Gesù insistette per saltare il lavoro e mi trascinò per una manica
fino a casa di Maddi. La trovammo in ginocchio per terra, fuori dalla porta,
che macinava dell’orzo. Vedemmo sua madre che girava per casa, e sentimmo
suo padre e suo fratello Simone (detto Lazzaro) che lavoravano alla fucina
nella bottega accanto. Maddi sembrava persa nel ritmo di quell’operazione,
quindi non ci vide arrivare. Gesù le mise una mano sulla spalla e lei, senza
sollevare gli occhi, sorrise.
«Voi due dovreste essere a Zippori a costruire una casa» disse.
«Abbiamo ritenuto che fosse più importante far visita a un’amica malata».

«E chi sarebbe?».
«Secondo te?».
«Io non sono malata. In effetti sono stata guarita dal tocco del Messia».
«Non credo» fece Gesù.
Alla fine Maddi sollevò gli occhi verso di lui e il suo sorriso svanì. «Non
posso più essere vostra amica. Le cose sono cambiate».
«Cosa? Perché tuo zio era un sicario?» chiesi. «Non essere sciocca».
«No, perché mia madre ha concluso un affare per far sì che Iban
convincesse gli altri farisei a recarsi a Zippori e intercedere per i miei
familiari».
«Che genere di affare?» chiese Gesù.
«Sono fidanzata». Abbassò di nuovo lo sguardo sulla macina e una lacrima
cadde nell’orzo ridotto in polvere.
Restammo entrambi sbalorditi. Gesù le tolse la mano dalla spalla e fece un
passo indietro, poi mi guardò come se potessi fare qualcosa. Da parte mia,
sentivo che sarei potuto scoppiare a piangere da un momento all’altro.
Controllandomi, riuscii a chiederle: «Con chi?».
«Jakan» rispose Maddi con un singhiozzo.
«Il figlio di Iban? Quel leccapiedi? Quel prepotente?».
Annuì. Gesù si coprì la bocca e si allontanò di qualche passo, correndo. Poi
vomitò. Fui tentato di raggiungerlo, invece mi accovacciai di fronte a Maddi.
«A quando le nozze?».
«Mi sposerò un mese dopo la Pasqua. Mamma gli ha chiesto di aspettare
sei mesi».
«Sei mesi! Sei mesi! È un’eternità, Maddi. Jakan potrebbe restare ucciso in
mille modi atroci, e sono solo quelli che mi vengono in mente in questo
momento. Qualcuno potrebbe denunciarlo come ribelle ai Romani. Non dico
chi, ma qualcuno potrebbe farlo. Sì, potrebbe succedere».
«Mi dispiace, Biff».
«Non dispiacerti per me, perché dovresti?».
«So come ti senti, quindi mi dispiace».
Per un attimo rimasi sconcertato. Lanciai un’occhiata a Gesù, in cerca di
un indizio, ma lui era ancora impegnato a rovesciare la sua colazione nella
terra.
«Ma è di Gesù che sei innamorata?» le chiesi infine.
«La cosa ti fa sentire meglio?».
«Direi di no».
«Be’, mi dispiace». Fece per toccarmi una guancia, ma sua madre la
chiamò prima che tra noi si fosse stabilito un contatto.
«Entra in casa, Maria Maddalena. E subito!».
Con il capo Maddi indicò il Messia in preda al suo attacco di vomito.
«Abbi cura di lui».
«Starà bene».
«E abbi cura di te».
«Starò bene anch’io, Maddi. Non dimenticare che ho una moglie di riserva.
E poi abbiamo sei mesi. Possono succedere un sacco di cose. Non è che non
ci vedremo più». Stavo cercando di mostrarmi più speranzoso di quanto non
fossi.
«Portalo a casa» disse, riferendosi a Gesù. Poi mi diede un veloce bacio
sulla guancia e corse via.

Gesù era assolutamente contrario all’idea di uccidere Jakan, o anche di
pregare affinché gli succedesse qualcosa di male. In effetti, sembrava più
cortese con lui di quanto non lo fosse mai stato, e andò addirittura a cercarlo
per porgergli le sue congratulazioni, un gesto che mi fece sentire furioso e
tradito. Lo
affrontai nel boschetto di ulivi, dov’era andato a pregare tra i tronchi
contorti.
«Vigliacco» dissi «potresti abbatterlo se solo lo volessi».
«Così come potresti farlo tu» replicò.
«Sì, ma tu puoi scatenare su di lui l’ira di Dio. Io dovrei sorprenderlo alle
spalle e spaccargli la testa con un sasso. C’è una certa differenza».
«E tu vorresti che lo uccidessi per quale motivo, per la tua sfortuna?».
«Io lo trovo sensato».
«È così difficile rinunciare a qualcosa che non hai mai avuto?».
«Avevo delle speranze, Gesù. Lo capisci il concetto di speranza, vero?». A
volte sapeva essere estremamente ottuso, o almeno così pensavo. Non mi
rendevo conto di quanto soffrisse dentro, o di quanto desiderasse fare
qualcosa.
«Sì, penso di sì. Ma non credo che mi sia permesso averne».
«Oh, non attaccare con la solita solfa del “tutti hanno qualcosa tranne me”.
Tu hai moltissime cose».
Si girò come un fulmine verso di me e mi lanciò uno sguardo infuocato.
«Cosa, per esempio? Dimmi, che cos’avrei?».
«Uh…». Avrei voluto dire che aveva una madre molto sexy, ma non mi
sembrava il genere di risposta che avrebbe gradito. «Uh… be’, hai Dio».
«Ce l’hai anche tu. Ce l’abbiamo tutti».
«Sul serio?».
«Sì».
«Non i Romani, però».
«Ci sono ebrei romani».
«Be’, hai… il potere di guarire e far resuscitare i morti».
«Oh, certo, e funziona alla grande».
«Be’, tu sei il Messia. Che mi dici di questo? Dovrà pur significare
qualcosa. Se lo rivelassi alla gente, tutti dovrebbero fare quello che dici».
«Non posso».
«Perché no?».
«Non so come si fa il Messia».
«Prova almeno a fare qualcosa per Maddi».
«Non è possibile» giunse una voce da dietro un albero. Dai lati del tronco
si sprigionò un bagliore dorato.
«Chi è là?» esclamò Gesù.
Apparve l’angelo Raziel.
«Un angelo del Signore» dissi a Gesù, sottovoce.
«Lo so» fece lui. «Quando ne hai visto uno, li hai visti tutti».
«Non può fare nulla» ripeté l’angelo.
«Perché no?» chiesi.
«Perché non gli è permesso conoscere le donne».
«No?». Il mio amico non sembrò affatto felice.
«Nel senso che non deve o che non può?» domandai.
L’angelo si grattò la testa dorata. «Non ho pensato di chiederlo».
«Mi sembra piuttosto importante».
«Be’, so che non può fare niente per Maria Maddalena. Mi hanno detto di
venire a dirglielo. E che per lui è giunto il momento di andare».
«Andare dove?».
«Non ho pensato di chiederlo».
Credo che avrei dovuto avere paura, ma in realtà ero passato dal timore
all’esasperazione. Feci un passo verso l’angelo e gli piantai un dito nel petto.
«Tu sei lo stesso angelo che è venuto ad annunciarci l’avvento del
Salvatore?».
«Dio voleva che vi portassi la lieta novella».
«Era solo una mia curiosità, volevo sapere se voi angeli vi somigliate tutti.
Quindi, dopo che la volta scorsa ti sei presentato con dieci anni di ritardo ti
hanno affidato un altro messaggio?».
«Sono qui per dire al Salvatore che per lui è giunto il momento di andare».
«Ma non sai dove».
«No».
«E questa cosa dorata che ti circonda… questa luce… che cos’è?».
«È la gloria di Dio».
«Sei sicuro che non sia la stupidità che stai trasudando?».
«Biff, sii gentile, è il messaggero del Signore».
«Al diavolo, Gesù. Non ci sta aiutando affatto. Se dobbiamo ricevere le
visite degli angeli, almeno che sappiano quel che fanno. Dovrebbero abbattere
muri o cose simili, distruggere città… non so… almeno dovrebbero portarci
un messaggio per intero».
«Mi dispiace» disse l’angelo. «Vorresti che distruggessi una città?».
«No, vorrei che scoprissi dove deve andare il mio amico. Allora?».
«Posso farlo».
«Allora sbrigati».
«Torno subito».
«Non ci muoviamo».
«Buona fortuna» disse Gesù.
Un attimo dopo l’angelo si spostò dietro un altro tronco e il bagliore dorato
svanì dal boschetto di ulivi, lasciandosi dietro una calda brezza.
«Sei stato piuttosto duro con lui» mi fece notare Gesù.
«Essere carini non porta sempre al successo».
«Ci si può sempre provare».
«Mosè fu carino con il faraone?».
Prima che avesse modo di rispondermi, tornò a soffiare quella calda brezza
e l’angelo spuntò da dietro un ulivo.
«Incontro al tuo destino» disse.
«Eh?».
«Devi andare incontro al tuo destino».
«Ah, dunque è questo che devo fare?».
«Sì».
«Che ci dici a proposito della “conoscenza delle donne”?» chiesi.
«Devo andare, adesso».
«Prendilo, Gesù. Tienilo mentre io lo picchio».
Ma l’angelo se n’era già andato con la brezza.
«Devo andare incontro al mio destino?». Gesù si guardò i palmi delle
mani, aperti e vuoti.
«Avremmo dovuto pestarlo fino a farci dare una risposta sensata».
«Non credo avrebbe funzionato».
«Oh, ci risiamo. La tua strategia della “carineria”. Forse Mosè…».
«Mosè avrebbe detto: “Lascia andare il mio popolo, per favore”».
«E avrebbe fatto qualche differenza?».
«Può darsi. Non puoi saperlo».
«Allora che cosa farai per il tuo destino?».
«Lo chiederò all’Arca dell’Alleanza quando andremo al Tempio per la
Pasqua».

E così, in primavera, tutti gli ebrei di Galilea si recarono in pellegrinaggio
a Gerusalemme per la festa della Pasqua, e Gesù cominciò a cercare il suo
destino. Le famiglie erano allineate lungo la strada in direzione della città
santa. Dromedari, carri e asini erano carichi di provviste per il viaggio, e
lungo tutta la colonna di pellegrini si udivano i belati degli agnelli da
sacrificare. Il terreno era arido quell’anno, e una nuvola di polvere marrone-
rossiccia si spandeva in ogni direzione a perdita d’occhio.
Essendo i primogeniti, io e Gesù dovevamo badare ai nostri fratelli e alle
nostre sorelle più giovani. Legarli insieme ci sembrò il sistema migliore per
non perderli di vista, e così facemmo, mettendo in ordine di altezza i miei due
fratelli e i tre fratelli e le due sorelle di Gesù. Misi loro una corda intorno al
collo e la lasciai allentata, in modo che li avrebbe stretti se fossero usciti dalla
fila.
«Io posso slegarmi» disse Giacomo.
«Anch’io» disse mio fratello Shem.
«Ma non lo farete. Questa è la parte della Pasqua in cui si ricorda Mosè
che guida il suo popolo nella Terra Promessa, quindi dovete stare con i più
piccoli».
«Tu non sei Mosè» disse Shem.
«No… no, non sono Mosè. Sei davvero sveglio ad averlo notato». Legai
l’estremità della fune a un carro lì vicino, carico di orci di vino. «Questo carro
è Mosè» dissi. «Seguitelo».
«Quello non è…».
«E simbolico, chiudi quella boccaccia e seguilo».
Liberati così delle nostre responsabilità, io e Gesù andammo in cerca di
Maddi e della sua famiglia. Sapevamo che lei e il suo clan erano partiti dopo
di noi, così tornammo indietro facendoci strada tra i pellegrini, sfidando i
morsi dei muli e gli sputi dei dromedari, fino a quando non scorgemmo il suo
scialle blu sulla collina che avevamo appena superato, a poco meno di un
chilometro di distanza. Avevamo deciso di metterci seduti al lato della strada
fino a quando non ci avesse raggiunti, anziché lottare con la folla, quando
improvvisamente la colonna di gente cominciò a spostarsi ai lati della strada
come un’immensa ondata. Poi vedemmo il pennacchio rosso dell’elmo di un
centurione in cima alla collina e capimmo. La nostra gente faceva largo
all’esercito romano. Ci sarebbero stati quasi un milione di ebrei a
Gerusalemme per la Pasqua: un milione di ebrei che celebravano la
liberazione dall’oppressione, un miscuglio alquanto pericoloso dal punto di
vista dei Romani. Il governatore sarebbe venuto da Cesarea con l’intera
legione di seimila uomini, e ciascuna delle caserme presenti in Giudea,
Samaria e Galilea avrebbe inviato una centuria o due nella città santa.
Io e il mio amico ne approfittammo per correre da Maddi, e arrivammo
insieme ai soldati. Il centurione che guidava la cavalleria passando mi mollò
un calcio e il suo sandalo chiodato mancò la mia testa d’un soffio.
Probabilmente dovevo essere felice che non fosse un portabandiera: avrei
rischiato di beccarmi un colpo dall’aquila romana.
«Quanto dovrò aspettare prima che li cacci per restituire al nostro popolo il
suo regno, Gesù?». Maddi era lì in piedi con le mani sui fianchi e stava
facendo uno sforzo per apparire severa, ma i suoi occhi azzurri tradivano una
risata.
«Shalom anche a te, Maddi» rispose lui.
«E che mi dici di te, Biff? Hai finalmente imparato a fare l’idiota o sei
ancora indietro con i tuoi studi?». Le ridevano gli occhi anche mentre i
Romani passavano a poche spanne da lei. Dio, quanto mi mancava.
«Sto imparando» dissi.
Maddi posò a terra la brocca che stava portando e ci abbracciò. Erano mesi
che non ci vedevamo, se non prendevamo in considerazione le volte in cui
c’eravamo incrociati nella piazza. Quel giorno sapeva di limone e di cannella.
Camminammo con lei e con la sua famiglia per un paio d’ore,
chiacchierando, scherzando ed evitando l’argomento che occupava la mente
di tutti, fino a quando non ci chiese: «Verrete al mio matrimonio?».
Gesù e io ci guardammo come se improvvisamente ci avessero strappato la
lingua. Vidi che il mio amico faticava a trovare le parole, e Maddi cominciava
ad arrabbiarsi.
«Allora?».
«Maddi… non credere che la tua fortuna non ci faccia piacere, ma…»
cominciai.
Colse l’opportunità per mollarmi un manrovescio sulle labbra. La brocca
che portava sul capo non vacillò nemmeno. Quella ragazza possedeva una
grazia straordinaria.
«Ohi».
«Fortuna? Sei matto? Il mio promesso sposo è un rospo. Se solo penso a
lui mi viene la nausea. Speravo semplicemente che voi due sareste venuti ad
aiutarmi, durante la cerimonia».
«Credo che mi stia sanguinando il labbro».
Gesù mi guardò e sgranò gli occhi. «Uh-oh». Poi inclinò il capo, come se
stesse ascoltando il vento.
«Uh-oh cosa?». Notai una certa agitazione davanti a noi. Una folla si era
radunata nei pressi di un ponticello… la gente gridava, gesticolava. Dato che i
Romani erano passati da un bel pezzo, immaginai che qualcuno fosse caduto
nel fiume.
«Uh-oh» fece ancora Gesù, che cominciò a correre verso il ponte.
«Scusa». Mi congedai da Maddi con una scrollata di spalle e seguii il mio
amico.
Giunti sulla sponda del fiume (in effetti era solo un torrente) vedemmo un
ragazzino all’incirca della nostra età, con i capelli arruffati e gli occhi
allucinati, immerso nell’acqua fino alla vita. Stava tenendo qualcosa sotto la
superficie, e gridava con tutto il fiato che aveva in corpo.
«Devi pentirti ed espiare, espiare e pentirti! I tuoi peccati ti hanno reso
immondo. Io ti purifico dal peccato che ti porti dietro come una bisaccia».
«Quello è mio cugino Giovanni» disse Gesù.
Accanto c’erano i nostri fratelli e le nostre sorelle che si trascinavano fuori
dall’acqua. L’anello mancante della catena era mio fratello Shem, sommerso
dall’acqua fangosa e agitata davanti a Giovanni. Gli astanti acclamavano il
Battista, che aveva qualche problema a tenere Shem sott’acqua.
«Credo che lo stia affogando».
«Battezzando» mi corresse Gesù.
«Mia madre sarà felice di sapere che è stato purificato dai suoi peccati, ma
temo che finiremo in un sacco di guai se durante l’operazione dovesse
annegare».
«Ottima osservazione». Il mio amico entrò in acqua. «Giovanni! Adesso
basta!».
Giovanni lo guardò e sembrò un po’ perplesso. «Cugino Gesù?».
«Sì. Avanti, lascialo uscire».
«Ha peccato» disse, come se ciò spiegasse tutto.
«Me ne occuperò io».
«Credi di essere tu il capo di tutti, vero? Be’, non è così. Anche la mia
nascita è stata annunciata da un angelo. E una profezia diceva che sarei stato
un leader. Non sei tu il prescelto».
«Sarebbe meglio continuare questa conversazione in un altro posto.
Lascialo uscire, Giovanni. Si è purificato»,
Giovanni lasciò andare mio fratello, e io corsi a tirarlo fuori dall’acqua
insieme agli altri bambini.
«Un momento, loro non sono stati purificati. Sono ancora immondi per i
loro peccati».
Gesù si mise tra suo fratello Giacomo - che sarebbe stato il prossimo a
essere inzuppato - e il Battista. «Non lo dirai a mamma, vero?».
Terrorizzato e al tempo stesso furioso, Giacomo stava tirando i nodi,
cercando di slegare la corda che aveva intorno al collo. Era chiaro che voleva
vendicarsi del fratello maggiore, ma al tempo stesso non voleva privarsi della
protezione di Gesù di fronte a Giovanni.
«Se lasciamo che lui ti tenga sott’acqua abbastanza a lungo per
battezzarti… non potrai raccontarlo a mammina, non è vero, Giacomo?».
Questo ero io, che volevo rendermi utile.
«Non dirò nulla». Lanciò un’occhiata a Giovanni, che aveva ancora lo
sguardo assorto come se da un momento all’altro potesse correre fuori dal
torrente per afferrare qualcuno da purificare. «È nostro cugino?» chiese
Giacomo.
«Sì. È figlio della cugina di nostra madre, Elisabetta».
«Quando vi siete visti, voi due?».
«Mai».
«Allora come fai a sapere chi è?».
«Lo so e basta».
«È un pazzo» disse Giacomo. «Siete pazzi tutti e due».
«Sì, è una caratteristica di famiglia. Magari quando sarai più grande potrai
esserlo anche tu. Non lo dirai a mamma».
«No».
«Bene. Aiuta Biff a portare via di qui i bambini, d’accordo?».
Io annuii e lanciai un’occhiata a Giovanni. «Giacomo ha ragione, Gesù. È
pazzo».
«Ti ho sentito, peccatore!» gridò lui. «Forse anche tu hai bisogno di essere
purificato».

Quella sera, Giovanni e la sua famiglia cenarono con noi. Fui sorpreso di
scoprire che sua madre e suo padre erano più vecchi di Giuseppe - e
addirittura dei miei genitori. Gesù mi spiegò che la nascita del cugino era
stata un miracolo annunciato dall’angelo. Elisabetta, la madre, ne parlò
durante tutta la cena, come se fosse accaduto il giorno prima e non tredici
anni fa. Quando l’anziana si interruppe per prendere fiato, la madre di Gesù
attaccò con l’annunciazione divina della nascita di suo figlio. Di tanto in tanto
interveniva anche mia madre, sentendo il bisogno di manifestare un po’ di
orgoglio materno che non sentiva veramente.
«Sapete, Biff non fu annunciato da un angelo, ma le locuste divorarono il
nostro orto e Alfeo soffrì di gas intestinali per un mese intero nel periodo in
cui dovrebbe essere stato concepito. Credo che sia stato un segnale. Di sicuro
non accadde con gli altri miei figli».
Ah, mamma. Vi ho già detto che era tormentata da un demone?
Dopo cena io e Gesù accendemmo un falò, sperando che Maddi venisse a
cercarci. Invece arrivò Giovanni.
«Non sei tu l’unto» disse al mio amico. «Da mio padre venne Gabriele in
persona. Il tuo angelo non aveva neppure un nome».
«Non dovremmo parlare di queste cose».
«Gli disse che suo figlio avrebbe preparato la strada per il Signore. E
quello sarei io».
«Bene, non chiedo di meglio che sapere che il Messia sei tu».
«Sul serio? Ma tua madre sembra così… così…».
«Gesù fa resuscitare i morti» intervenni.
Giovanni spostò il suo sguardo folle su di me, e mi allontanai rapidamente
nel caso avesse provato a colpirmi. «Non è possibile» disse.
«Invece sì, gliel’ho visto fare due volte».
«Biff, non dire niente».
«Stai mentendo. Pronunciare falsa testimonianza è peccato». Più che
arrabbiato, il Battista sembrava in preda al panico.
«Non sono molto bravo» ammise Gesù.
Giovanni sgranò gli occhi: alla follia si era sostituito lo stupore. «Davvero
hai fatto una cosa del genere? Hai resuscitato i morti?».
«E guarito gli ammalati» aggiunsi.
Giovanni mi afferrò per la veste e mi tirò vicino a sé, fissandomi negli
occhi quasi stesse guardando dentro la mia testa. «Non stai mentendo, vero?».
Lanciò un’occhiata a Gesù. «Non è una bugia, dico bene?».
Gesù scosse il capo. «No».
Giovanni mi lasciò andare, emise un lungo sospiro e tornò a sedersi. La
luce del fuoco illuminò le lacrime che brillavano nei suoi occhi persi nel
nulla. «Sono così sollevato. Non sapevo che cosa fare. Non sapevo cosa
significasse essere il Messia».
«Nemmeno io lo so».
«Be’, spero davvero che tu sia in grado di resuscitare i morti. Perché la
notizia ucciderà mia madre».

Durante i tre giorni successivi camminammo insieme a Giovanni.
Attraversammo la Samaria, la Giudea e finalmente giungemmo nella città
santa. Per fortuna non trovammo molti fiumi o torrenti lungo la strada, così
riuscimmo a ridurre al minimo i battesimi. Il suo cuore era nel giusto, voleva
davvero purificare il nostro popolo dai peccati; ma nessuno credeva che Dio
potesse affidare una simile responsabilità a un ragazzino di tredici anni. Per
farlo contento, Gesù e io gli permettevamo di battezzare i nostri fratelli e le
nostre sorelle ogni volta che attraversavamo un corso d’acqua, almeno fino a
quando a Miriam non venne il raffreddore e Gesù dovette ricorrere a una
guarigione d’emergenza.
«Puoi davvero guarire la gente» esclamò Giovanni.
«Be’, il raffreddore è facile. Un po’ di muco non è niente davanti alla
potenza del Signore».
«Ti… ti dispiacerebbe?» gli chiese, sollevando la veste e mostrandogli le
parti intime, nude e coperte di piaghe e scaglie verdastre.
«Copriti, ti prego!» gridai. «Tira giù quella veste e allontanati!».
«È disgustoso» commentò Gesù.
«Sono immondo? Ho paura di chiederlo a mio padre ma non posso andare
da un fariseo, visto che il babbo è un sacerdote. Credo dipenda da tutto il
tempo che passo in acqua. Puoi guarirmi?».
A questo punto devo aprire una parentesi: probabilmente quella era la
prima volta che Miriam vedeva i genitali di un uomo. All’epoca aveva
soltanto sei anni, ma rimase traumatizzata a tal punto che non prese mai
marito. Le ultime notizie volevano che si fosse tagliata i capelli, avesse
cominciato a indossare abiti maschili e fosse andata a vivere su un’isola
greca, Lesbo. Ma questo accadde in seguito.
«Provaci, Gesù» dissi. «Imponi le mani sul suo male e guariscilo».
Lui mi lanciò un’occhiataccia e poi tornò a fissare suo cugino, con uno
sguardo che conteneva soltanto compassione. «Mia madre ha un unguento che
potresti applicare» disse. «Prova prima con quello».
«Già fatto».
«Come temevo».
«Hai provato a strofinarti con dell’olio di oliva?» chiesi. «Probabilmente
non ti curerà, ma potrebbe aiutarti a non pensarci».
«Biff, per favore. Giovanni è malato».
«Chiedo scusa».
«Vieni qui, cugino».
«Oh, Cris… cribbio, Gesù» esclamai. «Non vorrai toccarlo, vero? È
immondo. Lascia che vada a vivere con i lebbrosi».
Lui gli mise le mani sul capo e gli occhi del Battista si rovesciarono
all’indietro. Pensavo sarebbe caduto, e in effetti barcollò, ma rimase in piedi.
«Padre, hai mandato Giovanni a preparare la via. Fa’ che il suo corpo sia
puro come il suo spirito».
Lo lasciò andare e fece un passo indietro. Giovanni aprì gli occhi e sorrise.
«Sono guarito!» gridò. «Sono guarito».
Fece per sollevarsi la veste ma gli bloccai il braccio. «Ti crediamo sulla
parola».
Il Battista cadde in ginocchio e si prostrò davanti a Gesù, spingendo il viso
contro i suoi piedi. «Tu sei davvero il Messia. Ti chiedo scusa se ho dubitato
di te. Proclamerò la tua santità per tutta la terra».
«Uh, magari un giorno, ma non ora».
Giovanni sollevò gli occhi. «Non ora?».
«Stiamo cercando di mantenere la cosa segreta» spiegai.
Gesù gli diede una pacca sulla testa. «Sì, sarebbe meglio non dire niente a
nessuno della guarigione».
«Ma perché?».
«Dobbiamo scoprire un paio di cose, prima che Gesù cominci a fare il
Messia».
«Per esempio?». Sembrò di nuovo sul punto di piangere.
«Per esempio dov’è che Gesù ha lasciato il suo destino… e anche se ha il
permesso di, ehm, commettere abominio con una donna».
«Non si tratta di abominio se è con una donna» disse Gesù.
«No?».
«No. Con le pecore, le capre, e in pratica con tutti gli animali lo è. Ma con
una donna è una cosa diversa».
«E se una donna lo fa con una capra?» chiese Giovanni.
«Fanno cinque sicli, a Damasco» risposi. «Sei, se vuoi essere generoso».
Gesù mi diede un pugno sulla spalla.
«Scusa, è una vecchia battuta». Ghignai. «Non ho resistito».
Giovanni chiuse gli occhi e si strofinò le tempie come se, esercitando la
giusta pressione, potesse tirar fuori un po’ di intelligenza. «Quindi non vuoi
che si sappia che hai il potere di guarire perché non sai se puoi giacere con
una donna?».
«E anche perché non ho idea di come si debba comportare un Messia».
«Già» confermai.
«Dovresti chiedere a Hillel» suggerì Giovanni. «Mio padre dice che è il
più saggio dei sacerdoti».
«Voglio interrogare il Santissimo» rispose Gesù. (L’Arca dell’Alleanza, lo
scrigno contenente le tavole che Mosè ricevette da Dio, si trovava nel
Santissimo. Non conoscevo nessuno che l’avesse vista con i propri occhi, dal
momento che era conservata nella parte più interna del Tempio.)
«Ma è vietato. Solo i sacerdoti hanno accesso alla camera dell’Arca».
«Già, suppongo che questo sarà un problema» osservai.

La città era come un enorme calice pieno fino all’orlo di pellegrini, che si
riversavano in una pozza brulicante di umanità. Quando arrivammo, gli
uomini erano già in fila fino alla porta di Damasco con i loro agnelli, in attesa
di raggiungere il Tempio. Da lì proveniva uh fumo nero e untuoso portato dal
vento: diecimila sacerdoti stavano macellando gli agnelli per bruciarne il
sangue e le parti grasse sull’altare. In tutta la città ardevano fuochi per
cucinare, sui quali le donne preparavano gli agnelli. L’aria era pervasa da una
foschia: i vapori e il tanfo di un milione di persone e di altrettanti animali.
Alito stantio, sudore e puzzo di piscio si levavano nel calore del giorno,
mescolandosi ai belati degli agnelli, ai muggiti dei dromedari, al pianto dei
bambini, agli ululati delle donne e al basso ronzio di troppe voci, fino a
quando l’aria non fu satura di suoni, odori, Dio e storia. Qui Abramo aveva
saputo da Dio che il suo popolo sarebbe stato l’Eletto; qui c’erano gli ebrei
che erano fuggiti dall’Egitto, qui Salomone aveva costruito il primo Tempio,
qui avevano camminato i profeti e i re degli ebrei, e qui si trovava l’Arca
dell’Alleanza. Gerusalemme. Qui io, il Cristo e il Battista venivamo a cercare
la volontà di Dio e - con un po’ di fortuna - speravamo di vedere qualche
splendida fanciulla. (Cos’è, pensavate che ruotasse tutto intorno alla religione
e alla filosofia?)
Le nostre famiglie si accamparono fuori dalle mura settentrionali della
città, sotto i bastioni della Torre Antonia, la fortezza che Erode aveva fatto
erigere come tributo al suo benefattore, Marco Antonio. Due coorti composte
all’incirca da milleduecento soldati romani sorvegliavano la spianata del
Tempio dalle mura della fortezza. Le donne lavarono e diedero da mangiare ai
bambini, mentre io e Gesù andammo con i nostri padri a portare gli agnelli al
sacrificio.
Ero turbato all’idea di portare un animale a morire. Non che; in passato
non mi fosse capitato di assistere a sacrifici o di mangiare l’agnello pasquale:
ma questa era la prima volta che partecipavo davvero. Sentivo il fiato della
bestia sul collo mentre la tenevo sulle spalle, e in mezzo a tutto quel rumore, a
tutti quegli odori e a quel movimento intorno al Tempio, per un attimo ci fu
silenzio: c’erano solo il respiro e il battito del cuore dell’agnello.
Probabilmente rimasi indietro, perché mio padre si i girò e mi disse qualcosa,
ma non riuscii a capire le parole.
Varcammo le porte ed entrammo nel cortile esterno, dove i mercanti
vendevano uccelli da sacrificare e i cambiavalute» davano sicli al posto delle
centinaia di monete provenienti da tutto il mondo. Mentre attraversavamo
l’enorme corte, dove migliaia di uomini con i loro agnelli sulle spalle
aspettavano di accedere al tempio interno e all’altare del sacrificio, non riuscii
a vedere il volto di nessuno. Vedevo soltanto il muso delle bestie, alcune
calme e ignare di quanto accadeva, altre che belavano di terrore con gli occhi
rovesciati all’indietro, e altre ancora con l’aria stordita. Mi tolsi l’agnello
dalle spalle e lo cullai tra le braccia quasi fosse un bambino, mentre uscivo
dalla porta camminando all’indietro. So che probabilmente mio padre e
Giuseppe mi venivano dietro, ma io non li vedevo: c’era il vuoto al posto dei
loro occhi. Vedevo solo quelli degli animali che trasportavano. Non riuscivo a
respirare e stavo impiegando troppo tempo per uscire dal Tempio. Non sapevo
dove stessi andando, ma di certo non all’altare. Mi voltai per correre, ma una
mano mi afferrò per la veste e mi tirò indietro. Mi girai di scatto e mi ritrovai
a fissare gli occhi di Gesù.
«È la volontà di Dio» mi disse. Mi posò le mani sul capo e in quel
momento riuscii a respirare di nuovo. «Va tutto bene, Biff. È la Sua volontà».
Sorrise.
Aveva messo a terra il suo agnello, che rimase lì e non scappò.
Probabilmente avrei dovuto capirlo allora.
Nemmeno assaggiai l’agnello pasquale. In effetti, dopo quel giorno non
l’ho più mangiato.
8

Sono riuscito a sgattaiolare in bagno il tempo necessario per leggere
qualche capitolo del Nuovo Testamento che hanno aggiunto alla Bibbia.
Questo Matteo - che ovviamente non è quello che conoscevamo - sembra aver
tralasciato un bel po’ di cose: in effetti, ha omesso tutto quello che accadde
nei primi trent’anni di vita di Gesù!!! Non c’è da meravigliarsi se l’angelo mi
ha riportato qui per scrivere questo libro. Il suddetto Matteo non mi ha ancora
nominato, ma sono solo ai primi capitoli. Devo diminuire le mie visite al
bagno se non voglio far insospettire Raziel. Oggi abbiamo avuto uno scontro
quando sono rientrato in stanza.
«Passi molto tempo lì dentro. Non ne hai bisogno».
«Te l’ho detto, la pulizia è molto importante per la mia gente».
«Non stavi facendo il bagno. Avrei sentito il rumore dell’acqua».
Ho deciso che era meglio passare all’attacco, se volevo impedirgli di
scoprire il mio segreto. Ho attraversato di corsa la stanza, sono saltato sul suo
letto e gli ho stretto le mani intorno alla gola… lo soffocavo, e intanto
recitavo questa cantilena: «Non mi faccio sbattere da duemila anni. Non mi
faccio sbattere da duemila anni. Non mi faccio sbattere da duemila anni…».
Mi dava una bella sensazione, aveva ritmo, e a ogni sillaba aumentavo la
pressione sulla sua gola.
Smisi per un attimo di strozzare il milite celeste per mollargli un
manrovescio sulla guancia d’alabastro. Fu un errore. Afferrò la mia mano.
Con l’altra mi prese per i capelli e si alzò in piedi, calmo, sollevandomi in
aria.
«Ahi, ahi, ahi, ahi, ahi» dissi.
«Quindi non ti fai sbattere da duemila anni? E che cosa significa?».
«Ahi, ahi, ahi, ahi» risposi.
L’angelo mi rimise a terra, ma continuò a tenermi per i capelli. «Allora?».
«Significa che non ho una donna da due millenni, non hai appreso nulla del
vocabolario che usano in tv?».
Lanciò un’occhiata all’apparecchio, che ovviamente era acceso. «Non ho il
dono delle lingue, come te. Ma questo cosa c’entra con il fatto che volessi
strozzarmi?».
«Volevo strozzarti perché, per l’ennesima volta, dimostri di essere ottuso
come un mulo. Non faccio sesso da duemila anni. Gli uomini hanno delle
necessità. Che diavolo credi che faccia nel bagno tutto quel tempo?».
«Oh» disse l’angelo, lasciandomi andare. «Quindi tu… hai fatto… c’è…».
«Procurami una donna e forse non passerò più tanto tempo in bagno, se
afferri il concetto». Un modo davvero geniale per metterlo fuori strada.
«Una donna? No, non posso farlo. Non ancora».
«Non ancora? Significa che…».
«Oh, guarda» disse, distogliendo lo sguardo dal sottoscritto quasi fossi
soltanto una nuvola di vapore. «Comincia General Hospital».
E con ciò, la mia Bibbia era al sicuro. Ma che cosa aveva voluto dire con
quel “non ancora”?
Almeno Matteo menziona i Magi. Dedica loro soltanto una frase: ma è
sempre una frase di più di quelle che ho avuto io nel Vangelo, finora.

Era il nostro secondo giorno a Gerusalemme, quando andammo a far visita
al rabbino Hillel (rabbino, o rabbi, significa maestro in ebraico… lo sapevate,
vero?). Dimostrava un centinaio d’anni con la barba e i capelli lunghi e
bianchi; gli occhi erano velati, le iridi bianche come il latte. La pelle era
marrone e simile al cuoio per tutto il tempo passato al sole, e il naso era lungo
e uncinato e gli dava l’aspetto di una grande aquila cieca. Teneva lezione tutta
la mattina nel cortile esterno del Tempio. Seduti in silenzio, lo ascoltammo
recitare la Torah e interpretare i versetti, facemmo domande e discutemmo
con i farisei, che cercavano di riversare la Legge in ogni minuscolo dettaglio
della vita quotidiana.
Verso la fine delle lezioni mattutine Jakan, il succhiadromedari promesso
sposo della mia amata Maddi, chiese a Hillel se fosse peccato mangiare un
uovo che era stato deposto lo Shabbat.
«Sei forse stupido? Al Signore non importa un accidente di quello che
fanno le galline durante lo Shabbat, razza di nimrod! Se una donna ebrea
deponesse un uovo per lo Shabbat, probabilmente commetterebbe peccato, e
in quel caso puoi venire da me. Altrimenti non farmi perdere il mio maledetto
tempo con queste sciocchezze. Adesso vattene, ho fame e ho bisogno di fare
un pisolino. Andatevene tutti, via!».
Gesù mi guardò con un ghigno. «Non è l’uomo che mi sarei aspettato»
sussurrò.
«Però sa riconoscere un nimrod quando ne vede… ehm, quando ne sente
uno» dissi (Nimrod era un antico re che morì soffocato dopo essersi
domandato ad alta voce, davanti alle sue guardie, come sarebbe stato farsi
ficcare la testa su per il culo).
Un ragazzino più giovane aiutò l’anziano ad alzarsi e cominciò a guidarlo
verso la porta del Tempio. Io corsi verso di loro e afferrai l’altro braccio.
«Rabbino, il mio amico è venuto da lontano per parlare con te. Puoi
aiutarlo?».
L’anziano si fermò. «Dov’è il tuo amico?».
«Proprio qui».
«Allora perché non parla? Da dove vieni, ragazzo?».
«Da Nazaret. Ma sono nato a Betlemme. Mi chiamo Gesù, figlio di
Giuseppe».
«Oh, sì. Ho parlato con tua madre».
«Davvero?».
«Sicuro, ogni volta che lei e tuo padre vengono a Gerusalemme per una
festa, lei tenta di avere un colloquio con me. Crede che tu sia il Messia».
Gesù deglutì rumorosamente. «E lo sono?».
Hillel sbuffò. «Tu vuoi esserlo?».
Gesù mi guardò come se potessi avere la risposta. Scrollai le spalle. «Non
lo so» rispose infine. «Credevo semplicemente di doverlo fare».
«Credi di essere il Messia?».
«Non sono sicuro di poterlo dire».
«Davvero intelligente. Non dovresti, infatti. Puoi credere di essere il
Messia finché vuoi. Solo, non dirlo a nessuno».
«Ma se non lo dico, la gente non lo saprà».
«Esatto. Puoi credere di essere una palma, se vuoi, solo che non devi dirlo
a nessuno. Puoi credere anche di essere uno stormo di gabbiani ma, di nuovo,
non devi dirlo a nessuno. Capisci che cosa intendo? Adesso devo andare a
mangiare. Sono vecchio e affamato e voglio andare a mangiare: così, se
dovessi morire prima di cena, non me ne sarò andato a stomaco vuoto».
«Ma lui è davvero il Messia» dissi.
«Oh, certo» fece Hillel afferrandomi per la spalla e cercando a tastoni la
mia testa per urlarmi nell’orecchio: «E tu che ne sai? Sei un ragazzino
ignorante. Quanti anni hai? Dodici? Tredici?».
«Tredici».
«E a tredici anni come potresti sapere qualcosa? Io sono vecchio e non so
un cazzo di niente».
«Però sei saggio».
«Saggio abbastanza da sapere che non so un cazzo di niente. Adesso
andatevene».
«Dovrei interrogare il Santissimo?» chiese Gesù.
Hillel mollò un fendente all’aria come per mollargli uno schiaffo, ma lo
mancò di un paio di spanne. «È una cassa. L’ho vista quando ci vedevo
ancora, e posso dirti che è una cassa. E vuoi sapere un’altra cosa? Se un
tempo conteneva delle tavole, adesso non ci sono più. Quindi se vuoi parlare
con una cassa - ed essere giustiziato per aver tentato di entrare nel Sancta
Sanctorum - accomodati pure».
Gesù sembrò restare senza fiato e pensai che sarebbe svenuto lì. Come
poteva il più grande tra i maestri di Israele parlare in quel modo dell’Arca
dell’Alleanza? Come poteva affermare di non sapere nulla un uomo che
conosceva ogni parola della Torah e tutti gli insegnamenti che erano stati
scritti da allora?
Hillel sembrò percepire la sua angoscia. «Ascolta, ragazzino. Tua madre
dice che degli uomini molto saggi sono venuti a Betlemme per vederti,
quando sei nato. È evidente che sapevano qualcosa che nessun altro sapeva.
Perché non vai a cercarli? Chiedi a loro come si fa a essere il Messia».
«Quindi non hai intenzione di dirglielo tu?» chiesi.
Il vecchio allungò di nuovo la mano verso Gesù, ma questa volta non era
mosso da rabbia. Trovò la sua guancia e la accarezzò con la mano paralitica.
«Non credo verrà un Messia e, a questo punto, non sono sicuro che farebbe
qualche differenza per me. Il nostro popolo ha passato più tempo in schiavitù
o sotto i calcagni di re stranieri di quanto ne abbia passato in libertà, quindi
chi può dire che Dio ci voglia liberi? Chi ci dice che si preoccupi per noi in
qualche modo? Da parte mia, credo che ci permetta semplicemente di esistere.
Quindi rammenta queste parole, figliolo. Puoi essere il Messia, puoi diventare
rabbino o puoi essere soltanto un contadino; in ogni caso, questa è la somma
di quanto posso insegnarti, ed è tutto quello che so: tratta gli altri come
vorresti essere trattato tu. Te lo ricorderai?».
Gesù annuì e il vecchio sorrise. «Vai a cercare i tuoi saggi, Gesù figlio di
Giuseppe».
Invece restammo nel Tempio, mentre Gesù torchiava ogni sacerdote, ogni
guardia e persino i farisei per sapere qualcosa dei Magi che erano venuti a
Gerusalemme tredici anni prima. Evidentemente per gli altri non era stato un
grande avvenimento come lo era stato per la sua famiglia, perché nessuno
aveva idea di cosa stesse dicendo.
Dopo due ore di interrogatori, stava letteralmente gridando in faccia a un
gruppo di farisei: «Erano tre. Erano maghi. Vennero qui seguendo una stella
spuntata sopra Betlemme. Portarono oro, incenso e mirra. Andiamo, siete tutti
vecchi. Dovreste essere saggi. Fate uno sforzo!».
Inutile dirlo, non gradirono le sue domande. «Chi è questo ragazzo che
mette in dubbio la nostra conoscenza? Non sa nulla della Torah e dei Profeti,
eppure ci rimprovera perché non rammentiamo tre viaggiatori insignificanti».
Era la cosa sbagliata da dire al mio amico. Nessuno aveva studiato la Torah
più a fondo di lui. Nessuno conosceva le
Scritture meglio di lui. «Chiedimi una cosa qualunque, fariseo» gli disse.
«Una qualunque».
A posteriori, dopo essere diventato più o meno adulto, dopo aver vissuto,
dopo essere morto e dopo essere stato resuscitato dalla polvere, mi rendo
conto che forse non c’è niente di più sgradevole di un adolescente saputello.
Certo, è tipico dell’età avanzata credersi onniscienti. Ma adesso provo un po’
di comprensione per quei poveretti che quel giorno al Tempio sfidarono il mio
amico. Naturalmente, allora gridai: «Distruggi questi figli di puttana, Gesù!».
Rimase lì per giorni. Non se ne andava nemmeno per mangiare, e io
dovevo andare a prendergli del cibo in città. Ai farisei si aggiunse anche
qualche sacerdote che venne a interrogarlo, rivolgendogli domande su
qualche oscuro re o condottiero ebraico. Gli fecero recitare le discendenze
contenute in tutti i libri della Bibbia, ma lui non ebbe alcuna esitazione. Dal
canto mio, lo lasciavo lì a discutere mentre me ne andavo in città a cercare
Maddi o, quando non riuscivo a trovarla, una ragazza qualsiasi. Dormivo
nell’accampamento dei miei genitori, sperando ogni volta che Gesù tornasse
dalla sua famiglia per trascorrere la notte, ma mi sbagliavo. Al termine della
Pasqua, quando ci stavamo preparando per partire, Maria venne da me in
preda al panico.
«Biff. Hai visto Gesù?».
Quella povera donna era distrutta. Volendo confortarla, le tesi le braccia
per stringerla a me e consolarla. «Povera Maria, adesso calmati. Gesù sta
bene. Vieni, lascia che ti abbracci».
«Biff!». Pensai che mi avrebbe mollato uno schiaffo.
«È al Tempio. Cribbio, uno cerca di mostrarsi compassionevole e che cosa
ottiene?».
Se n’era già andata. La raggiunsi mentre stava trascinando fuori il mio
amico, tenendolo per un braccio. «Siamo quasi morti di paura».
«Dovevi saperlo che mi avresti trovato nella casa di mio padre».
«Non usare la storia di “tuo padre” con me, Gesù figlio di Giuseppe. Il
comandamento dice: “Onora il padre e la madre”. E in questo momento non
mi sento onorata, giovanotto. Avresti potuto mandarci un messaggio, saresti
potuto passare dall’accampamento».
Gesù mi lanciò uno sguardo che mi supplicava di dargli una mano.
«Ho provato a confortarla, amico, ma non me l’ha permesso».
In seguito li ritrovai sulla via di Nazaret, e Gesù mi fece segno di
camminare con loro.
«Mamma pensa che potremmo trovare almeno uno dei Magi. Se ci
riuscissimo, lui potrebbe sapere dove sono gli altri».
Maria annuì. «Baldassarre, il nero, disse di venire da un villaggio a nord di
Antiochia. Era l’unico dei tre a sapere qualche parola di ebraico».
Non ero fiducioso. Sebbene non avessi mai visto una mappa, l’espressione
“a nord di Antiochia” sembrava indicare un posto vasto, vago e spaventoso.
«Sappiamo qualcosa in più?».
«Sì, che gli altri due erano giunti dall’Oriente, dalla Via della Seta. Si
chiamavano Melchiorre e Gaspare».
«Quindi si va ad Antiochia» disse Gesù. Sembrava completamente
soddisfatto delle informazioni dategli da sua madre, come se non gli servisse
sapere altro oltre ai nomi dei tre Magi.
«Vuoi andare ad Antiochia pensando che là qualcuno si ricordi di un uomo
che forse viveva a nord della città tredici anni fa?».
«Un mago» disse Maria. «Un ricco mago dell’Etiopia.? Quanti ce ne
possono essere?».
«Potrebbe non essercene più nessuno, ci avete pensato? Potrebbe essere
morto, o potrebbe essersi trasferito altrove»
«In quel caso, andrò ad Antiochia. Da li potrò partire per’ la Via della Seta,
fino a quando non avrò trovato gli altri due».
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. «Non andrai dai’; solo».
«Certo che sì».
«Ma Gesù, in giro per il mondo saresti completamente indifeso. Tu conosci
soltanto Nazaret, dove la gente è stupida e povera. Senza offesa, Maria. Sarai
come… un agnello tra i lupi. Avrai bisogno che io vegli su di te».
«E che cosa sai che io non so? Il tuo latino è tremendo, il tuo greco appena
passabile e il tuo ebraico è atroce».
«Già. Ma se uno straniero ti viene incontro sulla strada per Antiochia e ti
chiede quanti soldi hai con te, che cosa gli rispondi?».
«Dipende dalla somma che ho».
«Invece no. Devi dire che non hai nemmeno il necessario per comprarti
una crosta di pane. Che sei un povero mendicante».
«Ma è una bugia».
«Esatto».
Maria mise un braccio intorno alle spalle del figlio. «Ha ragione, Gesù».
Lui corrugò la fronte come se dovesse pensarci, ma capii che era sollevato
all’idea che sarei andato con lui. «Quando vuoi partire?».
«Quando ha detto che si sposerà Maddi?».
«Tra un mese».
«Prima di allora. Non voglio essere qui quando accadrà».
«Nemmeno io» disse lui.
E così passammo le settimane successive a preparare il nostro viaggio. Mio
padre pensava fossi matto, mentre mamma sembrava felice di avere un po’ di
spazio in più a disposizione, oltre a essere compiaciuta all’idea di non dover
mettere Insieme tanto presto la somma necessaria per farmi sposare una
fanciulla.
«Allora, quanto tempo starai via?» mi chiese.
«Non lo so. Antiochia non è lontanissima, ma non so quanto tempo ci
fermeremo. E poi prenderemo la Via della Seta. Immagino che quello sarà un
lungo viaggio. Non ho mai visto crescere seta, da queste parti».
«Be’, portati una veste di lana nel caso faccia freddo».
E questo fu tutto quello che mi disse. Non mi chiese «Perché parti?» né
«Di che cosa andate in cerca?». Mi rammentò solo di prendere la veste di
lana. Cribbio. Mio padre mi offrì un po’ di sostegno in più.
«Posso darti un po’ di denaro per il viaggio, oppure potremmo comprarti
un asino».
«Credo che il denaro sia meglio. Un asino non può portarci tutti e due».
«E chi sono questi tizi che andate a cercare?».
«Dei maghi, mi pare».
«E volete parlare con loro perché…?».
«Perché Gesù vuole sapere come si fa a essere il Messia».
«Oh, giusto. E tu credi davvero che sia il Messia?».
«Sì. Ma conta di più che è mio amico. Non posso lasciarlo andare da solo».
«E se non lo fosse? Se trovaste questi maghi e loro vi dicessero che Gesù è
soltanto un ragazzo come tutti gli altri?».
«In quel caso avrà decisamente bisogno che io sia lì, no?».
Mio padre rise. «Già, penso che tu abbia ragione. Torna presto, Levi, e
porta con te il tuo amico Messia. Ora dovremo aggiungere tre posti vuoti a
tavola, per la Pasqua. Uno per Elia, uno per il mio figlio perduto e uno per il
suo amico, il Messia».
«Be’, non mettere Gesù vicino a Elia. Se cominciano a parlare di religione
non avremo mai pace».

Mancavano solo quattro giorni alle nozze di Maddi quando Gesù e io
decidemmo che uno di noi due avrebbe dovuto informarla della partenza.
Dopo aver passato quasi un’intera giornata a discutere, fu deciso che toccava
al sottoscritto. D mio amico sapeva affrontare paure che avrebbero piegato
altri uomini, ma l’idea di dare una brutta notizia a Maddi gli era
insopportabile. Così, mi assunsi l’ingrato compito e cercai di lasciarlo ai suoi
alti impegni.
«Sei uno smidollato!».
«Come faccio a dirle che è troppo doloroso stare lì a guardarla mentre
sposa quel rospo?».
«Primo, stai insultando i rospi di tutto il mondo. Secondo, che cosa ti fa
pensare che per me sia più facile?».
«Tu sei più duro di me».
«Oh, non provarci. Non puoi semplicemente girarti dall’altra parte e
aspettarti che non mi accorga di essere stato manipolato. Maddi piangerà. E io
odio vederla piangere».
«Lo so. Fa male anche a me. Troppo male». Poi mi mise una mano sul
capo e d’un tratto mi sentii meglio, più forte.
«Non usare con me i tuoi oscuri cerimoniali da Figlio di Dio. Resti sempre
uno smidollato».
«Se così dev’essere, così sia. Così sarà scritto».

Be’, adesso lo è, Gesù. Adesso è scritto. È strano: il concetto di
“smidollato” è rimasto invariato nel tempo. Come se mi avesse aspettato per
duemila anni affinché lo potessi usare. Strano davvero.

Maddi stava facendo il bucato nella piazza, con un gruppo di altre donne.
Catturai la sua attenzione saltando in spalla al mio amico Bartolomeo, che si
stava denudando allegramente per il piacere visivo delle spose di Nazaret.
Con un lieve movimento del capo le feci segno di aspettarmi dietro a un
boschetto di palme da datteri, lì vicino.
«Dietro quegli alberi?» gridò.
«Sì» risposi.
«Porti anche l’idiota?».
«No».
«Okay, allora». Passò i panni a una delle sue sorelle più giovani e corse
verso il boschetto.
Fui sorpreso nel vederla sorridere quando mancava così poco al giorno
delle sue nozze. Mi abbracciò e mi sentii avvampare in volto, non so se per
amore o per vergogna… come se tra le due cose ci fosse qualche differenza.
«Sei di buonumore» osservai.
«Perché non dovrei? Sto tirando fuori tutti i miei sorrisi prima del
matrimonio. A proposito, che cosa mi porterete in dono? Sarà meglio che sia
qualcosa di bello, se deve compensare il mio futuro sposo».
Era allegra e sentivo musica e risate nella sua voce. Era la mia Maddi, pura
e semplice. Ma dovetti distogliere lo sguardo.
«Ehi, stavo solo scherzando. Voi due non dovete portarmi niente».
«Partiamo, Maddi. Non saremo qui per le tue nozze».
Mi afferrò per la spalla e mi costrinse a guardarla dritta in faccia.
«Partite? Tu e Gesù? Ve ne andate?».
«Sì, prima delle tue nozze. Andiamo ad Antiochia, e da lì a est lungo la Via
della Seta».
Non disse nulla. Gli occhi le si riempirono di lacrime e sentii che stava
succedendo lo stesso anche a me. Questa volta fu lei a guardare altrove.
«Avremmo dovuto dirtelo prima, lo so, ma l’abbiamo deciso solo a Pasqua.
Gesù vuole trovare i Magi che vennero qui per la sua nascita. E io lo
accompagno perché devo».
Si girò di scatto verso di me. «Perché devi? Devi? Non devi, invece. Puoi
rimanere qui ed essermi amico, e venire alle mie nozze. Puoi sgattaiolare qui
o nella vigna per parlare con me, e possiamo ridere e scherzare. E non
importa quanto potrà essere orribile il mio matrimonio con Jakan… perché
avrò questo. Almeno avrò questo!».
Dovevo vomitare da un momento all’altro. Avrei voluto dirle che sarei
rimasto, che avrei aspettato, che avrei continuato a sperare se ci fosse stata la
benché minima possibilità che la sua vita non fosse destinata a diventare un
deserto tra le braccia di quel leccapiedi. Avrei voluto fare qualunque cosa
servisse a toglierle anche solo un briciolo della sua sofferenza: ero addirittura
disposto a lasciar partire Gesù da solo; mentre lo pensavo, però, mi resi conto
che lui doveva provare le stesse cose. Così mi limitai a un «Mi dispiace».
«E che mi dici di Gesù? Non aveva nemmeno intenzione di dirmi addio?».
«Avrebbe voluto, ma non gli è stato possibile. Voglio dire, nessuno dei due
può… non vogliamo proprio stare a guardare mentre tu sposi Jakan».
«Codardi. Siete davvero una bella coppia. Potete nascondervi l’uno dietro
l’altro, come i ragazzi greci. Vattene. Lontano da me».
Cercai di pensare a qualcosa da dire, ma avevo la mente confusa, così
chinai il capo e me ne andai. Ero quasi uscito dalla piazza quando Maddi mi
raggiunse. Sentii i suoi passi e mi voltai.
«Digli che voglio incontrarlo dietro la sinagoga, Biff. La sera prima delle
nozze, un’ora dopo il tramonto».
«Non lo so, Maddi. Lui…».
«Diglielo». E con ciò tornò di corsa al pozzo, senza voltarsi.

Così glielo dissi, e la sera prima delle nozze di Maddi, la vigilia della
nostra partenza, Gesù prese del pane, del formaggio e un otre di vino e mi
disse di aspettarlo vicino alle palme da datteri nella piazza, per cenare
insieme.
«Devi andare» mi disse.
«Certo. Domattina, me ne andrò con te. Cosa pensi, che mi tiri indietro
adesso?».
«No, parlo di stasera. Devi andare da Maddi. Io non posso».
«Cosa? Voglio dire, perché?». Certo, mi si era spezzato il cuore quando
Maddi aveva chiesto di vedere lui e non me, ma l’avevo accettato… Come
una persona può accettare il fatto di avere il cuore infranto.
«Devi prendere il mio posto, Biff. La luna è praticamente assente, e
abbiamo più o meno la stessa taglia. Non parlare molto e lei crederà che tu sia
me. Forse le sembrerò un po’ meno intelligente del solito… ma può sempre
pensare che sia colpa del viaggio ormai prossimo».
«Mi piacerebbe vedere Maddi, ma lei vuole vedere te. Perché non ci puoi
andare?».
«Davvero non lo sai?».
«No».
«Allora credimi sulla parola. E capirai. Farai questo per me, Biff?
Prenderai il mio posto? Farai finta di essere me?».
«Vorrebbe dire mentire. E tu non menti mai».
«Adesso ti metti a fare il virtuoso con me? Non mentirò: sarai tu a farlo».
«Oh. In tal caso ci vado».
Ma non ebbi nemmeno il tempo di ingannarla. Quella sera era così buio
che dovetti attraversare lentamente il villaggio alla sola luce delle stelle e,
quando svoltai l’angolo sul retro della nostra piccola sinagoga, fui investito da
una ventata di legno di sandalo, limone e sudore di fanciulla… e poi sentii la
pelle calda, la sua bocca bagnata sulla mia, le braccia che mi circondavano la
schiena, le gambe intorno alla mia vita. Caddi all’indietro e finii a terra, e
nella mia testa apparve una luce brillante. Il resto del mondo esisteva solo nel
tatto, nell’olfatto e in Dio. Lì, a terra e dietro la sinagoga, Maddi e io ci
abbandonammo a desideri che coltivavamo da anni, io per lei, lei per Gesù.
Non era importante che uno dei due sapesse cosa stava facendo. Quella che ci
stava succedendo era una cosa pura, ed era meravigliosa. E una volta finito
restammo lì distesi e abbracciati, semivestiti, senza fiato e sudati. E Maddi
disse: «Ti amo, Gesù».
«Ti amo, Maddi». Piano, allentò il suo abbraccio.
«Non potevo sposare Jakan senza… non potevo lasciarti partire senza…
senza fartelo sapere».
«Lo sa, Maddi».
A quel punto si staccò davvero. «Biff?».
«Uh-oh». Pensavo si mettesse a strillare, che balzasse in piedi e scappasse
via, che facesse una delle cento cose che mi avrebbero fatto precipitare dal
paradiso all’inferno. Ma un secondo dopo si rannicchiò di nuovo accanto a
me.
«Grazie per essere qui».

Partimmo all’alba, e mio padre e Giuseppe ci accompagnarono fino alle
porte di Zippori. Quando ci salutammo, mio padre mi diede un martello e uno
scalpello da portare con me. «Con questi potrai pagarti un pasto ovunque
andrai» mi disse. Giuseppe diede a Gesù una ciotola di legno. «Con questa
potrai mangiare il pasto che Biff avrà guadagnato». Mi rivolse un sorriso.
Lì baciai mio padre per l’ultima volta. Lì lasciammo i nostri genitori e
partimmo per il mondo, alla ricerca dei tre saggi.
«Torna, Gesù, e liberaci» gridò Giuseppe dietro di noi.
«Vai con Dio» mi disse il babbo.
«Lo sto già facendo» urlai. «È proprio qui accanto a me».
Gesù non disse nulla fino a quando il sole non fu alto nel cielo e ci
fermammo per dividerci un po’ d’acqua. «Allora?» fece. «Ha capito che eri
tu?».
«Sì. Non proprio subito, ma prima che ci salutassimo se n’è accorta».
«Si è arrabbiata con me?».
«No».
«E con te?».
Sorrisi. «No».
«Cane!».
«Dovresti proprio chiedere a quell’angelo che cosa intendeva quando ti ha
detto che non puoi conoscere nessuna donna. È davvero importante».
«Adesso sai perché non ci potevo andare».
«Sì. Grazie».
«Mi mancherà» disse.
«Non hai idea di quanto mancherà a me».
«Tutti i dettagli. Voglio tutti i dettagli».
«Ma tu non dovresti sapere».
«Non è questo che intendeva l’angelo. Avanti, racconta».
«Non ora. Non finché sentirò il suo profumo sulle mie braccia».
Gesù mollò un calcio alla terra. «Sono arrabbiato con te, felice per te o
geloso di te? Non lo so… dimmelo tu!».
«Gesù, in questo momento, per la prima volta da che io mi ricordi, sono
felicissimo di essere tuo amico… e di non essere te. Puoi concedermelo?».

Ora, se ripenso a quella notte con Maddi dietro la sinagoga, dove
restammo quasi fino all’alba, dove facemmo l’amore ancora e ancora e ci
addormentammo nudi sopra i nostri vestiti… se ci ripenso, mi viene voglia di
fuggire da qui, da questa stanza, da quest’angelo e dal compito che mi ha
affidato. Mi viene voglia di trovare un lago, di tuffarmici e nascondermi da
Dio nella melma scura, sul fondo.
Strano, no?

PARTE SECONDA

Il cambiamento




Gesù era un bravo ragazzo, non aveva
bisogno di questa merda.
John Prine
9

Avrei dovuto pensare a un piano prima di tentare di fuggire dalla camera
d’albergo, adesso me ne rendo conto. In quel momento, precipitarmi fuori
dalla porta tra le braccia della dolce libertà mi era sembrato un piano giusto.
Sono arrivato nell’atrio. È un bell’atrio, grande come un palazzo, ma in
quanto a libertà volevo di più. Prima che Raziel mi trascinasse nell’ascensore
rischiando di slogarmi la spalla, ho notato che nella hall c’era un numero
smodato di anziani. In effetti, in confronto alla mia epoca ce ne sono
moltissimi, ovunque… be’, non in tv, ma in qualunque altro posto. Che c’è,
gente, vi siete scordati come si fa a morire? O avete usato tutti i giovani per la
televisione e in giro non sono rimasti che capelli grigi e carne rugosa? Ai miei
tempi, se avevi compiuto quaranta estati dovevi cominciare a pensare di
andartene per far spazio ai ragazzi. Se arrivavi a cinquanta, i dolenti ti
lanciavano occhiatacce quando ti passavano accanto, come se li stessi
privando di proposito del lavoro. Secondo la Torah, Mosè visse
centovent’anni. Suppongo che i bambini di Israele lo seguissero solo per
vedere quando sarebbe crollato. E probabilmente scommettevano anche.
Se riesco a sfuggire all’angelo, non intendo guadagnarmi da vivere
facendo il dolente professionista: non se voi non ci fate la cortesia di morire.
Tanto meglio, dal momento che dovrei imparare tutti i nuovi lamenti funebri.
Ho provato a convincere l’angelo a guardare MTV per imparare il vostro
linguaggio musicale, ma anche con il dono delle lingue ho qualche problema
a parlare l’hip hop. Basta essere stupidi per farlo? Non canterò di madri morte
finché non avrò capito.

Il viaggio. La ricerca dei Magi.
All’inizio ci portammo sulla costa. Né Gesù né io avevamo mai visto il
mare, così, quando salimmo in cima a una collina nei pressi della città di
Tolemaide e la distesa senza fine di acqua marina si allungò davanti a noi,
Gesù cadde in ginocchio e rese grazie a suo padre.
«Si vedono quasi i confini del mondo» disse. Strizzai gli occhi per il sole
abbagliante, sforzandomi davvero di trovare i confini. «A me sembra curvo».
«Che?». Scrutò l’orizzonte, ma evidentemente non notò la curvatura.
«Il margine del mondo sembra curvo. Secondo me la terra è rotonda».
«Che cosa è rotondo?».
«Il mondo».
«Certo che lo è. È rotondo come un piatto. Se arrivi al margine cadi di
sotto. Tutti i marinai lo sanno» affermò con grande autorità.
«Non come un piatto. Come una palla».
«Non essere sciocco. Se fosse tondo come una palla scivoleremmo».
«No, se è appiccicoso».
Gesù sollevò un piede e si guardò la suola del sandalo. Poi guardò me. E
infine abbassò gli occhi a terra. «Appiccicoso?».
Mi guardai anch’io la suola, sperando magari di trovare qualche filamento
appiccicaticcio, come del formaggio fuso, che mi impastoiasse al terreno.
Quando il tuo migliore amico è il figlio di Dio, dopo un po’ ti stanchi di uscire
sconfitto da qualunque discussione. «Solo perché non lo vedi, non significa
che non lo sia».
Gesù fece roteare gli occhi. «Andiamo a nuotare». Scese dalla collina.
«E che mi dici di Dio?» chiesi. «Non puoi vederlo».
Si fermò a metà pendio e allargò le braccia verso la brillante distesa di
acqua verde. «No?».
«È una merda di discussione, Gesù». Lo seguii, gridando mentre
camminavo. «Se non ci provi, non discuterò più con te. E se l’appiccicatura è
come Dio? Sai cosa intendo: Lui abbandona il nostro popolo e lo conduce alla
schiavitù ogni volta che smettiamo di credere nella Sua esistenza. Il concetto
di appiccicatura potrebbe essere equivalente. Potresti fluttuare in cielo da un
momento all’altro perché non ci credi».
«È bello che tu abbia qualcosa in cui credere, Biff. Io vado in acqua».
Corse lungo la spiaggia, spogliandosi, e poi si tuffò tra i frangenti, nudo.
Dopo, quando entrambi avevamo inghiottito tanta acqua salata da sentirci
male, risalimmo la costa verso la città di Tolemaide.
«Non pensavo fosse così salata» osservò Gesù.
«Già. Non lo diresti mai, guardandola».
«Sei ancora arrabbiato per via della tua teoria sulla terra- rotonda-e-
appiccicosa?».
«Non mi aspetto che tu capisca» dissi con fare molto maturo, o almeno
così pensai. «Essendo vergine e tutto il resto».
Gesù si fermò e mi prese per una spalla, costringendomi a girarmi e a
guardarlo in faccia. «Mentre tu passavi la notte con Maddi, io pregavo mio
padre di non farmi pensare a voi due. Non mi ha risposto. È stato come
dormire su un letto di spine. Da quando siamo partiti ho cominciato a
dimenticare, o almeno a lasciarmi tutto alle spalle, ma tu continui a
sbattermelo in faccia».
«Hai ragione» dissi. «Avevo dimenticato quanto voi vergini possiate essere
sensibili».
E a quel punto il Principe della Pace mi diede un pugno che mi fece
perdere i sensi. Non fu la prima né l’ultima volta. Un pugno ossuto da
scalpellino proprio sopra l’occhio destro. Mi colpì con più forza di sempre.
Ricordo i bianchi uccelli marini nel cielo sopra di me, e solo uri ciuffo di
nuvole nella distesa azzurra. I frangenti spumosi che m’investivano il viso
lasciandomi la sabbia nelle orecchie. E ricordo di aver pensato che dovevo
alzarmi e dargli una botta in testa; e che, se l’avessi fatto, lui avrebbe potuto
mollarmi un altro pugno. Così rimasi lì disteso per un momento, e pensai.
«Allora, che cosa vuoi?» gli chiesi alla fine, dalla mia posizione supina,
bagnata e sabbiosa.
Lui era in piedi sopra di me con le mani strette a pugno. «Se vuoi
continuare a parlarne, devi raccontarmi i dettagli».
«Sì, posso farlo».
«E non tralasciare niente».
«Niente?».
«Devo sapere, se voglio comprendere il peccato».
«Okay. Posso alzarmi? Mi si stanno riempiendo le orecchie di sabbia».
Mi aiutò a rimettermi in piedi e, mentre entravamo nella città marittima di
Tolemaide, gli tenni una lezione sul sesso.
Intanto, percorrevamo strette strade di pietra tra alti muri pure di pietra.
«Be’, gran parte delle cose che abbiamo sentito dal rabbino non erano
proprio accurate».
Superammo uomini seduti fuori dalle case che rammendavano le loro reti.
Bambini che vendevano tazze di succo di melograno, donne che appendevano
stringhe di pesci a essiccare alle finestre.
«Per esempio, hai presente quella parte in cui la moglie di Lot viene
trasformata in pietra e le sue figlie si ubriacano e fornicano con lui?».
«Sì, dopo che Sodoma e Gomorra sono state distrutte».
«Sai, non è male come sembra».
Passammo accanto a un gruppo di donne fenicie che cantavano mentre
tritavano il pesce essiccato per la cena. E ad alcune pozze per l’evaporazione,
dove i bambini grattavano dalle rocce il sale incrostato e lo mettevano in
alcune sacche.
«Ma la fornicazione è peccato, e fornicare con le proprie figlie è… non so,
un doppio peccato».
«Sì, ma dimentica quella parte per un secondo e concentrati sulle due
ragazze: non è male come sembra all’inizio».
«Oh».
Superammo mercanti che vendevano frutta, pane e olio, spezie e incenso,
declamando le qualità e la magia delle proprie merci. C’era un sacco di magia
in vendita a quei tempi.
«E il Cantico dei Cantici è molto più vicino, e ti fa capire perché Salomone
avesse mille mogli. In effetti, con il fatto che sei il Figlio di Dio e tutto il
resto, non credo che avresti problemi a procurarti un bel po’ di ragazze.
Voglio dire, una volta che hai capito che cosa ci fai al mondo».
«E avere un bel po’ di ragazze è cosa buona?».
«Tu sei stupido, non è vero?».
«Pensavo saresti stato un po’ più preciso. Che cosa c’entra Maddi con Lot
e Salomone?».
«Non posso parlarti di me e Maddi, Gesù. Proprio non posso».
Stavamo passando davanti a un gruppetto di prostitute raccolte davanti alla
porta di una locanda. Avevano il viso truccato, la gonna strappata lungo il
fianco per mostrare le gambe luccicanti d’olio, ci chiamavano in lingue
straniere e facevano danzare le mani.
«Che diavolo stanno dicendo?» chiesi al mio amico. Era più bravo di me
con le lingue. Credo parlassero greco.
«Qualcosa a proposito del fatto che apprezzano noi ragazzi ebrei perché
sentiamo meglio la lingua di una donna, senza il prepuzio». Mi guardò come
se potessi confermare o negare quell’affermazione.
«Quanti soldi abbiamo?» gli chiesi.

La locanda affittava camere, cubicoli e lo spazio sotto le grondaie per
dormire. Prendemmo due cubicoli adiacenti: un lusso per noi due, che però
era fondamentale per l’educazione di Gesù. Dopotutto, non avevamo
intrapreso questo viaggio affinché imparasse a fare il Messia?
«Non sono sicuro che dovrei guardare» mi disse. «Ricorda che Davide
stava correndo sui tetti e sorprese Betsabea mentre faceva il bagno. E quel
fatto scatenò un’intera catena di peccati».
«Ma ascoltare non sarà un problema».
«Non credo sia la stessa cosa».
«Sei certo di non voler provare di persona, Gesù? Voglio dire, l’angelo non
è mai stato chiaro a proposito del permesso di stare con una donna». A essere
onesti, io stesso ero un po’ spaventato. A stento la mia esperienza con Maddi
mi dava la qualifica necessaria per andare con una prostituta.
«No, vai tu. Descrivimi solo quello che succede e quello che senti. Devo
comprendere il peccato».
«Okay, se insisti».
«Sei un vero amico a fare questo per me, Biff».
«Non solo per te, Gesù. Lo faccio per il nostro popolo».
E così finimmo nei due cubicoli. Lui sarebbe rimasto nel suo, mentre io
dall’altro - con la puttana che avevo scelto - l’avrei istruito sulla raffinata arte
della fornicazione.
Uscii e, davanti all’entrata della locanda, scelsi e pagai la mia assistente
insegnante. Era una locanda con otto prostitute, se è in base a questo che si
classificano posti del genere. (Adesso so che la qualifica si basa sul numero di
stelle. In questo momento ci troviamo in un albergo a quattro stelle. Non so
come funzioni la conversione da prostitute a stelle.) Comunque, quel giorno
c’erano otto signorine fuori dalla locanda. Le più giovani avevano, solo
qualche anno più di noi, le più vecchie erano più anziane delle nostre madri. E
avevano ogni tipo di forma e dimensione. In comune avevano solo il trucco
pesante e le gambe ben unte d’olio.
«Sono tutte così… brutte».
«Sono prostitute, Biff. Devono essere brutte. Scegline una».
«Andiamo a cercarne altre». Eravamo a qualche porta di distanza, ma
sapevano che le stavamo guardando. Mi avvicinai e mi fermai accanto a una
prostituta particolarmente alta. «Scusa» dissi «sai dove possiamo trovare un
altro gruppo di prostitute? Senza offesa, è solo che il mio amico e io…».
Lei aprì la veste e mostrò due seni pieni che brillavano d’olio e pagliuzze
di mica, scostò la gonna e mi circondò la schiena con una gamba lunghissima,
e io sentii i peli ruvidi tra le sue gambe che premevano contro il mio fianco, e
i capezzoli tinti di rosso che mi sfioravano la guancia… e in quell’istante mi
si rizzò la verga.
«Questa andrà bene, Gesù».
Le altre prostitute si lasciarono andare a ululati esaltati, mentre la
portavamo via. (L’ululato somiglia al suono che fanno le ambulanze. Il fatto
che abbia un’erezione ogni volta che ne passa una davanti all’albergo
potrebbe sembrare morboso, se non conosceste la storia di Come Biff
aggancia una prostituta) Si chiamava Set. Era più alta di me di una testa e
mezza, con la pelle del colore di un dattero maturo, i grandi occhi castani
screziati d’oro e i capelli così neri che alla luce fioca del cubicolo avevano un
riflesso blu. Incarnava perfettamente la figura della prostituta: era larga dove
una donna del mestiere doveva essere larga, stretta dove doveva essere stretta,
e aveva caviglie e collo delicati; conoscendo il mestiere, era intrepida e
risoluta una volta che aveva preso i suoi soldi. Era egiziana, ma aveva
imparato il greco e un po’ di latino per lubrificare la conversazione quando si
trovava al lavoro. La nostra situazione richiese più creatività rispetto alle sue
abitudini, ma dopo un profondo sospiro borbottò una frase del genere: «Se ti
capita un ebreo, nel letto devi far spazio al suo senso di colpa». Poi mi
trascinò nel mio cubicolo e chiuse lo sportello. (Sì, i cubicoli in realtà erano
stalle e venivano usati per gli animali. Di fronte a quella di Gesù c’era un
asino.)
«Allora, che cosa sta facendo?» chiese lui.
«Mi sta spogliando».
«E adesso?».
«Si sta spogliando lei. Oh, cribbio. Ouch».
«Che c’è? State fornicando?».
«No. Si sta strusciando addosso a me, con leggerezza. Quando provo a
muovermi mi dà uno schiaffo».
«E com’è?».
«Tu che cosa pensi? Come se qualcuno ti prendesse a schiaffi, stupido».
«Voglio dire, com’è sentire il suo corpo sul tuo? Hai la sensazione di
peccare? E come se ti si stesse strusciando addosso Satana? Ti senti bruciare
come fuoco?».
«Sì, ci hai preso. È proprio come dici tu».
«Stai mentendo».
«Ma che dici!».
Poi Gesù disse qualcosa in greco che non afferrai completamente, e la
prostituta gli rispose, o quasi.
«Che cos’ha detto?» chiese Gesù.
«Non lo so, il mio greco è scadente».
«Il mio no, ma non ho capito che cos’ha detto».
«Ha la bocca piena».
Set si tirò su. «Non proprio piena» disse in greco.
«Ehi, questo l’ho capito!».
«Te l’ha preso in bocca?».
«Sì».
«Ma è atroce».
«Non sembra proprio».
«No?».
«No, Gesù, devo dirtelo, questo è proprio… oh, mio Dio!».
«Cosa? Che sta succedendo?».
«Si sta rivestendo».
«Hai finito di peccare? Basta?».
La prostituta disse qualcosa in greco che non capii.
«Che cos’ha detto?» chiesi.
«Che per la somma di denaro che le abbiamo dato non ti farà altro».
«Pensi di aver compreso la fornicazione, adesso?».
«Non proprio».
«Bene, allora dalle altri soldi, Gesù. Rimarremo qui fino a quando non
avrai imparato tutto quello che ti serve».
«Sei davvero un buon amico a sopportare tutto questo per me».
«Non dirlo neanche».
«No, sul serio. Non c’è amore più grande di quello che un uomo prova per
un amico».
«Questa è buona, Gesù. Dovresti ricordarla per il futuro».
A quel punto intervenne la prostituta. «Vuoi sapere com’è per me,
ragazzo? È lavoro. E questo significa che se vuoi andare fino in fondo, devi
pagare. Ecco com’è». (In seguito Gesù avrebbe tradotto per me.)
«Che cos’ha detto?».
«Vuole il prezzo del peccato».
«E sarebbe?».
«In questo caso, tre sicli».
«È un affare. Pagala».

Nonostante i miei sforzi, e furono molti, apparentemente non riuscivo a
comunicare al mio amico quello che voleva sapere. Durante la settimana
successiva andai con altre sei prostitute e spesi gran parte dei soldi del
viaggio, ma lui continuava a non capire. Gli suggerii che forse questa era una
di quelle cose che avrebbe dovuto insegnargli il mago Baldassarre. A dire il
vero, avvertivo una sensazione di bruciore quando facevo pipì ed ero pronto a
prendermi una pausa come istruttore nell’arte del peccato.

«Via mare raggiungeremo Seleucia in una settimana al massimo, e da lì ad
Antiochia è solo un giorno di cammino nell’entroterra» disse Gesù, dopo aver
parlato con alcuni marinai che stavano bevendo alla locanda. «Via terra
impiegheremmo due o tre settimane».
«Andiamo per mare, allora» dissi. Un atto piuttosto coraggioso, pensai,
considerato che in vita mia non avevo mai messo piede su una barca.
Trovammo una nave da carico romana; era larga e con la poppa sollevata,
ed era diretta a Tarso, ma avrebbe fatto sosta in tutti i porti lungo il tragitto,
incluso quello di Seleucia. Il capitano era un fenicio dai lineamenti affilati di
nome Titus Inventius, che sosteneva di aver preso il mare quando aveva
quattro anni e di essere arrivato fino ai confini del mondo due volte prima che
gli cadessero le palle, anche se non capii mai che cosa c’entrassero le due
cose.
«Che cosa sapete fare? Qual è il vostro mestiere?» chiese Titus da sotto un
grande cappello di paglia, mentre osservava gli schiavi che caricavano giare
di vino e di olio sulla nave. I suoi occhi erano perline nere infossate in due
grotte di rughe, provocate da una vita passata al sole.
«Be’, io sono uno scalpellino e il mio amico è il Figlio di Dio». Ghignai.
Pensai che un tocco di diversità non avrebbe fatto male.
Titus si rimise il cappello di paglia in testa e squadrò Gesù. «Il Figlio di
Dio, eh? E come ti guadagni da vivere?».
Gesù mi lanciò un’occhiataccia. «So fare lo scalpellino e il falegname, e
abbiamo entrambi la schiena robusta».
«Non c’è molta pietra da lavorare, a bordo di una nave. Siete mai stati in
mare?».
«Sì» dissi.
«No» disse lui.
«Quel giorno stava male. Io ci sono stato, però».
Titus rise. «D’accordo, andate a dare una mano a trasportare quelle giare.
Devo portare un carico di maiali a Sidon; badate a tenerli calmi e a non farli
morire con questo caldo, e magari quando salperò vi avrò trovato qualcosa da
fare. Ma il viaggio vi costerà comunque».
«Quanto?» chiese Gesù.
«Quanto avete?».
«Cinque sicli» risposi.
«Venti sicli» rispose Gesù.
Gli diedi una gomitata nelle costole, abbastanza forte da farlo piegare in
due. «Dieci» dissi. «Intendevo dire cinque ciascuno». Ebbi l’impressione di
negoziare con me stesso, per giunta con scarso successo.
«Allora fanno dieci sicli più il lavoro che vi troverò da fare. Ma se
vomitate sulla mia nave finite in mare, mi avete sentito? Dieci sicli o non se
ne fa nulla».
«Va bene» dissi mentre tiravo Gesù lungo la banchina, verso il punto in cui
c’erano gli schiavi che stavano caricando le giare.
Quando fummo abbastanza lontani e il capitano non poteva più sentirci, mi
disse: «Devi dirgli che siamo ebrei e non possiamo badare ai maiali».
Afferrai un’enorme giara di vino per i manici e cominciai a trascinarla
verso la nave. «È tutto a posto, sono maiali romani. È diverso».
«Oh, d’accordo». Agganciò la sua giara e se la caricò sulla schiena. Poi
realizzò quello che gli avevo detto e la rimise giù. «Ehi, aspetta. Non funziona
così».

Il mattino dopo partimmo. Gesù, io, un equipaggio di trenta uomini, Titus
e cinquanta maiali presumibilmente romani.
Fino a quando non sciogliemmo gli ormeggi (io e il mio amico
manovravamo uno dei lunghi remi) e non uscimmo dal porto; fino a quando
non tirammo i remi in barca e la grande vela quadrata non si gonfiò sopra il
ponte come il ventre di un demonio vorace; fino a quando Gesù e io non ci
arrampicammo a poppa - dove Titus stava in piedi sul ponte rialzato per
manovrare una delle due lunghe barre del timone - e non guardai la città, ora
ridotta a una macchiolina all’orizzonte; fino a quel momento, dicevo, non
potevo sapere quanto fosse profonda la mia paura del mare.
«Siamo troppo lontani dalla terraferma» dissi. «Troppo, troppo lontani.
Devi decisamente avvicinarti, Titus». Gli indicai la costa, nel caso non
sapesse dove andare.
Sensato, no? Voglio dire, ero cresciuto in una regione arida, nell’entroterra,
dove persino i fiumi sono poco più che umidi fossati. Il mio popolo veniva dal
deserto. L’unica volta in cui si era trovato a dover attraversare il mare l’aveva
fatto a piedi. Insomma… viaggiare in nave era del tutto innaturale.
«Se il Signore avesse voluto che navigassimo ci avrebbe creato con…
ehm… degli alberi» osservai.
«Questa è la cosa più stupida che tu abbia mai detto».
«Sai nuotare?» mi chiese Titus.
«No».
«Sì che è capace» disse Gesù.
Il capitano mi afferrò per la collottola e mi buttò oltre la poppa.
10

L’angelo e io stavamo guardando un film su Mosè. Raziel era arrabbiato
perché non c’erano angeli. E nessuno somigliava vagamente agli egizi che mi
era capitato di incontrare.
«Mosè era così?» gli ho chiesto. Lui stava addentando la crosta di una
pizza al formaggio di capra mentre sputava vetriolo contro lo schermo.
«No. Ma quell’altro somiglia al faraone».
«Davvero?».
«Sì». Si è scolato quel che restava della sua Coca-Cola con la cannuccia,
facendo rumori sgradevoli, poi ha gettato il bicchiere di carta nel cestino
dall’altra parte della stanza.
«Quindi tu c’eri ai tempi dell’Esodo?».
«Appena prima. Ero l’incaricato delle locuste».
«E com’è stato?».
«Non m’importava nulla di quella piaga. Io volevo quella delle rane. Mi
piacciono le rane».
«Anche a me».
«Ma la piaga delle rane non ti sarebbe piaciuta. Se ne occupò Stephan. Un
serafino». Ha scosso il capo come se dovessi sapere qualche fatto triste e
segreto a proposito dei serafini. «Perdemmo un sacco di rane. Ma suppongo
sia stato meglio così» ha detto con un sospiro. «Non puoi affidare una piaga
come quella a qualcuno a cui piacciono le rane. Se fosse toccata a me, sarebbe
stata più un’amichevole festicciola con quei deliziosi animaletti».
«Non avrebbe funzionato» gli ho fatto notare.
«Be’, non funzionò comunque. Voglio dire, fu Mosè, un ebreo, ad avere
l’idea. Quelle bestiole erano immonde per gli ebrei. Le consideravano una
piaga. Per gli egizi fu come ricevere una pioggia di zampe di rana dal cielo.
Mosè si lasciò sfuggire quel particolare. Posso solo dire di essere felice che
nessuno gli abbia prestato ascolto quando propose la piaga dei maiali».
«Sul serio voleva mandare la piaga dei maiali? Maiali che cadono dal
cielo?».
«Pezzi di maiale. Costicine, prosciutti, zampe. E tutto doveva essere
coperto di sangue. Sai, maiali immondi e sangue impuro. Il maiale gli egizi
l’avrebbero mangiato. Fummo noi a persuaderlo a scegliere solo il sangue».
«Mi stai dicendo che Mosè era scemo?». Non era ironia la mia: mi rendevo
conto che lo stavo domandando all’eterno stupido per eccellenza. Eppure…
«No, solo che l’esito non gli interessava» mi ha risposto. «Dio aveva
indurito il cuore del faraone, che non voleva lasciar libero il popolo ebraico.
Avremmo potuto far cadere dei buoi dal cielo, e lui non avrebbe comunque
cambiato idea».
«Sarebbe stato un bello spettacolo».
«Io suggerii di far piovere fuoco».
«E come andò?».
«Fu davvero bello. Lo facemmo piovere solo su palazzi di pietra e
monumenti. Bruciare tutti gli ebrei sarebbe stato controproducente».
«Ottima osservazione».
«Be’, me la cavo con i fenomeni atmosferici».
«Sì, lo so». Poi ho riflettuto un istante sul modo in cui Raziel aveva quasi
portato all’esaurimento il nostro povero cameriere, facendosi portare chili di
costolette quando erano indicate come piatto del giorno.
«All’inizio non suggeristi il fuoco, non è vero? Suggeristi soltanto maiale
alla griglia».
«Quel tipo non somiglia affatto a Mosè» ha detto lui.

Quel giorno, mentre agitavo mani e braccia e nuotavo cercando di
raggiungere il mercantile che solcava le acque a vele spiegate, capii per la
prima volta che cosa significava “cavarsela con i fenomeni atmosferici”, per
usare l’espressione di Raziel. Gesù era chino sul parapetto di poppa e gridava
alternativamente a me e a Titus. Era piuttosto evidente che, nonostante il
vento leggero, non sarei mai riuscito a raggiungere la nave; e quando mi
voltavo a guardare la costa non vedevo che acqua. Strane le cose che ti
vengono in mente in momenti come quelli. Subito pensai: «Che modo
incredibilmente stupido di morire». E poi: «Gesù non ce la farà mai senza di
me». E a quel punto cominciai a pregare, non per me ma per il mio amico.
Pregai Dio di mantenerlo sano e salvo, e pregai perché Maddi stesse bene e
fosse felice. Poi, mentre mi scrollavo di dosso la veste e cominciavo a
strisciare lentamente in direzione della costa - che sapevo non avrei mai più
rivisto - il vento cessò. Cessò, semplicemente. Il mare divenne piatto e l’unico
suono che sentivo erano le urla spaventate dell’equipaggio della nave, ferma
come se fosse all’ancora.
«Biff, da questa parte!».
Mi voltai e vidi il mio amico farmi cenni dalla poppa del veliero
abbonacciato. Accanto a lui, Titus si acquattò come un bimbo terrorizzato.
Sull’albero sopra le loro teste, sedeva una figura alata: quando raggiunsi la
nave a nuoto e fui tirato su da un gruppo di marinai alquanto spaventati,
riconobbi l’angelo Raziel. A differenza delle altre volte, indossava una veste
nera come la pece, e le piume delle ali avevano il bagliore nero- blu del mare
sotto la luce della luna. Quando mi avvicinai a Gesù sul cassero di poppa,
l’angelo si alzò in volo e atterrò delicatamente accanto a noi. Titus si stava
riparando la testa con le braccia, quasi a respingere un assalitore, e dava
l’impressione di volersi dissolvere tra le assi del ponte.
«Tu» disse Raziel al fenicio, e Titus lo guardò senza spostare le braccia.
«A questi due non deve accadere nulla di male».
L’uomo annuì e cercò di dire qualcosa, ma rinunciò quando gli si ruppe la
voce sotto il peso della paura. Io stesso ero un po’ spaventato. Così in
ghingheri, tutto in nero, l’angelo era davvero terrificante nonostante fosse
dalla nostra parte. Gesù, d’altro canto, sembrava completamente a suo agio.
«Grazie» gli disse. «E un vigliacco, ma è il mio migliore amico».
«Me la cavo bene con i fenomeni atmosferici» disse Raziel. E, come se
queste parole bastassero a spiegare ogni cosa, sbatté le ali nere e imponenti e
si sollevò dal ponte. Il mare rimase assolutamente piatto fino a quando
l’angelo non scomparve oltre l’orizzonte, poi si levò la brezza, le vele si
gonfiarono e le onde cominciarono a sciabordare contro la prua. Titus si
azzardò a sbirciare dalla sua posizione accovacciata, poi si alzò lentamente e
prese sottobraccio uno dei remi timonieri.
«Credo che avrò bisogno di una veste nuova» dissi.
«Puoi prendere la mia» propose Titus.
«Dovremmo navigare più vicino alla costa, non pensi?» chiesi.
«Ci stiamo avvicinando, mio buon maestro. Ci stiamo avvicinando».
«Tua madre mangia i funghi dai piedi dei lebbrosi» dissi.
«Infatti intendo parlargliene».
«Quindi ci capiamo».
«Sicuramente».
«Merda» fece Gesù. «Mi sono scordato di nuovo di chiedere all’angelo
della conoscenza delle donne».

Durante il resto del viaggio, Titus fu molto più disponibile e, cosa piuttosto
strana, quando entravamo in un porto non dovevamo maneggiare uno degli
enormi remi, né dare una mano a scaricare o a caricare merci. L’equipaggio ci
evitava del tutto e badava ai maiali al posto nostro senza che l’avessimo
chiesto.
Dopo un giorno la mia paura di navigare si placò e, mentre la brezza
costante ci portava a nord, Gesù e io guardavamo i delfini che venivano a
cavalcare l’onda di prua; oppure, la notte, ci sdraiavamo sul ponte e
respiravamo il profumo di cedro che saliva dalle tavole della nave, ascoltando
il cigolio del sartiame e cercando di immaginare a voce alta l’incontro con
Baldassarre. Se Gesù non avesse continuato a tormentarmi riguardo al sesso,
sarebbe stato davvero un viaggio piacevole.
«La fornicazione non è l’unico peccato, Gesù» cercai di spiegargli. «Io
sono felice di darti una mano, ma vuoi che mi metta a rubare per spiegarti
come si pecca? O forse vuoi che uccida qualcuno per farti capire?».
«No, la differenza è che io non voglio uccidere nessuno».
«Okay, te lo ripeto. Tu hai i tuoi lombi e lei ha i suoi e, anche se il nome è
lo stesso, sono diversi…».
«La meccanica la capisco. Quello che mi sfugge è la sensazione».
«Be’, è positiva, questo te lo posso dire».
«Ma c’è qualcosa di ingiusto in tutto questo. Perché Dio dovrebbe rendere
il peccato piacevole, e poi condannare l’uomo perché pecca?».
«Ascolta, perché non lo provi? Ci costerebbe meno. O, meglio ancora,
sposati. Così non sarebbe più un peccato».
«Quindi non sarebbe la stessa cosa, no?».
«Come faccio a saperlo? Non sono mai stato sposato».
«Per te è sempre uguale?».
«Per certi aspetti sì».
«Cioè?».
«Finora posso dirti che è… bagnato».
«Bagnato?».
«Sì, ma non posso dire che è sempre così: questa è la mia esperienza.
Dovremmo forse chiederlo a una prostituta?».
«Meglio ancora» disse lui dandosi un’occhiata intorno. «Lo chiederò a
Titus. È più vecchio e ha l’aria di aver peccato parecchio».
«Sì, be’, se consideri peccato gettare in mare gli ebrei direi che è un
esperto. Ma non significa che…».
Gesù era corso a poppa ed era salito su per la scaletta che portava al
cassero, e lì si era diretto alla tenda aperta che fungeva da alloggio del
capitano. Titus era disteso su un mucchio di tappeti e stava bevendo da un
otre, che porse a Gesù.
Quando lo raggiunsi, il capitano stava dicendo: «Allora vuoi sapere che
cosa significa fottere? Bene, figliolo, sei venuto nel posto giusto. Mi sono
fottuto un migliaio di donne, mezzo migliaio di ragazzi, qualche pecora, dei
maiali, dei polli e, sì, mi è capitata anche qualche tartaruga. Cos’è che vuoi
sapere?».
«Stai lontano da lui, Gesù» dissi, togliendogli l’otre e restituendolo a Titus,
mentre spingevo via il mio amico. «L’ira di Dio potrebbe colpirlo da un
momento all’altro. Cribbio, una tartaruga: dev’essere per forza un abominio».
Titus indietreggiò quando menzionai l’ira di Dio, come se l’angelo potesse
tornare da un momento all’altro per appollaiarsi sul suo albero.
Ma Gesù non si mosse. «Per ora atteniamoci alle donne, se per te va bene».
Gli diede un colpetto al braccio per rassicurarlo. Sapevo che cosa si provava
sentendo quel tocco: la paura sarebbe scivolata via dal suo corpo come acqua.
«Ho fottuto con ogni genere di donna esistente. Egiziane, greche, romane,
ebree, etiopi, donne provenienti da luoghi che ancora non hanno un nome. Ho
fottuto con donne grasse e ossute, con donne senza gambe, o con…».
«Sei sposato?» lo interruppe Gesù, prima che il marinaio cominciasse a
raccontargli di come aveva fottuto chiuso in una cassapanca, in una nassa,
dietro a un muro, su un tavolo duro…
«Ho una moglie a Roma».
«È uguale farlo con lei o con una prostituta?».
«Fare cosa, fottere? No, non è affatto la stessa cosa».
«È bagnato» intervenni. «Vero?».
«Be’, sì, lo è. Ma non…».
Afferrai Gesù per la veste e cominciai a trascinarlo via. «Ecco, perfetto.
Andiamo, Gesù. Adesso sai che il peccato è bagnato. Prendi un appunto
mentale. Vieni, mangiamo qualcosa».
Titus rideva. «Voi ebrei e i vostri peccati. Sapete, se aveste altri dei non
dovreste preoccuparvi tanto di averne fatto arrabbiare uno».
«Giusto» dissi. «Ho tutta l’intenzione di accettare consigli spirituali da
parte di un tizio che si fotte le tartarughe».
«Non dovresti dare giudizi in questo modo, Biff» mi ammonì il mio amico.
«Nemmeno tu sei senza peccato».
«Oh, tu e il tuo atteggiamento da “sono più santo di te”. D’ora in poi puoi
peccare per conto tuo, se è così che ti senti. Credi che mi diverta ad andare a
letto con le prostitute notte dopo notte e a descriverti tutto il procedimento?».
«Penso di sì».
«Non è questo il punto. Il punto è che… il punto… be’… è la colpa.
Voglio dire… le tartarughe. Cioè…». D’accordo, ero confuso. Giudicatemi
pure. Non sarei più riuscito a guardare una tartaruga senza immaginarmela
mentre veniva molestata da un marinaio fenicio sporco e trasandato. La cosa
non vi disturba? Pensateci. Posso aspettare. Capite che cosa voglio dire?
«È impazzito» disse Titus.
«Tu taci, brutta vipera con lo scorbuto» lo zittì Gesù.
«Che ne è stato del tuo “non dare giudizi”?» ribatté il marinaio.
«Quello era per Biff. Lui è diverso da me». E d’un tratto, dopo aver
pronunciato quella frase, divenne triste come non l’avevo mai visto. Si
trascinò stancamente verso il porcile, si mise seduto e si prese la testa tra le
mani, come se fosse appena stato incoronato con tutte le preoccupazioni
dell’umanità. E rimase così, in disparte, fino a quando non lasciammo la nave.

La Via della Seta, l’arteria principale che rendeva possibili il commercio e
lo scambio di abitudini e culture tra il mondo romano e l’Estremo Oriente,
terminava in riva al mare a Seleucia Pieria, sbocco portuale e fortezza navale
che nutriva e difendeva Antiochia dai tempi di Alessandro. Quando
lasciammo la nave insieme al resto dell’equipaggio, il capitano Titus ci bloccò
sulla passerella. Ci tese le sue mani con i palmi rivolti in basso e lasciò cadere
nelle nostre le monete che gli avevamo dato per pagarci il passaggio. «Avrei
potuto avere un paio di scorpioni, ma voi due mi avete teso le mani senza
pensarci due volte».
«Era un prezzo onesto» disse Gesù. «Non devi restituirci i soldi».
«Ho quasi fatto affogare il tuo amico. Mi dispiace».
«Hai chiesto se sapeva nuotare prima di gettarlo in acqua. Aveva avuto una
possibilità».
Guardai il mio amico negli occhi per capire se stesse scherzando, ma era
palesemente serio.
«Eppure…» obiettò Titus.
«Forse anche a te sarà data una possibilità, un giorno».
«Una possibilità minuscola» aggiunsi.
Titus mi guardò con un ghigno. «Seguite il porto fino a quando non
incontrate un fiume. Quello è l’Oronte. Risalite la sponda sinistra e sarete ad
Antiochia prima che faccia notte. Al mercato troverete una vecchia che vende
erbe e amuleti. Non ricordo il suo nome, ma ha un occhio solo e indossa una
tunica tinta con porpora di Tiro. Se esiste un mago ad Antiochia, lei saprà
dove trovarlo».
«Com’è che la conosci?» gli chiesi.
«Compro da lei la mia polvere di pene di tigre».
Gesù mi guardò per avere una spiegazione. «Che c’è?» feci. «Sono stato
con un paio di prostitute, non scambio ricette con loro». Poi lanciai
un’occhiata a Titus. «Forse dovrei?».
«È per le ginocchia. Mi fanno male quando piove».
Gesù mi afferrò per una spalla e cominciò a portarmi via. «Vai con Dio,
Titus» gli disse.
«Metti una buona parola per me con l’angelo dalle ali nere».
Una volta immersi nel flusso di mercanti e marinai intorno al porto, dissi:
«Ci ha restituito i soldi perché l’angelo gli ha messo paura, lo sai?».
«Quindi la sua gentilezza ha dissipato le sue paure oltre a far bene a noi.
Tanto meglio. Credi che a Pasqua i sacerdoti sacrifichino gli agnelli per
motivi migliori?».
«Oh, giusto». Non avevo idea del legame esistente tra le due cose: mi
stavo ancora chiedendo se le tigri si sarebbero fatte triturare il pene senza
opporsi. (Le rende mansuete, suppongo, ma dev’essere un lavoro pericoloso.)
«Andiamo a cercare quella vecchia» dissi.
La sponda dell’Orante era un fiume di vita, colori, tessuti e odori, dal porto
fino al mercato di Antiochia. C’era gente di ogni forma e colore
immaginabile, qualcuno scalzo e vestito di stracci, qualcun altro abbigliato
con sete costose e lino color porpora di Tiro, che si diceva venisse tinto con il
sangue di una lumaca velenosa. C’erano carri trainati da buoi, lettighe e
portantine trasportate anche da otto schiavi. I soldati romani a cavallo e a
piedi vigilavano sulla folla, mentre marinai provenienti da una dozzina di
nazioni si godevano le bevande, il rumore e la sensazione della terra sotto i
piedi. Mercanti, mendicanti e prostitute si contendevano le monete, mentre
presunti poeti declamavano dogmi in cima a pali da ormeggio lungo il fiume,
dove attraccavano le navi: santi uomini che predicavano allineati come
vistose colonne greche. Il fumo si levava blu e fragrante sopra il fiume di
folla, trasportando un buon odore di spezie e di grasso proveniente dai
bracieri che ardevano nelle bancarelle dei cibi, dove uomini e donne
vendevano le loro merci al ritmo di musiche ossessive che si diffondevano al
tuo passaggio: sembrava quasi che ogni venditore offrisse la sua canzone al
proprio vicino, impedendoti di avere un solo secondo di silenzio.
L’unica cosa paragonabile a quello che vedevo era la fila di pellegrini che
entrava a Gerusalemme nei giorni di festa, ma là non avevamo mai trovato
tanti colori e tanto rumore, e non avevamo mai provato tanta eccitazione.
Ci fermammo a una bancarella e comprammo una bevanda calda e nera da
un vecchio rugoso che indossava come cappello la carcassa di un uccello
conciato. Ci mostrò come la preparava: arrostiva i semi di alcune bacche,
quindi li triturava e li mescolava con l’acqua bollente. Raccontò l’intera storia
a mo’ di pantomima, dal momento che non parlava nessuna delle lingue a noi
note. Aggiunse del miele e ce la fece assaggiare. Ma c’era qualcosa che non
andava: sembrava… non so, troppo nera. Vidi una donna con una capra, a
breve distanza da noi, tolsi la scodella dalle mani di Gesù e la seguii di corsa.
Con il suo permesso, spremetti la mammella della capra e spruzzai un po’ di
latte nella bevanda. Il vecchio protestò, quasi avessimo commesso una sorta
di sacrilegio, ma il latte era uscito caldo e schiumoso e riuscì a togliere il
gusto amaro di quel liquido nero. Gesù vuotò la sua scodella e ne chiese altre
due al vecchio, mentre diede una moneta di rame alla donna per il suo
disturbo. Quindi, fece assaggiare la bevanda così modificata al vecchio che,
dopo diverse smorfie, ne prese un sorso. La sua bocca sdentata s’incurvò in
un sorriso e, prima che ce ne fossimo andati, sembrò concludere una specie di
accordo con la padrona della bestia. Rimasi a guardarlo mentre macinava i
suoi chicchi in un cilindro di rame; intanto, la donna mungeva la capra
raccogliendo il latte in un capiente vaso d’argilla. Lì accanto c’era un
venditore di spezie e sentivo il profumo di cannella, chiodi di garofano e
pepe, esposti nelle ceste allineate a terra.
Mi rivolsi alla donna in latino. «Quando avrete perfezionato la miscela,
provate ad aggiungere un pizzico di cannella macinata. Credo che il risultato
sarà ottimo».
«Stai perdendo il tuo amico» disse. Mi girai e mi guardai intorno, e notai la
testa di Gesù proprio mentre svoltava un angolo all’interno del mercato di
Antiochia, infilandosi in un nuovo fiume di persone. Mi misi a correre per
raggiungerlo.
Mentre camminava andava addosso ai passanti, apparentemente di
proposito, e ogni volta che urtava qualcuno con la spalla o con il gomito
borbottava qualche parola, alzando la voce quel tanto che bastava per
permettermi di sentire. «Ho guarito quel ragazzo. E quella donna. Ho messo
fine alle sofferenze di quella giovane. Ho guarito quell’uomo. Ho confortato
quell’altro. Quel tizio era solo un fetente. Ho guarito quella donna. Ops,
quello l’ho mancato. Guarito. Guarita. Confortata. Calmato».
Le persone si voltavano a squadrarlo con lo sguardo che si rivolge a un
estraneo che ti ha pestato un piede. Solo che sembravano tutte o sorridenti o
sconcertate, nessuno si mostrava infastidito come mi sarei aspettato.
«Che stai facendo?».
«Pratica. Oh, che dito malconcio». Si girò sul tallone, quasi perdendo il
sandalo, e diede uno schiaffo a un ometto calvo. «Adesso va meglio».
Il tizio si girò per guardare chi l’aveva colpito. Gesù stava camminando
all’indietro. «Come va il dito del piede?» gli chiese in latino.
«Bene» rispose lui nella stessa lingua e sorrise. Un sorriso scemo e
sognante, come se il suo dito gli avesse appena comunicato che al mondo
andava tutto bene.
«Vai con Dio e…». Gesù si girò, fece un salto e atterrò posando le mani
sulle spalle di due estranei, gridando: «Sì! Doppia guarigione! Andate con
Dio, amici, per due volte!».
Iniziavo a sentirmi a disagio. La gente aveva cominciato a seguirci in
mezzo alla folla. Non erano in molti, ma qualcuno c’era. Cinque o sei
persone, forse, tutte con quel sorriso sognante stampato sul viso.
«Gesù, forse dovresti… ehm… darti una calmata».
«Riesci a credere che tutta questa gente abbia bisogno di essere guarita?
Ecco, ho guarito quell’uomo». Si chinò all’indietro e mi sussurrò all’orecchio:
«Quel ragazzo aveva la sifilide. Piscerà senza sentire dolore per la prima volta
dopo anni. Scusami». Si voltò di nuovo verso la folla. «Guarito, guarita,
calmato, confortata».
«Siamo degli sconosciuti qui, Gesù. E stai attirando l’attenzione di tutti.
Potrebbe essere imprudente…».
«Non è che siano ciechi o mutilati. Dovremo fermarci, se incontreremo
qualche caso grave. Guarito! Dio ti benedica. Oh, non parli latino? Uh…
greco? Ebraico? No?».
«Capirà, Gesù» gli dissi. «Dovremmo cercare quella vecchia».
«Oh, giusto. Guarita!».
Mollò uno schiaffo violento alla giovane donna che aveva davanti. Il
marito, un omone con una veste di cuoio, non sembrò affatto felice. Estrasse
un pugnale dalla cintola e cominciò ad avanzare verso il mio amico.
«Chiedo scusa, mio signore» disse lui, senza indietreggiare. «Non ho
potuto evitarlo. Dovevo cacciare un piccolo demone che dimorava in lei. L’ho
fatto entrare in quel cane laggiù. Andate con Dio. Grazie, grazie molte».
La donna afferrò il marito per un braccio e lo fece girare. Aveva ancora
l’impronta della mano sul viso, ma sorrideva. «Sono tornata!» disse all’uomo.
«Sono tornata da te».
Lo scrollò, e la rabbia sembrò abbandonarlo completamente. Poi questi si
voltò a guardare Gesù con un’espressione talmente sgomenta che pensai
sarebbe svenuto. Lasciò cadere il pugnale e gettò le braccia al collo della
moglie.
Gesù corse verso di loro e li abbracciò entrambi.
«Ti dispiacerebbe darci un taglio?» gli domandai.
«Ma io amo questa gente».
«La ami sul serio, eh?».
«Già».
«Quello stava per ucciderti».
«Succede. Non aveva capito… adesso sì».
«E ne sono lieto. Adesso andiamo a cercare la vecchia».
«Sì, e poi torniamo indietro a prenderci un’altra scodella di quella bevanda
calda».
Trovammo la megera che vendeva un mazzo di zampe di scimmia a un
grasso mercante vestito di seta a strisce e con un ampio cappello a cono
realizzato con robusti fili d’erba.
«Ma queste sono tutte zampe posteriori» protestò l’uomo.
«Stessa magia, prezzo migliore» disse lei, scostando lo scialle che copriva
un lato del viso allo scopo di mettere in mostra un occhio bianco come il latte.
Evidentemente, era la sua mossa per intimidire gli acquirenti.
Ma lui non se la bevve. «Lo sanno tutti che le zampe anteriori di una
scimmia sono il talismano più efficace per predire il futuro, mentre quelle
posteriori…».
«Si potrebbe pensare che la scimmia sia in grado di capire quando sta per
succedere qualcosa» dissi, e mi guardarono entrambi come se avessi appena
starnutito sui loro falafel. La vecchia si tirò indietro come se volesse lanciarmi
un incantesimo, o forse un sasso. «Se fosse vero» continuai «voglio dire… se
si potesse predire il futuro con una zampa di scimmia… cioè… perché la
scimmia ne ha quattro… di zampe, intendo… e… uh… non importa».
«Questi quanto vengono?» chiese Gesù, prendendo una manciata di tritoni
essiccati da una cesta della megera, che si voltò verso di lui.
«Non te ne servono tanti».
«No?».
«Queste non servono a niente» disse il mercante, agitando le zampe
posteriori di due scimmie e mezza; sembravano manine umane, non fosse
stato per il fatto che avevano le dita più lunghe ed erano coperte di peli.
«Se sei una scimmia, scommetto che possono tornarti utili per non
strisciare il culo per terra» dissi, cercando come sempre di fare da paciere.
«Dunque, quanti me ne servono?» chiese Gesù, mentre si domandava
come la sua digressione per salvarmi si fosse trasformata in una
contrattazione per dei croccantini di tritone.
«Quanti dei tuoi dromedari sono costipati?».
Gesù rimise i tritoni essiccati nella cesta. «Bene…».
«Vuoi dire che sono efficaci per i dromedari con l’intestino intasato?»
volle sapere il mercante.
«Sono infallibili».
L’uomo si grattò la barbetta a punta con una zampa di scimmia. «Ti do
quello che chiedi per queste zampe di scimmia, se aggiungi anche una
manciata di tritoni».
«Affare fatto».
Il grassone aprì una borsa che portava in spalla e vi lasciò cadere la merce.
«Allora, come funzionano i tritoni essiccati? Bisogna metterli in acqua calda e
far bere l’infuso al dromedario?».
«Vanno somministrati attraverso l’altra estremità. Tutti interi. Poi conta
fino a cento e fai un passo indietro».
Il mercante spalancò gli occhi, poi li strizzò e si girò a guardarmi.
«Ragazzo» disse «se sai contare fino a cento ho un lavoro per te».
«Sarebbe davvero felice di lavorare per te» gli rispose Gesù «ma prima
dobbiamo trovare Baldassarre il mago».
La megera sibilò e indietreggiò verso il suo banchetto, coprendosi
interamente il viso, con l’eccezione dell’occhio lattiginoso. «Come sapete di
Baldassarre?». Teneva le mani davanti al volto, quasi fossero artigli, e notai
che stava tremando.
«Baldassarre!» le gridai, e la vecchia per poco non sfondò il muro alle sue
spalle. Ridacchiai, pronto a urlare di nuovo quel nome, quando Gesù mi
fermò.
«Baldassarre venne a Betlemme per assistere alla mia nascita. Ho bisogno
dei suoi consigli. Della sua saggezza».
«Saresti pronto ad affrontare le tenebre, venire a patti con i demoni e
correre incontro a quel malefico Demonio di Baldassarre? Non ti voglio
vicino alla mia bancarella, vattene via». Si fece il segno dell’occhio maligno -
che nel suo caso risultò alquanto ridondante.
«No, no, no» dissi. «Nulla di tutto questo. Il mago ha lasciato del… ehm…
dell’incenso a casa di Gesù. E dobbiamo restituirglielo».
La vecchia mi guardò con l’occhio buono. «Stai mentendo».
«Sì» le confermò Gesù.
«BALDASSARRE!» le urlai in faccia. Ma il mio grido non ebbe lo stesso
effetto di prima, e la cosa mi lasciò un po’ deluso.
«Finiscila» disse lei.
Gesù si allungò per prenderle la mano rugosa. «Nonna, il capitano della
nostra nave, Titus Inventius, ha detto che tu avresti saputo dove trovare
Baldassarre. Per favore, aiutaci».
La vecchia sembrò rilassarsi e, proprio quando pensavo che stesse per
sorriderci, affondò le unghie nella mano del mio amico e fece un balzo
all’indietro. «Titus Inventius è un buono a nulla» gridò.
Gesù fissò il sangue che sgorgava dai solchi che gli aveva lasciato, e per
un attimo pensai che sarebbe svenuto. Non capiva quando la gente era
violenta o scortese. Probabilmente avrei passato mezza giornata a spiegargli
perché la vecchia l’aveva graffiato, ma in quel momento ero davvero furioso.
«La vuoi sapere una cosa? La vuoi sapere una cosa? La vuoi sapere una
cosa?». Dimenavo il dito sotto al suo naso. «Hai graffiato il Figlio di Dio. Ti
sei giocata il culo, ecco cosa».
«Il mago ha lasciato Antiochia ed è stata una vera liberazione» strillò la
megera.
Il grasso mercante era stato a guardare tutta la scena senza dire una parola,
ma adesso scoppiò a ridere con un tale fragore che a stento riuscivo a sentire
le maledizioni ansimanti della vecchia. «Quindi vuoi trovare Baldassarre, eh,
Figlio di Dio?».
Gesù uscì dalla stupita contemplazione delle sue ferite e guardò il
mercante. «Sì, mio signore. Tu lo conosci?».
«Per chi credi che siano le zampe di scimmia? Seguitemi, tutti e due». Girò
i tacchi e se ne andò senza aggiungere altro.
Mentre lo seguivamo in un vicolo - talmente stretto che quasi si sfioravano
i muri con le spalle - mi voltai verso la vecchia megera e gridai: «Ti sei
giocata il culo, vecchia! Bada alle mie parole».
Lei sibilò e fece di nuovo il segno dell’occhio maligno.
«Mi ha fatto venire i brividi» disse Gesù, guardandosi ancora i graffi sulla
mano.
«Vacci piano con i giudizi, amico, anche tu fai venire i brividi».
«Dove pensi ci stia portando questo tizio?».
«Probabilmente in un luogo in cui potrà assassinarci o ucciderci».
«Sì, farà almeno una delle due cose».
11

Dopo il mio tentativo di fuga, non sono più riuscito a convincere l’angelo a
lasciarmi solo in camera. Nemmeno per il suo adorato Soap Opera Digest.
(Be’… sì: quando è uscito per andare a procurarsi il primo numero sarebbe
stata un’ottima occasione per filarmela, ma allora non ci pensavo. Quindi
siete pregati di non chiedermelo.) Oggi ho provato a farmi portare una mappa.
«Nessuno conoscerà i posti di cui scrivo, per questo mi serve» gli ho detto.
«Vuoi che scriva in questa lingua perché la gente mi capisca. Allora perché
usare nomi di luoghi dimenticati da millenni? Mi serve una cartina».
«No» ha detto l’angelo.
«Quando dico che per percorrere un certo tragitto occorrevano due mesi di
viaggio in groppa a un dromedario, cosa può capire questa gente che
attraversa un oceano in poche ore? Ho bisogno di conoscere le distanze
moderne».
«No» ha ripetuto.
(Sapevate che negli alberghi inchiodano la lampada al comodino,
rendendola inefficace come arma per far ragionare un angelo testardo? Ho
pensato doveste saperlo. Ed è un vero peccato: una lampada così massiccia…)
«Ma come posso narrare le imprese eroiche dell’arcangelo Raziel se non
sono in grado di descrivere le località in cui vennero compiute? Forse vuoi
che scriva: “Oh, e poi, da qualche parte a sinistra della Grande Muraglia,
apparve quel ratto bastardo di Raziel… aveva un aspetto orribile, considerato
che - forse - aveva percorso una notevole distanza”? È questo che vuoi? O
sarebbe meglio: “E poi, ad appena un chilometro e mezzo dal porto di
Tolemaide, fummo ancora onorati dalla splendente magnificenza
dell’arcangelo Raziel”? Allora? Scegli».
So che state pensando che l’angelo mi salvò la vita quando Titus mi gettò
in mare e che dovrei essere più indulgente nei suoi confronti, giusto? E che
non dovrei tentare di manipolare una povera creatura a cui è stato dato un ego
ma non il libero arbitrio, né la capacità di elaborare pensieri creativi. Ho
ragione? Okay, ottima osservazione. Ma vi prego di ricordare che l’angelo
intervenne a mio favore solo perché Gesù pregava per la mia salvezza. E che,
nel corso degli anni, avrebbe potuto risparmiarci un bel po’ di difficoltà se ci
avesse aiutato più spesso. E, per favore, non dimenticate che - sebbene sia
forse la creatura più bella su cui abbia mai posato gli occhi - Raziel è un
idiota completo. Nondimeno, l’appello al suo ego funzionò.
«Ti procurerò una cartina».
E l’ha fatto. Sfortunatamente, il portiere è riuscito a rimediare soltanto una
mappa mondiale distribuita da una compagnia aerea collegata all’hotel.
Quindi chissà quanto è accurata. Stando a essa, la nostra successiva tappa
misura quindici centimetri e ci costerebbe trentamila miglia a tariffa speciale.
Spero che serva a chiarirvi le idee.

Il mercante si chiamava Ahmad Mahadd Ubaidullaganji, ma ci chiese di
chiamarlo maestro. Noi optammo per Ahmad. Ci guidò attraverso la città fino
al pendio di una collina dov’era accampata la sua carovana. Era proprietario
di cento dromedari che stava conducendo lungo la Via della Seta, oltre a una
dozzina di uomini, due capre, tre cavalli e una donna straordinariamente
scialba di nome Kanuni. Ci portò nella sua tenda, che era più grande delle
case in cui io e Gesù eravamo cresciuti. Ci sedemmo su tappeti sontuosi, e
Kanuni ci servì datteri ripieni e vino da una brocca a forma di drago.
«Allora, che cosa vuole il Figlio di Dio dal mio amico Baldassarre?» volle
sapere Ahmad.
Prima che avessimo modo di rispondere, sbuffò e rise fino alle lacrime, e
per poco non versò il vino. Aveva il viso tondo con gli zigomi alti, e due
occhietti neri che s’increspavano agli angoli per il troppo ridere e per il vento
del deserto. «Mi dispiace, amici miei, ma non mi ero mai trovato alla
presenza del figlio di un dio, prima d’ora. A proposito, che dio sarebbe tuo
padre?».
«Be’, il Dio» gli dissi.
«Già. Proprio lui» confermò Gesù.
«E come si chiama?».
«Papà».
«Non dobbiamo dire il suo nome».
«Papà!» ripeté Ahmad. «Mi piace». Cominciò a ridacchiare di nuovo. «So
che siete ebrei e che non avete il permesso di pronunciare il nome di Dio…
volevo solo vedere se l’avreste fatto. Papà. Questa è bella».
«Non voglio essere scortese» intervenni «e sicuramente il cibo e il vino
sono di nostro gradimento, ma si sta facendo tardi e hai detto che ci avresti
portato da Baldassarre».
«E lo farò. Partiremo domattina».
«Partire? E per dove?» domandò Gesù.
«Per Kabul, la città in cui vive adesso».
Non l’avevo mai sentita nominare, e intuii che non era un bene. «E quanto
dista da qui?».
«Dovremmo raggiungerla in meno di due mesi, con i dromedari».
Se avessi saputo quello che so adesso, forse mi sarei alzato in piedi
esclamando: «Dannazione, amico, sono oltre quindici centimetri e trentamila
miglia a tariffa speciale!». Ma all’epoca non ero così informato, e mi limitai a
un «Merda».
«Vi porterò a Kabul» disse Ahmad «ma che cosa potete fare per pagarvi il
viaggio?».
«Io sono pratico di falegnameria. Il mio patrigno mi ha insegnato a
sistemare le selle per dromedari».
«E tu?». Guardò me. «Che cosa sai fare?».
Pensai alla mia esperienza come scalpellino, e la accantonai
immediatamente. E nemmeno il mio apprendistato come idiota del villaggio -
su cui avrei sempre potuto ripiegare, o almeno così pensavo - mi avrebbe
aiutato. Di recente avevo acquisito qualche abilità come educatore sessuale,
ma immaginavo che non ci sarebbe stato bisogno di una figura simile durante
un viaggio di due mesi, con quattordici uomini e una donna bruttina. Quindi
che cosa potevo fare? Cosa mi sarei potuto inventare per essere utile durante
il cammino per Kabul?
«Se qualcuno dovesse tirare le cuoia, me la cavo molto bene come
dolente» dissi. «Vuoi sentire un lamento funebre?».
Ahmad rise fino a tremare, poi chiamò Kanuni per farsi portare la borsa.
Quando l’ebbe tra le mani, frugò all’interno e tirò fuori i tritoni essiccati che
aveva comprato dalla vecchia megera. «Tieni, ti serviranno».

I dromedari mordono. Senza alcun motivo, ti massacrano di botte, ti
prendono a calci, muggiscono e poi ti sputano, ti ruttano e ti scoreggiano
addosso. Nel migliore dei casi sono testardi, nel peggiore incredibilmente
irritabili. Se li provochi, ti mordono. Se inserisci un anfibio disidratato nel
sedere di un dromedario, lui ritiene di essere stato provocato: doppiamente
provocato, dal momento che è successo mentre dormiva. Sono prudenti e si
muovono furtivamente. Mordono.

«Posso curarti» disse Gesù, osservando i segni lasciati da quei denti
enormi sulla mia fronte. Stavamo seguendo la carovana di Ahmad lungo la
Via della Seta, che non era una strada e non era fatta di seta. In effetti, era uno
stretto sentiero che si snodava attraverso il deserto roccioso e inospitale nelle
zone montuose di quella che oggi si chiama Siria, per giungere nel deserto
pianeggiante - e altrettanto inospitale - dell’odierno Iraq.
«Sessanta giorni con un dromedario, ha detto. Quindi non dovremmo stare
in sella, anziché camminare?».
«Ti mancano i tuoi amici dromedari, eh?». Ghignò: quel suo ghigno
arrogante da “Figlio di Dio”. Ma forse era del tutto normale.
«Sono solo stanco. Sono stato sveglio mezza nottata, per prenderli di
sorpresa».
«Lo so. Mi sono dovuto alzare all’alba per sistemare una sella, prima di
partire. Gli strumenti di Ahmad lasciano un po’ a desiderare».
«Continua pure a fare il martire, Gesù, e dimentica quello che ho fatto io.
Sto solo dicendo che dovremmo procurarci dei dromedari, invece di
camminare».
«Lo faremo. Solo, non ora».
Gli uomini della carovana erano tutti in sella, anche se molti di loro -
Kanuni inclusa - montavano dei cavalli. I dromedari portavano immensi
pacchi di utensili di ferro, tinture in polvere e legno di sandalo diretti in
Oriente. Alla prima oasi montana che attraversammo, Ahmad scambiò i
cavalli per quattro dromedari in più, e finalmente diede i finimenti anche a me
e a Gesù. La sera cenavamo con gli altri uomini: ci dividevamo grano cotto o
pane con pasta di sesamo, qualche pezzo di formaggio, ceci schiacciati con
aglio, ogni tanto della carne di capra e quella bevanda calda e scura che
avevamo scoperto ad Antiochia (mischiata con zucchero di datteri e guarnita
con latte di capra schiumato e cannella, secondo i miei suggerimenti). Ahmad
cenava da solo nella sua tenda, mentre noi mangiavamo sotto la tenda aperta
che avevamo allestito per ripararci durante le ore più calde della giornata. Nel
deserto la temperatura aumenta con il passare delle ore, e così il momento più
caldo era il tardo pomeriggio, appena prima che il vento rovente del tramonto
dissolvesse le ultime gocce di umidità sulla pelle.
Nessuno degli uomini di Ahmad parlava l’aramaico o l’ebraico, ma tutti
conoscevano abbastanza il greco e il latino da prendere in giro me e il mio
amico per diverse cose (in primo luogo, naturalmente, il mio ruolo di capo
decostipatore di dromedari). Venivano da una mezza dozzina di terre
differenti, alcune mai sentite nominare. Qualcuno era nero come gli etiopi,
con la fronte alta e le membra lunghe e aggraziate, mentre altri erano tozzi
con le gambe arcuate, le spalle possenti, gli zigomi alti e un paio di baffi
lunghi e attorcigliati come quelli di Ahmad. Nessuno era grasso, debole o
lento. Avevamo lasciato Antiochia da meno di una settimana, quando ci
rendemmo conto che bastavano due uomini per badare e guidare una carovana
di dromedari: allora perché un tipo scaltro come Ahmad si sarebbe portato
dietro tanti servi?
«Banditi» ci disse, aggiustando la propria mole per trovare una posizione
più comoda in sella al suo dromedario. «Sarebbero sufficienti due stupidi
come voi se si trattasse soltanto di badare agli animali. Loro sono guardie.
Perché pensate che portino archi e lance?».
«Già» dissi, lanciando un’occhiataccia al mio amico, «non hai visto le
lance? Sono guardie. Ehm… Ahmad, non dovremmo averne un paio anche
noi… quando arriveremo nella zona dei banditi?».
«Ci seguono da cinque giorni, ormai» ci informò.
«Non ne abbiamo bisogno» rispose Gesù. «Non lascerò che un uomo
commetta un furto. Se qualcuno vuole qualcosa da me, non ha che da chiedere
e io glielo darò».
«Dammi il resto dei tuoi soldi».
«Scordatelo».
«Ma hai appena detto…».
«Sì, ma non era riferito a te».

Spesso, la notte, io e Gesù dormivamo all’aperto, fuori dalla tenda di
Ahmad; o, se era troppo freddo, tra i dromedari. Sopportavamo i loro grugniti
e il loro russare pur di ripararci dal vento. Le guardie dormivano in tende a
due posti, tranne un paio che vegliavano tutta la notte. Spesso, quando ormai
sull’accampamento era sceso il silenzio da diverse ore, io e Gesù ci
mettevamo distesi a guardare le stelle, ponendoci le grandi domande della
vita.
«Gesù, pensi che i banditi ci rapineranno e ci ammazzeranno? O si
limiteranno a derubarci?».
«La prima che hai detto» fece lui. «E, nel caso non trovassero qualcosa che
abbiamo nascosto, ci torturerebbero per farci rivelare il nascondiglio».
«Giusto».
«Credi che Ahmad faccia sesso con Kanuni?» mi chiese.
«So che è così. Me l’ha detto lui».
«Come pensi che sia? Tra loro, intendo. Lui così grasso e lei così… be’, lo
sai».
«Francamente, amico, preferirei non pensarci. Ma grazie per avermi messo
in testa quell’immagine».
«Vuoi dire che riesci a immaginarli insieme?».
«Finiscila, Gesù. Non posso spiegarti com’è il peccato. Dovrai capirlo da
te. Quale sarà il prossimo passo? Dovrò ammazzare qualcuno per dirti che
cosa si prova a uccidere?».
«No, non voglio uccidere».
«Be’, potresti essere costretto a farlo. Non credo che i Romani se ne
andranno solo perché glielo chiedi tu».
«Troverò un modo. Ancora non so quale».
«Non sarebbe divertente se tu non fossi il Messia? Se ti astenessi dal
conoscere le donne tutta la vita, per poi scoprire che sei un profeta minore?».
«Già, proprio divertente» fece lui. Ma non sorrideva.
«Forse un pochino?».

Il viaggio sembrò farsi sorprendentemente veloce una volta che fummo
certi di essere seguiti dai banditi. Questo ci dava qualcosa di cui parlare e ci
aiutava a mantenere la schiena elastica, dal momento che stavamo sempre a
contorcerci in sella ai nostri dromedari per controllare l’orizzonte. Ero quasi
triste quando finalmente, dopo essere stati sulle nostre tracce per dieci giorni,
decisero di attaccarci. Ahmad, di solito in testa alla carovana, rimase indietro
e cavalcò accanto a noi. «I banditi ci tenderanno un’imboscata all’interno di
quel passo» disse.
La strada si snodava in una gola con ripidi pendii su entrambi i lati,
sormontati da file di enormi massi e torri erose dal vento. «Sono nascosti tra
quei macigni in cima alle due creste» disse Ahmad. «Non fissateli, ci farete
scoprire».
«Se sai che stanno per attaccarci, perché non ci fermiamo e non proviamo
a difenderci?».
«In un modo o nell’altro ci attaccheranno. Meglio un’imboscata di cui
siamo a conoscenza che una di cui non sappiamo nulla. Inoltre, loro non
sanno che noi sappiamo».
Le tozze guardie baffute estrassero dei piccoli archi dalle sacche che
portavano dietro alle selle e, con la stessa facilità con cui un uomo si sarebbe
potuto togliere una ragnatela dalle ciglia, ne tesero le corde. Guardandoli da
lontano a stento li avresti visti muoversi.
«Che cosa vuoi che facciamo?» chiesi ad Ahmad.
«Cercate di non farvi ammazzare. Soprattutto tu, Gesù. Baldassarre
andrebbe su tutte le furie se mi presentassi con il tuo cadavere».
«Un momento» disse il mio amico «Baldassarre sa che stiamo andando da
lui?».
«Certo» rise l’uomo. «È stato lui a dirmi di cercarti. Cos’è, pensi che mi
metta ad aiutare tutte le coppie di mezze cartucce che incontro al mercato di
Antiochia?».
«Mezze cartucce?». Per un attimo mi ero scordato dell’imboscata.
«E quanto tempo fa è successo?».
«Non so, la prima volta che lasciò Antiochia per Kabul, forse una decina
d’anni fa. Adesso non importa, devo tornare da Kanuni, i banditi le fanno
paura».
«Lascia che le diano un’occhiata» dissi. «E vedremo chi fa paura a chi».
«Non guardate verso le montagne» ci disse Ahmad, mentre si allontanava
in sella al suo dromedario.

I banditi scesero dai lati della gola come una valanga sincronizzata,
spingendo i loro dromedari a rotta di collo e facendo scorrere un fiume di
rocce e sabbia davanti a loro. Erano venticinque, forse trenta, tutti vestiti di
nero: una metà di loro cavalcava, armata di spade o bastoni, l’altra metà
veniva a piedi con lunghe lance adatte a sventrare un uomo in sella.
Mentre si lanciavano alla carica, scivolando tutti insieme lungo i pendii del
canyon, le guardie di Ahmad ruppero la nostra carovana esattamente nel
mezzo aprendo un varco nella strada proprio dove i banditi avrebbero portato
l’attacco; ma erano così lanciati che non riuscirono a cambiare direzione. Nel
tentativo di ritirarsi, tre dei loro dromedari finirono a terra.
Le nostre guardie si mossero in due gruppi, tre davanti con le lance lunghe,
gli arcieri appena dietro. Quando furono pronti, questi ultimi scoccarono i
loro dardi contro i banditi, e ogni ribaldo che cadeva ne portava con sé altri
due o tre, fino a quando la carica non si fu trasformata in una vera e propria
valanga di pietre, uomini e dromedari rotolanti. Le bestie muggivano e
sentivamo il rumore delle ossa che si spezzavano e le grida degli uomini,
mentre rotolavano in una massa sanguinosa sulla Via della Seta. Quando si
rialzavano e cercavano di caricare le nostre guardie, venivano fermati dalle
frecce. Un bandito arrivò fino a noi in sella al suo dromedario e si portò in
fondo alla carovana, dove i tre lancieri lo tirarono giù tra schizzi di sangue.
Ogni movimento nella gola veniva bloccato da una freccia. Un bandito con
una gamba rotta tentò di risalire il pendio strisciando, ma fu fermato da un
dardo nella nuca.
Sentii un gemito alle mie spalle e, prima che avessi il tempo di girarmi,
Gesù mi passò accanto al galoppo, superando gli arcieri e i lancieri lungo il
nostro lato della carovana, diretto verso la massa di cadaveri e moribondi.
Saltò giù dal dromedario e si mise a correre intorno ai corpi come un folle,
agitando le braccia e urlando fino a quando non riuscii a udire la sua voce
stridula; a furia di gridare aveva la gola infiammata.
«Basta! Smettetela!».
Un bandito si mosse, cercando di rimettersi in piedi, e i nostri arcieri lo
abbatterono di nuovo. Gesù gli si gettò sopra e lo schiacciò a terra. Sentii
Ahmad che ordinava ai suoi di fermarsi.
La brezza gentile del deserto sollevò una nuvola di polvere dal canyon. Un
dromedario con una zampa rotta muggiva di dolore, e una freccia nell’occhio
lo mise a riposo per sempre. Ahmad prese la lancia a una delle guardie e si
diresse verso Gesù, che stava facendo da scudo al bandito.
«Spostati» gli disse, la lancia pronta a colpire. «Bisogna finirlo».
Il mio amico si guardò intorno. Tutti i predoni e i loro animali erano morti.
Nella polvere scorrevano rivoli di sangue. Le mosche si stavano già
radunando per banchettare. Gesù camminò in mezzo a quella distesa di
cadaveri, fino a premere il petto contro la punta di bronzo della lancia di
Ahmad. Aveva il viso solcato dalle lacrime. «Questo è sbagliato!» gridò.
«Erano banditi. Se non l’avessimo fatto, ci avrebbero ucciso per portarci
via ogni cosa. Forse il tuo Dio, tuo padre, non distrugge chi pecca? Adesso
levati. Lascia che gli dia il colpo di grazia».
«Io non sono mio padre, e non lo sei nemmeno tu. Non ucciderai
quest’uomo».
Ahmad abbassò la lancia e scosse il capo, sconsolato. «Morirà comunque,
ragazzo». Sentivo le guardie che si muovevano irrequiete, non sapendo che
cosa fare.
«Dammi il tuo otre» disse il mio amico.
Ahmad glielo gettò e fece girare il suo dromedario per tornare dalle
guardie che lo stavano aspettando. Gesù lo portò al bandito ferito e gli tenne
la testa sollevata mentre beveva un goccio d’acqua. Una freccia spuntava
dallo stomaco, e la tunica nera era lucida per il sangue. Gesù gli mise
delicatamente la mano sugli occhi, come se gli stesse dicendo di dormire, e
poi gli strappò via il dardo e lo mise da una parte.
L’uomo rimase immobile, e lui gli premette una mano sulla ferita.
Da quando Ahmad aveva dato ordine di sospendere l’attacco, le guardie
non si erano più mosse. Osservavano. Qualche minuto dopo il bandito si tirò
su a sedere e Gesù si allontanò, sorridendo. In quell’istante spuntò una freccia
dalla fronte dell’uomo, che cadde a terra morto.
«No!». Gesù si voltò per guardare il lato della carovana dove stava Ahmad.
La guardia che aveva lanciato il dardo aveva ancora l’arco in mano, quasi
fosse pronta a scoccarne un altro per completare il lavoro. Urlando di rabbia,
Gesù gesticolò con la mano aperta, quasi stesse colpendo l’aria, e la guardia
volò giù dal dromedario e finì a terra. «Basta!» gridò il mio amico. Quando
l’uomo si tirò su a sedere, i suoi occhi sembravano lune d’argento conficcate
nelle orbite. Era diventato cieco.

Io e Gesù non aprimmo bocca per due giorni, e fummo spediti in fondo
alla carovana perché le guardie avevano paura di noi; presi un sorso d’acqua
dal mio otre e glielo passai. Lui bevve e me lo riconsegnò.
«Grazie». Sorrise e capii che sarebbe stato bene.
«Ehi, Gesù, fammi un favore».
«Cosa?».
«Ricordami di non farti mai incazzare, okay?».

La città di Kabul sorgeva su cinque colline scoscese, con strade disposte a
terrazze e palazzi costruiti in parte all’interno delle alture. Non c’era traccia di
influenze greche o romane nell’architettura; invece gli edifici più grandi
avevano tetti rivestiti di tegole che si sollevavano agli angoli, uno stile che
avremmo incontrato in tutta l’Asia durante il nostro viaggio. Le persone erano
perlopiù forti e tenaci, somigliavano agli arabi ma non avevano la pelle
lucente di chi segue una dieta ricca di olio d’oliva. Sembravano più scarne,
tirate per il vento freddo e secco del deserto montano. Al bazar c’erano
mercanti provenienti dalla Cina e altri uomini che somigliavano ad Ahmad e
ai suoi arcieri, una razza che i cinesi definivano semplicemente barbara.
«I cinesi hanno tanta paura della mia gente che hanno costruito un muro
alto come il palazzo più imponente del mondo, largo come il viale più ampio
di Roma, e lungo dieci volte la distanza che può coprire l’occhio umano»
disse Ahmad.
«Ah-ha» dissi, e intanto pensavo: infido sacco di merda.
Gesù non gli rivolgeva la parola dal giorno dell’attacco dei banditi, ma
sorrise compiaciuto sentendo la storia del grande muro.
«Bene» fece Ahmad. «Questa notte resteremo alla locanda. Domani vi
porterò da Baldassarre. Se partiamo presto riusciremo a essere lì per
mezzogiorno, e a quel punto non sarete più un problema mio ma del mago. Ci
vediamo all’alba davanti all’entrata».
Quella sera, per cena, il locandiere e la moglie ci servirono agnello
speziato e riso, insieme a una sorta di birra di riso che ci lavò via dalla gola
due mesi di sabbia del deserto, provocandoci una gradevole sensazione di
stordimento. Per risparmiare prendemmo due pagliericci sotto le gronde
ampie e curve e, sebbene fosse un conforto avere un tetto sopra la testa dopo
mesi, scoprii che mi mancava il fatto di guardare le stelle mentre mi
addormentavo. Rimasi a lungo lì disteso, sveglio e semiubriaco, mentre Gesù
dormì il sonno degli innocenti.
L’indomani trovammo Ahmad davanti alla locanda con due delle sue
guardie africane e un paio di dromedari extra al seguito. «Forza. Per voi il
viaggio sta per finire, ma per me questa è solo una deviazione» disse. Ci
lanciò una crosta di pane e un bel pezzo di formaggio ciascuno, dal che
dedussi che avremmo dovuto fare colazione in viaggio.
Lasciammo Kabul per andare verso le colline, fino a quando non ci
ritrovammo in un labirinto di gole che serpeggiava tra le montagne scoscese.
Queste sembravano scolpite da Dio nell’argilla e lasciate a cuocere al sole
fino ad assumere un’intensa sfumatura dorata, risplendevano di una luce che
divorava e distruggeva le ombre. A mezzogiorno avevo perso completamente
il senso dell’orientamento, e non avrei potuto giurare che non stessimo
ripercorrendo gli stessi canaloni, ancora e ancora; ma le guardie nere di
Ahmad sembravano conoscere la strada. Alla fine ci condussero oltre una
curva e ci ritrovammo davanti a una parete verticale alta una sessantina di
metri, che si distingueva dalle altre perché aveva finestre e terrazzini. Era un
palazzo ricavato nella roccia solida. Alla base c’era una porta corazzata,
talmente imponente che pensai ci sarebbero voluti venti uomini per aprirla.
«La dimora di Baldassarre» annunciò Ahmad, pungolando il suo
dromedario perché si inginocchiasse per permettergli di smontare.
Gesù mi diede un colpetto con il frustino. «Ehi, è questo che ti aspettavi?».
Scossi il capo. «Non so che cosa mi aspettassi. Forse qualcosa. .. non so…
di più piccolo».
«Ritroveresti la strada attraverso queste gole, in caso di necessità?».
«No. E tu?».
«No».
Ahmad si avviò ondeggiando verso la grande porta e tirò una corda che
pendeva da un buco nel muro. Da qualche parte, all’interno, sentimmo
suonare un’enorme campana (solo in seguito scoprimmo che si trattava di un
gong). Nel portone si aprì un uscio più piccolo, da cui fece capolino una
ragazza. «Che cosa volete?». Aveva il viso tondo e gli zigomi alti tipici delle
orientali, e sopra gli occhi aveva dipinte due grandi ali blu.
«Sono Ahmad. Ahmad Mahadd Ubaidullaganji. Ho portato a Baldassarre il
ragazzo che stava aspettando». Fece un gesto nella nostra direzione.
La ragazza parve scettica. «È pelle e ossa. Sicuro che sia lui?».
«È lui. Di’ a Baldassarre che mi deve del denaro».
«L’altro chi è?».
«Il suo amico scemo. Per lui non chiederò nulla».
«Hai portato le zampe di scimmia?» chiese la ragazza.
«Sì, e anche le altre erbe e i minerali che mi aveva chiesto Baldassarre».
«D’accordo, aspetta qui». Chiuse la porta, e dopo un secondo era di nuovo
lì. «Mandami soltanto i due ragazzi. Baldassarre li esaminerà e poi tratterà
con te».
«Non c’è bisogno di tutti questi misteri, donna. Sono stato in casa di
Baldassarre un centinaio di volte. Non perdiamo tempo, aprimi».
«Silenzio!» gridò lei. «Il grande Baldassarre non si fa prendere in giro.
Mandami soltanto i ragazzi». Quindi sbatté la porticina e sentimmo l’eco
della sua risata stridula dalle finestre soprastanti.
Ahmad scosse il capo, disgustato, e ci fece segno verso la porta. «Andate.
Non so che cos’abbia in mente, ma andate».
Gesù e io smontammo dai dromedari e prendemmo i nostri bagagli,
dirigendoci verso il portone. Il mio amico mi guardava come se si stesse
chiedendo che cosa fare. Era sul punto di afferrare il cordino per suonare il
campanello, ma il portone si aprì di una fessura larga abbastanza per far
entrare uno di noi messo di traverso. All’interno era buio pesto, eccezion fatta
per una stretta striscia di luce che non ci permise di distinguere nulla. Gesù mi
guardò di nuovo e sollevò le sopracciglia.
«Io sono solo l’amico scemo, quello gratis» gli dissi con un inchino.
«Prego, dopo di te».
Entrò, e io gli andai dietro. Ci eravamo addentrati per un paio di metri
quando il portone si richiuse con un forte rimbombo, lasciandoci nell’oscurità
più completa. Sono certo di aver sentito delle cose che mi correvano intorno
ai piedi.
Davanti a noi apparve un lampo luminoso, e un istante dopo si levò una
colonna di fumo rosso illuminata da una luce che proveniva da un punto del
soffitto. Odorava di zolfo e mi faceva bruciare il naso. Gesù tossì e
indietreggiammo entrambi fino a toccare la porta con la schiena, quando dal
fumo uscì una figura. Lui… quell’essere… era alto come due uomini messi
uno sull’altro, ed era magro. Indossava un’ampia veste viola con degli strani
simboli ricamati in oro e in argento. Portava il cappuccio e non riuscivamo a
vedergli il viso: solo due occhi rossi infossati in una distesa nera. Sollevò una
lampada come se volesse studiarci alla luce.
«Satana» dissi sottovoce al mio amico, premendo contro il portone di ferro
con tanta forza che sentii le schegge di ruggine penetrarmi nella pelle
attraverso la veste.
«Non è Satana» disse lui.
«Chi osa disturbare l’inviolabilità della mia fortezza?» tuonò la figura.
Solo sentendo la sua voce per poco non me la feci sotto.
«Sono Gesù di Nazaret» disse il mio amico cercando di mostrarsi
disinvolto, ma la voce gli si ruppe su quell’ultima parola. «E questo è Biff,
pure di Nazaret. Stiamo cercando Baldassarre. Venne a cercarmi a Betlemme,
quando nacqui. E adesso devo fargli qualche domanda».
«Baldassarre non appartiene più a questo mondo». L’essere infilò una
mano nel mantello ed estrasse un pugnale incandescente, che tenne sollevato
e poi si conficcò nel petto. Seguirono un’esplosione, un lampo e un ruggito
tormentoso, come se qualcuno avesse ucciso un leone. Gesù e io ci voltammo
e grattammo freneticamente la superficie del portone, in cerca del fermo.
Emettevamo un suono incoerente e terrorizzato che potrei descrivere soltanto
come la versione verbale di una corsa, una sorta di ululato prolungato e
ritmico che cessò solo quando i nostri polmoni si furono svuotati.
Poi udii quella risata e Gesù mi afferrò per un braccio. La risata crebbe di
volume. Gesù mi fece girare perché guardassi in faccia la morte in viola.
Mentre mi voltavo, l’oscura figura gettò indietro il cappuccio e vidi il volto
nero e ghignante e la testa rasata di un uomo: un uomo molto alto, ma nulla di
più. Aprì la veste e capii che, in effetti, era una persona normale: stava in
piedi sulle spalle di due giovani asiatiche, nascoste sotto il lunghissimo abito.
«Vi stavo solo prendendo in giro» disse lui. E ridacchiò.
Saltò giù dalle spalle delle due donne e respirò profondamente, prima di
piegarsi in due tenendosi la pancia per le risate. Dagli occhi castani
scendevano le lacrime.
«Avreste dovuto vedere le vostre facce. Ragazze, li avete visti?».
Le due donne, vestite di semplici abiti di lino, non avevano un’aria così
divertita. Sembravano imbarazzate e un po’ impazienti, come se avessero
preferito trovarsi in qualunque altro posto piuttosto che lì, a fare quella
messinscena.
«Baldassarre?» chiese Gesù.
«In persona» rispose lui. Sulle sue gambe, era poco più alto di me.
«Chiedo scusa, non mi capita spesso di ricevere visite. Quindi tu sei Gesù?».
«Sì» rispose lui, con un tono piuttosto tagliente.
«Non ti avevo riconosciuto, senza le fasce da neonato. E questo è il tuo
servo?».
«È il mio amico Biff».
«È lo stesso. Entra e porta anche lui. Le ragazze si occuperanno di Ahmad,
per il momento». Si avviò lungo un corridoio che penetrava nella montagna,
con la lunga veste viola che lo seguiva come la coda di un drago.
Restammo lì accanto alla porta, immobili: poi ci rendemmo conto che,
dopo aver svoltato l’angolo con la sua lampada, noi saremmo ripiombati nel
buio. Così gli andammo dietro.
Pensai al nostro lungo viaggio e a quello che c’eravamo lasciati alle spalle,
ed ebbi la sensazione di poter dare di stomaco da un momento all’altro. «Un
saggio?» dissi a Gesù.
«Mia madre non mi ha mai mentito».
«Non che tu sappia».
12

Con la scusa della vescica iperattiva sono riuscito a trascorrere in bagno
abbastanza tempo per finire di leggere il Vangelo di Matteo. Non so chi sia
l’autore, ma di certo non è il nostro Matteo. Lui era un genio con i numeri
(che altro ci si potrebbe aspettare da un esattore delle tasse?), ma non riusciva
nemmeno a scrivere il suo nome nella sabbia senza infilarci dentro tre errori.
Chiunque abbia scritto questo Vangelo dev’essersi basato su informazioni di
seconda - se non di terza-mano. Non sono qui per criticare… ma vi prego…
non mi nomina neanche una volta! Zero. So che le mie proteste vanno contro
quell’umiltà che Gesù ci ha insegnato… Ma ero il suo migliore amico. Per
non parlare del fatto che questo Matteo (ammesso che sia il suo vero nome) si
preoccupa di descrivere la genealogia di Gesù fino a re Davide, ma tralascia
completamente il periodo intercorso tra la nascita di Gesù e l’arrivo dei tre
saggi a Betlemme e gli ultimi anni della sua vita, dai trenta in poi. Trenta!
Come se non fosse successo niente tra i giorni in cui era nella mangiatoia e il
momento in cui fummo battezzati da Giovanni. Cribbio.
Comunque, adesso so perché mi hanno riportato dal regno dei morti per
farmi scrivere il mio Vangelo. Se il resto di questo “Nuovo Testamento”
somiglia al libro di Matteo, c’è bisogno di qualcuno che racconti la vita di
Gesù. Qualcuno che fosse presente al momento dei fatti… come il
sottoscritto.
Non riesco a credere di non essere stato menzionato nemmeno una volta. E
mi trattengo a stento dal chiedere a Raziel che cosa accidenti sia successo.
Probabilmente si manifestò con cento anni di ritardo per correggere questo
Matteo… Oh cielo, un pensiero spaventoso corretto dall’angelo idiota. Devo
impedirlo.
E il finale? Dove l’ha preso?
Vedrò che cos’ha da dire quest’altro tizio, Marco, ma non sono molto
speranzoso.

La prima cosa che notammo della fortezza di Baldassarre fu che non
c’erano angoli retti. O meglio, non c’erano angoli, punto. Solo curve. Mentre
seguivamo il mago lungo i numerosi corridoi, da un livello all’altro, non
vedemmo un solo gradino squadrato, soltanto rampe a spirale che portavano
da un piano al successivo. Una volta saliti ai piani superiori, dalle finestre
entrava costantemente luce, e la sensazione lugubre che avevamo provato
all’inizio se ne andò subito. La pietra delle pareti era più gialla rispetto al
calcare di Gerusalemme, ma aveva lo stesso aspetto liscio. Nel complesso,
avevi l’impressione di camminare attraverso le viscere tirate a lucido di
qualche enorme creatura vivente.
«Sei stato tu a costruire questo posto, Baldassarre?» chiesi.
«Oh, no» rispose senza voltarsi. «Questo posto è sempre stato qui… io ho
semplicemente rimosso la roccia che lo occupava».
«Oh» feci io, senza riuscire a saperne di più. Non incontrammo porte, solo
una miriade di aperture ad arco, e portali circolari che si aprivano su stanze di
svariate forme e dimensioni. Quando superammo una soglia a forma di uovo
chiusa da una tenda di perline, Baldassarre mormorò: «Le ragazze stanno qui
dentro».
«Ragazze?» chiesi.
«Ragazze?» chiese Gesù.
«Esatto, sciocchini. Sono esseri umani come voi, solo più intelligenti e con
un odore più gradevole».
Be’, questo lo sapevo anch’io. Voglio dire, le avevamo viste quelle due,
no? Sapevo chi erano le ragazze.
Proseguì fino a quando non giungemmo davanti all’unica porta presente
oltre a quella d’ingresso: un altro mostro enorme e corazzato, chiuso da tre
spranghe della circonferenza del mio braccio e da un pesante lucchetto
d’ottone che portava incisi strani caratteri. Il mago si fermò e accostò un
orecchio alla porta, facendo tintinnare l’ingombrante orecchino d’oro contro
una delle spranghe. Si voltò verso di noi e sussurrò qualcosa, e per la prima
volta vidi chiaramente che era molto anziano, malgrado la risata fragorosa e il
passo scattante. «Potete andare dove volete, finché restate qui, ma non dovete
mai aprire questa porta. Xiong zai».
«Xiong zai» ripetei a Gesù, nel caso non avesse sentito.
«Xiong zai» fece lui annuendo, anche se non aveva capito nulla.

Suppongo che l’umanità sia nata allo scopo di andare incontro alle
tentazioni. Se il progresso è una cosa positiva, allora questo è il nostro dono
più prezioso (che cos’è la curiosità se non una tentazione intellettuale? E
quale progresso può esserci senza curiosità?). D’altra parte, si può definire un
dono una sì profonda debolezza? Non sarà piuttosto un difetto di
progettazione? A chi va la responsabilità delle sofferenze umane? Alla
tentazione stessa o - più semplicemente - alla mancanza di giudizio davanti a
essa? In altre parole, di chi è la colpa? Dell’uomo o di un progettista
scadente? Perché resto convinto di una cosa: se Dio non avesse detto ad
Adamo ed Eva di evitare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del
male, la razza umana se ne andrebbe ancora in giro nuda, danzerebbe
beatamente e passerebbe il tempo a dare un nome agli oggetti, tra snack,
pisolini e passi di danza. Allo stesso modo, se quel primo giorno Baldassarre
fosse passato davanti alla gigantesca porta corazzata senza darci avvertimenti,
probabilmente non mi sarei voltato a guardarla una seconda volta e, di nuovo,
ci saremmo potuti risparmiare un bel po’ di guai. È mia la colpa di ciò che
accadde? O è dell’autore della tentazione, Dio?

Baldassarre ci guidò in una grande stanza con festoni di seta che
penzolavano dal soffitto, e con il pavimento coperto di cuscini e tappeti
pregiati. Diversi tavolini bassi erano apparecchiati con vino, frutta, formaggio
e pane.
«Riposate e rifocillatevi» disse Baldassarre. «Sarò di ritorno quando avrò
finito di trattare con Ahmad». E se ne andò in tutta fretta, lasciandoci soli.
«Okay» dissi al mio amico «scopri quello che ti serve da questo tizio, così
possiamo rimetterci in cammino per raggiungere l’altro saggio».
«Non sono sicuro che sarà una cosa tanto rapida. In effetti potremmo
restare qui per un po’ di tempo. Forse per anni».
«Anni? Gesù, siamo in mezzo al nulla, non possiamo restare qui così a
lungo».
«Biff, io e te siamo cresciuti in mezzo al nulla. Qual è la differenza?».
«Le ragazze».
«Cioè?».
«Non cominciare».
Sentimmo delle risate che percorsero il corridoio ed entrarono nella stanza,
seguite di lì a poco da Baldassarre e Ahmad, che si gettarono sui cuscini e
cominciarono a mangiare la frutta e i formaggi messi a disposizione.
«Allora» disse Baldassarre a Gesù «Ahmad mi ha raccontato che hai
cercato di salvare un bandito, e che nel farlo hai accecato uno dei suoi uomini
senza neppure toccarlo. Davvero impressionante».
Gesù abbassò il capo. «È stata una carneficina».
«Affliggiti pure, ma considera anche le parole del maestro Lao Tzu: “Le
armi sono strumenti di sventura. Non c’è morte naturale per i violenti”».
«Ahmad» chiese il mio amico «che cosa succederà alla tua guardia? Quella
che ho…».
«Ormai non mi serve più. Ed è un peccato, perché era il migliore tra gli
arcieri. Lo lascerò a Kabul. Mi ha chiesto di dare i soldi che gli spettano alle
sue due mogli, una ad Antiochia e l’altra a Dunhuang. Immagino che si
metterà a fare il mendicante».
«Chi è Lao Tzu?» chiesi io.
«Avrete un bel po’ di tempo per apprendere gli insegnamenti del maestro»
mi rispose Baldassarre. «Domani vi assegnerò un tutore che vi insegnerà il
Chi Kung, la via del Respiro del Drago. Ma adesso riposatevi e mangiate».
«Non è incredibile che un cinese possa essere tanto nero?» rise Ahmad.
«Avete mai visto una cosa simile?».
«Indossavo la pelle di leopardo dello sciamano quando tuo padre era solo
un guizzo di luce nel grande fiume delle stelle, Ahmad. Ho imparato la magia
animale quando ancora non sapevi camminare, e ho appreso tutti i segreti dei
sacri testi magici egiziani prima che ti spuntasse la barba. Se l’immortalità sta
nella saggezza dei maestri cinesi, allora io sarò cinese finché mi andrà,
indipendentemente dal colore della mia pelle o dal luogo in cui sono nato».
Tentai di calcolare la sua età. A quanto diceva doveva essere molto
anziano, dal momento che nemmeno Ahmad era un ragazzino. Ma i suoi
movimenti erano fluidi e, a quanto potevo vedere, aveva tutti i denti, peraltro
perfetti. Non aveva nulla della debolezza e del rimbambimento degli anziani
che avevo visto a casa.
«Come fai a mantenerti così in forze, Baldassarre?» gli chiesi.
«Magia» mi rispose con un sorriso.
«Non esiste magia all’infuori di quella del Signore» disse Gesù.
Baldassarre si grattò il mento e rispose tranquillo: «Allora non esisterà
neppure magia senza il suo consenso, dico bene?».
Gesù si abbandonò sui cuscini, gli occhi fissi sul pavimento.
Ahmad scoppiò a ridere. «La sua magia non è così misteriosa, ragazzi.
Baldassarre ha otto giovani concubine che estraggono tutto il veleno dal suo
vecchio corpo; è così che si mantiene in forma».
«Santa polenta! Otto?». Ero sbalordito. Eccitato. Invidioso.
«Quella stanza chiusa dalla porta corazzata ha qualcosa a che fare con la
tua magia?» chiese Gesù, serio.
Il ghigno sparì dal viso di Baldassarre. Ahmad spostò lo sguardo da Gesù
al mago, e poi tornò a guardare il mio amico, perplesso.
«Lasciate che vi faccia vedere i vostri alloggi» disse Baldassarre. «Sarà
meglio che vi laviate e che riposiate un po’. Le lezioni cominceranno domani.
Dite addio ad Ahmad, non lo rivedrete tanto presto».

Gli alloggi erano molto spaziosi, più grandi delle case in cui eravamo
cresciuti, con tappeti sul pavimento, sedie costruite con diversi legni scuri ed
esotici e intagliate con forme di draghi e leoni, un tavolo, una brocca e un
catino per lavarsi. Ciascuna delle nostre stanze aveva una scrivania e un
armadio pieno di strumenti per dipingere e disegnare, e una cosa che né io né
Gesù avevamo mai visto: un letto. A dividere il mio spazio dal suo c’era un
muro che non arrivava al soffitto, così potevamo starcene sdraiati a
chiacchierare prima di addormentarci, proprio come facevamo nel deserto. E
quella prima sera capii che il mio amico era seriamente tormentato da
qualcosa.
«Mi sembri… non so… angosciato» gli dissi.
«È per i banditi. Credi che avrei potuto resuscitarli?».
«Tutti? Non lo so. Avresti potuto?».
«Ci ho pensato. Forse sarei riuscito a farli camminare e respirare di
nuovo… a riportarli in vita. Ma non ci ho nemmeno provato».
«Perché?».
«Perché avevo paura che ci avrebbero uccisi e rapinati. L’ha detto
Baldassarre: “Non c’è morte naturale per i violenti”».
«La Torah dice: “Occhio per occhio, dente per dente”. Erano dei furfanti».
«Ma lo sono sempre stati? E lo sarebbero stati ancora, negli anni a
venire?».
«Sicuro: bandito una volta, bandito per sempre. Credo che facciano un
giuramento, o qualcosa del genere. E poi non li hai uccisi tu».
«Ma non li ho nemmeno salvati, e ho privato l’arciere della vista. Non è
stato giusto».
«Eri arrabbiato».
«Non è una giustificazione».
«Che intendi dire? Tu sei il Figlio di Dio. E Dio ha cancellato l’intera
umanità con un’alluvione perché era arrabbiato».
«Non sono sicuro che sia corretto».
«Scusa?».
«Dobbiamo tornare a Kabul. Devo restituire la vista a quell’uomo,
ammesso che sia possibile».
«Gesù, questo letto è la cosa più comoda su cui mi sia mai sdraiato. Non
possiamo aspettare?».
«Immagino di sì».
Rimase a lungo in silenzio, così pensai che si fosse addormentato. Io non
avevo alcuna voglia di dormire, ma non mi andava neppure di parlare di
banditi.
«Ehi, Gesù?».
«Che c’è?».
«Che cosa pensi ci sia in quella stanza chiusa dalla porta corazzata? Com’è
che l’ha chiamata?».
«Xiong zai».
«Già. Xiong zai. Che cos’è, secondo te?».
«Non lo so, Biff. Dovresti chiederlo al tuo tutore».
«Xiong zai significa “casa del destino” nel gergo del feng shui» mi spiegò
Piccoli Piedi della Danza Divina del Gioioso Orgasmo. Era in ginocchio
davanti a un basso tavolo di pietra, su cui c’erano due tazze e una teiera di
terracotta. Indossava un abito di seta rossa ornato di draghi d’oro e stretto da
una fusciacca nera. I capelli erano neri, lisci e lunghissimi, e li portava
raccolti in uno chignon perché non toccassero terra mentre serviva il tè.
Aveva il viso a forma di cuore e la pelle liscia come alabastro lucido: se mai
aveva visto il sole, le tracce si erano perse da tempo. Portava sandali di legno
fermati da nastri di seta e, come avrete intuito dal suo nome, aveva due
piedini minuscoli. Dovetti far passare tre giorni prima di trovare il coraggio di
chiederle della stanza.
Versò il tè con grazia squisita, ma senza cerimonie, come aveva fatto nei
tre giorni precedenti prima delle lezioni. Questa volta, però, lasciò cadere
nella mia tazza una goccia di una pozione contenuta in una boccetta di
porcellana che portava al collo, appesa a una catenina.
«Che cosa c’è lì dentro, Gioia?». La chiamavo così. Il nome intero era
troppo lungo per le conversazioni, e agli altri diminutivi (Piedini, Danza
Divina e Orgasmo) non aveva reagito bene.
«Veleno» disse con un sorriso. Le labbra erano timide e infantili, ma nei
suoi occhi c’era un’astuzia millenaria.
«Ah» feci io, e assaggiai il tè. Era gustoso e fragrante proprio come le altre
volte, ma distinsi una punta amarognola.
«Biff, riesci a indovinare di che cosa tratterà la lezione di oggi?» mi
chiese.
«Pensavo che mi avresti rivelato che cosa c’è nella stanza del destino».
«No. Baldassarre non vuole che tu lo sappia. Riprova».
Le dita delle mani e dei piedi cominciavano a formicolarmi, e d’un tratto
mi accorsi che mi si era intorpidito il cuoio capelluto. «Vuoi insegnarmi a
preparare la polvere infiammabile usata da Baldassarre il giorno che siamo
arrivati?».
«No, sciocchino». La sua risata aveva il suono musicale di un torrente
limpido che scorre sulle rocce. Mi diede un leggero colpetto al petto e caddi
all’indietro, incapace di muovermi. «La lezione di oggi è… sei pronto?».
Brontolai. Non riuscivo a fare altro. Avevo la bocca paralizzata.
«Se qualcuno ti mette del veleno nel tè, non berlo».
«Uh, uh» tentai di farfugliare.

«Bene» disse Baldassarre «vedo che Piccoli Piedi della Danza Divina del
Gioioso Orgasmo ti ha rivelato che cosa tiene nella boccettina che porta al
collo». Il mago rise di cuore e si appoggiò a un mucchio di cuscini.
«È morto?» chiese Gesù.
Le ragazze deposero il mio corpo paralizzato su alcuni cuscini accanto a
lui, poi mi tirarono su perché potessi guardare il mago. Stupenda Via di
Rugiada Celestiale Numero Sei - che avevo appena conosciuto e per cui non
avevo ancora un soprannome - mi mise delle gocce negli occhi per tenerli
idratati, poiché non riuscivo più ad abbassare le palpebre.
«No» disse Baldassarre «non è morto. È soltanto rilassato».
Gesù mi pungolò tra le costole e, naturalmente, non reagii. «Decisamente»
commentò.
Stupenda Via di Rugiada Celestiale Numero Sei consegnò a Gesù la
fialetta con le gocce per gli occhi e si scusò, uscendo dalla stanza insieme alle
altre ragazze. «Può vederci e sentirci?».
«Oh, sì. E assolutamente vigile».
«Ehi, Biff. Sto imparando il Chi» mi gridò nell’orecchio. «Fluisce
tutt’intorno a noi. Non puoi vederlo né sentirlo, ma c’è».
«Non è necessario urlare» disse Baldassarre. Ed è la stessa cosa che avrei
detto io, se fossi riuscito a dire qualcosa.
Gesù mi mise qualche goccia negli occhi. «Scusa». E poi si rivolse a
Baldassarre: «Questo veleno da dove viene?».
«In Cina ho studiato con un saggio che era stato l’avvelenatore reale
dell’imperatore. Mi ha insegnato questa e molte altre magie dei cinque
elementi».
«Perché un imperatore avrebbe bisogno di una figura del genere?».
«Questa è una domanda che farebbe solo uno zotico».
«E questa è una risposta che darebbe solo un asino» disse Gesù.
Baldassarre rise. «E sia, bambino della stella. Una domanda in buona fede
merita una degna risposta. Un imperatore ha molti nemici da mandare
all’altro mondo, ma soprattutto ne ha tanti che lo ucciderebbero volentieri. Il
saggio passava la maggior parte del suo tempo a mescolare antidoti».
«Quindi esiste un antidoto per questo veleno» disse, pungolandomi di
nuovo nelle costole.
«A tempo debito. Sì, a tempo debito. Prendi ancora un po’ di vino, Gesù.
Vorrei discutere con te dei gioielli del Tao. I tre gioielli del Tao sono
compassione, sobrietà e umiltà…».
Un’ora dopo, quattro ragazze cinesi mi sollevarono di peso, pulirono il
pavimento dove avevo sbavato e mi portarono nei nostri alloggi. Mentre
passavamo davanti al portone corazzato, sentii una voce stridente nella mia
testa che diceva: «Ehi, ragazzo, apri la porta», ma le ragazze non vi badarono.
Una volta in camera, mi fecero il bagno e mi fecero bere un brodo molto
saporito, quindi mi misero a letto e mi chiusero gli occhi.
Sentii entrare Gesù, che si preparò per andare a letto. «Baldassarre dice che
presto ti farà somministrare l’antidoto da Gioia, ma prima devi imparare la
lezione. Dice che questo è il metodo cinese. Strano, no?».
Se fossi stato in grado di emettere qualche suono, gli avrei detto di sì, che
era strano.

Quindi, tanto perché lo sappiate, le concubine di Baldassarre erano otto, e i
loro nomi erano:

Piccoli Piedi della Danza Divina del Gioioso Orgasmo,
Stupenda Via di Rugiada Celestiale Numero Sei,
Tentazione di Luce Dorata della Luna di Settembre,
Delicata figura della Lotta tra Due Leoni Imperiali sotto una Coperta,
Custode Femminile dei Tre Passaggi Segreti della Grande Amicizia,
Cuscini di Seta della Morbidezza Celestiale delle Nuvole,
Baccelli di Piselli in Salsa d’Anatra con Tagliolini Croccanti,
Sue.

E, come capita all’uomo, mi ritrovai a interrogarmi sulle origini, sulle
motivazioni dei nomi e su cose simili, dal momento che le concubine erano
una più bella dell’altra, in qualunque ordine le mettessi. E questo era piuttosto
strano. Così dopo diverse settimane, quando non riuscii più a sopportare la
curiosità che mi graffiava il cervello come un gatto in una cesta, aspettai una
delle rare occasioni in cui rimanevo da solo con Baldassarre e chiesi: «Perché
Sue?».
«È il diminutivo di Susanna».
Ecco.
La traduzione dei loro nomi per intero era alquanto goffa, e se cercavo di
pronunciarli in cinese mi uscivano dei suoni simili a quelli che avrebbe fatto
una borsa piena d’argenteria che cadeva da una scala (ting, tong, yang,
wing…). Così, Gesù e io optammo per i seguenti diminutivi:

Gioia,
Numero Sei,
Luna,
Due Leoni Imperiali,
Passaggio Segreto,
Cuscini,
Baccelli
e, naturalmente, Sue.

Per Sue non trovammo diminutivi.
Fatta eccezione per un gruppo di uomini che portavano le provviste da
Kabul ogni due settimane, le otto ragazze si occupavano di tutte le faccende
nella fortezza. Malgrado la località remota e l’evidente ricchezza contenuta
nel palazzo, non c’erano guardie. E la cosa mi parve piuttosto curiosa.

Nel corso della settimana successiva, Gioia mi istruì riguardo ai simboli
che avrei dovuto conoscere per poter leggere il Libro dei divini elisir o dei
nove treppiedi dell’imperatore giallo e il Libro della perla trasparente nei
nove cicli e dei nove elisir dei divini immortali. Il piano era il seguente: una
volta che avessi acquisito una certa pratica con quei due testi antichi, sarei
stato in grado di assistere Baldassarre nella sua ricerca dell’immortalità. A
proposito, era questo il motivo per cui eravamo lì, e per cui Baldassarre aveva
seguito la stella fino a Betlemme quando era nato Gesù. Proprio così: per
questo aveva chiesto ad Ahmad di tenere gli occhi aperti nel caso un
ragazzino fosse venuto a cercare il mago africano. Baldassarre cercava
l’immortalità e credeva che Gesù possedesse la chiave per ottenerla.
Ovviamente, allora non lo sapevamo.
Ero particolarmente concentrato mentre studiavo i simboli, e il fatto che
non riuscissi a muovere un solo muscolo mi era d’aiuto. Ogni mattina, Due
Leoni Imperiali e Cuscini mi facevano alzare dal letto, mi ficcavano sulla
latrina, mi facevano il bagno e mi facevano bere del brodo; poi mi portavano
nella biblioteca e mi sistemavano su una sedia, mentre Gioia mi istruiva sui
caratteri che dipingeva, con un pennello bagnato, su grosse lastre d’ardesia
poste su cavalletti. Qualche volta le altre ragazze si trattenevano e mi
facevano assumere diverse pose che le divertivano e, per quanto mi sentissi
infastidito da tale umiliazione, ascoltare le risate infantili e convulse fino al
parossismo di Cuscini e Due Leoni Imperiali stava rapidamente diventando il
momento culminante delle mie giornate da paralitico.
A mezzogiorno Gioia si prendeva una pausa, mentre altre due ragazze -
quando non erano di più - mi ficcavano sulla latrina, mi facevano bere altro
brodo e mi canzonavano senza pietà fino a quando lei non tornava e batteva le
mani per mandarle via, dopo averle rimproverate a dovere (malgrado i piedi
piccoli, Gioia era il boss delle concubine).
Qualche volta, durante le pause, Gesù abbandonava le lezioni e veniva in
biblioteca a trovarmi.
«Perché l’avete dipinto di blu?» chiese.
«Perché gli dona» rispose Baccelli. Due Leoni Imperiali e Passaggio
Segreto se ne stavano da un lato, con i pennelli in mano, a rimirare la loro
opera.
«Be’, non sarà felice di questo quando avrà avuto l’antidoto, posso
assicurarvelo». Poi si rivolse a me: «Sai, non sei male blu. Biff, ho parlato a
tuo favore con Gioia, ma dice che non hai ancora imparato la lezione. Invece
sì, non è vero? Smetti di respirare per un secondo se la risposta è
affermativa».
Lo feci.
«Lo sapevo». Si chinò e mi sussurrò all’orecchio: «Si tratta di quella
stanza dietro la porta corazzata. È questa la lezione che vogliono farti
imparare. Ho avuto la sensazione che, se avessi fatto qualche domanda al
riguardo, mi sarei ritrovato accanto a te». Si alzò in piedi. «Adesso devo
andare. Devo imparare i tre gioielli. Sono alla compassione. Ma non è dura
come sembra».

Due giorni dopo, di mattina, Gioia venne in camera mia con una tazza di
tè. Tirò fuori la boccetta dalla veste con i draghi e me la mise davanti agli
occhi. «Li vedi questi due piccoli tappi ai lati dell’ampolla, uno bianco e uno
nero? Quest’ultimo contiene il veleno che ti ho somministrato. Il bianco è
l’antidoto. Credo che tu abbia imparato la lezione».
Risposi sbavando, mentre mi auguravo con tutto il cuore che non avesse
confuso i tappi.
Inclinò la boccetta sulla tazza e poi mi fece ingurgitare un po’ di tè; per la
verità, una metà finì sul davanti della veste.
«Ci vorrà un po’ perché faccia effetto. E potresti avvertire un leggero
disagio mentre il veleno se ne va».
Lasciò cadere l’ampolla nell’incavo dei suoi seni cinesi, mi diede un bacio
sulla fronte e se ne andò. Se avessi potuto, avrei ridacchiato per la pittura blu
che aveva sulle labbra quando lasciò la mia stanza.

“Un leggero disagio” aveva detto. Da dieci giorni o quasi non avevo la
minima percezione del mio corpo, poi, tutto d’un tratto, le cose ripresero a
funzionare. Immaginate, la mattina, di rotolare fuori dal vostro letto caldo per
finire in un… ehm, non saprei… in un lago d’olio bollente.
«Per Giosafat, Gesù! Sto per strisciare fuori dalla mia pelle». Ci trovavamo
nei nostri alloggi, e avevo preso l’antidoto circa un’ora prima. Baldassarre
aveva mandato il mio amico a prendermi per farmi accompagnare in
biblioteca, allo scopo di vedere cosa stavo facendo.
Gesù mi posò una mano sulla fronte, ma al posto della calma che
normalmente accompagnava quel gesto, giunse una sensazione del tutto
diversa: sembrava quasi che mi avesse messo una croce rovente sulla pelle
per marchiarmi. Gli scostai la mano.
«Grazie, ma così non mi aiuti».
«Forse ti ci vorrebbe un bagno».
«Già provato. Cribbio, questa cosa mi sta facendo impazzire!». Saltellavo
in cerchio perché non sapevo che altro fare.
«Magari Baldassarre può darti qualcosa».
«Portami da lui. Non posso starmene seduto qui».
Camminammo lungo il corridoio e scendemmo diversi livelli per arrivare
in biblioteca. Mentre percorrevamo una delle rampe a spirale, afferrai il mio
amico per un braccio.
«Gesù, guarda questa rampa: non noti niente?».
Studiò la superficie e si sporse per osservarla. «No. Dovrei?».
«E che mi dici delle pareti, dei soffitti e dei pavimenti? Nulla?».
Si guardò intorno. «Sono tutti di solida roccia?».
«Sì, ma cos’altro? Guarda bene. Pensa alle case che costruivamo a Zippori.
Ora noti qualcosa?».
«Non ci sono segni di strumenti?».
«Esatto» dissi. «Nelle ultime due settimane ho passato un sacco di tempo a
fissare pareti e soffitti, non avendo molto altro da guardare. Non c’è la
minima traccia dell’impiego di uno scalpello, di un piccone, di un martello…
niente. È come se queste camere fossero state scavate dal vento nel corso di
millenni, ma tu sai bene che non è così».
«Dove vuoi arrivare?».
«Il fatto è che Baldassarre e le sue ragazze ci nascondono molto più di
quanto diano a vedere».
«Dovremmo chiederlo a loro».
«No, invece. Non capisci? Dobbiamo scoprire che cosa sta succedendo
senza che sappiano che noi sappiamo».
«Perché?».
«“Perché” chiede lui?! Perché l’ultima volta che ho fatto una domanda mi
hanno avvelenato, ecco perché. E sono convinto che, se Baldassarre non
pensasse che tu hai qualcosa che vuole, non avrei mai avuto l’antidoto».
«Ma io non ho nulla» disse, sincero.
«Forse non sai di averlo, ma non puoi andartene in giro a chiedere che
cos’è. Dobbiamo essere attenti. Scaltri. E dobbiamo spiarli».
«Ma io non sono bravo a fare queste cose». Gli misi un braccio intorno alle
spalle. «Non è sempre così fico essere il Messia, eh?».
13

«Potrei prendere a calci il culo marcio di quello stronzo» ha esclamato
l’angelo saltando sul letto e agitando un pugno verso lo schermo del
televisore.
«Raziel» gli ho detto «sei un angelo del Signore e lui è solo un lottatore
professionista. Credo sia sottinteso che potresti prenderlo a calci». Questa
storia va avanti da un paio di giorni, ormai. Raziel ha scoperto di avere
un’altra passione. Dalla reception hanno chiamato una decina di volte e hanno
mandato un cameriere per dirgli di fare meno baccano. «E poi è solo
finzione».
Raziel mi ha guardato come se l’avessi preso a schiaffi. «Non
ricominciare, questi non sono attori». Ha fatto un salto mortale all’indietro,
sempre sul letto. «Lo vedi? L’ha picchiato con una sedia. Vai, bello. Quello è
davvero cattivo».
Adesso è sempre così. Talk show con ignoranti che urlano, soap opera e
wrestling. E l’angelo custodisce il telecomando quasi fosse l’Arca
dell’Alleanza.
«Questo è il motivo per cui a voi angeli non è stato concesso il libero
arbitrio. Perché passereste il vostro tempo a guardare questa roba».
«Ma davvero?». Ha tolto il volume forse per la prima volta dopo giorni.
«Allora dimmi, Levi detto Biff: se guardando questi programmi sto abusando
del briciolo di libertà che mi è stato concesso per portare a termine questo
compito… che mi dici della tua gente?».
«Con la “mia gente” intendi gli esseri umani?». Stavo menando il can per
l’aia. Non ricordavo che Raziel avesse mai sostenuto un’argomentazione
valida, e non ero preparato. «Ehi, non dare la colpa a me. Io sono morto da
duemila anni. Non avrei permesso che succedessero cose simili».
«Uh-huh» ha detto lui, incrociando le braccia e assumendo una posa
assurda che aveva imparato da un gangster rapper su MTV.
Se avevo imparato qualcosa da Giovanni Battista, era che prima confessavi
un peccato, prima potevi cominciare a farne altri. E migliori, per giunta. Oh, e
un altro insegnamento fondamentale era quello di non far incazzare Salomè.
«Okay. Abbiamo combinato un casino».
«È proprio questo che ti sto dicendo» ha commentato lui, decisamente
compiaciuto.
Ah sì? Dov’era lui quando avevamo bisogno della spada della giustizia
nella fortezza di Baldassarre? Probabilmente in Grecia, a guardare i lottatori.

Quando arrivammo in biblioteca, Baldassarre era seduto al pesante tavolo
a forma di drago e stava mangiando un pezzo di formaggio con un bicchiere
di vino, mentre Passaggio Segreto e Baccelli gli versavano sulla testa calva
una cera gialla e appiccicosa che poi spalmavano con delle spatoline di legno.
I cavalletti e le lavagne che usavo per le mie lezioni erano stati spostati e
impilati contro gli scaffali pieni di pergamene e codicilli.
«Ti dona il blu» commentò.
«Già, lo dicono tutti». Una volta assorbita, la pittura non se n’era più
andata, ma se non altro la pelle aveva smesso di prudermi.
«Entrate, accomodatevi. Questa mattina mi hanno portato del formaggio da
Kabul. Assaggiatelo».
Gesù e io ci sedemmo dall’altra parte del tavolo, di fronte al mago. Come
c’era da aspettarsi, Gesù ignorò il mio consiglio e chiese direttamente a
Baldassarre della porta corazzata.
L’allegro mago si fece improvvisamente serio. «Ci sono misteri con cui
bisogna imparare a convivere. Forse il vostro Dio non disse a Mosè che
nessuno doveva guardarlo in faccia? E il profeta non accettò? Quindi, dovete
accettare di non sapere che cosa c’è in quella stanza».
«Conosce la Torah, e anche i Profeti e le Scritture» mi spiegò Gesù. «Su
Salomone ne sa più di tutti i rabbini e i sacerdoti d’Israele».
«Ma è magnifico, Gesù». Gli passai un pezzo di formaggio per distrarlo. E
al mago dissi: «Ma dimentichi il sedere di Dio». Quando passi la maggior
parte della tua vita insieme al Messia, finisci anche tu per imparare qualcosa
della Torah.
«Come?» chiese Baldassarre. Proprio in quel momento le ragazze
afferrarono un lembo della cera indurita che gli avevano spalmato sul capo e
la strapparono con un unico, rapido movimento. «Ahi, brutte arpie! Non
potete avvertirmi quando state per farlo? Fuori di qui».
Le ragazze ridacchiarono e nascosero i loro ghigni soddisfatti dietro i
raffinati ventagli con decorazioni di fagiani e fiori di susino. Lasciarono la
biblioteca e nel corridoio rimase l’eco delle loro fanciullesche risate.
«Non c’è un modo più semplice per farlo?» chiese il mio amico.
Baldassarre gli rivolse un’occhiata arcigna. «Non credi che, dopo duecento
anni, se ci fosse un modo più semplice non l’avrei scoperto?».
Gesù lasciò cadere il formaggio. «Duecento anni?».
«Una volta che trovi un’acconciatura che ti piace» intervenni «te la tieni.
Non che quelli si possano considerare capelli».
Il mago non era affatto divertito. «Cos’è questa storia del sedere di Dio?».
«E non si può nemmeno considerare una pettinatura» aggiunsi, alzandomi
per andare a prendere una copia della Torah che avevo visto sugli scaffali.
Fortunatamente era un antico codice - simile a un libro moderno - altrimenti
mi sarei ritrovato a srotolare una pergamena per venti minuti e si sarebbe
persa tutta la drammaticità del momento. Saltai rapidamente all’Esodo.
«Bene, ecco la parte di cui stavi parlando: “Ma tu non potrai vedere il mio
volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”. Ci sei? Dio copre
Mosè con la mano mentre passa, ma poi gli dice: “Toglierò la mano e vedrai
la mia parte posteriore, ma il mio volto non lo si può vedere”».
«Quindi?».
«Quindi Dio concede a Mosè di vedere il suo posteriore… e, per usare il
tuo esempio, anche tu lo devi a noi. Allora, che cosa c’è dietro la porta
corazzata?». Davvero brillante. Feci una pausa e osservai il blu delle mie
unghie, mentre assaporavo la mia vittoria.
«Questa è la cosa più sciocca che abbia mai sentito» osservò Baldassarre.
La momentanea perdita di compostezza fu sostituita dall’atteggiamento calmo
e lievemente divertito del maestro. «E se vi dicessi che, adesso, per voi è
pericoloso sapere che cosa si cela dietro quella porta, ma che una volta finiti
gli studi non solo lo saprete, ma otterrete un enorme potere da tale
conoscenza? Quando vi riterrò pronti, avete la mia parola che vi mostrerò
cosa c’è in quella stanza. Ma in cambio dovete promettermi di studiare e
seguire con attenzione le lezioni. Potete farlo?».
«Ci stai vietando di fare domande?» chiese il mio amico.
«Oh, no. Vi sto semplicemente negando delle risposte, per il momento. E
fidatevi, il tempo è l’unica cosa che possieda in abbondanza».
Gesù si voltò verso di me. «Ancora non so che cosa devo imparare qui, ma
sono certo di non averlo ancora imparato». Mi stava implorando con lo
sguardo di non insistere oltre. E decisi di lasciar cadere la questione; e poi,
non mi garbava l’idea di essere avvelenato un’altra volta.
«Quanto tempo ci vorrà?» chiesi. «Per le lezioni, intendo».
«Ad alcuni studenti occorrono molti anni per apprendere la natura del Chi.
E voi avrete tutto ciò che vi occorre, finché starete qui».
«Anni? Possiamo pensarci?».
«Prendetevi tutto il tempo che volete». Il mago si alzò in piedi. «Adesso
devo andare negli alloggi delle ragazze. Adorano strofinare i seni nudi sulla
mia testa dopo la cera, quando è più liscia che mai».
Deglutii. Gesù sorrise e guardò il tavolo che aveva davanti. Spesso mi
capitò di chiedermi - non solo allora, quasi in ogni occasione - se, qualora
fosse stato necessario, avrebbe avuto la capacità di spegnere la sua
immaginazione. Probabilmente sì. Altrimenti non so come sarebbe riuscito a
vincere le tentazioni. Io, d’altra parte, ero schiavo delle mie fantasie, ora
impazzite al pensiero del massaggio al cuoio capelluto del mago.
«Resteremo qui. A imparare. Faremo ciò che serve» dissi.
Gesù scoppiò a ridere e poi si calmò abbastanza da riuscire a parlare: «Sì,
Baldassarre. Rimarremo e impareremo. Ma prima devo andare a Kabul per
sistemare una faccenda».
«Ma certo. Puoi partire domani. Chiederò a una delle ragazze di indicarti la
strada. Ma adesso devo augurarvi la buonanotte». Il mago se ne andò, mentre
Gesù collassava tra le risate e io mi chiedevo come sarei stato con la testa
rasata.
La mattina, Gioia venne nei nostri alloggi vestita come un mercante del
deserto: indossava una tunica ampia, morbidi stivali di pelle e calzoni. I
capelli erano raccolti sotto un turbante, mentre in mano teneva un lungo
frustino. Ci guidò attraverso uno stretto passaggio che entrava in profondità
nella montagna e finiva per emergere sul lato di una parete scoscesa. Con
l’aiuto di una scaletta di corda salimmo in cima all’altopiano, dove Cuscini e
Sue ci stavano aspettando con tre dromedari sellati e pronti per affrontare il
breve viaggio. Sull’altopiano c’era una piccola fattoria con diversi recinti di
polli, qualche capra e qualche maiale.
«Non sarà facile far scendere i dromedari da quella scaletta» osservai.
Gioia mi lanciò un’occhiata arcigna e si avvolse la coda del turbante
intorno al viso, così da lasciare scoperti solo gli occhi. «C’è un sentiero che
scende» disse. Poi spronò il dromedario con il frustino e partì, mentre noi
tentavamo di salire in sella per seguirla.
L’ampiezza del sentiero consentiva appena a un dromedario di scendere
ondeggiando senza cadere; una volta arrivati in pianura, però, era impossibile
trovare l’ingresso della gola. Un’ulteriore misura di sicurezza per una fortezza
che non aveva guardie, pensai.
Durante il viaggio a Kabul, io e Gesù tentammo diverse volte di
coinvolgere Gioia in una conversazione, ma era irritabile e brusca, e spesso si
teneva a distanza.
«Probabilmente è depressa perché non mi sta torturando» ipotizzai.
«Capisco che la cosa possa deprimerla. Forse dovresti farti mordere dal tuo
dromedario. Con me funziona sempre».
Proseguii senza dire un’altra parola.
È altamente irritante aver inventato una cosa rivoluzionaria come il
sarcasmo solo perché qualche dilettante possa abusarne.
Una volta a Kabul, Gioia guidò la spedizione di ricerca della guardia che
aveva perso la vista: chiese informazioni a tutti i mendicanti ciechi che
incontrammo al mercato. «Avete visto un arciere cieco che è arrivato qui con
una carovana di dromedari poco più di una settimana fa?».
Noi due restavamo qualche metro dietro di lei, e quando si voltava
cercavamo disperatamente di non ridere. Gesù avrebbe voluto farle notare il
difetto del suo metodo, mentre io godevo a osservare la sua incompetenza:
una vendetta passiva per essere stato avvelenato. Non c’era traccia della
padronanza e della sicurezza di sé che mostrava alla fortezza. Era chiaramente
fuori dal suo elemento, e io mi divertivo a guardarla.
«Vedi» spiegai a Gesù «quello che sta facendo Gioia è ironico, ma non è
voluto. È questa la differenza tra ironia e sarcasmo: la prima è spontanea,
mentre quest’ultimo richiede la tua volontà. Il sarcasmo va creato».
«Non stai scherzando?».
«Ma perché perdo tempo con te?».
Lasciammo che Gioia continuasse con le sue ricerche per un’altra ora,
prima di suggerirle di rivolgersi ai vedenti e, in particolare, agli uomini che
viaggiavano con carovane di dromedari. Una volta cambiata tattica, ci bastò
poco per essere indirizzati a un tempio che si diceva essere territorio
d’accattonaggio dell’ex guardia.
«Eccolo là» disse Gesù indicando un uomo avvolto in un mucchio di
stracci che chiedeva l’elemosina alla gente che entrava e usciva dal tempio.
«A quanto pare è stata dura per lui» dissi, sorpreso nel vedere uno degli
uomini più vitali (e spaventosi) che avessi mai incontrato, divenuto in così
poco tempo una creatura tanto patetica. Ma ancora una volta stavo
trascurando l’aspetto teatrale della faccenda.
«Una grande ingiustizia è stata commessa» disse Gesù. Si avvicinò alla
guardia e gli posò delicatamente una mano sulla spalla. «Fratello, sono qui
per alleviare le tue sofferenze».
«Pietà per un povero cieco» disse l’altro, porgendo una ciotola di legno.
«Adesso calmati». Gesù spostò la mano sui suoi occhi. «Quando la
toglierò, tu tornerai a vedere».
Osservai lo sforzo dipinto sul suo volto mentre si concentrava per guarirlo.
Le lacrime gli scendevano lungo le guance e cadevano sulle lastre di pietra.
Ripensai alla facilità con cui aveva condotto le sue guarigioni ad Antiochia, e
compresi che la fatica non veniva dall’atto in sé, bensì dal senso di colpa che
si portava dietro per aver reso cieco quell’uomo. Quando tolse la mano e si
allontanò di un passo, tremarono entrambi.
Gioia si fece da parte e si coprì il volto, come se volesse ripararsi da una
zaffata d’aria fetida.
La guardia continuava a fissare un punto davanti a sé, esattamente come
quando mendicava, ma i suoi occhi non erano più bianchi.
«Riesci a vedere?» gli domandò Gesù.
«Sì, ma è tutto sbagliato. La pelle delle persone la vedo blu».
«No, lui è blu. Ricordi? È il mio amico Biff».
«Sei sempre stato così?».
«No, è un cambiamento recente».
Poi sembrò guardare Gesù per la prima volta, e l’espressione di meraviglia
lasciò il posto all’odio. Balzò su di lui tirando fuori un pugnale dagli stracci.
Gli avrebbe diviso la cassa toracica con un solo colpo, se Gioia non l’avesse
fatto inciampare all’ultimo secondo. Ma un istante dopo era già in piedi e
pronto a sferrare un secondo attacco. Io riuscii a sollevare la mano in tempo
per infilargli due dita negli occhi, mentre lei gli sferrava un calcio sul collo e
lo atterrava.
«I miei occhi!» gridò in agonia.
«Scusa».
Gioia allontanò il pugnale con il piede. Io misi un braccio intorno al torace
di Gesù e lo aiutai a rialzarsi. «Sarà meglio che ti allontani un po’, prima che
torni a vedere».
«Ma io volevo solo aiutarlo» disse. «L’ho reso cieco per errore».
«Gesù, a lui questo non importa. Tutto quello che sa è che tu sei il nemico.
E vuole annientarti».
«Non so quello che faccio. Ogni volta che provo a fare la cosa giusta,
mando tutto a rotoli».
«Dobbiamo andare» disse Gioia. Prese Gesù per un braccio, mentre io gli
afferrai l’altro, e insieme lo facemmo allontanare prima che la guardia si
riprendesse.
Gioia aveva una lista di cose che doveva portare a Baldassarre, così
passammo un po’ di tempo a cercare delle grosse ceste di cinabro (un
minerale da cui il mago avrebbe estratto il mercurio), oltre ad alcune spezie e
pigmenti. Gesù ci seguiva intontito, fino a quando non passammo davanti a
un mercante che vendeva i chicchi neri da cui si ricavava quella bevanda
scura che avevamo assaggiato ad Antiochia.
«Compramene un po’» disse. «Comprami un po’ di quei chicchi».
Gioia lo accontentò e, come un bambino, Gesù cullò il suo sacchettino fino
alla fortezza. Durante il viaggio di ritorno restammo perlopiù in silenzio, ma
al crepuscolo, quando avevamo quasi raggiunto il sentiero nascosto che saliva
all’altopiano, Gioia mi si affiancò.
«Come c’è riuscito?» mi chiese.
«A fare che?».
«L’ho visto guarire gli occhi di quell’uomo. Come ha fatto? Conosco molti
tipi di magia, ma non l’ho visto lanciare incantesimi, né mischiare pozioni».
«È una magia molto potente, in effetti». Mi girai per guardarmi intorno,
per essere sicuro che lui non ci stesse ascoltando. Ma stava abbracciando i
suoi chicchi neri mentre borbottava tra sé e sé, come aveva fatto durante
l’intero tragitto. Probabilmente stava pregando.
«Voglio saperlo» insistette Gioia. «Ho provato a chiederlo a lui, ma sembra
intontito e non fa che canticchiare».
«Be’, posso soddisfare la tua curiosità, ma tu devi dirmi che cosa si
nasconde dietro la porta corazzata».
«Non mi è permesso, ma forse possiamo fare un altro scambio». Si scostò
il turbante dal viso e sorrise. Era incredibilmente bella alla luce della luna,
anche in abiti maschili. «Conosco oltre mille modi per dare piacere a un
uomo, e questo è il mio bagaglio personale. Anche le altre ragazze conoscono
molti trucchi che saranno felici di mostrarti».
«Sì, ma io che ne ricavo? A cosa mi serve sapere come donare piacere a un
uomo?».
Gioia si levò del tutto il turbante e lo usò per colpirmi alla nuca, facendo
volare una nuvoletta di polvere. «Sei stupido e sei blu, e la prossima volta che
ti avveleno mi assicurerò di usare una sostanza per cui non esiste antidoto».
Persino la saggia e imperscrutabile Gioia reagiva alle provocazioni,
probabilmente. Sorrisi. «Accetto la tua miserabile offerta» dichiarai con tutta
la pomposità di cui è capace un adolescente. «E in cambio ti insegnerò il più
grande segreto della nostra magia. Un segreto che io stesso ho inventato. Io e
Gesù lo chiamiamo sarcasmo».
«Voglio preparare il caffè non appena saremo a casa» disse il mio amico.
Fu impegnativo tentare di comprendere il procedimento con cui Gesù
aveva restituito la vista alla guardia, soprattutto dal momento che io stesso
non avevo idea di come avesse fatto. Ma grazie a indicazioni accuratamente
sbagliate, all’offuscamento, ai sotterfugi, a un po’ di astuzia e a un miscuglio
di autentiche sciocchezze, riuscii a barattare la mia ignoranza con mesi di
audaci “lucidamenti di testa” da parte della bella Gioia e delle altre avvenenti
fanciulle. Non so come, ma l’urgenza di sapere che cosa si celasse dietro la
porta corazzata (e di conoscere le risposte ad altri enigmi riguardanti la
fortezza) si affievolì, e di giorno ero appagato dal seguire le lezioni
assegnatemi dal mago, mentre spingevo la mia immaginazione al limite con le
associazioni matematiche della notte. L’aspetto negativo era che Baldassarre
mi avrebbe ucciso se avesse saputo che approfittavo delle grazie delle sue
concubine: ma forse un frutto non diventa più dolce quando l’hai rubato? Oh,
che delizia essere innamorati (di otto concubine cinesi).
Intanto Gesù si dedicava ai suoi studi con il consueto zelo, corroborato dal
caffè che beveva ogni mattina fino a saltare da una parte all’altra della stanza
per l’entusiasmo.
«Guarda qui, lo vedi, Biff? Il maestro Confucio dice di ricambiare un torto
con la giustizia, e una gentilezza con la gentilezza. Mentre Lao Tzu sostiene
che un torto vada ricambiato con la gentilezza. Hai capito?». Danzava di qua
e di là trascinandosi dietro le pergamene, sperando che in qualche modo
riuscissi a condividere il suo entusiasmo per i testi antichi. E io ci provavo. Ci
provavo sul serio.
«No, non lo capisco. La Torah dice: “Occhio per occhio, dente per dente”,
questa è la giustizia».
«Esattamente. Credo che Lao Tzu abbia ragione. La gentilezza viene prima
della giustizia. Finché cerchi la giustizia tramite la punizione, puoi solo
causare altra sofferenza. Come può essere giusto? Questa è una rivelazione!».
«Oggi ho imparato a fabbricare dell’esplosivo con l’urina di capra» gli
dissi.
«Anche questo è positivo».
Poteva succedere in qualunque momento del giorno o della notte. Gesù
usciva come un fulmine dalla biblioteca e mi interrompeva nel bel mezzo di
qualche complesso e untuoso viluppo con Baccelli, Cuscini e Passaggio
Segreto, mentre Numero Sei ci faceva conoscere i cinquecento dei di giada, di
varia dimensione e struttura. Distoglieva lo sguardo mentre mi asciugavo e mi
metteva in mano qualche manoscritto, costringendomi a leggere un passaggio
mentre si entusiasmava per i pensieri di qualche saggio morto da una vita.
«Il maestro dice che “l’uomo superiore può davvero sopportare
l’indigenza, mentre quello inferiore, quando gli capita, cede agli eccessi
sfrenati”. Parla di te, Biff. Sei tu l’uomo inferiore».
«Ne sono molto fiero» gli dissi mentre osservavo Numero Sei che,
trascurata da tutti, riponeva i suoi dei nella calda cassa d’ottone in cui
vivevano. «Grazie per essere venuto a dirmelo».
Avevo il compito di imparare il waidan, l’alchimia esteriore. La mia
conoscenza derivava dalla manipolazione degli elementi fisici. Gesù, d’altro
canto, stava studiando il neidan, l’alchimia interiore. La sua conoscenza
derivava dallo studio della propria intima natura attraverso la contemplazione
dei maestri. Quindi, mentre lui leggeva codici e pergamene, io passavo il mio
tempo a mescolare mercurio e piombo, fosforo e zolfo, carbone e pietra
filosofale, e in qualche modo tentavo di indovinare la natura divina del Tao.
Gesù imparava a fare il Messia, e io imparavo ad avvelenare la gente e a far
saltare in aria le cose. Il mondo sembrava seguire un suo ordine. Io ero felice,
lui era felice, Baldassarre era felice. E le ragazze… be’, le ragazze erano
impegnate. Sebbene passassi davanti alla porta corazzata ogni giorno (e
sebbene quella vocina molesta non mi abbandonasse mai), non m’importava
sapere che cosa ci fosse là dietro, né m’interessavano le risposte alla dozzina
di domande che il mio amico e io avremmo dovuto rivolgere al nostro
generoso maestro.
Senza che ce ne rendessimo conto passò un anno. Poi due, e ci ritrovammo
a festeggiare il diciassettesimo compleanno di Gesù alla fortezza. Baldassarre
fece preparare un banchetto di prelibatezze cinesi dalle ragazze, e bevemmo
vino fino a tarda notte. (E molto tempo dopo, anche quando tornammo in
Israele, continuammo a mangiare cinese il giorno del suo compleanno. Mi
hanno detto che è diventata una tradizione non solo per noi che conoscevamo
Gesù, ma per gli ebrei di tutto il mondo.)
«Pensi mai a casa?» mi chiese la sera della sua festa.
«Qualche volta».
«E a che cosa pensi?».
«A Maddi» risposi. «Ogni tanto ai miei fratelli. E a mia madre e a mio
padre. Ma Maddi è sempre nei miei pensieri».
«Nonostante le esperienze che hai fatto da allora, continui a pensare a
lei?». Gesù era diventato sempre meno curioso riguardo all’essenza della
lussuria. Inizialmente pensai che tale mancanza di interesse avesse a che fare
con la profondità dei suoi studi, ma poi mi resi conto che dipendeva dal fatto
che il ricordo di Maddi per lui si faceva sempre più sbiadito.
«Gesù, non penso a Maddi per via di quanto accaduto la sera prima della
nostra partenza. Non andai a quell’incontro pensando che avremmo fatto
l’amore. Un bacio era già più di quanto mi aspettassi. Penso a lei perché nel
mio cuore ho lasciato un posto in cui tener vivo il suo ricordo… e adesso quel
posto è vuoto. È stato e sarà sempre così. Era innamorata di te».
«Mi dispiace, Biff. Non so come guarire il tuo dolore. Lo farei, se potessi».
«Lo so, amico. Lo so». Non volevo più parlare di casa, ma Gesù meritava
di togliersi quel peso che lo tormentava, qualunque cosa fosse. E se non con
me, con chi? «E tu? Pensi mai a casa?».
«Sì. Per questo te l’ho chiesto. Sai, oggi le ragazze stavano cucinando la
pancetta affumicata e mi è venuta in mente casa».
«Perché? Non ricordo che qualcuno abbia mai preparato della pancetta
affumicata a Nazaret».
«Lo so, ma se la mangiassimo le nostre famiglie non lo saprebbero mai».
Mi alzai e andai verso la mezza parete che divideva le nostre stanze. La
luce della luna entrava dalla finestra e illuminava il suo viso in quel modo un
po’ fastidioso.
«Gesù, tu sei il Figlio di Dio. Sei il Messia. Il che implica… oh, non so…
che sei ebreo! E non puoi mangiare la pancetta affumicata!».
«A Dio non importa se la mangiamo. Lo sento».
«Giusto. E la pensa ancora allo stesso modo a proposito della
fornicazione?».
«Sì».
«E della masturbazione?».
«Sì».
«E che mi dici del fatto di uccidere, di rubare, di pronunciare falsa
testimonianza, di desiderare la donna d’altri, eccetera eccetera? Non ha
cambiato idea in tal senso?».
«Assolutamente no».
«Si è ravveduto solo sulla pancetta affumicata. Interessante. Le profezie di
Isaia dovrebbero dire qualcosa al riguardo, no?».
«Viene da chiederselo, vero?».
«Senza offesa, Gesù, ma ti serve qualcosa di più per annunciare il Regno
di Dio. Non possiamo tornarcene a casa con un: “Salve, io sono il Messia e
Dio voleva che mangiaste questa pancetta affumicata”».
«Lo so, abbiamo ancora tante cose da imparare. Ma la colazione diventerà
più interessante».
«Dormi» gli dissi.

Il tempo passava, e io e Gesù ci vedevamo di rado, se non a tavola o prima
di coricarci. Io passavo l’intera giornata o quasi studiando e dando una mano
alle ragazze a mandare avanti la fortezza, mentre lui stava quasi sempre con
Baldassarre; e questo alla fine sarebbe diventato un problema.
«Così non va, Biff» mi disse Gioia in cinese. Avevo imparato a parlare la
sua lingua abbastanza bene, al punto che non usava quasi più il greco o il
latino. «Baldassarre si sta avvicinando troppo a Gesù. Capita di rado che
mandi a chiamare una di noi per raggiungerlo a letto».
«Non starai insinuando che quei due stiano… ehm… giocando al pastore e
alla pecorella, vero? Perché so che non è vero. Gesù non è autorizzato a
farlo». Naturalmente, l’angelo aveva detto che non poteva conoscere nessuna
donna, e non aveva parlato di un vecchio mago africano raccapricciante.
«Oh, non m’importa se si sodomizzano fino a farsi uscire gli occhi dalle
orbite» commentò lei. «Baldassarre non deve innamorarsi. Perché pensi che
abbia otto concubine?».
«Io credevo fosse una questione di bilancio».
«Non hai notato che nessuna di noi passa mai due notti di fila insieme a lui? E
che non gli rivolgiamo la parola se non durante le lezioni o nello svolgimento
dei nostri doveri?».
Me n’ero accorto, ma non avevo mai pensato che ci fosse qualcosa di
strano. Non eravamo ancora arrivati al capitolo sul comportamento tra mago e
concubina. «E allora?».
«Allora credo che si stia innamorando di Gesù. E non va bene».
«Be’, su questo sono d’accordo con te. Non sono stato molto felice
l’ultima volta che qualcuno si è innamorato di lui. Ma che cosa c’entra,
adesso?».
«Non posso dirtelo. Ma si sente una gran confusione nella stanza del
destino» mi disse. «Devi aiutarmi. Se è come penso, dobbiamo fermare
Baldassarre. Domani li terremo d’occhio mentre regoliamo il flusso del Chi
nella biblioteca».
«No, Gioia. L’arredamento là dentro è troppo pesante. Detesto il Chi della
biblioteca».
Chi o Qi: il respiro del drago, l’eterna energia che fluisce in mezzo a tutte
le cose; in equilibrio - come doveva essere - era metà yin e metà yang, metà
luce e metà oscurità, metà maschile e metà femminile. Il Chi nella biblioteca
era sempre incasinato, mentre quello nelle stanze dove c’erano solo cuscini o
mobili leggeri sembrava ben regolato ed equilibrato. Non so perché, ma avevo
il sospetto che ciò dipendesse in gran parte dal bisogno di Gioia di far
spostare a me le cose pesanti.

Il mattino dopo andammo in biblioteca a spiare Gesù e Baldassarre mentre
reindirizzavamo il Chi. Gioia portò un complicato strumento d’ottone
chiamato orologio del Chi, che avrebbe dovuto individuare il flusso. Il mago
apparve palesemente irritato, quando entrammo nella stanza.
«Bisogna farlo adesso?».
Gioia fece un inchino. «Sono davvero spiacente, maestro, ma si tratta di
un’emergenza». Si voltò e mi urlò dei comandi quasi fosse un centurione
romano. «Sposta quel tavolo là, non vedi che poggia sui testicoli della tigre?
Poi sistema quelle sedie in modo tale che guardino la soglia, sono
sull’ombelico del drago. È una fortuna che nessuno si sia rotto una gamba».
«Già, è una fortuna» dissi, facendo uno sforzo per muovere l’enorme
tavolo intagliato; quanto avrei voluto che avesse chiesto ad altre due ragazze
di darci una mano. Stavo studiando il feng shui da più di tre anni, ormai, e
ancora non riuscivo a sentire minimamente il Chi. Gesù aveva conciliato il
concetto di energia elusiva con la nostra religione, dicendo che era
semplicemente un modo orientale di esprimere la presenza di Dio intorno a
noi e in tutte le cose. Forse questo lo aiutava a raggiungere una sorta di
comprensione spirituale, ma quando si trattava di sistemare i mobili era
efficace quanto una pecora ammaestrata.
«Posso darvi una mano?» ci chiese.
«No!» gridò Baldassarre alzandosi in piedi. «Continueremo nei miei
alloggi».
Si girò e guardò me e Gioia con occhi torvi. «E non dovremo essere
disturbati per nessuna ragione».
Cinse Gesù per le spalle e lo guidò fuori dalla stanza.
«E così finisce il nostro spionaggio» dissi.
Gioia consultò l’orologio del Chi e diede un colpo a un armadio pieno di
materiale per scrivere. «Questo si trova quasi certamente su un corno del bue,
bisogna spostarlo» annunciò.
«Se ne sono andati. Non dobbiamo più fingere».
«E chi sta fingendo? Quell’armadietto fa andare tutto lo yin nel corridoio,
mentre lo yang vola tutt’intorno come un uccello predatore».
«Gioia, finiscila. So che ti stai inventando tutto».
Lasciò cadere lo strumento di ottone lungo un fianco. «Non è vero».
«Io dico di sì». E a questo punto pensai di spingere un po’ sulla mia
credibilità, tanto per vedere come sarebbe andata. «Ho controllato lo yang in
questa stanza proprio ieri. È in perfetto equilibrio».
Gioia si lasciò cadere su mani e ginocchia, strisciò sotto uno degli enormi
tavoli a forma di drago, si raggomitolò in una palla e cominciò a piangere.
«Non sono brava, a farlo. Baldassarre esige che ognuna di noi conosca il Chi,
ma io non l’ho mai capito. Se vuoi l’Elegante Tortura di Mille Tocchi
Piacevoli, posso farla; se vuoi che avveleni, castri o faccia saltare in aria
qualcuno, non c’è problema, ma questa roba del feng shui è semplicemente…
semplicemente…».
«Stupida?» tentai.
«No, volevo dire difficile. Adesso ho fatto arrabbiare Baldassarre e non
potremo più scoprire che cosa succede tra lui e Gesù. E invece dobbiamo
saperlo».
«Posso scoprirlo io» dissi, lucidandomi le unghie con la veste. «Ma devo
sapere perché».
«Come farai?».
«Conosco metodi molto più sottili e astuti della vostra alchimia cinese e
della vostra direzione delle energie».
«Adesso chi è che s’inventa le cose?».
Avevo perso gran parte della mia credibilità ricorrendo allo stratagemma
dell’arcana-conoscenza-ebraica-per-ottenere-favori-sessuali, arrivando
addirittura a prendermi il merito di aver ricevuto le tavole dei Dieci
Comandamenti e di aver costruito l’Arca dell’Alleanza. (Che c’è? Non è
colpa mia. Gesù non mi lasciava mai fare Mosè quando eravamo bambini.)
«Se lo scopro, mi dici che cosa sta succedendo?».
La prima concubina si mangiava un’unghia elegantemente smaltata,
mentre rifletteva. «Prometti di non dirlo a nessuno, se lo faccio? Nemmeno al
tuo amico Gesù?».
«Prometto».
«Allora fai come vuoi. Ma ricorda le lezioni dell’Arte della guerra».
Considerai le parole di Sun Tzu che avevo sentito da Gioia: Sii
estremamente inafferrabile, fino al punto di renderti informe. Sii
estremamente misterioso, fino al punto di essere impercettibile. Solo così
potrai dirigere il destino del tuo avversario. Pertanto, dopo aver riflettuto
attentamente sulla strategia, dopo aver passato in rassegna e rifiutato diversi
scenari nella mia testa, dopo aver elaborato un piano a mio parere a prova di
stupido ed essermi assicurato che il tempismo fosse assolutamente perfetto,
entrai in azione. Quella sera stessa, mentre eravamo distesi io sul mio letto e
Gesù sul suo, feci appello a tutti i miei poteri di sottigliezza e misteriosità.
«Ehi, amico» dissi. «Baldassarre ti sta sodomizzando?».
«No!».
«Allora accade il contrario?».
«Assolutamente no!».
«Hai la sensazione che vorrebbe farlo?».
Rimase in silenzio per un secondo, e poi rispose: «Si è mostrato molto
sollecito, ultimamente. E ride a ogni cosa che dico. Perché me lo chiedi?».
«Perché Gioia dice che non va bene se s’innamora di te».
«Be’, non va bene se si aspetta qualche atto di sodomia. In quel caso il
nostro mago rimarrebbe deluso».
«No, è molto peggio. Non vuole dirmi di che cosa si tratta, ma la questione
è molto più grave».
«Biff, capisco che tu possa pensarla diversamente, ma dal mio punto di
vista sodomizzare il Figlio di Dio è molto, molto grave».
«Ottima osservazione. Ma credo che c’entri qualcosa quello che si
nasconde dietro la porta di ferro. Fino a quando non avrò scoperto che cos’è,
devi impedirgli di innamorarsi di te».
«Scommetto che lui era quello della mirra» disse il mio amico. «Bastardo:
mi porta il dono più economico e adesso vuole sodomizzarmi. Come se non
bastasse, mia madre mi ha detto che la mirra era già andata a male dopo una
settimana».
Vi avevo detto che il mio amico non era un fan di quella resina?
14

Intanto, nella nostra camera d’albergo, Raziel ha abbandonato le speranze
di diventare un lottatore professionista e ha ricominciato a coltivare
l’ambizione di diventare l’Uomo Ragno. Ha preso questa decisione dopo che
gli ho fatto notare che, nella Genesi, Giacobbe lotta contro un angelo e vince.
In parole povere, un essere umano ha sconfitto un membro delle schiere
celesti. Raziel ha continuato a ripetere che non ricordava fosse mai successo,
e sono stato tentato di andare a prendere la Bibbia in bagno per mostrargli
quel passo: ma ho appena iniziato il Vangelo di Marco, e perderei il libro se
Raziel lo scoprisse.
Pensavo che Matteo fosse un cattivo scrittore, perché ha saltato gli anni tra
la nascita di Gesù e il suo battesimo, ma Marco non si è preoccupato
nemmeno di parlare della nascita. Sembra quasi che il mio amico sia spuntato
fuori dalla testa di Zeus già adulto. (Okay, pessima metafora, ma sapete che
cosa voglio dire.) Marco parte dal battesimo, a trent’anni! Ma questi due dove
le hanno sentite certe storie? «Una volta ho incontrato un tipo in un bar, che
conosceva un tizio la cui sorella aveva un’amica del cuore che aveva assistito
al battesimo di Gesù figlio di Giuseppe di Nazaret; e stando ai suoi ricordi, le
cose erano andate così».

Be’, se non altro Marco mi nomina almeno una volta. Ed è un riferimento
del tutto casuale, come se fossi stato lì seduto a non fare nulla e Gesù mi
avesse chiesto di aggregarmi a loro. E parla anche di un demone chiamato
Legione. Sì, me lo ricordo. Paragonato a quello che aveva evocato
Baldassarre, era uno smidollato.

«Ho chiesto a Baldassarre se è innamorato di me» annunciò Gesù a cena.
«Oh, no» fece Gioia. Stavamo cenando negli alloggi delle ragazze. C’era
un buon profumo e le ragazze ci massaggiavano le spalle mentre
mangiavamo. Proprio quello di cui avevamo bisogno dopo una dura giornata
di studio.
«Non dovevi fargli sapere che gli stavamo dietro. E lui che cos’ha detto?».
«Che è appena uscito da una brutta storia e che non è pronto per una
relazione perché ha bisogno di un po’ di tempo per conoscere se stesso, ma
che sarebbe felicissimo se potessimo essere soltanto amici».
«Mente. Non ha storie da un centinaio d’anni».
«Gesù, sei proprio un credulone. Gli uomini mentono sempre quando si
tratta di amore. È questo il problema del tuo divieto di conoscere le donne:
non puoi comprendere la natura fondamentale dell’uomo».
«E sarebbe?».
«Che siamo dei maiali bugiardi. Diciamo qualunque cosa per ottenere
quello che vogliamo».
«È vero» confermò Gioia. E le altre ragazze annuirono, concordi.
«Ma secondo Confucio l’uomo superiore non agisce mai contrariamente
alla virtù, nemmeno per la durata d’un pasto».
«Certo» dissi. «Ma l’uomo superiore non ha bisogno di mentire. Sto
parlando del resto di noi».
«Quindi dovrei preoccuparmi per questo viaggio che vuole fare con me?».
Gioia annuì, seria, e le altre ragazze la imitarono.
«Non capisco perché» dissi. «Quale viaggio?».
«Lui dice che staremo via solo due settimane. Vuole recarsi in un tempio in
una città sulle montagne. È convinto che sia stato Salomone a costruirlo: si
chiama Tempio del Sigillo».
«E perché devi andare con lui?».
«Perché vuole mostrarmi qualcosa».
«Uh-oh» dissi.
«Uh-oh» mi fecero eco le ragazze: sembrava un coro greco, non fosse stato
per il fatto che parlavano cinese.

Durante la settimana che precedette la partenza di Gesù e Baldassarre,
riuscii a convincere Baccelli a correre un grosso rischio mentre era a letto con
il mago. Scelsi lei non solo perché era la più atletica e la più svelta, o perché
era quella con il passo più leggero e furtivo; ma anche perché mi aveva
insegnato a costruire gli stampi di bronzo dei caratteri cinesi del mio nome (il
mio sigillo ufficiale), e perché era quella più qualificata per ottenere un calco
della chiave che Baldassarre portava al collo. (Oh, sì, la porta corazzata aveva
una chiave. Gioia si era lasciata sfuggire che il mago la teneva attaccata a una
catena, ma ero convinto che gli fosse troppo fedele per rubargliela. Baccelli,
d’altro canto, era la più volubile nella sua lealtà, e ultimamente mi era
capitato di passare parecchio tempo con lei.)
«Quando tornerai, avrò scoperto che cosa succede qui dentro» sussurrai a
Gesù mentre montava in sella al suo dromedario. «Tu apprendi tutto quello
che puoi da Baldassarre».
«Lo farò. Ma stai attento. Non fare niente finché sono via. Credo che
questo viaggio, qualunque sia la nostra meta, abbia qualcosa a che fare con la
casa del destino».
«Mi limiterò a dare un’occhiata in giro».
Io e le ragazze restammo sull’altopiano a salutare fino a quando Gesù e il
mago - accompagnati da un terzo dromedario carico di provviste - non
scomparvero dalla nostra vista. Poi, uno alla volta, scendemmo la scala di
corda che portava al passaggio nella parete di roccia. L’ingresso del passaggio
e i primi trenta cubiti del tunnel erano larghi appena per far passare una
persona piegata, e io riuscivo sempre a sbucciarmi un gomito o una spalla, il
che mi consentiva di dare sfoggio della mia abilità nell’imprecare in quattro
lingue diverse.
Quando arrivai nella camera degli elementi, dove ci esercitavamo nell’arte
dei nove elisir, Baccelli aveva già acceso la piccola fornace e stava mettendo
dei lingotti di ottone in un piccolo crogiolo di pietra. Con il calco di cera
avevamo realizzato un duplicato della chiave, sempre in cera, da cui avevamo
ricavato uno stampo in gesso che poi avevamo messo sul fuoco per eliminare
i vari residui. Adesso ci rimaneva soltanto una possibilità per realizzare la
chiave: una volta raffreddatosi il metallo, l’unico modo per tirarlo fuori
sarebbe stato rompere lo stampo.
Quando lo facemmo, a Baccelli restò in mano quello che sembrava un
drago d’ottone in cima a un bastoncino.
«Bella chiave» dissi. Le uniche serrature che avevo visto erano massicce e
di ferro, nulla di così raffinato per una chiave simile.
«Quando intendi usarla?» mi chiese. Sgranò gli occhi come una bambina
eccitata. In momenti come quelli avrei potuto innamorarmi di lei, ma per
fortuna ero costantemente distratto dalla ricercatezza di Gioia, dalle premure
materne di Cuscini, dalla destrezza di Numero Sei e dalle altre grazie che mi
venivano offerte ogni giorno. Capivo perfettamente la strategia di Baldassarre
per evitare di innamorarsi di una di loro. La situazione di Gesù, d’altro canto,
era più difficile da definire: gli piaceva passare del tempo con le ragazze,
scambiando storie della Torah con leggende sui draghi della tempesta e sul re
delle scimmie. Diceva che le donne possedevano una gentilezza innata, mai
vista in un uomo, e che gli piaceva stare in mezzo a loro. La forza con cui
resisteva al fascino femminile mi colpiva forse più di tutti i miracoli che gli
avevo visto compiere nel corso degli anni. Non potevo fare paragoni con
l’atto di risvegliare qualcuno dalla morte, ma rifiutare una bella donna… be’,
era una cosa che richiedeva coraggio al di là della mia comprensione.
«Da questo momento la tengo io» dissi a Baccelli. Non volevo che venisse
coinvolta di più, nel caso le cose non fossero andate bene.
«Quando?» chiese, intendendo quando avrei tentato di aprire la porta.
«Questa notte, quando sarete tutte nel mondo dei sogni dorati». Le diedi un
pizzicotto affettuoso sul naso e lei rise. Quella fu l’ultima volta che la vidi
tutta intera.

La notte, i corridoi della fortezza erano illuminati dalla luce della luna e
delle stelle che attraverso le finestre. Ovunque andassimo ci portavamo una
lampada a olio in terracotta, che faceva somigliare ancora di più le curve
tortuose dei passaggi alle viscere di un’enorme creatura, mentre la fioca luce
arancione veniva inghiottita dall’oscurità. Dopo aver vissuto diversi anni con
Baldassarre, riuscivo a muovermi attraverso gli alloggi principali della
fortezza senza bisogno di alcuna illuminazione, così tenni la lampada spenta
fino a quando non superai gli alloggi delle ragazze, fermandomi fuori dalla
tenda di perline per sentire il loro dolce russare.
Quando mi fui allontanato abbastanza, la accesi. Usai uno dei bastoncini
infiammabili che avevo inventato usando alcune delle sostanze chimiche con
cui fabbricavamo la polvere esplosiva. Fece un lieve scoppiettio quando lo
sfregai contro la parete di pietra, e avrei potuto giurare di averne sentito l’eco
dal corridoio davanti a me. Mentre mi dirigevo verso la porta corazzata sentii
l’odore generato dalla combustione dello zolfo, e mi parve strano che il puzzo
del bastoncino mi fosse rimasto addosso. Poi vidi Gioia in piedi accanto alla
porta, con in mano una lampada a olio e i resti carbonizzati del bastoncino che
aveva usato per accenderla.
«Fammi vedere la chiave» disse.
«Quale chiave?».
«Non essere sciocco. Ho visto i resti dello stampo nella stanza degli
elementi».
La tirai fuori - l’avevo nascosta nella cintura - e gliela diedi. La esaminò
alla luce della lampada, girandola da una parte e dall’altra. «Questa l’ha
stampata Baccelli» disse, concreta. «E stata sempre lei a prendere
l’impronta?».
Annuii. Non sembrava arrabbiata; inoltre, Baccelli era l’unica abbastanza
esperta in metallurgia da poter realizzare la chiave, quindi perché negarlo?
«Fare il calco dev’essere stata la parte più difficile. Baldassarre è davvero
feroce quando si tratta di custodire questa chiave. Dovrò chiederle che cos’ha
fatto per distrarlo. Potrebbe essere utile saperlo, no? Per entrambi». Mi rivolse
il suo sorriso seducente, poi si girò verso la porta e spinse da una parte la
placca d’ottone che copriva la serratura. In quell’istante ebbi la sensazione
che un pugnale ghiacciato mi stesse scivolando lungo la spina dorsale.
«No!». La fermai. «Non farlo». Ero sopraffatto da una repulsione che mi
torceva le viscere. «Non possiamo».
Gioia sorrise di nuovo e allontanò la mia mano. «Ho visto molte cose
meravigliose da quando sono qui, ma mai nessuna dannosa. Hai programmato
un piano, adesso devi aver voglia quanto me di scoprire che cosa c’è qui
dentro».
Avrei voluto fermarla, tentai persino di toglierle la chiave, ma mi afferrò il
braccio e fece pressione su un punto, rendendo insensibile tutta la parte
sinistra del mio corpo. Sollevò un sopracciglio quasi a chiedermi: “Vuoi
provarci davvero, sapendo quello che potrei farti?”. Indietreggiai.
Infilò la chiave a forma di drago nella serratura e la fece girare tre volte.
Sentimmo scattare il meccanismo - mai ne avevo visto uno altrettanto
raffinato - e poi Gioia tirò fuori la chiave e fece scorrere le tre pesanti
spranghe di ferro. Quando aprì la porta uscì una ventata d’aria, come se
qualcosa ci fosse passato accanto a gran velocità, e la mia lampada si spense.

Gesù mi raccontò cos’era successo in seguito, e mentalmente ricostruii i
tempi. Mentre io e Gioia aprivamo la stanza che chiamavano “la casa del
destino”, il mio amico e Baldassarre erano accampati sulle aride montagne
dell’odierno Afghanistan. Era una notte frizzante e le stelle brillavano di una
fredda luce blu che comunicava una sensazione di solitudine e d’infinito.
Avevano mangiato un po’ di pane e formaggio e poi si erano sistemati accanto
al fuoco per dividersi quello che restava di un fiasco di vino liquoroso (il
secondo aperto dal mago quella sera).
«Gesù, ti ho mai raccontato della profezia che m’indusse a venire a cercarti
quando venisti al mondo?».
«Mi hai detto della stella. Anche mia madre me ne parlò».
«Sì, noi tre seguimmo la stella e c’incontrammo per caso sulle montagne a
est di Kabul per terminare il nostro viaggio insieme; ma la stella non fu la
ragione che ci spinse a partire, bensì il mezzo che usammo per orientarci.
Ciascuno di noi stava cercando qualcosa».
«Cioè me?».
«Non solo te, ma quello che si diceva che avresti portato. Nel tempio in cui
ci stiamo recando sono conservate delle tavolette d’argilla molto antiche. I
sacerdoti sostengono che risalgano all’epoca di Salomone. Predicono
l’avvento di un bambino che avrà potere sul male e sconfiggerà la morte. Un
bambino che porterà con sé la chiave dell’immortalità».
«Io? L’immortalità? Impossibile».
«Io credo che sia così, solo che ancora non lo sai».
«No, ne sono sicuro. È vero, ho fatto resuscitare della gente, ma solo per
breve tempo. Negli anni sono diventato più bravo con le guarigioni, ma devo
lavorare ancora al “risveglio dei morti”. Devo imparare di più».
«Per questo ti ho fatto da maestro e per questo adesso ti sto portando al
tempio, affinché possa leggere tu stesso le tavolette. Ma devi avere in te il
potere dell’immortalità».
«Credimi, non ho la minima idea di quello che stai dicendo».
«Io ho duecentosessant’anni, Gesù».
«L’ho sentito dire, ma ancora non posso aiutarti. Comunque mi sembri in
forma, per la tua età».
A quel punto Baldassarre cominciò ad assumere un’aria disperata. «So che
hai il potere sul male. Biff mi ha detto che ad Antiochia hai cacciato dei
demoni».
«Erano piccoli».
«Devi avere anche il potere sulla morte, altrimenti per me non va bene».
«Quello che faccio viene da mio padre, non ho mercanteggiato».
«Gesù, io sono tenuto in vita da un patto che ho stretto con un demone. Se
non possiedi i poteri di cui parla la profezia, io non sarò mai libero, non avrò
mai pace né amore. Ogni minuto della mia vita devo concentrarmi per
controllare il maligno. Se la mia volontà dovesse venire meno, seguirebbe una
distruzione di cui il mondo non ha mai visto l’eguale».
«So cosa si prova. Io non ho il permesso di conoscere le donne. Anche se è
stato un angelo, e non un demone, a dirmelo. Mi piacciono molto le tue
concubine. L’altra sera Cuscini mi stava facendo un massaggio alla schiena
dopo una lunga giornata di studio, e ho cominciato a sentire questa
massiccia…».
«Per il filetto del vitello d’oro!» esclamò il mago balzando in piedi, gli
occhi sgranati per la paura. Un attimo dopo cominciò a caricare il suo
dromedario, dimenandosi al buio come un folle. Gesù lo seguì per cercare di
calmarlo, temendo che gli venisse un colpo da un momento all’altro.
«Che c’è? Cos’è successo?».
«E uscito! Aiutami a caricare le nostre cose. Dobbiamo tornare indietro. Il
demone è uscito».

Lì, nell’oscurità, mi feci piccolo piccolo aspettando qualche calamità,
l’avvento del regno del caos, la manifestazione del dolore, della pestilenza,
del male… Poi Gioia strofinò un fiammifero contro il muro e accese le nostre
lampade. Eravamo soli. La porta corazzata si apriva su uno stanzino
minuscolo, anch’esso rivestito di ferro. Lo spazio era appena sufficiente per
un lettino e una sedia. Ogni centimetro delle pareti nere era intarsiato con
simboli dorati: pentacoli ed esagoni, e un’altra decina che non avevo mai
visto in vita mia. Gioia accostò la lampada al muro.
«Sono simboli di contenimento» disse.
«Io sentivo delle voci provenire da qua dentro».
«Non c’era niente quando ho aperto la porta. Ho guardato un secondo
prima che la lampada si spegnesse».
«E allora chi l’ha spenta?».
«Il vento?».
«Non credo. Qualcuno mi è passato accanto sfiorandomi». Proprio in
quell’istante sentimmo delle urla provenire dagli alloggi delle ragazze, seguite
da un coro di strilli: grida primitive di dolore e terrore assoluti.
Immediatamente, gli occhi di Gioia si colmarono di lacrime. «Che cosa ho
fatto?».
La presi per una manica e la trascinai lungo il passaggio verso le stanze
delle sue compagne, afferrando due pesanti lance che sostenevano un arazzo e
passandogliene una. Quando superammo le curve, vidi una luce arancione
davanti a noi e capii subito che proveniva dal fuoco delle lampade rotte che si
rifletteva sui muri di pietra. Le urla si facevano più acute, ma il coro stava
perdendo una voce dopo l’altra, finché non ne rimase una soltanto. Ci
stavamo avvicinando alla tenda di perline che chiudeva l’accesso agli alloggi
delle ragazze, quando le urla cessarono e una testa umana rotolò davanti a noi.
La creatura varcò la soglia, ignara delle fiamme che lambivano le pareti
circostanti; il suo corpo imponente riempiva il vano dell’entrata, la pelle
scagliosa delle spalle e le alte orecchie appuntite grattavano i muri e il
soffitto. La mano a forma di artiglio stringeva il tronco insanguinato di una
delle ragazze.
«Ehi, tu» disse, la voce stridente come la punta di una spada sfregata su
una roccia. Dietro i due grandi occhi sgranati, splendeva una luce gialla. «Ce
ne hai messo di tempo».

Mentre tornavano alla fortezza, Baldassarre raccontò a Gesù del demone:
«Si chiama Preda e appartiene al ventisettesimo ordine. Era un angelo
distruttore prima della caduta. Quello che posso dirti è che all’inizio fu
chiamato per aiutare Salomone a costruire il grande tempio, ma qualcosa andò
storto e, con l’aiuto di uno spirito, Salomone riuscì a ricacciarlo all’inferno.
Trovai il sigillo di Salomone e la formula per evocare il demone quasi
duecento anni fa, nel Tempio del Sigillo. Dovetti diventare un accolito e
studiare con i sacerdoti per anni, prima di avervi accesso. Ma che cosa sono
pochi anni in confronto alla vita eterna? Mi fu concessa l’immortalità, che
però è legata alla presenza del demone sulla terra. E finché rimane qui
dev’essere nutrito, Gesù. È questa la maledizione di chi diventa padrone di un
simile distruttore: l’obbligo di nutrirlo».
«Non capisco. Lui si nutre della tua volontà?».
«No, di esseri umani. È solo la mia volontà che lo tiene a bada… o almeno
è stato così fino a quando non sono riuscito a costruire quella stanza di ferro
con i simboli d’oro in grado di contenerlo. Sono vent’anni ormai che lo tengo
rinchiuso nella fortezza, ed è stato un bel sollievo. Prima di allora stava con
me ogni minuto, e mi seguiva ovunque andassi».
«E non ti attirava dei nemici?».
«No. Finché non assume le sembianze tipiche di quando mangia, io sono
l’unico in grado di vederlo. Quando si trova nella fase innocua è piccolo come
un bambino, e non può fare molti danni (al di là del fatto che è estremamente
irritante). Quando si nutre, però, è alto dieci cubiti e può spezzare in due un
uomo con un solo colpo d’artiglio. No, i nemici non sono un problema, Gesù.
Perché credi che non ci siano guardie alla fortezza? Prima che le ragazze
venissero a vivere lì, dei banditi tentarono di assaltarla. Quello che accadde
loro è leggenda, a Kabul, e da allora nessuno ci ha più provato. Il problema è
che, se la mia volontà dovesse fallire, Preda sarebbe di nuovo libero per il
mondo come ai tempi di Salomone. E non so proprio che cosa potrebbe
fermarlo».
«E non puoi rispedirlo all’inferno?».
«Sì, ma poi assumerei l’aspetto corrispondente alla mia vera età. Che
dovrebbe essere quello di un mucchio di polvere… Ma tu hai il dono
dell’immortalità. Puoi impedire che accada».
«Ricapitolando, questo demone infernale vaga in libertà e noi stiamo
tornando alla fortezza senza il Sigillo di Salomone e senza incantesimo… per
fare cosa, esattamente?».
«Spero di riuscire a riportarlo sotto il controllo della mia volontà. Quella
stanza l’ha già trattenuto una volta. Non so, davvero non so…».
«Che cosa?».
«Forse la mia volontà è venuta meno a causa dei sentimenti che provo per
te».
«Sei innamorato?».
«Come faccio a saperlo?» sospirò il mago.
A quel punto Gesù scoppiò a ridere, malgrado le circostanze terribili.
«Certo che lo sei, ma non sei innamorato di me bensì di ciò che rappresento.
Non so ancora bene che cosa devo fare, ma so di essere qui nel nome di mio
padre. Tu ami a tal punto la vita che affronteresti l’inferno pur di restarci
aggrappato: è naturale che provi dei sentimenti per chi te l’ha donata».
«Quindi puoi cacciare il demone e fare in modo che io viva?».
«Certo che no; sto soltanto dicendo che capisco come ti senti».

Non so dove riuscì a trovare la forza, ma la piccola Gioia arrivò alle mie
spalle e scagliò la pesantissima lancia con la potenza di un soldato. (A me
avevano cominciato a tremare le ginocchia, davanti al demone.) La punta di
bronzo sembrò farsi strada tra due scaglie del torace corazzato del mostro,
affondando nella carne di una spanna sotto il peso del bastone. Il demone
ansimò e ruggì, aprendo le fauci a mostrare file di denti seghettati. Poi afferrò
il bastone e tentò di estrarre la lancia, con gli enormi bicipiti che gli
tremavano per lo sforzo. Guardò tristemente l’arma e poi Gioia, e disse: «Oh,
che tu sia maledetta, mi hai ucciso». Cadde all’indietro, e il pavimento tremò
all’impatto con quel corpo gigantesco.
«Che cos’ha detto? Che cos’ha detto?» chiese insistente Gioia, affondando
le unghie nella mia spalla. Il demone aveva parlato in ebraico.
«Che l’hai ucciso».
«Ah». (Strano a dirsi, “ah” suona esattamente allo stesso modo in tutte le
lingue.)
Avevo cominciato ad avanzare di pochi centimetri alla volta per controllare
se ci fosse qualche superstite negli alloggi delle ragazze, quando il demone si
tirò su a sedere. «Scherzavo» disse. «Non sono morto». E si tolse la lancia dal
petto con uno sforzo minore di quello che avrei fatto io per scacciare una
mosca.
Scagliai la mia lancia, ma non aspettai di vedere dove avrebbe colpito.
Afferrai Gioia e cominciai a correre.
«Dove andiamo?» chiese.
«Lontano».
«No». Mi prese per la veste e mi trascinò dietro una curva nel corridoio
con tanta violenza che per poco non persi i sensi andando a sbattere contro il
muro. «Al passaggio nella parete di roccia». Adesso eravamo completamente
al buio, dal momento che nessuno dei due aveva pensato di prendere una
lampada; stavo affidando la mia vita solo al suo ricordo di quei corridoi di
pietra.
Mentre correvamo, sentivamo le scaglie del demone che grattavano contro
le pareti, e qualche imprecazione in ebraico quando incontrava un soffitto
basso. Forse in parte riusciva a vedere al buio, ma non se la cavava molto
meglio di noi.
«Abbassati» mi disse Gioia, facendomi chinare la testa mentre entravamo
nell’angusto passaggio che portava sull’altopiano. Per avanzare dovetti
accovacciarmi - proprio come il mostro che si muoveva nella fortezza - e d’un
tratto mi resi conto di quanto fosse brillante la sua idea. Cominciavamo a
intravedere la luce della luna attraverso l’apertura nella facciata della parete,
quando sentii il mostro sbattere contro la strozzatura del passaggio.
«’Fanculo! Ouch! Brutti furbacchioni! Sgranocchierò le vostre testoline
come datteri canditi».
«Che cos’ha detto?».
«Che sei un dolce raro e prelibato».
«Non è vero».
«Credimi, la mia traduzione è più vicina alla verità di quanto tu possa
pensare».
Udii uno stridore tremendo all’interno del passaggio, poi uscimmo sulla
sporgenza e salimmo per le scalette di corda che conducevano all’altopiano.
Gioia mi diede una mano e poi tirò su la scala. Corremmo alla stalla dove
normalmente tenevamo le selle da dromedario e altri approvvigionamenti. Gli
unici dromedari erano i tre che avevano preso Baldassarre e Gesù, e non
avevamo cavalli, pertanto non riuscivo a capire perché stessimo perdendo del
tempo lì dentro. Poi vidi Gioia che riempiva due otri d’acqua alla cisterna
dietro la stalla.
«Non arriveremo mai a Kabul senz’acqua» disse.
«E che cosa succederà, quando saremo lì? Qualcuno potrà aiutarci? Che
accidenti è quel mostro?».
«Se lo sapessi credi che avrei aperto quella porta?». Era notevolmente
calma, considerando che aveva appena perso le sue amiche per mano di una
bestia orrenda.
«Credo di no. Ma non l’ho visto uscire da lì. Ho sentito qualcosa, ma nulla
che avesse quelle dimensioni».
«Agisci, Biff. Non pensare, agisci».
Mi passò un otre che affondai nella cisterna; intanto cercavo di sentire i
rumori del mostro oltre il gorgoglio delle bolle. Ma udivo soltanto
l’occasionale belato delle capre e il ritmo delle mie pulsazioni nelle orecchie.
Gioia tappò il suo otre e andò ad aprire i recinti dei maiali e delle capre, che
fece sparpagliare sull’altopiano.
«Andiamo!» mi gridò. E prese il sentiero che portava alla strada nascosta.
Io estrassi l’otre dalla cisterna e la seguii più velocemente che potei; la luce
della luna era sufficiente perché procedessi senza problemi ma, dal momento
che non avevo mai visto quella strada neppure di giorno, preferivo non
affrontare quelle scorciatoie mortali senza una guida, e per giunta di notte.
Avevamo quasi percorso il primo tratto di strada quando udimmo un lamento
spaventoso, e un essere pesante atterrò nella polvere davanti a noi. Quando
riuscii a respirare di nuovo, feci un passo avanti e trovai la carcassa
insanguinata di una capra.
«Guarda» disse Gioia, indicando qualcosa che si muoveva tra le rocce
lungo il fianco della montagna, più in basso. Poi la creatura sollevò lo sguardo
verso di noi, e vedemmo il bagliore inconfondibile di quegli occhi gialli.
«Torniamo indietro» disse Gioia, togliendomi dalla strada.
«È l’unica via per scendere?».
«Se non vuoi tuffarti giù. È una fortezza, non dimenticarlo… non è pensata
per agevolare chi deve entrare o uscire».
Tornammo alla scaletta di corda, la gettammo di nuovo oltre il margine
della parete e cominciammo a scendere. Quando Gioia arrivò alla cengia e si
abbassò per entrare nella caverna, qualcosa di pesante mi toccò la spalla
destra. Mi si intorpidì il braccio e lasciai andare la scala. Fortunatamente mi si
impigliarono i piedi nei pioli, mentre cadevo, e mi ritrovai appeso a testa in
giù con il viso rivolto verso l’entrata della caverna, dove c’era Gioia. Sentii il
verso terrorizzato della capra che mi aveva toccato mentre precipitava
nell’abisso, e poi un tonfo lontano che mise fine al belato.
«Ehi, ragazzo, tu sei ebreo, non è vero?» chiese il mostro da sopra la
cengia.
«La cosa non ti riguarda». Gioia afferrò la scala e mi trascinò dentro la
caverna, proprio mentre un’altra capra mi sorpassava strillando. Caddi di
faccia nella polvere e sputacchiai, cercando di respirare e sputare
contemporaneamente.
«È passato molto tempo dall’ultima volta che ho mangiato un ebreo. Con
un bell’ebreo ti metti un po’ di ciccia sulle costole. È questo il problema dei
cinesi: ne mangi sei o sette e dopo mezz’ora hai di nuovo fame. Senza offesa,
signorina».
«Che cos’ha detto?».
«Che gli piace il cibo kosher. Credi che la scala lo regga?».
«L’ho costruita io».
«Magnifico». Le corde cigolavano per la tensione, mentre il mostro vi si
arrampicava.
15


Gesù e Baldassarre entrarono a Kabul di notte, quando in giro c’erano solo
furfanti e prostitute (dopo la mezzanotte queste ultime facevano uno “sconto
promozionale furfanti”). Il vecchio mago si era addormentato al ritmo del suo
dromedario che avanzava a lunghi passi, e questo sconcertò Gesù quanto
l’intera faccenda del demone, poiché lui quando era in sella quasi sempre
vomitava - mal di deserto, così lo chiamano. Diede un colpetto alla gamba del
vecchio con la parte libera della briglia, e lui si svegliò sbuffando.
«Che c’è? Siamo arrivati?».
«Puoi controllare il demone, vecchio? Da questa distanza puoi riprenderne
il controllo?».
Baldassarre chiuse gli occhi e Gesù pensò che volesse dormire ancora, ma
poi notò che la sua mano aveva cominciato a tremare per qualche sforzo
misterioso. Dopo pochi secondi sollevò le palpebre. «Non lo so».
«Be’, sei riuscito a sentire che si è liberato».
«La mia anima è stata sommersa da un’ondata di dolore. Non sono sempre
in diretto contatto con il demone. Probabilmente siamo ancora troppo
lontani».
«Cavalli» disse Gesù. «Con quelli saremmo più veloci. Andiamo a svegliare il
proprietario della stalla».
Gesù guidò il mago lungo la strada, fino alla stalla in cui avevamo lasciato
i dromedari quando eravamo venuti in città per guarire la guardia cieca. Le
lampade all’esterno erano spente, ma sulla soglia c’era una prostituta
seminuda in posa seducente.
«Prezzo speciale per i furfanti» disse in latino. «Due al prezzo di uno, ma
niente rimborsi se il vecchio non ce la fa».
Era passato così tanto tempo da quando aveva sentito parlare quella lingua
che impiegò un secondo per rispondere. «Grazie, ma non siamo furfanti»
disse. Le passò accanto e bussò alla porta. Mentre aspettava, la donna gli fece
scorrere un dito lungo la schiena.
«Chi siete? Magari c’è un’altra offerta speciale».
Gesù non si voltò neppure a guardarla. «Lui è un mago e ha
duecentosessant’anni, e io sono il Messia o un truffatore senza speranza».
«Uh, sì, penso ci sia una tariffa speciale per i truffatori, ma il mago dovrà
pagare per intero».
Sentì dei movimenti dentro la casa e una voce che gli diceva di tenere a
freno i suoi cavalli (la frase che usano i proprietari delle stalle quando ti fanno
aspettare). Gesù si girò verso la prostituta e le toccò delicatamente la fronte.
«Va’ e non peccare più» le disse in latino.
«Certo, e come mi mantengo? Spalando merda?».
In quel momento il padrone venne ad aprire. Era basso e aveva le gambe
arcuate, e i lunghi baffi lo facevano somigliare a un pesce gatto essiccato.
«Cosa c’è di tanto importante da richiedere la mia presenza? Non poteva
occuparsene mia moglie?».
«Tua moglie?».
La prostituta passò l’unghia sulla parte posteriore del collo di Gesù, mentre
rientrava in casa. «Ti sei giocato la tua opportunità».
«Comunque, donna, che ci fai qua fuori?».
Gioia uscì di corsa sulla piattaforma ed estrasse dalle pieghe del suo vestito
un corto pugnale dalla lama nera. Le estremità della scala di corda
ondeggiavano davanti a lei, mentre il mostro continuava a scendere.
«No, Gioia» dissi, allungando una mano per riportarla nella caverna.
«Tanto non ce la farai».
«Non essere così sicuro».
Si voltò e mi rivolse un ghigno, poi fece scorrere la lama da un lato per due
volte sulle spesse corde, lasciando solo qualche fibra intatta. Quindi salì
qualche piolo e recise quasi del tutto le corde dall’altro lato. Non riuscivo a
credere alla facilità con cui l’aveva fatto.
Tornò nel passaggio e sollevò la lama a catturare la luce delle stelle.
«Vetro» disse. «Viene da un vulcano. È mille volte più affilato di qualunque
lama di ferro». Mise via il pugnale e mi spinse attraverso il passaggio,
fermandosi in un punto da cui potevamo ancora vedere l’entrata e la
piattaforma all’esterno.
Sentii il mostro che si avvicinava, e poi vidi il profilo di un enorme piede
munito di artigli, seguito dall’altro. Trattenemmo il respiro mentre arrivava
all’ultima sezione della scala, quella danneggiata. Adesso era visibile quasi
un’intera coscia, e una mano si stava abbassando per cercare un altro appiglio
quando le corde si spezzarono. Improvvisamente il mostro penzolò da un lato,
appeso a un’unica corda che oscillava davanti all’entrata. Ci guardò dritto
negli occhi, e il suo sguardo giallo e furioso per un attimo divenne confuso.
Le orecchie coriacee si sollevarono, curiose. «Ehi?» fece. Poi si spezzò anche
la seconda corda e precipitò al di fuori del nostro campo visivo.
Uscimmo di corsa sulla piattaforma e guardammo oltre la cengia. Da lì al
fondo della valle c’era un salto di almeno trecento metri. Non vedevamo
molto, al buio, ma il tratto di parete visibile era privo di mostri.
«Ben fatto» disse Gioia.
«Dobbiamo andare. Adesso».
«Non pensi che sia stato sufficiente?».
«L’hai sentito colpire il fondo?».
«No».
«Nemmeno io. Sarà meglio andare».
Avevamo lasciato gli otri in cima all’altopiano, e Gioia avrebbe voluto
prenderne qualcuno dalla cucina, ma la trascinai via fino all’ingresso.
«Dobbiamo allontanarci il più possibile. Morire di sete è l’ultima delle mie
preoccupazioni». Una volta giunti nell’area principale della fortezza, c’era
abbastanza luce da percorrere i corridoi senza lampada; ed era un bene, dal
momento che non le permisi di fermarsi per accenderne una. Mentre
percorrevamo la rampa di scale che portava al terzo livello, Gioia mi tirò
indietro con uno strattone, rischiando di farmi cadere, e io mi girai come un
gatto impazzito.
«Che c’è? Usciamo di qui!» gridai.
«No, questo è l’ultimo piano che abbia delle finestre. E io non ho
intenzione di uscire dalla porta principale, non sapendo se quella cosa è là
fuori».
«Non essere ridicola: un uomo in sella a un cavallo veloce impiegherebbe
mezz’ora per arrivare dall’altro lato della fortezza».
«E se non fosse caduto fino in fondo? Se fosse risalito?».
«Gli ci vorrebbero ore. Andiamo, Gioia. Quando sarà qui, potremmo già
essere lontani chilometri».
«No!». Mi fece lo sgambetto e atterrai con la schiena sul pavimento di
pietra. Quando mi rialzai aveva attraversato la camera di fronte e si stava
sporgendo dalla finestra. Mi avvicinai e si portò un dito alle labbra. «E là
sotto, sta aspettando».
La spostai e guardai giù. In effetti la bestia era davanti alla porta di ferro e
aspettava di afferrarne il bordo con gli artigli, per spalancarla non appena
avessimo rimosso le spranghe.
«Forse non può entrare» sussurrai. «Così come non riusciva a uscire dalla
porta corazzata».
«Non hai afferrato il significato dei simboli sparsi in tutta la stanza,
vero?».
Scossi il capo.
«Erano simboli di contenimento… servono a contenere uno spirito, o un
demone. Sulla porta d’ingresso non ce ne sono. Quindi non riuscirà a tenerlo
fuori».
«Allora perché non entra?».
«Perché darci la caccia quando sa che gli andremo incontro?».
In quel momento il mostro guardò su, e subito mi allontanai dalla finestra.
«Non credo mi abbia visto» sussurrai, innaffiando Gioia di saliva.
Poi il mostro cominciò a fischiettare. Era una melodia gaia, allegra, un
motivetto che ti veniva voglia di fischiettare mentre lucidavi il teschio della
tua ultima vittima. «Non sto inseguendo niente e nessuno» disse, con un tono
di voce molto più alto di quanto sarebbe stato necessario se avesse parlato tra
sé e sé. «No, non io. Me ne sto qui solo un secondo. Oh be’, non c’è nessuno,
penso che me ne andrò». Ricominciò a fischiettare, e sentimmo i passi che si
facevano più sommessi, così come la melodia. Non si stavano allontanando,
erano solo meno forti. Io e Gioia guardammo giù e vedemmo l’enorme bestia
che fingeva di camminare, mentre il suo fischio si faceva sempre più fievole.
«Che c’è?» gli gridai, ora furioso. «Pensavi che non avremmo guardato?».
Il mostro scrollò le spalle. «Ho pensato di fare un tentativo. Quando hai
aperto la porta ho immaginato di non avere di fronte un genio».
«Che cos’ha detto? Che cos’ha detto?» cantilenava Gioia alle mie spalle.
«Che non gli sembri molto intelligente».
«Digli che non sono io che ho trascorso tutti questi anni chiusa in una
stanza buia a giocare con me stessa».
Mi allontanai dalla finestra e guardai Gioia. «Credi che riuscirebbe a
passare attraverso questa apertura?».
La osservò. «Sì».
«Allora farò a meno di riferirgli quello che hai detto. Potrebbe infuriarsi».
Gioia mi spinse da parte, salì sul davanzale, si voltò e mi guardò. Poi si tirò
su la veste e fece la pipì fuori dalla finestra. Il suo equilibrio era stupefacente.
A giudicare dai grugniti che giungevano da sotto, anche la mira non doveva
essere male. Finì e saltò giù. Diedi un’occhiata al mostro, che si stava
scrollando l’urina dalle orecchie, come un cane.
«Scusa» dissi «ho un problema con la lingua. Non so come tradurre».
Il mostro ringhiò e i muscoli delle sue spalle si fecero tesi sotto le scaglie;
un istante dopo sfogò la tensione sfondando con un pugno il rivestimento di
ferro della porta.
«Scappa» disse Gioia.
«Dove?».
«Al passaggio nella parete di roccia».
«Hai tagliato la scala».
«Scappa e basta». Mi trascinò via, guidandomi nell’oscurità come aveva
fatto prima. «Abbassati» urlò, un istante prima che mi rendessi conto che
eravamo entrati nel passaggio più stretto grazie alle terminazioni nervose
della fronte. Eravamo a metà quando sentii un colpo e un’imprecazione del
mostro.
Ci fu una pausa, poi un terribile stridore, così intenso che fummo costretti
a tapparci le orecchie. Poi giunse l’odore di carne bruciata.

L’alba spuntò proprio quando Gesù e Baldassarre superarono l’ingresso
alla fortezza dal lato della gola.
«Come va adesso?» chiese il mio amico. «Lo senti il demone?».
Baldassarre scosse il capo, funesto. «Siamo arrivati tardi». Indicò il punto
in cui fino a poco prima s’innalzava la grande porta rotonda. Adesso c’era
solo un mucchio di frammenti piegati e rotti, appesi a quello che restava degli
enormi cardini.
«In nome di Satana, che cosa avete combinato?» chiese Gesù. Saltò giù dal
suo cavallo ed entrò di corsa nella fortezza, mentre il vecchio faceva del suo
meglio per seguirlo.
Il rumore in quel passaggio angusto era così forte che presi il pugnale di
Gioia e strappai dalle maniche della mia veste dei brandelli di tessuto che
usammo per tapparci le orecchie. Poi accesi un bastoncino infiammabile per
vedere che cosa stava facendo il mostro. A bocca aperta, guardammo la bestia
che dilaniava la pietra: gli artigli si muovevano velocissimi, lanciando in aria
fumo, polvere e schegge di pietra mentre avanzava. Le scaglie prendevano
fuoco per l’attrito e ricrescevano alla stessa velocità con cui bruciavano. Non
era avanzato di molto, aveva percorso forse un metro e mezzo verso di noi,
ma alla fine sarebbe riuscito ad allargare il passaggio quanto bastava per
tirarci fuori come fa un tasso con le termiti. Adesso capivo com’era stata
costruita la fortezza, che non mostrava segni di strumenti. La creatura era così
veloce che la pietra veniva lucidata nel momento stesso in cui la tagliava.
Avevamo già tentato due volte di salire sull’altopiano con quello che era
rimasto della scaletta, solo per essere ricacciati di sotto dal mostro prima di
aver raggiunto la strada. La seconda volta lui tirò su la scala e rientrò nella
fortezza per riprendere quello scavo infernale.
«Salterò giù prima di farmi prendere da quella cosa» dissi a Gioia.
Lei guardò oltre il margine del precipizio, nel buio sconfinato che si apriva
sotto di noi. «Fallo» fece lei. «E poi dimmi com’è».
«D’accordo, ma prima prego». E lo feci. Pregai con tanta intensità che il
sudore m’imperlò la fronte, scorrendo sulle palpebre serrate. Riuscii a
smorzare persino lo stridore costante delle scaglie del mostro contro la pietra.
Per un attimo, ebbi la sensazione che fossimo soltanto io e Dio. Come sempre
Lui rimase in silenzio, e d’un tratto mi resi conto di quanto doveva essersi
sentito frustrato Gesù, che chiedeva sempre una via da seguire o una linea
d’azione senza mai ricevere una risposta.
Quando riaprii gli occhi era spuntata l’alba sullo strapiombo, e la luce
penetrava nel passaggio. Così illuminato, il demone era ancora più
spaventoso. Era coperto del sangue delle ragazze e, mentre erodeva
implacabilmente la pietra, le mosche gli ronzavano intorno, ma ogni volta che
provavano a posarsi su di lui cadevano a terra morte. Il tanfo di carne marcia
e scaglie in fiamme era insopportabile, e quasi mi spinse a buttarmi giù dal
precipizio. La bestia era appena a tre o quattro cubiti da noi, e a brevi
intervalli cercava di sollevarsi e di scagliare in avanti l’artiglio per poterci
afferrare.
Gioia e io ci rannicchiammo sulla facciata del precipizio cercando
qualunque appiglio, qualunque presa che ci consentisse di allontanarci dalla
bestia: su, giù, lateralmente lungo la parete. La paura delle altezze d’un tratto
era diventata un particolare trascurabile.
Cominciavo a sentire l’olezzo prodotto dai suoi artigli mentre si lanciava
verso di noi attraverso la stretta apertura, quando sentii il basso profondo della
voce di Baldassarre alle sue spalle. Il mostro occupava l’intera apertura del
passaggio, pertanto non riuscivo a vedere dietro di lui, ma si girò facendo
sbattere contro di noi la coda con la punta a forma di picca; per poco non ci
lacerò la pelle. Gioia estrasse il pugnale di vetro e diede una stoccata,
intaccandogli le scaglie, ma evidentemente la ferita non era abbastanza
profonda da indurre il mostro a girarsi.
«Baldassarre ti domerà, brutto figlio di una lucertola mangiamerda!» gridò.
Proprio in quell’istante entrò qualcosa dall’apertura, e noi ci abbassammo
mentre ci passava sopra e precipitava verso il fondo della gola, stridendo
come un falco in picchiata.
«Che cos’era?». Gioia scrutava sotto di noi, nel tentativo di vedere cosa ci
avesse lanciato il mostro.
«Quello? Era Baldassarre».
«Ops».
Gesù diede uno strattone alla gigantesca coda e il demone si girò con un
ringhio feroce. Continuò a tenerlo anche quando i suoi artigli gli sibilarono
davanti al viso.
«Qual è il tuo nome, demone?» chiese.
«Non vivrai abbastanza da ripeterlo». Sollevò di nuovo l’artiglio per
colpire.
Gesù gli strattonò nuovamente la coda, e il mostro rimase paralizzato. «No,
così non va. Allora, qual è il tuo nome?».
«Preda» rispose il demone, arrendendosi e lasciando cadere il braccio
lungo il fianco. «Io ti conosco. Tu sei il ragazzino, non è vero? Un tempo
parlavano di te».
«E ora che te ne torni a casa».
«Prima non posso mangiare quei due sulla cengia?».
«No. Satana ti aspetta».
«Sono davvero irritanti. Lei mi ha pisciato addosso».
«Ho detto di no».
«Ti farei un favore».
«Non vorrai far loro del male adesso, no?».
La bestia piegò indietro le orecchie e chinò la testa enorme. «No, non
voglio».
«Non sei più arrabbiato».
Scosse il capo. In effetti era già piegato in due, in quel passaggio angusto,
ma si prostrò davanti a Gesù e si coprì gli occhi con gli artigli.
«Be’, io lo sono ancora!» gridò Baldassarre. Gesù si voltò e vide il vecchio
coperto di sangue e terra, con i vestiti lacerati dalle ossa che si erano fratturate
al momento dell’impatto. Dopo pochi minuti dalla caduta era guarito, ma non
stava certo meglio di prima.
«Sei sopravvissuto?».
«Te l’ho detto, finché il demone rimane sulla terra sono immortale. Ma
questa è stata la prima volta: non era mai riuscito a farmi del male, in
passato».
«E non te ne farà più».
«Riesci a controllarlo? Perché io non posso nulla».
Gesù si voltò e posò una mano sul capo del demone. «Questa creatura
malvagia un tempo contemplò il volto di Dio. Questo mostro un tempo servì
in cielo, ottenne bellezza, visse nella grazia e camminò nella luce. Adesso è
uno strumento di sofferenza. È orribile d’aspetto e di natura perversa».
«Ehi, bada a quello che dici» fece il demone.
«Quello che intendevo dire è che non lo si può biasimare per quello che è.
Non ha mai avuto quello che hai avuto tu, o qualunque altro uomo. Non ha
mai avuto il libero arbitrio».
«È così triste» commentò la bestia.
«Un momento, Preda. Ti farò assaggiare quello che non hai mai
conosciuto. Per un attimo ti concederò il libero arbitrio».
Il demone ruppe in singhiozzi. Gesù gli tolse la mano dalla testa, poi lasciò
andare la coda e uscì dal passaggio, passando nell’ingresso.
Baldassarre era in piedi accanto a lui e aspettava che il demone emergesse
dal corridoio.
«Puoi davvero farlo? Puoi dargli il libero arbitrio?».
«Lo vedremo, no?».
Preda uscì e si alzò, limitandosi ora a chinare il capo. Lacrime enormi e
viscose gli scendevano lungo le guance coperte di scaglie, sulle mascelle, e
cadevano sul pavimento di pietra, sfrigolando come un acido. «Grazie»
brontolò.
«Libero arbitrio» disse Baldassarre. «Come ti fa sentire?».
Il demone sollevò il vecchio come fosse una bambola di pezza e se lo mise
sotto il braccio. «Mi viene voglia di scaraventarti un’altra volta in quel fottuto
precipizio».
«No» fece Gesù. Balzò in avanti e gli toccò il torace. L’aria fece uno
schiocco, come se il vuoto prima occupato dal demone si fosse
improvvisamente riempito. Baldassarre cadde sul pavimento con un gemito.
«Be’, quella del libero arbitrio non è stata una grande idea» commentò.
«Scusa. La compassione ha avuto la meglio su di me».
«Non mi sento bene» disse il mago. Si sedette pesantemente a terra ed
emise un lungo respiro secco e stridulo.

Io e Gioia uscimmo dal passaggio e trovammo Gesù chino sul mago, che
invecchiava sotto i nostri occhi.
«Ha duecentosessant’anni» spiegò il mio amico. «Adesso che Preda se n’è
andato, l’età si fa sentire».
La pelle di Baldassarre aveva assunto un colorito cinereo e il bianco degli
occhi appariva ingiallito. Gioia si sedette sul pavimento e gli prese la testa,
posandosela delicatamente sulle ginocchia.
«Dov’è il mostro?» chiesi.
«È tornato all’inferno. Aiutatemi a mettere a letto Baldassarre. Vi
spiegherò dopo».
Lo portammo nella sua stanza, dove Gioia tentò di fargli bere un po’ di
brodo, ma lui si addormentò con la scodella accostata alle labbra.
«Puoi aiutarlo?» chiesi, senza rivolgermi a nessuno in particolare.
Gioia scosse la testa. «Non è malato. È soltanto vecchio».
«Sta scritto: “Per ogni cosa c’è il suo momento”» disse Gesù. «Non posso
cambiare le stagioni della vita. Alla fine il suo momento è arrivato». Poi diede
un’occhiata a Gioia e sollevò le sopracciglia. «Hai pisciato sul demone?».
«Non aveva il diritto di lamentarsi. Prima di venire qua ho conosciuto un
uomo, a Hunan, che pagava bene per farsi fare una cosa simile».

Baldassarre tirò avanti altri dieci giorni, e verso la fine più che un uomo
sembrava uno scheletro avvolto in un involucro di pelle vecchia. Supplicò
Gesù di perdonargli la sua vanità, e continuò a chiamarci al suo capezzale per
ripeterci le stesse cose, ancora e ancora, dal momento che dimenticava quello
che ci aveva detto solo poche ore prima.
«Troverete Gaspare al Tempio del Buddha Celestiale, sulle montagne a est.
C’è una mappa nella biblioteca. Gaspare sarà il vostro maestro. È un vero
saggio, e non un ciarlatano come me. Gesù, ti aiuterà a diventare l’uomo che
devi essere per portare a termine il compito che ti è stato assegnato. Quanto a
te, Biff, crescendo potresti non essere così terribile. Fa freddo nel posto in cui
state andando. Comprate delle pellicce lungo la strada, e scambiate i cavalli
con i cammelli, quei dromedari pelosi con due gobbe».
«Sta delirando» dissi.
«No» fece Gioia «esistono davvero».
«Oh, chiedo scusa».
«Gesù» chiamò il vecchio. «Ricordati almeno dei tre gioielli». Poi chiuse
gli occhi e smise di respirare.
«E morto?» chiesi.
Gesù accostò l’orecchio al suo cuore. «Sì».
«Cos’era quella storia dei tre gioielli?».
«Sono i tre gioielli del Tao: compassione, sobrietà e umiltà. Baldassarre
diceva che la compassione porta al coraggio, la sobrietà alla generosità e
l’umiltà alla capacità di comandare».
«Una dottrina un po’ traballante» osservai.
«Compassione» sussurrò lui, mentre con il capo indicava Gioia che
piangeva in silenzio sul corpo del mago.
Le misi un braccio intorno alle spalle, lei si voltò e singhiozzò contro il
mio petto. «Che cosa farò adesso? Baldassarre è morto. Tutte le mie amiche
sono morte. E voi due ve ne state andando».
«Vieni con noi» disse Gesù.
«Certo, vieni con noi».

Ma non venne. Restammo nel deserto altri sei mesi, aspettando che
passasse l’inverno, prima di partire per le alte montagne a est. Io ripulii gli
alloggi delle ragazze, imbrattati di sangue, mentre Gioia aiutò Gesù a tradurre
alcuni dei testi antichi di Baldassarre. Mangiavamo insieme, e di tanto in
tanto io e Gioia facevamo sesso per ricordare i bei tempi, ma era come se la
vita avesse abbandonato del tutto la fortezza. Quando ormai la partenza era
vicina, lei ci comunicò la sua decisione.
«Non posso venire con voi a cercare Gaspare. Le donne non sono ammesse
nel monastero, e non mi va di vivere nel villaggio vicino, così isolato.
Baldassarre mi ha lasciato moltissimo oro e l’intero contenuto della
biblioteca, ma tutto questo non mi serve a niente qui sulle montagne. Non
rimarrò in questa tomba, dove ci sarebbero solo i fantasmi delle mie amiche a
farmi compagnia. Presto arriverà Ahmad, come ogni primavera, e gli chiederò
di aiutarmi a portare i tesori e le pergamene a Kabul, dove mi comprerò una
grande casa e assumerò dei servi che mi porteranno dei ragazzini da
corrompere».
«Vorrei avere un piano» dissi.
«Anch’io» fece Gesù.
Festeggiammo tutti e tre insieme il diciottesimo compleanno del Messia
mangiando cinese, come da tradizione, e il mattino dopo io e lui caricammo i
cavalli e ci preparammo a partire per l’Oriente.
«Sei sicura che te la caverai fino all’arrivo di Ahmad?» chiese Gesù.
«Non preoccuparti per me, vai a imparare come si fa il Messia». Lo baciò
appassionatamente sulle labbra. Lui si dimenò per liberarsi, ed era ancora
paonazzo quando salì sul cavallo.
«E tu» disse a me «devi venire a trovarmi a Kabul quando tornerai in
Israele, o ti lancerò una maledizione da cui non potrai più liberarti». Si tolse
dal collo la boccetta ying-yang con il veleno e l’antidoto e la mise intorno al
mio. Forse a un altro sarebbe sembrato uno strano regalo, ma come
apprendista della maga mi parve perfetto. Poi m’infilò il pugnale di vetro nero
nella fusciacca che portavo in vita. «Non importa quanto ci vorrà, vieni a
trovarmi. Prometto che non ti dipingerò mai più di blu».
Glielo promisi e ci baciammo. Poi montai in sella al cavallo e partii
insieme a Gesù. Mi sforzai di non voltarmi a guardare un’altra donna che mi
aveva rubato il cuore.
Cavalcavamo a circa cento metri di distanza, e ognuno di noi pensava al
proprio passato e al proprio futuro, a chi era e a chi sarebbe stato, e dovetti
aspettare un paio d’ore per raggiungere il mio amico e rompere il silenzio.
Pensai al modo in cui Gioia mi aveva insegnato a leggere e a parlare
cinese, a mescolare pozioni e veleni, a barare al gioco, a usare una certa
destrezza. Mi aveva mostrato anche dove e come toccare opportunamente una
donna. E tutto senza aspettarsi niente in cambio. «Le donne saranno sempre
più forti e migliori di me?».
«Sì» rispose.
Passò un altro giorno prima che ci rivolgessimo ancora la parola.

PARTE TERZA

La compassione




Torah! Torah!
Torah!
GRIDO DI GUERRA DEI RABBINI KAMIKAZE
16

Eravamo in viaggio da dodici giorni e seguivamo la mappa di Baldassarre
meticolosamente disegnata, quando giungemmo alla muraglia.
«Allora» dissi «che te ne pare?».
«È grande».
«Non così tanto».
Una lunga fila di persone attendeva di varcare l’enorme porta, dove un
gran numero di burocrati riscuoteva il pedaggio dai padroni delle carovane.
Le stesse casette dei guardiani ai lati della porta erano più grandi dei palazzi
di Erode e, sulla sommità del muro, i soldati compivano il giro di ronda a
cavallo, per coprire grandi distanze. Eravamo a una buona lega dalla porta, e
la fila sembrava immobile.
«Ci vorrà tutto il giorno» dissi. «Perché costruire una cosa del genere? Se
puoi innalzare una muraglia di queste dimensioni, significa che puoi mettere
insieme un esercito abbastanza grande da respingere gli invasori».
«È stato Lao Tzu a costruirlo» disse Gesù.
«Il vecchio maestro che scrisse il Tao? Non credo».
«Qual è la cosa più importante per il Tao?».
«La compassione? Gli altri due gioielli?».
«No, l’ozio. La contemplazione. La fermezza. Il conservatorismo. Un
muro rappresenta la difesa di un paese che dà molta importanza all’ozio, ma
oltre a proteggere la gente la imprigiona. Per questo Baldassarre ha voluto che
venissimo qui.
Voleva che capissi l’errore nel Tao. Non si può essere liberi senza azione».

«Quindi ha dedicato tutto quel tempo a insegnarci il Tao perché capissimo
che è sbagliato?».
«No, non sbagliato. Non completamente, almeno. La compassione,
l’umiltà e la sobrietà del Tao sono qualità dell’uomo virtuoso; non l’ozio, di
cui questa gente è schiava».
«Hai fatto lo scalpellino» osservai, indicando con il capo la massiccia
muraglia. «Credi sia stata costruita con l’ozio?».
«Il mago non parlava dell’azione nel lavoro, ma nel cambiamento. Per
questo abbiamo studiato Confucio, per primo: ogni cosa ha a che fare con
l’ordine dei nostri padri, con le leggi e le consuetudini. Confucio è come la
Torah: un insieme di regole da seguire. E Lao Tzu è addirittura più
conservatore, poiché dice che, se non fai nulla, non infrangi alcuna norma. A
volte devi ignorare la tradizione, devi agire, devi mangiare la pancetta
affumicata. Era questo che Baldassarre stava cercando di insegnarmi».
«Te l’ho già detto, Gesù… e sai quanto ami la pancetta affumicata. .. ma
non credo che sia adatta come dono del Messia».
«Cambiamento. Un Messia deve portare cambiamento. E il cambiamento
viene dall’azione. Baldassarre una volta mi ha detto: “Non esiste un eroe
conservatore”. Quel vecchio era davvero saggio».
Pensai al vecchio mago, mentre guardavo il muro che si estendeva sulle
colline, e poi la fila di viaggiatori davanti a noi. Accanto alla porta della
muraglia era sorta una cittadina per soddisfare i bisogni dei viandanti che si
fermavano lungo la Via della Seta, adesso brulicante di mercanti che
vendevano cibo e bevande alla gente in attesa.
«’Fanculo» dissi. «Ci vorrà un’eternità. Quanto può essere lungo il muro?
Giriamoci attorno».
Un mese dopo tornammo alla stessa porta, e mentre eravamo in fila per
passare dall’altra parte, Gesù mi chiese: «Allora, adesso che ne pensi della
muraglia? Ora che ne abbiamo visto un bel tratto, voglio dire».
«Penso che sia pomposa e sgradevole».
«Se non le hanno ancora trovato un nome, potresti suggerire questi».
E così accadde che quell’enorme costruzione divenne nota nei secoli come
la “Pomposa e Sgradevole Muraglia Cinese”. Almeno, spero che sia andata
così. Non è sulla mia cartina della compagnia aerea, quindi non posso esserne
sicuro.

Intravedemmo la montagna su cui sorgeva il monastero di Gaspare molto
prima di arrivarci. Alla stessa maniera dei picchi circostanti, tagliava il cielo
come un enorme dente. Ai piedi del monte c’era un villaggio circondato da
alti pascoli, dove ci fermammo per riposare e abbeverare i cammelli
(splendidi esemplari con due gobbe che avevamo ottenuto in cambio dei
nostri cavalli, confortevoli da cavalcare e soprattutto docili… nessuno aveva
ancora tentato di mordermi). Tutti gli abitanti vennero a salutarci e si
meravigliarono dei nostri occhi strani e dei riccioli di Gesù, quasi fossimo
divinità scese dal cielo (il che probabilmente era vero nel caso del mio
amico… ma sono cose che si dimenticano quando passi tanto tempo in giro
con una persona). Una vecchia senza denti, che parlava un dialetto cinese
simile a quello che avevamo imparato da Gioia, ci convinse a lasciare i
cammelli al villaggio. Con un dito bitorzoluto ci indicò il sentiero che saliva
in cima alla montagna, e ci rendemmo conto che era troppo stretto e ripido per
essere percorso dai nostri animali.
La gente del villaggio ci offrì un piatto a base di carne speziata, da mandar
giù con scodelle di latte schiumoso. Esitai, lanciando un’occhiata a Gesù. La
Torah ci vietava di mangiare carne e latticini nello stesso pasto.
«Credo che sia un po’ come con la pancetta affumicata» disse lui. «Non
penso proprio che al Signore importi se butti giù il tuo yak con una scodella di
latte».
«Yak?».
«Esatto. Me l’ha detto la vecchia».
«Be’, peccato o no, io questa roba non la mangio. Berrò solo il latte».
«È di yak pure quello».
«Allora non lo bevo».
«Fai pure, affidati alla tua capacità di giudizio. In passato ti è stata molto
utile, come quando, ehm… hai deciso che avremmo dovuto aggirare la
muraglia».
«Sai una cosa?» risposi, stanco di sentirmelo rinfacciare. «Non ho mai
detto che potevi usare così il sarcasmo. Credo che tu stia utilizzando la mia
invenzione con modalità improprie».
«Contro di te, ad esempio?».
«Lo vedi? Capisci che cosa intendo?».

Lasciammo il villaggio al mattino presto, portando con noi solo qualche
palla di riso, i nostri otri d’acqua e il poco denaro che ci era rimasto.
Affidammo i cammelli alla vecchia sdentata, che promise di prendersene cura
fino al nostro ritorno.
«Li mangeranno, lo sai vero? Tra meno di un’ora, uno di loro starà girando
su uno spiedo».
«Non lo faranno». Gesù era sempre pronto a credere nella bontà degli
esseri umani.
«Non sanno che cosa sono. Per loro sono semplicemente grossi ammassi di
cibo. Li mangeranno: l’unica carne che hanno, qui, è quella di yak».
«Non sai nemmeno che cos’è uno yak».
«Invece sì» ribattei, ma l’aria stava diventando sempre più rarefatta, ed ero
troppo stanco per provare quello che dicevo.
Il sole stava tramontando dietro le montagne, quando finalmente
giungemmo al monastero. Tranne per l’enorme porta di legno in cui si apriva
un piccolo sportello, esso era interamente costruito con il basalto nero della
montagna su cui sorgeva. Sembrava più una fortezza che un luogo di culto.
«Viene da chiedersi se tutti e tre i Magi vivano in luoghi fortificati».
«Suona il gong» mi disse. Fuori dal portone era appeso un gong di bronzo
con una mazza imbottita e un cartello in una lingua che non riuscimmo a
capire.
Suonai. Aspettammo. Suonai ancora. E aspettammo. Il sole tramontò e sul
pendio cominciava a fare davvero freddo. Suonai il gong tre volte, forte.
Mangiammo le nostre palle di riso e bevemmo quasi tutta l’acqua. E
aspettammo. Battei su quell’affare con tutta la forza che avevo e lo sportello
si aprì. Una luce fioca che giungeva dall’interno illuminò le guance lisce di un
giovane cinese che doveva avere più o meno la nostra età. «Che cosa volete?»
chiese nella sua lingua.
«Siamo qui per vedere Gaspare» risposi. «Ci manda Baldassarre».
«Gaspare non riceve visite. Avete un aspetto sinistro e gli occhi troppo
tondi». Richiuse lo sportellino sbattendolo.
Questa volta fu Gesù a suonare il gong, e non smise fino a quando il
monaco non si affacciò di nuovo allo sportello.
«Fammi vedere quella mazza» disse, tendendo la mano attraverso la
piccola apertura.
Gesù obbedì e fece un passo indietro.
«Andatevene e tornate domattina».
«Ma abbiamo viaggiato tutto il giorno. Abbiamo freddo e fame» rispose
Gesù.
«La vita è sofferenza». Richiuse con forza lo sportello, lasciandoci al buio
quasi totale.
«Forse era questo che dovevi imparare» dissi. «Torniamo a casa».
«No, aspettiamo».

Ci appoggiammo al portone per dormire, stretti l’uno all’altro per non
disperdere il calore. Il mattino dopo, il monaco venne ad aprire lo sportello.
«Siete ancora qui?». Non poteva vederci, dal momento che eravamo
esattamente sotto la finestrella.
«Sì» risposi. «Adesso possiamo vedere Gaspare?».
Allungò il collo, poi lo ritirò e mise fuori una scodellina di legno con
dell’acqua, che ci rovesciò sulla testa. «Andatevene. Avete i piedi deformi e le
vostre sopracciglia si uniscono in modo minaccioso».
«Ma…».
Richiuse violentemente lo sportello. E così passammo la giornata fuori dal
portone; io sarei voluto tornare a valle, mentre Gesù insistette per aspettare.
Quando ci svegliammo, l’indomani, avevamo la brina sui capelli, e sentivo
male fin nelle ossa. Il monaco aprì la porticina alle prime luci dell’alba.
«Siete così stupidi che la corporazione degli idioti del villaggio vi usa
come pietre di paragone per le loro verifiche».
«In effetti io ne faccio parte» replicai.
«In questo caso, andatevene».
Imprecai eloquentemente in cinque lingue e stavo cominciando a
strapparmi i capelli per la frustrazione, quando vidi qualcosa di grosso che si
muoveva in cielo sopra di noi. Quando si avvicinò capii che si trattava
dell’angelo, vestito di nero e con le ali. Aveva con sé un fascio di bastoncini e
della pece, che lasciava dietro di lui una scia di fiamme e del fumo nero e
denso. Dopo essere passato sopra di noi diverse volte, scomparve oltre
l’orizzonte, lasciando il posto a una scritta di fumo in caratteri cinesi. Era un
messaggio: ARRENDITI DOROTHY.

Vi stavo solo prendendo in giro (come diceva Baldassarre). Raziel non
scrisse realmente quelle parole. Ma ieri sera abbiamo guardato Il mago di Oz
in tv, e la scena ai cancelli di Oz mi ha fatto ripensare a quei momenti fuori
dal portone del monastero. Raziel si identifica con Glinda, la strega buona del
Nord (io avrei pensato alla scimmia alata, ma credo che lui preferisca le
bionde). Devo ammettere di aver provato una certa affinità con lo
spaventapasseri, anche se credo che non mi sarei messo a cantare per far
sapere a tutti che sono senza cervello. Infatti, tra i vari lamenti musicali dei
personaggi che vorrebbero un cuore (l’uomo di latta), un cervello (lo
spaventapasseri) o un po’ di coraggio (il leone), vi siete accorti che nessuno di
loro ha un pene? Credo che sul leone e sull’uomo di latta si sarebbe dovuto
vedere; e quando lo spaventapasseri si toglie i pantaloni, non si vede mica una
scimmia alata che se ne va in giro brandendo un pisello di paglia, o sbaglio?
Credo che al loro posto canterei una canzone del genere:

Oh, farei passare le ore con piacere
masturbandomi tra i fiori con una canzone nel cuore, indorerei tutti i gigli
mentre sventolo il mio pisello se solo l’avessi…

E d’un tratto, mentre componevo l’opera sopra citata, mi è venuto in mente
che, nonostante le sembianze maschili di Raziel, non avevo idea se gli angeli
avessero o no un sesso. Dopotutto, lui era l’unico che avessi mai visto. Sono
balzato su dalla sedia e l’ho affrontato, durante una puntata pomeridiana
dei Looney Tunes.
«Raziel, tu ce l’hai l’attrezzatura?».
«Attrezzatura?».
«Il pacco, il salsicciotto, l’unità, l’uccello… ce l’hai?».
«No» ha risposto, perplesso per il fatto che gliel’avessi chiesto. «A cosa
dovrebbe servirmi?».
«Per fare sesso. Gli angeli non lo fanno?».
«Be’, sì, ma non usano quello».
«Quindi esistono angeli maschi e angeli femmine?». «Sì».
«E tu fai sesso con gli angeli femmine?».
«Esatto».
«E con che cosa lo fai?».
«Con le femmine. Te l’ho appena detto».
«No, volevo sapere se hai un organo sessuale». «Sì».
«Me lo fai vedere?».
«Non ce l’ho con me».
«Oh». Mi sono reso conto che ci sono cose che preferisco decisamente non
sapere.
Comunque non scrisse nulla nel cielo, e in effetti non rivedemmo Raziel,
ma dopo tre giorni i monaci ci fecero entrare nel monastero. Dissero che tutti
dovevano attendere tanto tempo. Serviva a eliminare le persone non sincere.

L’intera struttura a due piani era di pietra grezza, e ogni sasso aveva
dimensioni tali da poter essere collocato al proprio posto da un solo uomo. La
parte posteriore s’insinuava nel pendio della montagna. Apparentemente era
stata costruita sotto una sporgenza rocciosa preesistente, pertanto le coperture
esposte agli elementi atmosferici erano minime. La parte visibile era ricoperta
da tegole in terracotta posate su un piano fortemente inclinato, ovviamente
per impedire accumuli di neve.
Un monaco basso e calvo con una veste color zafferano ci guidò attraverso
un cortile lastricato, fino all’entrata austera del monastero. Il pavimento
all’interno era di pietra e, anche se perfettamente pulito, non era più raffinato
di quello del cortile. C’erano solo poche finestre, perlopiù alte feritoie
ricavate nelle pareti, e una volta chiusa la porta d’ingresso non entrava molta
luce. L’aria era densa d’incenso, e un mormorio di voci maschili produceva
un canto ritmico che sembrava provenire da ogni lato e da nessuna parte al
tempo stesso: avevo la sensazione che le mie costole e le mie rotule
vibrassero dall’interno. Qualunque fosse la lingua in cui cantavano, per me
era incomprensibile, ma il messaggio era chiaro: stavano invocando qualcosa
che trascendeva questo mondo.
Il monaco ci fece salire una stretta rampa di scale e ci guidò in un corridoio
lungo e angusto fiancheggiato da vani privi di porte col soffitto che mi
arrivava al massimo alla vita. Passando, intuii che dovevano, essere le celle
dei monaci; ciascuna era larga quanto bastava a ospitare un uomo piccolo
disteso. Sul pavimento di ogni cella c’era un tappetino intrecciato con sopra
una coperta di lana arrotolata, ma non c’erano tracce di beni personali o
scorte. Non c’erano porte da chiudere per avere un po’ di privacy. In breve,
quel luogo somigliava molto a quello in cui ero cresciuto, il che non mi fece
sentire meglio. I quasi cinque anni di relativa opulenza nella fortezza di
Baldassarre mi avevano viziato. Desideravo un letto morbido e mezza dozzina
di concubine cinesi che mi facessero mangiare dalle loro mani e
massaggiassero il mio corpo con oli fragranti. (Be’, ve l’ho detto, ero viziato.)
Alla fine il monaco ci condusse in un’ampia camera con un alto soffitto di
pietra, e mi resi conto che non ci trovavamo più in una struttura fabbricata da
esseri umani, bensì in una vasta caverna. In fondo c’era la statua di un uomo
seduto con le gambe incrociate e gli occhi chiusi, che teneva le mani davanti a
sé: pollice e indice erano uniti a formare due cerchi. Illuminato dalla luce
arancione delle candele e con un alone d’incenso attorno alla testa rasata,
sembrava raccolto in preghiera. Il monaco, la nostra guida, scomparve
nell’oscurità ai lati della caverna, mentre Gesù e io ci avvicinammo alla statua
con cautela, badando a dove mettevamo i piedi sul pavimento grezzo. (Da
tempo, ormai, avevamo smesso di sorprenderci e scandalizzarci davanti agli
idoli. Il mondo e l’arte che avevamo ammirato nei nostri viaggi avevano
soffocato anche quel solenne comandamento. «Pancetta affumicata» mi
diceva Gesù, quando gli chiedevo qualcosa al riguardo.)
Da quell’ampia stanza provenivano i canti che avevamo sentito entrando
nel monastero; dopo aver visto le celle dei monaci, avevamo stabilito che quel
ronzio doveva essere composto dalle voci di almeno venti uomini anche se,
dal modo in cui riecheggiava nella caverna, poteva trattarsi di mille come di
uno. Mentre ci avvicinavamo alla statua nel tentativo di capire di che pietra
fosse fatta, aprì gli occhi.
«Sei tu Gesù?» chiese in perfetto aramaico.
«Sì» rispose il mio amico.
«E quello chi è?».
«Il mio amico Biff».
«Ora sarà chiamato Ventuno, quando sarà necessario chiamarlo, e tu sarai
Ventidue. Finché starete qui non avrete nome». Ovviamente non era una
statua, era Gaspare. La luce arancione delle candele e la totale assenza di
espressione e movimento avevano creato l’illusione che fosse fatto di pietra.
Ma eravamo sorpresi anche perché ci aspettavamo un cinese, mentre l’uomo
che avevamo davanti sembrava venire dall’India. Aveva la pelle addirittura
più scura della nostra, e quel puntino rosso sulla fronte che avevamo già visto
sui mercanti indiani a Kabul e ad Antiochia. Era difficile capirne l’età, dal
momento che non aveva capelli né barba, e il viso era privo di rughe.
«Lui è il Messia» dissi. «Il Figlio di Dio. Sei venuto a Betlemme per la sua
nascita».
Ancora nessuna espressione sul viso di Gaspare. «Il Messia deve morire se
volete imparare. Uccidetelo domani».
«Chiedo scusa?».
«Domani imparerete. Che questi due siano sfamati» disse Gaspare.
Dal buio comparve un altro monaco, quasi identico al primo, che prese
Gesù per una spalla. Ci condusse fuori dalla stanza-cappella e ci riportò alle
celle, dove mostrò a entrambi la sistemazione. Portò via le nostre borse e se
ne andò. Tornò qualche minuto dopo con una scodella di riso e una tazza di tè
per ciascuno. Poi sparì; per tutto il tempo non aveva detto una sola parola.
«Loquace, l’amico» commentai.
Gesù si mise in bocca una manciata di riso e fece una smorfia. Era freddo e
sciapo. «Credi che dovrei preoccuparmi per quella storia del Messia che deve
morire domani?».
«Ricordi? Non sei mai stato assolutamente sicuro di essere tu».
«Sì, e allora?».
«Domani, se non ti uccidono all’alba, diglielo».

La mattina dopo, il monaco numero Sette ci svegliò battendoci i piedi con
un bastone di bambù. A suo favore va detto che stava sorridendo quando
finalmente riuscii a svegliarmi abbastanza da poterlo vedere: ma fu davvero
una magra consolazione. Numero Sette era basso e magro, con gli zigomi alti
e gli occhi profondamente infossati. Indossava una lunga veste color arancio
di cotone grezzo, ed era scalzo. Si era rasato di fresco, ed era rasata anche la
testa con l’eccezione di un codino legato con un laccio. Poteva avere
diciassette come trentacinque anni, impossibile a dirsi. (Se vi state chiedendo
dei monaci dal Due al Sei, e dall’Otto al Venti, immaginate diciotto copie del
numero Sette. Almeno, così mi apparvero i primi mesi. In seguito - non fosse
stato per la statura maggiore e gli occhi rotondi - sono certo che la stessa
descrizione si sarebbe potuta applicare anche al sottoscritto e a Gesù, i monaci
Ventuno e Ventidue. Quando una persona cerca di liberarsi dai vincoli
dell’ego, avere il medesimo aspetto è un obbligo. Per questo lo chiamano
“uniforme”. Ma, ahimè, sto correndo troppo.)
Numero Sette ci condusse a una finestra che veniva evidentemente usata
come latrina, aspettò che facessimo i nostri bisogni e ci accompagnò in una
stanzetta dove Gaspare sedeva con le gambe incrociate, in una posizione
apparentemente impossibile, con un tavolino davanti. Il monaco fece un
inchino e lasciò la stanza; Gaspare ci invitò a sederci, usando di nuovo
l’aramaico.
Ci sedemmo sul pavimento di fronte a lui - no, non è esatto; in effetti ci
sdraiammo su un fianco appoggiandoci a un gomito, come avremmo fatto
davanti ai nostri tavoli bassi, a casa. Ci mettemmo seduti solo quando tirò
fuori un bastone di bambù e, con la rapidità d’un cobra, ci colpì sulla testa.
«Seduti, ho detto!».
Obbedimmo.
«Cribbio» dissi, strofinandomi il bernoccolo che cominciava già a
gonfiarsi sopra l’orecchio.
«Ascoltate» disse il mago, tenendo il bastone sollevato per spiegare
esattamente il significato delle sue parole.
Ascoltammo come se dovessero interrompere il suono da un momento
all’altro e avessimo bisogno di farne incetta. Credo di aver addirittura smesso
di respirare per un po’.
«Bene» disse Gaspare, posando il bastone e versando del tè in tre semplici
scodelle sul tavolo.
Guardammo il tè fumante… lo guardammo e basta. Gaspare scoppiò a
ridere come un ragazzino, mentre dal suo viso scomparivano del tutto la
serietà e l’autorità di poco prima. Sarebbe potuto essere un vecchio e
benevolo zio. In effetti, non fosse stato per le evidenti fattezze indiane, mi
ricordava molto Giuseppe, il patrigno di Gesù.
«Niente Messia» disse, passando al cinese. «Intesi?».
«Sì» rispondemmo in coro.
Un istante dopo stringeva in mano un’estremità del bastone di bambù,
mentre l’altra rimbalzava sul capo del mio amico. Mi protessi il capo con le
braccia, ma il colpo non arrivò mai.
«Ho colpito il Messia?» gli chiese Gaspare.
Gesù sembrava sinceramente perplesso. Si fermò, strofinandosi la testa.
Poi arrivò un’altra botta sopra l’orecchio, e il rumore dell’impatto risuonò
brusco e aspro nella stanzetta di pietra.
«Ho colpito il Messia?».
Gli occhi scuri del mio amico non mostravano né dolore né paura. Solo
confusione. La confusione di un vitello a cui il sacerdote del Tempio ha
appena tagliato la gola.
Il bastone fischiò mentre scendeva per colpire di nuovo, ma questa volta lo
presi, lo strappai di mano al mago e lo lanciai fuori dalla stretta finestra alle
sue spalle. Rapido, giunsi le mani e guardai il tavolo davanti a me. «Chiedo
scusa, maestro» dissi «ma se lo colpisci un’altra volta io t’ammazzo».
Gaspare si alzò in piedi, ma avevo paura di guardarlo (così come avevo
paura di guardare Gesù). «Ego» disse il monaco. E lasciò la stanza senza dire
una parola.
Io e il mio amico restammo lì seduti in silenzio a riflettere per qualche
minuto, mentre ci era venuta la pelle d’oca. Be’, era stato un viaggio
interessante e tutto il resto, ma Gesù non avrebbe imparato molto riguardo al
suo compito di Messia da un uomo che lo picchiava ogni volta che veniva
nominato. Ed era proprio quello il motivo per cui eravamo lì. Vuotai la mia
tazza di tè e poi presi anche quella lasciata da Gaspare. «Meno due, ci resta
soltanto un saggio» dissi. «Sarà meglio trovarci qualcosa da mangiare per
colazione, se vogliamo metterci in viaggio».
Gesù mi guardò con la stessa espressione perplessa che poco prima aveva
rivolto al mago. «Pensi che quel bastone gli serva?».

Il monaco numero Sette ci passò le nostre sacche, fece un profondo
inchino e poi tornò nel monastero e chiuse la porta, lasciandoci lì in piedi
accanto al gong. Era una mattinata limpida e riuscivamo a vedere il fumo dei
fuochi della gente che preparava da mangiare nel villaggio sottostante.
«Avremmo dovuto chiedere un po’ di cibo» dissi. «La discesa sarà lunga».
«Io non me ne vado».
«Stai scherzando».
«Ho molte altre cose da imparare, qui».
«Tipo come prendersi una bastonata?».
«Può darsi».
«Non sono sicuro che Gaspare mi farà rientrare. Non mi è sembrato molto
ben disposto nei miei confronti».
«Hai minacciato di ucciderlo».
«Non è vero, l’ho solo avvisato. C’è una bella differenza».
«Quindi non resti?».
Ed eccola, la domanda. Sarei rimasto con il mio migliore amico a mangiare
riso freddo, a dormire su un pavimento gelido, a subire gli abusi da parte di un
monaco folle e - molto probabilmente - a farmi spaccare il cranio, o me ne
sarei andato? E dove? A casa? Sarei tornato a Kabul, da Gioia? Sebbene fosse
un lungo viaggio, tornare per la strada da cui ero venuto mi pareva più
semplice. Se non altro avrei ritrovato una parvenza di familiarità. Ma se
dovevo scegliere la via più semplice, perché ero arrivato fin lì?
«Sei sicuro di dover restare, Gesù? Non possiamo andare a cercare
Melchiorre?».
«So di dover imparare delle cose, qui». Gesù prese la mazza e suonò il
gong. Pochi minuti dopo si aprì lo sportellino e un monaco che non avevamo
mai visto si sporse dall’apertura. «Andatevene. Siete ottusi per natura e il
vostro alito puzza come il culo di uno yak». Richiuse la porticina sbattendola.
Gesù suonò di nuovo.
«Non mi piace tutta quella storia sul Messia. Non posso stare qui, Gesù, se
quello ha intenzione di picchiarti».
«Ho la sensazione che lo farà ancora, fino a quando non avrò imparato ciò
che devo».
«È meglio che io vada».
«Sì».
«Ma potrei restare».
«No. Fidati di me, devi abbandonarmi adesso per non farlo in futuro. Ci
rivedremo». Si voltò verso la porta.
«Oh, non sai mai nulla, ma d’un tratto sei certo di questo?».
«Sì. Vai, Biff. Addio».
Scesi lungo lo stretto sentiero e per poco non inciampai cadendo in un
precipizio, quando sentii aprirsi lo sportello. «Dove stai andando?» mi gridò il
monaco.
«A casa».
«Bene, vai a spaventare qualche bambino con la tua gloriosa ignoranza».
«Lo farò». Cercai di tenere le spalle ferme mentre camminavo, ma era
come se qualcuno mi stesse strappando l’anima attraverso i muscoli della
schiena. Giurai a me stesso che non mi sarei voltato. E lentamente,
dolorosamente, scesi lungo il sentiero, convinto che non avrei mai più rivisto
il mio migliore amico.
17

Ho adottato una sorta di monotona pratica, qui in albergo, che in qualche
modo mi ricorda quel periodo in Cina. Quando mi alzo scrivo queste pagine,
guardo la televisione, cerco di far irritare l’angelo e sgattaiolo in bagno per
leggere i Vangeli. E credo che siano questi ultimi ad aver trasformato le mie
ore di sonno in un paesaggio da incubo, che mi lascia senza energie anche
quando sono sveglio. Ho finito quello di Marco: anche lui parla di
resurrezione, di cose che vanno al di là della morte mia e di Gesù. È una
storia simile a quella raccontata da Matteo: i fatti sono un po’ rimescolati, ma
fondamentalmente raccontano il suo ministero. A farmi venire i brividi sono
gli avvenimenti dell’ultima settimana della Pasqua. L’angelo non è riuscito a
tenermelo nascosto: l’insegnamento di Gesù è sopravvissuto alla sua epoca
diventando molto popolare. (Raziel ha smesso perfino di cambiare canale
quando parlano di lui in televisione, come faceva i primi tempi.) Ma è questo
il libro da cui è tratta la dottrina del mio amico? Di notte sogno sangue,
sofferenze e una solitudine così vuota che nemmeno l’eco riesce a
sopravvivere; mi sveglio in un bagno di sudore, gridando, e quella solitudine
non se ne va subito, rimane con me per un po’. La notte scorsa, quando mi
sono svegliato, ho creduto di vedere una donna ai piedi del letto, e accanto a
lei c’era l’angelo con le ali nere spiegate che toccavano le pareti della camera.
Poi, prima che riuscissi a raccapezzarmi, quest’ultimo ha avvolto la donna
con le ali e lei è scomparsa. A quel punto credo di essermi svegliato
veramente, perché l’angelo era disteso sull’altro letto e fissava l’oscurità; i
suoi occhi, come perle nere, catturavano le luci rosse lampeggianti degli aerei
che passavano sopra gli edifici dall’altra parte della strada. Niente ali, niente
veste nera, niente donna. Solo Raziel con lo sguardo fisso.
«Brutto sogno?» mi ha chiesto.
«Ricordi». Stavo dormendo? Mi sono ricordato di aver visto la stessa luce
lampeggiante debole e fioca sullo zigomo e il naso della donna nel mio
incubo (non riuscivo a vedere altro del suo viso). E quel profilo elegante si è
incastrato alla perfezione nei recessi della mia memoria, come una chiave in
una serratura, e ha sprigionato un profumo di cannella e legno di sandalo, e
una risata più dolce dei migliori giorni dell’infanzia.

Me n’ero andato da due giorni, quando tornai a suonare il gong fuori dal
monastero. Lo sportellino si aprì a rivelare il volto di un monaco rasato di
fresco (la pelle della testa era ancora di dodici toni più chiara di quella della
faccia). «Che cosa vuoi?» chiese.
«La gente del villaggio si è mangiata i nostri cammelli».
«Vattene. Le tue narici si allargano in modo sgradevole, e la tua anima
appare ottusa».
«Gesù, fammi entrare. Non ho nessun altro posto dove andare».
«Non posso ammetterti così» sussurrò. «Devi aspettare tre giorni come
tutti gli altri». E poi a voce alta, per farsi sentire da qualcuno all’interno,
aggiunse: «Dal tuo aspetto direi che sei stato infestato dai beduini! Vattene!».
E sbatté lo sportello.
Rimasi lì. E aspettai. Qualche minuto dopo riaprì.
«Infestato dai beduini?» gli chiesi.
«Dammi tregua. Sono nuovo. Hai portato cibo e acqua a sufficienza?».
«Sì, la vecchia sdentata mi ha venduto un po’ di carne di cammello. C’era
un’offerta speciale».
«Dev’essere immonda» osservò.
«Pancetta affumicata, amico. Ricordi?».
«Oh, giusto. Scusa. Cercherò di portarti un po’ di tè e una coperta. Ma
dovrai aspettare».
«E poi Gaspare mi lascerà rientrare?».
«E rimasto perplesso quando te ne sei andato. Ha detto che se c’era una
persona che aveva bisogno di imparare un po’ di disciplina… be’, lo sai.
Credo che avrai una punizione».
«Scusa se ti ho abbandonato».
«Non l’hai fatto». Ghignò. Con quella testa bicolore sembrava più sciocco
del solito. «Ti dirò una cosa che ho già imparato».
«E sarebbe?».
«Quando sono di turno alla porta, chi bussa può entrare. Far rimanere al
freddo una persona in cerca di conforto è come… un panetto di burro di yak
rancido».
«Amen».
Gesù sbatté lo sportello - evidentemente era obbligatorio chiuderlo così. Io
rimasi lì e mi chiesi come sarebbe riuscito a trasformare una frase come
“panetto di burro di yak rancido” in un sermone, una volta che avesse
finalmente imparato a fare il Messia. Proprio quello di cui noi ebrei avevamo
bisogno. Altre restrizioni nell’alimentazione.

I monaci mi spogliarono e mi versarono dell’acqua fredda sulla testa, poi
mi strofinarono vigorosamente con spazzole di setole di cinghiale; versarono
dell’acqua calda e mi strofinarono ancora, poi ricominciarono con l’acqua
fredda, e avanti così fino a quando non li supplicai di smettere. Allora mi
rasarono la testa, sciacquarono via i capelli rimasti attaccati al mio corpo e mi
consegnarono una veste arancione pulita, una coperta e una ciotola di legno
per il riso. Poi mi diedero un paio di pantofole realizzate con fili d’erba
intrecciata, e io mi fabbricai delle calze con peli di yak. Queste furono le mie
ricchezze per i sei anni successivi: una veste, una coperta, una scodella, delle
pantofole e delle calze.
Mentre il monaco numero Otto mi conduceva all’incontro con Gaspare,
pensai al mio vecchio amico Bartolomeo e a quanto sarebbe stato felice della
mia nuova austerità. Spesso mi raccontava del suo patriarca cinico, Diogene,
che aveva portato con sé una ciotola per anni, fino a quando non aveva visto
un uomo che beveva dalla mano a coppa. «Che sciocco sono stato» disse.
«Per tanto tempo mi sono portato dietro questo peso, quando avevo una
scodella perfetta attaccata al polso».
Già, be’, forse a Diogene andava bene così, ma quando quella scodella
divenne il mio unico possedimento, se qualcuno avesse tentato di rubarmela
avrebbe perso quella all’estremità del suo arto.
Gaspare era seduto sul pavimento nella stessa stanzetta di qualche giorno
prima, con gli occhi chiusi e le mani giunte sulle ginocchia. Gesù sedeva di
fronte a lui, nella medesima posizione. Il monaco numero Otto uscì con un
inchino e il saggio aprì gli occhi.
«Siediti».
Obbedii.
«Ecco le quattro regole che dovrai rispettare se non vuoi essere espulso:
primo, un monaco non può avere relazioni sessuali con nessuno, persona o
animale che sia».
Gesù mi guardò e si fece piccolo piccolo, come se si aspettasse che dicessi
qualcosa che avrebbe fatto arrabbiare Gaspare. «D’accordo, niente relazioni».
«Secondo: un monaco, sia al monastero che al villaggio, non prenderà
niente che non gli venga donato. Terzo: se un monaco uccide
intenzionalmente un essere umano o simile, con le sue stesse mani o con
un’arma, sarà espulso».
«O… simile?» chiesi.
«Vedrai» mi rispose. «Quarto: un monaco che afferma di aver raggiunto
una condizione sovrumana, o di aver ottenuto la saggezza dei santi quando
non è così, sarà espulso. Le hai capite bene?».
«Sì» dissi, e Gesù annuì.
«Ricorda, non ci sono attenuanti. Se secondo gli altri monaci ti sarai
macchiato di una di queste colpe, dovrai lasciare il monastero».
Dissi ancora di sì, e Gaspare si mise a elencare le tredici regole per cui un
monaco poteva essere sospeso per due settimane (la prima era la più
straziante: “niente emissioni di seme se non in sogno”) e le novanta colpe per
cui chi non si pentiva andava incontro a una rinascita sfavorevole (colpe che
comprendevano molte cose, dal distruggere qualunque forma di vegetazione
all’uccidere deliberatamente un animale, dal sedere all’aperto con una donna
al vantarsi con un laico di possedere poteri soprannaturali - anche se era la
verità). Nel complesso c’era un numero incredibile di regole, oltre cento sul
decoro, decine per risolvere le dispute: ma non dimenticate che eravamo ebrei
cresciuti sotto l’influenza di farisei che giudicavano praticamente ogni
avvenimento della vita quotidiana sulla base della Legge di Mosè. E con
Baldassarre avevamo studiato Confucio, la cui filosofia era poco più che un
ampio sistema di regole. Non avevo dubbi sul fatto che Gesù ce la potesse
fare. E c’era una possibilità che ci riuscissi anch’io, se Gaspare non avesse
usato il suo bastone di bambù con troppa liberalità e se fossi riuscito a fare
abbastanza sogni bagnati. (Ehi, avevo diciotto anni e ne avevo appena
trascorsi cinque in una fortezza piena di concubine disponibili. Ormai era
un’abitudine, okay?)
«Monaco numero Ventidue» disse il saggio a Gesù «tu comincerai con
l’imparare come ci si siede».
«Lo so già fare» dissi io.
«E tu, numero Ventuno, toserai lo yak».
«È solo un modo di dire, vero?».
Non lo era.

Lo yak è un animale simile al bisonte, estremamente grosso ed
estremamente peloso, munito di due corna nere dall’aspetto inquietante. Avete
mai visto un bisonte d’acqua? Bene, immaginatevelo con una parrucca che lo
ricopre interamente e arriva a strisciare per terra. Poi dategli una spruzzatina
di muschio, letame e latte inacidito e avrete ottenuto uno yak. In una caverna
adibita a stalla i monaci tenevano una femmina, che lasciavano uscire durante
il giorno perché pascolasse lungo i sentieri di montagna. Cosa avrebbe dovuto
mangiare è un mistero. Non sembrava esserci abbastanza vegetazione per
nutrire un animale di quelle dimensioni (con la testa le arrivavo alla spalla);
del resto, non sembrava esserci abbastanza vegetazione nemmeno in Giudea,
per le capre… eppure il loro allevamento era una delle attività principali. Che
cosa potevo saperne, io?
Il latte e il formaggio forniti da quella femmina bastavano a ricordare ai
monaci che le quantità ricavate da un solo esemplare non erano sufficienti per
ventidue persone. Inoltre, l’animale dava una lana lunga e grezza che doveva
essere tagliata due volte l’anno. E questo venerato compito - insieme a quello
di eliminare la merda, l’erba e i nodi con un pettine - toccava al sottoscritto.
Non c’è molto da sapere sugli yak, eccetto un particolare importante che
secondo Gaspare avrei dovuto apprendere con la pratica: detestano essere
tosati.

Toccò ai monaci Otto e Sette bendarmi, sistemarmi le fratture alle gambe e
al braccio e togliermi la cacca di yak che mi era stata spiaccicata addosso con
tanta forza. Vi parlerei delle differenze tra questi due serissimi studenti, se me
ne venisse in mente qualcuna, ma non ce n’erano. Obiettivo di tutti i monaci
era lasciar andare l’ego, l’io; e, fatta eccezione per qualche ruga in più sui
volti degli anziani, si somigliavano tutti, si vestivano allo stesso modo e
avevano gli stessi comportamenti. Io, d’altro canto, mi distinguevo
abbastanza dal resto del gruppo: malgrado la testa rasata e la veste zafferano,
avevo il corpo fasciato per metà e tre arti su quattro steccati con del bambù.
Dopo il disastro con la femmina di yak, Gesù aspettò la mezzanotte per
strisciare fino alla mia cella. Il russare leggero dei monaci riempiva i corridoi
e le lievi turbolenze dei pipistrelli che entravano nella loro caverna
attraversando il monastero rimbalzavano sulle pareti come ansiti di morte di
ombre epilettiche.
«Senti dolore?» mi chiese.
Il sudore mi colava lungo il viso, malgrado la temperatura gelida. «Riesco
a malapena a respirare». Sette e Otto mi avevano fasciato le costole rotte, ma
ogni respiro era una pugnalata nel fianco.
Gesù mi posò una mano sulla fronte.
«Starò bene, Gesù, non c’è bisogno».
«Perché non dovrei? E parla a voce bassa».
Pochi secondi dopo il dolore se n’era andato ed ero di nuovo in grado di
respirare. Poi mi addormentai o persi i sensi per la gratitudine, non saprei
dire. Quando all’alba mi svegliai, lui era ancora in ginocchio accanto a me, la
mano sulla mia fronte. Aveva preso sonno lì.

Portai la lana pettinata a Gaspare, che stava cantando nel grande tempio
caverna. Era un bel rotolo; lo posai sul pavimento alle sue spalle e uscii
indietreggiando.
«Aspetta» fece lui, sollevando un dito. Terminò il suo canto e si voltò
verso di me. «Tè» disse. Lo seguii nella stanza dove ci aveva ricevuti il
giorno del nostro arrivo. «Siediti. Coraggio, non indugiare».
Mi sedetti e lo osservai mentre accendeva un piccolo braciere di pietra,
usando un legnetto per appiccare il fuoco a del muschio secco e soffiando
sulla carbonella.
«Io ho inventato un bastoncino che consente di accendere un fuoco
all’istante» dissi. «Potrei insegnarti…».
Mi lanciò un’occhiata torva e sollevò di nuovo il dito per spingere via le
mie parole. «Siedi» disse. «Non parlare. Non indugiare».

Portò a ebollizione dell’acqua in una pentola di rame e ne versò un po’
sulle foglie di tè che aveva messo in una scodella di terracotta. Posò due
tazzine sul tavolo e procedette a versare il tè.
«Ehi, idiota!» gridai. «Lo stai versando fuori, cazzo!».
Gaspare sorrise e posò la scodella sul tavolo.
«Come posso servirti del tè se la tua tazza è già piena?».
«Eh?» feci, eloquente. Le parabole non erano mai state il mio forte. Se
volete dire qualcosa, parlate chiaro. Quindi Gesù e i buddhisti erano la
compagnia perfetta per me, considerato quant’erano diretti nell’esprimersi…
Il saggio si versò del tè, poi fece un respiro profondo e chiuse gli occhi.
Passò forse un minuto e li riaprì. «Se sai già tutto, come posso insegnarti
qualcosa? Devi svuotare la tua tazza, se vuoi che ti versi del tè».
«Perché non l’hai detto subito?». Presi la mia tazza, versai il tè fuori dalla
finestra - la stessa da cui avevo lanciato il bastone - e la rimisi sul tavolo.
«Sono pronto» dissi.
«Vai nel tempio e siediti».
Niente tè? Evidentemente ce l’aveva ancora con me per la mia quasi
minaccia di morte. Uscii senza dargli le spalle e facendo un inchino (un gesto
cortese che mi aveva insegnato Gioia).
«Ancora una cosa» disse. Mi fermai e aspettai. «Numero Sette diceva che
non avresti superato la notte. E numero Otto era d’accordo con lui. Com’è che
sei ancora vivo, e per giunta non hai più nulla?».
Riflettei un secondo prima di rispondere - cosa che non faccio quasi mai -
e poi dissi: «Forse quei monaci hanno una considerazione troppo alta delle
loro opinioni. Posso solo augurarmi che non abbiano corrotto la mente di
qualcun altro».
«Vai a sederti».

E ci sedemmo.
Evidentemente avevamo attraversato mezzo mondo per imparare a sederci,
restare fermi e ascoltare i suoni dell’universo. Per lasciare andare il nostro
ego, ovvero non la nostra individualità ma ciò che ci distingue dagli altri
esseri viventi. «Quando ti siedi, siediti. Quando respiri, respira. Quando
mangi, mangia» diceva Gaspare, e intendeva dire che ogni particella del
nostro essere doveva trovarsi “nel momento”, completamente consapevole del
presente, senza passato, futuro o qualunque altra cosa a dividerci da ciò che
era.
Per me, un ebreo, è difficile stare “nel momento”. Senza passato dove sta
la colpa? Senza futuro dove sta il timore? E senza colpa e timore chi sono io?
«Considera la tua pelle come ciò che ti unisce all’universo, e non come ciò
che ti separa da esso» mi disse Gaspare, mentre cercava di insegnarmi
l’essenza dell’illuminazione, pur ammettendo che non era una cosa che
poteva essere spiegata. Poteva insegnarmi il metodo. Poteva sedersi.
Secondo la leggenda (che ricostruii mettendo insieme le cose che scoprii
dal maestro e dai suoi monaci) Gaspare aveva costruito il monastero per avere
un luogo in cui sedersi. Molti anni prima era venuto in Cina dall’India,
dov’era nato principe, per insegnare all’imperatore e alla sua corte il vero
significato del buddhismo, andato perduto in anni di dogmi e di esasperata
interpretazione delle Scritture.
Al suo arrivo, l’imperatore gli domandò: «Che cos’ho ottenuto con tutte le
mie buone azioni?».
«Niente» rispose lui.
Il sovrano rimase scioccato: la generosità dimostrata al suo popolo in tutti
quegli anni non era servita a nulla.
«Allora, qual è l’essenza del buddhismo?».
«Grande cuoco».
L’imperatore lo fece buttar fuori dal tempio, e in quel momento il giovane
monaco prese due decisioni: numero uno, avrebbe trovato una risposta
migliore da dare quando gliel’avessero chiesto un’altra volta; numero due,
avrebbe fatto meglio a imparare il cinese prima di parlare con qualche
personalità importante. Voleva dire “grande vuoto”, ma aveva sbagliato
vocabolo.
Sempre secondo la leggenda, Gaspare giunse alla caverna dove adesso
sorgeva il monastero e si sedette a meditare, determinato a rimanere così fino
a quando non gli fosse giunta l’illuminazione. Nove anni dopo scese dalla
montagna e trovò la gente del villaggio ad aspettarlo con cibo e doni.
«Maestro, vogliamo sentire i tuoi sacri consigli. Che cosa puoi dirci?»
gridarono.
«Ho davvero bisogno di fare pipì» rispose lui. E con ciò la gente comprese
che aveva davvero raggiunto la mente di tutti i Buddha, o la “non mente”
come la chiamavamo noi.
Lo supplicarono di rimanere con loro e lo aiutarono a costruire il
monastero nel luogo in cui sorgeva la caverna dove aveva raggiunto
l’illuminazione. Durante i lavori furono attaccati molte volte da pericolosi
banditi e, sebbene Gaspare fosse convinto che nessun essere vivente dovesse
essere ucciso, sentiva anche che quelle persone dovevano potersi difendere in
qualche modo. Così meditò sulla questione fino a escogitare un metodo di
autodifesa, basato su vari movimenti appresi dagli yogi nella nativa India, che
insegnò agli abitanti del villaggio e a tutti i monaci che via via si univano a lui
nel monastero. Chiamò la disciplina kung fu - che, tradotto, significa “metodo
con cui dei piccoletti pelati possono atterrarti con dei calci”.
Il nostro addestramento cominciò con i pali per saltellare. Dopo colazione,
e dopo la meditazione mattutina, il monaco numero Tre - apparentemente il
più vecchio - ci condusse nel cortile del monastero, dove trovammo una
catasta di pali lunghi una sessantina di centimetri e con il diametro di una
spanna circa. Ce li fece piantare lungo una linea dritta, a distanza di mezzo
passo l’uno dall’altro. Poi ci disse di saltare su un palo con un piede solo e di
rimanere in equilibrio. Dopo aver passato gran parte della mattinata a tirarci
su dal ruvido pavimento di pietra, ci ritrovammo entrambi su un piede
all’estremità di un palo.
«E adesso?» chiesi a numero Tre.
«E adesso niente. Rimanete così».
Rimanemmo così. Per ore. Il sole attraversò il cielo e cominciarono a
dolermi gambe e schiena. Continuavamo a cadere, solo per sentire le urla di
numero Tre che ci ordinava di saltare di nuovo sul palo. Quando scese la sera,
e avevamo trascorso diverse ore in equilibrio senza cadere, ci disse: «Adesso
saltate sul palo successivo».
Sentii Gesù sospirare profondamente. Guardai la fila di pali e intuii la
sofferenza che avevamo davanti, se ci si aspettava che affrontassimo l’intera
tortura. Gesù era dietro di me, in fondo alla fila, e sarebbe dovuto saltare sul
palo su cui stavo io. Non solo sarei dovuto atterrare sul successivo senza
cadere, ma mi sarei dovuto assicurare di non buttare giù il mio con lo slancio.
«Ora!» disse numero Tre.
Saltai e il palo mi scivolò via da sotto i piedi, così atterrai sulla pietra di
testa. Vidi un lampo bianco e sentii una vampata di fuoco al collo. Prima che
avessi il tempo di riprendermi, Gesù cadde su di me. «Grazie» disse, felice di
essere atterrato su qualcosa di morbido.
«Tornate su» fece il monaco.
Raddrizzammo i pali e vi saltammo sopra. Questa volta ci riuscimmo
entrambi al primo tentativo. Poi aspettammo l’ordine di saltare su quello
successivo. La luna si alzò alta e piena nel cielo, e io e Gesù fissammo la fila
di pali chiedendoci quanto tempo avremmo impiegato per arrivare in fondo, e
per quanto ancora numero Tre ci avrebbe fatto restare lì, pensando alla storia
di Gaspare che era rimasto seduto nove anni. Non riuscivo a ricordare di aver
mai provato tanto dolore, e vuol dire molto se sei stato calpestato da uno yak.
Stavo cercando di immaginare per quanto ancora sarei riuscito a sopportare la
fatica e la sete, quando numero Tre disse: «Basta così. Andate a dormire».
«È finita?» chiese Gesù, mentre saltava giù dal suo palo atterrando con una
smorfia. «Perché abbiamo sistemato venti pali se dovevamo usarne soltanto
tre?».
«Perché pensare a venti pali quando potete stare in equilibrio su uno
soltanto?».
«Devo fare pipì» dissi.
«Esattamente» fece il monaco.
Eccolo qui, riassunto per voi: il buddhismo.

Ogni giorno andavamo nel cortile e sistemavamo i pali in modo diverso, a
caso. Numero Tre ne aggiungeva di nuovi, di altezza e diametro diversi.
Qualche volta dovevamo saltare da un palo all’altro il più velocemente
possibile, altre restavamo fermi per ore, pronti a scattare al comando del
monaco. Apparentemente, il punto era che non potevamo anticipare nulla, né
potevamo sviluppare un ritmo dell’esercizio. Dovevamo essere pronti a
muoverci in ogni direzione, senza premeditazione. Numero Tre la chiamava
“spontaneità controllata”, e durante i primi sei mesi al monastero passammo
tanto tempo in cima ai pali quanto seduti in meditazione. Sin da subito Gesù
si mostrò portato per il kung fu, così come per la meditazione. Io, per usare
un’espressione buddhista, ero più ottuso.
Oltre a badare al monastero, ai giardini e alla femmina di yak che andava
munta (compito che misericordiosamente non toccò mai al sottoscritto), circa
ogni dieci giorni un gruppo di sei monaci scendeva al villaggio armato di
ciotole per raccogliere elemosine, di solito riso e tè, a volte salse di colore
scuro, burro o formaggio di yak e, in rare occasioni, stoffe di cotone con cui
cucire nuove vesti. Durante il primo anno io e Gesù non fummo mai
autorizzati a lasciare il monastero, ma il sottoscritto cominciò a notare uno
strano schema comportamentale. Dopo ogni spedizione al villaggio, quattro o
cinque monaci sparivano sulle montagne per diversi giorni. Nessuno diceva
mai niente, né quando partivano né quando tornavano, ma apparentemente
seguivano una sorta di rotazione: ogni monaco usciva ogni tre o quattro volte,
con l’eccezione di Gaspare che lo faceva con maggiore frequenza.
Alla fine trovai il coraggio di chiedere a quest’ultimo che cosa succedesse
lassù, e lui mi rispose: «Si tratta di una meditazione speciale. Non sei ancora
pronto. Vai a sederti».
La sua risposta a quasi tutte le mie domande era “Vai a sederti” e il mio
risentimento indicava che non stavo affatto perdendo l’attaccamento al mio
ego, e perciò la meditazione non mi avrebbe portato da nessuna parte. Gesù,
d’altro canto, sembrava perfettamente a suo agio. Poteva restare seduto per
ore, immobile, ed eseguire l’esercizio sui pali come se avesse trascorso un’ora
a scaldarsi i muscoli.
«Come ci riesci?» gli chiesi. «Come fai a non pensare a niente e a non
addormentarti?». Quella era stata una delle barriere più ostiche nel mio
cammino verso l’illuminazione. Se restavo seduto troppo a lungo mi
addormentavo, ed evidentemente l’eco del mio russare disturbava la
meditazione degli altri monaci. La cura raccomandata per la mia condizione
consisteva nel bere enormi quantità di tè verde, che in effetti mi teneva
all’erta, ma sostituiva il mio stato di “non mente” con pensieri costanti sulla
mia vescica. In effetti, in meno di un anno raggiunsi la piena consapevolezza
della mia vescica. Gesù, d’altra parte, riuscì a lasciar andare completamente il
suo ego, come da istruzioni. Era il nostro nono mese al monastero, nel bel
mezzo dell’inverno più rigido che potessi immaginare, quando il mio amico,
dopo aver abbandonato tutte le costruzioni della personalità e della vanità,
divenne invisibile.
18

Sono stato in mezzo a voi, ho mangiato, parlato e camminato, camminato,
camminato per ore, senza poter girare a causa di un muro sulla mia strada.
L’angelo mi ha svegliato questa mattina con una nuova mise, estranea al tatto
ma familiare per averla vista in tv: jeans, felpa e sneakers, oltre ai calzini e a
un paio di boxer.
«Mettiteli. Ti porto fuori a fare una passeggiata» mi ha detto Raziel.
«Come se fossi un cane».
«Esattamente».
Anche l’angelo indossava abiti americani moderni e, malgrado la sua
straordinaria bellezza, sembrava tanto a disagio, come se gli avessero
attaccato i vestiti al corpo con dei chiodi infuocati.
«Dove andiamo?».
«Te l’ho detto, fuori».
«Dove hai preso questa roba?».
«Ho chiamato la reception, li ha portati su Jesus. C’è un negozio di
abbigliamento, in albergo. Adesso andiamo».
Raziel ha chiuso la porta e si è infilato la chiave in tasca insieme ai soldi.
Mi sono domandato se avesse mai avuto delle tasche, prima. Io non avrei mai
pensato di usarle. Non ho detto una parola mentre prendevamo l’ascensore e
scendevamo nell’atrio, uscendo dall’ingresso principale. Non volevo rovinare
quel momento, né dire qualcosa che potesse farlo tornare in sé. Il rumore in
strada era stupendo: le automobili, i martelli pneumatici, i pazzi che
farfugliavano sommessamente. E la luce! Gli odori! Probabilmente dovevo
essere sotto shock quando arrivammo qui da Gerusalemme. Non ricordavo
che fosse tutto così vivido.
Ho cominciato a saltellare lungo la strada e l’angelo mi ha preso per una
spalla, affondando le dita nei muscoli come artigli. «Sai che non puoi
scappare, e che se ci provi io posso riacchiapparti e spezzarti le gambe, così
non potrai più correre. Sai che, se scappassi anche solo per qualche minuto,
non potresti nasconderti. Sai che ti troverei, così come un tempo scovavo tutti
quelli del tuo genere. Lo sai, vero?».
«Sì, lasciami andare. Camminiamo».
«Odio camminare. Hai mai visto un’aquila che guarda un piccione? È così
che mi sento rispetto a te e al tuo modo di camminare».
Suppongo di dover dire qualcosa a proposito della suddetta affermazione,
“un tempo scovavo tutti quelli del tuo genere”. Sembra che, secoli fa, per un
certo periodo Raziel avesse ricoperto il ruolo di Angelo della Morte, ma fu
sollevato dall’incarico perché non particolarmente capace. Ammette di essere
un patito delle storie sventurate (e forse questo spiega la sua passione per le
telenovele). Comunque, quando vi capita di leggere nella Torah che Noè visse
fino a novecento anni e Mosè fino a centoquaranta… be’, indovinate chi
guidava la danza della morte? Fu allora che gli diedero le ali nere di cui vi ho
parlato in precedenza, che gli permisero di tenere anche dopo il
licenziamento. (Ci credereste che Noè riuscì a rimandare la morte di ottocento
anni dicendo all’angelo che era rimasto indietro con le scartoffie? Oh, se solo
Raziel fosse così incompetente anche nel compito che gli è stato affidato
adesso!)
«Guarda, Raziel! Pizza!» ho esclamato indicando un’insegna.
«Compriamoci la pizza!».
Ha preso del denaro dalla tasca e l’ha dato a me. «Puoi pensarci tu. Perché
sei in grado di farlo, vero?».
«Sì, ai miei tempi esisteva già il commercio» ho risposto, sarcastico. «Non
avevamo la pizza, ma il commercio sì».
«Bene, e sai anche usare quella macchina?». Indicò una scatola che
conteneva dei giornali dietro una lastra di vetro.
«Se non si apre con quella piccola maniglia, no».
L’angelo sembrò turbato. «Com’è che puoi ricevere il dono delle lingue,
che ti permette improvvisamente di comprendere tutti gli idiomi, mentre non
c’è nulla che ti spieghi come funzionano le cose in quest’epoca? Dimmi».
«Forse, se tu non monopolizzassi il telecomando, potrei imparare a usare
queste cose». Intendevo dire che grazie alla televisione avrei potuto imparare
di più sul mondo esterno, ma lui capì che avevo bisogno di esercitarmi nello
schiacciare i bottoni.
«Saper usare il televisore non basta. Devi sapere come funziona ogni
cosa». E con ciò si voltò e, attraverso la vetrina della pizzeria, guardò gli
uomini che lanciavano in aria dischi di pasta.
«Perché, Raziel? Perché devo sapere come funziona questo mondo? Finora
mi hai impedito di imparare qualunque cosa, o sbaglio?».
«Da adesso tutto cambia. Andiamo a mangiarci una pizza».
«Raziel?».
Non volle spiegarmi oltre, ma trascorremmo il resto della giornata
girovagando per la città, spendendo soldi, parlando con la gente e imparando.
Nel tardo pomeriggio chiese all’autista di un autobus dove avremmo potuto
trovare l’Uomo Ragno. Sarei potuto andare avanti altri duemila anni e non
avrei mai visto una delusione pari a quella dipinta sul suo volto quando
quell’uomo gli rispose. Tornati qui in camera, Raziel ha detto: «Mi mancano i
tempi in cui distruggevo città piene di esseri umani».
«So che cosa vuoi dire» ho risposto, anche se era stato il mio migliore
amico a mettere fuori moda quel genere di comportamento, aspettando anche
troppo. Ma l’angelo aveva bisogno di sentire quelle parole. E c’è una bella
differenza tra il pronunciare falsa testimonianza e il voler proteggere i
sentimenti di qualcuno. Persino Gesù lo sapeva.

«Gesù, mi stai facendo paura» dissi alla voce incorporea che fluttuava
davanti a me, nel tempio. «Dove sei?». «Ovunque e da nessuna parte»
rispose. «Allora com’è che la tua voce è davanti a me?». Non mi piaceva
affatto. Sì, gli anni trascorsi con Gesù mi avevano abituato alle esperienze
soprannaturali, ma la mia meditazione non mi aveva ancora condotto al punto
in cui non avrei reagito all’invisibilità del mio amico.
«Suppongo che per natura una voce debba provenire da qualche parte, ma
solo per essere lasciata andare».
Gaspare era seduto nel tempio, e sentendoci parlare si alzò e venne da me.
Non sembrava arrabbiato; del resto, non lo sembrava mai. «Perché?» mi
chiese. E intendeva dire: Perché parli e disturbi la meditazione di tutti gli
altri con il tuo rumore infernale, razza di barbaro?
«Gesù ha raggiunto l’illuminazione».
Lui non disse nulla. Traduzione: E allora? È proprio questo lo scopo,
indegna progenie di uno yak tosato e bruciato. Lo capii dal tono della voce.
«E allora è invisibile».
«Mu» fece Gesù. In cinese significa “niente al di là del nulla”.
Con un gesto chiaramente incontrollato, Gaspare strillò come una
ragazzina e fece un salto di oltre un metro. I monaci smisero di salmodiare e
alzarono gli occhi. «Che cos’è stato?».
«Gesù».
«Mi sono liberato della mia personalità, del mio ego». Si udì un suono
acuto, e un attimo dopo fummo avvolti da un tanfo orribile.
Guardai Gaspare, che scosse il capo. Lui guardò me, e scrollai le spalle.
«Sei tu?» chiese al mio amico.
«Vuoi sapere se sono parte di tutte le cose? O mi stai chiedendo se sono
stato io a emettere quel gas all’aroma di pesce ripieno?».
«La seconda che hai detto».
«Allora la risposta è no».
«Tu menti» dissi, stupito tanto da quel fatto quanto dall’impossibilità di
vederlo.
«Adesso dovrei smettere di parlare. Avere una voce mi separa da tutto ciò
che è». E allora tacque, mentre Gaspare sembrava quasi in preda al panico.
«Non andartene, Gesù. Rimani così come sei, se proprio devi, ma domani
all’alba ti aspetto nella sala del tè». Mi guardò. «Vieni anche tu».
«Ma io la mattina devo esercitarmi sui pali».
«Sei esonerato. E se questa sera Gesù ti parla ancora, cerca di convincerlo
a condividere la nostra esistenza». Poi uscì in tutta fretta, con un’andatura
molto poco illuminata.

Quella sera stavo per addormentarmi quando udii un suono acuto nel
corridoio, e un odore incredibilmente disgustoso mi fece destare del tutto.
«Gesù?». Strisciai fuori dalla mia cella. In alto, nelle pareti, c’erano delle
strette fessure attraverso cui filtrava la luce della luna, ma sulla pietra non vidi
che un debole bagliore blu. «Gesù, sei tu?».
«Come fai a dirlo?» chiese la sua voce incorporea.
«Be’, in tutta onestà puzzi, amico».
«L’ultima volta che siamo andati al villaggio per chiedere l’elemosina, una
donna ha dato a me e a numero Quattordici un uovo vecchio di mille anni.
Non mi ha fatto molto bene».
«Non capisco perché. Non credo si debbano mangiare uova dopo…
diciamo duecento anni».
«Le seppelliscono e le lasciano lì, e poi le tirano fuori».
«Per questo non posso vederti? Per l’uovo?».
«No, è per via della mia meditazione. Ho lasciato andare tutto. Ho
raggiunto la libertà perfetta».
«Ma sei libero da quando abbiamo lasciato la Galilea».
«Non è la stessa cosa. È questo che sono venuto a dirti: non posso liberare
il nostro popolo dal dominio dei Romani».
«Perché no?».
«Perché non è vera libertà. Qualunque libertà venga concessa può essere
tolta. Mosè non aveva bisogno di chiedere al faraone di lasciar andare la
nostra gente, e il nostro popolo non aveva bisogno di essere liberato dai
Babilonesi, così come adesso non ha bisogno di essere liberato dai Romani.
Non posso dare io la libertà. È già nei loro cuori, devono solo trovarla».
«Quindi mi stai dicendo che non sei il Messia?».
«Come posso esserlo? Come può un essere umile avere la presunzione di
concedere qualcosa che non possiede?».
«Se non tu, chi? Angeli, miracoli, la tua capacità di guarire e dare
conforto? Chi altri può essere l’eletto?».
«Non lo so. Non so nulla. Volevo dirti addio. Rimarrò con te come parte di
tutte le cose, ma non percepirai la mia presenza fino a quando non sarai
illuminato. Non puoi neppure immaginare che cosa si provi, Biff. Sei ogni
cosa, ami ogni cosa e non hai bisogno di nulla».
«Okay. Quindi non ti serviranno le scarpe, giusto?».
«I beni posseduti stanno tra te e la libertà».
«A me suona come un sì. Ma fammi un favore, okay?».
«Certo».
«Ascolta quello che ti dirà Gaspare domani». E dammi il tempo di pensare
a una risposta intelligente da dare a una persona invisibile e folle, pensai.
Gesù era innocente, ma non stupido. Dovevo inventarmi qualcosa per salvare
il Messia, affinché poi potesse salvare tutti noi.
«Vado a sedermi nel tempio. Ci vediamo domattina».
«Non se io riesco a vederti prima».
«Divertente» fece Gesù.

Gaspare mi parve particolarmente vecchio, quando lo incontrai nella sala
del tè. I suoi alloggi personali consistevano in una cella non più grande della
mia, che però era appena fuori dalla sala e possedeva una porta che poteva
essere chiusa. La mattina faceva freddo nel monastero, e riuscivo a vedere il
nostro fiato mentre Gaspare faceva bollire l’acqua per il tè. Poco dopo vidi un
terzo sbuffo che si levava dal mio lato del tavolo, sebbene non ci fosse
nessuno.
«Buongiorno, Gesù» lo salutò il saggio. «Hai dormito, o non ne hai più
bisogno?».
«No, non ne ho più bisogno».
«Vorrai scusarci, spero, ma io e Ventuno necessitiamo ancora di
nutrimento».
Versò del tè per noi e prese due palle di riso da una mensola. Me ne porse
una e io la afferrai.
«Non ho con me la ciotola» dissi, preoccupato all’idea che si arrabbiasse.
Come potevo saperlo? I monaci facevano sempre colazione insieme. Questa
era un’occasione assolutamente straordinaria.
«Hai le mani pulite». Prese un sorso di tè e rimase seduto tranquillo per un
po’, senza dire nulla. In breve la stanza si scaldò grazie al braciere che aveva
usato per far bollire l’acqua, e non fui più in grado di vedere il fiato di Gesù.
Evidentemente aveva superato anche i disturbi gastrici provocati dall’uovo
millenario. Cominciai a innervosirmi, sapendo che numero Tre ci avrebbe
aspettato nel cortile per i nostri esercizi. Stavo per dire qualcosa, quando il
saggio sollevò un dito per invitarmi a fare silenzio.
«Gesù. Sai che cos’è un bodhisattva?».
«No, maestro, non lo so».
«Gautama Buddha era un bodhisattva. E lo sono stati anche i ventisette
patriarchi venuti dopo di lui. Qualcuno dice che lo sia anch’io, ma non sta a
me giudicare».
«Non ci sono Buddha» disse Gesù.
«Già. Ma quando un uomo raggiunge la buddhità e capisce che non
esistono Buddha perché Buddha è ovunque, quando raggiunge l’illuminazione
e decide di non evolversi nel nirvana fino a quando non l’avranno preceduto
tutti gli esseri senzienti, allora diventa un bodhisattva. Un salvatore che,
prendendo tale decisione, afferra l’unica cosa che possa essere afferrata: la
compassione per la sofferenza degli altri esseri umani. Capisci?».
«Credo di sì. Ma la decisione di diventare un bodhisattva sembra un atto
dell’ego, un rifiuto dell’illuminazione».
«In verità lo è, Gesù. È un atto di amore per se stessi».
«Mi stai chiedendo di diventare un bodhisattva?».
«Se ti dicessi “ama il prossimo tuo come te stesso”, ti chiederei di essere
egoista?».
Ci fu un momento di silenzio, e quando guardai il punto da cui giungeva la
voce di Gesù, lui tornò lentamente visibile. «No» rispose.
«Perché?».
«Ama il prossimo tuo come te stesso». Seguì una lunga pausa, in cui
immaginai che il mio amico stesse guardando il cielo per avere una risposta,
come spesso faceva. Poi continuò: «Perché lui è te e tu sei lui, e ciò che
merita di essere amato rappresenta il tutto». Gesù si solidificò davanti ai
nostri occhi, completamente vestito, e i suoi abiti non erano affatto sciupati.
Gaspare sorrise, e quegli anni in più che un momento prima sembrava
portare dipinti sul volto cominciarono a sbiadire. In lui c’era pace, e per un
attimo sarebbe potuto sembrare un ragazzo come noi. «Risposta corretta,
Gesù. Sei davvero un essere illuminato».
«Sarò un bodhisattva per la mia gente» disse.
«Bene, e adesso vai a tosare lo yak».
Lasciai cadere la mia palla di riso. «Che cosa?».
«Quanto a te, trova numero Tre e comincia i tuoi esercizi con i pali».
«Lascia che pensi io allo yak. L’ho già fatto».
Gesù mi mise una mano sulla spalla. «Me la caverò».
«E con la nuova luna, dopo l’elemosina, vi unirete entrambi al gruppo che
andrà sulle montagne per una meditazione speciale. Il vostro addestramento
comincia questa sera. Non avrete cibo per due giorni, e dovrete portarmi le
vostre coperte prima del tramonto».
«Ma io sono già stato illuminato» protestò Gesù.
«Bene. Vai a tosare lo yak» ripetè il maestro.

Probabilmente non mi sarei dovuto mostrare sorpreso quando l’indomani
Gesù si presentò nella sala da pranzo comune con una balla di lana di yak e
senza il minimo graffio. Gli altri monaci non furono affatto sorpresi. In effetti,
sollevarono a malapena il capo dal riso e dal tè. (Negli anni che trascorsi al
monastero di Gaspare, trovai incredibilmente difficile riuscire a sorprendere
un monaco buddhista, soprattutto se era stato addestrato nel kung fu. Erano
così attenti e all’erta che dovevi renderti davvero invisibile e non dovevi fare
il minimo rumore per sorprenderli alle spalle; e, anche quando semplicemente
saltavi fuori e urlavi “buh”, non riuscivi a scuotere il loro chakra. Per avere
una vera reazione dovevi atterrarne uno con un bastone da combattimento, ma
se lo sentiva fischiare nell’aria c’erano buone probabilità che lo afferrasse, te
lo strappasse di mano e lo usasse per ridurti in poltiglia. Quindi no, per loro
non fu una sorpresa quando Gesù, incolume, consegnò la lana.)
«Come hai fatto?» gli chiesi. Era quello che volevo sapere.
«Le ho spiegato quello che stavo facendo. E lei è rimasta perfettamente
immobile».
«E basta?».
«Sì. Non aveva paura, e così non ha opposto resistenza. La paura sorge
quando si cerca di prevedere il futuro, Biff. Se sai che cosa sta arrivando, i
timori spariscono».
«Non è vero. Io sapevo che cosa stava per succedere - e cioè che tu saresti
stato calpestato dallo yak e che io non sono bravo come te a guarire la gente -
eppure avevo paura».
«Oh, allora mi sbaglio. Scusa. Probabilmente non le piaci, tutto qui».
«Questa è una spiegazione plausibile» dissi, soddisfatto. Gesù sedeva sul
pavimento di fronte a me. Anche lui non poteva mangiare nulla, ma il tè ci era
permesso. «Hai fame?».
«Sì, e tu?».
«Sto morendo. Come hai dormito la notte scorsa? Senza coperta, voglio
dire».
«Faceva freddo, ma grazie all’addestramento sono riuscito a prendere
sonno».
«Io ci ho provato, ma ho continuato a tremare. E non è ancora arrivato
l’inverno, Gesù. Quando comincerà a nevicare moriremo congelati, senza
coperta. Io odio il freddo».
«Tu devi essere il freddo».
«Ti preferivo quando non eri illuminato».

A questo punto Gaspare cominciò a dirigere personalmente il nostro
addestramento. Stava lì ogni secondo quando saltavamo di palo in palo, e ci
faceva esercitare senza pietà nei complessi movimenti di mani e piedi che
facevano parte del programma di esercizi del kung fu (avevo la strana
sensazione di averli già visti prima, e poi mi ricordai di Gioia e delle sue
complicate danze nella fortezza di Baldassarre. Era stato Gaspare ad
addestrare Baldassarre, o viceversa?). Mentre eravamo seduti in meditazione,
a volte anche per tutta la notte, stava alle nostre spalle con il suo bastone di
bambù, e di tanto in tanto ci colpiva sulla schiena o sul capo senza alcun
motivo apparente.
«Perché continua a comportarsi così? Io non ho fatto niente» mi lamentai
con Gesù davanti al nostro tè.
«Di certo non ti colpisce per punirti, ma per farti stare nel momento».
«Be’, adesso ci sono, e al momento vorrei picchiarlo fino a farlo cacare
sotto».
«Non dici sul serio».
«Oh, e perché? Dovrei desiderare essere la merda che caca quando lo
picchio?».
«Sì, Biff» rispose cupo. «Tu devi essere la merda». Ma non riuscì a restare
serio e cominciò a ridacchiare mentre sorseggiava il suo tè, che alla fine gli
uscì dalle narici mentre collassava in preda a un attacco di risa. Tutti gli altri
monaci, che evidentemente ci stavano ascoltando, cominciarono a ridere. E un
paio si rotolarono sul pavimento tenendosi i fianchi.
È difficilissimo rimanere arrabbiati, quando una stanza piena di uomini
pelati vestiti di arancione comincia a ridacchiare. Buddhismo.

Gaspare ci fece attendere due mesi prima di portarci allo speciale
pellegrinaggio meditativo, quindi era già pieno inverno quando compimmo
quella spedizione fondamentale. Cadde così tanta neve sulla montagna che
ogni mattina dovevamo letteralmente scavare una galleria per recarci nel
cortile delle esercitazioni. Come prima cosa, Gesù e io dovevamo spalare
l’intero spiazzo, quindi ogni tanto cominciavamo l’addestramento solo dopo
mezzogiorno. Altre volte il vento soffiava con tanta violenza che non
riuscivamo a vedere a un palmo dal naso, e Gaspare inventava per noi degli
esercizi che potevano essere svolti all’interno.
Gesù e io non riavemmo le nostre coperte, e così passai ogni notte
tremando fino ad addormentarmi. Nonostante le alte finestre fossero chiuse da
imposte, e nonostante ci fossero dei bracieri accesi in tutte le stanze occupate,
durante l’inverno non ci avvicinavamo neanche lontanamente a una situazione
confortevole. Con mio grande sollievo, notai che gli altri monaci non erano
insensibili al freddo, e che la posizione assunta a colazione consisteva
nell’avvolgersi completamente intorno alla tazza fumante di tè, in maniera
che non andasse disperso nemmeno un briciolo di calore. Una persona che
fosse entrata nella sala da pranzo e ci avesse visti tutti appallottolati nelle
nostre vesti arancioni, avrebbe potuto pensare di essere capitato in un orto
fumante pieno di zucche gigantesche. Almeno gli altri - Gesù incluso -
sembravano trovare un po’ di conforto durante le sedute di meditazione,
avendo raggiunto la condizione in cui potevano davvero generare il proprio
calore. Io stavo ancora imparando la disciplina. A volte pensavo di
arrampicarmi fino alla parte posteriore del tempio, dove la caverna si
stringeva e centinaia di pipistrelli pelosi svernavano sul soffitto in una grande
massa brulicante di pelo e nervi. Sì, forse c’era un odore schifoso, ma almeno
faceva caldo.
Quando arrivò finalmente il giorno della partenza, non ero più vicino a
generare il mio calore di quanto lo fossi stato all’inizio, così fui molto
sollevato quando Gaspare condusse cinque di noi a un armadietto da cui tirò
fuori dei gambali di lana di yak e un paio di stivali per ciascuno. «La vita è
sofferenza» disse quando passò i gambali a Gesù «ma conviene affrontarla
con le gambe intatte». Partimmo appena dopo l’alba di una mattina cristallina,
dopo una notte di vento che aveva spazzato via gran parte della neve alla base
della montagna. Gaspare ci guidò fino al villaggio. Qualche volta
camminavamo con la neve che ci arrivava alla vita, ogni tanto saltavamo sulle
pietre in superficie - e in quei momenti l’addestramento sui pali diventava
molto più pratico di quanto avessi ritenuto possibile. Sulla montagna, se
scivolavi da un sasso potevi precipitare in un burrone pieno di neve polverosa,
soffocando sotto il manto bianco profondo anche quindici metri.
Gli abitanti del villaggio ci accolsero con grandi festeggiamenti: uscirono
dalle loro case di pietra e fango per riempire le nostre scodelle di riso e tuberi,
suonarono delle campanelle d’ottone e soffiarono nel corno di yak in nostro
onore, prima di tornare ai loro focolari sbattendoci la porta in faccia per
ripararsi dal freddo. Fu una festa, sì, ma di breve durata. Gaspare ci condusse
a casa della vecchia sdentata che io e Gesù avevamo conosciuto tanto tempo
prima, e ci accomodammo per dormire tutti sulla paglia del suo piccolo
granaio tra le capre e un paio di yak. (I suoi erano molto più piccoli della
femmina che c’era al monastero, avevano le dimensioni del comune bestiame.
In seguito scoprii che la nostra discendeva dagli esemplari selvatici che
vivevano sugli altipiani in quota, mentre i suoi appartenevano a un ceppo
addomesticato da un millennio.)
Dopo che gli altri si furono addormentati, m’intrufolai in casa della
vecchia in cerca di cibo. Era una casetta di pietra con due stanze. Quella
anteriore era illuminata debolmente da un’unica finestra, chiusa da una pelle
tesa sul telaio, che lasciava passare il fioco bagliore giallo della luna.
Riuscivo a vedere solo delle sagome, non distinguevo oggetti reali, ma mi
mossi affidandomi al tatto fino a quando non posai la mano su quello che
doveva essere un sacchetto di rape. Ne tirai fuori una, tutta bitorzoluta,
eliminai la terra in superficie con il palmo della mano e poi vi affondai i denti
e staccai un morso di quella delizia croccante e terrena. Fino a quel giorno le
rape non mi erano mai piaciute particolarmente, ma avevo appena deciso che
sarei rimasto seduto lì finché non avessi trasferito l’intero contenuto del
sacchetto nel mio stomaco, quando sentii un rumore nella stanza sul retro.
Smisi di masticare e ascoltai. D’un tratto vidi una persona ferma sulla
porta tra le due stanze. Presi fiato e lo trattenni. Poi udii la voce della vecchia,
che parlava cinese con il suo accento peculiare: «Togliere la vita a un essere
umano o simile. Prendere una cosa che non ti è stata donata. Affermare di
possedere poteri sovrumani».
Per quanto lento di comprendonio, capii che stava elencando le norme che,
se infrante, potevano portare all’espulsione dal monastero. Quando si spostò
alla luce fioca che entrava dalla finestra, aggiunse: «Avere rapporti sessuali
con qualunque creatura, animali inclusi». E in quel secondo mi resi conto che
era completamente nuda. Un pezzetto di rapa masticata mi scappò fuori dalla
bocca, cadendomi sul davanti della veste. La vecchia, ora vicina, allungò una
mano per pulirmi - o così pensai… invece, afferrò quello che c’era sotto la
tunica.
«Tu sei dotato di poteri sovrumani?» mi chiese, aggrappandosi alla mia
virilità, che con mio grande stupore annuì.
Chiariamo un punto: erano passati due anni da quando avevamo lasciato la
fortezza di Baldassarre, due anni e mezzo da quando il demone aveva ucciso
tutte le ragazze tranne Gioia, limitando così la mia regolare fornitura di
amanti. Dichiaro pubblicamente che fino a quel momento ero stato risoluto
nell’aderire alle regole del monastero, concedendomi solo le emissioni
notturne durante i sogni (anche se ero diventato piuttosto bravo a indirizzare
la mia attività onirica in quella direzione, e in tal senso tutta quella
meditazione e la rigida disciplina mentale non erano state completamente
inutili). Detto ciò, le mie resistenze nei confronti di quella vecchia erano
deboli… e, coriacea e sdentata com’era, mi costrinse con le minacce e
l’intimidazione a condividere con lei quella che i cinesi chiamano la Danza
Proibita della Scimmia. Per ben cinque volte.
Immaginate la mia mortificazione quando l’uomo che avrebbe salvato il
mondo mi trovò il mattino dopo con un ammasso contorto di vecchia carne
cinese attaccato oralmente alla mia carnosa pagoda di gioia estensibile,
mentre russavo immerso nell’oblio trascendentale della digestione delle rape.
«Ahhhhhhhhhhh!» esclamò Gesù, girandosi verso il muro e gettandosi la
veste sopra la testa.
«Ahhhhhhhhhhh!» feci io, destato dall’esclamazione disgustata del mio
amico.
«Ahhhhhhhhhhh!» fece la vecchia, almeno credo (la sua lingua era
abbondantemente impegnata, se tocca a me dirlo).
«Cribbio, Biff» balbettò Gesù. «Non puoi… voglio dire… la lussuria è…
cribbio, Biff!».
«Cosa?» chiesi, come se non sapessi a che si riferiva.
«Mi hai rovinato il sesso per il resto della mia vita. Ogni volta che ci
penserò, mi verrà in mente quest’immagine».
«Ah» dissi, spingendo via la donna e spedendola nella stanza sul retro.
«Quindi…». Gesù si voltò e mi guardò negli occhi, e il sorriso che si
dipinse sul suo volto era così ampio da mettere in pericolo l’integrità delle sue
orecchie. «Quindi grazie».
Mi alzai e feci un inchino. «Per servirti» dissi, restituendo il sorriso.
«Gaspare mi ha mandato a cercarti. È pronto per partire».
«Okay. Sarebbe meglio… se io le dicessi addio». Indicai la stanza sul
retro.
Gesù scrollò le spalle. «Senza offesa» disse alla vecchia, che da lì non si
vedeva. «Sono solo rimasto un po’ sorpreso».
«Ti va una rapa?» gli chiesi, porgendogliene una.
Lui si girò e andò verso la porta. «Cribbio, Biff» disse mentre usciva.

19

Un’altra giornata trascorsa a girovagare per la città insieme all’angelo. Ho
sognato ancora la donna ai piedi del mio letto: e alla fine, dopo tutti questi
anni, ho capito come doveva sentirsi Gesù (almeno in certe situazioni) in
quanto unico nel suo genere. Lo so che continuava a ripetere che era il figlio
dell’uomo, che era nato da una donna ed era uno di noi: ma era il ramo
paterno della sua famiglia a renderlo diverso. Ora, poiché sono abbastanza
sicuro di essere l’unica persona sulla terra che era già qui duemila anni fa,
credo di avere un’acuta percezione di cosa significhi essere unico: l’unico e il
solo. Provi un senso di solitudine. Per questo Gesù andava così spesso su
quelle montagne e rimaneva tanto a lungo in compagnia del creato.
Ieri notte ho sognato che l’angelo parlava con qualcuno nella nostra
camera, mentre dormivo. Nel sogno gli ho sentito dire: «Forse sarebbe meglio
ucciderlo, quando ha finito. Possiamo spezzargli il collo e gettarlo in un
tombino». La cosa strana, però, è che non c’era traccia di malignità nella sua
voce. Al contrario, aveva un tono compassionevole. Per questo sono certo che
si sia trattato di un sogno.

Non avrei mai pensato di poter essere felice di tornare al monastero, ma
dopo aver camminato faticosamente nella neve per mezza giornata, le umide
pareti di pietra e i corridoi bui mi parvero accoglienti come un focolare
acceso. Facemmo subito bollire una metà del riso ricevuto dagli abitanti del
villaggio, che mettemmo in cilindri di bambù larghi quanto una mano e lunghi
come una gamba umana; mettemmo da parte metà dei tuberi, mentre gli altri
finirono nelle nostre borse insieme a un po’ di sale e ad altri cilindri di bambù
pieni di tè freddo. Gaspare ci diede appena il tempo di scaldarci le membra ai
fuochi della cucina, e poi ci ordinò di prendere i cilindri e le borse e ci
condusse sulle montagne. Quando gli altri monaci partivano per il
pellegrinaggio, non avevo mai notato che portassero via tanto cibo. E,
considerato che era molto più di quello che avremmo potuto mangiare in
quattro o cinque giorni, mi domandai perché mai io e Gesù avessimo dovuto
digiunare per prepararci al viaggio.

All’inizio, il cammino sui pendii più elevati fu meno difficoltoso, dal
momento che la neve era stata spazzata via dal sentiero.
Salendo, l’aria si fece così rarefatta che persino i monaci più acclimatati
dovevano fermarsi di frequente per prendere fiato. Al tempo stesso, il vento
soffiava con tanta forza attraverso le nostre vesti e i gambali che sembrava
quasi di non averli. Non c’era abbastanza aria per respirare, eppure il vento ci
gelava le ossa; ma in quel momento avevo qualche difficoltà ad apprezzare
l’ironia della situazione.
«Perché non vai semplicemente dai rabbini e non impari a fare il Messia
come tutti gli altri? Ricordi di aver mai trovato la neve nella storia di Mosè?
No. Forse il Signore gli è apparso sotto le sembianze di un cumulo
ghiacciato? Non credo. Ed Elia ascese al cielo su un carro di ghiaccio? Zero.
E Daniele uscì indenne da una tempesta di neve? No. La storia del nostro
popolo è una storia di fuoco, Gesù, non di ghiaccio. Non ricordo di aver mai
letto la parola “neve” nella Torah. Probabilmente Dio nemmeno va nei posti
dove nevica. Abbiamo commesso un errore tremendo, non saremmo mai
dovuti venire qui. Dovremmo tornare a casa non appena avremo finito il
pellegrinaggio. E, per finire, non mi sento più i piedi». Ero senza fiato, avevo
l’affanno.
«Daniele non uscì indenne dalle fiamme» rispose con calma.
«Chi può biasimarlo? Probabilmente là dentro faceva caldo».
«Uscì indenne dalla tana di un leone».
«Qui» disse Gaspare, ponendo fine a qualunque discussione. Posò i suoi
pacchi e si sedette.
«Dove?» chiesi. Eravamo sotto a una bassa sporgenza, al riparo dal vento e
in gran parte dalla neve, ma lo si poteva a stento considerare un rifugio.
Anche gli altri monaci - incluso Gesù - si tolsero i bagagli dalle spalle e si
sedettero, assumendo la posa da meditazione e tenendo le mani nel mudra
della compassione che dona ogni cosa (che, stranamente, è lo stesso gesto che
fa la gente moderna per dire “okay”. Viene da pensare, no?).
«Non può essere qui. Non c’è un qui, qui» dissi.
«Esatto» rispose Gaspare. «Medita su quello che hai detto».
E così mi sedetti.

Gesù e gli altri sembravano insensibili al freddo, e mentre mi si gelavano
le ciglia e i vestiti, la leggera polvere di cristalli di ghiaccio che copriva il
terreno e le rocce intorno a ciascuno di loro cominciò a sciogliersi, come se
avessero una fiamma che bruciava internamente. Ogni volta che il vento
cessava, vedevo il vapore levarsi da Gaspare, mentre la sua veste rilasciava
l’umidità nell’aria gelida. Quando io e Gesù avevamo imparato a meditare, ci
avevano insegnato a essere iperconsapevoli di tutto quanto ci circondava,
rimanendo concentrati, ma adesso i miei compagni monaci erano in uno stato
di trance, di separazione, di esclusione. Ognuno di loro si era costruito una
sorta di rifugio mentale in cui sedeva felicemente, mentre io stavo
letteralmente morendo congelato.
«Gesù, mi serve un piccolo aiuto» dissi, ma il mio amico non mosse un
muscolo. Non fosse stato per il flusso costante del suo fiato, avrei pensato che
si fosse congelato anche lui. Gli diedi un colpetto sulla spalla, ma non
ricevetti risposta. Cercai di attirare l’attenzione degli altri quattro monaci, ma
nemmeno loro reagirono alle mie sollecitazioni. Diedi addirittura una spinta a
Gaspare per farlo piegare su un fianco, ma conservò la posizione come una
statua del Buddha caduta dal suo piedistallo. Pure, mentre toccavo i miei
compagni sentivo il calore che si levava dal loro corpo. Poiché era ovvio che
non avrei raggiunto lo stato di trance in tempo per salvarmi la vita, la mia
unica alternativa era approfittare del loro.
All’inizio sistemai i monaci in un grosso mucchio, cercando di tenere
gomiti e ginocchia lontani da occhi e testicoli, in segno di rispetto e per via
dello spirito del Buddha infinitamente compassionevole e roba simile.
Sebbene emanassero un calore impressionante, scoprii che potevo scaldare
solo un lato del mio corpo per volta. Poco dopo, disponendo i miei amici in
circolo con il viso rivolto verso l’esterno e sedendomi nel mezzo, riuscii a
costruirmi un posticino confortevole e a tenere a bada il freddo. In una
condizione ideale, avrei avuto bisogno di altri due monaci da stendere sopra il
mio rifugio per tener fuori il vento ma, come diceva il Buddha, la vita è
sofferenza eccetera eccetera, e così soffrii. Dopo aver scaldato un po’ di tè
sulla testa del monaco numero Sette, e dopo aver infilato uno dei cilindri di
riso sotto il braccio di Gaspare fino a quando non si fu scongelato, riuscii a
godermi un pasto piacevole e mi addormentai con la pancia piena.
Mi svegliai sentendo quello che sembrava il rumore dell’intero esercito
romano che cercava di succhiare tutte le acciughe dal Mediterraneo. Quando
aprii gli occhi vidi la fonte di quel fracasso, e per la foga di indietreggiare per
poco non caddi. Una creatura enorme e pelosa, alta una volta e mezza un
uomo, stava cercando di bere il tè da uno dei cilindri di bambù, ma era
diventato una poltiglia congelata, ed ebbi l’impressione che quella cosa si
sarebbe risucchiata la testa se avesse continuato ad aspirare. Sì, somigliava a
un uomo, a parte il fatto che il suo corpo era interamente coperto da una lunga
pelliccia bianca. Aveva gli occhi grandi come quelli di una mucca, con le iridi
blu e cristallini e pupille ridotti a due puntini. Quando ammiccava, le folte
ciglia nere si univano. Aveva unghie lunghe e nere, simili a quelle umane ma
grandi due volte tanto, e indossava solo un paio di stivali che sembravano fatti
di pelle di yak. L’attrezzatura impressionante che gli penzolava tra le gambe
mi fece intuire che era un maschio.
Diedi un’occhiata al cerchio di monaci per vedere se qualcuno si fosse
accorto che le nostre provviste venivano razziate da una bestia lanuginosa, ma
erano tutti profondamente in trance. La creatura tentò di prendere un altro
sorso dal cilindro, e batté su un lato con la mano quasi volesse smuoverne il
contenuto. Poi mi guardò per chiedermi aiuto. Qualunque timore avessi, si
sciolse nell’istante in cui lo guardai negli occhi: non c’era un briciolo di
aggressività, non erano violenti né minacciosi. Presi il cilindro con il tè che
avevo scaldato sulla testa di numero Sette. Sentii il liquido scorrere
all’interno, e mi accorsi che non si era congelato durante il mio sonnellino.
Così glielo porsi. Lui allungò una mano sopra la testa di Gesù e lo afferrò,
tolse il tappo di sughero e bevve avidamente.
Colsi l’opportunità per dare un calcio in un rene al mio amico. «Gesù, esci
dalla trance. Questo dovresti proprio vederlo». Non ebbi risposta, così
allungai un braccio e gli chiusi le narici. Per controllare la meditazione, lo
studente deve innanzitutto controllare il respiro. Il salvatore sbuffò e uscì
dalla trance, ansimando e contorcendosi. Mi stava guardando quando
finalmente lasciai la presa.
«Che c’è?» chiese.
Gli indicai un punto alle sue spalle, si voltò e vide quel grosso essere
bianco e peloso in tutta la sua gloria. “Per la barba del profeta!”.
Colosso Peloso fece un salto all’indietro e cullò il suo tè come un bimbo
che si sente minacciato, emettendo un vocalizzo che a stento poteva essere
classificato come linguaggio (ma che probabilmente poteva essere tradotto
con “Per la barba del profeta!”).
Fu piacevole vedere il magistrale controllo di Gesù che veniva meno,
rivelando un vulnerabile ventre molle di confusione. «Cosa… voglio dire,
chi… che cos’è quello?».
«Certamente non è un ebreo» risposi servizievole, indicandogli un metro di
prepuzio.
«Be’, questo lo vedo anch’io, ma così non ne sappiamo molto di più, no?».
Stranamente, sembravo godermi la situazione più dei miei due compagni,
semiterrorizzati. «Be’, ricordi quando Gaspare ci ha dato le regole del
monastero e noi ci siamo domandati che cosa significasse il divieto di
uccidere esseri umani e simili?». «Sì?».
«Be’, lui fa parte dei simili, credo».
«Okay». Gesù si alzò in piedi e guardò Colosso Peloso. Questi si raddrizzò
e lo fissò, chinando il capo da destra a sinistra.
Il mio amico gli sorrise.
Lui ricambiò. Le labbra nere si aprirono a rivelare canini lunghi e aguzzi.
«Che dentoni» osservai. «Davvero grandi».
Gesù gli tese la mano. Lui allungò una zampa gigantesca e l’afferrò con
estrema delicatezza… poi lo tirò su da terra, stringendolo in un abbraccio così
energico da fargli strabuzzare gli occhi beati.
«Aiuto» strillò.
La creatura gli leccò la testa con la lunga lingua blu.
«Gli piaci».
«Mi sta assaggiando».
Pensai al coraggio con cui il mio amico aveva dato uno strattone alla coda
di Preda, alla calma con cui aveva affrontato da solo tanti pericoli. Pensai a
tutte le volte che mi aveva salvato, sia dai pericoli esterni che da me stesso, e
alla gentilezza nei suoi occhi, più profonda del mare.
«No» dissi «gli piaci e basta». Mi venne in mente di tentare con un’altra
lingua, per vedere se la creatura avesse meno difficoltà a comprendere le mie
parole. «Gesù ti piace, non è vero? Sì, ti piace. Ti piace. Lo sta dimenando,
Gesù. Sì, gli piaci». Il linguaggio dei neonati è universale. Le parole sono
diverse, ma suoni e significati non cambiano.
La creatura strofinò il naso sotto il mento del mio amico e poi gli leccò di
nuovo la testa, lasciandogli una scia fumante di saliva color tè verde. «Che
schifo. Che cos’è questa cosa?».
«È uno yeti» rispose Gaspare alle mie spalle, evidentemente destato dalla
sua trance. «L’abominevole uomo delle nevi».
«Questo è quanto succede se si fotte con una pecora!?» esclamai.
«Non ha detto abominio» mi corresse Gesù. «Ma abominevole». Lo yeti
gli leccò una guancia, e lui cercò di respingerlo. Poi chiese a Gaspare: «Sono
in pericolo?».
Lui scrollò le spalle. «Un cane ha forse la natura del Buddha?».
«Ti prego, Gaspare. Qui si tratta di applicazioni pratiche, non di crescita
spirituale». Lo yeti sospirò e gli leccò di nuovo la guancia. Doveva avere la
lingua ruvida come quella di un gatto, dal momento che la pelle del mio
amico era rosa per le escoriazioni.
«Porgi l’altra guancia, Gesù» gli dissi. «Lasciagli leccare anche l’altra».
«Me ne ricorderò. Gaspare, mi farà del male?».
«Non lo so. Nessuno gli era mai stato tanto vicino. Di solito arriva quando
siamo in trance e scompare con il cibo. Siamo fortunati se riusciamo a
intravederlo».
«Mettimi giù, per favore» disse alla creatura. «Ti prego, mettimi giù».
Lo yeti lo posò a terra. Ormai gli altri monaci si stavano svegliando.
Numero Diciassette strillò come uno scoiattolo finito in padella quando vide
la creatura così vicina a noi. E Colosso Peloso si accovacciò e mostrò i denti.
«Finiscila!» gridò Gesù a Diciassette. «Lo stai spaventando».
«Dagli del riso».
Presi il cilindro che avevo scaldato e glielo passai. Lui tolse il tappo e
cominciò a prendere il riso con un lungo dito, leccando i chicchi quasi fossero
termiti pronte a fuggire. Nel frattempo Gesù si allontanò da lui, camminando
all’indietro, e andò a mettersi accanto a Gaspare.
«Per questo venite qui? Per questo dopo aver chiesto l’elemosina portate
tutto questo cibo in cima alla montagna?».
Gaspare annuì. «È l’ultimo della sua specie. Non ha nessuno che lo aiuti a
procurarsi da mangiare. E nessuno con cui parlare».
«Ma che cos’è? Che cos’è uno yeti?».
«A noi piace considerarlo un dono. È la visione di una delle molte vite
attraverso cui può passare un uomo prima di raggiungere il nirvana. E noi
riteniamo che sia quanto di più vicino alla perfezione ci possa essere, in
questa vita».
«Come fate a sapere che è l’unico?».
«È stato lui a dirmelo».
«Vuoi dire che parla?».
«No, canta. Aspetta».
Mentre lo guardavamo mangiare, tutti i monaci vennero avanti e gli misero
di fronte i propri cilindri con il cibo e il tè. Lo yeti sollevava lo sguardo solo
di tanto in tanto, come se il suo intero universo fosse contenuto in quel tubo di
bambù pieno di riso. Pure, capivo perfettamente che dietro quegli occhi blu
ghiaccio stava contando, immaginando e razionando le scorte che gli
avevamo portato.
«Dove vive?» chiesi a Gaspare.
«Non lo sappiamo. In una caverna da qualche parte, suppongo. Non ci ha
mai condotti alla sua tana, e noi non la cerchiamo».
Una volta deposto tutto il cibo davanti alla creatura, il saggio fece un
cenno agli altri monaci, che cominciarono a uscire da sotto la sporgenza
camminando all’indietro, nella neve, inchinandosi allo yeti. «È ora di andare.
Non vuole la nostra compagnia».
Gesù e io li seguimmo lungo un sentiero che stavano tracciando nella
direzione da cui eravamo venuti. Lo yeti ci guardò andare via, e ogni volta
che mi voltai vidi il suo sguardo sempre fisso su di noi, fino a quando non
divenne soltanto un profilo sullo sfondo bianco della montagna. Quando
finalmente lasciammo la vallata e la sporgenza di roccia scomparve dalla
nostra vista, udimmo il suo canto. Nulla mi era mai entrato dentro come
quella melodia - nemmeno il corno d’ariete a casa, né le urla di guerra dei
banditi e i canti dei dolenti. Era un lamento acuto, ma con pause e cadenze
che ricordavano il battito smorzato di un cuore, e pervadeva l’intera vallata.
Lo yeti riusciva a tenere le note più a lungo di qualunque essere umano. Ebbi
la sensazione che qualcuno mi stesse versando nella gola il contenuto di un
enorme barile di tristezza, e pensai che alla fine sarei crollato o esploso per il
dolore. Era il suono di mille bambini affamati che piangevano, di diecimila
vedove che si strappavano i capelli sulle tombe dei mariti, un coro di angeli
che intonava l’ultimo lamento nel giorno della morte di Dio. Mi tappai le
orecchie e caddi sulle ginocchia, nella neve. Guardai Gesù e vidi che gli
scendevano le lacrime lungo le guance. Gli altri monaci avevano le spalle
incurvate, come se si stessero riparando da una grandinata. Gaspare si fece
piccolo piccolo, mentre ci guardava, e in quel momento mi accorsi che era
davvero vecchio. Non quanto Baldassarre, forse, ma era l’immagine della
sofferenza.
«Dunque l’avete visto anche voi» disse Gaspare. «È l’unico del suo
genere. Ed è solo».
Non occorreva comprendere il linguaggio dello yeti, ammesso che ne
avesse uno, per capire che Gaspare aveva ragione.
«No, invece» disse Gesù. «Io vado da lui».
Gaspare lo prese per un braccio, per fermarlo. «Ogni cosa è come
dovrebbe essere».
«No» ribatté il mio amico. «Non è così».
Gaspare ritirò la mano quasi l’avesse gettata nelle fiamme - una strana
reazione, dal momento che l’avevo visto mettere la mano nel fuoco restando
quasi impassibile, durante l’addestramento del kung fu.
«Lascialo fare» gli dissi, senza capire del tutto perché lo stessi facendo.
Gesù tornò nella valle per conto suo, senza dirci un’altra parola.
«Tornerà quando sarà il momento» aggiunsi.
«E tu che ne sai?» chiese secco Gaspare, con un tono molto poco
illuminato. «Dovrai liberare il tuo karma per un migliaio di anni sotto forma
di stercorario, solo per evolverti fino alla stupidità».
Non dissi nulla. Mi limitai a fare un inchino, quindi mi voltai e seguii i
miei fratelli monaci verso il monastero.

Gesù tornò solo dopo una settimana, e dovette passare un altro giorno
prima che trovassimo il tempo di parlare. Eravamo nella sala da pranzo, e lui
aveva mangiato il suo riso e il mio. Nel frattempo, avevo pensato molto alla
condizione dell’abominevole uomo delle nevi e, cosa più importante, alle sue
origini.
«Credi che fossero in molti?» chiesi al mio amico.
«Sì. Non tanti quanti sono gli uomini, ma di sicuro erano in molti».
«E che cosa gli è successo?».
«Non saprei dirlo con certezza. Quando lo yeti canta, nella mia mente vedo
delle immagini. Ho visto degli uomini salire su queste montagne per uccidere
gli abominevoli uomini delle nevi: loro non avevano l’istinto di combattere.
La maggior parte di queste creature restò al proprio posto a osservare la
carneficina. Erano confusi dalla malvagità umana. Altri si arrampicarono sulle
montagne, sempre più in alto. Credo che questo yeti avesse una compagna e
una famiglia. Devono essere morti di fame, o a causa di qualche lunga
malattia. Non saprei dirtelo con sicurezza».
«È un essere umano?».
«No, non credo».
«Un animale, allora?».
«No, non credo nemmeno che sia un animale. Lui sa chi è. E sa di essere
l’unico della sua specie».
«Anch’io penso di sapere che cos’è».
Gesù mi guardò da sopra la scodella. «Ebbene?».
«Be’, ricordi le zampe di scimmia che vendeva quella vecchia ad
Antiochia? Somigliavano a dei piedini umani, non è vero?». «Sì».
«E devi ammettere che anche lo yeti ha molte caratteristiche umane. Molte
di più rispetto a qualunque altro essere, non ho ragione? E se fosse una
creatura che si sta evolvendo in un uomo? Se non fosse l’ultimo esemplare
della sua specie, ma il primo della nostra? È stato il discorso di Gaspare sul
karma a farmici pensare: lui dice che il karma si evolve attraverso diverse
reincarnazioni in creature differenti. Dal momento che durante ogni vita
impariamo qualcosa di più, in quella successiva possiamo passare a un livello
superiore. Be’, forse non accade solo all’uomo. Forse, quando si trova a
vivere in zone più calde, lo yeti perde il pelo. Non accade tutto in una volta,
ma attraverso una serie di reincarnazioni. Forse le creature si evolvono come -
secondo Gaspare - si evolve l’anima. Che ne pensi?».
Si accarezzò il mento per un attimo, fissandomi come se fosse immerso nei
propri pensieri, mentre pensavo che sarebbe scoppiato a ridere da un
momento all’altro. Ci avevo pensato una settimana intera. Questa teoria mi
aveva tormentato durante l’addestramento e durante le sedute di meditazione
da quando eravamo tornati dal pellegrinaggio nella valle dello yeti. Volevo
perlomeno che riconoscesse i miei sforzi.
«Biff, probabilmente questa è l’idea più stupida che tu abbia mai avuto».
«Quindi non lo ritieni possibile?».
«Perché il Signore dovrebbe creare una creatura solo per vederla
estinguersi? Perché mai dovrebbe permettere una cosa del genere?».
«E che mi dici del diluvio universale? Morirono tutti, tranne Noè e la sua
famiglia».
«Ma questo accadde perché gli uomini erano diventati malvagi. Lo yeti
non è cattivo. Al contrario: se i suoi simili sono morti è perché non erano
capaci di agire malignamente».
«Quindi, tu che sei il Figlio di Dio, illuminami».
«È volontà del Signore che lo yeti si estingua».
«Per via della sua incapacità di essere malvagio?» chiesi sarcastico. «Se
non è un uomo, allora non è nemmeno un peccatore. È innocente».
Gesù annuì, con gli occhi fissi sulla scodella ora vuota. «Sì. È innocente».
Si alzò e mi fece un inchino, cosa che non faceva quasi mai a meno che non
fossimo impegnati nelle nostre esercitazioni. «Adesso sono stanco, Biff. Devo
dormire e pregare».
«Ti chiedo scusa, non volevo rattristarti. Mi è sembrata una teoria
interessante».
Mi rivolse un debole sorriso, poi chinò il capo e si trascinò nella sua cella.

Negli anni che seguirono, Gesù trascorse almeno una settimana al mese
sulle montagne con lo yeti. Non solo si univa a tutti i gruppi di ritorno
dall’elemosina al villaggio, ma spesso partiva da solo e si assentava per
giorni, e in estate anche per settimane di fila. Non parlava mai di ciò che
faceva lassù; mi disse soltanto che lo yeti l’aveva condotto nella caverna dove
viveva e gli aveva mostrato le ossa della sua gente. Il mio amico aveva
trovato qualcosa in comune con l’abominevole uomo delle nevi e, anche se
non ebbi mai il coraggio di chiederglielo, immaginai che a unirli fosse la
consapevolezza di essere entrambi unici nel loro genere. E nonostante la
connessione che ognuno di loro poteva sentire con Dio e con l’universo, in
quel momento, e in quel luogo così remoto, potevano contare solo l’uno
sull’altro: erano completamente soli.
Gaspare non gli impediva di fare i suoi pellegrinaggi, e in effetti arrivava
addirittura a fingere di non accorgersi delle assenze del monaco Ventidue.
Eppure, coglievo in lui un certo disagio ogni volta che Gesù lasciava il
monastero.
Continuammo entrambi a esercitarci sui pali e, dopo due anni trascorsi a
saltare e a mantenerci in equilibrio, alle nostre applicazioni quotidiane si
aggiunsero la danza e l’uso delle armi. Riguardo a quest’ultimo
insegnamento, Gesù oppose un netto rifiuto: in effetti, si rifiutava di praticare
qualunque arte arrecasse danno a un altro essere umano. Non mimava
neppure il combattimento con spade e lance con un bambù come sostituto.
All’inizio Gaspare andò su tutte le furie e minacciò di bandirlo dal monastero;
ma quando lo presi da parte e gli raccontai dell’arciere che Gesù aveva
accecato mentre eravamo in viaggio verso la fortezza di Baldassarre,
s’intenerì. Insieme ad altri due monaci, che in precedenza erano stati soldati,
escogitò un sistema di combattimento senza armi, che non prevedeva né
attacco né offesa e mirava a utilizzare l’energia del proprio assalitore: il judo.
Oltre al kung fu e al judo, Gaspare volle insegnarci a parlare e a scrivere in
sanscrito. La maggior parte dei libri sacri del buddhismo erano stati redatti in
quella lingua e dovevano essere ancora tradotti in cinese, una lingua che io e
Gesù ormai conoscevamo bene.
«Il sanscrito è la lingua della mia infanzia» ci disse Gaspare prima di dare
inizio alle lezioni. «Dovete conoscerla per apprendere gli insegnamenti di
Gautama Buddha. Ma ne avrete bisogno anche quando seguirete il vostro
dharma fino alla prossima destinazione».
Gesù e io ci scambiammo un’occhiata. Era passato parecchio tempo da
quando avevamo parlato di lasciare il monastero, e quell’idea ci fece
innervosire non poco. Le abitudini danno un’illusione di sicurezza e, se non
altro, lì una regola ce l’avevamo.
«Quando partiremo, maestro?» chiesi.
«Quando sarà il momento».
«E come faremo a saperlo?».
«Lo saprete quando il tempo di stare qui sarà giunto al termine».
«E lo sapremo perché finalmente darai una risposta concreta alle nostre
domande, anziché dirci che siamo ottusi e stupidi?».
«Forse il girino ancora chiuso nell’uovo conosce l’universo della rana
adulta?».
«Evidentemente no» rispose Gesù.
«Esatto» disse Gaspare. «Meditateci sopra».
Mentre entravamo nel tempio per cominciare la nostra meditazione, dissi:
«Quando verrà il momento, e quando lo capiremo, prenderò un bastone e
riempirò di bernoccoli la sua lucida testolina».
«Meditaci sopra».
«Dico sul serio. Si pentirà di avermi insegnato a combattere» dissi.
«Ne sono sicuro. Io sono già pentito».
«Sai, non dev’essere l’unico con i bernoccoli, quando verrà il momento
delle botte».
Gesù mi guardò come se l’avessi appena destato da un pisolino. «Durante
tutto il tempo che passiamo in meditazione, Biff, tu che cosa fai veramente?».
«Medito… ogni tanto. Ascolto la musica dell’universo e roba simile».
«Ma il più delle volte te ne stai semplicemente lì seduto».
«Ho imparato a dormire con gli occhi aperti».
«Questo non ti aiuterà a raggiungere l’illuminazione».
«Ascolta, al nirvana voglio arrivarci bello riposato».
«Io non mi preoccuperei così tanto, se fossi in te».
«Ehi, io ho disciplina. Con la pratica, ho imparato a provocarmi delle
emissioni notturne spontanee».
«Un bel risultato» disse sarcastico il Messia.
«Okay, continua a fare l’arrogante, se ti va. Ma quando torneremo in
Galilea, tu andrai in giro a recitare il tuo sproloquio dell’“ama il prossimo tuo
perché tu e lui siete la stessa persona”, mentre io enuncerò il mio programma
dei “sogni bagnati a comando”… Vedremo chi avrà più seguaci».
Gesù sorrise. «Credo che entrambi ce la caveremo meglio di mio cugino
Giovanni e del suo sermone “tienili sott’acqua finché non sono d’accordo con
te”».
«Non pensavo a lui da anni. Credi lo faccia ancora adesso?».
In quel momento il monaco numero Due, con aria molto severa e
nient’affatto illuminata, si alzò in piedi e attraversò il tempio. Veniva verso di
noi con il bastone di bambù in mano.
«Scusa, Gesù, io entro nello stato di non mente». Abbandonai la posizione
del loto, formai con le dita il mudra del Buddha compassionevole, e in un
attimo mi ritrovai sulla strada di chi se ne sta seduto immobile per unirsi a
tutto il resto.

Nonostante il velato avvertimento di Gaspare a proposito di una futura
partenza, io e Gesù tornammo alle nostre pratiche, che includevano lo studio
del sanscrito e le spedizioni del mio amico nella terra dello yeti. Ero diventato
così abile nelle arti marziali che riuscivo a spaccare con la testa una lastra di
pietra spessa come la mia mano, e potevo arrivare di soppiatto alle spalle del
monaco più vigile, colpirlo all’orecchio e tornare nella posizione del loto
prima che avesse il tempo di girarsi per strapparmi il cuore dal petto. (In
effetti, nessuno sapeva se ci fosse davvero qualcuno in grado di farlo. Ogni
giorno numero Tre annunciava il momento dell’esercitazione “come strappare
un cuore dal petto”, e ogni giorno chiedeva se ci fossero volontari. Dopo una
breve attesa, quando nessuno si offriva, passava all’esercizio successivo - di
solito “come mutilare un uomo con un ventaglio”. Ci chiedevamo tutti se
numero Tre potesse farlo davvero, ma nessuno voleva fare domande.
Conoscevamo il metodo d’insegnamento dei buddhisti. Un minuto prima eri
curioso, e quello dopo un tizio pelato ti metteva davanti al viso un pezzo di
carne insanguinata e pulsante, mentre ti domandavi il motivo di quella
corrente improvvisa nell’area toracica della tua veste. No, grazie, la nostra
curiosità non era così disperata.)
Nel frattempo, Gesù divenne talmente abile nell’evitare i colpi che
sembrava quasi essere tornato invisibile. Persino i combattenti migliori - di
cui il sottoscritto non faceva parte - avevano difficoltà a colpire il mio amico,
e quando ci provavano spesso finivano lunghi e distesi sul pavimento. Gesù
sembrava felicissimo durante questi esercizi, e spesso scoppiava in una
fragorosa risata quando schivava per un pelo una stoccata che l’avrebbe
privato di un occhio. Qualche volta rubava la lancia a numero Tre solo per
inchinarsi e restituirgliela con un ghigno, come se il vecchio soldato l’avesse
perduta e non se la fosse fatta rubare dall’astuto avversario. Quando Gaspare
assisteva a esibizioni simili, lasciava il cortile scuotendo il capo e borbottando
qualcosa a proposito dell’ego, mentre noialtri ci abbandonavamo ad accessi di
risate a sue spese. Persino numero Due e Tre, di solito rigidi difensori della
disciplina, riuscivano a tirare fuori qualche sorriso dai loro visi
profondamente accigliati. Gesù stava attraversando un buon momento. La
meditazione, la preghiera, l’esercizio e il tempo che trascorreva con lo yeti
sembravano averlo aiutato a disfarsi del colossale fardello che gli era stato
affidato. Per la prima volta sembrava realmente felice, pertanto fui piuttosto
stupito il giorno in cui lo vidi entrare nel cortile con le lacrime che gli
scendevano lungo le guance. Lasciai cadere la lancia con cui mi stavo
esercitando e gli corsi incontro.
«Gesù?».
«E morto».
Lo abbracciai e lui crollò sul mio petto, singhiozzando. Indossava gambali
di lana e stivali, quindi capii subito che era appena tornato da uno dei suoi
viaggi sulle montagne.
«Un pezzo di ghiaccio è caduto dal soffitto della sua caverna. L’ho trovato
a terra, schiacciato sotto quel blocco. Era completamente congelato, rigido
come pietra».
«Quindi non hai potuto…».
Mi spinse all’indietro e mi tenne per le spalle. «E andata così. Non sono
arrivato in tempo. Non solo non ho potuto salvarlo, ma non ero lì nemmeno a
confortarlo».
«Sì, invece».
Affondò le dita nella mia carne e mi scosse come se fossi isterico e volesse
catturare la mia attenzione; poi, improvvisamente mi lasciò andare e scrollò le
spalle. «Vado nel tempio a pregare».
«Tra poco ti raggiungo. Io e numero Quindici dobbiamo esercitarci in altre
tre mosse». Il mio sparring partner attendeva paziente ai margini del cortile
con la lancia in mano, e ci guardava.
Gesù era quasi arrivato alle porte, quando si voltò. «Conosci la differenza
tra preghiera e meditazione, Biff?».
Scossi il capo.
«Pregare significa parlare con Dio. Meditare significa ascoltare. Io ho
trascorso buona parte di questi ultimi sei anni ad ascoltare. E sai che cos’ho
sentito?».
Di nuovo, non dissi nulla.
«Niente. E adesso ci sono alcune cose che vorrei dire».
«Mi dispiace per il tuo amico».
«Lo so». Si girò e si avviò all’interno.
«Gesù» lo chiamai. Si girò per osservarmi.
«Non lascerò che ti accada, lo sai, vero?».
«Lo so» disse, e poi entrò per fare un divino cazziatone al padre.

Il mattino dopo Gaspare ci chiamò nella stanza del tè. Sembrava non
dormire da giorni e, qualunque fosse la sua vera età, nei suoi occhi c’era un
secolo di tormenti.
«Sedete» disse, e noi obbedimmo. «Il vecchio della montagna è morto».
«Chi?».
«Quello che chiamavo lo yeti. È passato alla sua prossima vita e per voi è
venuto il momento di andare».
Gesù non disse nulla, ma rimase seduto con le mani giunte in grembo e gli
occhi fissi sul tavolo.
«Come sono collegate le due cose?» chiesi. «Lo yeti è morto e noi
dovremmo andarcene: perché? Abbiamo saputo della sua esistenza solo due
anni dopo il nostro arrivo qui».
«Ma io sapevo» fece Gaspare.
Mi sentii avvampare in volto… quasi certamente testa e orecchie mi si
tinsero di rosso, perché il vecchio si fece beffe di me. «Per te non c’è più
niente, qui. Non c’è mai stato niente, fin dall’inizio. Non ti avrei neppure
permesso di restare, se non fossi stato amico di Gesù». Era la prima volta che
usava uno dei nostri nomi, da che eravamo arrivati al monastero. «Numero
Quattro vi aspetta al portone. Vi restituirà le cose con cui siete arrivati, e vi
darà un po’ di cibo per il viaggio».
«Ma non possiamo tornare a casa» obiettò Gesù. «Io non ho ancora
imparato abbastanza».
«No» disse Gaspare «posso immaginarlo. Ma sai tutto quello che potevi
imparare qui. Se arrivi davanti a un fiume e trovi una barca sulla sponda, ti
sarà molto utile per attraversarlo. Ma una volta giunto dall’altra parte, te la
carichi sulle spalle e la porti con te fino alla fine del tuo viaggio?».
«Quanto è grande la barca?» domandai.
«E di che colore è?» chiese Gesù.
«Quanto manca alla fine del viaggio?» feci, ancora.
«E i remi li porta Biff o devo fare tutto io?».
«No!» gridò Gaspare. «No, la barca non la porti con te. Ti è stata utile, ma
da questo punto in poi rappresenterebbe solo un fardello. È una parabola,
razza di cretini!».
Gesù e io chinammo il capo davanti alla sua collera. Mentre Gaspare
imprecava, il mio amico sorrise e mi strizzò l’occhio. E in quel momento
capii che sarebbe stato bene.
Gaspare concluse la propria invettiva, poi prese fiato e assunse di nuovo il
tono del monaco tollerante a cui eravamo abituati. «Come stavo dicendo,
Gesù, qui non hai più niente da imparare. Vai, sii un bodhisattva per la tua
gente. E tu, Biff, cerca di non uccidere nessuno con quello che ti abbiamo
insegnato».
«Quindi adesso avremo la nostra barca?» chiese Gesù.
Gaspare sembrò sul punto di esplodere, poi il mio amico sollevò una mano
e il vecchio non disse nulla.
«Ti ringraziamo per il tempo che abbiamo trascorso qui. I tuoi monaci
sono uomini nobili e degni d’onore, e da loro abbiamo imparato molto. Ma tu,
onorevole Gaspare, sei un simulatore. Hai appreso qualche trucco fisico e sai
raggiungere uno stato di trance, ma non sei un essere illuminato, anche se
credo tu abbia intravisto l’illuminazione. Cerchi le tue risposte ovunque,
tranne nel posto in cui le troveresti. Nondimeno, il tuo sotterfugio non ti ha
impedito di istruirci. Ti rendiamo grazie, Gaspare. Ipocrita. Saggio.
Bodhisattva».
Gaspare lo fissò. Gesù aveva usato il tono che avrebbe potuto usare con un
bambino. Il vecchio si mise a preparare il suo tè, ora più debole… o forse era
solo la mia immaginazione.
«E tu lo sapevi?» chiese a me.
Scrollai le spalle. «Quale essere illuminato viaggia intorno a mezzo mondo
seguendo una stella, solo perché ha sentito dire che è nato un Messia?».
«Intende dire attraverso il mondo» mi corresse Gesù.
«No, voglio dire intorno al mondo». Gli diedi una gomitata nelle costole,
perché era più semplice dello spiegare a Gaspare la mia teoria
dell’appiccicume universale. Stava già avendo una giornata abbastanza
difficile.
Versò del tè a tutti, e poi si sedette con un sospiro. «Non sei stato una
delusione, Gesù. Noi Magi capimmo subito che eri unico. Un bramino
incarnato, disse mio fratello».
«Come individuaste il posto? Grazie agli angeli sul tetto della stalla?»
chiesi.
Mi ignorò. «Ma eri ancora un bimbo in fasce e, qualunque cosa stessimo
cercando, tu non l’avevi… non ancora, comunque. Suppongo che saremmo
potuti rimanere, per dare una mano a educarti e a proteggerti: ma eravamo
troppo ottusi. Baldassarre voleva trovare la chiave dell’immortalità, e tu non
potevi dargliela in alcun modo. E mio fratello e io volevamo le chiavi
dell’universo, ma anche noi non le trovammo a Betlemme. Così avvisammo
tuo padre dell’intenzione di Erode di farti uccidere e gli consegnammo
dell’oro per portarti lontano, e poi tornammo in Oriente».
«Melchiorre è tuo fratello?».
Annuì. «Eravamo principi di Tamil. Melchiorre è il più vecchio, e pertanto
avrebbe ereditato le nostre terre. Ma avrei ricevuto anch’io un piccolo
territorio. Come Siddharta, ci astenevamo dai piaceri terreni per inseguire
l’illuminazione».
«E come sei finito quassù, tra queste montagne?» chiesi.
«Dando la caccia ai Buddha». Gaspare sorrise. «Avevo sentito dire che qui
viveva un saggio. La gente del posto lo chiamava il vecchio della montagna.
Venni quassù a cercarlo e trovai lo yeti. Nessuno sa quanti anni avesse
veramente, o da quanto tempo fosse qui. Sapevo soltanto che era l’ultimo
esemplare della sua specie, e che senza aiuto non sarebbe durato molto.
Rimasi e costruii il monastero. Insieme ai monaci che vennero qui a studiare,
mi sono occupato dello yeti fin da quando voi due eravate in fasce. Adesso se
n’è andato. Io non ho più uno scopo e non ho imparato niente. Qualunque
cosa ci fosse da scoprire, qui, è morta sotto quel blocco di ghiaccio».
Gesù allungò un braccio dall’altra parte del tavolo e afferrò la mano del
vecchio. «Ogni giorno ci fai esercitare negli stessi movimenti, continuiamo a
ripetere quei colpi simili a pennellate e a cantare i medesimi mantra. Perché?
Perché quelle azioni diventino naturali e spontanee senza essere indebolite dal
pensiero. Dico bene?».
«Sì».
«La compassione funziona allo stesso modo» aggiunse il mio amico. «E lo
yeti lo sapeva. Amava costantemente, istantaneamente, spontaneamente,
senza pensieri o parole. È questo che mi ha insegnato. L’amore non è una cosa
a cui si pensa, ma una condizione in cui si dimora. È stato il suo dono per
me».
«Oh» dissi.
«Sono venuto qui per imparare questo. E tu l’hai insegnato sia a me sia
allo yeti».
«Io?». Gaspare stava versando il tè mentre Gesù parlava, e in quel
momento si accorse che il liquido stava traboccando dalla sua tazza per
riversarsi sul tavolo.
«Chi si è preso cura di lui? Chi gli ha dato da mangiare? E hai dovuto
pensarci, prima di farlo?».
«No».
Gesù si alzò. «Grazie della barca».

Il vecchio non ci accompagnò al portone d’ingresso. Come promesso,
numero Quattro ci stava aspettando con i nostri vestiti e con i soldi che
avevamo quando eravamo arrivati sei anni prima.
Presi la fialetta di veleno ying-yang che mi aveva regalato Gioia e me la
legai al collo, poi infilai il fodero con il pugnale di vetro nero nella cintura e
mi misi sottobraccio gli altri vestiti.
«Andrete a cercare il fratello di Gaspare?» ci chiese il monaco. Era il più
vecchio tra i monaci, uno di quelli che aveva servito sotto l’imperatore come
soldato, e aveva una lunga cicatrice bianca che andava dalla metà del cranio
rasato all’orecchio destro e che, guarendo, aveva assunto una forma biforcuta.
«Tamil, giusto?» chiese Gesù?
«Andate a sud. È molto lontano. Lungo la strada incontrerete molti
pericoli. Ricordate il vostro addestramento».
«D’accordo».
«Bene». Numero Quattro si girò ed entrò nel monastero, quindi chiuse la
pesante porta di legno.
«No, no, Quattro, non complicarti la vita con uno sciocco addio» dissi
rivolto al battente. «No, davvero, niente scene strazianti».
Gesù stava contando i nostri soldi, che tenevamo in un piccolo
portamonete di pelle. «È esattamente quello che avevamo consegnato al
nostro arrivo».
«Bene».
«No, non va bene. Siamo stati qui sei anni, Biff. Pensavo che avrei trovato
due, tre volte quella somma, dopo tutto questo tempo».
«Come, per magia?».
«No, avrebbero dovuto investirli». Si voltò a guardare il portone. «Stupidi
bastardi, forse dovreste dedicare meno tempo al combattimento e un po’ di
più alla gestione del vostro denaro».
«Amore spontaneo?» dissi.
«Già. Gaspare non comprenderà nemmeno quello. Per questo hanno ucciso
lo yeti. Lo sai, vero?».
«Chi?».
«La gente della montagna. L’hanno ucciso perché non riuscivano a
comprendere una creatura che non fosse malvagia come loro».
«E loro erano cattivi?».
«Lo sono tutti gli uomini. È appunto di questo che stavo parlando con mio
padre».
«E lui che cos’ha detto?».
«Di mandarli a farsi fottere».
«Davvero?».
«Sì».
«Almeno ti ha risposto».
«Ho avuto la sensazione che pensi che sia un mio problema, adesso».
«Verrebbe da chiedersi perché non abbia inciso col fuoco anche questo, su
una di quelle tavolette: EHI, MOSÈ, ECCOTI I DIECI COMANDAMENTI,
ED ECCONE UNO EXTRA CHE DICE DI MANDARLI A FARSI
FOTTERE».
«Non sembra una sua frase».
«PER LE EMERGENZE» continuai, con la mia perfetta imitazione della
voce di Dio.
«Spero che in India faccia caldo» disse Gesù.
Così, a ventiquattro anni, Gesù di Nazaret partì per l’India.
PARTE QUARTA

Lo spirito



Chi vede in me tutte le cose,
e tutte le cose in me,
non è mai lontano da me,
e io non lo sono da lui.
BHAGAVAD GITA

20

La strada era piuttosto stretta, ci consentiva appena di camminare l’uno
accanto all’altro. L’erba arrivava all’altezza degli occhi di un elefante. Il cielo
era blu sopra di noi, mentre la nostra visuale non andava oltre la curva
successiva, che poteva trovarsi a qualunque distanza dal momento che non c’è
prospettiva in un canale verde ininterrotto. Viaggiavamo lungo quella strada
da quasi tutta la giornata, e avevamo incrociato soltanto un vecchio e un paio
di vacche, ma adesso sentivamo avvicinarsi quello che sembrava un gruppo
numeroso; non doveva essere lontano, forse a duecento metri di distanza.
C’erano voci maschili, e molte; e si udivano dei passi, dei tamburi metallici
dissonanti e, cosa oltremodo fastidiosa, le urla continue di una donna che
soffriva o era spaventata, o entrambe le cose.
«Giovani maestri!» giunse una voce da un punto vicino a noi.
Feci un salto e atterrai assumendo una posa difensiva, il pugnale di vetro
nero già sfoderato e pronto a colpire. Gesù si guardò intorno per capire da
dove la voce fosse venuta. Le grida si avvicinavano. Sentimmo un fruscio
nell’erba a un paio di metri da noi, e poi di nuovo quel sussurro: «Giovani
padroni, dovete nascondervi!».
Una faccia maschile estremamente magra, con due occhi che sembravano
di una taglia e mezza troppo grandi per quel cranio, sbucò dal muro d’erba
accanto a noi. «Dovete togliervi di lì. Kali viene a scegliere le sue vittime!
Sbrigatevi, o morirete!».
La faccia scomparve, sostituita da una mano scura e raggrinzita che ci fece
segno di entrare nell’erba. L’urlo della donna cresceva e si affievoliva,
sembrava che la sua voce si spezzasse come la corda troppo tesa di un liuto.
«Vai» disse Gesù dandomi una spinta.
Non appena ebbi lasciato la strada, qualcuno mi afferrò per un polso e
cominciò a trascinarmi in quel mare verde. Gesù si attaccò alla coda della mia
veste e si lasciò trainare. L’erba ci sferzava e ci tagliava. Sentivo il sangue che
mi inondava viso e braccia, e sopra il mio respiro udivo degli uomini urlare
alle nostre spalle, e il rumore dell’erba che veniva calpestata.
«Ci seguono» disse lo spettro dalla pelle scura. «Correte, se non volete che
le vostre teste finiscano come decorazione sull’altare di Kali. Correte!».
«Dice di correre» riferii a Gesù «o ce la vedremo brutta». Dietro di lui,
disegnate sullo sfondo del cielo, vidi le lunghe punte delle lance, simili a
spade: il genere di arma che si potrebbe usare per decapitare qualcuno.
«Okay» fece lui.

Avevamo impiegato più di un mese a raggiungere l’India, viaggiando per
centinaia di chilometri in una delle zone più elevate e accidentate che
avessimo mai visto. Cosa piuttosto sorprendente, c’erano villaggi sparsi per
tutte le montagne, e quando la gente vedeva le nostre vesti arancioni, porte e
dispense si spalancavano. Avevamo sempre da mangiare e un posto caldo per
dormire, e potevamo trattenerci finché volevamo. In cambio offrivamo
parabole ottuse e canti irritanti, come da tradizione.
Solo quando lasciammo le montagne per una prateria umida e brutalmente
calda, scoprimmo che il nostro abbigliamento attirava più disprezzo che
cordialità. Un uomo palesemente ricco (era in sella a un cavallo e indossava
abiti di seta) ci maledisse e ci sputò addosso. Anche altre persone a piedi
cominciarono a notarci, così ci nascondemmo veloci in mezzo all’erba alta
per disfarci delle vesti da monaci. M’infilai nella fusciacca il pugnale di vetro
regalatomi da Gioia.
«Ma di che parlava quel tipo a cavallo?» chiesi a Gesù.
«Ha detto qualcosa a proposito delle false profezie. Degli impostori. Dei
nemici dei bramini, qualunque cosa siano. E non so di che altro».
«A quanto pare qui ce la passiamo meglio come ebrei che come
buddhisti».
«Per adesso. Hanno tutti quei segni sulla fronte, come Gaspare. Credo che
senza dovremo stare attenti».
Nelle pianure l’aria era densa come crema calda, e dopo tanti anni sulle
montagne ne sentivamo il peso nei polmoni. Entrammo nella valle di un
fiume ampio e fangoso, dove la strada era affollata da gente che entrava e
usciva da una città di baracche di legno e altari di pietra. C’erano bestie
ovunque, tutte ingobbite: pascolavano persino nei giardini, ma nessuno
sembrava badarci.
«L’ultima carne che ho mangiato è stata quella dei nostri cammelli» dissi.
«Troviamo una bottega che venda del manzo».
Lungo la strada c’erano mercanti che vendevano merci varie, pentole
d’argilla, polveri, erbe, spezie, lame di bronzo e rame (il ferro apparentemente
scarseggiava) e minuscole sculture di quelle che sembravano mille divinità
differenti, molte delle quali avevano più arti di quanti ne fossero necessari.
Nessuna, poi, aveva un aspetto particolarmente amichevole.
Trovammo cereali, diversi tipi di pane, frutta, verdura e impasti di fagioli,
ma niente carne. Optammo per un po’ di pane e della pasta di fagioli speziata,
che pagammo con la moneta di rame romana; poi ci trovammo un posticino
sotto un grosso fico del Bengala dove ci sedemmo a mangiare e a osservare il
fiume.
Avevo scordato l’odore della città, la fetida mescolanza di persone, rifiuti e
animali, e cominciai ad avere nostalgia dell’aria pulita delle montagne.
«Non mi va di dormire qui, Gesù. Cerchiamoci un posto in campagna».
«Dobbiamo seguire questa strada fino al mare per arrivare a Tamil. La
gente va dove va il fiume».
Il fiume - più ampio di quelli israeliani ma poco profondo, giallo per
l’argilla e fermo contro l’aria pesante - somigliava più a una gigantesca pozza
stagnante che a qualcosa di vivo. Almeno in questa stagione. A punteggiarne
la superficie c’era una mezza dozzina di uomini nudi e scarni, con i capelli
bianchi spettinati e nemmeno tre denti vicini, che urlavano versi arrabbiati
con tutto il fiato che avevano in corpo e si gettavano l’acqua sulla testa a
formare creste scintillanti.
«Chissà come se la passa mio cugino Giovanni» disse Gesù.
Lungo tutta la sponda fangosa, le donne lavavano vestiti e bambini a pochi
passi dalle bestie che guadavano il fiume e cacavano, gli uomini pescavano o
spingevano con delle pertiche delle lunghe barche dallo scafo poco profondo
e i fanciulli nuotavano o giocavano nel fango. Qua e là, la lieve corrente
trasportava il cadavere di un cane coperto di uova di mosche.
«Forse c’è una strada più interna, lontana da questo tanfo».
Gesù annuì e si alzò in piedi. «Là» disse indicando uno stretto sentiero che
partiva dalla sponda opposta e spariva nell’erba alta.
«Dovremo guadare il fiume».
«Non sarebbe male trovare una barca che ci traghetti di là».
«Non pensi che dovremmo chiedere dove porta quel sentiero?».
«No» rispose, guardando una folla di persone che si stava riunendo a breve
distanza da noi e che non ci perdeva d’occhio. «Qui sembrano tutti ostili».
«Cos’è che dicevi a Gaspare a proposito dell’amore che è uno stato in cui
dimori, o qualcosa del genere?».
«Per questi qui non vale. Ti fanno venire i brividi. Andiamo».

Il tizio scuro e inquietante che mi stava trascinando in mezzo a quella
distesa di erba altissima si chiamava Rumi; a suo credito va detto che, durante
la corsa precipitosa e caotica in quella gigantesca palude, inseguito da una
banda assassina di decapitatori fanatici, era riuscito a trovare una tigre -
impresa non da poco quando hai al seguito un maestro di kung fu e il
salvatore del mondo.
«Accidenti, una tigre» disse quando entrammo incespicando in una piccola
radura, in realtà una mera depressione, dove un gatto grande quanto la città di
Gerusalemme rosicchiava allegramente il teschio di un cervo.
Rumi aveva espresso i miei sentimenti alla perfezione, ma che fossi
dannato se intendevo permettere che le mie ultime parole da vivo fossero
“Accidenti, una tigre”. Così ascoltai le sue con attenzione mentre mi si
riempivano le scarpe d’urina.
«Tutto questo rumore avrebbe dovuto spaventarla» disse Gesù, quando
l’animale sollevò gli occhi dal suo pasto.
I nostri inseguitori sembravano guadagnare terreno ogni secondo che
passava.
«Di solito funziona così. Il rumore attira la tigre verso il cacciatore»
rispose Rumi.
«Forse lo sa» osservai «e per questo non sta andando da nessuna parte.
Ecco, sono più grandi di quanto avessi immaginato. Le tigri, intendo».
«Sedetevi» disse Gesù.
«Scusa?».
«Fidatevi di me. Biff, ricordi Sara, il cobra, quando eravamo ragazzini?».
Guardai Rumi e annuii, facendolo sedere mentre la tigre si accovacciava e
tendeva le zampe posteriori come se si preparasse a saltare: ed era
esattamente quello che stava facendo. Quando il primo degli inseguitori entrò
nella radura dietro di noi, il felino spiccò un balzo e volò sopra le nostre teste,
atterrando sulle prime due persone che spuntarono dall’erba e schiacciandole
sotto le enormi zampe anteriori; quindi graffiò loro la schiena per spiccare il
salto successivo. Dopo vidi soltanto le punte delle lance sparpagliate sullo
sfondo del cielo, mentre i cacciatori diventavano… be’, lo sapete. Gli uomini
strillavano, la donna strillava, la tigre strillava, e i due che erano caduti sotto
le zampe del felino si rimisero in piedi e tornarono zoppicando sulla strada,
strillando.
Rumi spostò lo sguardo dalla carcassa del cervo a Gesù e a me, e i suoi
occhi sembrarono farsi addirittura più grandi. «Sono profondamente
commosso, e vi sarò eternamente grato per la vostra affinità con la tigre. Ma
quello è il suo cervo e, se non ha finito di rosicchiarlo, è probabile che…».
Gesù lo interruppe. «Facci strada».
«Non so in quale direzione».
«Non di là» dissi, indicando il punto da cui provenivano le urla dei cattivi.

Attraverso quel mare d’erba, Rumi ci condusse a un’altra strada, che
seguimmo fino a raggiungere la sua abitazione.
«È una fossa» dissi.
«Non è tanto male» fece Gesù, guardandosi intorno. Ce n’erano altre, lì
vicino. E ci viveva della gente.
«Tu vivi in una fossa».
«Ehi, rilassati» disse il mio amico. «Ci ha salvato la vita».
«E un’umile fossa, ma è una casa» spiegò Rumi. «Prego, mettetevi
comodi».
Mi guardai intorno. La buca era stata scavata nell’arenaria e arrivava ad
altezza spalle; le dimensioni consentivano appena a una mucca di girarsi… e
al sottoscritto parvero decisamente inadeguate. Era vuota, con l’eccezione di
un’unica roccia che arrivava al ginocchio.
«Sedetevi. Tu puoi prenderti la roccia» disse al mio amico.
Gesù sorrise e si sedette. Rumi si accomodò sul pavimento, coperto da uno
spesso strato di melma nera. «Siediti, ti prego» mi disse, indicando un punto
accanto a lui. «Mi dispiace, possiamo permetterci soltanto una roccia».
Rimasi in piedi. «Rumi, tu vivi in una fossa!» gli feci notare.
«Sì, è vero. Nel vostro paese dove vivono gli intoccabili?».
«Gli intoccabili?».
«Sì, i più poveri fra i derelitti. La feccia della Terra. Nessuno che
appartenga alle caste più elevate può capire la mia esistenza. Sono
intoccabile».
«Non c’è da sorprendersi. Vivi in una cazzo di fossa».
«No» intervenne Gesù. «Lui vive in una fossa perché è intoccabile, e non il
contrario. Lo sarebbe anche se vivesse in un palazzo, non è vero, Rumi?».
«Oh, come se fosse possibile» dissi.
«C’è più spazio, da quando mia moglie e quasi tutti i nostri figli sono
morti. Fino a stamattina eravamo solo io e Vitra, la mia figlia più piccola, ma
adesso se n’è andata anche lei. C’è un sacco di spazio per voi, se volete
restare».
Gesù gli posò una mano sulla spalla striminzita, e vidi l’effetto di quel
tocco: il dolore evaporò dal viso dell’intoccabile come rugiada sotto il sole
rovente. Io rimasi in disparte, miserabile e infelice.
«Che cosa è successo a tua figlia?» chiese il mio amico.
«Sono venuti i bramini e l’hanno portata via per sacrificarla durante la
festa di Kali. La stavo cercando quando ho trovato voi due. Prendono
bambini, uomini, criminali, intoccabili e stranieri. Avrebbero preso anche voi,
e dopodomani avrebbero offerto le vostre teste alla dea».
«Quindi tua figlia non è morta?» chiesi.
«La tratterranno fino alla mezzanotte della sera della festa, e poi la
sacrificheranno insieme agli altri bambini sugli elefanti di legno di Kali».
«Andrò da questi bramini e chiederò che te la restituiscano» disse Gesù.
«Ti uccideranno. Vitra è perduta, nemmeno la tua tigre può salvarti dalla
distruzione della dea».
«Rumi» intervenni «guardami, per favore. Spiegaci: bramini, Kali, elefanti
e tutto il resto. Vai piano, fai finta che non sappiamo nulla».
«Come se servisse l’immaginazione» commentò Gesù, violando
chiaramente il mio implicito - se non espresso - copyright sul sarcasmo. (Sì,
abbiamo Court TV in hotel, perché?)
«Ci sono quattro caste» spiegò Rumi. «I bramini o sacerdoti; gli kshatriyas
o guerrieri; i vaishyas, che comprendono contadini e mercanti; e gli shudras, i
servi. Esistono anche molte sottocaste, ma quelle sono le principali. Ogni
uomo nasce in una casta e vi rimane fino alla sua morte, dopo la quale rinasce
in una casta superiore o inferiore a seconda del suo karma, ossia la somma
delle azioni che ha compiuto nel corso della sua vita precedente».
«Sappiamo del karma. Siamo monaci buddhisti».
«Eretici!» sibilò.
«Baciami il sedere, smilzo con gli occhi a palla e la pelle scura» dissi.
«Sei tu lo smilzo con la pelle scura!».
«No, tu!».
«No, tu!».
«Siamo tutti smilzi con la pelle scura» concluse Gesù per riappacificarci.
«Sì, ma lui ha gli occhi a palla».
«E tu sei un eretico».
«Tu sei un eretico!».
«No, tu!».
«Siamo tutti eretici smilzi con la pelle scura». Gesù tentò nuovamente di
placare gli animi.
«Be’, è naturale che io sia smilzo, dopo sei anni passati a mangiare riso
freddo e tè, senza un pezzetto di manzo in tutto il paese».
«Mangeresti il manzo? Eretico!» gridò Rumi.
«Basta così!» urlò Gesù.
«Nessuno può mangiare la carne bovina. Le vacche sono la reincarnazione
delle anime in viaggio verso la vita successiva».
«Santa mucca» fece Gesù.
«Appunto».
Il mio amico scosse il capo quasi volesse mettere ordine tra i suoi pensieri
ingarbugliati. «Hai detto che esistono quattro caste, ma non hai menzionato
gli intoccabili».
«I paria, o intoccabili, non hanno casta. Siamo i più umili tra gli umili. A
volte impieghiamo diverse vite ad ascendere anche solo al livello di vacca, e a
quel punto possiamo aspirare a una casta più elevata. Poi, se seguiamo il
nostro dharma - i nostri doveri - diventiamo un tutt’uno con Brahma, lo
spirito universale della totalità delle cose. Non posso credere che tu non lo
sappia. Dove hai vissuto, in una caverna?».
Stavo per fargli notare che non era nella posizione di criticare le nostre
precedenti dimore, ma Gesù mi fece segno di
lasciar perdere. Invece gli chiesi: «Quindi, in questo sistema sei più in
basso delle vacche?». «Sì».
«E i bramini non mangiano mucche, ma prendono tua figlia e la uccidono
per sacrificarla alla loro dea?».
«E la mangiano» rispose, facendo ciondolare la testa. «A mezzanotte, la
sera delle celebrazioni, la legheranno insieme agli altri bambini sugli elefanti
di legno. Taglieranno loro le dita, che verranno distribuite ai capi di tutte le
famiglie dei bramini. Poi raccoglieranno il suo sangue in una scodella e i
membri delle varie famiglie ne berranno. Il dito possono mangiarlo o
seppellirlo come buon auspicio. Quindi i bambini vengono fatti a pezzi».
«Ma non possono fare una cosa simile» disse Gesù.
«Oh, sì. I seguaci di Kali possono fare tutto quello che vogliono. Kalighat
è la loro città» (“Calcutta” sulla mappa che ho qui in albergo). «La mia
piccola Vitra è perduta. Possiamo solo pregare che la sua reincarnazione
avvenga a un livello superiore».
Gesù diede un colpo alla mano dell’intoccabile. «Perché hai dato
dell’eretico a Biff, quando ti ha detto che siamo monaci buddhisti?».
«Quel Gautama disse che un uomo poteva ascendere da qualunque livello
per unirsi a Brahma, senza aver compiuto il proprio dharma. È un’eresia».
«Ma per te sarebbe preferibile, no? Visto che sei in fondo alla scala».
«Non puoi credere in ciò in cui non credi. Io sono un intoccabile perché lo
dice il mio karma».
«Oh, certo» commentai. «Non ha senso starsene seduti sotto l’albero della
Bodhi per qualche ora, quando puoi ottenere la stessa cosa attraverso migliaia
di vite miserevoli».
«Naturalmente, ciò significa ignorare il fatto che sei un gentile, e che sarai
dannato in entrambi i casi» disse Gesù. «Già».
«Ma ti riporteremo tua figlia».

Gesù sarebbe voluto correre a Kalighat per chiedere la restituzione della
bambina di Rumi e di tutte le altre vittime in nome di ciò che è buono e
giusto. La sua soluzione per ogni cosa era farsi strada con l’onesta
indignazione, e in alcune occasioni andava bene. In altre, però, era meglio
ricorrere all’astuzia e alla scaltrezza (Ecclesiaste 9, o qualcosa del genere).
Riuscii a convincerlo ad adottare un piano alternativo con un impeccabile
ragionamento logico: «Gesù, questi bramini tagliano le dita ai bambini e se le
mangiano. So che non esiste un comandamento in proposito, ma credo che
questa gente abbia opinioni differenti dalle nostre. Danno dell’eretico al
Buddha, che era un loro principe. Come pensi possano accogliere un ragazzo
smilzo con la pelle scura che afferma di essere il figlio di un dio che non vive
nemmeno nella loro regione?».
«Ottima osservazione. Ma dobbiamo comunque salvare la bambina».
«Naturalmente».
«Come?».
«Con estrema attenzione».
«Allora dovrai guidare tu le operazioni».
«Come prima cosa dobbiamo vedere la città e il tempio dove avverrà il
sacrificio».
Gesù si grattò la testa. I capelli gli erano ricresciuti, ma erano ancora corti.
«A quale passo ti stai ispirando?».
«Secrezioni, capitolo 3, versetto 6».
«Non lo ricordo, credo che dovrò andarmi a ripassare la Torah».
La statua di Kali che sovrastava l’altare era stata scolpita in una pietra nera
ed era alta quanto dieci uomini. Portava una collana di teschi umani, mentre a
cingere i fianchi c’era una cintura di mani mozzate. Le fauci aperte erano
corredate da denti simili a una lama seghettata, su cui era stato appena versato
del sangue. Persino le dita dei piedi s’incurvavano in lame feroci affondate in
un mucchio di cadaveri scolpiti e contorti su cui poggiava. Aveva quattro
braccia: la prima mano stringeva una spada crudele a forma di serpente, la
seconda teneva per i capelli una testa mozzata; la terza era incurvata, come se
facesse cenno alle sue vittime di raggiungere il luogo di oscura distruzione a
cui tutti sono destinati. La quarta, infine, era rivolta verso il basso, quasi a
indicare la cintura di mani che portava sui fianchi. Sembrava porsi l’eterna
domanda: “Questa mise mi fa grassa?”.
L’altare rialzato sorgeva al centro di un giardino aperto, circondato da
alberi. Era talmente largo che la dea nera avrebbe potuto fare ombra a
cinquecento persone. Nella pietra erano stati ricavati dei solchi profondi per
incanalare il sangue sacrificale in pentole, così che potesse essere raccolto e
versato tra le fauci di Kali. All’altare si arrivava percorrendo un ampio viale
lastricato, fiancheggiato su entrambi i lati da enormi elefanti di legno posti su
tavoli girevoli. Le proboscidi e le zampe avevano delle chiazze color ruggine,
e qua e là si notavano delle tacche nei punti in cui le lame erano penetrate nel
mogano dopo aver attraversato i corpi dei bambini.
«Vitra non è qui» osservò Gesù.
Eravamo nascosti dietro un albero nei pressi del giardino del tempio,
vestiti come i nativi, con finti marchi di casta e tutto il resto. Avevamo estratto
a sorte, e il travestimento femminile era toccato a me.
«Credo che questo sia un fico sacro» dissi «proprio come quello sotto cui
si sedeva il Buddha! È così eccitante. Mi sento quasi illuminato, solo per il
fatto di essere qui. Davvero, sento frutti di bodhi maturi tra le dita dei piedi».
Gesù abbassò gli occhi. «Non credo si tratti di questo. Qui c’è stata una
mucca, prima di noi».
Sollevai il piede da quello schifo. «Le vacche sono sopravvalutate in
questo paese. Anche sotto l’albero del Buddha. Non c’è niente di sacro?».
«Dobbiamo chiedere a Rumi dove tengono le vittime sacrificali fino alla
celebrazione».
«Non può saperlo. È un intoccabile. Questi sono bramini, o sacerdoti…
non direbbero mai nulla a uno come lui. Sarebbe come se un sadduceo
descrivesse a un samaritano l’Arca dell’Alleanza».
«Allora quei poveretti dobbiamo trovarli noi» dichiarò Gesù.
«Sappiamo dove intendono portarli a mezzanotte: li prenderemo allora».
«Io dico di trovare questi bramini e di costringerli a interrompere i
festeggiamenti».
«Vuoi semplicemente assaltare il tempio per dire loro di fermarsi?». «Sì».
«E loro lo faranno». «Sì».
«Davvero fico, Gesù. Andiamo a cercare Rumi. Ho un piano».

21

«Come donna sei molto attraente» mi disse Rumi dalla sua confortevole
fossa. «Ti ho detto che mia moglie è passata alla prossima reincarnazione e
che sono rimasto solo?».
«Sì, hai accennato qualcosa». Sembrava aver abbandonato ogni speranza
che potessimo riportargli la figlia. «Che è successo al resto della tua famiglia,
comunque?».
«Sono annegati tutti».
«Mi dispiace. Nel Gange?».
«No, in casa. Era la stagione dei monsoni. Io e la piccola Vitra eravamo
andati al mercato per comprare un po’ d’intruglio per i maiali, e
improvvisamente si è scatenato un acquazzone. Quando siamo tornati…».
Scrollò le spalle.
«Non voglio sembrarti insensibile, Rumi, ma è possibile che la tua perdita
sia dovuta al fatto… oh, non lo so… che VIVI IN UNA CAZZO DI
FOSSA?!».
Gesù s’intromise nella nostra conversazione. «Così non ti stai rendendo
utile, Biff. Hai detto di avere un piano?».
«Esatto. Rumi, io credo che queste fosse, quando non sono abitate,
vengono usate per conciare le pelli. È così?».
«Sì. È un lavoro che possono fare solo gli intoccabili».
«E questo contribuisce a spiegare l’odore delizioso. Immagino che usiate
l’urina durante il procedimento, è corretto?».
«Sì. Urina, cervella spappolate e tè sono gli ingredienti principali».
«Mostrami la fossa dove viene condensata l’urina».
«Ci vive la famiglia Rajneesh».
«Porteremo loro un regalo» feci io. «Gesù, hai della filaccia in fondo alla
tua borsa?».
«Che cos’hai in mente?».
«Alchimia. L’abile manipolazione degli elementi. Guarda e impara».
Quando non veniva usata, la fossa dell’urina fungeva da abitazione dei
Rajneesh, che furono oltremodo felici di darci un bel mucchio di quei cristalli
bianchi che coprivano il pavimento della buca. In famiglia erano in sei: padre,
madre, una figlia quasi adulta e tre piccolini. Un altro figlioletto era stato
portato via per essere sacrificato durante le celebrazioni in onore di Kali.
Come Rumi e tutti gli altri intoccabili, più che persone i Rajneesh sembravano
scheletri mummificati e avvolti nel cuoio marrone. Gli uomini giravano nelle
fosse nudi, o soltanto con un perizoma, e persino le donne indossavano stracci
che le coprivano a malapena - e che non avevano nulla a che vedere con
l’elegante sari che avevo comprato al mercato. Il capofamiglia disse che ero
una donna molto affascinante e insistette affinché tornassi a fargli visita dopo
il monsone successivo.
Gesù triturò il minerale cristallizzato fino a ottenere una polvere bianca e
fina, mentre Rumi e io raccoglievamo carbone di legna da sotto la pentola
riscaldata che gli intoccabili usavano per trasformare i fiori dell’indaco in una
tinta per tessuti.
«Ho bisogno di zolfo, Rumi. Sai che cos’è? Una pietra gialla che quando
brucia produce una fiamma blu e puzza di uova marce…».
«Oh, sì. Lo vendono al mercato come medicina».
Gli diedi una moneta d’argento. «Compra tutto quello che riesci a portare».
«Oh, cielo, questo denaro è troppo. Con il resto posso comprare un po’ di
sale?».
«Compra quello che ti serve. Ma adesso vai».
Rumi se ne andò furtivamente, e io andai ad aiutare Gesù con il salnitro.
L’abbondanza era un concetto astratto per gli intoccabili, a meno che non
rientrasse in due categorie: sofferenza e pezzi di cadaveri animali. Se volevi
del cibo decente, un rifugio o dell’acqua pulita, i paria non potevano che
deluderti. Ma se eri nel mercato di becchi, ossa, denti, pelli, tendini, zoccoli,
capelli, calcoli, pinne, piume, orecchie, corna, bulbi oculari, vesciche, labbra,
narici, canali anali o di qualunque altra parte non commestibile di tutte le
creature che camminavano, nuotavano o volavano sopra il subcontinente
indiano, allora probabilmente avevano quello che volevi (e di solito era
convenientemente riposto sotto una spessa coperta di mosche nere). Per
mettere insieme l’attrezzatura che mi occorreva per il mio piano, dovevo
pensare in termini di parti animali. Nessun problema, se consideravi che ti
servivano una dozzina di spadini, archi, frecce e cotte di maglia per trenta
soldati, ma potevi contare soltanto su un mucchio di narici e tre canali anali.
Era una sfida, ma dovevo tentare. Mentre Gesù si muoveva tra gli intoccabili,
guarendo segretamente i loro mali, cominciai a urlare i miei ordini.
«Mi servono otto vesciche di pecora, piuttosto asciutte, due manciate di
denti di coccodrillo, due pezzi di pelle lunghi come le mie braccia e larghi la
metà. No, non m’interessa a che animale appartengano, basta che non sia
troppo in là con gli anni, se è possibile. Ho bisogno di qualche pelo di coda
d’elefante. E di un po’ di legna da ardere, o al limite di escrementi secchi.
Inoltre mi servono otto code di bue, una cesta di lana e un secchio di grasso
sciolto».
Un centinaio di intoccabili pelle e ossa mi fissavano con occhi grandi come
scodelle, mentre Gesù si muoveva tra loro e curava ferite, malattie e disturbi
senza che nessuno avesse il minimo sospetto riguardo a ciò che stava facendo.
(Avevamo stabilito che questa era la linea di condotta più saggia, poiché non
volevamo che un branco di paria in perfetta salute si mettesse a saltellare per
le vie di Kalighat annunciando la guarigione ricevuta da uno straniero: in tal
modo, infatti, noi saremmo finiti al centro dell’attenzione e il mio piano
sarebbe fallito. D’altro canto, nessuno dei due riusciva a starsene lì a
osservare le loro sofferenze, sapendo che potevamo - o meglio, che Gesù
poteva - curarli.) Inoltre, Gesù aveva cominciato a pungolarli con un dito ogni
volta che pronunciavano la parola “intoccabili”. In seguito, mi spiegò che era
stato più forte di lui: non poteva proprio farsi scappare l’opportunità di fare un
po’ di ironia palpabile. Mi feci piccolo piccolo quando lo vidi toccare i
lebbrosi, come se dopo tutti quegli anni lontano da Israele avessi ancora un
piccolo fariseo sulla spalla che gridava: “Immondi!”.
«Ebbene?» chiesi, dopo aver finito di gridare i miei ordini. «Rivolete i
vostri figli oppure no?».
«Noi un secchio non ce l’abbiamo» disse una donna.
«Okay, riempite qualche vescica di pecora con del grasso sciolto, e
avvolgete la lana in una specie di pelle. Adesso andate, non abbiamo molto
tempo».
E rimasero tutti lì a guardarmi. Con i loro occhi enormi. Le piaghe guarite.
I parassiti eliminati. Mi fissavano e basta. «Sentite, so che il mio sanscrito
non è un granché, ma sapete che cosa vi sto chiedendo?».
Un giovane si fece avanti. «Non vogliamo far infuriare la dea Kali
privandola dei suoi sacrifici».
«Stai scherzando, vero?».
«Kali è colei che porta rovina, senza la quale non ci sarebbe rinascita. È lei
che rimuove il legame che ci unisce al mondo materiale. Se la facciamo
infuriare, ci priverà della divina distruzione».
Guardai Gesù, oltre la folla. «Tu ci capisci qualcosa?».
«Parli della paura?».
«Puoi aiutarli?» gli chiesi in aramaico.
«Non sono bravo con la paura» mi rispose in ebraico.
Riflettei un secondo, mentre cento paia di occhi mi inchiodavano
sull’arenaria su cui mi trovavo. Mi tornarono in mente le tacche sporche di
rosso sugli elefanti di legno dell’altare di Kali. La morte era la loro
liberazione, giusto?
«Come ti chiami?» chiesi all’uomo che si era fatto avanti.
«Nagesh».
«Tira fuori la lingua, Nagesh». La tirò fuori, e io feci scivolare il fazzoletto
che mi copriva il capo sul collo. Poi gli toccai la lingua.
«La distruzione è preziosa, per voi?».
«Sì».
«Allora io sarò lo strumento attraverso il quale la vostra dea vi fa questo
dono». Con ciò, estrassi il pugnale di vetro nero dal fodero infilato nella
fusciacca e lo sollevai davanti alla folla. Mentre Nagesh se ne stava lì
impalato, con gli occhi sgranati, gli infilai il pollice sotto la mascella, gli
buttai indietro la testa e gli passai la lama sulla gola. Quindi lo distesi a terra,
mentre il liquido rosso zampillava sull’arenaria.
Mi rialzai e guardai di nuovo quella gente, tenendo la lama gocciolante
sopra la testa. «Siete in debito con me, fottuti ingrati! Vi ho portato il dono
della dea Kali. Adesso fatemi avere quello che vi chiedo».
Per essere quasi morti di fame, erano decisamente veloci.

Dopo che gli intoccabili si furono sparpagliati per eseguire i miei ordini,
mi ritrovai con Gesù a guardare il cadavere insanguinato di Nagesh.
«È stato fantastico» mi disse. «Assolutamente perfetto».
«Grazie».
«Hai continuato a fare pratica per tutto il tempo che siamo rimasti al
monastero?».
«Quindi non mi hai visto spingere sul punto di pressione nel collo?».
«No».
«L’addestramento di kung fu di Gaspare. Il resto, naturalmente, viene da
Gioia e Baldassarre».
Mi chinai e aprii la bocca del giovane; mi tolsi dal collo la fialetta ying-
yang e gli versai una goccia di antidoto sulla lingua.
«Quindi adesso può sentirci? Com’è successo a te quando sei stato
avvelenato da Gioia?».
Sollevai una palpebra dell’intoccabile e osservai la pupilla che si contraeva
lentamente alla luce del sole. «No, credo sia ancora privo di sensi. Sai, per via
del fatto che gli ho toccato il punto di pressione. Non pensavo che il veleno
avrebbe fatto effetto così in fretta. Sono riuscito a mettermene soltanto una
goccia sul dito, quando mi sono abbassato il sari. Sapevo che l’avrebbe tenuto
a terra, ma non ero sicuro che l’avrebbe messo al tappeto».
«Be’, adesso sei un vero mago, Biff. Sono impressionato».
«Amico, tu oggi hai curato un centinaio di persone, la metà delle quali
probabilmente stava per morire. Io ho dato soltanto una dimostrazione di
destrezza».
Il suo entusiasmo rimase immutato. «Che cos’era quel liquido rosso?
Succo di melagrana? Non riesco proprio a immaginare dove tu l’abbia
nascosto».
«No, in effetti stavo per chiederti qualcosa al riguardo».
«Scusa?».
Sollevai il braccio e gli mostrai il taglio che mi ero fatto al polso (la fonte
del sangue che avevo usato per il mio show). L’avevo tenuto premuto contro
la gamba e, non appena allentai la pressione, il sangue ricominciò a
zampillare. Mi sedetti pesantemente sull’arenaria, e il mio campo visivo
cominciò a rimpicciolirsi fino a ridursi a un puntino. «Speravo potessi darmi
una mano» dissi prima di svenire.

«Devi lavorare a quella parte del trucco» disse Gesù quando rinvenni.
«Potrei non essere sempre presente per curarti la ferita al polso». Stava
parlando in ebraico, il che significava che le sue parole erano rivolte soltanto
a me.
Vidi il mio amico in ginocchio, chino sul mio corpo, e il cielo alle sue
spalle era oscurato da facce scure e curiose. Nagesh, assassinato da poco, era
davanti alla folla. «Ehi, Nagesh, com’è andata la rinascita?» chiesi in
sanscrito.
«Devo aver deviato dal mio dharma, nell’ultima vita. Mi sono reincarnato
ancora una volta in un intoccabile. E ho la stessa orribile moglie di prima».
«Hai sfidato il maestro Levi detto Biff» dissi «è naturale che tu non sia
passato a un livello superiore. Sei fortunato a non essere un insetto
puzzolente, o qualcosa del genere. Vedi, la distruzione non è positiva come
voi tutti pensavate».
«Abbiamo portato quello che hai chiesto».
Balzai in piedi, sentendomi incredibilmente riposato e pieno di energia.
«Bene» dissi a Gesù. «Mi sento come se avessi bevuto uno di quei caffè forti
che preparavi da Baldassarre».
«Mi manca il caffè».
Guardai Nagesh. «Immagino che voi non…».
«Abbiamo l’intruglio per i maiali».
«Lascia perdere». Poi dissi una di quelle cose che, quando ero un
ragazzino in Galilea, non avrei mai pensato di sentir uscire dalla mia bocca:
«Okay, intoccabili, portatemi le vesciche di pecora!».

Rumi ci disse che Kali era servita da una schiera di demoni donna dalla
pelle nera che qualche volta durante le celebrazioni portavano degli uomini
agli angoli dell’altare e copulavano con loro mentre dalle fauci della statua
colava sangue.
«Okay, Gesù, tu sarai un demone» dissi.
«E tu chi sarai?».
«La dea Kali, naturalmente. Tu hai fatto Dio, l’ultima volta».
«Quale ultima volta?».
«Sempre!». Mi voltai verso i miei intrepidi schiavi. «Intoccabili,
dipingetelo!».
«Non crederanno mai che un ragazzo ebreo con i capelli ricci sia la loro
dea della distruzione».
«Oh, uomo di poca fede».
Tre ore dopo eravamo di nuovo accovacciati sotto un albero vicino al
tempio di Kali. Eravamo vestiti entrambi da donna, coperti dalla testa ai piedi
dai nostri sari; ma io ero molto più goffo, a causa delle braccia extra e della
ghirlanda di teste mozzate - vesciche di pecora dipinte e riempite di esplosivo
che mi ero appeso intorno al collo intrecciando peli di coda di elefante.
Chiunque si fosse avvicinato abbastanza da notare le mie sporgenze sarebbe
stato subito scoraggiato dal tanfo che emanava da Gesù e dal sottoscritto. Per
dipingerci di nero avevamo usato la sostanza appiccicosa che stava sul fondo
della fossa di Rumi. Non avevo osato chiedere che cosa fosse stata in vita.
Inoltre, gli intoccabili avevano dipinto due enormi cerchi rossi intorno agli
occhi di Gesù, gli avevano messo una parrucca di code di bue e gli avevano
attaccato al torace sei tettine impertinenti, modellate con la pece.
«Stai lontano dalle fiamme, o le tue tette s’incendieranno come vulcani».
«Perché devo averne sei quando tu ne hai soltanto due?».
«Perché io sono Kali e devo portare la ghirlanda di teschi e le braccia
extra».
Avevamo costruito le braccia con del cuoio usando le mie come modello,
poi le avevamo fatte essiccare sul fuoco e le avevamo dipinte con la stessa
sostanza nera usata per il resto del corpo. Le donne avevano realizzato
un’imbracatura che mi consentiva di tenere i sei arti finti sotto quelli veri:
erano un po’ vacillanti, ma leggeri, e al buio l’effetto era abbastanza
realistico.
Mancavano ancora diverse ore al culmine della cerimonia, quando i
bambini sarebbero stati fatti a pezzi, ma volevamo arrivare in tempo per
impedire ai festaioli di tagliare loro le dita, se ci fossimo riusciti. Gli elefanti
di legno erano ancora vuoti sui tavoli girevoli, ma l’altare di Kali era già
pieno di macabri tributi. Le teste di mille capre erano state deposte davanti
alla dea, e il sangue scorreva viscido sulle pietre e nelle scanalature che lo
convogliavano in pentole d’ottone sistemate agli angoli. Le seguaci portavano
le pentole in cima a una scala stretta posta sul retro della grande statua e le
svuotavano in una sorta di cisterna che alimentava le fauci della divinità. In
basso, illuminati dalle torce, i fedeli danzavano sotto quella doccia
appiccicosa, mentre il sangue si riversava su di loro.
«Guarda, quelle donne sono vestite come me» osservò Gesù. «A parte il
fatto che hanno due seni a testa».
«Tecnicamente non sono vestite, ma dipinte. Sei molto attraente come
demone donna, amico, te l’avevo mai detto?».
«Non funzionerà».
«Certo che sì».
Dovevano esserci già diecimila fedeli nella piazza del tempio: danzavano,
cantavano, suonavano tamburi. Trenta uomini scesero in processione lungo il
viale principale, ciascuno con una cesta sottobraccio. Quando raggiunsero
l’altare, ne rovesciarono il contenuto sulle file di teste di capra insanguinate.
«E quelle che cosa sono?» chiese Gesù.
«Esattamente quello che pensi».
«Non saranno le teste dei bambini…».
«No, credo che appartengano agli stranieri che si trovavano per caso sulla
strada su cui viaggiavamo anche noi, prima che Rumi ci trascinasse in mezzo
all’erba».
Una volta sparpagliate le teste sull’altare, le accolite uscirono dalla folla
trascinando il corpo decapitato di un uomo, che distesero sui gradini.
Ciascuna di loro mimò un rapporto sessuale con il cadavere e strofinò i
genitali contro il moncherino del collo insanguinato, prima di allontanarsi
danzando; sangue e pigmento gocciolavano lungo l’interno delle loro cosce.
«Credo che stiano sviluppando una specie di tema» dissi.
«Io sto per sentirmi male».
«Respiro concentrato» dissi, usando una delle frasi che ci urlava Gaspare
quando stavamo imparando le tecniche di meditazione. Se Gesù poteva
restare per giorni e giorni con lo yeti senza morire congelato, era senz’altro in
grado di controllare il proprio corpo per non vomitare. Se non mi venne la
nausea fu solo per la magnitudine di quella carneficina. Era come se l’atrocità
di quella scena non riuscisse a stare intera nel mio campo visivo: vedevo solo
quanto bastava per mantenere la mente sana e lo stomaco intatto.
A quel punto si levò un grido dalla folla, e vidi una portantina illuminata
da torce che si levava sopra le teste dei fedeli. Vi era disteso un uomo
seminudo con una pelle di tigre avvolta intorno ai fianchi; era cosparso di
cenere grigia, aveva i capelli intrecciati e unti di grasso, e indossava lo
scheletro di una mano a mo’ di zucchetto. Intorno al collo portava una collana
di teschi umani.
«Il sommo sacerdote» dissi.
«Non ti noteranno nemmeno, Biff. Come puoi sperare di attirare la loro
attenzione, quando hanno visto tutto questo?».
«Non hanno ancora visto quello che io ho da mostrare».
Quando la portantina emerse dalla folla e giunse davanti all’altare,
vedemmo che era seguita da una processione: alla parte posteriore della sedia
era legata una fila di bambini nudi, la maggior parte dei quali non doveva
avere più di cinque o sei anni. Avevano le mani bloccate da una corda.
Ciascuno era sostenuto da due sacerdoti (un po’ meno agghindati), uno a
destra e l’altro a sinistra, che cominciarono a slegarli e a condurli sui grandi
elefanti di legno posti lungo il viale. Qua e là, in mezzo alla folla, vedevo
persone che brandivano delle armi affilate: spade corte, accette e le lance
dalle lunghe lame che avevamo visto spuntare dal mare d’erba. Il sommo
sacerdote era seduto sul cadavere decapitato, e recitava urlando un poema
sulla liberazione divina portata dalla distruzione di Kali, o qualcosa del
genere.
«Ecco che si comincia» dissi, estraendo dal sari il pugnale di vetro nero.
«Prendi».
Gesù guardò la lama che scintillava alla luce delle torce. «Io non ucciderò
nessuno». Le lacrime gli scendevano lungo le guance tracciando delle linee
rosse in mezzo al nero, e se possibile lo facevano sembrare ancora più feroce.
«Va bene, ma devi liberare i bambini».
«D’accordo». Prese il pugnale.
«Gesù, sai che cosa succederà tra poco. L’hai già visto, a differenza di
questa gente… soprattutto dei bambini. Non puoi trasportarli tutti, quindi
devono essere abbastanza lucidi da poterti seguire. So che puoi impedire loro
di avere paura. Tieni, mettiti i denti».
Annuì e s’infilò sotto il labbro superiore una striscia di cuoio a cui erano
attaccati dei denti di coccodrillo, che sporgevano come zanne. Io mi misi i
miei e corsi nell’oscurità per aggirare la folla.
Mentre mi avvicinavo alla parte posteriore dell’altare, estrassi la mia torcia
speciale dalla cintura di mani umane (in realtà, questa era fatta con vesciche
di capra essiccate e imbottite di paglia; le donne intoccabili avevano fatto un
buon lavoro, a patto che nessuno si mettesse a contare le dita). Attraverso le
gambe di pietra di Kali riuscivo a vedere i sacerdoti che legavano ogni
singolo bambino alla proboscide di un elefante. Poi estrassero delle lame di
bronzo e le tennero in alto, pronti a mozzare un dito al segnale del sommo
sacerdote.
Accesi la torcia strofinandola contro l’altare, urlai con tutto il fiato che
avevo in corpo, mi tolsi il sari e salii di corsa i gradini, seguito dalla scia di
scintille che si levava dalle fiamme blu. Saltai la schiera di teste di capra e mi
misi in mezzo alle gambe della statua. In una mano stringevo la torcia,
sollevata in alto, nell’altra una delle mie teste mozzate, che tenevo per i
capelli e facevo penzolare.
«Sono la dea Kali!» urlai. «Temetemi!». Attraverso i denti finti, mi uscì
una specie di borbottio.
Qualche tamburo tacque e il sommo sacerdote si voltò a guardarmi, più per
la luce viva della torcia che per la mia fiera proclamazione.
«Io sono Kali» gridai ancora. «Dea della distruzione e di tutta questa
merda disgustosa che avete qui!». Non capivano. Il sacerdote fece segno agli
altri di venirmi a prendere. Alcune fra le accolite stavano già tentando di
avanzare attraverso la pista da ballo disseminata di teste.
«Dico sul serio! Inchinatevi a me!». Ma i sacerdoti venivano avanti. Avevo
ottenuto l’attenzione della folla, anche se sfortunatamente non si stava
acquattando per la paura davanti alla mia irata divinità. Vidi Gesù che si
muoveva intorno agli elefanti di legno, abbandonati dai sacerdoti che ora
venivano a prendermi. «Davvero! È così!». Forse erano i denti. Li sputai
verso il più vicino dei miei assalitori.
Correre attraverso un mare di teste viscide e insanguinate è piuttosto
complicato. Non lo è se hai passato gli ultimi sei anni della tua vita a saltare
da un palo all’altro, anche con il ghiaccio e con la neve; ma per un comune
sacerdote omicida non era cosa semplice. Sacerdoti e accolite scivolavano tra
le teste umane e caprine, cadevano l’uno sull’altra e andavano a sbattere
contro i piedi della statua. Addirittura, uno finì impalato su un corno di capra.
Un solo sacerdote era arrivato a un paio di metri da me, e tentava di non
cadere sulla sua stessa lama mentre strisciava su quella confusione. «Porterò
distruzione… o, ‘fanculo» dissi. Accesi la miccia sulla testa che tenevo in
mano, quindi la feci passare tra le gambe e la lanciai facendole descrivere un
ripido arco sopra la mia testa. Si lasciò dietro una scia di scintille fino a
raggiungere le fauci nere di Kali, e poi scomparve.
Sferrai un calcio al sacerdote che si stava avvicinando e lo colpii alla
mascella, poi danzai sulle teste di capra e saltai sopra il capo del sommo
sacerdote. Ero a metà strada per raggiungere Gesù, al primo elefante di legno,
quando Kali cominciò a sputare fuoco sulla folla con un rumore assordante. E
un istante dopo la testa della divinità saltò in aria.
Finalmente avevo ottenuto l’attenzione dei presenti. Si stavano calpestando
a vicenda per allontanarsi, ma mi guardavano. Ero al centro del viale e facevo
girare la mia seconda testa mozzata, aspettando che la miccia bruciasse prima
di lanciarla sulla folla che si ritirava. Esplose in aria e nel cielo si levò un
cerchio infuocato che sicuramente assordò i fedeli più vicini.
Gesù era circondato da sette bambini, che si aggrappavano alle sue gambe
mentre lui si spostava all’elefante successivo. Diversi sacerdoti si erano
ripresi e stavano scendendo precipitosamente i gradini: venivano verso di me,
armati di pugnale. Presi un’altra testa dalla mia ghirlanda, accesi la miccia e
la tesi verso di loro.
«Ah, ah, ah» li avvertii. «Kali. Dea della distruzione, dell’ira, eccetera
eccetera».
Alla vista della miccia si fermarono e cominciarono a fare marcia indietro.
«Questo è il rispetto che avreste dovuto mostrarmi prima».
Cominciai a far roteare la testa tenendola per i capelli; i sacerdoti
abbandonarono ogni parvenza di coraggio e si voltarono per correre via. La
lanciai sull’altare, dove esplose facendo schizzare le autentiche teste caprine
in ogni direzione.
«Gesù! Abbassatevi! Teste in arrivo!».
Fece distendere i bambini a terra e ci si mise sopra, fino a quando quella
macabra pioggia non cessò. Mi guardò di traverso, poi andò a liberare gli
altri. Gettai ancora tre teste in altrettante direzioni: ormai la piazza del tempio
era quasi deserta, eccezion fatta per Gesù, i bambini, qualche fedele ferito e i
morti. Avevo costruito bombe piuttosto innocue, pertanto i feriti erano quelli
calpestati durante il panico della fuga, mentre le vittime erano quelle già
sacrificate a Kali. Credo che ce la fossimo cavata senza uccidere nessuno.
Mentre Gesù guidava i bambini lungo l’ampio viale e fuori dalla piazza, io
coprii la loro uscita camminando all’indietro con l’ultima testa esplosiva in
una mano e la torcia nell’altra. Una volta accertatomi che fossero lontani e al
sicuro, accesi la miccia, feci roteare la testa e la lasciai volare verso la nera
divinità.
«Troia» dissi.
Quando esplose non ero più lì a godermi lo spettacolo.
Arrivammo alla scogliera calcarea affacciata sul Gange prima di fermarci
per far riposare i piccoli. Erano stanchi, ma soprattutto affamati, e noi non
avevamo portato niente da mangiare. Se non altro, dopo il tocco di Gesù, non
avevano più paura e avevano trovato un po’ di pace. Noi due eravamo troppo
nervosi per dormire, così restammo lì seduti mentre i bambini si sdraiarono
sulle rocce russando come gattini. Gesù teneva in braccio la figlioletta di
Rumi, Vitra, che di lì a poco si ritrovò con il visetto nero per essersi
rannicchiata contro la sua spalla. Per tutta la notte, mentre cullava la bambina,
continuò a ripetere: «Niente più sangue. Niente più sangue».
Alle prime luci dell’alba vedemmo migliaia, no, decine di migliaia di
persone che si radunavano sulle sponde del fiume, tutte vestite di bianco con
l’eccezione di qualche anziano nudo. Entravano in acqua e volgevano lo
sguardo a est, il capo sollevato in attesa di qualcosa: il fiume si estendeva a
perdita d’occhio. Mentre il sole all’orizzonte diventava un dito liquefatto di
luce, la superficie fangosa del fiume si tinse d’oro. Da lì, il bagliore dorato si
rifletteva sugli edifici, sulle baracche, sugli alberi e sui palazzi, e ogni cosa -
inclusi i fedeli - appariva rivestita d’oro. E fedeli lo erano davvero, perché dal
punto in cui eravamo seduti sentivamo i loro canti e, anche se non riuscivamo
a distinguere le parole, capivamo che erano melodie di Dio.
«Sono le stesse persone di ieri notte?» chiesi.
«Dovrebbero, no?».
«Io non le capisco. Non capisco la loro religione e il loro modo di
pensare».
Gesù si alzò e guardò gli indiani che s’inchinavano e cantavano all’alba; di
tanto in tanto lanciava un’occhiata al viso della bimba che dormiva sulla sua
spalla. «Che lo sappiano o no, questo è un testamento della gloriosa creazione
del Signore».
«Come puoi dire una cosa simile? I sacrifici a Kali, il trattamento che
riservano agli intoccabili. Qualunque sia la loro fede, la loro religione è
orribile».
«Hai ragione. È ingiusto condannare questa bambina solo perché non è
nata nella casta dei bramini?».
«Certo che lo è».
«Quindi è anche ingiusto condannarla perché non è nata ebrea».
«Che intendi dire?».
«Un uomo che nasce gentile, o pagano, può non vedere il Regno di Dio. E
noi, come ebrei, siamo diversi da loro? Pensa agli agnelli al tempio, durante la
celebrazione della Pasqua. E alla ricchezza dei sadducei, quando c’è gente che
muore di fame. Se non altro, alla fine gli intoccabili possono avere la loro
ricompensa, attraverso il karma e la rinascita. Noi ai gentili non la
concediamo».
«Non puoi paragonare quello che fanno alla legge di Dio. Noi non
facciamo sacrifici umani. Sfamiamo i nostri poveri e curiamo gli ammalati».
«A meno che non siano immondi».
«Ma, Gesù, noi siamo il popolo eletto. È la volontà di Dio».
«Ma è davvero giusto? Lui non mi dice che cosa fare. Quindi parlo io. E io
dico basta».
«Non ti riferisci solo al fatto di mangiare la pancetta affumicata, vero?».
«Gautama il Buddha diede modo alle persone di ogni estrazione di trovare
la mano di Dio. Senza sacrifici cruenti. Da troppo tempo le nostre porte sono
marchiate con il sangue, Biff».
«Quindi è questo che stai pensando di fare? Vuoi portare Dio a tutti?».
«Sì. Ma dopo aver schiacciato un pisolino».
«Sicuro, era proprio quello che volevo dire».
Teneva la piccola in modo tale che potessi guardarle il viso, mentre
dormiva sulla sua spalla.

Quando i bambini si svegliarono li riportammo alle loro famiglie. Li
consegnammo alle madri, che ce li strapparono dalle mani come se fossimo
demoni incarnati; ci guardarono torve, mentre li portavano nelle loro fosse.
«Bella riconoscenza» dissi.
«Temono che il nostro gesto abbia fatto infuriare Kali. E adesso ogni
famiglia avrà una bocca in più da sfamare».
«Già. Ma perché ci hanno aiutati se non rivolevano i loro figli?».
«Perché abbiamo detto loro che cosa fare. È così che funziona, per loro.
Fanno quello che gli viene detto. Ed è così che i bramini li tengono sotto
controllo. Se obbediscono, forse non rimarranno intoccabili nella vita
successiva».
«Deprimente».
Gesù annuì. Restava da restituire solo la piccola Vitra, ed ero sicuro che
Rumi sarebbe stato felice di rivedere la figlia. In fondo, era stata la sua perdita
il motivo che l’aveva spinto a salvarci. Quando arrivammo all’altura di
arenaria, notammo che il paria non era solo nella sua fossa.
Era seduto sulla sua roccia, nudo come un verme, e si stava cospargendo di
sale il membro eretto, mentre una grossa vacca gobba - che occupava quasi
interamente il resto della fossa - glielo leccava via. Gesù girò la bimba per
impedirle di assistere a quello spettacolo, e indietreggiò come se non volesse
disturbare quel momento d’intimità bovina.
«Una vacca, Rumi?» esclamai. «Pensavo che la tua gente avesse un
credo».
«Non è una vacca, ma un toro» disse Gesù.
«Oh, qui da voi dev’essere uno straordinario esempio di abominio. Dal
posto da cui veniamo, Rumi, città intere sono state distrutte per questo genere
di comportamento». Allungai una mano a coprire gli occhi della piccola Vitra.
«Stai lontana da papino, tesoro, o ti trasformerai in una statua di sale».
«Ma è la reincarnazione di mia moglie».
«Oh, non provarci con me. Ho vissuto sei anni in un monastero buddhista,
dove l’unica compagnia femminile era uno yak selvatico. So cosa significa
essere disperati».
Gesù mi prese per un braccio. «Dimmi che non l’hai fatto».
«Rilassati, sto solo chiarendo il concetto. Sei tu il Messia, Gesù. Che cosa
pensi?».
«Che dobbiamo andare a Tamil e trovare il terzo mago». Posò a terra Vitra,
e Rumi si affrettò a tirare su il perizoma quando la bimba gli corse incontro.
«Vai con Dio, amico».
«Che Shiva vegli su di voi, eretici. Grazie per avermi riportato mia figlia».

Raccogliemmo vestiti e sacche, comprammo un po’ di riso al mercato e ci
mettemmo in marcia per Tamil. Seguimmo il Gange verso sud fino a
raggiungere il mare, dove ci lavammo per toglierci di dosso il sangue di Kali.
Ci sedemmo sulla spiaggia lasciando che il sole ci asciugasse la pelle,
mentre cercavamo di togliere la pece dai peli del petto.
«Sai, Gesù» dissi, mentre lottavo con un grumo particolarmente ostinato
che mi era rimasto attaccato sotto l’ascella, «è stato toccante vederti condurre
quei bimbi fuori dalla piazza del tempio… erano così piccoli e fragili…
eppure non avevano paura».
«Già. Io amo tutti i bambini del mondo, lo sai?».
«Sul serio?».
Annuì. «Verdi, gialli, neri e bianchi».
«Buono a sapersi… Aspetta un momento: verdi?».
«No, verdi no. Ti stavo solo prendendo in giro».
22

Tamil, come poi scoprimmo, non era una cittadina nel sud dell’India, bensì
l’intera penisola meridionale, un’area grande cinque volte Israele. Cercare
Melchiorre, quindi, era come entrare a Gerusalemme e chiedere se qualcuno
avesse visto un ebreo. Fortunatamente sapevamo qual era la sua professione,
un sant’uomo ascetico che viveva in semisolitudine da qualche parte lungo la
costa; inoltre, come il fratello Gaspare, era figlio di un principe. Trovammo
centinaia di sant’uomini, o yogi, molti dei quali vivevano in completa
austerità nelle caverne o nella foresta; quasi tutti, poi, erano in grado di
contorcere i propri corpi fino ad assumere posizioni impossibili. Il primo che
vidi viveva sotto una tettoia, lungo il pendio di una collina affacciata su un
piccolo villaggio di pescatori. Teneva i piedi incastrati dietro le spalle, e la
testa sembrava spuntare dalla parte sbagliata del tronco.
«Gesù, guarda! Quel tipo sta cercando di leccarsi le palle! Proprio come
Bartolomeo, l’idiota del villaggio. Questa è la mia gente, amico. Ho trovato la
mia casa».
Be’, non era proprio così. Quel tizio stava semplicemente mettendo in atto
una specie di disciplina spirituale (è questo che significa il termine “yoga” in
sanscrito: disciplina) e non mi avrebbe fatto da maestro perché le mie
intenzioni non erano pure. Inoltre, non era Melchiorre. Impiegammo sei mesi
e gli ultimi nostri averi - e compimmo entrambi venticinque anni - prima di
trovarlo sdraiato in una bassa nicchia scavata in una scogliera sull’oceano. I
gabbiani avevano fatto il nido ai suoi piedi.
Era la versione più pelosa del fratello, di costituzione snella, sulla
sessantina, e portava sulla fronte il marchio della casta d’appartenenza.
Barba e capelli erano lunghi e canuti, screziati da qualche striscia nera, e
gli occhi erano così scuri e profondi che la parte bianca sembrava
completamente cancellata. Indossava solo un perizoma ed era magro come gli
intoccabili che avevamo incontrato a Kalighat.
Io e Gesù ci aggrappammo alla parete di roccia mentre il guru scioglieva il
nodo umano che aveva creato con il proprio corpo. Fu un’operazione lenta, e
noi fingemmo di guardare i gabbiani e goderci il panorama per non metterlo
in imbarazzo mostrandoci impazienti. Quando ebbe finalmente raggiunto una
posizione che non sembrava provocata dall’impatto con un carro trainato da
buoi, Gesù gli disse: «Veniamo da Israele. Siamo stati sei anni al monastero di
tuo fratello Gaspare. Io sono…».
«Lo so chi sei» fece Melchiorre. Aveva una voce melodiosa, e ogni frase
sembrava il verso di una poesia. «Ho riconosciuto in te il bambino di
Betlemme».
«Davvero?».
«La personalità di un uomo è immutabile, solo il suo corpo cambia. Ti ho
visto crescere fin da quando eri in fasce».
«Sì, è successo un po’ di tempo fa».
«Non dormi più in quella mangiatoia?».
«No».
«Ogni tanto penso che mi piacerebbe una bella mangiatoia con un po’ di
paglia, e magari una coperta. Non che abbia bisogno di questi lussi, come non
ne ha bisogno chi segue la via dello spirito. Pure…».
«Sono venuto a imparare da te. Devo diventare un bodhisattva per il mio
popolo, e non sono certo di saperlo fare».
«Lui è il Messia» intervenni, cercando di rendermi utile. «Hai presente? Il
Messia. Il Figlio di Dio».
«Già il Figlio di Dio» ripetè il mio amico.
«Già».
«Già».
«Allora che cos’hai per noi?» chiesi.
«E tu chi sei?» domandò a me.
«Biff».
«È un amico» rispose Gesù.
«Sì, sono un amico».
«E che cosa cerchi?».
«In effetti, vorrei non stare aggrappato a questa scogliera ancora a lungo,
mi si stanno intorpidendo le dita».
«Già» disse Gesù.
«Già».
«Trovatevi un paio di nicchie nella scogliera. Ce ne sono diverse vuote. Gli
yogi Ramata e Mahara sono passati da poco alla rinascita successiva».
«Se sapessi dirci dove trovare un po’ di cibo, te ne saremmo grati» disse
Gesù. «È passato parecchio tempo dall’ultima volta che abbiamo mangiato. E
non abbiamo soldi».
«È ora della prima lezione, giovane Messia. Ho fame anche io. Portami un
chicco di riso».

Ci arrampicammo sulla scogliera fino a trovare due nicchie - in effetti due
grotte in miniatura - vicine e non troppo alte rispetto alla spiaggia, così da non
rischiare di ucciderci se fossimo caduti. Erano state scavate con lo scalpello
nella roccia solida, ed erano larghe abbastanza da permetterti di stare disteso,
alte abbastanza da consentirti di stare seduto e profonde abbastanza da
ripararti dalla pioggia quando cadeva perpendicolarmente. Una volta che ci
fummo sistemati, rovistai nella mia sacca e trovai tre vecchi chicchi di riso
che erano andati a infilarsi in una cucitura. Li misi nella scodella, che tenni
con i denti mentre tornavo verso la nicchia di Melchiorre.
«Non ho chiesto una scodella» disse lui. Gesù era già lì, seduto accanto
allo yogi, con i piedi che penzolavano dal bordo. Aveva un gabbiano in
grembo.
«La presentazione fa metà del pasto» risposi, citando una frase di Gioia.
Melchiorre annusò i chicchi, poi ne prese uno e lo tenne tra i polpastrelli
ossuti.
«È crudo».
«Sì».
«Non possiamo mangiarlo crudo».
«Be’, te l’avrei servito bello fumante con un granello di sale e una
molecola di cipolla verde, se avessi saputo che lo gradivi così». (Sì, all’epoca
avevamo le molecole. Dateci un taglio, okay?)
«D’accordo, dovrò farmelo andare bene». Il sant’uomo si mise la scodella
in grembo e chiuse gli occhi. Il suo respiro si fece più lento, e dopo un attimo
sembrò interrompersi del tutto.
Io e Gesù aspettammo. E ci guardammo. Melchiorre non si muoveva. Il
petto scheletrico non si sollevava con la respirazione. Io ero stanco e
affamato, ma aspettai. E il sant’uomo rimase così per quasi un’ora.
Ripensando alle nicchie liberatesi di recente, ero un po’ preoccupato che fosse
rimasto vittima di qualche violenta epidemia ammazza-yogi.
«È morto?» chiesi a Gesù.
«Non saprei».
«Prova a pungolarlo».
«No, è il mio maestro, un sant’uomo. Non posso farlo».
«È un intoccabile».
Gesù non riuscì a resistere all’ironia palpabile della situazione e lo
pungolò. Lo yogi sollevò le palpebre all’istante, indicò il mare e gridò:
«Guardate, un gabbiano!».
Guardammo. Quando ci girammo di nuovo, Melchiorre aveva in mano una
scodella piena di riso. «Prendete, andate a cucinarlo».
E così ebbe inizio l’addestramento di Gesù per trovare quella che lo yogi
chiamava “la Divina Scintilla”. Con me era severo, ma con il mio amico
dimostrava di avere una pazienza infinita, e in breve apparve evidente che i
miei tentativi di partecipazione stavano ostacolando il suo avanzamento. Così,
giunti alla terza mattina sulla scogliera, feci una lunga e silenziosa scoreggia
(c’è forse qualcosa di più appagante che scoreggiare da quell’altezza?), scesi
sulla spiaggia e mi diressi verso la città più vicina per trovarmi un lavoro.
Anche se Melchiorre poteva preparare un pasto con tre granelli di riso, avevo
esaurito tutti i chicchi rimasti sul fondo delle nostre sacche. Forse lo yogi era
in grado di contorcersi fino a leccarsi le palle, ma non mi sembrava che tale
attività avesse un elevato potere nutritivo.
La città si chiamava Nicobar, ed era grande due volte Zippori. Ci abitavano
più o meno ventimila persone, molte delle quali vivevano grazie al mare,
lavorando come pescatori, mercanti o costruttori di navi. Avevo fatto
domanda solo in pochi posti, quando mi resi conto che per una volta non
erano le mie scarse abilità a impedirmi di guadagnarmi da vivere: la colpa era
del sistema delle caste che s’insinuava in profondità nella vita sociale, molto
più di quanto mi avesse raccontato Rumi. Le sottocaste delle quattro
principali stabilivano che se eri nato scalpellino i tuoi figli sarebbero stati
scalpellini, e i tuoi nipoti dopo di loro: la tua nascita ti impediva di svolgere
qualunque altra attività, indipendentemente dalla tua bravura.
Apparentemente, l’unica abilità per cui non era richiesta l’appartenenza a una
casta era quella dell’idiota del villaggio, ma gli indù sembravano affidare tale
ruolo ai sant’uomini più eccentrici, pertanto non c’erano sbocchi per il
sottoscritto. Avevo la mia scodella e potevo contare sulla mia esperienza di
mendicante per il monastero, così provai a chiedere l’elemosina, ma ogni
volta che trovavo un bell’angolo saltava fuori un cieco con una gamba sola
che mi rubava l’azione. Verso sera avevo rimediato solo una monetina di
rame, e il sovrintendente della gilda dei mendicanti venne ad avvertirmi che,
se mi avesse sorpreso ancora a mendicare a Nicobar, avrebbe fatto in modo
che fossi ammesso alla corporazione mediante l’asportazione immediata di
braccia e gambe.
Comprai una manciata di riso al mercato e mi avviai furtivamente verso i
confini della città, con la scodella tesa davanti a me e il capo chino, come un
bravo monaco, quando vidi cinque delicatissime dita dipinte di rosso
vermiglio, seguite da un piedino raffinato e da un’elegante caviglia circondata
da braccialetti di rame; quindi spuntò un polpaccio invitante decorato da
disegni all’henné intricati come pizzo, e da lì la cucitura di una gonna vivace
mi guidò fino a un ombelico ingioiellato, a due seni pieni fermati da seta
gialla, a due labbra simili a prugne, a un naso lungo e diritto come quello di
una statua romana e a due occhioni castani dipinti di blu e truccati in modo da
somigliare a quelli di una tigre. Quegli occhi mi bevvero avidamente.
«Tu non sei di qui» disse. Un lungo dito mi toccò il petto facendomi
fermare all’istante. Cercai di nascondere la scodella nella veste e con
un’incredibile dimostrazione di destrezza mi rovesciai addosso tutti i chicchi.
«Vengo dalla Galilea. Israele».
«Mai sentita nominare. È lontana?». Infilò una mano nella mia veste e
cominciò a far scorrere le dita lungo i muscoli dello stomaco, prendendo i
chicchi che si erano infilati nella fusciacca e depositandoli uno alla volta nella
scodella.
«Molto lontana. Sono venuto qui con un amico per ottenere la sacra e
antica conoscenza, quel genere di roba».
«Come ti chiami?».
«Biff… O Levi detto Biff. È un’espressione che usiamo molto in Israele».
«Seguimi, Biff, ti mostrerò una sacra e antica conoscenza». Mi agganciò
infilando un dito nella fusciacca e varcò una porta lì vicino: per qualche
motivo era assolutamente sicura che l’avrei seguita.
All’interno, in mezzo a pile di cuscini colorati sparsi sui pavimenti e a
tappeti spessi come non ne vedevo dagli anni trascorsi nella fortezza di
Baldassarre, c’era un leggio di legno di canfora intagliato, su cui era posto un
grosso manoscritto aperto. Era rilegato in ottone filigranato con rame e
argento, e le pagine erano state realizzate con la pergamena più fine che
avessi mai visto.
La donna mi spinse verso di esso e mi tenne una mano sulla schiena
mentre guardavo la pagina aperta. Il testo scritto a mano era dorato e ornato a
tal punto che riuscivo a stento a distinguere le parole: non che m’importasse
particolarmente, visto che fu l’illustrazione a catturare la mia attenzione. Un
uomo e una donna nudi, perfetti. Lui la teneva a faccia in giù su un tappeto,
con i piedi agganciati alle sue spalle, e le bloccava le braccia dietro la schiena
mentre la penetrava. Cercai di fare appello alla disciplina e all’addestramento
buddhisti per non imbarazzarmi di fronte a quella sconosciuta.
«Sacra e antica conoscenza» disse. «Questo libro è il dono di un patrono.
Si chiama Kama Sutra. Il Filo del Desiderio».
«Il Buddha dice che il desiderio è la fonte di tutte le sofferenze»
commentai, sentendomi il maestro di kung fu che sapevo di essere.
«Ti sembra che stiano soffrendo?».
«No». Cominciai a tremare. Da troppo tempo non mi trovavo in
compagnia di una donna. Decisamente troppo.
«Vorresti provare quel tipo di sofferenza? Con me?».
«Sì». Tutto l’addestramento, tutta la disciplina, tutto il controllo se ne
andarono in una parola.
«Hai venti rupie?».
«No».
«Allora soffri» disse e si allontanò.
«Vedi, te l’avevo detto».
Poi si avviò verso la porta, lasciandosi dietro una scia di profumo di legno
di sandalo e rose; i suoi fianchi ondeggiavano per dirmi addio mentre
attraversava la stanza, e i braccialetti ai polsi e alle caviglie tintinnavano come
minuscole campanelle del tempio che m’invitavano a recarmi in venerazione
nella sua grotta. Giunta alla porta incurvò un dito per dirmi di seguirla, e io
obbedii.
«Io mi chiamo Kashmir» disse. «Torna a trovarmi. T’insegnerò l’antica e
sacra conoscenza. Una pagina alla volta. Venti rupie ciascuna».
Presi i miei stupidi, patetici e inutili chicchi di riso e tornai dai miei due
volte stupidi, santi e inutili amici maschi alla scogliera.

«Ho portato del riso» dissi a Gesù una volta tornato nella mia nicchia.
«Melchiorre può fare il suo giochetto del riso, così ne avremo abbastanza per
cena».
Il mio amico era seduto su una sporgenza all’interno del suo rifugio, le
gambe piegate nella posizione del loto, le mani a formare il mudra del
Buddha compassionevole. «Melchiorre mi sta insegnando la via che conduce
alla Divina Scintilla» mi disse. «Prima devi calmare la mente. Per questo
occorrono una notevole disciplina fisica e attenzione al proprio respiro: devi
avere un controllo tale da vedere al di là dell’illusione del tuo corpo».
«E che cosa c’è di diverso da quello che facevamo al monastero?».
«È una differenza sottile, ma c’è. Là la mente cavalcava l’onda dell’azione,
e potevi meditare mentre stavi in equilibrio sui pali, mentre scagliavi frecce o
combattevi. Non c’erano obiettivi perché non potevi stare che in quel
momento. Qui lo scopo è vedere oltre il momento: vedere l’anima. Credo di
cominciare a intravederla. Sto imparando le posizioni. Melchiorre dice che
uno yogi esperto può far passare il suo intero corpo attraverso un cerchio
grande quanto la sua testa».
«Ma è grandioso, Gesù. Utile. Ora, lascia che ti racconti di questa donna
che ho incontrato». Saltai sulla sporgenza e cominciai a dirgli della mia
giornata, della donna, del Kama Sutra. E aggiunsi che, a parer mio, quello era
il genere di antica conoscenza spirituale di cui un giovane Messia poteva aver
bisogno.
«Si chiama Kashmir, che significa morbida e costosa».
«Ma è una prostituta, Biff».
«Le prostitute non ti infastidivano quando mi chiedesti di aiutarti a
conoscere il sesso».
«E continuano a non infastidirmi. Solo che non hai denaro».
«Ho l’impressione di piacerle. Forse verrà con me pro bono, se capisci che
cosa intendo». Gli diedi una gomitata nelle costole e ammiccai.
«Intendi dire “per il bene pubblico”. Stai dimenticando il tuo latino? “Pro
bono” significa “per il bene pubblico”».
«Oh. Credevo significasse qualcos’altro. Non verrà con me per quello».
«No, probabilmente no».

E così il giorno dopo, come prima cosa, tornai a Nicobar determinato a
trovarmi un lavoro, ma prima di mezzogiorno ero seduto in strada accanto a
un piccolo mendicante cieco e senza gambe. In giro era pieno di mercanti che
contrattavano, concludevano affari, scambiavano contanti con merci e servizi,
e il ragazzino stava racimolando un bel gruzzolo grazie alle elemosine dei
passanti. Ero sbalordito davanti alla cifra ammassata nella sua scodella;
doveva essere sufficiente per ben tre pagine del Kama Sutra. Non che
pensassi di rubare a un cieco.
«Ascolta, Scheggia, hai l’aria stanca. Vuoi che ti tenga d’occhio la scodella
mentre ti prendi una pausa?».
«Togli quella manaccia!». Mi afferrò il polso (con un’agilità simile alla
mia, il maestro di kung fu). Fu molto rapido. «So cosa vuoi fare».
«Okay, allora che ne dici se ti mostro qualche trucco magico? Qualche
gioco di destrezza da fare con le mani?».
«Oh, sarebbe davvero divertente, considerato che sono cieco».
«Be’, usa l’immaginazione».
«Se non te ne vai chiamo il sovrintendente della gilda».
E così me ne andai, scoraggiato, sconfitto e senza nemmeno i soldi per
guardare il margine di una pagina del Kama Sutra. Tornai furtivamente alla
scogliera, mi arrampicai fino alla mia nicchia e decisi di consolarmi con un
po’ di riso freddo avanzato dalla cena della sera prima. Aprii la sacca e…
«Ahhh!». Feci un balzo all’indietro. «Gesù, ma che ci fai lì dentro?».
Eccolo lì: il viso beato del vecchio Gesù che spuntava in mezzo alle piante dei
suoi piedi, simili a due grandi orecchie. Vidi qualche vertebra, una mano, la
mia fialetta- amuleto ying-yang e un vaso di mirra.
«Esci subito di lì. Come ti ci sei infilato?».
Vi ho già parlato delle nostre sacche. I greci le chiamavano bisacce, e
suppongo che voi le chiamereste sacche da viaggio. Erano di pelle e avevano
un lungo cordino con cui appenderle alla spalla. Se me l’aveste chiesto prima,
vi avrei detto che potevano contenere un essere umano… ma non tutto intero.
«Me l’ha insegnato Melchiorre. Mi ci è voluta tutta la mattinata. Pensavo
di farti una sorpresa».
«E ci sei riuscito. Riesci a uscire?».
«Non penso. Credo di essermi lussato le anche».
«Okay. Dov’è il mio pugnale di vetro nero?».
«In fondo alla sacca».
«Perché sapevo che mi avresti risposto così?».
«Se mi tiri fuori, ti faccio vedere cos’altro ho imparato. Melchiorre mi ha
insegnato a moltiplicare il riso».
Qualche minuto dopo, io e Gesù eravamo seduti sulla sporgenza di roccia
nella mia nicchia, bombardata dai gabbiani attirati dall’enorme mucchio di
riso cotto che stava in mezzo a noi due.
«È la cosa più straordinaria che abbia mai visto». A parte il fatto che non
riuscivo a vederlo davvero. Un attimo prima avevi davanti una manciata di
riso, e quello dopo ne appariva una valanga.
«Melchiorre dice che di solito uno yogi impiega molto più tempo per
imparare a manipolare cose del genere».
«Molto più tempo? E quanto?».
«Trenta, quarant’anni. Il più delle volte muoiono prima ancora di averlo
imparato».
«Quindi, è un po’ come la capacità di guarire. Fa parte della tua, ehm,
eredità?».
«Non ha nulla a che vedere con le guarigioni, Biff. Questo si può imparare
con il tempo».
Lanciai una manciata di riso in aria per i gabbiani. «Ti dirò una cosa. E
evidente che non piaccio a Melchiorre, quindi non intende insegnarmi niente.
Scambiamoci qualche conoscenza».

Portavo il riso a Gesù, glielo facevo moltiplicare e poi vendevo il surplus
al mercato. Alla fine cominciai a vendere il pesce, perché riuscivo a mettere
insieme venti rupie più rapidamente. Prima, però, portai Gesù in città con me.
Andammo al mercato, che era pieno di uomini che contrattavano,
concludevano affari, scambiavano contanti con merci e servizi. Da un lato
c’era un mendicante cieco e senza gambe, che stava racimolando un bel
gruzzolo grazie alle elemosine dei passanti.
«Scheggia, vorrei presentarti il mio amico Gesù».
«Io non mi chiamo Scheggia» disse il ragazzo.
Mezz’ora dopo aveva recuperato la vista, e le sue gambe mozze si erano
miracolosamente rigenerate.
«Brutti bastardi!» ci disse, mentre correva via sui suoi piedi nuovi, rosei e
puliti.
«Vai con Dio».
«Adesso vedremo quant’è facile guadagnarsi da vivere!» gli gridai dietro.
«Non mi è sembrato molto contento» osservò il mio amico.
«Sta solo imparando a esprimersi. Dimenticalo, ci sono altri che soffrono».
E così Gesù di Nazaret camminò in mezzo a loro guarendoli e distribuendo
miracoli, e tutti i bambini ciechi di Nicobar tornarono a vedere, mentre gli
storpi si alzarono e cominciarono a camminare.
Quei piccoli stronzi.

Ebbe così inizio lo scambio di conoscenze: quello che imparavo da
Kashmir e dalle pagine del Kama Sutra in cambio di ciò che Gesù stava
apprendendo da quel sant’uomo di Melchiorre. Ogni mattina, prima di andare
in città - e prima che lui andasse dal suo guru - ci incontravamo sulla spiaggia
e condividevamo le nostre idee e la colazione. Di solito arrostivamo sul fuoco
un po’ di riso e del pesce fresco. A parer nostro, eravamo rimasti fin troppo
tempo senza mangiare carne animale, nonostante ciò che Melchiorre e
Gaspare avevano cercato di insegnarci.
«Questa capacità di moltiplicare il cibo… immagina quello che potremmo
fare per il popolo d’Israele, per il mondo».
«Sì, Gesù. Perché sta scritto: “Dai a un uomo un pesce e lui mangerà per
un giorno; insegnagli a essere un pesce e sfamerà i suoi amici per una
settimana”».
«Non è scritto da nessuna parte. Dove l’avresti letto?».
«Anfibi, capitolo 5, versetto 7».
«Non esiste nessun dannato libro con quel nome, nella Bibbia».
«La piaga delle rane. Ah! Te l’ho fatta!».
«Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ti sei preso una bella
bastonata?».
«Ti prego. Non puoi picchiare nessuno, devi essere in pace con il creato
per trovare Favilla lo Spirito Meraviglioso».
«Si chiama Divina Scintilla».
«Qualunque cosa… ahi. Oh, grandioso. E io che cosa dovrei fare, colpire a
mia volta il Messia?».
«Porgere l’altra guancia. Avanti, girati».

Come ho detto, così ebbe inizio l’illuminato scambio di sacri e antichi
insegnamenti:

Dice il Kama Sutra:
Quando una donna fa girare le sue piccole dita dei piedi tra i peli
dell’ascella dell’uomo, e l’uomo salta su un piede mentre sostiene la donna
con il fallo e una zangola con la mano, si ottiene la posizione del
“Rinoceronte che tiene in equilibrio una ciambella di gelatina”.

«Che cos’è una ciambella di gelatina?» volle sapere Gesù. «Non lo so. È
un’espressione vedica che si è persa nell’antichità, ma si dice che fosse
importante per i custodi della legge».
«Oh».

Dice la Katha Upanishad:
Al di là dei sensi ci sono gli oggetti,
al di là degli oggetti c’è la mente.
Al di là della mente c’è la ragion pura,
e al di là della ragione c’è lo spirito umano.

«Che cosa vorrebbe dire?».
«Devi rifletterci su, ma significa che c’è qualcosa di eterno in ciascuno di
noi».
«Magnifico. Che mi dici di quei tizi sul letto di chiodi?». «Uno yogi deve
lasciare il proprio corpo se vuole sperimentare il mondo spirituale».
«E lo lascia attraverso quei forellini sulla schiena?». «Ricominciamo».

Dice il Kama Sutra:
Quando un uomo applica della cera di carnauba alla vulva di una donna e
la lucida con una garza o con un panno di papiro fino a renderla uno specchio,
si dice che “Prepara la mangusta alla permuta”.

«Senti questa. Lei mi vende dei pezzi di cartapecora e ogni volta, dopo che
abbiamo finito, mi permette di copiare i disegni. Voglio rilegarli tutti insieme
e creare il mio album personale».
«Tu hai fatto quello che vedo in quest’immagine? Sembra doloroso».
«E questo lo dice un ragazzo che ieri ho dovuto tirar fuori da un’anfora di
vino con un martello».
«Non sarebbe successo se mi fossi ricordato di cospargermi le spalle di
grasso, come mi ha insegnato Melchiorre». Girò il disegno per guardarlo da
un’angolazione diversa. «Sei sicuro che non sia doloroso?».
«No, se tieni il culo lontano dai bruciatori d’incenso».
«Parlo di lei».
«Oh. Be’, come faccio a saperlo? Glielo chiederò».

Dice la Bhagavad Gita:
Io sono imparziale con tutte le creature,
non detesto e non amo nessuno.
Ma gli uomini che mi sono devoti sono in me,
e io sono in loro.

«Che cos’è la Bhagavad Gita?».
«È una specie di lungo poema in cui il dio Krishna dà consigli al guerriero
Arjuna mentre guida il suo carro in battaglia».
«Davvero? E che cosa gli dice?».
«Di non sentirsi in colpa se uccide il nemico, perché essenzialmente è già
morto».
«Sai che cosa gli consiglierei io, se fossi un dio? Di far guidare il suo
fottuto carro a qualcun altro. Mai e poi mai il vero Dio si farebbe sorprendere
in quella situazione».
«Be’, devi prenderla come una parabola, altrimenti trasuda false divinità».
«Il nostro popolo non ha avuto fortuna con le false divinità, Gesù.
Vengono considerate… male, ecco. Quando ci mettiamo con loro, finiamo
uccisi o ridotti in schiavitù».
«Starò attento».

Dice il Kama Sutra:
Quando una donna si appoggia al tavolo e inala i vapori del tè
all’eucalipto, mentre fa i gargarismi con un miscuglio di limone, acqua e
miele, e l’uomo la prende per le orecchie e la penetra da dietro mentre
attraverso la finestra guarda la ragazza dall’altra parte della strada che stende
il bucato ad asciugare, ottieni la posizione della “Tigre distratta che mena
fendenti a una palla di pelo”.

«Questo non l’ho trovato nel libro, quindi me l’ha dettato lei a memoria».
«Kashmir è davvero erudita».
«Aveva il raffreddore, ma ha accettato comunque di farmi lezione. Credo si
stia innamorando di me».
«Come non potrebbe con un tipo così affascinante?». «Grazie, Gesù». «Di
nulla, Biff».
«Okay, adesso dimmi della tua lezioncina di yoga».

Dice la Bhagavad Gita:
Come il vento che soffia su un ampio fronte
è sempre presente nello spazio,
così tutte le creature esistono in me.
Riconoscete questa verità!

«È il genere di consiglio che daresti a qualcuno che sta per entrare in
battaglia? Non pensi che Krishna dovrebbe dire qualcosa del tipo: “Attento,
una freccia! Abbassati!”?».
«Già» fece lui con un sospiro.

Dice il Kama Sutra:
La posizione della “Scimmia rampante che raccoglie noci di cocco” si
raggiunge quando la donna aggancia le narici dell’uomo con le dita e muove
magicamente i fianchi, mentre lui - che le accarezza deciso l’ugola con i
pollici - fa oscillare il fallo intorno alla vulva in direzione contraria rispetto a
quella del vortice dell’acqua che scende in un tubo di scarico. (Qualcuno ha
osservato che tale vortice cambia a seconda dei luoghi. La questione resta un
mistero, ma a occhio dovreste andare nella direzione opposta rispetto al
vostro scarico personale.)

«I tuoi disegni stanno migliorando. Nel primo mi sembrava che lei avesse
la coda».
«Sto applicando le tecniche di calligrafia che abbiamo imparato al
monastero, solo che le uso per disegnare. Gesù, sei sicuro che non ti disturbi
parlare di cose che non avrai mai il permesso di fare?».
«No, è interessante. A te non disturbano i nostri discorsi sul paradiso,
no?».
«Dovrebbero?».
«Guarda, un gabbiano!».

Dice la Katha Upanishad:
Per chi l’ha conosciuto,
splende la luce della verità.
Il buio attende chi non l’ha conosciuto.
Il saggio che l’ha visto in ogni essere lasciando questa vita ottiene la vita
immortale.

«È questo che stai cercando? La Divina Scintilla?».
«Non è per me, Biff».
«Gesù, non sono un sacco di sabbia. Non ho passato tutta la mia vita a
studiare e a meditare senza intravedere l’eterno».
«Buono a sapersi».
«Naturalmente aiutano anche le apparizioni degli angeli, i miracoli e roba
simile».
«Be’, suppongo di sì».
«Ma non è una cosa negativa. Possiamo usarla quando torneremo a casa».
«Non hai la minima idea di quello di cui parlo, eh?».
«Zero».

Il nostro addestramento andò avanti due anni, quando finalmente vidi il
segnale che ci chiamava a casa. La vita scorreva lenta ma piacevole, in riva al
mare. Gesù divenne sempre più bravo nella moltiplicazione del cibo e, anche
se lui insisteva nel condurre un’esistenza austera per rimanere staccato dal
mondo materiale, io riuscii a fare un po’ di soldi. Oltre a pagare le mie lezioni,
fui in grado di decorare la mia nicchia (con disegni erotici, tende e cuscini di
seta) e di comprare qualche oggetto personale come una nuova sacca, una
pietra da inchiostro, un set di pennelli e un’elefantessa.
La chiamai Vana, che in sanscrito significa “vento”; e anche se è indubbio
che si fosse meritata quel nome, mi duole ammettere che non fu per la sua
fiammante velocità. Sfamarla non era un problema, dato che Gesù sapeva
trasformare una manciata d’erba in una fattoria piena di foraggio, ma per
quanto il mio amico si sforzasse di insegnarle un po’ di yoga, lei però non
riusciva a infilarsi nella mia nicchia. (Lo consolai dicendogli che
probabilmente era la scalata a scoraggiarla, e non il suo fallimento come guru
dello yoga. «Avesse le dita, adesso starebbe rannicchiata qui con me e con i
gabbiani».) A Vana non piaceva stare sulla spiaggia quando arrivava l’alta
marea, che le faceva entrare la sabbia nelle unghie delle zampe, così viveva in
un pascolo appena sopra la scogliera. Però adorava nuotare e qualche volta,
anziché cavalcarla lungo la spiaggia fino a Nicobar, la facevo nuotare nel
porto appena sotto la superficie dell’acqua, con la sola proboscide che
spuntava e il sottoscritto seduto sulla fronte. «Guarda, Kashmir, sto
camminando sull’acqua! Sto camminando sull’acqua!».
E la mia principessa dell’erotismo era così ansiosa di condividere il mio
abbraccio che, anziché meravigliarsi davanti a quello spettacolo come i suoi
concittadini, rispondeva soltanto: «Parcheggia l’elefante sul retro». (Le prime
volte pensai che si riferisse a una posizione del Kama Sutra che avevamo
saltato, magari perché le pagine si erano incollate, ma scoprii che non era
così.)
Kashmir e io diventammo piuttosto uniti, con il progredire dei miei studi.
Dopo aver passato in rassegna tutte le posizioni del Kama Sutra due volte, mi
portò al livello successivo introducendo la disciplina tantrica nei nostri
incontri amorosi. Divenimmo talmente abili nell’arte meditativa
dell’accoppiamento che, anche nel pieno della passione, lei riusciva a lucidare
i suoi gioielli, a contare i soldi, o persino a sciacquare qualche prelibatezza da
mangiare. Io stesso ero diventato un tale maestro nella disciplina
dell’eiaculazione controllata che spesso venivo quando ero a metà del tragitto
verso casa.
Stavo appunto tornando da un appuntamento con Kashmir - io e Vana
avevamo tagliato per il mercato affinché gli ex mendicanti miei amici
vedessero quale poteva essere la ricompensa possibile per degli uomini di
carattere e disciplina (tradotto: io avevo un elefante, loro no) - quando sulla
parete di un tempio di Vishnu vidi una macchia d’acqua sporca, causata dalla
condensa, dalla muffa e dalla polvere sollevata dal vento, che riproduceva il
volto della madre del mio migliore amico, Maria.

«Sì, lo fa» disse Gesù, quando mi misi a dondolare sul margine della sua
nicchia per dargli la notizia. Lui e Melchiorre avevano meditato, e come al
solito il vecchio sembrava morto. «Lo faceva di continuo quando eravamo
ragazzini. Mandava me e Giacomo a lavare tutti i muri, prima che qualcuno se
ne accorgesse. A volte il suo viso appariva in un disegno di gocce d’acqua
nella polvere; oppure veniva ricreato dalle bucce d’uva che uscivano dalla
pressa. Di solito succedeva sulle pareti».
«Non me l’hai mai detto».
«Non potevo. Visto il modo in cui la idolatravi, avresti trasformato le sue
immagini in altari».
«Quindi lei appariva nuda?».
Melchiorre si schiarì la gola e ci voltammo entrambi a guardarlo. «Gesù,
questo è un messaggio di tua madre, o di Dio. Non importa chi l’abbia
mandato, il significato è il medesimo: per te è giunto il momento di tornare a
casa».

Saremmo partiti l’indomani mattina, verso nord. Nicobar si trovava a sud,
perciò lasciai Gesù a caricare le nostre cose su Vana mentre io andavo in città
per dare la notizia a Kashmir.
«Oh, cielo» disse «tutta quella strada fino in Galilea. Avete denaro per il
viaggio?».
«Un po’».
«Ma non ne hai qui con te?».
«No».
«Be’, okay. Allora addio».
Avrei potuto giurare di aver visto una lacrima, mentre chiudeva la porta.

L’indomani, dopo aver sistemato su Vana i miei disegni e i miei pennelli, i
miei cuscini, le tende e i tappeti, la mia caffettiera d’ottone, la mia palla per il
tè e il mio bruciatore d’incenso, la mia coppia di manguste da riproduzione
con la loro gabbia di bambù, il mio set di tamburi e il mio ombrello, la mia
veste di seta, il mio cappello da sole e quello da pioggia, la mia collezione di
statuette erotiche e, infine, la scodella di Gesù, ci radunammo sulla spiaggia
per i saluti. Melchiorre era di fronte a noi con il suo perizoma, e il vento gli
sferzava la barba e i capelli muovendoglieli intorno al viso, come nuvole
fiere. Non c’era tristezza sul suo volto; del resto, aveva dedicato tutta la vita a
staccarsi dal mondo materiale, di cui noi due facevamo parte. L’aveva già
fatto tanto tempo prima.
Gesù fece per abbracciare il vecchio, ma poi si limitò a pungolargli una
spalla. Una volta, una soltanto, vidi un sorriso stampato sul viso di
Melchiorre. «Ma non mi hai ancora insegnato tutto quello che devo sapere»
gli disse il mio amico.
«Hai ragione, non ti ho insegnato niente. Non ho potuto insegnarti niente.
Tutto quello che dovevi conoscere era già dentro di te. Solo, non sapevi che
nome dargli. Alcuni hanno bisogno che Kali e Shiva distruggano il mondo per
vedere oltre l’illusione e per arrivare alla divinità che dimora in loro; altri
devono farsi guidare da Krishna nel posto in cui possono percepire ciò che di
eterno possiedono. Altri ancora riescono a cogliere la Divina Scintilla dentro
di loro solo quando realizzano - tramite l’illuminazione - che essa risiede in
tutte le cose, e in ciò trovano l’appartenenza. Ma il fatto che tale scintilla sia
presente in tutto e tutti, non significa che ogni persona sia in grado di
scoprirla. Il tuo dharma non è imparare, Gesù, ma insegnare».
«Come farò a spiegare al mio popolo il concetto di Divina Scintilla? Prima
che tu mi risponda, ti ricordo che stiamo parlando anche di Biff».
«Devi solo trovare la parola giusta. La Divina Scintilla non ha fine, la via
per trovarla sì. E l’inizio di quel sentiero è il verbo».
«Per questo tu, Gaspare e Baldassarre seguiste la stella? Per trovare la via
che conduce alla Divina Scintilla in tutti gli uomini? Ed è lo stesso motivo
che mi ha spinto a cercarvi?».
«Noi cercavamo, Gesù. Tu sei l’oggetto della ricerca. Sei l’origine. La fine
è la divinità, il principio è il verbo. E tu sei il verbo».
PARTE QUINTA

L’agnello



Io sono la luce, ora volo,
ora vedo il me stesso che è sotto di me,
ora un Dio danza attraverso di me.
Friedrich Nietzsche
23

In groppa a Vana ci dirigemmo verso nord, verso la Via della Seta,
costeggiando il grande deserto indiano che oltre tre secoli prima aveva quasi
ucciso Alessandro Magno e le sue truppe di ritorno in Persia, dopo aver
conquistato metà del mondo conosciuto. Anche se tagliare per il deserto ci
avrebbe fatto guadagnare un mese, Gesù non si fidava della sua capacità di far
apparire abbastanza acqua per Vana. Un uomo dovrebbe imparare dalla storia;
ma per quanto gli ripetessi che probabilmente gli uomini di Alessandro erano
stanchi per via di tutte quelle conquiste, mentre noi avevamo passato due anni
seduti su una spiaggia, Gesù insistette per seguire la strada meno ostile
attraverso Delhi e, a nord, l’odierno Pakistan, fino a ricongiungerci con la Via
della Seta.
Dopo averne percorso un breve tratto, credetti di vedere un altro messaggio
di Maria. C’eravamo fermati per riposarci un poco. Quando ci rimettemmo in
viaggio, Vana calpestò accidentalmente i bisogni che aveva fatto poco prima,
e il mucchio così pressato assunse le perfette sembianze del volto di una
donna: cacca scura sullo sfondo grigio chiaro della polvere.
«Guarda, Gesù: un altro messaggio di tua madre».
Lui diede un’occhiata e distolse lo sguardo. «Non è lei».
«Ma guarda! Nella cacca di Vana è apparso un volto femminile».
«Lo so, ma non è lei. L’immagine è distorta per via del mezzo che l’ha
fatta apparire. Nemmeno le somiglia. Guardale gli occhi».
Dovetti arrampicarmi sul dorso dell’elefantessa per osservarla da un’altra
angolazione. Aveva ragione, non era sua madre. «Suppongo sia come dici tu.
Il mezzo ha oscurato il messaggio».
«E appunto quello che ti sto dicendo».
«Ma scommetto che somiglia alla mamma di qualcuno».
Costeggiando il deserto, impiegammo quasi due mesi per arrivare a Kabul.
Nonostante Vana fosse un’intrepida camminatrice, come ho già accennato,
con le arrampicate non se la cavava affatto bene, e così spesso fummo
costretti a compiere lunghe deviazioni per farle superare le montagne
dell’Afghanistan. Io e Gesù sapevamo bene che non avremmo potuto portarla
con noi attraverso il deserto roccioso in quota, una volta superata Kabul:
pertanto decidemmo di lasciarla a Gioia, se fossimo riusciti a trovare l’ex
concubina.
Una volta in città, al mercato chiedemmo notizie di una donna cinese di
nome Piccoli Piedi della Danza Divina del Gioioso Orgasmo, ma non
trovammo nessuno che l’avesse sentita nominare o che conoscesse una
fanciulla chiamata semplicemente Gioia. Dopo un’intera giornata di ricerche,
io e Gesù eravamo sul punto di rinunciare, quando mi ricordai di una cosa che
mi aveva detto. Domandai a un venditore di tè del posto.
«Da queste parti vive una donna, probabilmente molto ricca, che si fa
chiamare Signora del Drago o qualcosa del genere?».
«Oh, sì, signore» rispose lui, e mentre parlava fu percorso da un brivido
come se uno scarafaggio gli fosse passato sul collo. «La Crudele e Maledetta
Principessa del Drago».
«Bel nome» le dissi, mentre attraversavamo il massiccio portone di pietra
che portava nel cortile del suo palazzo.
«Se sei una donna e sei sola, è utile avere una reputazione che ti precede».
Sembrava la stessa di nove anni prima, tolto il fatto che portava più
gioielli. Era minuta, delicata e bellissima. Indossava una veste di seta bianca
su cui erano ricamati dei draghi, e i capelli nero-blu le arrivavano quasi alle
ginocchia, ed erano tenuti fermi da un unico nastro d’argento che impediva
che si muovessero sulle spalle quando si voltava. «Bell’elefantessa» aggiunse.
«È un regalo per te».
«È carina».
«Hai un paio di cammelli che ti avanzano, Gioia?» le chiesi.
«Oh, Biff, speravo davvero che voi due avreste passato la notte con me».
«Be’, io ne sarei felicissimo, ma Gesù ha ancora il divieto di accostarsi a
un paio di seni».
«Qualche giovanotto, forse? Ne ho un po’ che tengo qui a palazzo per…
be’, lo sai perché».
«Non va nemmeno con loro».
«Oh, Gesù. Povero, piccolo Messia. Scommetto che nessuno ti ha
preparato del cibo cinese per il tuo compleanno, quest’anno, non è vero?».
«Abbiamo mangiato del riso».
«Vediamo che cosa può fare la Maledetta Principessa del Drago per
rimediare».
Smontammo dall’elefante e abbracciammo la nostra vecchia amica, poi
una guardia severa con una cotta di maglia di bronzo condusse Vana nelle
stalle, e quattro uomini armati di lancia ci seguirono mentre Gioia ci guidava
nella dimora principale.
«Una donna sola?» chiesi, osservando i soldati che sembravano pattugliare
ogni porta.
«Sola nel cuore, tesoro» rispose lei. «Questi non sono amici, parenti o
amanti. Sono solo persone al mio servizio».
«Per questo hai incluso il titolo “maledetta” nel tuo nome?» le domandò
Gesù.
«Potrei abbandonarlo e chiamarmi semplicemente Crudele Principessa del
Drago, se voi due voleste rimanere».
«Non possiamo. Ci hanno richiamati a casa».
Annuì tristemente e ci portò nella biblioteca (piena dei libri di
Baldassarre), dove ci fu servito il caffè da giovani uomini e donne che aveva
evidentemente portato con sé dalla Cina. Pensai a tutte le fanciulle - amiche e
amanti - uccise dal demone tanto tempo fa, e mandai giù il caffè, facendolo
scivolare intorno al groppo che mi ostruiva la gola.
Gesù era eccitato come non lo vedevo da tanto. Forse era per via del caffè.
«Non crederai mai alle cose straordinarie che ho imparato da quando me ne
sono andato da qui, Gioia. Riguardo al mio compito di rappresentante del
cambiamento (sai che il cambiamento è la radice della fede, vero?), e alla
compassione per ogni essere umano… perché ogni essere umano è parte di un
altro e, soprattutto, perché c’è un pezzettino di Dio in ciascuno di noi. In India
tutto questo viene chiamato Divina Scintilla».
Vaneggiò così per un’ora, e alla fine la mia malinconia passò e fui
contagiato dall’entusiasmo del mio amico per tutte le cose che aveva imparato
dai Magi.
«Sì» aggiunsi «ed è anche capace di infilarsi in una comune anfora da
vino. Poi devi tirarlo fuori con un martello, ma è una cosa interessante da
vedere».
«E tu, Biff?» chiese Gioia, mentre guardava sorridendo nella sua tazza.
«Be’, dopo cena ti mostrerò una cosa che mi piace chiamare “Bisonte
d’acqua che stuzzica i chicchi della melagrana”».
«Sembra…».
«Non preoccuparti, non è così difficile da imparare. Ho delle illustrazioni».

Ci trattenemmo quattro giorni nel palazzo di Gioia, godendoci comfort,
cibo e bevande che mancavano dalla nostra vita da quando c’eravamo salutati
tanti anni prima. Fosse stato per me, sarei rimasto per sempre, ma la mattina
del quinto giorno vidi Gesù sulla soglia della camera da letto di Gioia, con la
sacca sulla spalla. Non disse una parola. Non ce n’era bisogno. Facemmo
colazione con la nostra ospite, che ci accompagnò al portone per dirci addio.
«Grazie dell’elefantessa» disse.
«Grazie dei cammelli» ricambiò Gesù.
«Grazie del libro sul sesso» aggiunse lei.
«Grazie del sesso» risposi.
«Oh, dimenticavo. Mi devi cento rupie». Le avevo raccontato di Kashmir.
La Crudele e Maledetta Principessa del Drago mi guardò con un ghigno.
«Scherzavo. Abbi cura di te, amico mio. Conserva l’amuleto che ti ho dato e
ricordati di me, eh?».
«Sicuro». La baciai e montai in groppa al mio cammello, facendolo alzare
in piedi.
Gioia abbracciò Gesù e gli diede un bacio sulle labbra. Un bacio forte,
lungo. E lui non sembrò respingerla.
«Ehi, amico, faremmo meglio ad andare».
Lei si staccò dal Messia e disse: «Sarai sempre il benvenuto qui, lo sai?».
Lui annuì e salì sul suo cammello. «Vai con Dio, Gioia». Mentre
varcavamo il portone, le guardie scagliarono frecce infuocate che descrissero
lunghe scie di scintille sopra le nostre teste, fino a esplodere sulla strada
davanti a noi: era l’addio di Gioia, un tributo alla nostra amicizia e all’arcana
conoscenza che tutti e tre avevamo condiviso. I cammelli se la fecero sotto
per la paura.

Eravamo in viaggio da un po’, quando Gesù mi chiese: «Hai detto addio a
Vana?».
«Avrei voluto, ma quando sono entrato nella stalla stava facendo i suoi
esercizi di yoga, e non ho voluto disturbarla».
«Non mi stai prendendo in giro?».
«No, dico sul serio. Era seduta in una delle posizioni che le hai insegnato».
Gesù sorrise. Non gli faceva male credere a una cosa simile.
Impiegammo oltre un mese ad attraversare i deserti di montagna lungo la
Via della Seta, ma durante quel periodo non accadde quasi nulla, a parte
l’assalto da parte di un gruppetto di banditi. Quando presi le prime due lance e
le rimandai al mittente, ferendo i due uomini che le avevano lanciate, gli
aggressori si voltarono e scapparono. Il tempo era mite - per quanto ci si
potesse aspettare in un deserto letale e crudele - ma avevamo trascorso tanto
di quel tempo in quelle regioni inospitali che ormai non ci impressionava
quasi più nulla. Poco prima di raggiungere Antiochia, tuttavia, una tempesta
di sabbia venuta dal deserto ci costrinse a restare acquattati per due giorni tra i
nostri cammelli, respirando attraverso le vesti e sciacquandoci la bocca dal
fango ogni volta che bevevamo. La bufera si placò quel tanto che bastava per
permetterci di ripartire, e stavamo galoppando per le strade di Antiochia
quando Gesù, individuata una locanda, andò a sbattere con la fronte contro
l’insegna. L’urto lo fece cadere dal cammello, e finì seduto a terra con il
sangue che gli colava sul viso.
«Ti sei fatto molto male?» gli chiesi, inginocchiandomi accanto a lui. In
mezzo a quella polvere non vedevo quasi nulla.
Gesù guardò il sangue che aveva sulle mani, dopo essersi toccato la fronte.
«Non lo so. Non sento molto dolore, ma non saprei dirtelo».
«Entriamo» gli dissi, aiutandolo a rialzarsi e a infilare la porta della
locanda.
«Chiudete la porta» gridò il proprietario, mentre il vento spazzava la
stanza. «Cos’è, siete nati in un granaio?».
«In una stalla, per la verità» rispose Gesù.
«È vero» confermai. «Però c’era un angelo sul tetto».
«Chiudete quella dannata porta».
Lasciai il mio amico seduto accanto all’ingresso, e uscii per trovare un
riparo per i cammelli. Al mio ritorno, Gesù si stava pulendo il viso con un
panno di lino che gli aveva dato qualcuno. Sopra di lui c’erano due uomini,
ansiosi di dargli una mano. Restituii il panno a uno dei due ed esaminai le
ferite. «Te la caverai. Hai un bel bernoccolo e due tagli, ma ce la farai. Non
puoi usare la tua abilità nelle guarigioni per…».
Scosse il capo.
«Ehi, guarda qui» disse uno dei viaggiatori che aveva aiutato il mio amico,
sollevando la striscia di lino. La polvere e il sangue avevano creato una
riproduzione perfetta del suo viso: c’erano persino le impronte delle mani,
sporche del sangue fuoriuscito dalla ferita alla testa. «Posso tenerlo?» chiese.
Parlava latino, ma con uno strano accento.
«Certo» dissi. «Da dove venite, amici?».
«Apparteniamo alla tribù dei Liguri, che occupa i territori a nord di Roma.
Veniamo da una città sul fiume Po. Torino: mai sentita nominare?».
«Io no. Be’, fate quello che volete con quel panno. Ma sul mio cammello,
fuori, ho dei disegni erotici provenienti dall’Oriente che un giorno varranno
qualcosa. Posso darveli per un buon prezzo».
I torinesi se ne andarono con la loro patetica pezza di lino imbrattata di
fango, quasi fosse una reliquia sacra. I bastardi ignoranti non
riconoscerebbero l’arte neanche se ve li inchiodassi sopra. Bendai le ferite di
Gesù e ci registrammo alla locanda per la notte.

Il mattino dopo decidemmo di tenere i cammelli e di raggiungere Damasco
via terra. Quando lasciammo la città per affrontare l’ultimo tratto di viaggio,
Gesù cominciò a manifestare qualche preoccupazione.
«Non sono pronto a fare il Messia, Biff. Se mi hanno richiamato a casa
perché guidi il nostro popolo, ti confesso che non so da che parte cominciare.
So cosa voglio insegnare, ma non ho ancora trovato le parole. Melchiorre
aveva ragione. Prima di tutto, devi trovare il verbo».
«Be’, non verrai folgorato qui, sulla via di Damasco. Certe cose non
succedono. È evidente che apprenderai ciò che ti serve a tempo debito. C’è un
tempo per tutte le cose, bla, bla, bla…».
«Mio padre avrebbe potuto rendere tutto più facile. Avrebbe potuto dirmi
semplicemente che cosa dovevo fare».
«Chissà che cosa starà facendo Maddi. Pensi che sia diventata grassa?».
«Io sto cercando di parlare di Dio, della Scintilla Divina, della necessità di
portare il regno al nostro popolo».
«Lo so. Anch’io. Ma vuoi fare tutto questo senza aiuto?».
«Immagino di no».
«Per questo stavo pensando a Maddi. Prima che ce ne andassimo era più
sveglia di noi, e probabilmente lo è ancora».
«Già. Era molto intelligente, vero? Voleva diventare una pescatrice» disse
Gesù con un ghigno. Avrei giurato che il pensiero di rivedere Maddi lo
solleticava.
«Non puoi raccontarle delle puttane, Gesù».
«Non lo farò».
«Né di Gioia e delle ragazze. O della vecchia senza denti».
«Non le dirò di nessuna di loro, e tacerò anche sulla femmina di yak».
«Non c’è stato niente con quell’animale. Non ci rivolgevamo nemmeno la
parola».
«Sai, probabilmente a quest’ora avrà una dozzina di figli».
«Lo so» sospirai. «Dovrebbero essere miei».
«E miei» disse, sospirando a sua volta.
Lo guardai mentre cavalcava accanto a me, in un mare di onde create dai
cammelli che avanzavano con passi lunghi e delicati. Stava fissando
l’orizzonte con l’espressione di una persona abbandonata. «Tuoi e miei? Tu
pensi che dovrebbero essere tuoi e miei?».
«Certo, perché no? Sai che adoro tutti i…».
«A volte sei così stupido».
«Pensi che si ricorderà di noi? Di come eravamo allora?».
Ci pensai e rabbrividii. «Spero di no».

Eravamo appena entrati in Galilea, quando cominciammo a sentire quello
che Giovanni Battista stava facendo in Giudea.
«In centinaia l’hanno seguito nel deserto» sentimmo a Gischala.
«Qualcuno dice che sia il Messia» ci disse un uomo a Baca.
«Erode ha paura di lui» ci informò una donna a Cana.
«È solo un altro sant’uomo un po’ folle» commentò un soldato romano a
Zippori. «Gli ebrei li mettono al mondo come fossero conigli. Ho sentito dire
che affoga tutti quelli che non sono d’accordo con lui. La prima idea sensata
che mi è giunta alle orecchie da quando sono stato inviato in questo territorio
maledetto».
«Posso sapere il tuo nome, soldato?» gli chiesi.
«Caius Junius, della Sesta Legione».
«Grazie. Ci ricorderemo di te». A Gesù dissi: «Caius Junius: sarà in prima
fila quando cominceremo a cacciare i Romani dal regno, per scaraventarli
nell’abisso di fuoco».
«Che hai detto?» fece il romano.
«No, no, non ringraziarmi, te lo sei meritato. Sarai in prima fila, Caius».
«Biff!» gridò Gesù, e una volta ottenuta la mia attenzione mormorò:
«Cerca di non farci sbattere in prigione prima di essere arrivati a casa, per
favore».
Annuii e salutai il legionario con la mano. «Erano solo sciocche
chiacchiere ebraiche. Non farci caso» aggiunsi.
«Una volta riabbracciate le nostre famiglie, dovremo trovare Giovanni»
disse Gesù.
«Credi davvero che si stia spacciando per il Messia?».
«A quanto pare sa come trovare le parole per esprimersi».
Mezz’ora dopo entravamo a Nazaret.
Mi sarei aspettato qualcosa di più, per il nostro arrivo. Acclamazioni,
forse; bambini che ci correvano dietro supplicandoci di raccontare loro le
nostre straordinarie avventure; lacrime e risate, baci e abbracci, spalle forti
che portavano i due eroi conquistatori in trionfo lungo le vie della città. Ma
avevamo tralasciato un particolare: mentre noi eravamo in viaggio a fare
esperienze meravigliose, la gente di Nazaret aveva continuato a vivere nella
solita, vecchia merda quotidiana: erano passati moltissimi giorni, e con questi
moltissima merda. Quando arrivammo alla vecchia casa di Gesù, suo fratello
Giacomo era al lavoro sotto la tettoia esterna: stava piallando un pezzo di
legno d’ulivo per ricavare un puntone per una sella da cammello. Capii che
era lui non appena lo vidi. Aveva gli occhi grandi e il naso stretto e adunco di
Gesù, ma il viso era molto più rovinato e il corpo più muscoloso. Dimostrava
dieci anni più del fratello, anziché due di meno.
Posò il raschietto e uscì alla luce del sole, sollevando una mano per
ripararsi gli occhi.
«Gesù?».
Lui diede un colpetto alla parte posteriore delle ginocchia del cammello
con il lungo frustino, e l’animale si abbassò per farlo scendere.
«Giacomo!». Smontò e andò incontro al fratello con le braccia tese per
stringerlo a sé, ma Giacomo indietreggiò.
«Vado a dire a nostra madre che il suo figlio prediletto è tornato». Si voltò
e vidi le lacrime sgorgare letteralmente dagli occhi di Gesù per finire nella
polvere.
«Giacomo» lo supplicò. «Non lo sapevo. Quand’è successo?».
Lui si girò e guardò il fratellastro negli occhi. Non c’era compassione, in
essi. Non c’era dolore. Solo rabbia. «Due mesi fa, Gesù. Giuseppe è morto
due mesi fa. E ha chiesto di te».
«Non lo sapevo» ripetè il mio amico, le braccia ancora tese ad aspettare un
abbraccio che non sarebbe mai venuto.
«Entra. Mamma ti sta aspettando. Tutte le mattine si sveglia chiedendosi se
questo sarà il giorno del tuo ritorno. Vai dentro». Si voltò e Gesù gli passò
accanto per entrare in casa. Poi Giacomo sollevò lo sguardo verso di me. «Le
ultime sue parole sono state: “Dite al bastardo che gli voglio bene”».
«Al bastardo?» feci io, mentre facevo abbassare il mio cammello.
«È così che chiamava Gesù. “Chissà come se la passa il bastardo. Chissà
dov’è oggi il bastardo”. Non faceva che parlare di lui. E mamma
piagnucolava sempre, e continuava a ripetere come Gesù facesse questo e
quello, e a raccontare quante cose meravigliose avrebbe compiuto al suo
ritorno. E per tutto questo tempo c’ero soltanto io a occuparmi dei miei
fratelli e delle mie sorelle: ho badato a loro quando nostro padre si è
ammalato, mi sono preso cura della famiglia. E credi che qualcuno mi abbia
ringraziato? Che mi abbia detto qualche parola cortese? No, io stavo solo
spianando la strada a Gesù. Non hai idea di cosa si provi a venire sempre
dopo di lui».
«Ma davvero» dissi. «Una volta o l’altra dovrai parlarmene. Di’ a Gesù che
se ha bisogno di me mi trova a casa di mio padre. Lui è ancora vivo, vero?».
«Sì, e anche tua madre».
«Oh, bene. Non volevo che uno dei miei fratelli dovesse darmi una notizia
così dolorosa». Mi voltai e portai via il cammello.
«Vai con Dio, Levi» mi salutò Giacomo.
Mi girai. «Giacomo, sta scritto: “Hai diritto al lavoro, ma non ai suoi
frutti”».
«Questa non l’avevo mai sentita. Dove l’hai presa?».
«Dalla Bhagavad Gita. È un lungo poema che parla di un guerriero che si
prepara a entrare in battaglia. Il suo dio gli dice di non preoccuparsi se dovrà
uccidere i suoi congiunti, perché sono già morti anche se ancora non lo sanno.
Non so perché mi sia venuto in mente».

Mio padre mi strinse fino a rompermi le costole, o almeno così mi sembrò,
e poi passai a mia madre, che fece lo stesso fino a quando non parve tornare
in sé. A quel punto cominciò a colpirmi testa e spalle con un sandalo: se l’era
tolto con una velocità e una destrezza sorprendenti per una donna della sua
età.
«Sei stato via diciassette anni, almeno potevi scriverci».
«Tu non sai leggere».
«E ti sembra una scusa per non farlo, furbacchione?».
Parai i colpi deviandone l’energia, come avevo imparato a fare al
monastero; poco dopo, notai che a subire lo sfogo di mia madre erano due
ragazzini che non riconobbi. Temendo che quei due piccoli estranei mi
facessero causa, afferrai le braccia di mamma e gliele avvolsi intorno ai
fianchi. Quindi guardai il babbo e indicai i due piccoletti, sollevando le
sopracciglia come a chiedergli, Chi sono quei due saputelli?
«Sono i tuoi fratelli, Mosè e Japeth. Mosè ha sei anni, Japeth cinque».
I due ragazzini mi rivolsero un ghigno. Mancavano a entrambi i denti
anteriori, probabilmente sacrificati all’arpia che stavo tenendo a bada, e che
continuava a dimenarsi. Mio padre era raggiante, quasi volesse dirmi: So
ancora costruire l’acquedotto. .. posso ancora posare un tubo quando ce n’è
bisogno… se capisci che cosa intendo.
Aggrottai le sopracciglia, come a rispondergli: Senti un po’, sono riuscito a
stento a conservare il rispetto che avevo per te quando ho scoperto cosa avevi
dovuto fare per generare i tuoi primi tre figli; questi piccoletti testimoniano
semplicemente il fatto che non hai memoria della sofferenza.
«Mamma, se ti lascio andare prometti di calmarti?». Da sopra la sua spalla,
guardai Mosè e Japeth. «Io dicevo sempre che era ossessionata da un demone,
lo fate anche voi?». Ammiccai.
Loro ridacchiarono, come se volessero dire: Ti prego, metti fine alle nostre
sofferenze, uccidici, uccidici ora, o uccidi questa troia che ci tormenta come i
supplizi di Giobbe. Okay, forse era solo la mia immaginazione, magari si
trattava di un semplice risolino.
Lasciai andare mamma, che indietreggiò. «Japeth, Mosè» disse «venite a
conoscere Biff. Avete sentito me e vostro padre parlare della nostra più antica
delusione. Be’, è lui. Adesso correte a chiamare i vostri fratelli, mentre io
preparo qualcosa di buono».
Shem e Lucius portarono le loro famiglie e si unirono a noi per cena; ci
sdraiammo tutti intorno alla tavola mentre lei ci serviva qualcosa di buono
(non saprei dire che cosa fosse). «Madre, ti ho portato un regalo dall’Oriente»
dissi, e corsi fuori a prendere un pacchetto rimasto sul cammello.
«Di che si tratta?».
«E una mangusta da riproduzione» spiegai, battendo sulla gabbia, e quella
piccola monella tentò di staccarmi un polpastrello a morsi.
«Ma è una sola».
«Be’, erano due ma l’altra è scappata. Queste bestioline attaccano serpenti
dieci volte più grandi di loro».
«Sembra un ratto».
Abbassai la voce e sussurrai in tono cospiratore. «In India, le donne le
addestrano perché stiano sedute sulle loro teste, come cappelli. Molto alla
moda. Ovviamente questa tendenza non è ancora arrivata in Galilea, ma ad
Antiochia non c’è donna che si rispetti che sia disposta a uscire di casa senza
la sua mangusta».
«Ma davvero?» fece lei, guardando l’animaletto sotto una nuova luce.
Prese la gabbia e la ripose delicatamente in un angolo, come se contenesse un
uovo fragile, anziché una creatura dispettosa. Poi indicò le sue due nuore e
una mezza dozzina di nipotini che gironzolavano accanto al tavolo. «Come
vedi, i tuoi fratelli si sono sposati e mi hanno dato dei nipoti».
«Sono felice per loro».
Shem e Lucius nascosero i loro ghigni dietro una crosta di pane azzimo,
come facevano quando eravamo bambini e mamma mi dava il tormento.
«Con tutti i posti che hai visitato, non sei riuscito a trovare una brava
ragazza con cui sistemarti?».
«No, madre».
«Puoi anche sposare una donna gentile, sai? Mi spezzeresti il cuore. Ma
perché mai le tribù arrivarono quasi a spazzare via i Beniamiti, se non per
permettere a un ragazzo disperato di sposare una gentile, in caso di necessità?
Non una samaritana, ma un’altra gentile. Se proprio devi».
«Grazie, madre mia, lo terrò a mente».
Finse di trovare della filaccia o qualcosa di simile sul mio colletto, che
continuò a pizzicare mentre diceva: «Quindi non si è sposato neppure il tuo
amico Gesù? Hai sentito di Miriam, la sua sorellina, vero?». Qui adottò un
tono di cospirazione. «Ha cominciato a vestirsi da maschio ed è scappata
sull’isola di Lesbo». Poi la sua voce tornò allusiva. «È un’isola greca, sai? Voi
due non siete stati in Grecia, nei vostri viaggi, vero?».
«No, madre. Devo proprio andare».
Provai ad alzarmi e mi afferrò. «E perché tuo padre ha un nome greco,
vero? Alfeo, ti avevo detto di cambiare nome, ma tu mi hai risposto che ne
andavi fiero. Spero che tu ne vada orgoglioso anche adesso. E ora che cosa
succederà? Lucius comincerà a crocifiggere ebrei solo perché porta un nome
romano?».
«Io non sono romano, madre» disse stancamente mio fratello. «Ci sono un
sacco di ebrei rispettabili che portano nomi latini».
«Non che abbia qualche importanza, madre, ma dove pensi che prendano
altri greci?».
A suo credito, va detto che si fermò un momento a riflettere. E io
approfittai di quel momento di calma per scappare.
«È stato bello rivedervi, ragazzi». Salutai con un cenno tutti i miei
familiari, vecchi e nuovi. «Verrò a trovarvi prima di partire. Devo andare a
vedere come sta Gesù». E uscii.
Spalancai la porta di casa sua senza nemmeno bussare, e nel farlo rischiai
di stendere suo fratello Giuda. «Amico, devi sbrigarti a portare il Regno di
Dio sulla Terra, o dovrò uccidere mia madre».
«E ancora ossessionata dai demoni?» chiese Giuda, che era uguale a
quando aveva soltanto quattro anni, eccezion fatta per la barba e l’attaccatura
dei capelli parecchio alta; ma gli occhi erano più grandi che mai, e il sorriso
era piuttosto stupido.
«No, quando lo dicevo mi abbandonavo semplicemente alla speranza».
«Ti unisci a noi per cena?» mi chiese Maria. Grazie a Dio era invecchiata:
si era ingrossata intorno alla vita e ai fianchi, e aveva qualche ruga agli angoli
degli occhi e della bocca. Adesso era solo la seconda o la terza creatura più
bella sulla Terra.
«Ne sarei felicissimo».

Giacomo doveva essere rimasto a casa con la sua sposa e i suoi figli, come
probabilmente gli altri fratelli e le sorelle, a parte Miriam. A tavola c’erano
soltanto Maria, Gesù, Giuda e Ruth, la sua graziosa moglie, e due bambine
con i capelli rossi che somigliavano alla madre.
Feci le mie condoglianze alla famiglia per la tragica perdita, e Gesù mi
ragguagliò sui tempi dell’accaduto. All’incirca quando avevo visto il ritratto
di Maria sul muro del tempio a Nicobar, Giuseppe aveva preso una malattia
dall’acqua. Aveva cominciato a pisciare sangue, e nel giro di una settimana
era stato costretto a letto. E dopo un’altra settimana soltanto era spirato.
Ormai era seppellito da due mesi. Guardai Gesù, mentre Maria mi raccontava
questa parte della storia, e lui scosse il capo quasi volesse dirmi: È nella
tomba da troppo tempo, non posso fare niente. Maria non sapeva nulla del
messaggio che ci aveva invitati a tornare a casa.
«Anche se foste stati a Damasco, avreste dovuto avere fortuna per arrivare
in tempo. Se n’è andato così in fretta». Era una donna forte e in parte si era
già ripresa, mentre Gesù appariva ancora sconvolto.
«Dovete trovare Giovanni» disse Maria. «Sta predicando l’avvento del
Regno, preparando la strada per il Messia».
«L’abbiamo saputo» dissi.
«Io rimango qui con te, madre» dichiarò Gesù. «Giacomo ha ragione, ho
delle responsabilità. Le ho evitate per troppo tempo».
Maria toccò il viso di suo figlio e lo guardò negli occhi. «Tu partirai
domattina e troverai Giovanni Battista in Giudea, e farai quello che Dio
ordinò quando ti mise nel mio grembo. Le tue responsabilità non sono un
fratello amareggiato o una vecchia madre».
Gesù mi guardò. «Puoi partire domattina? Lo so che è presto, considerando
che siamo stati via così a lungo».
«In realtà, ho pensato che sarebbe meglio se restassi qui. Tua madre ha
bisogno di qualcuno che si prenda cura di lei, ed è ancora relativamente
attraente. Voglio dire, si può fare di peggio».
Giuda aspirò un nocciolo d’oliva e cominciò a tossire furiosamente, fino a
quando Gesù non gli diede una botta sulla schiena e il nocciolo non finì
dall’altra parte della stanza. Il fratello, ansimante, mi fissava con gli occhi
arrossati e lucidi.
Misi le mani sulle spalle di entrambi. «Credo di poter imparare ad amarvi
come figli». Guardai la bella ma timida Ruth, che stava badando alle
bambine. «E spero che tu possa imparare ad amarmi come un caro zio con
qualche anno di più ma incredibilmente attraente. E tu, Maria…».
«Ti dispiacerebbe partire per la Giudea con Gesù, Biff?» mi interruppe.
«Ma certo, domattina, come prima cosa».
Gesù e Giuda continuavano a guardarmi come se fossero stati colpiti al
volto con un grosso pesce. «Che c’è?» chiesi. «Da quanto mi conoscete, voi
due? Cribbio. Un po’ più di senso dell’umorismo non guasterebbe…».
«Nostro padre è morto» disse Gesù.
«Sì, ma non oggi. Ci vediamo qui domattina».

Il mattino seguente, mentre attraversavamo la piazza in groppa ai nostri
cammelli, passammo davanti a Bartolomeo, l’idiota del villaggio che dopo
tanti anni non sembrava né malconcio né più sporco, e apparentemente aveva
raggiunto una sorta di intesa con i suoi amici canini. Invece di saltargli
addosso come avevano sempre fatto, stavano tranquillamente seduti davanti a
lui, quasi stessero ascoltando un sermone.
«Dove siete stati?» ci gridò.
«In Oriente».
«E perché ci siete andati?».
«Stavamo cercando la Divina Scintilla» rispose Gesù «ma non lo
sapevamo quando siamo partiti».
«Dove state andando?».
«In Giudea, a cercare Giovanni Battista».
«Dovrebbe essere più facile da trovare, in confronto alla Scintilla. Posso
venire anch’io?».
«Certo» dissi. «Porta le tue cose».
«Io non ho niente».
«Allora porta il tuo tanfo».
«Quello mi segue per conto suo».
E così diventammo tre.

24

Ho finito di leggere le storie di questi quattro tizi, Matteo, Marco, Luca e
Giovanni. Fanno sembrare tutto un incidente, come se un bel mattino
cinquemila persone si fossero presentate improvvisamente su una collina. Se
fosse andata così, farle arrivare lì sarebbe stato un miracolo. Figurarsi
sfamarle. Ci rompevamo il culo per organizzare sermoni come quello, e a
volte dovevamo mettere Gesù su una barca e portarlo in mare aperto mentre
continuava a predicare, solo per impedire che fosse malmenato dalla folla.
Quel ragazzo era un incubo per la nostra sicurezza.
E non è tutto. Gesù aveva due facce: quella del predicatore e quella più
personale, privata. Il giovane che inveiva contro i farisei non era la stessa
persona che pungolava gli intoccabili solo perché la cosa lo faceva spanciare
dalle risate. Pianificava i sermoni, calcolava le parabole, anche se
probabilmente era l’unico del gruppo a comprenderle.
Quello che sto cercando di dire è che questi quattro, Matteo, Marco, Luca e
Giovanni hanno scritto qualcosa di giusto - le cose principali - ma hanno
omesso una grossa fetta della storia (trent’anni di vita di Gesù, per esempio).
Cercherò di colmare le lacune: penso sia questo il motivo che ha spinto
l’angelo a riportarmi nel mondo dei vivi.
A proposito di Raziel, sono quasi convinto che sia diventato psicopatico.
(No, questo termine non c’era ai miei tempi, ma con la giusta dose di
televisione mi farò un nuovo vocabolario. Credo, per esempio, che
“psicopatico” fosse l’aggettivo adatto per definire Giovanni Battista. Ma
tornerò sull’argomento in seguito.) L’angelo mi ha portato nel posto dove
oggi lavate i vestiti. Una lavanderia a gettoni. Ci siamo rimasti tutto il giorno.
Voleva essere sicuro che sapessi come si fa il bucato. Non sarò una cima, ma
si tratta del bucato, Cristo santo! Mi ha interrogato per un’ora sulla divisione
di bianchi e colorati. Forse non riuscirò mai a raccontare questa storia, se
l’angelo continua con questa smania di darmi lezioni di vita. Domani,
minigolf. Posso soltanto pensare che Raziel voglia prepararmi a diventare una
spia internazionale.

Bartolomeo e il suo tanfo si presero un cammello, mentre io e Gesù ci
dividemmo l’altro. Andammo a sud verso Gerusalemme, e poi a est oltre il
Monte degli Ulivi fino a raggiungere Betania, dove vedemmo un uomo con i
capelli gialli seduto sotto un fico. Non avevo mai visto una persona con una
chioma di quel colore, in Israele, a parte l’angelo. Lo indicai al mio amico, e
lo fissammo abbastanza a lungo da convincerci che non fosse un
rappresentante delle schiere celesti mascherato. In effetti, fingemmo di
guardarlo. Ci stavamo guardando a vicenda.
«Qualcosa non va?» chiese Bartolomeo. «Sembrate nervosi, voi due».
«È per via di quel tizio biondo» risposi, cercando di guardare nei cortili
delle grandi case che stavamo superando.
«Maddi vive qui con il marito» mi disse Gesù, non alleviando
minimamente la tensione.
«Lo sapevo» disse Bart. «Lui è un membro del Sinedrio. Un personaggio
importante, dicono».
Il Sinedrio era il supremo organo politico, religioso e giudiziario
nell’ambito della comunità ebraica, la cui autorità dipendeva comunque dai
Romani. Con l’eccezione di Erode e Ponzio Pilato, il governatore romano, i
suoi membri erano gli uomini più potenti d’Israele.
«Speravo davvero che Jakan sarebbe morto giovane».
«Non hanno figli» osservò Gesù. Implicitamente, voleva dire che gli
sembrava piuttosto strano che Jakan non avesse lasciato la moglie in quanto
sterile.
«Lo so, me l’ha detto mio fratello».
«Non possiamo andare a salutarla».
«So anche questo» anche se in realtà non capivo il motivo.
Trovammo finalmente Giovanni nel deserto a nord di Gerico, che
predicava sulla sponda del fiume Giordano. I suoi capelli erano più
scarmigliati che mai, e adesso aveva anche una barba fuori controllo.
Indossava una veste grezza di peli di cammello e una cintura di pelle. Intorno
a lui si era radunata una folla di cinquecento persone che stavano in piedi
sotto il sole: faceva così caldo che dovevi controllare i cartelli stradali per
assicurarti di non aver imboccato per sbaglio l’uscita per l’inferno.
Da quella distanza non riuscivamo a sentire che cosa dicesse, ma
avvicinandoci gli sentimmo sostenere: «No, non sono io il Messia. Sto solo
preparando il terreno. Un altro verrà dopo di me, a cui non sono degno di
reggere il sospensorio».
«Cos’è un sospensorio?» chiese Gesù.
«È un oggetto che usano gli esseni» gli rispose Bartolomeo. «Lo portano
molto stretto sulle loro parti virili, per controllare gli stimoli peccaminosi».
E poi Giovanni ci vide al di sopra della folla (eravamo in groppa ai nostri
cammelli). «Eccolo!» disse indicando Gesù. «Ricordate? Vi ho detto che un
altro sarebbe venuto. Be’, eccolo lì. Non sto scherzando, è quello in sella al
cammello: quello a sinistra. Guardate l’Agnello di Dio!».
La folla si voltò a guardarci e poi scoppiò educatamente a ridere, quasi a
dire: Oh certo, è spuntato proprio nel momento in cui parlavi di lui. Credi che
non siamo in grado di riconoscere un uomo esca, quando ne vediamo uno?
Gesù guardò nervosamente me, poi Bart, poi di nuovo me. Quindi rivolse
alla folla un docile sorriso (il genere di sorriso che ci si potrebbe aspettare da
un agnellino). Digrignò i denti e chiese: «Quindi io dovrei dare a Giovanni il
mio sospensorio, o qualcosa del genere?».
«Saluta e di’ loro di andare con Dio» disse Bart.
«Saluta di qua, saluta di là» borbottò lui con un ghigno. «Andate con Dio.
Grazie molte. Andate con Dio. Felice di vedervi. Saluta… saluta».
«Alza la voce, amico. Ti sentiamo solo noi».
Lui si voltò in modo tale che la gente non potesse vederlo in viso. «Non
credevo che avrei avuto bisogno di un sospensorio! Non me l’aveva detto
nessuno. Cribbio, ragazzi».
E fu così che ebbe inizio il ministero di Gesù di Nazaret, figlio di
Giuseppe. L’Agnello di Dio.

«Allora, chi è il gigante?» ci chiese Giovanni quella sera, mentre eravamo
seduti intorno al fuoco. La notte giunse strisciando sul deserto come un gatto
nero con la forfora fosforescente. Bartolomeo si rotolava con i suoi cani sulla
sponda del fiume.
«Quello è Bartolomeo» disse Gesù. «E un cinico».
«Nonché l’idiota di Nazaret da più di trent’anni» aggiunsi. «Ha rinunciato
al suo posto per seguire Gesù».
«È un sudicione - per Giovanni era l’equivalente maschile del termine
“prostituta” - e domattina sarà il primo a essere battezzato. Puzza. Altre
locuste, Biff?».
«No grazie, sono sazio». Abbassai lo sguardo sulla mia scodella di locuste
arrostite. Dovevi intingerle nel miele per ottenere un pasto dolce e nutriente.
Giovanni non mangiava altro.
«Quindi, in tutti questi anni che siete stati lontani, avete trovato la Divina
Scintilla?».
«È la chiave del Regno, Giovanni. È quello che ho imparato in Oriente e
che adesso devo riferire al nostro popolo: Dio è in tutti noi. Siamo tutti fratelli
nella Divina Scintilla. Solo che non so come diffondere il mio messaggio».
«Innanzitutto non puoi chiamarla Divina Scintilla. La gente non capirebbe.
Questa cosa che sta in tutti… è permanente? È parte di Dio?».
«Non è parte del Creatore mio padre, ma del Dio che è spirito».
«Spirito Santo» disse Giovanni con una scrollata di spalle. «Chiamala
Spirito Santo. Le persone comprendono che c’è uno spirito in te, e anche che
rimane dopo la tua morte. Devi solo far capire loro che quello spirito è Dio».
«Assolutamente perfetto» disse Gesù, sorridendo.
«Quindi» continuò Giovanni, mangiandosi mezza locusta con un morso
«questo Spirito Santo è in tutti gli ebrei, ma i gentili non ce l’hanno, giusto?
Voglio dire, che cosa succederà quando verrà il Regno?».
«Ci stavo appunto arrivando».

Giovanni impiegò quasi tutta la notte ad accettare il fatto che Gesù avrebbe
ammesso nel Regno anche i gentili, ma alla fine lo fece, pur continuando a
cercare eccezioni.
«Entreranno anche le prostitute?».
«Anche le prostitute» confermò Gesù.
«Soprattutto le prostitute» aggiunsi io.
«E tu sei colui che purifica gli uomini dai peccati, affinché ottengano il
perdono».
«Lo so… ma prostitute gentili nel Regno…». Scosse il capo: il Messia in
persona gli aveva appena garantito che il mondo sarebbe andato rapidamente
in rovina. E questo non avrebbe dovuto sorprenderlo, dal momento che da più
di dieci anni andava diffondendo quel messaggio. E inoltre, si era preoccupato
di identificare le prostitute. «Lasciate che vi mostri dove starete».

Poco dopo il nostro primo incontro, sulla via di Gerusalemme, Giovanni si
unì agli esseni. Non potevi nascere esseno, perché erano tutti celibi, anche nel
matrimonio. Inoltre non bevevano bevande inebrianti, seguivano
rigorosamente le leggi ebraiche in materia di dieta, ed erano maniacali
riguardo alla necessità di pulirsi, fisicamente, dal peccato (la qual cosa era la
caratteristica principale per Giovanni). Formavano una fiorente comunità che
viveva nel deserto fuori Gerico, a Qumran, una cittadina di case in pietra e
mattoni, con uno scriptorium per copiare i rotoli di pergamena, e acquedotti
che trasportavano l’acqua dalle montagne per riempire i loro bagni rituali.
Qualcuno tra loro viveva nelle grotte sopra il Mar Morto, dove venivano
conservati i vasi con i sacri rotoli; i più fanatici, però - incluso Giovanni - non
si concedevano neppure il conforto di una caverna. Ci mostrò gli alloggi,
situati proprio accanto al suo.
«Ma è una fossa!» esclamai.
Per l’esattezza erano tre. Suppongo si debba dire qualcosa, quando si ha a
propria disposizione una fossa. Bartolomeo, con i suoi numerosi amici canini,
si stava già sistemando nella sua.
«Oh, Giovanni» disse Gesù «ricordami di parlarti del karma».
E così, mentre Gesù imparava dal cugino a pronunciare le parole che
avrebbero indotto la gente a seguirlo, io vissi in una fossa. Per più di un anno.
Pensandoci bene, tutto questo ha un senso. Gesù aveva trascorso gli ultimi
diciassette anni studiando o standosene seduto in silenzio: quindi che cosa
sapeva della comunicazione? L’ultimo messaggio che aveva ricevuto da suo
padre era costituito da poche parole, pertanto non poteva contare su quel lato
della famiglia per sviluppare le proprie abilità comunicative. D’altro canto, in
quei diciassette anni Giovanni non aveva fatto altro che predicare: e
quell’eccentrico bastardo sapeva farlo sul serio. Immerso nelle acque del
Giordano fino alla vita, agitava le braccia e faceva roteare gli occhi, e agitava
l’aria con un sermone che sarebbe riuscito a farti credere che di lì a poco le
nuvole si sarebbero aperte e la mano di Dio sarebbe scesa per afferrarti per le
palle, e ti avrebbe scosso fino a farti buttar fuori tutti i tuoi peccati, come
fossero denti da latte. Dopo averlo ascoltato per un’ora, non solo ti mettevi in
fila per essere battezzato, ma saltavi nel fiume e cercavi di respirare la melma
sul fondo, solo per liberarti della tua spregevolezza.
Gesù osservava, ascoltava e imparava. Giovanni credeva fermamente nel
cugino e nella sua missione, per quanto poteva capire: ma mi preoccupava. Si
stava attirando le attenzioni di Erode Antipa. Questi aveva sposato la moglie
di suo fratello Filippo, Erodiade, infrangendo così la legge mosaica. Un vero
oltraggio per le leggi ancor più severe degli esseni, e un argomento che ben si
addiceva all’ossessivo pensiero di Giovanni riguardo al tema delle
“prostitute”. Cominciavo a notare che i soldati della guardia personale di
Erode gironzolavano ai margini della folla, quando teneva uno dei suoi
sermoni.
Lo affrontai una sera, quando uscì dal suo isolamento in preda a uno dei
soliti attacchi di furore evangelico, per tendere un’imboscata a me, a Gesù, a
Bartolomeo e a un nuovo tizio, mentre eravamo seduti a mangiare le nostre
locuste.
«Immondo!» gridò con voce tonante da profeta Elia, agitando un dito sotto
il naso di Bart.
«Già, Bart si fa fottere un casino» dissi, con sarcasmo evangelico.
Giovanni si voltò di scatto verso il nuovo personaggio, che sollevò le
mani. «Io sono nuovo» disse lui.
Dopo questo rimprovero, il Battista si girò a guardare il mio amico Gesù.
«Celibe» disse lui. «Lo sono sempre stato e sempre lo sarò. E la cosa non
mi rende granché felice».
Infine Giovanni si voltò verso di me. «Immondo!».
«Giovanni, mi sono purificato. Oggi mi hai battezzato sei volte». Gesù mi
diede una gomitata nelle costole. «Che c’è? Faceva caldo. Il punto è questo:
oggi ho contato cinquanta soldati mescolati alla folla, quindi finiscila con
questa storia dei sudicioni e delle prostitute. Devi fare marcia indietro. E devi
decisamente riconsiderare i tuoi principi ascetici: niente matrimonio, niente
sesso, niente divertimento».
«Dovresti rivedere anche la questione della fossa e delle locuste con il
miele» aggiunse il nuovo arrivato.
«Non è diverso da Melchiorre o Gaspare» osservò Gesù. «Erano entrambi
asceti».
«Ma non se ne andavano in giro a dare del sudicione al governatore
provinciale, davanti a centinaia di persone. C’è una bella differenza, e questo
suo atteggiamento lo porterà alla tomba».
«Mi sono purificato dai miei peccati e non ho paura» dichiarò Giovanni,
che pure aveva perso un po’ della sua verve.
«Sicuro, e sei libero da colpe? Perché avrai sulle mani il sangue di migliaia
di persone, quando i Romani verranno a prenderti. Nel caso non l’avessi
notato, non si limitano a uccidere il capo di un movimento. Ci sono un
migliaio di croci sulla strada per Gerusalemme, dove sono morti gli zeloti. E
non erano tutti capi».
«Il timore non mi appartiene». Abbassò la testa fino a mettere le punte dei
capelli nella scodella con il miele. «Erode ed Erodiade sono due esseri impuri.
Lui è quanto di più vicino a un re giudeo; lei è una prostituta».
Gesù tolse i capelli dagli occhi del folle cugino e gli strinse una spalla. «Se
così dev’essere, che sia. Come predisse l’angelo, tu sei nato per predicare la
verità».
Mi alzai e gettai le mie locuste nel fuoco, sprigionando scintille su
Giovanni e Gesù. «Ho conosciuto soltanto due persone la cui nascita è stata
annunciata da un angelo, e tre quarti di loro sono mentecatte». E mi precipitai
nella mia fossa.
«Amen» disse il nuovo arrivato.

Quella sera, mentre stavo prendendo sonno, sentii Gesù che si muoveva
carponi nella fossa accanto alla mia, come se uno scarafaggio o un’idea lo
avessero indotto ad alzarsi dalla sua coperta arrotolata. «Ehi!» esclamò.
«Che c’è?».
«Ho appena fatto i conti. Tre quarti di due fa…».
«Uno e mezzo» intervenne il nuovo arrivato, che si era stabilito nella fossa
accanto alla sua. «Quindi: o Giovanni è completamente pazzo e tu lo sei solo
per metà, oppure lo siete entrambi per tre quarti… oh, be’, è un rapporto
invariabile, dovrei disegnarvi un grafico».
«Cos’è che dici?».
«Niente. Io sono nuovo».

Il mattino dopo, Gesù saltò fuori dalla fossa, si scrollò di dosso gli
scorpioni e, dopo una lunga pisciata mattutina, mi lanciò addosso delle zolle
di terra per svegliarmi.
«È il momento» mi disse. «Vieni giù al fiume, oggi mi faccio battezzare da
Giovanni».
«E in che modo dovrebbe essere diverso da ieri?».
«Vedrai. Ho una strana sensazione». E se ne andò.
Il nuovo arrivato uscì dalla fossa come un cane della prateria. Era alto, e la
luce del sole del mattino gli illuminò la testa calva mentre si guardava
intorno. Notò che erano spuntati dei fiori nel punto in cui Gesù aveva appena
svuotato la vescica. Boccioli lussureggianti di sei colori diversi, tutti vivaci:
erano lì, circondati dal paesaggio più desolato del pianeta. «Ehi, quelli
c’erano anche ieri?».
«Succede sempre. Noi facciamo finta di niente».
«Wow. Posso aggregarmi a voi, ragazzi?».
«Sicuro».
E così diventammo quattro.

Al fiume Giovanni predicò a una piccola folla, mentre faceva immergere
Gesù nell’acqua. Non appena il mio amico scomparve sotto la superficie, i
cieli del deserto - ancora rosa per l’alba - si aprirono e apparve una colomba
che sembrava fatta di pura luce. Tutte le persone sulla riva del fiume si
lasciarono andare a «ooh» e «aah» e dai cieli giunse una voce tuonante:
«Questo è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto». E, rapido
com’era venuto, lo spirito se ne andò. Ma la gente continuò a fissare il cielo
con la bocca aperta per lo stupore.
In quel momento Giovanni tornò in sé e si ricordò di quello che stava
facendo. Tirò fuori dall’acqua il mio amico. Gesù si asciugò gli occhi e
guardò la folla stupefatta, e chiese: «Che c’è?».

«No, davvero Gesù: la voce ha detto proprio così: “Questo è il Figlio mio
prediletto, nel quale mi sono compiaciuto”».
Gesù scosse il capo e sgranocchiò una locusta per colazione. «Non riesco a
credere che non abbia aspettato che uscissi. Sei sicuro che fosse mio padre?».
«Così sembrava». Il nuovo arrivato mi guardò e scrollai le spalle. In effetti
aveva la voce di James Earl Jones, ma allora non lo sapevo.
«Bene» fece il Messia. «Andrò nel deserto per quaranta giorni e quaranta
notti, come Mosè». Si alzò e cominciò ad avviarsi. «Da questo momento
digiunerò, fino a quando mio padre non mi manderà del cibo. Quella è stata la
mia ultima locusta».
«Vorrei poterlo dire anch’io» disse il nuovo arrivato.

Non appena se ne fu andato, corsi nella mia fossa e preparai la sacca.
Impiegai mezza giornata a raggiungere Betania, e lì mi ci volle un’altra ora
per trovare qualcuno che mi indicasse la casa di Jakan, prominente fariseo e
membro del Sinedrio. La casa era costruita con il calcare dorato che
caratterizzava l’intera città di Gerusalemme, e il cortile era circondato da un
alto muro. Aveva avuto successo quel coglione. Una casa di quelle dimensioni
avrebbe potuto ospitare una dozzina di famiglie di Nazaret. Diedi un siclo
ciascuno a due ciechi perché si accostassero al muro, e mi facessero salire
sulle spalle.
«Quanto ha detto che vale questa moneta?».
«Ha detto che era un siclo».
«Non mi sembra».
«Vi dispiacerebbe smettere di soppesare i vostri sicli e rimanere fermi?
Finirete per farmi cadere».
Sbirciai oltre il muro e la vidi: seduta all’ombra di una tenda c’era Maddi,
che lavorava a un piccolo telaio. Se era cambiata, lo era solo nel senso che era
diventata più radiosa, più sensuale, più donna e meno ragazza. Ero stordito.
Probabilmente mi aspettavo di rimanere deluso, pensando che il tempo e il
mio amore avessero creato un’immagine idealizzata della donna che
realmente era. Aveva sposato un uomo ricco, un tempo prepotente e balordo.
E nella mia mente il suo ricordo era fatto soprattutto di spirito, di coraggio e
ingegno. Mi chiesi se tutto questo fosse sopravvissuto agli anni trascorsi con
Jakan. Cominciai a tremare, non so se per la paura o perché stavo perdendo
l’equilibrio, ma posai la mano sulla cima del muro per trovare stabilità e mi
procurai un taglio con un coccio di ceramica fissato con della malta.
«Uh, dannazione».
«Biff?» fece lei, guardandomi negli occhi prima che scivolassi giù dalle
spalle dei due ciechi.
Mi ero appena rimesso in piedi quando lei sbucò velocissima da dietro
l’angolo. La prima cosa che vidi furono i segni evidenti della sua femminilità
e la sua bocca. Mi baciò con una foga tale che sentii il sapore del sangue che
mi usciva dalle labbra tagliate, e fu una cosa stupenda. Aveva lo stesso
profumo di allora: cannella, limone e sudore di ragazza. Ed era meglio di
come lo ricordassi. Quando finalmente mi lasciò andare e si allontanò di un
passo, aveva le lacrime agli occhi. E anch’io.
«È morto?» chiese uno dei due ciechi.
«Non credo, lo sento respirare».
«Di sicuro ha un odore migliore, adesso».
«Biff, il tuo viso è migliorato».
«Mi hai riconosciuto, con la barba e tutto il resto».
«All’inizio non ne ero sicura, quindi ho corso un rischio a saltarti addosso
in quel modo. Ma mentre ti abbracciavo ho capito che eri tu». Indicò il punto
in cui la mia veste si protendeva in avanti, come spinta da qualcosa. E poi
afferrò quella canaglia traditrice, con la tunica e tutto il resto, e mi condusse
lungo il muro, verso l’entrata.
«Vieni dentro. Non abbiamo molto tempo, ma possiamo recuperare. Stai
bene?» mi chiese, guardandomi da sopra la spalla mentre mi dava una
strizzatina.
«Sì, sì, stavo solo cercando una metafora».
«Ha preso una donna da là sopra» sentii uno dei due ciechi.
«Sì, l’ho sentita cadere. Dammi una spinta, ritroverò la strada a tentoni».

Nel cortile, davanti a una coppa di vino, le dissi: «Davvero all’inizio non
mi avevi riconosciuto?».
«Certo che ti ho riconosciuto. Non avevo mai fatto una cosa simile. Spero
solo che non mi abbia visto nessuno: le donne vengono lapidate per cose del
genere».
«Lo so. Oh, Maddi, ho così tante cose da raccontarti».
Mi prese una mano. «Lo so». Mi guardò negli occhi, e poi cercò qualcosa
che andava oltre il mio sguardo.
«Lui sta bene» le dissi infine. «È andato nel deserto a digiunare, in attesa
di ricevere un messaggio dal Signore».
Sorrise. Aveva qualche goccia del mio sangue agli angoli della bocca. O
forse era vino. «Quindi è tornato per prendere il suo posto come Messia?».
«Sì. Ma non credo che lo farà nel modo che la gente si aspetta».
«La gente pensa che il Messia possa essere Giovanni».
«Giovanni… sta…».
«Sta davvero facendo incazzare Erode» terminò.
«Lo so».
«E tu e Gesù starete con lui?».
«Spero di no. Voglio che Gesù se ne vada. Devo allontanarlo da Giovanni
giusto il tempo di vedere come si mettono le cose. Forse questo digiuno…».
La serratura di ferro tremò, e poi si scosse l’intero cancello. Maddi l’aveva
chiuso quando eravamo entrati. Una voce maschile imprecò. Evidentemente
Jakan aveva qualche problema con la sua chiave. Maddi si alzò e mi invitò a
seguirla. «Ascolta, il mese prossimo andrò a un matrimonio a Cana insieme a
mia sorella Marta, una settimana dopo la Festa dei Tabernacoli. Jakan non
può venire, ha un incontro del Sinedrio o qualcosa del genere. Vieni. E porta
anche Gesù».
«Ci proverò».
Corse verso il muro più vicino e unì le mani a formare una staffa.
«Scavalca».
«Ma, Maddi…».
«Non fare lo smidollato. Un piede sulle mie mani… un piede sulla mia
spalla… e scavalchi. Attento ai cocci in cima».
Corsi e feci esattamente come mi aveva detto, saltando dall’altra parte,
prima che Jakan varcasse il cancello.
«Ne ho presa una!» disse uno dei ciechi mentre cadevo su di loro.
«Tienila ferma, mentre io glielo metto dentro».

Ero seduto su un masso ad aspettare Gesù, quando fece ritorno dal deserto.
Gli tesi le braccia per stringerlo a me, e lui cadde in avanti e lasciò che lo
prendessi. Lo feci accomodare sulla roccia su cui ero seduto. Era stato
abbastanza furbo da cospargersi la pelle esposta con del fango, probabilmente
mescolato con la sua stessa sua urina, per proteggersi dalle scottature; ma in
alcuni punti sulla fronte e sulle mani la terra era venuta via e la pelle si era
bruciata lasciando la carne viva. Le braccia erano sottili come quelle di una
ragazza e sciacquavano nelle ampie maniche della veste.
«Stai bene?».
Annuì. Gli porsi un otre d’acqua che avevo tenuto all’ombra, al fresco. Ne
bevve qualche piccolo sorso, controllandosi.
«Ti va una locusta?» gli chiesi, tenendo una di quelle piaghe croccanti tra
pollice e indice.
Quando la vide, pensai che avrebbe vomitato l’acqua che aveva appena
bevuto. «Scherzavo». Aprii la sacca e gli mostrai il contenuto: datteri, fichi
freschi, olive, formaggio, mezza dozzina di pagnotte di pane azzimo e un otre
pieno di vino. Avevo mandato il nuovo arrivato a Gerico il giorno prima, a
fare spese.
Gesù guardò il cibo uscito dalla sacca e sorrise. Poi si coprì la bocca con
una mano. «Oh. Ouch. Oh».
«Che c’è che non va?».
«Le labbra… sono screpolate».
«Mirra». Tirai fuori un vasetto di quell’unguento e glielo passai.
Un’ora dopo, il Figlio di Dio era rinvigorito e ringiovanito, e ci sedemmo
insieme a dividerci l’ultimo goccio di vino - il primo che bevesse da quando
eravamo tornati dall’India, più di un anno prima.
«Allora, che cos’hai visto nel deserto?».
«Il diavolo».
«Il diavolo?».
«Sì. Mi ha tentato. Mi ha offerto potere, ricchezze, sesso: quel genere di
cose. E io ho rifiutato».
«Che aspetto aveva?».
«Era alto».
«Alto? Hai visto il principe delle tenebre, il serpente della tentazione, la
fonte di ogni male e di ogni corruzione… e tutto quello che sai dire è che era
alto?».
«Parecchio».
«Allora terrò gli occhi aperti».
Gesù indicò il nuovo arrivato. «Anche lui è alto». A quel punto mi resi
conto che forse il Messia era un po’ brillo.
«Non è il diavolo, amico». «E allora chi è?».
«Mi chiamo Filippo» rispose. «Domani verrò con voi a Cana».
Gesù si girò verso di me e per poco non cadde dal masso. «Domani
andiamo a Cana?».
«Sì, ci sarà anche Maddi. Sta morendo, Gesù».
25

Filippo, detto il nuovo arrivato, ci chiese di passare per Betania, dove c’era
un suo amico che voleva invitare a far parte del nostro gruppo. «Ho cercato di
convincerlo a seguire Giovanni» ci disse «ma non gli andava giù l’idea di
mangiare le locuste e vivere in una fossa. Comunque, lui è di Cana e sono
certo che sarà felicissimo di fare una visita a casa».
Quando giungemmo nella piazza di Betania, Filippo chiamò un ragazzo
biondo che sedeva sotto un fico. Era lo stesso giovane che avevamo visto io e
Gesù quando eravamo passati di lì oltre un anno prima.
«Ehi, Natanaele» lo chiamò Filippo. «Vieni, unisciti a me e ai miei amici.
Andiamo a Cana. Loro sono di Nazaret. E questo che vedi, Gesù, potrebbe
essere il Messia».
«Potrebbe essere?» chiesi.
Natanaele venne sulla strada per darci un’occhiata, schermandosi gli occhi
dal sole. Non poteva avere più di sedici o diciassette anni. Sul mento si
vedeva appena un primo accenno di barba. «Da Nazaret può mai venire
qualcosa di buono?» chiese.
«Gesù, Biff, Bartolomeo: questo è il mio amico Natanaele».
«Io ti conosco» disse il mio amico. «Ti ho visto quando sono passato di qui
l’ultima volta».
Poi, inspiegabilmente, Natanaele si gettò in ginocchio davanti al cammello di
Gesù e disse: «Tu sei veramente il Messia, e il Figlio di Dio».
Gesù guardò prima me, poi Filippo, e infine il ragazzo prostrato ai piedi del
cammello. «Solo perché ho detto di averti già visto credi che sia il Messia?
Un minuto fa sostenevi che nulla di buono poteva venire da Nazaret…».
«Certo, perché no?».
E Gesù guardò ancora me, come se potessi spiegargli il senso di quelle
parole. Nel frattempo Bartolomeo, che veniva a piedi con il suo branco di
seguaci canini (che aveva fastidiosamente cominciato a chiamare i suoi
“discepoli”) si avvicinò a Natanaele e lo aiutò ad alzarsi. «Alzati, se vuoi
venire con noi».
E il ragazzo si prostrò davanti a lui. «Tu sei veramente il Messia e il Figlio
di Dio».
«No» rispose Bart, facendolo alzare di nuovo. «È lui». Indicò Gesù. Per
qualche ragione, Natanaele guardò me per avere conferma.
«Tu sei proprio uno sprovveduto» gli dissi. «Non giochi d’azzardo, vero?».
«Biff!» esclamò Gesù. Scosse il capo e io scrollai le spalle. A Natanaele
disse: «Sei il benvenuto, se vuoi unirti a noi. Ci dividiamo i cammelli, il cibo
e il poco denaro che abbiamo». A questo punto Gesù indicò Filippo, che era
stato incaricato di tenere il portamonete della comunità perché era bravo in
matematica.
«Grazie» disse il ragazzo, che si mise in fila dietro di noi.
E così diventammo cinque.
«Gesù» dissi al mio amico in un sussurro stridulo «quel tipo è stupido
come una biscia».
«Non è stupido, Biff. È semplicemente incline a credere».
«D’accordo» dissi, voltandomi verso Filippo. «Impediscigli di avvicinarsi
ai soldi».
Mentre uscivamo dalla piazza diretti al Monte degli Ulivi, Abele e Crustus,
i due vecchi ciechi che mi avevano aiutato a spiare oltre il muro di Maddi, ci
chiamarono dal canale di scolo. (Avevo imparato i loro nomi dopo aver
rettificato il loro piccolo errore sessuale.)
«Oh, figlio di Davide, abbi pietà di noi!».
Gesù tirò le redini del suo cammello. «Che cosa vi spinge a chiamarmi
così?».
«Non sei forse Gesù di Nazaret, il giovane predicatore che studiava con
Giovanni?».
«Sì, sono io».
«Abbiamo sentito la voce del Signore dire che tu sei il suo Figlio
prediletto, in cui si è compiaciuto».
«L’avete sentita?».
«Sì, cinque o sei settimane fa. Una voce dal cielo».
«Dannazione, l’hanno sentita tutti tranne me?».
«Abbi pietà di noi, Gesù» disse uno dei due.
«Sì, abbi pietà».
Allora Gesù smontò dal suo cammello, posò le mani sugli occhi dei due e
disse: «Voi avete fede nel Signore, e avete sentito - come tutti gli abitanti
della Giudea, evidentemente - che sono il suo figlio prediletto, in cui si è
compiaciuto». Tolse le mani e i due vecchi si guardarono intorno.
«Ditemi che cosa vedete».
Loro guardavano senza dire nulla.
«Coraggio, parlate».
I due si guardarono.
«Qualcosa non va? Riuscite a vedere, non è vero?».
«Be’, sì» rispose Abele. «Ma pensavo che il mondo fosse più colorato».
«Già» fece Crustus. «Invece è… come dire… smorto».
Mi feci avanti io. «Siete ai margini del deserto della Giudea, uno dei posti
più morti, desolati e ostili della Terra. Cosa vi aspettavate?».
«Non lo so» rispose Crustus. «Qualcosa di più».
«Sì, qualcosa di più. Quello che colore è?» chiese Abele.
«Marrone».
«E quello?».
«Anche».
«E quell’altro? Proprio là…».
«Marrone».
«Sei sicuro che non sia malva?».
«No, è marrone».
«E…».
«Marrone» anticipai.
I due ex ciechi diedero una scrollata di spalle e se ne andarono borbottando
tra loro.
«Eccellente guarigione» commentò Natanaele.
«Non ne avevo mai vista una migliore» disse Filippo. «Del resto, io sono
nuovo».
E Gesù montò in sella, scuotendo il capo.

Arrivati a Cana eravamo distrutti e affamati e più che mai pronti a godere
del banchetto, almeno la maggior parte di noi. Gesù infatti non sapeva nulla
della festa. Il matrimonio si teneva nel cortile di una casa molto spaziosa.
Avvicinandoci ai cancelli udimmo tamburi e canti, e sentimmo il profumo
della carne speziata che arrostiva. Erano nozze con molti invitati, e due
ragazzini attendevano fuori per occuparsi dei nostri cammelli. Dovevano
avere dieci anni, e avevano i capelli ricci e ispidi: sembravano la brutta copia
del sottoscritto e di Gesù alla stessa età.
«A quanto pare stanno festeggiando le nozze di qualcuno» osservò il mio
amico.
«Vuoi che ti sistemi il cammello, signore?» chiese il ragazzino addetto alle
bestie.
«È davvero un matrimonio» disse Bart. «Pensavo fossimo qui per aiutare
Maddi».
«Vuoi che ti parcheggi il cammello, signore?» chiese l’altro, tirando le
redini della mia cavalcatura.
Gesù mi lanciò un’occhiata. «Dov’è Maddi? Non avevi detto che era
malata?».
«E fra gli invitati» risposi, strappando le redini al ragazzino.
«Hai detto che stava morendo».
«Tutti noi stiamo morendo, no? Voglio dire, se ci pensi bene…». Ghignai.
«Non puoi parcheggiare qui il tuo cammello, signore».
«Senti, ragazzino, non ho soldi da darti. Sparisci». Detesto consegnare il
mio cammello ai parcheggiatori. Mi dà sui nervi. Ho sempre paura di non
rivederlo, o di trovarlo senza un dente o con un occhio fuori dall’orbita.
«Quindi non sta morendo davvero?».
«Ehi, ragazzi» fece lei, uscendo dal cancello.
«Maddi». Gesù lanciò in aria le braccia per la sorpresa. Era così preso da
lei che si scordò di riafferrare le redini, e il suo cammello partì. Cadde a terra
a faccia in giù con un tonfo sordo e un sibilo. Io smontai con un balzo, i cani
di Bart si misero ad abbaiare, Maddi corse da Gesù, lo girò e gli prese la testa
in grembo, mentre lui si sforzava di riprendere fiato. Filippo e Natanaele
fecero segno alla gente che stava sbirciando attraverso il cancello per vedere
il motivo di tanta confusione. Prima che avessi la possibilità di voltarmi, i due
ragazzini saltarono in groppa ai nostri cammelli e svoltarono l’angolo diretti a
Nod, o nel South Dakota, o in qualche altra località di cui non conoscevo la
collocazione.
«Maddi» ripetè Gesù. «Tu non sei malata».
«Dipende» disse. «Posso anche esserlo, se ciò comporta un’imposizione
delle mani».
Lui sorrise e arrossì. «Mi sei mancata».
«Anche tu». Lo baciò, e tenne le labbra incollate alle sue fino a quando
non cominciai a sentirmi imbarazzato e gli altri discepoli non presero a
schiarirsi la gola e a suggerire di “andare a cercare una stanza” con un colpo
di tosse. Maddi si tirò su e aiutò Gesù a rialzarsi. «Venite, ragazzi» disse. E
poi, rivolta a Bart, aggiunse: «Niente cani». Il corpulento cinico scrollò le
spalle e si sedette in strada in mezzo ai suoi discepoli.
Io stavo allungando il collo nel tentativo di vedere dove avessero portato i
nostri cammelli. «Li sfiancheranno, e sono certo che non gli daranno da bere,
né da mangiare».
«Chi?» chiese Maddi.
«Quei parcheggiatori di cammelli».
«Biff, questo è il matrimonio del mio fratello minore. Non poteva
permettersi neanche il vino. Non ha ingaggiato nessuno che provvedesse ai
cammelli».
Bartolomeo si alzò e radunò le sue truppe. «Li trovo io». E s’incamminò
con passo pesante.

Mangiammo carne di manzo e di montone, ogni genere di frutta e verdura,
pasticci di fagioli e di noci, formaggio e pane con olio d’oliva di prima
spremitura. Seguirono canti e danze e, se non fosse stato per dei vecchi
rompiscatole che se ne stavano in un angolo, nessuno avrebbe capito che
mancava il vino. Quando la nostra gente danzava, lo faceva in gruppi
numerosi che si disponevano in fila e in cerchio. Non a coppie. C’erano balli
per uomini e balli per donne, e pochi a cui potevano partecipare entrambi i
gruppi. Per questo la gente fissava Gesù e Maddi: perché stavano decisamente
ballando insieme.
Mi ritirai in un angolo dove vidi sua sorella, Marta, che li osservava
sbocconcellando un pezzo di pane con del formaggio di capra. Aveva
venticinque anni ed era una versione più bassa e robusta di Maddi, con gli
stessi capelli castani dai riflessi ramati e gli stessi occhi azzurri, ma con una
minore tendenza alla risata. Suo marito l’aveva ripudiata per “grave
racchiataggine”, e adesso viveva a Betania con il fratello maggiore, Simone
detto Lazzaro. L’avevo conosciuta quando eravamo bambini, e lei portava dei
messaggi alla sorella da parte mia. Mi offrì un pezzo di pane con il formaggio,
e io accettai.
«Si farà lapidare» disse con il classico tono da sorella minore, lievemente
acre e moderatamente geloso. «Jakan è un membro del Sinedrio».
«È ancora un prepotente?».
«Peggio. Adesso ha anche il potere. La farebbe lapidare solo per
dimostrare che può farlo».
«Per aver ballato? Ma nemmeno i farisei…».
«Se qualcuno l’avesse vista baciare Gesù…».
«Allora, come stai?» le chiesi per cambiare argomento.
«Adesso vivo da mio fratello Simone».
«L’ho sentito».
«Ha la lebbra».
«Guarda, c’è la madre di Gesù. Vado a salutarla».

«Non c’è vino a questo sposalizio» disse Maria.
«Lo so. Strano, vero?».
Giacomo rimase lì accanto, accigliato, mentre abbracciavo sua madre.
«C’è anche Gesù?».
«Sì».
«Oh, bene. Temevo che voi due vi foste fatti arrestare insieme a
Giovanni».
«Scusa?». Feci un passi indietro e guardai Giacomo per avere spiegazioni.
Mi sembrava molto più adatto a comunicare brutte notizie.
«Non l’avete saputo? Erode l’ha fatto sbattere in prigione per aver incitato
la gente alla rivolta. Questa è la scusa, comunque. È stata sua moglie a
pretendere che gli fosse chiusa la bocca. Era stanca di sentirsi dare della
“prostituta” dai suoi discepoli».
Sfiorai le spalle di Maria e mi allontanai. «Vado a dire a Gesù che siete
qui».
Lo trovai seduto in un angolo lontano del cortile; stava giocando con
alcuni bambini. Una ragazzina aveva portato il suo coniglietto alle nozze, e
Gesù lo teneva in grembo e gli accarezzava le orecchie.
«Biff, vieni a sentire com’è morbido».
«Gesù, Giovanni è stato arrestato».
Riconsegnò lentamente la bestiola alla bambina e si alzò in piedi.
«Quand’è successo?».
«Non lo so con sicurezza. Poco dopo la nostra partenza, credo».
«Non avrei dovuto abbandonarlo. Non gli ho nemmeno detto che ce ne
saremmo andati».
«Doveva succedere, amico. Gliel’avevo detto di lasciar perdere Erode, ma
lui non ha voluto ascoltarmi. Non avresti potuto fare nulla».
«Sì, invece. Io sono il Figlio di Dio».
«Già, saresti potuto andare in prigione con lui. Tua madre è qui. Vai a
parlarle. È stata lei a dirmelo».
Mentre la abbracciava, lei gli disse: «Devi fare qualcosa per questa storia
del vino. Dove lo tengono?».
Giacomo gli toccò una spalla. «Non ne hai portato dai lussureggianti
vigneti di Gerico?». (Non mi piacque affatto sentirgli usare del sarcasmo
contro Gesù. Avevo sempre pensato di utilizzare la mia invenzione a scopo
positivo, o per lo meno contro le persone che non mi piacevano.)
Gesù allontanò delicatamente sua madre. «Avrai il vino» le disse. Quindi si
diresse verso un lato della casa, dove l’acqua da tavola era conservata in sei
giare di pietra. Pochi minuti dopo tornò con una brocca di vino e dei calici per
tutti noi. Un grido attraversò la folla, e improvvisamente la festa sembrò salire
di livello. Brocche e coppe vennero colmate, vuotate e riempite ancora, e chi
si trovava vicino alle giare cominciò a gridare al miracolo: Gesù di Nazaret
aveva tramutato l’acqua in vino. Lo cercai, ma non riuscii a vederlo da
nessuna parte. Essendo libero dal peccato sin da quando era venuto al mondo,
non era molto bravo a sopportare il senso di colpa, pertanto si era allontanato
da solo nel tentativo di placare il tormento che provava per l’arresto di
Giovanni.
Dopo alcune ore di astuzie e sotterfugi, riuscii a convincere Maddi a
seguirmi fuori dal cancello posteriore.
«Vieni via con noi. Hai parlato con Gesù. Hai visto il vino. È lui».
«L’ho sempre saputo, ma non posso venire con voi. Sono sposata».
«Io pensavo che volessi fare la pescatrice».
«E io che tu volessi diventare l’idiota del villaggio».
«Sto ancora cercando il villaggio. Senti, fai in modo di farti ripudiare».
«Qualunque cosa faccia, in tal senso, potrebbe indurlo a uccidermi. L’ho
visto pronunciare sentenze contro gli imputati, Biff. L’ho visto guidare le folle
alle lapidazioni. Ho paura di lui».
«Io ho imparato a fabbricare veleni in Oriente». Sollevai le sopracciglia e
ghignai. «Che ne pensi?».
«Non ho intenzione di avvelenare il mio sposo».
Trassi un sospiro, uno di quei sospiri esasperati che avevo imparato da mia
madre. «Allora lascialo e vieni via con noi, lontano da Gerusalemme, dove
non può raggiungerti. Dovrà ripudiarti per salvare la faccia».
«Perché dovrei andarmene, Biff? Per seguire un uomo che non mi vuole, e
che - anche se mi volesse - non mi prenderebbe?».
Non sapevo che cosa dire, stava girando il coltello nella piaga. Mi guardai
i sandali e finsi di avere qualcosa in gola.
Mi venne vicina, mi mise le braccia intorno al collo e posò la testa contro il
mio petto. «Mi dispiace» disse.
«Lo so».
«Mi siete mancati entrambi, ma mi sei mancato anche tu».
«Lo so».
«Non verrò a letto con te».
«Lo so».
«Allora, per favore, smetti di strofinarmelo addosso».
«Certo».
In quel momento Gesù uscì dal cancello incespicando e ci investì, ma
riuscimmo a restare in piedi e a sorreggerlo. Aveva con sé il coniglietto della
bambina; lo teneva contro una guancia, e una zampa posteriore ciondolava
libera. Era gloriosamente ubriaco.
«Sapete una cosa?» ci disse. «Adoro i conigli. Non faticano, non abbaiano
mai. A partire da questo momento, dichiaro che ogni volta che mi succederà
qualcosa di brutto ci saranno in giro dei conigli. Così sarà scritto. Avanti, Biff:
scrivi». Mi fece segno da dietro il coniglietto, poi si voltò e fece per
riattraversare il cancello. «Dov’è quel fottutissimo vino? Qui c’è un coniglio
assetato!».
«Non vorrai perderti una cosa simile» dissi a Maddi. «Coniglietti!».
Rise. La mia musica preferita.
«Mi farò sentire» disse. «Dove starete?».
«Non ne ho idea».
«Mi farò viva».

Era mezzanotte, la festa si avviava alla conclusione e noi discepoli
eravamo seduti in strada davanti alla casa. Gesù aveva perso i sensi e
Bartolomeo gli aveva messo un cagnolino sotto il capo come cuscino. Prima
di andarsene, Giacomo ci aveva fatto capire palesemente che a Nazaret non
eravamo i benvenuti.
«Ebbene?» fece Filippo. «Suppongo non sia possibile tornare da
Giovanni».
«Mi dispiace, non sono riuscito a trovare i cammelli» disse Bartolomeo.
«Mi hanno preso in giro per i miei capelli gialli» si lamentò Natanaele.
«Pensavo fossi di Cana» gli dissi. «Non hai una famiglia con cui stare?».
«Peste».
«Peste» ripetemmo in coro, annuendo. Capita.
«Credo che questi vi servano» giunse una voce dall’oscurità. Sollevammo
gli occhi e vedemmo un uomo basso ma muscoloso, che usciva dal buio
trainando le nostre cavalcature.
«I cammelli» disse Natanaele.
«Vogliate accettare le mie scuse. I figli di mio fratello li hanno portati a
casa nostra, a Cafarnao. Mi dispiace se ho impiegato tanto tempo per
riportarveli».
Mi alzai e mi consegnò le redini. «Hanno avuto cibo e acqua». Indicò
Gesù, che stava russando sul suo terrier. «Beve sempre così?».
«Solo quando un grande profeta viene arrestato».
L’uomo annuì. «Ho sentito quello che ha fatto con il vino. Dicono che ha
anche guarito uno storpio a Cana, oggi pomeriggio. È vero?».
Annuimmo tutti.
«Se non avete un posto dove stare, potete venire tutti a casa con me per un
paio di giorni, a Cafarnao. Ve lo dobbiamo, se non altro per avervi preso i
cammelli». «Non abbiamo denaro».
«Allora vi sentirete a vostro agio. Io mi chiamo Andrea».

E così diventammo sei.
26

Ovunque tu vada, trovi sempre qualcosa da imparare. Sulla strada per
Cafarnao, ad esempio, scoprii che se metti un uomo ubriaco su un cammello e
lo sbatacchi per qualche ora, alla fine tutto il veleno che ha ingerito viene
fuori, da un’estremità o dall’altra.
«Qualcuno dovrà lavare quel cammello prima di entrare in città» osservò
Andrea.
Stavamo viaggiando lungo la costa del Mare di Galilea (che non è affatto
un mare). La luna era quasi piena e si rifletteva sulla superficie dell’acqua,
facendola sembrare una pozza di mercurio. Toccò a Natanaele pulire il
cammello, in quanto “nuovo arrivato” ufficiale. (Gesù non aveva ancora
conosciuto Andrea e questi non aveva ancora accettato di unirsi a noi, quindi
quel ruolo non gli spettava.) Visto l’ottimo lavoro che fece con l’animale,
lasciammo a Natanaele anche il compito di ripulire Gesù. Una volta immerso
nell’acqua, il Messia uscì dal suo stato d’incoscienza il tempo sufficiente per
biascicare qualcosa come: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i
loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
«E così triste» disse Natanaele.
«Sì, lo è» feci io. «Immergilo di nuovo. Ha ancora del vomito sulla barba».
E così al chiaro di luna, ripulito e gettato apaticamente su un cammello,
Gesù fece il suo ingresso a Cafarnao, dove sarebbe stato accolto come se
fosse giunto a casa sua.
«Fuori!» strillò la vecchia. «Vi voglio fuori da questa casa e da questa città
e, per quel che m’importa, fuori dalla Galilea».
Era un’alba splendida sul lago. Il cielo era dipinto di giallo e arancio, e
lievi onde sciabordavano contro le chiglie dei pescherecci di Cafarnao. Il
villaggio era a un tiro di schioppo (no, lo schioppo non l’avevamo ancora, ma
so cos’è) dall’acqua, e il riflesso della luce dorata investiva le pareti di pietra
nera delle case, quasi danzasse al richiamo dei gabbiani e al canto degli
uccelli. Le case, tutte a un solo piano, erano ammassate in due grandi blocchi,
con pareti in comune ed entrate su tutti i lati. Tra i due borghi passava una
piccola strada principale. Lungo la via c’erano delle botteghe, una fucina e,
nella piccola piazza, una sinagoga che poteva contenere molti più fedeli dei
trecento che vivevano nella cittadina. Del resto, i villaggi lungo le sponde del
lago erano vicinissimi l’uno all’altro, e probabilmente l’edificio serviva
diverse comunità. Non c’era una piazza centrale intorno al pozzo, come
invece accadeva in molti paesi dell’entroterra, poiché la gente si riforniva al
lago o alla vicina sorgente, da cui l’acqua limpida e fredda sgorgava
formando un poderoso zampillo.
Andrea ci aveva depositati a casa di suo fratello Pietro, e c’eravamo
addormentati nell’ampia stanza in mezzo ai bambini: poche ore dopo, però, la
suocera di Pietro si era svegliata ed era venuta a dirci che dovevamo
andarcene. Gesù si teneva la testa con entrambe le mani, quasi temesse che
potesse cadergli dal collo.
«Non voglio scrocconi e fannulloni in casa mia» gridò la vecchia, mentre
ci tirava dietro la mia sacca.
«Acc». Gesù indietreggiò per il baccano.
«Siamo a Cafarnao, amico. Un uomo di nome Andrea ci ha portati qui
perché i suoi nipoti avevano rubato i nostri cammelli».
«Hai detto che Maddi stava per morire».
«Avresti lasciato Giovanni, se ti avessi detto semplicemente che Maddi
voleva incontrarti?».
«No». Fece un sorriso sognante. «È stato bello rivederla». Poi il sorriso
lasciò il posto a uno sguardo arcigno. «Viva».
«Giovanni non ha voluto ascoltarci. Hai trascorso oltre un mese nel
deserto, e non hai visto tutti i soldati e persino gli scribi nascosti tra la folla
che trascrivevano quello che diceva. Doveva succedere».
«Allora avresti dovuto avvertire mio cugino!».
«L’ho fatto. Ogni giorno. Non ha voluto sentir ragioni, non più di quanto
avresti fatto tu».
«Dobbiamo tornare in Giudea. I seguaci di Giovanni…».
«Adesso seguiranno te. Basta con i preparativi, Gesù».
Lui annuì e guardò il terreno davanti ai suoi piedi. «È ora. Dove sono gli
altri?».
«Ho mandato Filippo e Natanaele a Zippori perché vendessero i cammelli.
Bartolomeo sta dormendo con i cani in mezzo alle canne».
«Ci servono più discepoli».
«Siamo al verde, amico. Ci servono discepoli che abbiano
un’occupazione».

Un’ora dopo eravamo sulla costa, vicino al punto in cui Andrea e il fratello
stavano gettando le reti. Pietro era più alto e più magro e aveva una chioma
grigia addirittura più sconvolta di quella del Battista; Andrea, invece, si
pettinava i capelli scuri all’indietro e li legava con un cordino, perché non gli
andassero davanti al viso quando era in acqua. Erano entrambi nudi: gli
uomini pescavano così, quando si trovavano vicino a riva.
Avevo usato della corteccia per preparare un rimedio per l’emicrania di
Gesù, e capii che stava funzionando, anche se forse non abbastanza. Lo spinsi
verso la costa.
«Non sono pronto per questo. Mi sento uno schifo».
«Chiedi a loro».
«Andrea» chiamò. «Grazie di averci portati a casa con te. E grazie anche a
te, Pietro».
«Mia suocera vi ha gettati fuori?» chiese quest’ultimo. Gettò la sua rete e
aspettò che scendesse sul fondo, poi si tuffò nel lago per prenderla. Dentro
c’era un pesciolino. Lo tirò fuori e lo ributtò in acqua. «Cresci» gli disse.
«Tu sai chi sono?» chiese Gesù.
«L’ho sentito dire. Andrea sostiene che hai trasformato l’acqua in vino. E
che hai curato il cieco e lo storpio. Pensa che porterai il Regno sulla Terra».
«E tu che cosa pensi?».
«Che mio fratello minore è più intelligente di me, pertanto mi fido di
quello che dice».
«Vieni con noi. Stiamo andando ad annunciare l’avvento del Regno. E
abbiamo bisogno di aiuto».
«Che cosa possiamo fare? Siamo solo pescatori».
«Venite con me e farò di voi dei pescatori di uomini».
Andrea guardò il fratello, che era ancora in piedi nell’acqua. Pietro scrollò
le spalle e scosse il capo. Andrea mi guardò, scrollò le spalle e scosse il capo.
«Non capiscono» dissi a Gesù.

E così, dopo che il mio amico ebbe messo qualcosa sotto i denti,
schiacciato un pisolino e spiegato che cosa diavolo fossero i “pescatori di
uomini”, diventammo sette.

«Questi sono nostri soci» disse Pietro, mentre lo seguivamo in tutta fretta
lungo la costa. «Sono i proprietari delle navi su cui lavoriamo io e Andrea.
Non possiamo andare a diffondere la buona novella se non ci sono anche
loro».
Arrivammo in un altro piccolo villaggio, e Pietro indicò due fratelli che
stavano adattando un nuovo scalmo al capo di banda di un peschereccio. Uno
era magro e spigoloso, con i capelli corvini e la barba tagliata a formare delle
punte malvagie: Giacomo. L’altro era più vecchio, più grosso, più morbido,
con torace e spalle imponenti ma con mani piccole e polsi sottili, e aveva una
frangia di capelli castani screziati di grigio intorno alla pelata bruciata dal
sole: Giovanni.
«Solo un suggerimento» disse Pietro a Gesù. «Non accennare a quella
storia dei pescatori di uomini. Presto farà buio; non avrai modo di spiegare, se
vogliamo arrivare a casa in tempo per la cena».
«Già» feci io «parla soltanto dei miracoli e del Regno. Di’ qualcosa del tuo
Spirito Santo, ma non esagerare finché non avranno accettato di unirsi a noi».
«Io quella cosa dello Spirito Santo non l’ho ancora capita» disse Pietro.
«Non c’è problema, ci torneremo sopra domani».
Mentre andavamo verso i fratelli, udimmo un fruscio tra i cespugli vicini, e
tre mucchi di stracci vennero a mettersi sul nostro cammino.
«Abbi pietà di noi, rabbi» disse uno dei tre mucchi.
Lebbrosi.
(E qui devo dire qualcosa: Gesù mi aveva parlato del potere dell’amore e
di tutto il resto, e sapevo bene che la Divina Scintilla che splendeva in quelle
persone era identica alla mia, quindi non avrei dovuto permettere che la
presenza dei lebbrosi mi infastidisse. Sapevo che considerarli immondi
secondo la legge era ingiusto, così com’era ingiusto il trattamento che i
bramini riservavano ai paria. E ho guardato abbastanza televisione da sapere
che voi probabilmente adesso non li chiamereste nemmeno lebbrosi, per non
ferire i loro sentimenti. Piuttosto li definireste dei “disabili che perdono i
pezzi”, o qualcosa del genere. Detto ciò, per quante guarigioni vedessi, i
lebbrosi riuscivano sempre a farmi venire i brividi. Ed è una cosa che non ho
mai superato.)
«Che cosa volete?» chiese loro Gesù.
«Che possa alleviare le nostre sofferenze» rispose un mucchio di stracci
con voce di donna.
«Amico» gli dissi «io vado a dare un’occhiata all’acqua».
«Penso che abbia bisogno d’aiuto» aggiunse Pietro.
«Venite a me» disse il Messia ai lebbrosi.
E i tre si fecero avanti, fluendo come un liquido. Gesù impose le mani su
di loro e parlò in tono estremamente pacato. Passarono alcuni minuti, durante
i quali io e Pietro studiammo seriamente una rana che avevamo notato sulla
riva: poi sentii la voce del Messia pronunciare: «Adesso andate e dite ai
sacerdoti che non siete più immondi, e che dovete avere accesso al Tempio. E
riferite loro chi vi ha mandato».
I lebbrosi gettarono via gli stracci e lodarono Gesù, mentre si
allontanavano indietreggiando. Sembravano persone assolutamente normali
che casualmente erano vestite di cenci ridotti a brandelli.
Quando Pietro e io raggiungemmo Gesù, Giacomo e Giovanni erano già al
suo fianco.
«Ho toccato quei tre, che si diceva fossero immondi» disse ai due fratelli.
Per la legge mosaica, adesso era immondo anche lui.
Giacomo fece un passo avanti e lo prese per l’avambraccio, alla maniera
dei Romani. «Uno di quei tre era nostro fratello».
«Venite con noi» intervenni «e vi renderemo fabbricatori di scalmi per
uomini».
«E che accidenti significa?» chiese Gesù.
«È quello che stavano facendo quando siamo comparsi noi. Stavano
costruendo uno scalmo. Ora lo capisci quanto suona stupido?».
«Non è la stessa cosa».

E così diventammo nove.

Venduti i cammelli, Filippo e Natanaele tornarono con il denaro sufficiente
a sfamare i discepoli e l’intera famiglia di Pietro, così la suocera strillona di
quest’ultimo - si chiamava Ester - ci permise di restare, a patto che
Bartolomeo e i cani dormissero fuori. Cafarnao divenne la nostra base
operativa: da lì partivamo per viaggi di uno o due giorni in tutta la Galilea,
durante i quali Gesù predicava e compiva miracoli. La notizia dell’avvento
del Regno si diffuse in tutta la regione, e dopo solo pochi mesi cominciarono
a radunarsi vere e proprie folle per sentirlo parlare. Per lo Shabbat cercavamo
sempre di essere a Cafarnao, per permettergli di insegnare alla sinagoga. E fu
proprio quest’abitudine ad attirarci le attenzioni sbagliate.
Una mattina dello Shabbat, un soldato romano fermò Gesù mentre stava
compiendo la breve camminata fino alla sinagoga. (Nessun ebreo poteva fare
più di mille passi dal tramonto del venerdì fino al tramonto del sabato: mille
in una volta, s’intende. Non dovevi metterti a sommare quelli che facevi
durante il giorno… altrimenti ci sarebbero stati tantissimi ebrei in giro per le
strade, fermi, in attesa del calar del sole. Sarebbe stato imbarazzante. D’un
tratto, mi sento felice che i farisei non ci avessero pensato.)
Non era un mero legionario, bensì un centurione con la cresta sull’elmo e
l’aquila sulla corazza, i segni distintivi del comandante di legione. Era in sella
a un alto cavallo bianco che sembrava addestrato per il combattimento. Era
vecchio per essere un soldato: doveva avere una sessantina d’anni, e quando
si tolse l’elmo mostrò di avere i capelli completamente bianchi. Ma era forte,
e lo spadino che portava in vita aveva un’aria pericolosa. Non lo riconobbi
fino a quando non ebbe rivolto la parola a Gesù, in un perfetto aramaico privo
di accenti.
«Gesù di Nazaret» disse il romano. «Ti ricordi di me?».
«Justus» fece lui. «Di Zippori».
«Gaius Justus Gallicus. Sono a Tiberiade, adesso, e comando la Sesta
Legione. Ho bisogno del tuo aiuto, Gesù figlio di Giuseppe».
«Che cosa posso fare?». Si guardò intorno. Tutti i discepoli, tranne
Bartolomeo e il sottoscritto, erano riusciti a svignarsela quando il romano si
era avvicinato.
«Ti ho visto risvegliare un morto e farlo parlare. Ho sentito delle cose che
hai compiuto in tutta la Galilea: le guarigioni, i miracoli. Ho un servo malato.
Tormentato da una paralisi. Riesce a malapena a respirare e non posso vederlo
soffrire. Non ti chiedo di rompere lo Shabbat per venire a Tiberiade, ma sono
convinto che tu possa guarirlo, anche da qui».
Justus si gettò in ginocchio davanti a Gesù. Non avevo mai visto un
romano fare una cosa simile nei confronti di un ebreo, né mi capitò più in
seguito. «L’uomo di cui ti parlo è un mio amico».
Gesù gli toccò la tempia e vidi la paura abbandonare il viso del soldato.
Tante volte avevo assistito a una scena simile.
«Sia fatto secondo la tua fede» disse il mio amico. «È stato fatto, alzati,
Gaius Justus Gallicus».
Il centurione sorrise, poi si alzò e lo guardò negli occhi. «Avrei dovuto
crocifiggere tuo padre, per giustiziare l’assassino di quel soldato».
«Lo so».
«Grazie».
Si rimise l’elmo e montò in sella al suo cavallo. Poi mi guardò per la prima
volta. «Che ne è stato di quella piccola e graziosa rubacuori che bazzicava
sempre con voi due?».
«Ci ha spezzato il cuore» risposi.
Justus rise. «Stai attento, Gesù di Nazaret» disse. Quindi girò il cavallo e
se ne andò.
«Vai con Dio» gli augurò il mio amico.
«Bravo, Gesù. È così che si fa vedere ai Romani che cosa accadrà quando
sarà venuto il Regno».
«Taci, Biff».
«Oh, quindi l’hai ingannato. Lui arriverà a casa e scoprirà che il suo amico
è ancora messo male».
«Ricordi quello che ti dissi davanti alla porta del monastero di Gaspare?
Che, se qualcuno avesse bussato, l’avrei lasciato entrare?».
«Parabole! Io le detesto».

Tiberiade era a un’ora di cavalcata veloce da Cafarnao, pertanto entro il
mattino successivo avevamo già ricevuto notizie dalla guarnigione: il servo di
Justus era guarito. Non avevamo neanche avuto il tempo di finire la nostra
colazione, che quattro farisei si presentarono a casa di Pietro chiedendo di
Gesù.
«Hai compiuto una guarigione durante lo Shabbat?» chiese il più anziano.
Aveva la barba bianca e indossava il suo scialle da preghiera e i filatteri, che
portava avvolti intorno alla fronte e al braccio sinistro. (Che sfigato. Certo, i
filatteri li avevamo tutti - ogni ragazzo li riceveva dopo i tredici anni, ma
fingeva di perderli dopo qualche settimana e non li metteva mai. Tanto valeva
metterti un cartello con la scritta: “Salve, sono un pio sfigato”. Quello che
portava legato sulla fronte era una scatoletta di cuoio delle dimensioni di un
pugno, e conteneva preghiere scritte su pergamene… Sembrava che qualcuno
gli avesse legato una scatola sulla fronte… devo aggiungere altro?)
«Bei filatteri» dissi.
I discepoli risero. Natanaele era bravissimo a imitare il raglio dell’asino.
«Hai infranto lo Shabbat» disse il fariseo.
«Io posso farlo. Sono il Figlio di Dio».
«Oh, vaffanculo» esclamò Filippo.
«Bel modo di farli abituare all’idea, Gesù».

Lo Shabbat seguente un uomo con una mano paralizzata si presentò alla
sinagoga mentre Gesù predicava. Dopo il sermone, sotto gli occhi di
cinquanta farisei venuti appositamente a Cafarnao per controllare che non si
ripetessero le stesse cose, il Messia disse al poveretto che i suoi peccati erano
perdonati, e gli guarì la mano malata.
Come avvoltoi che piombano su una carogna, l’indomani mattina i farisei
si presentarono a casa di Pietro.
«Nessuno all’infuori di Dio può perdonare i peccati» dichiarò colui che
avevano scelto come portavoce.
«Davvero» disse Gesù. «Quindi non puoi perdonare qualcuno che pecca
contro di te?».
«Soltanto Dio può farlo».
«Lo terrò a mente. E adesso andatevene, a meno che non siate qui per
ascoltare la buona novella». Rientrò in casa e chiuse la porta.
«Tu, Gesù figlio di Giuseppe, sei un blasfemo…» gridò il fariseo.
Io ero lì, di fronte a lui. So che non avrei dovuto farlo, ma gli diedi un
colpetto. Non alla bocca: no, niente del genere.
Ai filatteri. La scatoletta di cuoio si aprì per l’impatto e le strisce di
pergamena caddero lentamente a terra. Ero stato così veloce che
probabilmente pensò si fosse trattato di un evento soprannaturale. Un grido si
levò dal gruppo alle sue spalle: protestavano, gridavano che non potevo fare
una cosa simile e che meritavo di essere lapidato, fustigato, eccetera eccetera.
La mia tolleranza buddhista si faceva sempre più debole.
Così lo colpii di nuovo, al naso.
Questa volta finì a terra. Due dei suoi lo afferrarono, e un altro davanti alla
folla infilò una mano nella fusciacca per cercare qualcosa. Sapevo che mi
sarebbero stati addosso in un lampo, se avessero voluto, ma non mi
sembravano queste le loro intenzioni. Codardi. Afferrai l’uomo che stava
estraendo il pugnale, glielo tolsi e conficcai la lama tra i sassi della casa di
Pietro, rompendola. Quindi, gli restituii il manico. «Andatevene» dissi in tono
pacato.
Obbedirono tutti. Io entrai per dare un’occhiata a Gesù e agli altri.
«Sai una cosa, amico?» dissi. «Credo sia giunto il momento di ampliare la
portata del tuo ministero. Hai un sacco di seguaci, qui. Forse dovremmo
spostarci sull’altro lato del lago. O dovremmo lasciare la Galilea per un po’».
«Stai suggerendo di predicare ai gentili?» chiese Natanaele.
«Ha ragione» disse Gesù. «Biff ha ragione».
«Così sarà scritto» conclusi.

Giacomo e Giovanni possedevano un’imbarcazione soltanto, grande
abbastanza da contenere tutti noi e i cani di Bartolomeo. Era ancorata a
Magdala, a due ore di cammino da Cafarnao, a sud. Partimmo una mattina
molto presto, per evitare di essere fermati nei villaggi lungo la strada. Gesù
aveva deciso di portare la buona novella ai gentili, pertanto avremmo
attraversato il lago per raggiungere la città di Gadara, nella Decapoli. Era là
che tenevano i gentili.
Mentre aspettavamo sulla costa di Magdala, una folla di donne radunatasi
per fare il bucato si raccolse intorno a Gesù, supplicandolo di raccontare del
Regno che sarebbe venuto. Notai lì vicino un giovane esattore delle tasse
seduto al suo tavolo, all’ombra di un canneto. Stava ascoltando il mio amico,
ma mi accorsi che il suo sguardo seguiva anche i posteriori delle donne. Lo
avvicinai con cautela.
«È straordinario, non è vero?».
«Sì, straordinario». Doveva avere vent’anni, era magro e aveva morbidi
capelli castani, un accenno di barba e occhi marrone chiaro.
«Qual è il tuo nome, pubblicano?».
«Matteo» rispose. «Figlio di Alfeo».
«Scherzi? Anche mio padre si chiama così. Ascolta: suppongo tu sappia
leggere, scrivere e cose del genere…».
«Oh, sì».
«Non sei sposato, vero?».
«No. Ero promesso a una giovane, ma prima del matrimonio i suoi genitori
le hanno fatto sposare un ricco vedovo».
«Che tristezza. Immagino che avrai il cuore in pezzi. Davvero triste. Vedi
quelle donne? Ce ne sono sempre intorno a Gesù. Ed ecco la parte migliore:
lui è celibe. Non ne vuole nessuna. Gli interessa soltanto salvare l’umanità e
portare il Regno di Dio sulla Terra. Il che interessa anche a noi, naturalmente.
Ma le donne… suppongo tu lo veda da solo».
«Dev’essere stupendo».
«Sì, è grandioso. Stiamo andando nella Decapoli. Perché non ti unisci a
noi?».
«Non posso. Mi hanno affidato il compito di riscuotere le tasse di tutta la
costa».
«Quello è il Messia, Matteo. Il Messia. Pensaci bene. Tu e il Messia».
«Non lo so».
«Donne. Il Regno. Hai sentito dell’acqua trasformata in vino».
«Devo proprio…».
«Hai mai assaggiato la pancetta affumicata, Matteo?».
«Pancetta? Non si ricava dai maiali? Non è un cibo immondo?».
«Gesù è il Messia e dice che è okay. È la cosa migliore che il nostro palato
abbia mai assaggiato. Le donne l’adorano. Noi la mangiamo tutte le mattine.
Con le donne. Sul serio».
«Devo finire qui».
«Allora fallo. Ecco, vorrei che tu facessi una cosa per me». Da sopra la sua
spalla guardai il libro mastro e gli indicai alcuni nomi. «Ci vediamo alla nave
quando sarai pronto, Matteo».
Tornai sulla costa, dove Giacomo e Giovanni avevano avvicinato la nave
quel tanto che ci permetteva di raggiungerla a piedi. Gesù finì di benedire le
donne e le rimandò al loro bucato con una parabola sulle macchie.
«Gentiluomini» chiamai. «Chiedo scusa Giacomo, Giovanni. .. dico anche
a voi, Pietro e Andrea. Per questa stagione non dovrete preoccuparvi delle
tasse. Me ne sono occupato io».
«Cosa?» fece Pietro. «E dove hai preso i soldi per…?».
Mi voltai e indicai Matteo con un cenno. Veniva di corsa verso la riva.
«Questo bravo giovane è un pubblicano e si chiama Matteo. È qui per unirsi a
noi».
Venne a mettersi accanto a me con un ghigno da idiota, mentre cercava di
riprendere fiato. «Salve» disse, salutando debolmente con la mano.
«Benvenuto, Matteo» lo accolse Gesù. «Sono tutti benvenuti nel Regno».
Quindi scosse il capo e si avviò verso la barca.
«Ti vuole bene, ragazzo» dissi a Matteo. «Ti vuole bene».
E fu così che diventammo dieci.

Gesù si addormentò su un mucchio di reti con il largo cappello di paglia di
Pietro calato sul viso. Prima di mettermi a dormire cullato dal moto delle
onde, mandai Filippo a poppa affinché spiegasse a Matteo i concetti di Regno
e Spirito Santo. (Pensavo che la sua perspicacia per i numeri potesse essere
utile, dovendo parlare con un esattore delle tasse.) Le due coppie di fratelli
conducevano la barca, molto larga e corredata di una piccola vela, e molto,
molto lenta. Eravamo circa a metà lago, quando sentii dire a Pietro: «Non mi
piace. C’è aria di burrasca».
Mi tirai su a sedere e guardai il cielo: in effetti stavano giungendo nuvole
nere da sopra le colline, a est. Erano basse e veloci, e al loro passaggio
afferravano gli alberi con lampi simili ad artigli. Improvvisamente un’onda
superò il basso capo di banda e mi inzuppò completamente.
«Non mi piace, dovremmo tornare indietro» disse Pietro, mentre venivamo
sferzati da una cortina di pioggia. «La barca è troppo piena e il tiraggio troppo
basso per affrontare una tempesta».
«Non va bene. Non va bene. Non va bene» cantilenava Natanaele.
I cani di Bartolomeo abbaiavano e ululavano al vento. Giacomo e
Giovanni orientarono la vela e calarono i remi in acqua. Pietro si spostò a
poppa per aiutare Giovanni con il lungo remo timoniere. Un’altra onda
s’infranse sul capo di banda, portandosi via un discepolo di Bart, un terrier
rognoso.
L’acqua sul fondo della barca ci arrivava a metà stinco. Afferrai un secchio
e cominciai a gettarla fuori bordo, facendo segno a Filippo di darmi una
mano, ma questi era vittima di uno dei più rapidi casi di mal di mare che
avessi mai visto, e stava vomitando dal fianco della barca.
Un lampo colpì l’albero e accese ogni cosa di una luce bianca
fosforescente. L’esplosione fu istantanea e mi fece fischiare le orecchie. Un
sandalo di Gesù mi passò accanto galleggiando sul fondo.
«Siamo condannati!» piagnucolò Bart. «Condannati!».
Gesù tirò indietro il cappello di paglia e guardò il caos intorno a lui. «Oh,
uomini di poca fede» disse. Agitò una mano in aria e la burrasca cessò. Così.
Le nuvole nere furono risucchiate oltre le colline, l’acqua si calmò e il sole
tornò a splendere luminoso, e caldo abbastanza da far uscire il vapore dai
nostri vestiti. Allungai un braccio oltre il fianco e afferrai il cagnolino che
nuotava tra le onde, ora lunghe e basse.
Gesù si calò di nuovo il cappello sul viso. «Quello nuovo sta guardando?»
mi chiese in un sussurro. «Sì».
«È rimasto impressionato?».
«E a bocca aperta. Sembra colpito».
«Fantastico. Svegliami quando arriviamo».
Lo svegliai poco prima di raggiungere Gadara, perché c’era un gigante
folle che ci aspettava a riva. Aveva la schiuma alla bocca, urlava e lanciava
sassi, e di tanto in tanto mangiava una manciata di terra.
«Ferma la barca, Pietro» dissi. Avevamo abbassato la vela e stavamo
avanzando a remi.
«Dovrei svegliare il maestro» disse Pietro.
«No, va tutto bene. Ho l’autorità di far fermare la barca nel caso si
presentassero dei folli con la schiuma alla bocca». Nondimeno, con il piede
diedi un lieve colpetto al Messia addormentato. «Gesù, forse dovresti dare
un’occhiata a questo tizio».
«Guarda, Pietro» disse Andrea indicando il pazzo. «Ha i capelli come i
tuoi».
Gesù si tirò su a sedere, spinse indietro il cappello da pescatore e lanciò
un’occhiata alla riva. «Andiamo avanti» disse.
«Sei sicuro?». I sassi cominciavano ad arrivare nella barca.
«Certo».
«È davvero grosso» osservò Matteo, senza che ce ne fosse bisogno.
«Ed è pazzo» disse Natanaele, per non essere da meno nel dire ovvietà.
«Sta soffrendo» dichiarò Gesù. «Andiamo avanti».
Un sasso grande quanto la mia testa colpì l’albero e rimbalzò in acqua. «Ti
strapperò le gambe e ti prenderò la testa a calci mentre ti trascini in giro fino a
morire dissanguato» disse il gigante.
«Sicuro che non vuoi procedere a nuoto?» chiese Pietro, schivando un
sasso.
«Una bella nuotata rinfrescante dopo il pisolino?» suggerì Giacomo.
Matteo, in piedi a poppa, si schiarì la gola. «Che cos’è un uomo tormentato
in confronto alla quiete dopo la tempesta? Eravate nella mia stessa barca?».
«Andiamo avanti» disse Pietro. E così facemmo, una grande barca carica
con a bordo Gesù, Matteo e noialtri otto miscredenti pezzi di merda.
Gesù scese a terra non appena giungemmo a riva. Andò dritto dal folle, che
aveva tutta l’aria di poter fracassare la testa del Messia con una sola mano.
Indosso aveva sudici stracci ridotti a brandelli, i denti erano spezzati e
sanguinanti per aver mangiato le zolle di terra. Il viso era contorto e pieno di
bolle, come se avesse dei grossi vermi sotto la pelle che tentavano di uscire. I
capelli spettinati formavano un enorme groviglio grigiastro, e somigliavano a
quelli di Pietro.
«Abbi pietà di me» disse il folle. La voce gli ronzava nella gola come un
coro di locuste.
Scivolai giù dalla barca seguito silenziosamente dagli altri, e insieme
raggiungemmo Gesù.
«Come ti chiami, demone?» gli chiese il mio amico.
«Tu come vuoi che mi chiami?».
«Sai, mi è sempre piaciuto il nome Harvey».
«Dimmi un po’ se non è una coincidenza. Io mi chiamo proprio Harvey».
«Mi stai prendendo in giro, non è vero?».
«Sì» rispose il demone, domato. «Il mio nome è Legione, perché qui
dentro siamo in parecchi».
«Esci da questo corpo, Legione» comandò il mio amico. «Lascia
quest’omone».
Lì vicino c’era un branco di maiali, che facevano cose da maiali. (Non so
cosa stessero facendo. Sono ebreo, che cosa posso conoscere dei suini oltre
alla pancetta?) Un enorme bagliore verde uscì dalla bocca di Legione, girando
nell’aria come fumo, e poi si abbatté sui maiali come una nuvola. In un istante
fu risucchiato dalle narici dei porcellini, che cominciarono a sbavare e a fare
rumori di locuste.
«Andatevene» disse Gesù. E con ciò i maiali corsero nel lago, presero
enormi boccate d’acqua e, dopo aver scalciato un pochino, morirono annegati.
Erano forse cinquanta, e adesso si muovevano su e giù sulle onde lunghe.
«Come posso ringraziarti?» chiese il gigante con la schiuma alla bocca,
che non sbavava più ma era sempre immenso.
«Racconta l’accaduto alla gente della tua terra. Di’ loro che il Figlio di Dio
è venuto a portare la buona novella dello Spirito Santo».
«Magari datti una pulita, prima» osservai.
E così il mostro se ne andò, con il suo passo pesante. Era addirittura più
grosso del nostro Bartolomeo, e aveva un odore peggiore - cosa che mai avrei
ritenuto possibile. Ci sedemmo sulla spiaggia e ci dividemmo un po’ di pane e
vino, quando sentimmo la folla che si avvicinava dalle colline.
«Le buone nuove si diffondono in fretta» disse Matteo, il cui entusiasmo
da sbarbatello cominciava a darmi seriamente sui nervi.
«Chi ha ucciso i nostri maiali?».
La folla era armata di rastrelli, forconi e falci, e non aveva l’aria di essere
venuta sin lì per ascoltare il Vangelo.
«Fottuti bastardi!».
«Uccidiamoli!».
«Torniamo sulla barca» disse Gesù.
«Oh, uomini di poca…». Il commento di Matteo fu interrotto da Bart, che
lo afferrò per il colletto e lo trascinò lungo la spiaggia fino all’imbarcazione.
I fratelli avevano già spinto la barca al largo, ed erano immersi nell’acqua
fino al torace. Salirono a bordo, e Giacomo e Giovanni prepararono i remi
mentre Pietro e Andrea ci aiutavano a montare. Afferrammo per la collottola i
discepoli di Bart finiti in acqua e salpammo proprio quando cominciava a
cadere la pioggia.
Guardammo tutti Gesù. «Be’?» fece lui. «Se fossero stati ebrei questa cosa
dei maiali avrebbe funzionato alla grande. Non sono pratico con i gentili».

Un messaggero ci stava aspettando, quando arrivammo a Magdala. Filippo
srotolò una pergamena e lesse.
«È un invito a cena a Betania, Gesù, durante la settimana della Pasqua. Un
membro illustre del Sinedrio richiede la tua presenza a casa sua, per discutere
del tuo meraviglioso ministero. E firmato Jakan, figlio di Iban di Nazaret».
Il marito di Maddi. Il leccapiedi.
«Non male come primo giorno, eh, amico?» dissi a Matteo.
27

Ieri sera io e l’angelo abbiamo guardato per la seconda volta Guerre
stellari in tv, e alla fine gliel’ho dovuto chiedere. «Ti sei mai trovato in
presenza di Dio, Raziel?».
«Certo».
«E hai l’impressione che la sua voce somigli a quella di James Earl
Jones?».
«Chi sarebbe?».
«Darth Fener».
Restò un momento in ascolto, mentre Darth Fener minacciava qualcuno.
«Sì, un pochino. Ma non ha il respiro così pesante».
«E hai visto il Suo volto».
«Sì».
«È nero?».
«Non sono autorizzato a dare questo genere di informazioni».
«È così, vero? Altrimenti avresti risposto di no».
«Non sono autorizzato a dare questo genere di informazioni».
«È nero».
«E non porta un cappello come quello».
«Ah-ah!».
«Sto solo dicendo che non porta il cappello. Nient’altro».
«Lo sapevo».
«Non mi va più di guardare questa roba». Cambiò canale. E Dio (o
qualcuno che aveva una voce molto simile alla sua) disse: «Questa è la
CNN».

Entrammo a Gerusalemme attraverso la porta detta “cruna dell’ago”, dove
dovevi abbassarti per riuscire a passare, e uscimmo attraverso la porta dorata.
Quindi attraversammo la valle del Cedron e salimmo sul Monte degli Ulivi,
diretti a Betania.
Avevamo lasciato i fratelli e Matteo, perché dovevano lavorare, e
Bartolomeo, per via della puzza. La sua scarsa igiene personale aveva
cominciato ad attirargli le attenzioni dei farisei di Cafarnao, e non volevamo
causare ulteriori problemi visto che stavamo entrando nella tana del nemico.
Filippo e Natanaele si unirono a noi, ma si fermarono in una radura sul Monte
degli Ulivi, l’orto del Getsemani, dove c’erano una piccola grotta e un
frantoio. Gesù provò a convincermi a restare con loro, ma insistei per
seguirlo.
«Me la caverò» disse. «Non è ancora giunta la mia ora. Jakan non proverà
a farmi del male. Si tratta solo di una cena».
«Non sono preoccupato per la tua sicurezza. Voglio solo vedere Maddi».
Ed era vero, ma in effetti temevo anche per la sua incolumità. In ogni caso,
non l’avrei lasciato andare da solo.
Jakan venne ad accoglierci al cancello con una tunica bianca nuova e una
fusciacca blu. Era tarchiato, ma non grasso come mi sarei aspettato, ed era
alto all’incirca come me. La barba era lunga e nera, ma tagliata diritta
all’altezza delle clavicole. Portava il cappellino di lino a punta indossato da
tanti farisei, quindi non avrei saputo dire se avesse perso i capelli. La frangia
che spuntava era color castano scuro, così come gli occhi. La cosa più
spaventosa - e forse anche la più sorprendente - era il barlume d’intelligenza
che splendeva sul suo volto. Non c’era, quando eravamo ragazzini. Forse
gliel’aveva trasmessa Maddi, dopo diciassette anni di matrimonio.
«Venite, compagni nazareni. Benvenuti a casa mia. Dentro ci sono degli
amici che desideravano incontrarvi».
Ci guidò attraverso la porta in una stanza ampia, abbastanza da contenere
le due case che condividevamo a Cafarnao. Il pavimento era rivestito di
piastrelle, e negli angoli era decorato da motivi a spirale rossi e turchesi
(niente immagini, naturalmente). C’era un lungo tavolo in stile romano, a cui
sedevano altri cinque uomini, tutti vestiti come il padrone di casa. (Nelle case
ebraiche i tavoli erano molto bassi e i commensali si sdraiavano sui cuscini o
sul pavimento.) Maddi non si vedeva da nessuna parte, ma una serva ci portò
delle capienti brocche d’acqua con dei catini perché ci lavassimo le mani.
«Quest’acqua lasciala stare, okay, Gesù?» disse Jakan con un sorriso.
«Non possiamo lavarci con il vino».
Presentò tutti i commensali, aggiungendo un elaborato titolo a ciascun
nome - titoli incomprensibili, ma che sicuramente indicavano la loro qualifica
di membri del Sinedrio e del Consiglio dei farisei. Ci avevano teso
un’imboscata. Ci ricevettero con ogni cortesia e si diressero ai catini d’acqua
per lavarsi le mani prima di cena, senza perderci d’occhio mentre ci lavavamo
e recitavamo una preghiera. Dopotutto, faceva parte del test.
Ci sedemmo. La serva portò via brocche e catini, e al loro posto portò del
vino.
«Allora» disse il più anziano dei farisei «ho sentito dire che hai liberato
alcune persone tormentate dai demoni, in Galilea».
«Grazie, stiamo passando una gradevole settimana della Pasqua. E voi?»
intervenni.
Gesù mi tirò un calcio sotto il tavolo. «Sì. Con il potere di mio padre ho
alleviato le sofferenze di alcuni uomini che erano perseguitati dal maligno».
Quando disse «mio padre» tutti i presenti presero a contorcersi. Notai un
movimento sulla soglia di una porta alle spalle di Jakan. Era Maddi, che
gesticolava come una pazza. Ma a quel punto suo marito prese la parola.
L’attenzione si spostò su di lui, e Maddi si nascose.
Jakan si chinò in avanti. «Qualcuno sostiene che tu abbia scacciato quei
demoni con il potere di Belzebù».
«E come potrei?» ribatté Gesù, che cominciava a infuriarsi. «Come può
Satana scacciare Satana? Una casa divisa non può stare in piedi».
«Ragazzi, sto morendo di fame» dissi. «Portate il cibo».
«Con lo spirito di Dio libero le persone dai demoni: da ciò potete capire
che il Regno è venuto».
Non volevano sentire cose simili. Diamine, nemmeno io volevo sentirle:
non lì. Se Gesù annunciava l’avvento del Regno, allora affermava di essere il
Messia, e per i farisei era blasfemia, un reato punibile con la morte. Una cosa
era apprendere certe notizie di seconda mano, un’altra era farsele sbattere in
faccia da Gesù. Ma lui, come al solito, non aveva paura.
«Alcuni affermano che Giovanni Battista sia il Messia».
«Non c’è nessuno più grande di Giovanni. Ma mio cugino non battezza
con lo Spirito Santo. Io sì».
Si guardarono tra loro. Non avevano idea di che cosa stesse dicendo. Gesù
andava predicando la Divina Scintilla - lo Spirito Santo - da due anni, ma
questo era un modo nuovo di pensare a Dio e al Regno: era un cambiamento.
E quei legalisti avevano lavorato duramente per raggiungere le proprie
posizioni di potere; non erano interessati ai cambiamenti.
Il cibo venne disposto sulla tavola e recitammo altre preghiere, quindi
cominciammo a mangiare e per un po’ rimanemmo in silenzio. Maddi era
ancora sulla porta alle spalle di Jakan, e gesticolava: faceva muovere una
mano sull’altra, e con le sole labbra mi diceva qualcosa che avrei dovuto
comprendere. Io volevo darle una cosa, ma dovevo vederla in privato. Era
ovvio che il marito le aveva vietato di entrare nella sala.
«I tuoi discepoli non si lavano le mani prima di mangiare!» disse uno dei
farisei, un grassone con una cicatrice sull’occhio.
Bart, pensai.
«Non quello che entra nella bocca rende impuro l’uomo, ma quello che
esce dalla bocca». Spezzò un pane azzimo e lo intinse in una scodella d’olio.
«Si riferisce alle bugie» specificai.
«Lo so» disse il vecchio.
«Tu stavi pensando a qualcosa di disgustoso, non mentire» dissi.
E i farisei si scambiarono la classica occhiata che voleva dire «No, tocca a
te, no, tocca a te».
Gesù masticò lentamente il suo pane e poi disse: «Perché lavare l’esterno
dell’urna, se il marciume è dentro?».
«Come voi, brutti ipocriti marci!» aggiunsi, con più entusiasmo del
necessario.
«Smettila di venire in mio aiuto!» disse Gesù.
«Scusa. Buono questo vino. Manischewitz?».
Le mie grida evidentemente contribuirono a scuotere qualcun altro dal
proprio malessere. Il vecchio fariseo disse: «Tu frequenti i demoni, Gesù di
Nazaret. E quest’altro, Levi, ha fatto sanguinare il naso a un fariseo e ha
spezzato la lama di un coltello con la sola forza del pensiero, e nessuno l’ha
visto muovere un dito».
Gesù mi guardò, poi guardò loro, e poi di nuovo me. «Ti sei scordato di
dirmi qualcosa?».
«Era fastidioso come le emorroidi, così l’ho colpito». Sentii Maddi che
ridacchiava nell’altra stanza.
Gesù si voltò verso i leccapiedi. «Levi, detto Biff, ha studiato l’arte dei
soldati in Oriente. Sa muoversi rapidamente, ma non è un demone».
Mi alzai in piedi. «L’invito parlava di una cena, non di un processo».
«Non è un processo» rispose Jakan, calmo. «C’è giunta voce dei miracoli
di Gesù, e abbiamo sentito che infrange la Legge. Vogliamo semplicemente
chiedergli in base a quale autorità fa queste cose. Questa è una cena:
altrimenti perché sareste qui?».
Mi stavo ponendo la stessa domanda, ma Gesù mi fece rimettere seduto
con una spinta, e andò avanti a rispondere alle loro accuse per altre due ore,
inventando parabole e rigettandogli in faccia la loro pietà. Mentre annunciava
la parola di Dio, io compivo degli abili trucchetti con il pane e la verdura,
tanto per prenderli in giro. Maddi si mise sulla porta e mi fece un segno,
indicando freneticamente l’uscio principale e facendo dei gesti minacciosi, da
cui capii che mi avrebbe spaccato la testa se non l’avessi compresa nemmeno
questa volta.
«Vogliate scusarmi, devo andare a parlare con un tizio a proposito di un
cammello».
Uscii. Non appena ebbi chiuso la porta alle mie spalle, fui investito dagli
sputacchiamenti di una donna che sussurrava con veemenza.
«Bruttofigliodiputtanachecosacazzopensavitistessidicendo?» Mi colpì al
braccio. Forte.
«Niente bacio?» sussurrai.
«Dove possiamo vederci, dopo?».
«Non possiamo. Ecco, prendi questo». Le diedi un sacchettino di cuoio.
«Dentro c’è una pergamena con tutte le istruzioni. Fai quello che c’è scritto».
«Ma io voglio parlare con voi due».
«E lo farai. Fai come ti ho detto. Io devo rientrare».
«Bastardo». Un altro pugno al braccio. Forte.
Dimenticai quello che stavo facendo e rientrai in casa strofinandomi la
spalla contusa.
«Levi, ti sei fatto male?».
«No, Jakan. Ma mi capita di stirarmi un muscolo della spalla quando mi
scrollo di dosso questo mostro».
La mia risposta non piacque affatto ai farisei. Mi resi conto che stavano
aspettando che chiedessi dell’acqua per poter ripetere il rituale del lavaggio
delle mani prima di sedermi di nuovo a tavola. Rimasi lì in piedi a pensare,
mentre continuavo a massaggiarmi la spalla, in attesa. Quanto tempo
occorreva per leggere un biglietto? Mi sembrò un’eternità, con gli occhi di
quei farisei puntati addosso, ma sono certo che passarono solo pochi minuti. E
poi arrivò l’urlo. Dalla stanza accanto, Maddi si lasciò andare a un grido da
vera virtuosa, lungo, acuto e forte: un misto di terrore, panico e follia.
Mi chinai e sussurrai all’orecchio di Gesù: «Reggimi il gioco. Non fare
niente. Assolutamente niente».
«Ma…».
L’urlo non cessava, e a vedere le facce dei commensali sembrava che
qualcuno avesse gettato loro dei carboni ardenti in grembo. Maddi aveva
molta resistenza. Prima che Jakan avesse il tempo di alzarsi per andare a
investigare, apparve la mia ragazza - sempre urlando - con una deliziosa
schiuma verde alla bocca, la veste strappata che pendeva a brandelli dal corpo
striato di sangue. E il sangue le colava anche dagli angoli degli occhi. Urlò in
faccia al suo sposo e fece roteare gli occhi, poi saltò sul tavolo e prese a
ringhiare, mentre scaraventava a terra con un calcio tutte le stoviglie di
ceramica che incontrava, riducendole in cocci. La serva passò di corsa
gridando: «L’hanno presa i demoni, l’hanno presa i demoni!» e si precipitò
fuori dalla porta principale. Maddi ricominciò a strillare, poi si mise a correre
su e giù per il tavolo, urinando. (Idea grandiosa, non mi sarebbe mai venuta in
mente.)
I farisei, Jakan incluso, erano indietreggiati verso il muro, mentre Maddi si
era sdraiata supina sulla tavola dimenandosi, ringhiando e urlando oscenità,
schizzando il davanti delle loro vesti bianche di schiuma verde, urina e
sangue.
«Diavoli! È posseduta dai diavoli. E sono tanti, anche» gridai.
«Sette» disse lei tra un ringhio e l’altro.
«Sembrerebbero sette, non è vero Gesù?».
Lo afferrai per i capelli e lo feci annuire. Comunque non lo stava
guardando nessuno, e adesso dal corpo di Maddi zampillavano due
impressionanti fontane di schiuma verde, una dalla bocca e l’altra dalle parti
intime. (Un’altra splendida miglioria che mai mi sarebbe venuta in mente.)
Quindi cominciò ad avere delle convulsioni ritmiche, a cui facevano da
contrappunto latrati e oscenità urlate.
«Jakan» dissi educatamente «grazie della cena. È stato un piacere, ma
adesso dobbiamo proprio andare». Afferrai Gesù per il collo della veste e lo
feci alzare. Lui stesso era un po’ perplesso. Non terrorizzato come il nostro
ospite, ma perplesso.
«Aspettate» fece il padrone di casa.
«Pene di cane ulceroso!» ringhiò Maddi, senza rivolgersi a nessuno in
particolare. Ma credo che sapessero tutti a chi si riferiva.
«Oh, d’accordo, tenteremo di aiutarla. Gesù, prendila per un braccio». Lo
spinsi avanti e Maddi gli afferrò un polso. Io andai dall’altra parte del tavolo e
le presi l’altro braccio. «Dobbiamo portarla fuori da questa casa di
contaminazione».
Maddi affondò le unghie nella mia carne quando la sollevai, e tirò Gesù
fingendo di dimenarsi e lottare. La trascinai fuori dalla porta principale, nel
cortile. «Fai uno sforzo, okay?» sussurrò al Messia.
Jakan e i farisei si ammucchiarono sulla porta. «Dobbiamo portarla nel
deserto per scacciare i demoni senza conseguenze» gridai. La trascinai - in
effetti trascinai anche Gesù - in strada e chiusi il pesante cancello con un
calcio.
Maddi si rilassò e si raddrizzò. Dal petto le cadde una massa di schiuma
verde. «Non rilassarti, Maddi. Potrai farlo quando ci saremo allontanati un
pochino».
«Brutto scopacapre mangiasuini!».
«Bene, è questo lo spirito giusto».
«Ciao, Maddi» la salutò Gesù, afferrandola per un braccio e aiutandomi
finalmente a trascinarla.
«Credo sia andata molto bene, considerando il brevissimo preavviso»
commentai. «Sai, i farisei sono ottimi come testimoni».
«Andiamo a casa di mio fratello» sussurrò lei. «Da lì potremo far sapere a
Jakan che sono un caso incurabile».
«Molestatore di ratti!» aggiunse poi a voce alta.
«Tranquilla, adesso non possono più sentirci».
«Lo so. Ce l’avevo con te. Perché hai impiegato diciassette anni a portarmi
via da quella casa?».
«Il verde ti dona, te l’avevo mai detto?».
«Devo supporre che quello che abbiamo fatto non sia molto etico» osservò
Gesù.
«Amico, fingere una possessione demoniaca è simile a un granellino di
senapa».
«E come?».
«Non lo sai, vero? Non sembra esserci alcuna somiglianza, dico bene?
Così adesso capisci come ci sentiamo noi quando paragoni qualcosa a un
granellino di senapa».
Giunti a casa di Simone il Lebbroso, Gesù entrò per primo per evitare che
la comparsa di Maddi spaventasse a morte suo fratello e sua sorella. Marta
venne ad aprire. «Shalom, Marta. Sono Gesù figlio di Giuseppe di Nazaret.
Ricordi le nozze di Cana? Ti ho portato tua sorella Maddi».
«Fammi pensare» disse lei, tamburellando con un’unghia sul mento mentre
rastrellava la sua memoria sotto il cielo della notte. «Tu sei quello che ha
tramutato l’acqua in vino? Il Figlio di Dio, giusto?».
«Non c’è bisogno di usare quel tono».
Feci capolino da dietro la sua spalla. «Ho dato a tua sorella una pomata che
le ha fatto venire una specie di schiuma verde e rossa. In questo momento non
ha proprio un bell’aspetto».
«Sono certa che le si addice» commentò Marta con un sospiro esasperato.
«Entrate». Ci fece strada. Io rimasi sulla porta, mentre Gesù si mise a sedere
sul pavimento accanto al tavolo. Marta portò la sorella in una stanza sul retro
per aiutarla a darsi una ripulita. Era una casa piuttosto grande per i nostri
standard, ma non quanto quella di Jakan. Pure, Simone se la passava bene per
essere figlio di un fabbro ferraio. Ma lui dov’era?
«Vieni, siediti a tavola» m’invitò Gesù.
«No, sto bene dove sono».
«Che c’è?».
«Sai a chi appartiene questa casa?».
«Sicuro. Al fratello di Maddi, Simone».
«Lebbrosimone» dissi a bassa voce.
«Vieni a sederti. Penserò io a te».
«No. Sto bene qui».
Proprio in quell’istante Simone fece il suo ingresso dall’altra stanza con
una brocca di vino e un vassoio con tre coppe, che teneva con le mani avvolte
negli stracci. Del lino bianco gli copriva il viso e lasciava intravedere solo gli
occhi, limpidi e azzurri come quelli di Maddi.
«Benvenuti, Gesù e Levi. È passato molto tempo».
L’avevamo conosciuto da ragazzini, quando trascorrevamo tanto tempo a
bighellonare intorno alla bottega del padre: più grande di noi, all’epoca stava
già imparando il mestiere del genitore, ed era quindi troppo maturo e serio per
frequentarci. Lo ricordavo alto e forte, ma adesso la lebbra l’aveva fatto
incurvare come una vecchia.
Simone posò le coppe e versò da bere a tutti e tre. Io rimasi contro il muro,
accanto alla porta. «Marta non ama molto servire» ci disse, quasi volesse
scusarsi per il fatto che lo stava facendo lui. «Mi ha detto che hai tramutato
l’acqua in vino, a Cana» disse a Gesù.
«Simone» fece lui «se me lo consenti posso curare il tuo male».
«Quale male?». Si sdraiò di fronte al mio amico. «Biff, vieni a sederti con
noi». Diede un colpetto a un cuscino accanto a lui, e io abbassai la testa per
paura che gli partisse qualche dito. «A quanto mi risulta, Jakan ha usato mia
sorella come esca per attirarvi in una trappola».
«Come trappola non è stata un granché» commentò Gesù.
«Perché, te l’aspettavi?» gli chiesi.
«Pensavo ci sarebbero state più persone, forse l’intero Consiglio dei
farisei. Volevo rispondere direttamente a loro, per evitare che le mie parole
passassero attraverso una dozzina di spie pronte a diffondere notizie false e
tendenziose. E volevo vedere se ci sarebbero stati anche dei sadducei».
In quel momento mi resi conto che Gesù aveva già capito tutto: i sadducei
e i sacerdoti non c’entravano nulla con il piccolo interrogatorio a sorpresa
organizzato da Jakan. Godevano della loro autorità per nascita, e non si
facevano minacciare facilmente come i farisei. Inoltre costituivano la metà
più importante del Sinedrio, quella che controllava i soldati della guardia del
Tempio. Senza sacerdoti, i farisei erano vipere senza denti veleniferi. Almeno
per ora.
«Spero di non averti attirato addosso il giudizio dei farisei, Simone» disse
al nostro ospite.
Lui agitò una mano per liquidare la faccenda. «Non preoccuparti, qui i
farisei non verranno. Jakan ha una paura folle di me, e se crede davvero che
Maddi sia posseduta - e con lui i suoi amici - penso che l’abbia già ripudiata».
«Può tornare in Galilea con noi» dissi guardando Gesù, che guardò Simone
quasi a chiedergli il permesso.
«Lei può fare quello che vuole».
«Quello che voglio è lasciare Betania prima che Jakan torni in sé» disse
Maddi, rientrando dall’altra stanza. Indossava una semplice veste di lana,
aveva ancora i capelli gocciolanti e della roba verde e appiccicosa sui sandali.
Attraversò la stanza, si inginocchiò e diede un forte abbraccio a suo fratello,
quindi lo baciò su un sopracciglio. «Se viene qui o se ti manda un messaggio,
digli che sto ancora da te».
Capii che Simone stava sorridendo sotto le bende. «Credi che verrà a dare
un’occhiata?».
«Quel vigliacco» sputò Maddi.
«Amen» dissi. «Come hai fatto a stare con quel leccapiedi per tutti questi
anni?».
«Dopo il primo anno non aveva più voglia di starmi vicino. Perché ero
immonda, capito? Gli dissi che sanguinavo».
«E lui pensa che tu abbia continuato a sanguinare per tutti questi anni?».
«Già. Non pensate che si sarebbe imbarazzato a chiedere agli altri membri
del Consiglio notizie sulle loro mogli?».
«Posso guarirti, se me lo permetti» intervenne Gesù.
«Guarirmi da che cosa?» chiese lei.
«Dovreste andare» s’intromise Simone. «Non appena avrò saputo che
cos’ha fatto Jakan ve lo manderò a dire. Ho un amico che potrebbe fargli
credere che, se non ripudia mia sorella, rischia il suo posto nel Sinedrio.
Ammesso che non l’abbia già fatto».
Ci salutò insieme a Marta dalla porta. Marta sembrava uno spettro più
compatto della sorella maggiore. Simone sembrava uno spettro e basta.
E fu così che diventammo undici.

C’era la luna piena e un bel cielo stellato, mentre facevamo ritorno al
Getsemani. Dalla cima del Monte degli Ulivi potevamo vedere tutta la valle
del Cedron fino al Tempio. Fumo nero si levava dai fuochi sacrificali che i
sacerdoti tenevano accesi giorno e notte. Tenni per mano Maddi mentre
attraversavamo il boschetto di antichi ulivi fino a raggiungere la radura
accanto al frantoio, dove ci accampammo. Filippo e Natanaele avevano
acceso un fuoco, intorno al quale sedevano anche due sconosciuti. Si alzarono
tutti vedendoci arrivare. Filippo mi lanciò un’occhiata torva che non
compresi, almeno fino a quando non ricordai che era con noi a Cana, e aveva
visto Maddi danzare con Gesù. Pensava che stessi cercando di soffiargli la
ragazza. Così le lasciai andare la mano.
«Maestro» disse Natanaele, scuotendo i suoi capelli gialli «questi sono due
nuovi discepoli. Taddeo e Tommaso i Gemelli».
Taddeo fece un passo verso Gesù. Aveva all’incirca la mia età ed era alto
più o meno come me, indossava una veste di lana ridotta a brandelli ed era
particolarmente smunto, quasi stesse morendo di fame. Portava i capelli corti
come i Romani, ma sembrava che qualcuno glieli avesse tagliati con una selce
smussata. Aveva un’aria in qualche modo familiare.
«Rabbi, ti ho sentito predicare quando eri con Giovanni. L’ho seguito per
due anni».
Un seguace di Giovanni, ecco perché mi sembrava di averlo già visto
anche se non ricordavo di averlo conosciuto. E questo spiegava anche
l’aspetto famelico.
«Benvenuto, Taddeo. Questi sono Biff e Maria Maddalena, miei discepoli
e amici».
«Chiamami Maddi».
Gesù si avvicinò a Tommaso i Gemelli, che in realtà era uno solo. Era più
giovane, aveva forse vent’anni, la barba ancora morbida in alcuni punti, ed
era vestito meglio di noi. «Benvenuto anche a te, Tommaso».
«Indietro, stai calpestando Tommaso Due» strillò lui.
Natanaele spinse il Messia da una parte e gli sussurrò qualche parola
all’orecchio (un po’ troppo forte, per la verità): «Crede di vedere il suo
gemello, ma nessun altro ci riesce. Ci hai detto di avere compassione, quindi
non gli ho dato dello svitato».
«E gli altri avranno compassione per te, Natanaele» disse Gesù.
«Già, non ti diremo che sei uno sciocco» aggiunsi.
«Benvenuto, Tommaso» disse il Messia abbracciando il ragazzo.
«Non dai il benvenuto a Tommaso Due?».
«Scusami. Benvenuto anche a te, Tommaso Due» disse Gesù al vuoto.
«Vieni in Galilea e aiutaci a diffondere la buona novella».
«È laggiù» lo corresse Tommaso, indicando un altro punto, ugualmente
vuoto.
E fu così che diventammo tredici.
Durante il nostro viaggio di ritorno a Cafarnao, Maddi ci raccontò della
sua vita, dei sogni che aveva messo da parte e del bambino che aveva perso
durante il primo anno di matrimonio. Quest’ultima notizia scosse molto Gesù:
stava pensando che, se non fossimo partiti per l’Oriente, avrebbe potuto
salvarlo.
«In seguito, Jakan non ha più voluto accostarsi a me. Persi molto sangue
dopo la morte del piccolo e, a quanto gli risulta, non ho mai smesso. Ha il
terrore che qualcuno pensi che ci sia una maledizione sulla sua casa, e così i
miei doveri di sposa sono sempre stati soltanto pubblici. Ma era un’arma a
doppio taglio. Per mostrarmi deferente dovevo andare alla sinagoga e al
Tempio, nel cortile delle donne; ma se avessero capito che ci andavo mentre
sanguinavo, io sarei stata cacciata e forse anche lapidata, e lui svergognato.
Chissà che cosa farà, adesso».
«Ti ripudierà» dissi. «Dovrà farlo, se vuole salvarsi la faccia davanti ai
farisei e al Sinedrio».
Cosa alquanto strana, dovetti consolare Gesù per via di quel figlio che
Maddi aveva perduto. Lei aveva convissuto per anni con quella perdita, aveva
pianto, aveva lasciato che la ferita guarisse, per quanto possibile: ma per il
Messia era ancora fresca. Camminava dietro di noi, a una certa distanza,
sottraendosi ai nuovi discepoli che saltellavano intorno a lui come cagnolini
eccitati. Capii che stava parlando con suo padre, e non mi parve che la
conversazione stesse andando particolarmente bene.
«Vai a parlare con lui» mi disse Maddi. «Non è stata colpa sua. Dio ha
voluto così».
«Per questo si sente responsabile». Non le avevamo spiegato dello Spirito
Santo, del Regno, di tutti i cambiamenti che Gesù avrebbe voluto apportare
all’umanità, e di quanto - in alcuni casi - contrastassero con la Torah.
«Vai a parlargli» ripetè.
Andai in fondo alla colonna, dietro a Filippo e Taddeo, che tentavano di
spiegare a Natanaele che era sua (e non di Dio) la voce che sentiva quando si
tappava le orecchie e parlava; e dietro Tommaso, che stava discutendo
animatamente con l’aria.
Camminai accanto a Gesù per un po’ prima di parlare, e poi mi sforzai di
assumere un tono concreto. «Dovevi andare verso Est, amico. Adesso lo sai».
«Ma non allora. Non necessariamente. È stato un gesto da vigliacco. Non
sarebbe stato insopportabile vederla sposare Jakan? E poi mettere al mondo il
suo bambino?».
«Sì. Non puoi salvare tutti».
«Hai per caso dormito, negli ultimi vent’anni?».
«E tu? A meno che tu sia in grado di cambiare il passato, stai sprecando il
presente con il tuo senso di colpa. Se non usi quello che hai imparato in
Oriente, allora hai ragione tu: forse non ci saremmo dovuti andare. Forse
lasciare Israele è stato da codardi».
Mi si paralizzò il viso, come se il sangue fosse defluito del tutto. L’avevo
detto davvero? Per un po’ camminammo in silenzio, senza guardarci. Contai
gli uccelli, ascoltai il mormorio dei discepoli davanti a noi, osservai il culo di
Maddi che si muoveva sotto la veste, senza riuscire a goderne appieno
l’eleganza.
«Io ad esempio mi sento meglio» disse infine Gesù. «Grazie di avermi
tirato su il morale».
«Lieto di averti aiutato».

Arrivammo a Cafarnao una mattina, cinque giorni dopo aver lasciato
Betania. Pietro e gli altri avevano diffuso la buona novella tra la gente sulle
coste della Galilea, e c’era una folla di cinquecento persone che ci aspettava.
La tensione tra me e
Gesù era passata e il resto del viaggio era stato piacevole, se non altro
perché sentivamo la voce di Maddi che rideva e ci prendeva in giro. La mia
gelosia nei confronti del Messia tornò a farsi sentire, ma in qualche modo non
era più così amara. Somigliava più a un dolore familiare per una perdita
lontana che all’agonia lacerante di un cuore spezzato. In effetti avrei potuto
lasciarli soli e parlare con altre persone. Avrei potuto pensare ad altro. Maddi
era innamorata di Gesù, questo era sicuro, ma amava anche me, e non c’era
modo di prevedere come ciò si sarebbe manifestato. Seguendo Gesù
c’eravamo allontanati dalle aspettative di un’esistenza normale. Matrimonio,
casa, famiglia: non facevano parte della vita che avevamo scelto, e Gesù lo
disse chiaramente a tutti i discepoli. Sì, alcuni erano sposati, e altri addirittura
predicavano con le rispettive mogli al proprio fianco. Ma ciò che li
distingueva dalle moltitudini che seguivano il Messia era il fatto che avessero
abbandonato il proprio sentiero per diffondere la Parola. Ed era sempre per la
Parola che avevo perso Maddi: non per Gesù.
Per quanto esausto e affamato, lui continuava a predicare. Quella gente
l’aveva atteso, e lui non l’avrebbe delusa. Montò sulla barca di Pietro, e
remando si allontanò dalla costa per permettere a tutti di vederlo. Per due ore
parlò del Regno che sarebbe venuto.
Quando finì e congedò la folla, trovò due persone nuove tra i suoi
discepoli. Erano due uomini dall’aspetto forte e massiccio, intorno ai
venticinque anni di età. Uno era sbarbato e portava i capelli corti, a formare
un elmo di riccioli sulla testa; l’altro aveva una lunga chioma e la barba
intrecciata e arricciata alla maniera che avevo visto usare da alcuni greci.
Sebbene non portassero gioielli, e i loro abiti non fossero più eleganti dei
miei, avevano l’aria da ricchi. Pensai che potessero essere due uomini potenti,
ma se era così non si trattava dell’autorità consapevole dei farisei. Se non
altro, loro apparivano molto sicuri.
Quello con i capelli lunghi si avvicinò a Gesù e s’inginocchiò davanti a lui.
«Rabbi, ti abbiamo sentito parlare dell’avvento del Regno, e vogliamo unirci
a voi. Vogliamo aiutarvi a diffondere la Parola».
Gesù lo guardò a lungo, sorridendo tra sé e sé, e poi parlò. Lo afferrò per le
spalle e lo fece alzare. «Alzati. Siete i benvenuti, amici miei».
Lo sconosciuto sembrò perplesso. Guardò il suo amico e poi me, come se
potessi dare risposta al suo turbamento. «Questo è Simone» disse indicando
l’altro. «Io sono Giuda Iscariota».
«So chi sei» disse il Messia. «Ti stavo aspettando».
E fu così che diventammo quindici: Gesù, Maddi e il sottoscritto;
Bartolomeo il cinico; Pietro e Andrea, Giovanni e Giacomo, i pescatori;
Matteo l’esattore delle tasse; Natanaele di Cana, il giovane idiota; Filippo e
Taddeo, seguaci di Giovanni Battista; Tommaso il gemello, un mentecatto; e
infine Simone il Cananeo e Giuda Iscariota. Quindici persone che
viaggiavano per la Galilea per parlare dello Spirito Santo e dell’avvento del
Regno, e per diffondere la buona novella dell’arrivo del Figlio di Dio.
28

Il ministero di Gesù consistette in tre anni di predicazione (in alcuni casi
predicava anche tre volte al giorno). Non riuscivo mai a memorizzare i suoi
sermoni parola per parola, ma quella che segue è l’essenza di quasi tutti i
discorsi che gli sentii pronunciare.

Dovevi comportarti bene con il prossimo, anche con i leccapiedi.
E se:
a) credevi che Gesù fosse il Figlio di Dio
b) credevi che fosse venuto a Salvarti dal peccato
c) riconoscevi la presenza dello Spirito Santo dentro di te (tornavi
bambino, diceva lui)
d) non bestemmiavi contro il suddetto Spirito (vedi c)
Allora:
e) avresti vissuto in eterno
f) in un posto fichissimo
g) probabilmente in paradiso.
Se invece:
h) peccavi (e/o)
i) ti comportavi da ipocrita (e/o)
j) davi più importanza alle cose che alle persone (e/o)
k) non facevi quanto elencato ai punti a, b, c, d
eri semplicemente:
l) fottuto

Questo era il messaggio che suo padre gli aveva dato tanti anni prima, e
che all’epoca c’era parso tanto succinto da risultare quasi grossolano. Ma
aveva acquistato più senso dopo qualche centinaio di sermoni.
Questo era quello che insegnava, quello che noi apprendevamo e
trasmettevamo agli abitanti delle città della Galilea. Tuttavia, non eravamo
tutti delle cime, e qualcuno non riusciva proprio ad afferrare il senso dei suoi
discorsi. Un giorno Gesù, Maddi e io tornammo da Cana, dov’eravamo stati a
predicare, e trovammo Bartolomeo seduto accanto alla sinagoga di Cafarnao.
Annunciava il Vangelo a un gruppo di cani disposti a semicerchio.
Sembravano incantati… del resto, Bart portava una bistecca al posto del
cappello, quindi non saprei dire se fossero proprio le sue capacità oratorie a
tenere viva la loro attenzione.
Gesù gliela strappò dal capo e la gettò in strada, dove una dozzina di cani
trovarono subito la fede. «Bart, Bart, Bart» disse, scuotendolo per le spalle.
«Non dare le cose sante ai cani e non gettare le tue perle ai porci. Così
facendo sprechi la Parola».
«Io non possiedo perle. Non sono schiavo dei possedimenti materiali».
«È una metafora, Bart» rispose Gesù, impassibile. «Significa che non devi
diffondere la Parola a chi non è pronto ad accoglierla».
«Vuoi dire come quando hai fatto annegare quei maiali nella Decapoli?
Non erano pronti?».
Il Messia mi guardò per avere un aiuto, ma io scrollai le spalle.
«Esatto, Bart» intervenne Maddi «hai afferrato perfettamente il concetto».
«Oh, perché non l’avete detto? Okay, ragazzi, andiamo a portare il Verbo a
Magdala». Si alzò in piedi e guidò il suo branco di discepoli verso il lago.
Gesù lanciò un’occhiata a Maddi. «Non è affatto quello che volevo dire».
«Sì, invece» fece lei, e poi andò incontro a Giovanna e Susanna, due donne
che si erano unite al gruppo e stavano imparando a predicare il Vangelo.
«Ma io intendevo un’altra cosa» ripetè Gesù, rivolto a me.
«L’hai mai spuntata in una discussione con lei?».
Scosse il capo.
«Allora di’ Amen e andiamo a vedere cos’ha preparato la moglie di
Pietro».
I discepoli erano radunati fuori dalla casa del pescatore, seduti sui tronchi
che avevamo disposto a cerchio intorno a una buca per il fuoco. Avevano tutti
gli occhi bassi e sembravano impegnati a recitare una tetra preghiera. C’era
persino Matteo, quando sarebbe dovuto essere a Magdala a riscuotere le tasse.
«Cos’è successo?» chiese Gesù.
«Giovanni Battista è morto» lo informò Filippo.
«Che cosa?». Il Messia si lasciò cadere sul tronco accanto a Pietro e si
appoggiò a lui.
«Abbiamo appena visto Bartolomeo e non ci ha detto nulla» dissi.
«L’abbiamo appena saputo» spiegò Andrea. «Matteo è arrivato adesso da
Tiberiade per portarci la notizia».
Da quando si era unito a noi, era la prima volta che vedevo il pubblicano
senza il consueto entusiasmo. Sembrava invecchiato di dieci anni nelle ultime
ore. «Erode l’ha fatto decapitare» disse.
«Credevo che avesse paura di lui» osservai. Si diceva che fino a quel
momento l’avesse mantenuto in vita perché credeva davvero che potesse
essere il Messia, e temeva di incorrere nell’ira di Dio se quel sant’uomo fosse
morto.
«È stata una richiesta della sua figliastra. Giovanni è stato giustiziato per
ordine di una prostituta adolescente».
«Cribbio, se non fosse morto lo ucciderebbe l’ironia di tutta questa storia».
Gesù fissava la terra davanti a sé, ma non saprei dire se stesse pregando o
pensando. Alla fine disse: «I seguaci di Giovanni saranno come bambini in
mezzo al deserto».
«Assetati?» chiese Natanaele.
«Affamati?» chiese Pietro.
«Eccitati?» chiese Tommaso.
«No, idioti» intervenni. «Perduti. Si sentiranno perduti! Cribbio».
Gesù si alzò in piedi. «Filippo, Taddeo, andate in Giudea e dite ai seguaci
di Giovanni che qui saranno i benvenuti. E dite loro che il lavoro di mio
cugino non è andato perduto. Portateli qui».
«Ma maestro» obiettò Giuda «Giovanni aveva migliaia di seguaci. Se
vengono qui, come faremo a sfamarli?».
«Lui è nuovo» spiegai al Messia.

L’indomani era lo Shabbat. La mattina, mentre ci recavamo tutti alla
sinagoga, un vecchio elegantemente vestito spuntò dai cespugli e si gettò ai
piedi di Gesù. «Oh, rabbi!» gemette. «Sono il capo della sinagoga di
Magdala. La mia figlia più giovane è morta. La gente dice che tu puoi guarire
i malati e risvegliare i morti, vuoi aiutarmi?».
Gesù si guardò intorno: mezza dozzina di farisei locali ci stavano
osservando da diversi punti del villaggio. Si voltò verso Pietro e disse: «Pensa
tu a portare la Parola alla sinagoga, oggi. Io vado ad aiutare quest’uomo».
«Grazie, rabbi». Il facoltoso sconosciuto si avviò, facendoci segno di
seguirlo.
«Dove ci porti?» chiesi al Messia.
«Non troppo lontano. A Magdala».
«Ma è un tragitto troppo lungo, per lo Shabbat».
«Lo so».
Mentre attraversavamo i piccoli villaggi lungo la costa, la gente usciva
dalle case e ci seguiva per quel tanto che era consentito, ma notai che gli
anziani - i farisei - non ci perdevano d’occhio un istante.
La casa del vecchio era molto grande, rispetto allo standard di Magdala, e
la figlia aveva una camera propria. L’uomo accompagnò il mio amico a
vedere la salma. «Salvala, rabbi, ti prego».
Gesù si chinò e la esaminò. «Esci» disse all’uomo. «Esci da questa casa».
Quando se ne fu andato, si rivolse a me: «Questa giovane non è morta».
«Come?».
«Sta dormendo. Forse le hanno fatto bere del vino molto forte, o le hanno
somministrato una polvere per dormire, ma non è morta».
«Dunque è una trappola?».
«Non mi aspettavo nemmeno questo. Vogliono che dichiari di averla
resuscitata, quando invece stava solo dormendo. Blasfemia e guarigione nella
giornata dedicata allo Shabbat».
«Lascia che sia io a risvegliarla, allora. Posso farcela, se è soltanto
addormentata».
«Incolperanno me anche per le tue azioni. Potresti essere anche tu un loro
obiettivo. Non sono stati i farisei di Magdala a ordire questo piano».
«Stai pensando a Jakan?».
Annuì. «Vai a chiamare il vecchio, e metti insieme tutti i testimoni che
riesci a trovare, anche tra i farisei. Scatena un finimondo».
Quando ebbi radunato cinquanta persone, qualcuna dentro e qualcun’altra
intorno alla casa, Gesù annunciò: «Questa giovane non è morta, sta
dormendo, stupido vecchio». Scrollò la fanciulla, che si tirò su a sedere
strofinandosi gli occhi. «Tieni d’occhio il tuo vino più forte. Gioisci di non
aver perduto una figlia, ma rattristati per aver infranto lo Shabbat con la tua
ignoranza».
Quindi si precipitò fuori, seguito dal sottoscritto. Avevamo percorso un
pezzetto di strada, quando mi chiese: «Credi che l’abbiano bevuta?».
«Assolutamente no».
«Già, nemmeno io».

Il mattino dopo, un soldato romano si presentò a casa di Pietro con alcuni
messaggi. Stavo ancora dormendo quando qualcuno gridò in latino: «Sono
autorizzato a parlare esclusivamente con Gesù di Nazaret».
«O parli con me, oppure questa è l’ultima volta che dalla tua bocca escono
delle parole» rispose qualcun altro (evidentemente una persona che non
teneva particolarmente alla propria vita). Mi alzai e corsi fuori in un istante, la
veste senza cintura ondeggiava dietro di me. Svoltai l’angolo della casa di
Pietro e vidi Giuda che tentava di sottomettere con lo sguardo un legionario.
Questi aveva sguainato parzialmente il corto spadino.
«Giuda!» gridai. «Indietro!».
Mi misi tra loro. Sapevo di poter disarmare il soldato senza problemi, ma
non potevo dire lo stesso della legione che sarebbe arrivata se l’avessi fatto.
«Chi ti manda?» gli chiesi, invece.
«Porto un messaggio da parte di Gaius Justus Gallicus, comandante della
Sesta Legione, per Gesù figlio di Giuseppe di Nazaret». Guardò Giuda da
sopra la mia spalla. «Ma i miei ordini non m’impediscono di uccidere questo
cane mentre svolgo il mio compito».
Mi voltai a guardare Giuda, che aveva il viso in fiamme per la collera.
Sapevo che portava un pugnale nella fusciacca, anche se non l’avevo detto a
Gesù. «Justus è un amico» gli spiegai.
«Nessun romano può essere amico di un ebreo» fece lui, senza sforzarsi di
mantenere un tono basso.
A quel punto, quando mi resi conto che l’invito a perdonare tutti gli uomini
da parte del Messia non aveva ancora raggiunto il nuovo discepolo - che per
questo rischiava di farsi uccidere - infilai rapidamente una mano sotto la sua
veste, gli afferrai lo scroto e diedi una strizzata, rapida ed estremamente
violenta; dopo avermi sbavato sul torace, fece roteare gli occhi e cadde in
ginocchio, privo di conoscenza. Lo afferrai e lo distesi a terra, per evitare che
battesse la testa. Poi mi voltai verso il romano.
«Incantesimi per far svenire le persone» dissi. «Andiamo a cercare Gesù».

Justus aveva inviato tre messaggi da Gerusalemme: Jakan intendeva
ripudiare Maddi; il Consiglio dei farisei si era riunito e stava tramando di
uccidere Gesù; Erode Antipa aveva sentito dei suoi miracoli e temeva che
potesse essere una reincarnazione del Battista. Il comandante aveva poi
aggiunto un breve avvertimento personale: Fai attenzione.
«Gesù, devi nasconderti» disse Maddi. «Lascia il territorio di Erode fino a
quando le cose non si saranno calmate. Vai nella Decapoli, predica ai gentili.
Erode Filippo non ama il fratello, i suoi soldati non ti daranno fastidio». Era
diventata lei stessa una devota predicatrice. Era come se avesse trasformato la
sua personale passione per Gesù in passione per la Parola.
«Non ancora. Non prima che Filippo e Taddeo siano tornati con i seguaci
di Giovanni. Non li lascerò senza una guida. Mi serve un sermone: dev’essere
forte come se fosse l’ultimo, per sostenerli mentre sarò via. Lo pronuncerò in
Galilea e poi mi porterò nei territori di Filippo».
Lanciai un’occhiata a Maddi e lei annuì, quasi volesse dire: Fai quello che
devi, ma proteggilo.
«Allora scriviamo questo discorso» dissi.

Come tutti i grandi discorsi, quello della Montagna sembrò sgorgare
spontaneamente dalle labbra dell’oratore. Invece, io e Gesù ci lavorammo una
settimana: lui dettava e io prendevo appunti su una pergamena. (Avevo
inventato un sistema per infilare un carboncino sottile tra due pezzi di legno
d’ulivo, così da poter scrivere senza portarmi dietro penna e calamaio.)
Lavorammo davanti alla casa di Pietro, sulla barca, e persino sul pendio della
montagna dove avrebbe tenuto il sermone. Lui avrebbe voluto dedicare una
lunga sezione al tema dell’adulterio, profondamente motivato - me ne rendo
conto solo adesso - dalla mia relazione con Maddi. Sebbene lei avesse deciso
di restare nubile e di predicare la Parola, voleva essere sicuro di dare la giusta
enfasi all’argomento, o almeno così credo.
«Scrivi così: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già
commesso adulterio con lei nel suo cuore”».
«Dici sul serio? Senti qui: “Chiunque sposa una ripudiata, commette
adulterio”. Vuoi metterlo davvero?».
«Sì».
«Suona un po’ duro. Da farisei».
«Avevo in mente qualcuno in particolare. Tu che proponi?».
«“In verità vi dico” - so che ti piace cominciare così, quando parli di
adulterio - “in verità vi dico, se un uomo cosparge d’olio il corpo nudo di una
donna, e le ordina di mettersi carponi e di abbaiare come un cane mentre la
conosce - se capisci che cosa intendo - allora commette adulterio. E di certo,
se una donna fa la stessa cosa con un uomo, salta anch’essa sul carro
adulterino. E se lei finge di essere una potente regina mentre lui si atteggia a
umile schiavo, costretto a leccarla e a subire nomignoli umilianti, allora
peccano entrambi come luridi cani… e guai all’uomo che si finge una potente
regina e…”».
«È sufficiente, Biff».
«Ma volevi essere preciso, no? Non vorrai mica che la gente vada in giro a
chiedersi: “Ehi, questo è adulterio o cosa? Forse dovresti girarti dall’altra
parte”».
«Non credo che sia una buona idea entrare a tal punto nei particolari…».
«Okay, che ne dici di questa: “Se un uomo o una donna adottano
comportamenti riprovevoli con le loro parti indecenti, è più che probabile che
stiano commettendo adulterio, o per lo meno dovrebbero considerare tale
ipotesi”».
«Forse così sei troppo generico».
«Andiamo, amico, non è facile come con “Non uccidere”. In quel caso hai
un cadavere, e di conseguenza hai un peccato, no?».
«Già, l’adulterio può essere ostico».
«Sì… guarda, un gabbiano!».
«Biff, apprezzo molto che tu ti senta obbligato a difendere i tuoi peccati
preferiti, ma non è di questo che ho bisogno, adesso. Mi serve aiuto per
scrivere il mio discorso. Come siamo messi con le Beatitudini?».
«Scusa?».
«Hai presente quella parte che comincia con “Beati…”».
«Ah, certo. Senti: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia; beati i
poveri in spirito, i puri di cuore, i piagnucoloni, i miti, i…”».
«Aspetta, aspetta. Che cosa abbiamo dato ai miti?».
«Fammi un po’ vedere… ah, eccola qui: “Beati i miti, perché a loro diremo
‘Coraggio, ragazzi’”».
«Mi sembra un po’ debole». «Già».
«Correggila con “Perché erediteranno la Terra”».
«Non puoi darla ai piagnucoloni?».
«Allora elimina i piagnucoloni e dai la Terra ai miti».
«Okay, Terra ai miti. Ci siamo. Poi abbiamo i portatori di pace e gli
afflitti».
«Quante beatitudini abbiamo?».
«Sette».
«Non bastano ancora. Ce ne serve un’altra. Che ne dici degli idioti?».
«No, Gesù, gli idioti no. Hai già fatto abbastanza per loro. Pensa a
Natanaele, a Tommaso…».
«“Beati gli idioti, perché… ehm… non rimarranno mai delusi”».
«No, gli idioti li elimino. Andiamo, Gesù, non possiamo avere qualche
categoria potente dalla nostra? Perché solo miti, poveri, oppressi e incazzati?
Per una volta non possiamo considerare beati gli uomini ricchi e potenti
armati di spade?».
«No, perché non hanno bisogno di noi».
«D’accordo, allora. Ma non mettiamo nemmeno gli idioti».
«Allora chi?».
«Le prostitute?».
«No».
«Che ne dici delle mezze seghe? Mi vengono in mente cinque o sei
discepoli che si sentirebbero davvero beati».
«Niente mezze seghe. Ci sono: “Beati i perseguitati per causa della
giustizia”».
«Già meglio. E a loro che cosa darai?».
«Un cesto di frutta».
«Non puoi dare la Terra intera ai miti e un misero cesto di frutta a questi
qui».
«Il Regno dei cieli, allora».
«L’hai già dato ai poveri in spirito».
«Ma il Regno dei cieli è di tutti».
«Okay, allora mettiamo: “Perché avranno una parte del Regno dei cieli”».
«Potremmo dare il cesto di frutta agli idioti».
«Ancora? Ti ho detto NIENTE IDIOTI!».
«Scusa, è che provo pietà per loro».
«Tu provi pietà per tutti, amico. È il tuo lavoro».
«Ah, già. Me n’ero scordato».
Finimmo di scrivere il sermone solo qualche ora prima del ritorno di
Filippo e Taddeo dalla Giudea, insieme a tremila seguaci di Giovanni. Gesù li
fece radunare sul pendio di una collina sopra Cafarnao, e poi mandò i suoi
discepoli in mezzo alla folla perché trovassero gli ammalati e li portassero a
lui. Passò l’intera mattinata a compiere guarigioni miracolose; poi, nel
pomeriggio, ci fece riunire alla sorgente ai piedi dell’altura.
«Sulla collina ci sono almeno altre mille persone giunte dalla Galilea»
disse Pietro «e hanno fame».
«Quanto cibo abbiamo?».
Giuda venne avanti con una cesta. «Cinque pani e due pesci».
«Basteranno, ma servono altre ceste. E un centinaio di volontari che diano
una mano a distribuire il cibo. Natanaele, tu, Bartolomeo e Tommaso andrete
in mezzo alla folla e mi troverete cinquanta o cento persone munite di un
paniere. Me le porterete qui. Quando sarete di ritorno, avrò da mangiare per
loro».
Giuda gettò a terra la cesta. «Abbiamo cinque pani, come pensi di…».
Gesù sollevò una mano per metterlo a tacere e Giuda ammutolì. Gli disse:
«Oggi hai visto lo storpio camminare, il cieco vedere e il sordo udire».
«Per non parlare dei ciechi che sentono e dei sordi che vedono» aggiunsi.
Il Messia mi lanciò un’occhiata torva. «Basterà poco di più per sfamare
qualche fedele».
«Ma non abbiamo che cinque pani!» gridò l’altro.
«Giuda, c’era una volta un uomo molto ricco che demoliva e ricostruiva
immensi magazzini in cui conservare tutto il grano e i suoi beni, per goderseli
durante la vecchiaia. Ma quando ebbe finito, il Signore gli disse: “Ehi, quassù
abbiamo bisogno di te”. E il ricco stolto rispose: “Merda, sono morto”. A che
cosa gli è servito, quindi, accumulare tesori?».
«Eh?».
«Non preoccuparti di quello che mangerai».
Natanaele, Bart e Tommaso si avviarono a compiere la missione loro
affidata, ma Maddi afferrò Gesù e lo tenne stretto. «No» disse. «Nessuno farà
niente finché non ci avrai promesso che dopo questo discorso andrai a
nasconderti».
Gesù sorrise. «Come posso nascondermi, Maddi? Chi diffonderà la Parola?
Chi guarirà gli ammalati?».
«Noi» continuò lei. «E adesso promettilo. Andrai nella terra dei gentili,
lontano dalle grinfie di Erode, fino a quando non si saranno calmate le
acque». Pietro e Andrea andarono a mettersi dietro di lei, mostrando di
appoggiare il suo suggerimento. Giacomo e Giovanni annuivano mentre
parlava.
«E sia» disse Gesù. «Ma adesso dobbiamo dare da mangiare agli
affamati».
E li sfamammo. Pani e pesci si moltiplicarono, le giare portate dai villaggi
circostanti furono riempite d’acqua, e tutto fu portato sulla montagna, mentre
i farisei della zona osservavano, brontolavano e spiavano: non si erano persi
le guarigioni, e non si lasciarono sfuggire neppure il Discorso della
Montagna, di cui riferirono a Gerusalemme con le loro lingue avvelenate.
Dopo, alla sorgente sulla riva, raccolsi gli ultimi pani da portare a casa.
Gesù venne con un cesto sulla testa, che si tolse quando mi ebbe raggiunto.
«Quando ti abbiamo chiesto di nasconderti, intendevamo in modo un po’
meno ovvio. A proposito, splendido discorso».
Mi diede una mano a raccogliere i pani sparsi a terra. «Volevo parlare con
te e non riuscivo a liberarmi della folla, così mi sono dovuto nascondere sotto
questa cesta. Ho qualche problema a predicare l’umiltà».
«Invece te la cavi benissimo. La gente fa la fila per sentire quel sermone».
«Come posso convincere la gente che gli umili saranno esaltati e i superbi
umiliati, mentre io stesso sono esaltato dalla presenza di quattromila
persone?».
«Bodhisattva, Gesù. Ricorda l’insegnamento di Gaspare. Non devi essere
umile, perché stai negando la tua ascensione nel momento in cui porti la
buona novella alla tua gente. Sei fuori dal flusso dell’umiltà, per così dire».
«Oh, certo». Sorrise.
«Adesso che me lo dici, però, sembra un po’ ipocrita».
«Non ne vado fiero».
«Allora sei a posto».
Quella sera, quando ci riunimmo di nuovo a Cafarnao, Gesù ci chiamò al
falò davanti a casa di Pietro. Osservammo gli ultimi raggi di sole che si
riflettevano sul lago, mentre il Messia ci guidava in una preghiera di
ringraziamento.
E poi fece la sua chiamata. «Okay, chi vuole essere un apostolo?».
«Io, io» fece Natanaele. E poi chiese: «Che cos’è un apostolo?».
«È un tizio che prepara le medicine» risposi.
«Io, io» ripetè lui. «Io voglio preparare le medicine».
«Voglio provarci anch’io» disse Giovanni.
«Quello è il farmacista» intervenne Matteo. «Il farmacista mescola delle
polveri e ottiene medicine. Apostolo viene dal greco apostellein, che significa
mandare via. È un messaggero».
«Ehi, ma questo ragazzo è un mago o cosa?» chiesi, indicandolo con il
pollice.
«Dice bene» intervenne Gesù. «Gli apostoli saranno miei messaggeri.
Andranno a diffondere il messaggio dell’avvento del Regno».
«Non è quello che stiamo già facendo?» chiese Pietro.
«No, adesso siete miei discepoli. Invece, voglio nominare degli apostoli
che diffonderanno la Parola su tutta la Terra. Saranno dodici, come le dodici
tribù d’Israele. Vi darò il potere di guarire e di sconfiggere i demoni. Sarete
come me, solo vestiti in modo differente. Non porterete niente con voi, tranne
quello che avete indosso. Vivrete della carità delle persone a cui predicherete.
Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Sarete perseguitati, vi
sputeranno addosso e forse vi picchieranno. E se succede, succede. Scrollatevi
la polvere di dosso e andate avanti. Ora, chi è con me?».
Dai discepoli si levò il silenzio più totale.
«Tu che ne dici, Maddi?».
«Non sono una grande viaggiatrice, Gesù. Soffro di nausee continue. Per
me va bene restare una discepola».
«E tu, Biff?».
«Sto bene così, grazie».
Gesù si alzò in piedi e contò. «Natanaele, Pietro, Andrea, Filippo,
Giacomo, Giovanni, Taddeo, Giuda, Matteo, Tommaso, Bartolomeo e
Simone. Voi siete gli apostoli. Ora andate a fare il vostro dovere».
dodici si scambiarono qualche occhiata.
«Avanti, andate a diffondere la buona novella! Dite che il figlio dell’uomo
è qui! Che sta arrivando il Regno. Andate! Andate! Andate!».
Si alzarono e cominciarono ad accalcarsi intorno a Gesù.
«Possiamo portare con noi le nostre mogli?» chiese Giacomo.
«Sì».
«O una delle discepole?» chiese Matteo.
«Sì».
«Può venire anche Tommaso Due?».
«Sì».
Rispose a tutte le loro domande, e poi gliene fecero altre.
«Biff» mi chiamò Gesù. «Vorresti assegnare dei territori a ciascuno di loro
e mandarli via?».
«Sicuro. Chi vuole la Samaria? Nessuno? Bene. Pietro, è tua. Fagliela
vedere. La Cesarea? Andiamo, piccoli, fatevi avanti…». E così a ciascuno dei
dodici venne affidata la propria sacra missione.

Il mattino dopo settanta persone tra quelle che avevamo chiamato per
distribuire il cibo vennero da Gesù. Avevano sentito degli apostoli.
«Perché soltanto dodici?» chiese un uomo.
«Siete tutti così ansiosi di rinunciare ai vostri averi, lasciare le vostre
famiglie e rischiare di essere perseguitati o uccisi per diffondere la buona
novella?» chiese loro il Messia.
«Sì» gridarono tutti insieme.
Gesù mi guardò, come se non riuscisse a crederci.
«È stato un gran bel sermone» gli dissi.
«E sia. Biff, tu e Matteo assegnerete loro dei territori. Non mandate
nessuno nella propria patria: sembra che con i profeti non funzioni molto
bene».
E così, partiti i dodici e i settanta, andai con Gesù e Maddi nella Decapoli,
che era sotto il dominio del fratellastro di Erode, Filippo. Lì ci accampammo,
pescammo e restammo nascosti. Il Messia predicava un pochino, ma solo a
piccoli gruppi, e sebbene guarisse i malati, chiedeva loro di non parlare con
nessuno dei miracoli.

Dopo tre mesi, una barca giunta dall’altra sponda del lago portò la notizia
che qualcuno era intervenuto in favore di Gesù, con i farisei. La sua condanna
a morte - mai veramente pronunciata - era stata ritirata. Tornammo a Cafarnao
e attendemmo il ritorno degli apostoli. Dopo mesi sul campo, avevano perso
parte dell’entusiasmo iniziale.
«È uno schifo».
«La gente è meschina».
«I lebbrosi fanno venire la pelle d’oca».
Matteo tornò dalla Giudea con altre notizie sul misterioso benefattore di
Gesù. «Giuseppe d’Arimatea, così si chiama» disse. «E un ricco mercante,
possiede navi, vigneti e frantoi. Sembra avere orecchio come i farisei, ma non
è uno di loro. E grazie alle sue ricchezze gode anche di una certa influenza
presso i Romani. Ho sentito dire che stanno pensando di farlo cittadino».
«E perché vorrebbe aiutarci?» chiesi.
«Gli ho parlato a lungo del Regno, dello Spirito Santo e del messaggio di
Gesù. E ci crede». Fece un largo sorriso, evidentemente orgoglioso di quel
convertito ricco e potente. «Vuole che tu vada a cena a casa sua, Gesù. A
Gerusalemme».
«Sei certo che non corra pericoli, andando là?» chiese Maddi.
«Giuseppe ha mandato questa lettera, che garantisce la sicurezza di Gesù e
di tutti coloro che lo accompagneranno». Ce la mostrò.
Maddi afferrò la pergamena e la srotolò. «C’è anche il mio nome. E quello
di Biff».
«Giuseppe sapeva che saresti partita con lui, e io gli ho detto che Biff gli
sta appiccicato come una sanguisuga».
«Scusa?».
«Voglio dire che accompagni il maestro ovunque vada» si affrettò ad
aggiungere.
«Ma perché io?» volle sapere lei.
«Tuo fratello, Simone detto Lazzaro, è molto malato. Sta morendo. Ha
chiesto di te. E Giuseppe voleva farti sapere che avresti potuto affrontare il
viaggio senza problemi».
Gesù afferrò la sacca e si mise immediatamente in cammino. «Andiamo.
Pietro, prendi tu il comando fino al mio ritorno. Biff, Maddi, dobbiamo
arrivare a Tiberiade prima che faccia buio. Voglio vedere se riesco a farmi
prestare dei cammelli. Matteo, tu vieni con noi. Conosci questo Giuseppe. E
verrai anche tu, Tommaso. Voglio parlare con te».
E così partimmo, diretti verso quella che aveva tutta l’aria di essere una
trappola.
Lungo la strada, Gesù chiese a Tommaso di camminare al suo fianco.
Maddi e io restammo indietro di pochi passi, così da sentire la loro
conversazione. Tommaso continuava a fermarsi per assicurarsi che Tommaso
Due riuscisse a tenere il loro passo.
«Pensano tutti che sia pazzo» disse. «Ridono di me alle mie spalle.
Tommaso Due me l’ha detto».
«Io potrei imporre le mie mani su di te, e tu guariresti. Tommaso Due
smetterebbe di parlarti. E nessuno riderebbe più di te».
L’altro camminò per un po’ senza dire nulla, ma quando si voltò a guardare
Gesù vidi che aveva le guance striate di lacrime. «Se lui se ne va, io rimarrò
solo».
«Non sarai solo. Avrai me».
«Non per molto. Tu non rimarrai a lungo con noi».
«Come fai a saperlo?».
«Me l’ha detto Tommaso Due».
«Ma per il momento non diciamolo agli altri, intesi?».
«No, se tu non vuoi. Ma non mi guarirai, vero? Non farai andare via
Tommaso Due».
«No. Presto potremmo avere bisogno entrambi di un amico in più». Gli
diede una pacca sulla spalla, poi si voltò e accelerò per raggiungere Matteo.
«Ehi, non calpestarlo!» gridò Tommaso.
«Scusa».
Lanciai un’occhiata a Maddi. «Hai sentito?».
Annuì. «Non puoi permettere che accada, Biff. A quanto pare non gli
importa della sua vita, ma a me sì, e anche a te. E se lascerai che gli accada
qualcosa di brutto, non ti perdonerò mai».
«Ma Maddi, tutti hanno diritto al perdono».
«Tu no. Non se succede qualcosa a Gesù».
«E sia. Allora, una volta che avrà guarito tuo fratello ti andrebbe di fare
qualcosa? Non so, bere un succo di melagrana, mangiarti un falafel, sposarti o
roba del genere?».
Si fermò dov’era, e mi fermai anch’io. «Presti mai attenzione a quello che
accade intorno a te?».
«Scusa, per un attimo mi sono lasciato sopraffare dalla fede. Che cos’hai
detto?».

Quando arrivammo a Betania, Marta ci stava aspettando nella via di fronte
alla casa di Simone. Andò dritta da Gesù e lui tese le braccia per stringerla a
sé, ma la donna lo respinse. «Mio fratello è morto» disse. «E tu dov’eri?».
«Sono venuto non appena ho saputo».
Maddi raggiunse la sorella e l’abbracciò, mentre piangevano entrambe.
Noi restammo intorno a loro, piuttosto a disagio. I due vecchi ciechi guariti da
Gesù, Crustus e Abel, giunsero dall’altra parte della strada.
«Morto, morto e sepolto da giorni» disse il primo. «Alla fine era diventato
di un colore verde pallido».
«Smeraldo. Era smeraldo, non verde pallido» lo corresse Abel.
«Dunque il mio amico Simone riposa davvero» commentò Gesù.
Tommaso si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla. «No, maestro. È
morto. Tommaso Due pensa che possa essere stata una palla di pelo che gli si
era formata nello stomaco. Simone era un leopardo, sai?».
Non riuscii a trattenermi. «Era un LEBBROSO, idiota! Non un leopardo».
«Be’, resta il fatto che È MORTO!» ribatté lui, gridando. «Non sta
dormendo».
«Gesù stava usando un linguaggio figurato. Lo sa che è morto».
«Credete di poter essere più insensibili di così?» fece Matteo, indicando le
due sorelle in lacrime.
«Senti un po’, pubblicano, quando vorrò i tuoi due sicli te li chiederò…».
«Lui dov’è?» chiese Gesù, e la sua voce tuonò al di sopra dei singhiozzi e
delle proteste.
Marta si divincolò dall’abbraccio della sorella e lanciò un’occhiata a Gesù.
«Aveva comprato un sepolcro nella Valle del Cedron» disse.
«Portami là, devo svegliare il mio amico».
«È morto» ribadì Tommaso. «Morto, morto, morto».
Vidi una scintilla di speranza negli occhi di Marta, dietro le lacrime.
«Svegliarlo, hai detto?».
«Morto stecchito. Morto come Mosè. Mmh…». Matteo gli tappò la bocca,
evitandomi di tramortirlo con un mattone.
«Tu credi che Simone si risveglierà dal sonno della morte, non è vero?»
chiese Gesù.
«Alla fine, quando il Regno verrà e tutti i morti si sveglieranno. Sì, ci
credo».
«E credi che io sia chi dico di essere, vero?».
«Certo».
«Allora mostrami dove riposa».
Marta si muoveva come una sonnambula, il dolore e lo sfinimento le
consentirono appena di guidarci lungo la strada che saliva al Monte degli
Ulivi, e poi giù nella Valle del Cedron. Anche Maddi era alquanto scossa per
la morte del fratello, e così Tommaso e Matteo la sostennero mentre io
camminavo con Gesù.
«Morto da quattro giorni, amico. Quattro giorni. Divina Scintilla o no, la
carne è vuota».
«Simone camminerà di nuovo, anche se fosse ridotto a un mucchio
d’ossa».
«Certo. Ma vorrei farti notare che questo non è mai stato il tuo miracolo
migliore».
Quando giungemmo al sepolcro, trovammo un uomo alto, magro e
aristocratico. Era seduto e stava mangiando un fico. Si era rasato di fresco e i
capelli grigi erano tagliati corti come quelli di un romano. Se non avesse
indossato la veste ebraica con due strisce, l’avrei scambiato per un cittadino di
Roma.
«Pensavo che saresti venuto qui» disse. S’inginocchiò davanti a Gesù.
«Rabbi, io sono Giuseppe d’Arimatea. Ti ho mandato un messaggio con il tuo
apostolo Matteo, chiedendo d’incontrarti. Come posso servirti?».
«Alzati, Giuseppe. Aiutami a spostare questo masso».
Come molte delle tombe più grandi, scavate nel fianco della montagna,
quella di Simone era chiusa da una grande roccia di forma piatta. Gesù
abbracciò Maddi e Marta, mentre noi lottavamo con la roccia. Non appena
rotto il sigillo, fui invaso da un fetore che rischiò di soffocarmi, e Tommaso
rigettò la cena sul terriccio.
«Puzza» disse Matteo.
«Pensavo che avesse il tanfo di un gatto» osservò Tommaso.
«Non farmi venire lì» lo avvertii.
Spingemmo la pietra fin dove riuscimmo, e poi corremmo via per prendere
una boccata d’aria fresca, ansimanti.
Gesù tese le braccia, quasi stesse invitando il suo amico. «Vieni fuori,
Simone Lazzaro. Vieni alla luce». Ma dal sepolcro usciva soltanto quel fetore.
«Vieni avanti, Simone. Esci da quella tomba» gli ordinò.
E non accadde assolutamente nulla.
Giuseppe d’Arimatea si spostava da un piede all’altro, in imbarazzo.
«Volevo parlarti della cena a casa mia, Gesù, prima che tu venga».
Il Messia sollevò una mano per chiedere silenzio.
«Simone, dannazione, vieni fuori».
E dal sepolcro giunse una voce debolissima. «No».
«Che vuoi dire con “no”? Ti sei svegliato dal sonno dei morti, adesso vieni
fuori. Mostra a questi miscredenti che ti sei risvegliato».
«Io ci credo» dissi.
«Convincimi» fece Matteo.
«Per me un “no” vale quanto un’apparizione» dichiarò Giuseppe
d’Arimatea.
Non sono certo che chi di noi aveva sentito il tanfo di carne putrefatta
volesse realmente vederne la fonte. Persino Maddi e Marta sembravano un po’
dubbiose riguardo all’uscita del fratello.
«Simone, porta qui fuori il tuo culo lebbroso» ordinò Gesù.
«Ma io… mi sento un po’ giù di corda».
«Abbiamo già visto persone malate. Ora, vieni fuori alla luce».
«Ho la pelle verde, come un’oliva acerba».
«Verde oliva!» dichiarò Crustus, che ci aveva seguito nella Valle del
Cedron. «Te l’ho detto che non era verde pallido».
«Che diavolo vuoi che ne sappia, quello? E morto» obiettò Abel.
Alla fine Gesù abbassò le braccia e si precipitò nel sepolcro. «Non riesco a
crederci! Resusciti un morto e lui non ha nemmeno la decenza di uscire dalla
tomba. MA SANTA POLENTA!». Uscì indietreggiando, con le gambe rigide.
Con molta calma e con molta tranquillità, disse: «Ci servono dei vestiti puliti,
dell’acqua per lavarlo e delle bende… un sacco di bende. Posso guarirlo, ma
prima dobbiamo rimettere insieme tutti i pezzi».
«Aspetta lì, Simone» gridò al sepolcro. «Andiamo a procurarci un po’ di
cose, e poi tornerò qui per guarirti dal tuo male».
«Quale male?» chiese Simone.
29

Quando Gesù ebbe finito, Simone detto Lazzaro era in forma come non
l’avevo mai visto. Il Messia non si era limitato a resuscitarlo, ma l’aveva
guarito dalla lebbra. Maddi e Marta erano in estasi. Il miracolato ci invitò a
casa sua a festeggiare. Sfortunatamente Crustus e Abel avevano assistito alla
resurrezione e alla guarigione, e malgrado i nostri ammonimenti
cominciarono a spargere la voce a Betania e Gerusalemme. Giuseppe
d’Arimatea ci accompagnò, ma non era certo in vena di celebrazioni. «La
cena di cui ti parlavo, non è esattamente una trappola» disse a Gesù. «Si tratta
più che altro di un esame».
«Sono già stato esaminato a cena dai farisei» fece lui. «Pensavo che tu
credessi in me».
«Infatti è così. Soprattutto dopo quanto ho visto oggi. Ma proprio per
questo devi venire a casa mia e cenare con i farisei del Consiglio. Mostra loro
chi sei. Approfitta di un’occasione informale per spiegare quello che stai
facendo».
«Una volta, Satana in persona mi ha chiesto di provare chi io fossi. Che
prova devo dare a quegli ipocriti?».
«Ti prego, Gesù. Saranno anche ipocriti, ma hanno molta influenza sulla
gente. Dal momento che ti condannano, il popolo ha paura di ascoltare la
Parola. Conosco Ponzio Pilato, non credo che qualcuno ti farà del male in
casa mia, con il rischio di incorrere nella sua ira».
Gesù rimase seduto un momento, sorseggiando il suo vino. «Allora entrerò
in quel covo di vipere».
«Non farlo» lo supplicai.
«E dovrai venire solo» specificò Giuseppe. «Non potrai portare nessuno
dei tuoi apostoli».
«Questo non è un problema» dissi. «Io sono solo un discepolo».
«In particolare, non dovrai portare lui. Ci sarà anche Jakan figlio di Iban».
«Quindi immagino che dovrò passare un’altra serata a casa» disse Maddi.
Più tardi, salutammo tutti Gesù e Giuseppe che tornavano a Gerusalemme.
«Non appena avranno svoltato l’angolo, tu li seguirai» mi disse Maddi.
«Certo».
«Stagli vicino, così da capire se ha bisogno di te».
«Assolutamente».
«Vieni qui». Mi trascinò dentro, dove gli altri non potevano vederci, e mi
diede uno di quei baci alla Maddi che per qualche minuto mi facevano
camminare sui muri e dimenticare il mio nome. Era il primo dopo mesi. Poi
mi lasciò andare e mi tenne a distanza: «Sai, se non ci fosse Gesù, amerei
soltanto te».
«Non devi corrompermi perché vegli su di lui, Maddi».
«Lo so. E questo è uno dei motivi per cui ti amo» disse. «E adesso vai».

Gli anni in cui mi ero sforzato di sorprendere i monaci alle spalle mi
tornarono utili mentre pedinavo Gesù e Giuseppe per le vie di Gerusalemme.
Non avevano idea che li stessi seguendo mentre scivolavo da un’ombra
all’altra, da un muro a un albero, fino a raggiungere la casa di Giuseppe. Si
trovava a sud delle mura della città, a un tiro di schioppo (no comment) dal
palazzo del sommo sacerdote, Caifa. Non era molto più piccola del palazzo,
ma riuscii a trovarmi un posticino sul tetto di un edificio adiacente da cui
avrei potuto osservare la cena attraverso una finestra, senza perdere d’occhio
la porta principale.
I due rimasero soli per un po’, seduti in sala da pranzo a bere vino; poi i
domestici fecero entrare gli altri ospiti, che arrivavano a gruppi di due o tre.
C’era una dozzina di farisei, quando fu servita la cena: tutti quelli che erano
presenti alla cena di Jakan più altri cinque che non avevo mai visto prima. Ma
erano tutti estremamente seri e meticolosi riguardo alla necessità di lavarsi
prima di cenare, e si controllavano a vicenda per assicurarsi che fosse tutto a
posto.
Non riuscivo a sentire quello che dicevano, ma non m’importava. Gesù
non sembrava correre rischi imminenti, ed era tutto quello che m’interessava.
Se la cavava benissimo con la retorica. Ma poi, quando cominciavo a credere
che si sarebbe concluso tutto senza incidenti, vidi l’alto copricapo e la veste
bianca di un sacerdote, giù in strada. Con lui c’erano anche due guardie del
Tempio con le loro lunghe lance dalla punta di bronzo. Saltai giù dal tetto e
mi diressi verso il lato opposto della casa, dove arrivai giusto in tempo per
vedere un servo che faceva accomodare il religioso.

Non appena Gesù entrò in casa di Simone, Marta e Maddi lo coprirono di
baci, quasi fosse tornato dalla guerra. Poi lo invitarono a sedersi e
cominciarono a interrogarlo sulla cena.
«All’inizio mi hanno sgridato perché mi divertivo, bevevo vino e
mangiavo. Dicevano che, se fossi stato un vero profeta, avrei digiunato».
«E tu che cos’hai risposto?» chiesi, ancora senza fiato per la corsa che
avevo fatto per arrivare da Simone prima del mio amico.
«Che Giovanni mangiava soltanto locuste e non aveva mai bevuto vino, e
di certo non si era mai divertito. E loro non gli avevano creduto, pertanto i
loro criteri erano incomprensibili. E mi sono fatto passare il tabbouleh».
«E loro che cos’hanno detto?».
«Hanno gridato che mangio con pubblicani e prostitute».
«Ehi» fece Matteo.
«Ehi» fece Marta.
«Non parlavano di te, Marta, ma di tua sorella».
«Ehi» fece Maddi.
«Io ho risposto che esattori delle tasse e prostitute vedranno il Regno di
Dio prima di loro. Poi mi hanno accusato di aver compiuto guarigioni durante
lo Shabbat, di non essermi lavato le mani prima di mangiare, di essere in
combutta con il diavolo (di nuovo) e di essermi macchiato di blasfemia
avendo affermato di essere il Figlio di Dio».
«E poi?».
«Poi hanno servito il dessert. Un dolce fatto con datteri e miele. Buono. E
infine si è presentato un tizio vestito da sacerdote».
«Uh-oh» fece Matteo.
«Sì, non è stato piacevole. Se ne andava in giro a sussurrare alle orecchie
dei farisei. Poi Jakan mi ha chiesto con quale autorità avessi riportato in vita
Simone».
«E tu che gli hai detto?».
«Niente, non con quel sadduceo lì presente. Ma Giuseppe ha detto loro che
Simone non era morto, e che stava solo dormendo».
«E loro?».
«Mi hanno chiesto con quale autorità l’ho svegliato».
«E tu?».
«A quel punto mi sono infuriato. E ho detto che l’avevo fatto con l’autorità
di Dio e dello Spirito Santo, di Mosè ed Elia, di Davide e Salomone, del
tuono e del fulmine, del mare, dell’aria e del fuoco sulla terra».
«E loro?».
«Hanno detto che Simone doveva avere il sonno molto pesante».
«Il sarcasmo si spreca di questi tempi» commentai.
«Completamente. Comunque, dopo me ne sono andato e fuori ho trovato
due guardie del Tempio. Le punte delle lance erano spezzate, e i due uomini
erano privi di conoscenza. Sullo scalpo di uno c’era del sangue. Così li ho
guariti e, quando ho visto che si stavano riprendendo, sono venuto qui».
«Non penseranno che sia stato tu ad aggredire quei due?» chiese Simone.
«No, il sacerdote è sceso con me, li ha visti quando li ho visti io».
«E la tua guarigione non l’ha convinto?».
«Non molto».
«E adesso che si fa?».
«Credo che dovremmo tornare in Galilea. Giuseppe ci informerà se
dovesse succedere qualcosa durante la riunione del Consiglio».
«Sai bene che cosa succederà» intervenne Maddi. «Per loro sei una
minaccia. E adesso è coinvolto anche questo sacerdote. Sai bene come
andrà».
«Sì, lo so. Ma tu no, invece. Partiremo domattina per Cafarnao».
Più tardi Maddi mi raggiunse nella stanza più grande della casa del
fratello, dove c’eravamo sistemati tutti per la notte. Strisciò sotto la mia
coperta e accostò le labbra al mio orecchio. Come sempre, sapeva di cannella
e limoni. «Che cos’hai fatto a quelle guardie?» sussurrò.
«Le ho colte di sorpresa. Credevo fossero lì per arrestare Gesù».
«Avresti potuto farlo arrestare sul serio».
«Senti, hai già fatto una cosa simile, prima? Perché, se hai una sorta di
piano, ti prego di dirmelo. Personalmente, sto improvvisando».
«Sei stato bravo» sussurrò. E mi baciò l’orecchio. «Grazie».
Feci per afferrarla, e lei si allontanò dimenandosi.
«E non intendo ancora venire a letto con te».

Il messaggero doveva aver cavalcato diverse notti per precederci, ma
quando giungemmo a Cafarnao trovammo ad aspettarci un biglietto di
Giuseppe d’Arimatea.

Gesù,
il Consiglio dei farisei ti ha condannato a morte per blasfemia. Erode è
d’accordo con loro. Ufficialmente non è stato emesso alcun mandato, ma ti
suggerisco di sparire nei territori di Erode Filippo fino a quando le acque
non si saranno calmate. Ancora niente dal sacerdote, il che è positivo. Mi ha
fatto piacere averti a cena a casa mia, passa a trovarmi quando capiti in
città.
Il tuo amico Giuseppe d’Arimatea

Gesù lesse il messaggio ad alta voce a tutti noi, poi indicò la cima di una
montagna in mezzo al deserto, sulla costa nord del lago nei pressi di Betsaida.
«Prima di lasciare di nuovo la Galilea salirò su quella montagna, e vi rimarrò
fino a quando non saranno accorsi tutti coloro che vogliono ascoltare la buona
novella. Soltanto allora partirò per i territori di Filippo. Adesso andate e
trovatemi i fedeli. E dite loro dove potranno trovarmi».
«Gesù» disse Pietro «alla sinagoga ci sono due o trecento persone fra
malati e storpi che aspettano che tu li guarisca. Hanno continuato a radunarsi
durante la tua assenza».
«Perché non me l’hai detto?».
«Be’, Bartolomeo è andato a salutarli e ha preso i loro nomi, poi abbiamo
detto loro che saresti venuto non appena ne avessi avuta la possibilità. Stanno
bene».
«Di tanto in tanto passo davanti a loro con i cani, per far vedere che siamo
occupati» disse Bart.
Gesù si precipitò alla sinagoga mulinando le braccia, quasi stesse
chiedendo a Dio perché avesse voluto tormentarlo con quella banda di
deficienti: questo lessi nel suo gesto. Noialtri ci dividemmo e partimmo per la
Galilea per annunciare che Gesù avrebbe tenuto un grandioso discorso su una
montagna a nord di Cafarnao. Maddi e io viaggiammo insieme, con le sue
amiche Giovanna e Susanna e con Simone il Cananeo. Decidemmo di
prenderci tre giorni per compiere un percorso circolare nel nord della regione,
che ci avrebbe portato in dodici città, permettendoci di tornare alla montagna
in tempo per indirizzare i pellegrini che avrebbero cominciato a radunarsi. La
prima notte ci accampammo in una valle riparata fuori dalla città di Jamnith.
Mangiammo pane e formaggio accanto al fuoco, e poi le donne andarono a
coricarsi mentre io e Simone bevemmo un po’ di vino. Era la prima volta che
avevo modo di parlare con lo zelota senza il suo amico Giuda intorno.
«Spero che adesso Gesù faccia scendere il Regno sulle loro teste» disse.
«Altrimenti potrei essere costretto a trovarmi un altro profeta a cui promettere
il mio sostegno».
Per poco non soffocai, e gli passai l’otre mentre mi sforzavo di respirare.
«Simone» dissi «tu credi davvero che sia il Figlio di Dio?».
«No».
«E lo segui comunque?».
«Non sto dicendo che non sia un grande profeta… ma addirittura il Cristo?
Il Figlio di Dio? Non lo so».
«Hai viaggiato con lui. L’hai sentito parlare. Sei stato testimone del suo
potere sui demoni, sulle persone. L’hai visto guarire e sfamare la gente. E che
cosa chiede per sé?».
«Nulla. Un posto dove dormire. Del cibo. Un po’ di vino».
«E se tu potessi fare quelle cose, che cosa chiederesti?».
Qui gettò indietro la testa e guardò le stelle, come se volesse dare libero
sfogo all’immaginazione. «Donne di interi villaggi nel mio letto. Un bel
palazzo con delle schiave che mi lavano. Cibo e vino dei migliori. Sì… I re
percorrerebbero molta strada solo per ammirare il mio oro. Vivrei una vita
maestosa».
«Ma Gesù ha soltanto il suo mantello e i suoi sandali».
Simone sembrò svegliarsi dal suo sogno a occhi aperti, e non ne fu affatto
felice. «Il solo fatto che io sia debole non significa che lui sia il Cristo».
«Invece è esattamente questo che lo rende tale».
«Forse è soltanto ingenuo».
«Continua a crederci» dissi. Mi alzai e gli passai di nuovo l’otre di vino.
«Puoi finirlo, se vuoi. Io vado a dormire».
Simone sollevò le sopracciglia. «Quella Maddalena… è una donna molto
sensuale. Un uomo potrebbe perderci la testa».
Presi un respiro profondo e pensai di difendere l’onore di Maddi, o di
avvertire Simone nell’eventualità che volesse farle delle avance. Ma poi ci
ripensai. Lo zelota aveva bisogno di una lezione che io non potevo dargli.
Maddi sì, però.
«Buonanotte, Simone».
La mattina dopo lo trovai seduto accanto alle ceneri fredde del falò, con la
testa tra le mani. «Simone?».
Sollevò lo sguardo e vidi che aveva un bernoccolo violaceo ed enorme
sulla fronte, appena sotto la frangetta del suo taglio alla romana. Al centro
c’era una macchiolina di sangue. L’occhio destro era talmente gonfio da
rimanere chiuso.
«Accidenti. Come te lo sei fatto?».
In quel momento emerse Maddi da dietro un cespuglio. «Ieri sera si è
infilato accidentalmente sotto la coperta di Susanna. L’ho scambiato per un
assalitore, e naturalmente gli ho spaccato la testa con un sasso».
«Naturalmente» ripetei.
«Mi dispiace tanto, Simone». Sentii Susanna e Giovanna che ridevano
dietro il cespuglio.
«È stato un errore commesso in buona fede» disse lui. Non capii se si
riferissi al suo o a quello di Maddi, ma in entrambi i casi stava mentendo.
«È una fortuna che tu sia un apostolo. Entro mezzogiorno sarà passato».
Terminammo il nostro giro della Galilea del nord senza incidenti, e in
effetti Simone era guarito quasi completamente quando facemmo ritorno alla
montagna sopra Betsaida, dove Gesù ci aspettava con oltre cinquemila
seguaci.
«Non riesco a liberarmi di loro nemmeno per trovare delle ceste» si
lamentò Pietro.
«Ovunque vada trovo cinquanta persone che mi seguono» disse Giuda.
«Come pensano che possiamo sfamarle, se non ci lasciano lavorare?».
Sentii simili rimostranze da parte di Matteo, Giacomo, Andrea e persino da
parte di Tommaso, che piagnucolava per il fatto che la gente continuava a
calpestare Tommaso Due. Gesù aveva moltiplicato sette pani, ottenendone
abbastanza da sfamare l’intera moltitudine, ma nessuno riusciva ad arrivare al
cibo per distribuirlo. Maddi e io riuscimmo a farci largo fino a raggiungere la
vetta, dove Gesù stava predicando. Lui fece segno alla folla che si sarebbe
preso una pausa e ci raggiunse.
«Davvero eccellente» commentò. «Così tanti fedeli…».
«Uh, Gesù…».
«Lo so. Voi due andate a Magdala. Preparate la barca grande e portatela a
Betsaida. Una volta sfamati i fedeli, vi manderò gli apostoli. Andate sul lago e
aspettatemi».
Riuscimmo a estrarre Giovanni dalla folla, e lo portammo con noi perché
ci desse una mano a risalire con la barca lungo la costa. Né io né Maddi ci
sentivamo abbastanza sicuri da condurre la grossa imbarcazione senza nessun
pescatore a bordo. Dopo mezza giornata attraccammo a Betsaida, dove gli
altri apostoli ci stavano aspettando.
«Ha portato i fedeli sull’altro lato della montagna» ci informò Pietro.
«Impartirà loro una benedizione e li manderà via. Con un po’ di speranza,
quella gente se ne andrà a casa e lui potrà raggiungerci».
«Hai visto soldati?» gli chiesi.
«Non ancora, ma ormai dovrebbe essere fuori dai territori di Erode. I
farisei stanno ai margini della folla come se sapessero che deve succedere
qualcosa».
Immaginammo che ci avrebbe raggiunti a nuoto, o a bordo di una delle
piccole barche a remi. Ma quando finalmente scese sulla costa, la moltitudine
lo stava ancora seguendo, e lui continuò a camminare sulla superficie
dell’acqua, fino a noi. La folla si fermò sulla riva e lo acclamò. Persino noi
rimanemmo stupefatti davanti a quel nuovo miracolo e, seduti sul fondo della
barca, lo guardammo avvicinarsi a bocca aperta.
«Che c’è?» chiese lui. «Cosa?».
«Maestro, tu stai camminando sull’acqua» disse Pietro.
«Ho appena mangiato» rispose il Messia. «Bisogna aspettare un’ora prima
di entrare. Potrebbero venirmi i crampi. Che c’è, nessuno di voi ha una
madre?».
«È un miracolo» gridò Pietro.
«Non è poi questo granché» fece Gesù, liquidando la faccenda con un
gesto della mano. «È facile. Davvero, Pietro, dovresti provare».
Lui si alzò in piedi, esitante.
«Sul serio».
L’apostolo cominciò a togliersi la veste.
«Tienila. E tieni anche i sandali».
«Ma, Signore, questa veste è nuova».
«E allora tienila all’asciutto, Pietro. Vieni a me. Cammina sull’acqua».
Pietro mise un piede oltre il bordo e obbedì.
«Fidati della tua fede» gridai. «Se non credi, non ce la farai mai!».
Poi Pietro mise entrambi i piedi sulla superficie dell’acqua, e per una
frazione di secondo rimase lì. Noi eravamo tutti a bocca aperta. «Ehi, sto…».
E in quel momento andò giù come un sasso. Tornò a galla sputacchiando.
Eravamo piegati in due dalle risate, persino Gesù era affondato fino alle
caviglie, tanto rideva.
«Non riesco a credere che tu ci sia cascato» gli disse. Corse verso la barca
per darci una mano a tirarlo su. «Pietro, sei stupido come una cassa di pietre.
Ma che fede incredibile hai! Su questa cassa di pietre costruirò la mia chiesa».
«Gli faresti costruire la tua chiesa?» chiese Filippo. «Perché ha tentato di
camminare sull’acqua?».
«Vuoi provare anche tu?».
«Certo che no. Non so nuotare».
«Allora chi è che ha più fede?». Gesù montò sulla barca e si scrollò
l’acqua dai sandali, poi arruffò i capelli bagnati di Pietro. «Qualcuno dovrà
guidare la chiesa quando me ne sarò andato, e non resterò tra voi ancora a
lungo. In primavera andremo a Gerusalemme per la Pasqua, e lì sarò
giudicato da scribi e sacerdoti, verrò torturato e giustiziato. Ma dopo tre
giorni risorgerò, e sarò di nuovo con voi».
Mentre Gesù parlava, Maddi si aggrappò al mio braccio. Quando ebbe
concluso, le unghie erano penetrate nel bicipite facendomi sanguinare.
Un’ombra di dolore sembrò passare sul viso di tutti noi. Non ci guardammo e
non abbassammo nemmeno lo sguardo a terra. Fissammo un punto a un paio
di metri dal nostro volto, dove probabilmente si guarda per trovare una
risposta chiara dopo un momento di smarrimento indefinito.
«Questo è proprio uno schifo» disse qualcuno.

Attraccammo nella città di Ippo, sulla costa orientale del Mare di Galilea,
esattamente di fronte a Tiberiade. Gesù vi aveva già predicato quando
eravamo venuti a nasconderci qui la prima volta, e c’era gente disposta ad
accogliere gli apostoli nelle proprie case fino a quando il Messia non li avesse
spediti di nuovo a predicare.
Da Betsaida avevamo portato molte ceste di pane spezzato, e Giuda e
Simone mi aiutarono a scaricarle guadando l’acqua bassa, dal momento che
Ippo non aveva un porto.
«I mucchi di pane erano alti come montagne» disse Giuda. «Ce n’era
molto di più di quando abbiamo sfamato quei cinquemila. Un esercito ebraico
potrebbe combattere giorni e giorni con quel genere di provviste. Se i Romani
ci hanno insegnato qualcosa, è che le guerre si combattono con lo stomaco».
Smisi di trascinarmi avanti e indietro e lo guardai.
Simone, che era in piedi accanto a me, posò la cesta sulla spiaggia e
sollevò l’orlo della fusciacca per mostrarmi l’impugnatura del pugnale. «Il
regno sarà nostro solo quando l’avremo conquistato con le armi. Non
abbiamo problemi a versare il sangue dei Romani. Non ci sono padroni
all’infuori di Dio».
Allungai una mano a coprire delicatamente il coltello. «Avete mai sentito
Gesù predicare di far del male a qualcuno? Anche a un nemico?».
«No» rispose Giuda. «Non può parlare apertamente della conquista finché
non sarà pronto a colpire. Per questo si esprime sempre con parabole».
«Questo è un coccio di burro di yak rancido» si udì una voce dalla barca.
Gesù si tirò su a sedere, con una rete sulla testa a mo’ di scialle da preghiera
sbrindellato. Stava dormendo a prua, e c’eravamo completamente dimenticati
di lui. «Biff, fai radunare tutti qui sulla spiaggia. Evidentemente, non sono
stato abbastanza chiaro».
Lasciai cadere la cesta e corsi in città per radunare gli altri. In meno di
un’ora eravamo tutti seduti sulla spiaggia, mentre Gesù camminava davanti a
noi.
«Il Regno è aperto a tutti» disse. «A TUTTI, avete capito?».
Annuimmo.
«Anche ai Romani».
Smettemmo di annuire.
«Il Regno di Dio è sopra di noi, ma i Romani resteranno in Israele. Questi
due regni non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro, lo capite?».
«Ma il Messia dovrebbe condurre il suo popolo verso la libertà» gridò
Giuda.
«Non ci sono padroni all’infuori di Dio!» aggiunse Simone.
«Silenzio! Non sono stato mandato sulla Terra per diffondere odio.
Entreremo nel regno del perdono, non della conquista. Gente, ne abbiamo già
discusso: dov’è che non sono stato chiaro?».
«Come facciamo a cacciare i Romani dal regno?» gridò Natanaele.
«Non dovresti rivolgermi una domanda del genere, razza di strano essere
con i capelli gialli. Lo ribadisco, i Romani non verranno cacciati perché il
Regno è aperto a tutti».
Probabilmente cominciavano a capire, per lo meno Giuda e Giacomo,
perché sembravano profondamente delusi. Da tutta la vita aspettavano
l’avvento del Messia che avrebbe dato inizio a un nuovo regno annientando i
Romani, e adesso si sentivano dire dalle sue divine parole che non sarebbe
successo. Ma poi Gesù attaccò con le parabole.
«Il regno è come un campo di frumento pieno di zizzania: questa non si
può strappare senza distruggere il grano».
Sguardi vuoti. Soprattutto da parte dei pescatori, che non sapevano nulla di
metafore contadine.
«La zizzania è una specie di loglio» spiegò Gesù. «Le sue radici si
intrecciano con quelle del frumento o dell’orzo, e non c’è modo di estrarle
senza rovinare il raccolto».
Nessuno afferrò il significato.
«Okay» continuò Gesù. «I bambini del cielo sono i buoni, la zizzania sono
i cattivi. Voi avete entrambi. E, quando tutto sarà finito, gli angeli
sceglieranno i cattivi e li bruceranno».
«Io non capisco» disse Pietro. Scosse il capo, e la sua chioma grigia gli
sferzò il viso come la criniera di un leone confuso, che cerca di togliersi dagli
occhi l’immagine di uno gnu volante.
«Come fate a predicare ciò che non capite? Okay, proviamo così: il Regno
dei cieli è… un mercante in cerca di perle».
«Come nella storiella delle perle gettate ai porci!» disse Bartolomeo.
«Sì, Bart! Esatto! Questa volta non ci sono suini, però. Solo perle».
Tre ore dopo Gesù ci stava ancora provando, e cominciava a esaurire le
metafore per il Regno. La sua preferita, quella del granello di senapa, aveva
fallito per ben tre volte.
«Okay. Il Regno è come una scimmia». Era rauco e aveva la voce rotta.
«In che senso?».
«Una scimmia ebrea, giusto?».
«È come una scimmia che mangia un granello di senapa?».
Mi alzai, andai da lui e gli misi un braccio intorno alle spalle. «Prenditi una
pausa». Lo portai lungo la spiaggia, verso il villaggio.
Lui scosse il capo. «Sono i più stupidi figli di puttana presenti sulla Terra».
«Sono diventati bambini, come gli avevi chiesto tu».
«Bambini stupidi».
Sentii dei passi leggeri sulla sabbia alle nostre spalle, e Maddi ci gettò le
braccia intorno al collo. Diede un bacio sulla fronte a Gesù, con un forte
schiocco bagnato, e poi si preparò a fare lo stesso con me, e io mi tirai
indietro.
«Siete voi gli sciocchi. Continuate a inveire contro la loro intelligenza,
quando quest’ultima non ha niente a che vedere con il motivo per cui sono
qui. Li avete mai sentiti predicare? Io sì. Pietro può guarire i malati, adesso.
L’ho visto con i miei occhi. E Giacomo ha fatto camminare gli storpi. La fede
non è un atto di intelligenza, ma di immaginazione. Gesù, ogni volta che dai
loro una nuova metafora per il Regno, loro vedono la metafora - un granello
di senape, un campo, un giardino, un vigneto. È come indicare qualcosa a un
gatto: il gatto guarda il tuo dito, non ciò che gli stai mostrando. Non hanno
bisogno di capire, ma di credere. E loro credono. Immaginano il Regno come
hanno bisogno che sia. Non serve che lo comprendano. C’è già, possono
lasciarlo com’è. Immaginazione, non intelletto».
Ci lasciò andare e restò lì a guardarci, con il ghigno di una pazza. Gesù
guardò prima lei e poi me.
Scrollai le spalle. «Te l’avevo detto che era più sveglia di tutti e due».
«Lo so. Quello che non so è se riesco a sopportare di dare ragione a
entrambi in un solo giorno. Mi serve un po’ di tempo per pensare e pregare».
«Vai, allora» gli disse Maddi, mandandolo avanti con un cenno. Io mi
fermai e osservai il mio amico che entrava nel villaggio, non avendo la
minima idea di quello che avrei dovuto fare. Mi voltai verso Maddi.
«Hai sentito la predizione sulla Pasqua?».
Annuì. «Immagino tu non gli abbia detto nulla».
«E cosa?».
«Dobbiamo convincerlo a ripensarci. Se sa che cosa lo attende a
Gerusalemme, perché andarci? Perché non andiamo in Fenicia, o in Siria?
Potrebbe predicare la buona novella ai greci senza correre alcun rischio.
Hanno già un sacco di gente che va diffondendo le idee più disparate; pensa a
Bartolomeo e ai suoi cinici».
«Quando eravamo in India, assistemmo a una celebrazione in onore della
dea Kali. È una divinità distruttrice, Maddi. Ed è stato lo spettacolo più
cruento a cui abbia mai assistito: migliaia di animali macellati, centinaia di
uomini decapitati. L’intero mondo sembrava scivolare su tutto quel sangue.
Gesù e io abbiamo impedito che alcuni bambini venissero mutilati vivi, ma
quando è finita lui ha detto: basta sacrifici».
Mi guardò come se si aspettasse di sentire qualcosa in più. «E allora? È
stato orribile, cosa ti aspettavi che dicesse?».
«Non stava parlando con me, Maddi. Ma con Dio. E non credo fosse una
richiesta».
«Stai dicendo che pensa che suo padre voglia ucciderlo per cercare di
cambiare le cose? E che non può evitarlo perché è la volontà di Dio?».
«No, sto dicendo che si lascerà ammazzare per dimostrare a suo padre che
è ora di cambiare le cose. E non farà niente per evitarlo».

Passammo tre mesi a supplicare, scongiurare, ragionare e piangere, ma non
riuscimmo a convincere il Messia a non recarsi a Gerusalemme per la Pasqua.
Giuseppe d’Arimatea ci aveva fatto sapere che farisei e sadducei stavano
ancora tramando contro di lui, e che Jakan si era scagliato contro i suoi
seguaci nel Cortile dei Gentili, fuori dal Tempio. Ma l’unico effetto delle
minacce era quello di renderlo ancora più risoluto. Un paio di volte Maddi e
io riuscimmo a legarlo e a nasconderlo sul fondo di una barca, usando i nodi
che avevamo imparato dai fratelli marinai Pietro e Andrea, ma pochi minuti
dopo lui c’era apparso con le corde in mano, dicendo qualcosa del tipo: «Bei
nodi, ma non abbastanza forti, no?».
La preoccupazione ci divorava.
«Potrebbe sbagliarsi riguardo all’esecuzione» dissi.
«Già, potrebbe».
«Lo credi davvero? Che si sbagli, voglio dire».
«Io credo di avere voglia di vomitare».
«Non vedo come questo potrebbe fermarlo».
E non lo fece. L’indomani partimmo per Gerusalemme. Lungo la strada ci
fermammo a riposare a Beit Shemesh, una città sulle sponde del Giordano.
Eravamo lì seduti, cupi e impotenti, e osservavamo la colonna di pellegrini
che avanzava lungo l’argine del fiume, quando una vecchia emerse dalla folla
e si fece strada battendo il bastone tra gli apostoli distesi a terra.
«Toglietevi di mezzo, devo parlare con questo tizio. Spostati, idiota,
dovresti fare un bel bagno». Colpì Bartolomeo sulla testa, e i suoi amici
canini le mordicchiarono i calcagni.
«Fate attenzione, laggiù, sono una donna anziana e ho bisogno di vedere
Gesù di Nazaret».
«Oh, no, madre» piagnucolò Giovanni.
Giacomo si alzò per fermarla e lei lo minacciò col bastone.
«Come posso aiutarti, brava donna?» le chiese Gesù.
«Sono la sposa di Zebedeo, madre di questi due». Puntò il bastone contro
Giacomo e Giovanni. «Ho sentito che presto te ne andrai nel Regno».
«Se così dev’essere, così sia».
«Be’, il mio defunto marito, pace all’anima sua, ha lasciato a questi due
un’azienda fiorente. E da quando hanno preso a seguirti l’hanno portata alla
rovina». Si voltò verso i suoi figli. «Alla rovina!».
Gesù le posò una mano sul braccio ma, invece di essere invasa dalla solita
calma che il suo tocco sembrava donare, la donna si tirò indietro e tentò di
colpirlo con il bastone, mancando di poco la testa. «Non cercare di
confondermi, Signor Paroline Dolci. I miei ragazzi hanno mandato in rovina
l’attività del padre per seguirti, quindi voglio da te la garanzia che in cambio
siederanno ai lati del trono, nel Regno che verrà. Mi sembra giusto. Sono
bravi ragazzi». Si voltò verso Giacomo e Giovanni. «Se vostro padre fosse
vivo, quello che avete fatto lo avrebbe ucciso».
«Ma brava donna, non sta a me decidere chi siederà accanto al trono».
«E a chi?».
«Penso al Signore mio padre».
«Bene, allora vai a chiederglielo». Si appoggiò al bastone e cominciò a
battere un piede. «Aspetterò».
«Ma…».
«Vorresti negare a una donna la sua ultima richiesta?».
«Non stai morendo».
«Mi stai uccidendo tu, adesso. Vai a chiedere. Sbrigati».
Gesù ci guardò imbarazzato. E noi, da bravi codardi, distogliemmo lo
sguardo. Non avevamo imparato a trattare con una madre ebrea.
«Salirò su quella montagna e glielo chiederò» disse, indicando il picco più
alto della zona.
«Bene, allora vai. Vuoi forse farmi arrivare in ritardo alla Pasqua?».
«Già. Okay, allora ci vado subito». Gesù indietreggiò lentamente, e si
avviò rasente la montagna. Monte Tabor, credo si chiamasse così.
La sposa di Zebedeo andò dietro ai suoi figli come se stesse scacciando dei
polli dal giardino. «Che cosa siete, statue di sale? Andate con lui».
Pietro rise e lei si girò di scatto, pronta a spaccargli la testa con il bastone.
Lui finse di tossire. «Farò meglio ad andare… nel caso abbiano bisogno di un
testimone». Corse dietro a Gesù e agli altri due.
La vecchia mi lanciò un’occhiata torva. «Che cosa stai guardando? Credi
che i dolori del parto finiscano quando i figli se ne vanno? Che ne sai, tu?».
Stettero via tutta la notte. Una notte lunghissima in cui la vecchia non fece
che parlare del padre di Giacomo e Giovanni, Zebedeo, che evidentemente
possedeva il coraggio di Daniele, la saggezza di Salomone, la forza di
Sansone, la devozione di Abramo, la bellezza di Davide e il fisico imponente
di Golia, pace all’anima sua. (Buffo, Giacomo l’aveva sempre descritto come
un vermiciattolo con la pronuncia blesa.) Quando vedemmo tornare il
quartetto dalla collina, balzammo tutti in piedi e corremmo a salutarli… li
avrei portati in spalla, se fosse servito a tappare la bocca a quella vecchia.
«Be’?» fece lei.
«È stato straordinario» rispose Pietro, parlando con tutti noi e ignorando la
donna. «Abbiamo visto tre troni. Sul primo sedeva Mosè, sul secondo Elia e il
terzo era pronto ad accogliere Gesù. E dal cielo è venuta una voce tuonante
che ha detto: “Questi è il figlio mio prediletto, nel quale mi sono
compiaciuto”».
«Oh, sì» commentai «l’aveva già detto».
«Ma questa volta l’ho sentito anch’io» disse Gesù con un sorriso.
«Dunque c’erano solo tre sedie?» chiese la signora Zebedeo. Guardò i suoi
due figli, che si acquattarono dietro il Messia. «Naturalmente non c’è posto
per voi due». Si allontanò barcollando, tenendosi il cuore con una mano.
«Immagino che dovremmo rallegrarci per le madri di Mosè, di Elia e di
questo nazareno. Non sapranno mai che cosa significa avere una spina nel
cuore».
Si avviò zoppicando lungo la sponda del fiume, diretta verso
Gerusalemme.
Gesù cinse la spalla dei due fratelli. «Ci penso io». Rincorse la donna.
Maddi mi diede una gomitata e, quando mi voltai a guardarla, vidi che
aveva le lacrime agli occhi. «Non sbaglia» disse.
«Già. Chiediamo a sua madre di fargli cambiare idea. Nessuno può
resisterle… cioè, io non ci riesco. Voglio dire… non è te, ma… Guarda! È un
gabbiano?».
PARTE SESTA

La passione



Nessuno è perfetto…
Be’, veramente uno lo è stato.
Ma l’abbiamo ucciso.
Anonimo

Domenica

Maria e Giacomo, il fratello di Gesù, ci trovarono fuori dalla Porta d’Oro
di Gerusalemme, dove stavamo aspettando Bartolomeo e Giovanni, che
stavano cercando Natanaele e Filippo che dovevano tornare con Giacomo e
Andrea, che stavano cercando Giuda e Tommaso, che erano stati spediti in
città per cercare Pietro e Maddi, che cercavano Taddeo e Simone, che erano
stati mandati a cercare un asino.
«Ormai dovrebbero averlo trovato» disse Maria.
Secondo la profezia, Gesù sarebbe dovuto entrare in città su un asinello.
Naturalmente, nessuno era andato a cercarlo. Era questo il piano. Persino suo
fratello Giacomo si era coalizzato con noi. Era andato avanti, oltre la porta,
nel caso uno dei discepoli avesse dimenticato il patto e fosse tornato
realmente con un asino.
Un migliaio di seguaci del Messia si erano raccolti sulla via che conduceva
alla Porta d’Oro. Si erano disposti ai lati della strada con fronde di palme per
salutare l’ingresso di Gesù e, in attesa del suo passaggio trionfale, lanciarono
acclamazioni e osanna per tutto il pomeriggio. Ma quando si fece sera e non si
vide nessun asinello, la folla cominciò gradualmente a disperdersi: la gente
aveva fame ed entrò in città per cercare qualcosa da mettere sotto i denti.
Soltanto Gesù, sua madre e io stavamo ancora aspettando.
«Speravo saresti riuscito a farlo ragionare» dissi a Maria.
«Da molto so che sarebbe giunto questo momento» mi rispose. Indossava
la sua solita veste blu, con lo scialle, e la luce che normalmente le illuminava
il viso sembrava sbiadita. Non dall’età, ma dal dolore. «Perché pensi che
l’abbia mandato a chiamare due anni fa?».
Era vero. Aveva mandato i suoi fratelli minori, Giuda e Giuseppe, alla
sinagoga di Cafarnao, affinché lo riportassero a casa con la scusa che era
impazzito. Ma lui non era neppure uscito per incontrarli.
«Preferirei che non parlaste di me come se non fossi qui» disse lui.
«Stiamo cercando di abituarci. Se non ti piace, allora rinuncia al tuo
stupido piano di immolarti».
«A cosa pensi ci siamo preparati per tutti questi anni, Biff?».
«Se avessi saputo che si trattava di questo, non ti avrei mai aiutato. A
quest’ora saresti ancora incastrato in un’anfora per il vino, in India».
Strizzò gli occhi per guardare attraverso la porta. «Dove sono tutti? È così
complicato trovare un semplice asinello?».
Guardai la madre di Gesù e, nonostante il dolore che aveva negli occhi,
sorrise. «Non guardarmi» disse. «Nessuno della mia famiglia si
sacrificherebbe mai in questo modo».
Troppo facile; decisi di lasciar perdere. «Sono tutti a casa di Simone, a
Betania. Questa notte non tornano».
Gesù non disse una parola. Si alzò in piedi e s’incamminò verso Betania.

«Non potete fare niente per impedire che accada!» gridò agli apostoli, che
erano radunati nella stanza anteriore. Marta scappò fuori in lacrime, quando
lui la guardò torvo. Simone abbassò gli occhi a terra, così come tutti noi. «Il
sacerdote e gli scribi mi prenderanno e mi processeranno. Sputeranno su di
me, mi flagelleranno e mi uccideranno. Il terzo giorno risorgerò e camminerò
di nuovo in mezzo a voi: ma non potete fermare ciò che sta per accadere. Se
mi amate, accettate quello che vi sto dicendo».
Maddi si alzò e scappò fuori dalla casa, afferrando la borsa comune
affidata a Giuda. Lui fece per inseguirla, ma gli diedi una spinta e lo feci
rimettere sul suo cuscino. «Lasciala andare».
Restammo tutti seduti in silenzio, cercando di farci venire in mente
qualcosa da fare, da dire. Non so a che cosa stessero pensando tutti gli altri,
ma io stavo ancora cercando di escogitare un modo che permettesse a Gesù di
dimostrare quanto voleva, senza rinunciare alla sua vita. Marta tornò nella
stanza con del vino, e ne versò un calice a tutti. Quando riempì quello del
Messia, evitò di guardarlo. Maria la seguì fuori dalla stanza, probabilmente
per aiutarla con la cena.
Maddi tornò poco dopo, scivolando attraverso la porta, e andò dritta da
Gesù. Si sedette ai suoi piedi. Prese la borsa comune da sotto il mantello, e la
aprì per estrarne un vasetto d’alabastro, uno di quelli in cui si conservavano i
preziosi unguenti con cui le donne ungevano i corpi dei defunti prima della
sepoltura. Lanciò la borsa vuota a Giuda. Senza dire una parola, ruppe il
sigillo del vasetto e versò l’unguento sui piedi del Messia. Poi sciolse i lunghi
capelli e cominciò ad asciugarglieli. L’aroma intenso delle spezie e del
profumo riempì la stanza.
In un istante Giuda si alzò in piedi e attraversò la stanza. Afferrò il vasetto
dal pavimento. «I soldi che hai usato per questo avrebbero potuto sfamare
centinaia di poveri».
Gesù sollevò lo sguardo verso di lui: aveva le lacrime agli occhi. «I poveri
ci saranno sempre, Giuda. Ma io sarò qui ancora per poco tempo. Lasciala
fare».
«Ma…».
«Lasciala fare». Gli tese la mano e Giuda gli sbatté il vasetto sul palmo.
Poi si precipitò fuori. Lo sentii gridare in strada, ma non riuscii a capire che
cosa stava dicendo.
Maddi versò il resto dell’unguento sul capo del Messia, e con un dito gli
tracciò dei disegni sulla fronte. Gesù provò a prenderle la mano, ma lei la tirò
via e fece un passo indietro, e lui lasciò cadere la sua. «Un morto non può
amare» disse. «Stai fermo».
Quando lo seguimmo al Tempio, l’indomani mattina, Maddi era sparita.
Lunedì

Il lunedì Gesù ci fece entrare a Gerusalemme attraverso la Porta d’Oro, ma
questa volta non c’erano fronde di palme ai lati della strada, né gente che
cantava osanna. (Be’, un tizio c’era, ma non fa testo: era sempre lì a osannare.
Se gli davi una moneta, per un po’ smetteva.)
«Non sarebbe male comprarci qualcosa per colazione» disse Giuda. «Se
solo la Maddalena non avesse speso tutto il nostro denaro».
«Però Gesù profuma di buono» disse Natanaele. «Non trovi?».
A volte proviamo gratitudine per le cose più improbabili. In quel momento,
quando vidi Giuda che digrignava i denti con una vena in rilievo sulla fronte,
recitai una breve preghiera di ringraziamento per l’ingenuità di Natanaele.
«Sì, profuma di buono» disse Bartolomeo. «Ti viene voglia di
riconsiderare la tua scala di valori, riguardo ai comfort materiali».
«Grazie, Bart».
«Sì, non c’è niente come un uomo profumato» disse Giovanni con aria
sognante. D’un tratto ci sentimmo tutti a disagio, e cominciammo a schiarirci
la gola e a tossire mentre camminavamo tenendoci a qualche passo di
distanza. (Non vi ho detto di Giovanni, vero?) Poi Giovanni iniziò a notare
con fare esagerato e patetico le donne che passavano. «Guardate, quella
piccola giovenca mi darebbe dei bei figli forti» disse, con una voce tuonante e
falsamente mascolina. «Non c’è dubbio, un uomo potrebbe piantare un po’ di
semi, là dentro».
«Stai zitto» disse Giacomo a suo fratello.
«Magari potresti chiamare tua madre» suggerì Filippo «e chiederle di dire
a quella donna di… aderire a te».
Ridacchiarono tutti, anche Gesù. Tutti tranne Giacomo, naturalmente.
«Vedi?» disse al fratello. «Vedi cos’hai scatenato? Tu, piccolo effeminato».
«Ecco una giovane nubile» esclamò Giovanni, poco convinto. Indicò una
donna che veniva trascinata verso le porte della città da un gruppo di farisei,
con i vestiti ridotti a brandelli. (In effetti sembrava nubile, quindi onore al
merito a Giovanni, che era fuori dal suo elemento.)
«Bloccate la strada» ordinò Gesù.
I farisei giunsero davanti alla nostra barricata umana e si fermarono.
«Lasciaci passare, rabbi» disse il più anziano di loro. «Questa donna è stata
sorpresa oggi mentre commetteva un atto di adulterio, e la stiamo portando
fuori città perché venga lapidata come prevede la legge». La donna era
giovane e aveva i capelli che le cadevano in riccioli sporchi intorno al viso. Il
terrore le aveva stravolto i lineamenti del viso e aveva gli occhi rovesciati
all’indietro, ma fino a un’ora prima doveva essere stata molto graziosa.
Gesù si accovacciò e cominciò a scrivere nella polvere ai suoi piedi.
«Come ti chiami?» chiese.
«Jamal» rispose il capo della banda. Lo guardai scrivere il nome dell’uomo
e, accanto, una lista di peccati.
«Jamal» dissi. «Un’oca? Non pensavo nemmeno che fosse possibile».
Jamal lasciò andare il braccio dell’adultera e fece un passo indietro. Gesù
sollevò gli occhi verso il fariseo che le teneva l’altro. «E tu come ti chiami?».
«Steve» rispose.
«Non è vero» disse un altro uomo nella folla. «Si chiama Giacobbe».
Gesù scrisse “Giacobbe” nella polvere. «No» fece lui. Lasciò andare la
donna e la spinse verso di noi. Poi il Messia si alzò e si fece dare il sasso
dall’uomo più vicino, che glielo cedette senza problemi. La sua attenzione era
rivolta alla lista dei peccati scritti nella terra. «Coraggio, lapidiamo questa
meretrice» disse Gesù. «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra». E
la porse ai farisei. E quelli a poco a poco indietreggiarono. Un attimo dopo se
n’erano andati tutti lungo la via da cui erano venuti, mentre l’adultera si gettò
ai piedi di Gesù e gli abbracciò le caviglie. «Grazie, rabbi. Grazie davvero».
«Non c’è problema» fece lui, aiutandola a rialzarsi. «Adesso va’ e non
peccare più».
«Hai davvero un buon profumo, lo sai?» fece lei.
«Sì, grazie. Vai».
S’incamminò. «Credo che dovrei assicurarmi che arrivi a casa sana e
salva» suggerii. Feci per seguirla, ma Gesù mi acciuffò per il retro della veste,
tirandomi indietro. «Per caso ti sei perso la parte in cui le ho detto di non
peccare più?».
«Senti, ho già commesso adulterio con lei nel mio cuore, quindi perché
non godersela?».
«No».
«Sei tu che hai fissato le regole. E in base a esse persino Giovanni ha
commesso adulterio nel suo cuore… e le donne non gli piacciono nemmeno».
«Fai pure» fece Giovanni.
«Al Tempio» insistette Gesù.
«Se volete saperlo, abbiamo sprecato una splendida adultera».
Gesù ci radunò nel cortile esterno del Tempio, a cui avevano accesso
donne e gentili, e cominciò a predicare l’avvento del Regno. Ogni volta che
cominciava, arrivava un mercante che urlava: «Comprate una colomba.
Comprate le vostre colombe sacrificali. Pure come neve sbattuta dalla
tempesta. Chi non ne ha bisogno?». Poi Gesù ricominciava e arrivava il
successivo.
«Pane azzimo! Comprate qui il vostro pane azzimo! Soltanto un siclo.
Matzo caldo e bollente, proprio come quello che Mosè mangiò quando tornò
dall’Egitto: soltanto più fresco, gente».
Gli portarono una ragazzina storpia e Gesù cominciò a guarirla e a
interrogarla sulla sua fede, quando…
«Cambiate i vostri denari in sicli, mentre aspettate! Nessuna cifra è troppo
piccola o troppo grossa. Cambio dracme in talenti, talenti in sicli… qualunque
valuta…».
«Tu credi che Dio ti ami?» chiese il Messia alla ragazzina.
«Erbe amare! Prendete le vostre erbe amare!» gridò un mercante.
«Dannazione!» urlò Gesù, frustrato. «Ti ho guarita, bambina, adesso esci
da questo posto». Salutò la ragazzina che cominciò a camminare per la prima
volta in vita sua. Poi il Messia schiaffeggiò un venditore di colombe, strappò
via il coperchio di una delle sue gabbie e lasciò che una nuvola di pennuti si
levasse in volo.
«Non sta forse scritto “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per
tutte le genti” ? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!».
«Oh no» mi sussurrò Pietro «non vorrà mettersi contro i cambiavalute».
Gesù afferrò un tavolo lungo e basso su cui alcuni uomini stavano
cambiando una dozzina di valute in sicli (l’unica moneta concessa per il
commercio all’interno del Tempio) e lo rovesciò.
«Oh, invece sì. È proprio fottuto» disse Filippo. E aveva ragione. I
sacerdoti prendevano una notevole percentuale dai cambiavalute. Fino a poco
prima se ne sarebbe potuto andare senza conseguenze, ma adesso aveva
interferito con le loro entrate.
«Fuori, vipere! Fuori!». Aveva afferrato una corda arrotolata che
apparteneva a uno dei mercanti e la stava usando come frusta per cacciare
quella gente fuori dal Tempio. Natanaele e Tommaso si erano uniti
all’invettiva di Gesù e prendevano a calci i mercanti che correvano via, ma
noialtri restammo seduti a guardare la scena, o ci occupammo di coloro che
erano venuti per sentire le parole del Messia.
«Dovremmo darci un taglio» dissi a Pietro.
«Credi di riuscirci?». Con un cenno indicò un angolo del cortile: almeno
una ventina di sacerdoti erano usciti dal Tempio per assistere alla rissa.
«In questo modo attirerà l’ira dei sacerdoti su tutti noi» disse Giuda. Stava
tenendo d’occhio le guardie, che avevano smesso di camminare avanti e
indietro lungo le mura e osservavano ciò che avveniva di sotto, nel cortile. A
suo credito va detto che, insieme a Simone e a qualcun altro, era riuscito a
calmare la piccola folla di fedeli che si era radunata per essere benedetta e
guarita prima che il Messia cominciasse a fare le bizze.
Al di là delle mura del Tempio, dai bastioni dell’antico palazzo di Erode il
Grande ci guardavano i soldati romani, che venivano arruolati dal governatore
durante le settimane di festa, quando portava le legioni a Gerusalemme. I
Romani non entravano nel Tempio se non in caso di insurrezioni: ma se
l’avessero fatto, sarebbe stato versato del sangue ebreo. A fiumi.
«Non verranno» disse Pietro, con una punta di dubbio nella voce. «Lo
vedono anche loro che è una questione tra ebrei. A loro non importa se ci
uccidiamo a vicenda».
«Ma guarda Giuda e Simone: se uno di quei due attacca con la solfa “non
ci sono padroni all’infuori di Dio”, i soldati si abbatteranno su di noi come la
lama di un boia».
Gesù era senza fiato e zuppo di sudore, e riusciva a malapena a riavvolgere
la corda che aveva in mano, ma alla fine ottenne che i mercanti si
allontanassero dal Tempio. Una folla numerosa aveva cominciato a seguirlo,
gridando contro i venditori mentre Gesù li scacciava. E fu proprio quel gran
numero di persone (dalle ottocento alle mille) a impedire ai sacerdoti di
ordinare alle guardie di prendere Gesù. Lui gettò via la corda e riportò la folla
nel punto in cui noialtri eravamo rimasti a osservare la scena terrorizzati.
«Ladri» ci disse senza fiato quando ci passò davanti. Poi andò da una
bambina con un braccio paralizzato, che aveva aspettato accanto a Giuda.
«Uno spettacolo piuttosto spaventoso, eh?» le chiese. Lei annuì, e Gesù
impose le mani sul braccio malato. «Quegli uomini con i cappelli alti stanno
venendo qui?». Lei annuì di nuovo. «Fammi vedere: riesci a fare questo segno
con il dito?». Le mostrò come alzare il dito medio. «No, non con quella mano.
Con questa». Le lasciò andare il braccio e lei mosse le dita. Muscoli e tendini
avevano riempito l’arto, che adesso era identico in tutto e per tutto al
compagno. «Ora fai il segno che ti ho insegnato. Bene. E adesso mostralo a
quei tizi alle mie spalle. Brava la mia bambina».

«Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farle?»
chiese uno dei sacerdoti, evidentemente quello più alto in grado.
«Non ci sono padroni…» cominciò a urlare Simone, ma fu interrotto con
un colpo violento al plesso solare da Pietro, che poi lo gettò a terra e gli si
sedette sopra, mentre furibondo gli sussurrava qualcosa nell’orecchio. Andrea
era arrivato alle spalle di Giuda, e sembrava tenere una lezione simile senza
rischiare il colpo allo stomaco.
Gesù prese un bimbo dalle braccia della madre e lo sollevò. Le gambette
del piccolo ondeggiavano in aria come se non avessero ossa. Senza distogliere
lo sguardo, chiese ai sacerdoti: «Il battesimo di Giovanni veniva da Dio o
dagli uomini?».
Gli interrogati si guardarono tra loro. La folla si fece più vicina. Eravamo
in Giudea, il territorio di Giovanni. I sacerdoti si guardavano bene dal mettere
in dubbio l’autorità di Giovanni nel nome di Dio davanti a una moltitudine del
genere, ma certo non intendevano confermarla solo per il bene di Gesù. «Non
sappiamo» rispose il capo.
«Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose». Mise il bambino
a terra e lo aiutò a rimanere in piedi, mentre le sue gambe riuscirono per la
prima volta a sostenerne il peso. Il bimbo vacillò come un puledro appena
nato, e Gesù lo afferrò ridendo. Lo prese per le spalle e lo aiutò a tornare dalla
madre. Poi si voltò verso i sacerdoti e li guardò per la prima volta.
«Volete mettermi alla prova? Fatelo. Chiedetemi ciò che volete, vipere, ma
io guarirò queste persone e loro conosceranno la parola di Dio malgrado voi».
Durante il discorso, Filippo si avvicinò sussurrandomi: «Non puoi
tramortirlo con una delle tecniche che hai imparato in Oriente? Dobbiamo
portarlo fuori di qui prima che aggiunga altro».
«Temo sia troppo tardi. Solo, non lasciare che la folla si disperda. Vai in
città e chiama altra gente. È la sua sola protezione, adesso. E trova Giuseppe
d’Arimatea. Potrebbe darci una mano, se la situazione dovesse sfuggirci di
mano».
«Perché, non è forse già successo?».
«Sai che cosa intendo dire».
L’interrogatorio andò avanti per due ore, durante le quali i sacerdoti
escogitarono trappole verbali di ogni genere per incastrarlo; in alcuni casi
Gesù riuscì a cavarsela, in altri commise qualche stupido errore. Cercai di
escogitare il modo per portarlo fuori dal Tempio senza farlo arrestare, ma più
mi guardavo intorno, più mi accorgevo che le guardie si erano mosse dalle
mura e stavano gironzolando intorno alle porte che davano sul cortile.
Intanto, il sommo sacerdote continuava con il suo tono monotono: «Un
uomo muore senza lasciare figli, ma la moglie sposa suo fratello, che ha tre
bambini dal suo primo matrimonio… (e via dicendo). Tutti e tre lasciano
Gerico e si dirigono a sud e percorrono seicentosessantatre metri l’ora, ma
con loro hanno due asini, che possono portare due… (e così via). Così lo
Shabbat finisce e possono riprendere le loro attività, aumentando i mille passi
consentiti dalla legge… e il vento soffia a sudovest a una velocità di
quattrocentodue metri l’ora… (eccetera eccetera). Quant’acqua servirà per il
viaggio? Dacci la risposta. In barilotti».
«Cinque» rispose Gesù, non appena ebbe finito di parlare. Rimasero tutti
stupiti.
La folla scoppiò in un boato. «E davvero lui il Messia» gridò una donna.
«Il Figlio di Dio è venuto in mezzo a noi».
«Così non mi state aiutando» urlò lui.
«Non ci hai mostrato il procedimento, non ci hai mostrato il
procedimento» cantilenava il più giovane dei sacerdoti.
Giuda e Matteo avevano scritto il problema sulle lastre del cortile, ma
avevano perso il filo già da parecchio. Sollevarono gli occhi e scossero il
capo.
«Cinque» ripetè Gesù.
I sacerdoti si guardarono tra loro. «È esatto, ma questo non ti dà l’autorità
di compiere guarigioni nel Tempio».
«Fra tre giorni non ci sarà più un Tempio, perché io lo distruggerò insieme
al vostro nido di vipere. E dopo altri tre giorni ne sarà costruito uno nuovo in
onore di mio padre».
A quel punto lo afferrai per il torace e cominciai a trascinarlo verso la
porta. Gli altri apostoli seguirono il mio piano e si misero attorno a noi a
formare un cuneo. La folla alle loro spalle incalzava. Centinaia di persone si
muovevano insieme a noi.
«Aspettate, non ho finito!» gridò Gesù.
«Invece sì».
«Il vero re d’Israele è venuto a portare il Regno» urlò una donna.
Pietro la colpì alla nuca. «Smetti di aiutarci».
Con la sola spinta della folla riuscimmo a portare Gesù fuori dal Tempio, e
a condurlo fino all’abitazione di Giuseppe d’Arimatea.
Questi ci fece entrare e ci guidò nella stanza al piano superiore, che aveva
un alto soffitto arcuato, sontuosi tappeti su pavimenti e pareti, mucchi di
cuscini e un tavolo lungo e basso per mangiare. «Qui siete al sicuro, ma non
so per quanto. Hanno già stabilito un incontro del Sinedrio».
«Ma abbiamo appena lasciato il Tempio» obiettai.
«Avreste dovuto lasciare che mi prendessero» disse Gesù.
«Domani la tavola sarà imbandita per il banchetto di Pasqua degli esseni.
Restate a cena».
«Celebrare la Pasqua in anticipo? Perché?» chiese Giovanni. «Perché
festeggiare con gli esseni?».
Giuseppe distolse lo sguardo da Gesù mentre rispondeva. «Perché gli
esseni non uccidono l’agnello».
Martedì

Quella notte dormimmo tutti da Giuseppe d’Arimatea, nella stanza dove ci
aveva fatto sistemare. La mattina, Gesù scese al piano di sotto, e dopo un po’
risalì.
«Non mi lasciano uscire» disse. «Chi?».
«Gli apostoli. I miei apostoli non mi lasciano uscire». Tornò verso la
rampa di scale. «State interferendo con la volontà di Dio!» gridò a quelli di
sotto. Poi si voltò verso di me. «Sei stato tu a ordinarglielo?».
«Io? Sì».
«Non puoi farlo».
«Ho mandato Natanaele a chiamare Maddi, a casa di Simone. È tornato da
solo. Maddi non ha voluto parlarci; in compenso l’ha fatto Marta. I soldati del
Tempio sono stati là, Gesù».
«E allora?».
«Come, “allora”? Sono andati là per arrestarti».
«Che lo facciano».
«Amico, non devi sacrificarti per dimostrare tutto questo. Ci ho pensato
tutta la notte: puoi negoziare».
«Con il Signore?».
«Abramo l’ha fatto. Ricordi? Per la distruzione di Sodoma e Gomorra.
Iniziò chiedendo al Signore di risparmiare i cittadini se fosse riuscito a trovare
cinquanta giusti nella città. E alla fine riuscì a scendere a dieci. Potresti
provare con una tattica simile».
«Non è proprio questo il punto, Biff». Venne verso di me, e mi resi conto
di non riuscire a guardarlo negli occhi, così andai verso una delle ampie
finestre ad arco che si affacciavano sulla strada. «Ho paura» disse lui. «Paura
di quello che dovrà succedere. Mi vengono in mente una dozzina di cose che
preferirei fare, piuttosto che immolarmi, ma so che deve succedere. Quando
ho detto ai sacerdoti che avrei distrutto il Tempio in tre giorni, mi riferivo alla
corruzione, alla simulazione e ai rituali che impediscono all’uomo di
conoscere Dio. E il terzo giorno, quando risorgerò, ogni cosa sarà nuova e il
Regno di Dio sarà ovunque. Tornerò, amico mio».
«Sì, lo so. L’hai già detto».
«Credimi».
«Non sei bravo con le resurrezioni, Gesù. Ricordi la vecchia a Giaffa? E il
soldato a Zippori? Quanto visse, tre minuti?».
«Ma pensa a Simone detto Lazzaro, il fratello di Maddi. Sono mesi che
l’ho resuscitato, ormai».
«Sì, e ha un odore strano».
«Non è vero».
«No, sul serio. Da vicino puzza di carne avariata».
«Come fai a saperlo? Tu non lo avvicini perché era un lebbroso».
«Me l’ha detto Taddeo l’altro giorno. Testuali parole: “Biff, credo che
questo Simone Lazzaro sia andato a male”».
«Davvero? Allora andiamo a chiederlo a Taddeo».
«Potrebbe non ricordarselo».
Scese la scala e si ritrovò in una stanza dal soffitto basso, con il pavimento
a mosaico e delle finestrelle che si aprivano in alto. Sua madre e suo fratello
Giacomo si erano uniti agli apostoli. Sedevano tutti contro il muro, i visi
rivolti verso Gesù come fossero fiori che seguono il sole. Lo aspettavano per
sentirgli dire due parole di speranza.
«Vi laverò i piedi» disse. Poi si rivolse a Giuseppe d’Arimatea: «Mi
servono un catino e una spugna». L’alto aristocratico s’inchinò e andò a
cercare un servo.
«Che piacevole sorpresa» disse Maria.
Giacomo, suo fratello, roteò gli occhi e trasse un profondo sospiro.
«Io esco» intervenni. Lanciai un’occhiata a Pietro, come per dirgli: «Non
perderlo di vista». Lui capì perfettamente e annuì.
«Torna per il seder» mi disse Gesù. «Devo insegnarti ancora qualcosa, nel
poco tempo che mi è rimasto».

A casa di Simone non c’era nessuno. Bussai ripetutamente alla porta, e alla
fine entrai. Non mi parve che avessero fatto colazione, ma avevano usato il
mikvah, la piscina rituale, pertanto immaginai che avessero fatto il bagno e
fossero andati al Tempio. Percorsi le vie di Gerusalemme cercando di farmi
venire in mente una soluzione, ma tutto quello che avevo imparato mi
sembrava inutile. Al calar della sera tornai verso la casa di Giuseppe,
prendendo il tragitto più lungo per non passare davanti al palazzo del sommo
sacerdote.
Trovai Gesù ad aspettarmi seduto sui gradini che portavano di sopra. Pietro
e Andrea gli erano accanto, evidentemente per assicurarsi che non scappasse
dal sommo sacerdote, autoaccusandosi di blasfemia.
«Dove sei stato?» mi chiese. «Devo lavarti i piedi».
«Hai idea di quanto sia difficile trovare un prosciutto a Gerusalemme,
durante la settimana della Pasqua?» risposi. «Pensavo sarebbe stato carino
averne un po’ da mettere sul matzo, con qualche erba amara».
«Ha lavato i piedi a tutti» m’informò Pietro. «Naturalmente abbiamo
dovuto tener fermo Bartolomeo, ma adesso persino lui è pulito».
«E come io ho lavato loro, adesso dovranno lavare i piedi ad altri,
mostrando loro il perdono».
«Oh, capisco. È una parabola. Fico. Andiamo a mangiare».
Ci sedemmo, e Gesù si mise a capotavola. Maria aveva preparato una
classica cena pasquale, con l’eccezione dell’agnello. Prima di dare inizio al
seder Natanaele, che era il più giovane, doveva rivolgerci una domanda:
«Perché questa serata è diversa da quelle del resto dell’anno?».
«Perché i piedi di Bartolomeo sono puliti?» chiese Tommaso.
«Perché il conto lo paga Giuseppe d’Arimatea?» tentò Filippo.
Natanaele rise e scosse il capo. «No. Perché di solito mangiamo pane e
matzo, mentre questa sera c’è solo il matzo. Cribbio». Ghignò, probabilmente
sentendosi sveglio per la prima volta in vita sua.
«E perché mangiamo solo matzo?» chiese ancora.
«Taglia, Nat» feci io. «Siamo tutti ebrei, qui. Sii conciso. Mangiamo pane
non lievitato perché non abbiamo avuto il tempo di farlo lievitare con i soldati
del faraone alle costole; le erbe amare simboleggiano l’amarezza della
schiavitù. Dio ci ha liberato dandoci la Terra Promessa. Grandioso. Adesso
mangiamo».
«Amen» dissero tutti.
«Che spiegazione patetica» commentò Pietro.
«Davvero?» ribattei, arrabbiato. «Ti dirò una cosa: siamo qui seduti con il
Figlio di Dio aspettando che arrivi qualcuno per portarlo via e ucciderlo, e
nessuno di noi intende fare qualcosa per impedirlo, incluso Dio. Quindi,
perdonami se non sono euforico per il fatto di essere stato liberato dagli egizi
circa un milione di anni fa».
«Sei perdonato» disse Gesù. Poi si alzò in piedi. «Quello che sono io è in
tutti voi. La Divina Scintilla… lo Spirito Santo vi unisce. È Dio, ed è in tutti
voi. Lo capite questo?».
«Certo che Dio è parte di te» gli rispose il fratello Giacomo. «È tuo padre».
«No, è parte di tutti di voi. Ecco, prendi questo pane». Prese il matzo e lo
spezzò. Lo distribuì a tutti i presenti, e ne tenne un boccone anche per sé. Poi
lo mangiò. «Ora, questo pane è parte di me: sono io. Mangiatene tutti».
Lo guardammo.
«MANGIATE!» urlò.
Obbedimmo. «Adesso il pane è parte di voi. Io sono parte di voi. E voi tutti
avete una parte di Dio, in voi. Riproviamo. Passatemi quel vino».
E andò avanti così per un paio d’ore. Dopo aver finito il vino,
probabilmente gli apostoli cominciarono ad afferrare quello che stava dicendo
loro. Poi iniziarono le suppliche: ciascuno di noi scongiurò Gesù di rinunciare
a immolarsi per salvare il resto del gruppo.
«Prima che tutto questo finisca, voi tutti dovrete rinnegarmi».
«No, non lo faremo» obiettò Pietro.
«In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi
rinnegherai tre volte. Non solo me lo aspetto, ma lo ordino a tutti voi. Se vi
prenderanno insieme a me, non resterà nessuno ad annunciare la buona
novella. Amico mio, Giuda, vieni qui».
Giuda obbedì. Gesù gli sussurrò qualcosa all’orecchio e lo rispedì al suo
posto. Poi disse: «In verità io vi dico, uno di voi mi tradirà. Non è così,
Giuda?».
«Che cosa?». Giuda ci lanciò un’occhiata, ma quando vide che nessuno si
levava in sua difesa, scese dalle scale di corsa. Pietro fece per seguirlo, ma
Gesù lo prese per i capelli e gli diede uno strattone, facendolo sollevare da
terra.
«Lascialo andare».
«Ma il palazzo del sommo sacerdote non è nemmeno a duecento metri da
qui» obiettò Giuseppe d’Arimatea. «E se andasse lì direttamente?».
Gesù sollevò la mano per chiedere silenzio. «Biff» mi disse «corri a casa di
Simone e aspetta lì. Solo tu puoi sgattaiolare accanto al palazzo senza essere
visto. Di’ a Maddi e agli altri di aspettarci. Noialtri attraverseremo la città e la
valle di Ben- Hinnom, così da evitare il palazzo. Ci vediamo a Betania».
Lanciai un’occhiata a Pietro e ad Andrea. «Non gli permetterete di
consegnarsi, vero?».
«Certo che no».
Uscii nella notte, e mentre correvo mi domandai se Gesù avesse cambiato
idea e avesse deciso di fuggire da Betania nel deserto giudeo. Avrei dovuto
capire subito che me l’aveva fatta. Credi di poterti fidare di qualcuno, e poi
questo si volta e ti mente.

Simone venne ad aprirmi e mi fece entrare. Si portò un dito alle labbra,
facendomi segno di non fare rumore. «Maddi e Marta sono sul retro. Ce
l’hanno a morte con te. Con tutti voi. E adesso se la prenderanno con me
perché ti ho fatto entrare».
«Scusa».
Scrollò le spalle. «Che cosa possono fare? È casa mia».
Attraversai subito la stanza anteriore e mi portai nella seconda, che si
apriva sulle camere da letto, sul mikvah e sul cortile dove venivano preparati i
cibi. Quando entrai, Maddi, intenta a intrecciare i capelli di sua sorella,
sollevò lo sguardo.
«Quindi sei venuto a dirmi che è fatta» disse. Gli occhi le si riempirono di
lacrime, ed ebbi la sensazione che sarei crollato con lei se si fosse messa a
singhiozzare.
«No. Lui e gli altri stanno venendo qui. Attraverseranno la valle di Ben-
Hinnom, quindi impiegheranno qualche ora. Ma io ho un piano». Tirai fuori
l’amuleto ying-yang regalatomi da Gioia e lo agitai davanti ai loro occhi.
«E il tuo piano consiste nel corrompere Gesù con una specie di gioiello
orribile?» chiese Marta.
Indicai i tappetti delle due fiale. «No, il mio piano consiste
nell’avvelenarlo».
Spiegai loro il funzionamento del veleno, e poi aspettammo. Iniziammo a
contare mentalmente il tempo, immaginando di vedere gli apostoli
attraversare Gerusalemme, varcare la porta degli esseni ed entrare nella valle
scoscesa di Ben-Hinnom, dove migliaia di tombe erano state scavate nella
roccia, e dove un tempo scorreva un fiume. Ma adesso c’erano solo salvia,
cipressi e cardi selvatici, aggrappati alle crepe della pietra calcarea.
Diverse ore dopo uscimmo in strada ad aspettare. Poi, quando tramontò la
luna e la notte cedette il posto all’alba, vedemmo un uomo solo giungere da
ovest, e non da sud come ci saremmo aspettati. Quando si fece più vicino,
capii dalle spalle possenti e dal riflesso della luna sulla testa calva che si
trattava di Giovanni.
«L’hanno preso» disse. «Al Getsemani. Sono venuti Anna e Caifa in
persona, con le guardie del Tempio, e l’hanno portato via».
Maddi corse verso di me e nascose il volto contro il mio petto. Io allungai
le braccia e strinsi anche Marta.
«Che cosa ci faceva nel Getsemani?» dissi. «Sareste dovuti venire qui
passando per la valle di Ben-Hinnom».
«L’ha detto soltanto a te».
«Quel bastardo mi ha mentito. Quindi hanno arrestato tutti?».
«No, gli altri sono nascosti non lontano da qui. Pietro ha cercato di battersi
con le guardie, ma Gesù l’ha fermato. Ha negoziato con i sacerdoti perché ci
lasciassero andare. C’era anche Giuseppe, che l’ha aiutato a convincerli».
«Giuseppe? È stato lui a tradirlo?».
«Non lo so. È stato Giuda a portarli al Getsemani. Ha indicato Gesù alle
guardie. Giuseppe è arrivato dopo, quando stavano già per arrestarci».
«Dove l’hanno portato?».
«Al palazzo del sommo sacerdote. È tutto quello che so, Biff. Parola mia».
Si sedette pesantemente in mezzo alla strada e cominciò a piangere. Marta
andò da lui e gli prese la testa, facendogliela posare sul suo petto.
Maddi sollevò gli occhi verso di me. «Sapeva che ti saresti battuto. Per
questo ti ha mandato qui».
«Il piano non cambia. Dobbiamo solo riprendercelo, così da poterlo
avvelenare».
Giovanni sollevò la testa, ancora stretto nell’abbraccio di Marta. «Hai
cambiato fazione, prima che arrivassi?».
Mercoledì

Alle prime luci del mattino, Maddi e io bussammo alla porta di Giuseppe.
Un servo ci fece entrare. Quando il padrone di casa uscì dalla camera da letto,
dovetti trattenere Maddi per impedirle di aggredirlo.
«Tu l’hai tradito!».
«No».
«Giovanni ha detto che eri con i sacerdoti» dissi.
«È vero. Li ho seguiti per impedire che lo uccidessero lì, nel Getsemani,
per tentata fuga… o per legittima difesa».
«Che intendi dire?».
«Lo vogliono morto, Maddi» le spiegò l’uomo. «Lo vogliono morto, ma
non hanno l’autorità per giustiziarlo, non lo capisci? Se non fossi stato lì,
avrebbero potuto ucciderlo sostenendo che era stato lui ad attaccare per
primo. Solo i Romani hanno il potere di mandare a morte qualcuno».
«Erode ha fatto uccidere Giovanni Battista» obiettai. «Nessun romano fu
coinvolto in quella vicenda».
«Jakan e la sua banda di malviventi lapidano gente di continuo» disse
Maddi. «Senza l’approvazione dei Romani».
«Riflettete: siamo nella settimana della Pasqua. La città brulica di Romani
a caccia di ebrei ribelli. L’intera Sesta Legione è qui, oltre alla guardia
personale di Pilato, proveniente da Cesarea. Normalmente ci sarebbe soltanto
una manciata di soldati. Sommi sacerdoti, Sinedrio, Consiglio dei farisei, e
addirittura Erode: ci penserebbero due volte prima di fare qualcosa in
contrasto con le leggi di Roma. Non fatevi prendere dal panico. Il processo
davanti al Sinedrio non si è ancora tenuto».
«Quando si terrà?».
«Questo pomeriggio, probabilmente. Devono chiamare tutti. L’accusa sta
raccogliendo testimoni contro Gesù».
«E quelli a favore?» chiesi.
«Non è così che funziona. Parlerò io per lui, e lo stesso farà il mio amico
Nicodemo. Ma a parte questo, Gesù dovrà difendersi da solo».
«Grandioso» commentò Maddi.
«Chi è che lo accusa?».
«Pensavo lo sapeste». Giuseppe piegò leggermente la schiena, in
atteggiamento servile. «La stessa persona che già due volte ha aizzato il
Sinedrio contro di lui. Jakan figlio di Iban».
Maddi si voltò come un turbine e mi guardò torva. «Avresti dovuto
ucciderlo».
«Io? Hai avuto diciassette anni per scaraventarlo giù dalle scale, o roba del
genere».
«C’è ancora tempo» disse.
«La sua morte non servirebbe ad aiutare Gesù, adesso. Sperate soltanto che
i Romani non vengano a sapere di questa storia».
«Da come parli, si direbbe che sia già condannato» osservai.
«Farò del mio meglio». Non sembrava molto fiducioso.
«Portaci da lui».
«Per far arrestare anche voi due? Non ci penso proprio. Voi restate qui.
Potete avere le stanze al piano di sopra tutte per voi. Io tornerò qui o vi
manderò notizie non appena accadrà qualcosa».
Giuseppe abbracciò Maddi e le diede un bacio sulla testa, poi uscì dalla
stanza per andare a vestirsi.
«Ti fidi di quest’uomo?» mi chiese lei.
«Ha già avvertito Gesù quando hanno cercato di ucciderlo».
«Io non mi fido».

Aspettammo per tutto il giorno al piano di sopra, balzando in piedi ogni
volta che sentivamo dei passi in strada, fino a quando non fummo esausti e
stremati per la preoccupazione. Chiesi a una serva di Giuseppe di recarsi al
palazzo del sommo sacerdote per vedere che cosa stesse succedendo. Tornò
poco dopo, per dirmi che il processo non era ancora terminato.
Ci costruimmo un letto con i cuscini sotto la grande finestra ad arco, sul
davanti della casa, così da sentire il minimo rumore proveniente dalla via
sottostante; al calar delle tenebre, però, i passi diminuirono e si fecero più
lontani, i canti distanti del Tempio si fecero più deboli, e io e Maddi ci
abbracciammo. Una massa unica di dolore sommesso e agonizzante.
All’imbrunire facemmo l’amore per la prima volta da quando ero partito con
Gesù per l’Oriente. Erano passati tanti anni, eppure mi sembrò tutto così
familiare. La prima volta, fare l’amore era stato un modo disperato per
condividere il dolore all’idea di perdere una persona che amavamo. Adesso
stavamo per perdere quella stessa persona. Dopo, però, ci mettemmo a
dormire.

Giuseppe d’Arimatea non rientrò.

Giovedì

Furono Simone e Andrea a salire di corsa le scale per venire a svegliarci,
giovedì mattina. Gettai la mia tunica su Maddi e balzai in piedi con indosso
solo il perizoma. Non appena vidi Simone, mi sentii avvampare in volto.
«Bastardo traditore!». Ero troppo furioso per picchiarlo. Rimasi lì a
urlargli i miei insulti.
«Codardo!».
«Non è stato lui» mi urlò all’orecchio Andrea.
«Non sono stato io» ripetè lui. «Ho cercato di battermi con le guardie,
quando sono venute a prenderlo. Ci abbiamo provato io e Pietro».
«Giuda era amico tuo».
«Anche tuo».
Andrea mi spinse via. «Basta così! Non è stato Simone a tradirlo. L’ho
visto affrontare due guardie armate di lance. Lascialo in pace. Non abbiamo
tempo per le tue bizze, Biff. In questo momento stanno flagellando Gesù nel
palazzo del sommo sacerdote».
«Dov’è Giuseppe?» chiese Maddi. Si era vestita mentre io inveivo contro
Simone.
«È andato al pretorio che Pilato ha posto nella Torre Antonia, accanto al
Tempio».
«E che diamine ci fa lì, se lo stanno picchiando in un palazzo da questa
parte della città?».
«Dopo lo porteranno da lui, Biff. È stato ritenuto colpevole di blasfemia.
Vogliono ottenere una sentenza di morte. Ponzio Pilato rappresenta l’autorità
governativa in Giudea. Giuseppe lo conosce, chiederà il rilascio di Gesù».
«E noi che cosa facciamo?». Cominciavo a diventare isterico. Da che
ricordassi, la mia amicizia con Gesù era stata la mia ancora, la mia ragione
d’essere, la mia vita; adesso lui stava correndo verso la distruzione come una
nave spinta dalla burrasca contro una scogliera, e io riuscivo soltanto a farmi
prendere dal panico. «Che cosa facciamo? Cosa?». Ansimavo, il fiato si
rifiutava di riempirmi i polmoni. Maddi mi afferrò per le spalle e mi scrollò.
«Hai un piano, ricordi?». Diede uno strattone all’amuleto che portavo al
collo.
«Già, giusto» dissi, prendendo una profonda boccata d’aria. «Il piano».
Afferrai la tunica e me la infilai dalla testa. Maddi mi aiutò a indossare la
fusciacca.
«Ti chiedo scusa, Simone» dissi.
Mi perdonò con un cenno della mano. «Che facciamo?».
«Se intendono portarlo al pretorio, andremo al pretorio. Se Pilato lo lascia
andare, dovremo portarlo fuori da lì. Non possiamo sapere cosa sarà capace di
fare, pur di farsi uccidere».

Stavamo aspettando insieme a un’immensa folla davanti alla Torre
Antonia, quando le guardie del Tempio fecero uscire Gesù dai cancelli
principali. Il sommo sacerdote Caifa, con la veste blu e la tonaca decorata di
pietre preziose, guidava la processione. Il suocero Anna, che aveva ricoperto
quella carica prima di lui, lo seguiva a breve distanza. Al centro del corteo
c’era Gesù, circondato da una colonna di guardie. Lo vedevamo appena, e
notai che qualcuno gli aveva fatto indossare una veste pulita, che però aveva
delle striature sulla schiena: sangue. Camminava come se fosse in trance.
Mentre le guardie del Tempio urlavano e si mettevano in posa, d’un tratto
dalla processione si fece avanti Jakan, che cominciò a litigare anche con i
soldati. Evidentemente le guardie non volevano entrare nel pretorio per non
contaminarsi, pertanto la consegna del prigioniero doveva avvenire lì sul
cancello, o non se ne sarebbe fatto nulla. Stavo cercando di calcolare se
potevo intrufolarmi tra la folla, spezzare il collo a Jakan e tornare indietro
senza mettere a repentaglio il nostro piano, quando sentii una mano sulla
spalla. Mi girai e vidi Giuseppe d’Arimatea.
«Almeno non hanno usato il flagrum romano. Gli hanno inflitto trentanove
frustate… ma era solo cuoio, non c’erano pallini di piombo alle estremità.
Altrimenti l’avrebbero sicuramente ucciso».
«Dov’eri? Perché ci hai messo tanto?».
«Il processo non finiva più. Jakan è andato avanti fino a notte fonda,
chiedendo testimonianze a persone che evidentemente non avevano mai
sentito parlare di Gesù, e che non avevano mai assistito ad alcun crimine».
«Che ci dici della difesa?» chiese Maddi.
«Be’, ho cercato di elencare tutte le sue buone azioni, ma le accuse erano
così numerose che la mia voce si è persa in mezzo a quel baccano. Gesù non
ha detto una parola per discolparsi. Gli hanno chiesto se fosse il Figlio di Dio
e lui ha risposto di sì. Così facendo ha confermato l’accusa di blasfemia. Non
avevano bisogno di altro».
«E adesso che cosa succederà? Hai parlato con Pilato?».
«Sì».
«E allora?».
Si massaggiò il naso, come se stesse lottando contro una emicrania. «Ha
detto che avrebbe fatto quello che poteva».
Guardammo i Romani che portavano dentro Gesù, seguiti dai sacerdoti. Un
legionario, mentre richiudeva il cancello, per poco non vi chiuse dentro la
testa di Jakan.
Notai un movimento con la coda dell’occhio, e sollevai lo sguardo verso
un ampio e alto balcone visibile al di sopra delle mura. Evidentemente era
stato disegnato dagli architetti di Erode il Grande come piattaforma da cui il
re poteva rivolgersi alle masse nel Tempio, senza compromettere la sua
sicurezza. Un alto romano con una sontuosa veste rossa era in piedi sul
balcone e guardava la folla, non particolarmente felice.
«Quello è Pilato?» chiesi a Giuseppe, indicandolo.
Annuì. «Scenderà per presiedere al processo».
Ma a quel punto non m’importava dove sarebbe andato. Quello che mi
interessava, invece, era il centurione alle sue spalle, con l’elmo ornato di
pennacchio e la corazza dei comandanti legionari.

Nemmeno mezz’ora dopo il cancello si aprì, e un drappello di soldati
romani condusse Gesù fuori dal palazzo, legato. Un centurione di grado
inferiore lo tirava per la corda che gli circondava i polsi. Dietro venivano i
sacerdoti, tormentati dalle domande dei farisei che erano rimasti fuori.
«Vai a scoprire che cosa è successo» dissi a Giuseppe.
A fatica, avanzammo con la processione che seguiva il Messia. In molti
urlavano contro di lui e cercavano di sputargli addosso. Individuai alcuni suoi
seguaci, che però camminavano in silenzio lanciando intorno rapide occhiate,
quasi temessero di essere arrestati da un momento all’altro.
Io, Simone e Andrea eravamo un po’ indietro, mentre Maddi lottava per
avvicinarsi a Gesù. La vidi scagliarsi contro il suo ex marito, Jakan, che
seguiva i sacerdoti, ma Giuseppe d’Arimatea riuscì a fermarla prendendola
per i capelli. Qualcun altro gli diede una mano a tenerla ferma, ma aveva uno
scialle sulla testa e non riuscii a vedere chi fosse. Pietro, probabilmente.
Trascinò Maddi verso di noi e ce la consegnò.
«Si farà ammazzare».
Lei sollevò lo sguardo verso di me: nei suoi occhi c’era ferocia, ma non
riuscii a capire se fosse rabbia o follia. La circondai e la tenni stretta, in modo
tale da bloccarle le braccia contro i fianchi, mentre camminavamo. L’uomo
con il capo coperto avanzava accanto a me, e teneva una mano sulla spalla di
Maddi per tenerla ferma. Quando mi guardò, vidi che era davvero Pietro.
L’instancabile pescatore sembrava invecchiato di vent’anni da quando l’avevo
visto l’ultima volta, martedì sera.
«Lo stanno portando da Antipa» mi disse. «Appena Pilato ha saputo che
era un Galileo, ha detto che la regione non è sotto la sua giurisdizione e l’ha
mandato da Erode».
«Maddi» le dissi all’orecchio «ti prego, smettila di fare la pazza. Il mio
piano è andato a farsi fottere, e mi sarebbe utile un po’ di razionalità».

Di nuovo restammo ad aspettare fuori da uno dei palazzi costruiti da Erode
il Grande. Questa volta però entrarono anche i farisei, e con loro Giuseppe
d’Arimatea. Qualche minuto dopo, quest’ultimo tornò da noi.
«Erode sta cercando di convincere Gesù a compiere un miracolo. Lo
lascerà andare se compirà un miracolo per lui».
«E se non lo farà?».
«Non lo farà» disse Maddi.
«In quel caso» continuò Giuseppe «siamo al punto di partenza. Spetterà a
Pilato decidere se confermare la condanna a morte chiesta dal Sinedrio o
rilasciare Gesù».
«Maddi, vieni con me» dissi trascinandola per la veste mentre mi
allontanavo.
«Perché? Dove?».
«Il piano è ancora valido». Tornai di corsa al pretorio insieme a lei. Mi
fermai accanto a un pilastro di fronte alla Torre Antonia. «Maddi, Pietro è
davvero in grado di compiere guarigioni?».
«Sì, te l’ho detto».
«Può guarire ferite? Fratture?».
«Le ferite sì. Quanto alle ossa rotte non so».
«Lo spero».
La lasciai lì mentre andavo dal centurione di grado più alto, di stanza fuori
dal cancello.
«Devo vedere il tuo comandante».
«Vattene, ebreo».
«Sono un amico. Digli che c’è qui Levi di Nazaret».
«Non gli dirò proprio un bel niente».
Allora avanzai e gli presi la spada dal fodero, gliela puntai sotto il mento
per una frazione di secondo e la riposi al suo posto. Lui fece per prenderla e
d’un tratto era di nuovo in mano mia e sotto il suo mento. Prima che avesse il
tempo di gridare, era di nuovo nel fodero.
«Ecco fatto» dissi. «Ti ho risparmiato la vita due volte. Quando griderai
per farmi arrestare avrò preso di nuovo la tua spada, e non la userò soltanto
per metterti in difficoltà… ma ti ritroverai con la testa penzolante perché ti
avrò tagliato la gola. In alternativa, puoi portarmi dal mio amico Gaius Justus
Gallicus, comandante della Sesta Legione».
A quel punto, feci un respiro profondo e aspettai. Gli occhi del centurione
si spostarono rapidi sui soldati a lui più vicini, e poi tornarono su di me.
«Pensaci» dissi. «Se mi arresti, dove andrò a finire?». La cosa più logica mi
sembrava colpirlo nella sua frustrazione.
«Vieni con me» disse.
Feci segno a Maddi di aspettarmi e seguii il soldato all’interno della
fortezza di Pilato.

Justus sembrava a suo agio nei lussuosi alloggi assegnatigli a palazzo.
C’erano scudi e lance in diversi punti della stanza, quasi avesse bisogno di
ricordare a chiunque entrasse che lì viveva un soldato. Rimasi sulla soglia
mentre camminava avanti e indietro, sollevando occasionalmente lo sguardo
verso di me, come se volesse uccidermi. Si asciugò il sudore dai capelli grigi
e corti, facendolo gocciolare sul pavimento di pietra.
«Non posso bloccare la sentenza. La questione va al di là dalla mia
volontà».
«Voglio soltanto che non gli venga fatto del male».
«Se Pilato lo fa crocifiggere, non potrai evitarlo, Biff».
«Non voglio che subisca danni. Niente ossa rotte, niente tendini recisi. Fai
in modo che gli leghino le braccia alla croce».
«Devono usare i chiodi» mi spiegò, facendo una smorfia crudele con la
bocca. «I chiodi sono di ferro. E sono inventariati. Dal primo all’ultimo».
«Voi Romani siete maestri dell’approvvigionamento».
«Che cosa vuoi?».
«D’accordo, allora legatelo e piantategli i chiodi nelle membrane che
uniscono le dita di piedi e mani, e sotto i piedi mettetegli una tavola che possa
sostenere il suo peso».
«Così non gli fai una gentilezza. Potrebbe durare una settimana».
«Non durerà. Lo avvelenerò. E voglio che mi sia dato il suo cadavere non
appena sarà morto».
Alla parola “veleno” smise di camminare e mi guardò con aperto rancore.
«Non spetta a me rilasciare il corpo, ma se vuoi assicurarti che nessuno gli
faccia del male, dovrò fare in modo che i miei soldati restino lì fino alla fine.
A volte alla tua gente piace accelerare la morte di chi sta sulla croce
lanciandogli delle pietre. Non so perché si prenda tanto disturbo».
«Sì che lo sai, Justus. Tu, fra tutti, lo sai. Puoi sputarmi addosso finché
vuoi l’amarezza di voi Romani nei confronti della compassione. Ma tu lo sai.
Sei stato tu a mandare a chiamare Gesù quando il tuo amico soffriva. Ti sei
umiliato e hai chiesto pietà. Ed è quello che sto facendo io ora».
Il rancore abbandonò completamente il suo viso, lasciando il posto allo
stupore. «Intendi resuscitarlo, non è così?».
«Voglio solo seppellire il cadavere del mio amico intatto».
«Lo riporterai in vita. Come il soldato a Zippori, quello ucciso dal sicario.
Per questo hai bisogno che il suo corpo sia intatto».
«Qualcosa del genere». Annuii con gli occhi fissi sul pavimento, per
evitare di incrociare lo sguardo del vecchio soldato.
Justus annuì, palesemente scosso. «E Pilato che deve autorizzare la
rimozione del cadavere. La crocifissione dovrebbe servire da esempio per gli
altri».
«Ho un amico che può occuparsi della restituzione del corpo».
«Gesù potrebbe ancora essere liberato, lo sai?».
«Non accadrà. Non vuole».
A quel punto distolse lo sguardo. «Darò gli ordini. Uccidilo in fretta, poi
prendi il corpo e portalo fuori dalla mia giurisdizione, ancora più in fretta».
«Grazie, Justus».
«Non mettere in imbarazzo un altro dei miei soldati, o il tuo amico dovrà
chiedere due corpi».

Quando uscii dalla Torre, Maddi corse tra le mie braccia. «È orribile. Gli
hanno messo una corona di spine sul capo, e la gente gli ha sputato addosso. I
soldati l’hanno picchiato». La folla si accalcava intorno a noi.
«Adesso dov’è?».
La folla ruggì e qualcuno cominciò a indicare il balcone. Pilato era accanto
a Gesù, sostenuto da due soldati. Il Messia guardava dritto davanti a sé, e
sembrava ancora in trance. Il sangue gli entrava negli occhi.
Pilato sollevò le braccia e la gente tacque. «Non trovo nessuna colpa in
quest’uomo. Pure, i vostri sacerdoti sostengono che si sia macchiato di
blasfemia. Non è un crimine per la legge romana. Volete dunque che vi liberi
il re dei Giudei?».
«Crocifiggilo!» gridò qualcuno accanto a me. Mi voltai e vidi Jakan che
agitava il pugno. Gli altri farisei cominciarono a dire: «Crocifiggilo,
crocifiggilo». E in breve l’intera folla sembrò unirsi al coro. Intravidi i pochi
sostenitori di Gesù iniziare a svignarsela prima di essere anche loro vittime di
tanta collera. Pilato fece il gesto di lavarsi le mani e rientrò.
Venerdì

Undici apostoli, Maddi, la madre e il fratello di Gesù si trovavano nella
stanza al primo piano della casa di Giuseppe d’Arimatea. Il mercante si era
recato da Pilato, che aveva acconsentito a rilasciare il corpo in rispetto della
Pasqua.
Parlai a tutti loro. «I Romani non sono stupidi, sanno che sono le donne a
preparare il corpo, quindi non possiamo mandare gli apostoli a prenderlo. I
soldati lo consegneranno a Maddi e Maria. Giacomo, dal momento che sei il
fratello, ti consentiranno di accompagnarle per aiutarle a trasportarlo. Voialtri
terrete il volto coperto. I farisei saranno in cerca dei seguaci di Gesù. I
sacerdoti hanno già perso troppo tempo in questa faccenda, durante una
settimana di festa, quindi saranno tutti al Tempio. Ho comprato una tomba
vicino alla collina dove verrà crocifisso. Pietro, tu aspetterai qui».
«E se non riuscissi a guarirlo? Non ho mai provato a resuscitare un morto».
«Non sarà morto. Sarà solo incapace di muoversi. Non sono riuscito a
trovare gli ingredienti per miscelare una pozione in grado di calmare il dolore,
quindi sembrerà morto ma sentirà tutto. So cosa si prova, una volta sono
rimasto in quella condizione per settimane. Tu, Pietro, dovrai curare le ferite
provocate dalla frusta e dai chiodi, ma non dovrebbero essere mortali. Io gli
darò l’antidoto non appena sarà lontano dagli sguardi dei Romani. Maddi,
quando te lo consegneranno, se ha gli occhi aperti glieli devi chiudere, o si
seccheranno».
«Non ce la faccio» disse lei. «Non posso guardare mentre lo inchiodano a
quell’albero».
«Non devi. Aspetta al sepolcro. Manderò qualcuno a chiamarti quando sarà
ora».
«Credi che funzionerà? Puoi riportarlo in vita, Biff?».
«Non lo farò perché lui non sarà morto. Solo ferito».
«Sarà meglio andare» ci esortò Giuseppe, guardando il cielo fuori dalla
finestra. «Lo porteranno fuori a mezzogiorno».

Fuori dal pretorio si era radunata una folla di gente, ma si trattava perlopiù
di curiosi. Pochi farisei - tra i quali Jakan - erano venuti realmente ad assistere
all’esecuzione di Gesù.
rimasi indietro, quasi a mezzo isolato di distanza. Gli altri discepoli erano
sparsi qua e là, il volto coperto da uno scialle o da un turbante. Pietro aveva
mandato Bartolomeo al sepolcro, con Maddi e Maria. Non c’era scialle che
potesse nascondere la sua mole, o il suo fetore.
Tre pesanti croci erano appoggiate al muro al di fuori dei cancelli, in attesa
delle tre vittime. A mezzogiorno Gesù venne condotto fuori insieme a due
ladri che come lui erano stati condannati a morte, e le croci furono poste sulle
loro spalle.
Messia aveva una dozzina di ferite sanguinanti su viso e capo e, sebbene
indossasse ancora la veste porpora datagli da Erode, riuscivo a vedere il
sangue delle frustate che gli scorreva lungo le gambe, lasciandogli delle
strisce rosse. Sembrava ancora in trance, ma non c’era dubbio che stesse
provando dolore. La gente lo accerchiò insultandolo e sputandogli addosso,
ma notai che ogniqualvolta inciampava c’era sempre qualcuno a rimetterlo in
piedi. I suoi seguaci erano ancora sparpagliati tra la moltitudine, timorosi di
mostrarsi.
Di tanto in tanto guardavo intorno al perimetro della folla e incrociavo lo
sguardo di un apostolo. C’era sempre una lacrima, e un misto di rabbia e
angoscia. Dovetti fare appello a tutta la mia forza di volontà per non lanciarmi
tra i soldati, afferrare una spada e menare fendenti. Temendo la mia stessa
collera, rimasi indietro fino a quando non mi affiancai a Simone. «Non ci
riesco nemmeno io» dissi. «Non posso stare a guardare mentre lo mettono in
croce».
«Devi farlo».
«No. Ci sarai tu, Simone. Fai in modo che ti veda. Fai in modo che sappia
che sei lì. Io verrò quando la croce sarà stata issata». Non ero mai riuscito ad
assistere a una crocifissione, neanche quando non conoscevo il condannato.
Sapevo che il mio stomaco non avrebbe retto, se il destinatario di
quell’esecuzione fosse stato il mio migliore amico. Avrei perso il controllo
aggredendo qualcuno, e a quel punto saremmo stati entrambi perduti. Simone
era un soldato. Un soldato segreto, ma pur sempre soldato. Poteva farcela.
L’orribile spettacolo al tempio di Kali mi attraversò la mente.
«Fammi un favore, Simone. Digli respiro concentrato. Digli che non fa
freddo».
«Freddo? Dove?».
«Lui capirà. Se riuscirà a ricordarsene, non sentirà dolore. È una cosa che
ha imparato a fare in Oriente».
«Glielo dirò».
Non potevo farlo io. Non senza tradirmi.
Dalle mura della città osservai Gesù che veniva condotto attraverso la
porta di Gennath e poi in cima alla collina del Golgota. Mi voltai, ma anche
da quella distanza lo sentii urlare quando gli conficcarono i chiodi nelle mani
e nei piedi.

Justus aveva assegnato a quattro soldati il compito di assistere alla morte di
Gesù. Dopo mezz’ora erano rimasti soli, a parte una dozzina di persone e le
famiglie dei due ladri, che pregavano e intonavano lamenti funebri ai piedi dei
condannati. Jakan e gli altri farisei si erano trattenuti solo fino a quando non
era stata issata la croce, e poi erano andati a festeggiare con le proprie
famiglie.
«Facciamo un gioco» proposi, lanciando in aria un paio di dadi mentre mi
avvicinavo ai soldati. «E semplicissimo». Avevo preso in prestito una tunica e
una costosa fusciacca da Giuseppe d’Arimatea. Mi aveva dato anche la sua
borsa, che sollevai e feci tintinnare davanti agli uomini di Justus. «Allora,
legionario?».
Uno dei Romani si mise a ridere. «E dove lo troviamo il denaro per
giocare?».
«Ci giocheremo la veste alle vostre spalle. Quella veste porpora ai piedi
della croce».
Il soldato la sollevò con la punta di una lancia e guardò Gesù, che
vedendomi sgranò gli occhi. «Sicuro. A quanto pare staremo qui per un po’.
Giochiamo».
Come prima cosa dovevo perdere un po’ di soldi per dare ai soldati
qualcosa con cui giocare, e poi dovevo rivincerli lentamente, in modo da
trattenermi il tempo sufficiente per compiere la mia missione. (Dentro di me,
ringraziai Gioia di avermi insegnato a barare.) Passai i dadi al soldato accanto
a me, che doveva avere una cinquantina d’anni; era basso e robusto, ma aveva
le membra deformi e coperte di cicatrici, segno di fratture guarite malamente.
Sembrava troppo vecchio per essere così lontano da Roma, e troppo
malconcio per affrontare il viaggio di ritorno in patria. Gli altri erano più
giovani, intorno ai vent’anni probabilmente, tutti con la pelle olivastra e gli
occhi scuri, tutti magri, in buona salute e affamati. I due più giovani
portavano la tipica lancia della fanteria romana, un bastone di legno con una
punta di ferro stretta e lunga quanto un avambraccio, la cui estremità a tre
lame era realizzata per trapassare una corazza. Gli altri due portavano lo
spadino iberico stretto al centro che tante volte avevo visto alla cintola di
Justus. Doveva averli fatti importare per la sua legione (la maggior parte dei
Romani usava uno spadino con la lama diritta).
Consegnai i dadi al vecchio e lasciai cadere qualche moneta a terra. Mentre
il romano li lanciava contro la base della croce di Gesù, io scrutai le colline e
vidi gli apostoli che ci osservavano da dietro gli alberi e sopra le rocce. Diedi
il segnale, e loro se lo passarono fino a farlo arrivare a una donna che
attendeva sulle mura della città.
«Oh, cielo, oggi gli dei mi sono avversi» dissi, facendo uscire una
combinazione perdente.
«Credevo che voi ebrei aveste un solo Dio».
«Stavo parlando dei tuoi, legionario. Sto perdendo».
I soldati risero, e sopra di me udii un gemito. Mi feci piccolo piccolo ed
ebbi la sensazione che le mie costole crollassero su loro stesse per il dolore
che provavo al cuore. Osai lanciare un’occhiata a Gesù, che mi stava
guardando negli occhi. «Non devi farlo» disse in sanscrito.
«Che accidenti sta dicendo l’ebreo, adesso?» chiese il vecchio.
«Non saprei, probabilmente sta delirando».
Vidi due donne avvicinarsi ai piedi della croce, alla sinistra di Gesù, con
un grosso catino, una brocca d’acqua e un bastone.
«Ehi, voi due! Via di lì!».
«Vogliamo solo dare un po’ d’acqua ai condannati, signore. Non
intendiamo fare niente di male». La donna sollevò una spugna dal catino e la
strizzò. Era Susanna, l’amica di Maddi che veniva dalla Galilea. Con lei c’era
anche Giovanna. Erano venute per la Pasqua, per salutare l’entrata del Messia
in città, e adesso le avevamo ingaggiate perché ci dessero una mano ad
avvelenarlo. I soldati le guardarono intingere la spugna, attaccarla al bastone e
sollevarla per permettere a uno dei ladroni di bere. Non riuscii a guardare e
dovetti distogliere lo sguardo.
«Abbi fede, Biff» parlò ancora Gesù, in sanscrito.
«Ehi tu, lassù: vedi di tacere e crepa» urlò uno dei soldati più giovani.
Invece di schiacciargli la trachea, fissai i dadi con uno spasmo nervoso.
«Datemi un sette. Mio figlio ha bisogno di un paio di sandali nuovi» disse
un altro dei soldati più giovani.
Non riuscivo a guardare Gesù, né quello che stavano facendo le due donne.
Il piano era che si occupassero prima dei due ladroni, così da non sollevare
sospetti; ma adesso cominciavo a pentirmi di quella decisione.
Finalmente Susanna posò il catino dove stavamo giocando, mentre
Giovanna versava dell’acqua sulla spugna.
«Non avete un po’ di vino per un soldato assetato?» chiese uno dei giovani,
che diede una pacca sul sedere della donna. «O qualche altro conforto?».
Il vecchio gli afferrò il braccio e lo spinse via. «Finirai inchiodato su quel
bastone insieme a lui, Marcus. Gli ebrei considerano un grave affronto il fatto
che si tocchino le loro donne. Justus non lo tollererà».
Susanna si tirò lo scialle sul viso. Era graziosa, magra e con il viso minuto,
eccezion fatta per i grandi occhi scuri. Era troppo vecchia per essere nubile,
ma probabilmente aveva abbandonato il marito per seguire Gesù. Per
Giovanna valeva lo stesso discorso, anche se il suo sposo ci aveva seguito per
un po’ per poi ripudiarla, davanti al suo rifiuto di tornare a casa. Era più
robusta, e camminava rotolando come fosse un carro. Prese la spugna e me la
passò.
«Vuoi da bere, signore?». A questo punto, il tempismo era fondamentale.
«Qualcuno vuole un goccio d’acqua?» chiesi prima di prendere la spugna.
Nel palmo stringevo l’amuleto ying-yang.
«Dopo che ci ha bevuto un cane ebreo? Non credo proprio» disse il
vecchio.
«Ho l’impressione che i miei soldi ebrei potrebbero insozzare la tua borsa
romana» dissi. «Forse dovrei andarmene».
«No, il tuo denaro va più che bene» dichiarò uno dei giovani, dandomi un
pugno amichevole sulla spalla. Fui tentato di rompergli tutti i denti.
Presi la spugna e finsi di bere. Quando la sollevai per spremermi l’acqua in
bocca, vi feci cadere il veleno. La restituii immediatamente a Giovanna, per
non avvelenarmi. Senza intingerla di nuovo nel catino, lei la fissò sul bastone
e la sollevò verso la bocca di Gesù. Lui girò la testa, e la lingua scivolò fuori
da un angolo della bocca a cercare quella superficie umida.
«Bevi» disse Giovanna, ma lui non parve sentirla. Premette la spugna con
più forza, facendola sgocciolare su un soldato che stava lì sotto. «Bevi».
«Spostati da lì, Marcus» gli disse il vecchio. «Quando morirà ti rovescerà
addosso tutti i suoi fluidi. Non credo ti convenga stargli così vicino». Il
vecchio fece una risata rauca.
«Bevi, Gesù» disse Susanna.
Finalmente lui aprì gli occhi e premette il viso contro la spugna. Trattenni
il fiato mentre lo sentivo succhiare.
«Basta così!» disse il giovane, levando il bastone dalle mani della donna.
La spugna finì in terra. «Tra non molto sarà morto».
«Non così presto, con quel blocco che gli sostiene i piedi» osservò il
vecchio.
Da quel momento in poi, il tempo cominciò a scorrere sempre più lento.
Quando Gioia mi aveva avvelenato, avevo impiegato pochi secondi a restare
paralizzato; anche quell’uomo che avevo avvelenato in India era crollato
quasi subito. Cercai di fingermi interessato al gioco, ma stavo cercando
qualche segnale che mi facesse capire se il veleno aveva fatto effetto.
Le donne si spostarono per guardarlo da lontano, ma d’un tratto una delle
due ansimò: sollevai lo sguardo e vidi ciondolare la testa di Gesù. Dalla bocca
aperta colava la bava.
«Come fate a capire quando è morto?» chiesi.
«Così». Il giovane soldato di nome Marcus lo pungolò alla coscia con la
lancia. Gesù gemette e aprì gli occhi. Mi si strinse lo stomaco, mentre sentivo
singhiozzare le due donne.
Lanciai i dadi e aspettai. Un’ora dopo, Gesù gemeva ancora. Di tanto in
tanto lo sentivo pregare sommessamente, sopra le risate dei soldati. Un’altra
ora passò. Cominciai a tremare. Ogni suono che giungeva dalla croce era un
ferro rovente che mi si conficcava nella spina dorsale. Non riuscivo a
guardarlo. I discepoli si fecero più vicini, ora meno preoccupati di rimanere
nascosti, ma i Romani erano troppo concentrati sul gioco per accorgersene.
Sfortunatamente, io non ero altrettanto preso.
«Hai finito» mi disse il vecchio. «A meno che tu non voglia giocarti il
mantello. La tua borsa è vuota».
«Quando si decide a morire questo bastardo?» chiese uno dei più giovani.
«Gli serve solo un po’ d’aiuto» disse Marcus, che si era alzato in piedi ed
era appoggiato alla sua lancia. Prima che avessi il tempo di tirarmi su, la
conficcò nel fianco di Gesù. La punta penetrò sotto le costole, e il sangue
zampillò dalla ferita in tre grandi fiotti, continuando a sgorgare goccia a
goccia. Marcus estrasse la lancia con uno strattone. L’intero pendio risuonò
dell’eco delle urla, alcune delle quali venivano dal sottoscritto. Rimasi lì
paralizzato e tremante, con gli occhi fissi sul sangue che sgorgava dal costato
di Gesù. Due mani mi afferrarono per le braccia e mi trascinarono indietro,
lontano dalla croce. I Romani cominciarono a raccogliere le loro cose per
tornare al pretorio.
«Mentecatto» disse il vecchio, guardandomi.
Gesù mi guardò un’ultima volta, poi chiuse gli occhi e spirò.
«Vieni via, Biff» disse una voce femminile al mio orecchio. «Coraggio».
Mi fecero voltare e mi ricondussero in città. Fui percorso da un brivido
quando si levò il vento e il cielo si fece cupo per l’improvviso sopraggiungere
di una tempesta. Si sentiva ancora gridare, e quando Giovanna mi tappò la
bocca con la mano, mi resi conto che ero io. Sbattei le palpebre più e più volte
per schiarirmi gli occhi annebbiati dalle lacrime, per vedere per lo meno dove
mi stessero portando, ma subito venivo scosso da un altro singhiozzo e
ricominciavo a piangere.
Andavamo verso la porta di Gennath: in piedi sulle mura c’era una sagoma
scura che ci guardava avanzare. Ammiccai e, in quel secondo in cui riuscii a
vedere, distinsi la figura di Giuda.
Gridai il suo nome fino a quando non mi si ruppe la voce. Mi scrollai di
dosso le donne che mi tenevano e attraversai di corsa la porta; con un balzo
saltai su uno degli enormi battenti e salii sulle mura. Giuda scappò verso sud,
voltandosi ora da una parte ora dall’altra per trovare un punto da cui saltare.
Non pensai affatto a quello che stavo facendo: il dolore si era trasformato
in rabbia, l’amore in odio. Seguii Giuda sui tetti di Gerusalemme,
allontanando chiunque incontrassi sul mio cammino, rompendo vasi,
scontrandomi con gabbie di polli e panni stesi ad asciugare. Quando giunse su
un tetto che non portava da nessuna parte, Giuda saltò i due piani che lo
separavano da terra e, zoppicando, corse verso la porta degli esseni, a Ben
Hinnom. Con un lungo balzo saltai giù anch’io e atterrai senza fermarmi.
Sentii uno strappo alla caviglia, ma non mi fermai.
Alla porta c’era una fila di persone che cercava di entrare in città,
probabilmente per ripararsi dalla tempesta che stava per scoppiare. I lampi
crepitavano nel cielo, e gocce di pioggia grosse come rane cominciarono a
cadere nelle strade, creando dei crateri nella polvere e rivestendo la città di un
sottile manto di fango. Giuda cercava di passare in mezzo alla folla che
proveniva in senso contrario, come fosse un mare di pece. E ogni volta che
riusciva ad avanzare di un passo, veniva risospinto indietro.
Vidi una scala appoggiata a un muro e vi salii di corsa. Trovai dei soldati
romani, che superai, accovacciandomi per schivare lance e spade mentre
raggiungevo la porta, la superavo e saltavo sul muro dall’altra parte. Giuda
era sotto di me. Era uscito dalla calca e correva parallelamente alle mura. Non
potevo saltare da quell’altezza, così lo seguii fino all’angolo del bastione,
dove il muro si abbassava e si faceva più spesso. Scivolai sul calcare bagnato
con mani e piedi, e atterrai dieci passi dietro al traditore.
Non sapeva che ero lì. La pioggia cadeva a scrosci e i tuoni erano così forti
e frequenti che non riuscivo a sentire nulla, oltre alla rabbia furiosa che
rumoreggiava nella mia testa. Giuda giunse a un cipresso che sporgeva da un
alto precipizio in cui erano state scavate centinaia di tombe. Il sentiero
passava tra una parete di sepolcri e l’albero, al di là del quale c’era un salto di
cinquanta metri. Prese una borsa dalla cintura, tolse una pietra dall’apertura di
una tomba e ve la infilò. Lo afferrai per la collottola, e lui strillò.
«Avanti, rimetti a posto quella pietra» gli dissi.
Cercò di girarsi e di colpirmi con il sasso; glielo tolsi di mano e lo rimisi al
suo posto. Poi gli feci lo sgambetto e lo trascinai al margine del precipizio.
Gli strinsi la trachea e, tenendomi al cipresso con la mano libera, lo tenni
sospeso sullo strapiombo.
«Non cercare di liberarti!» gridai. «Finirai solo per cadere di sotto».
«Non potevo lasciarlo vivere» disse. «Non si può permettere che una
persona del genere viva». Lo tirai indietro e gli tolsi la fusciacca che gli
cingeva la tunica.
«Sapeva di dover morire» continuò. «Secondo te come facevo a sapere che
l’avrei trovato al Getsemani, e non a casa di Simone? È stato lui a dirmelo!».
«Non dovevi tradirlo!». Gli avvolsi la fusciacca intorno al collo, e poi la
legai a un ramo del cipresso.
«No. Non uccidermi. Non potevo fare altrimenti. Qualcuno doveva farlo:
avrebbe continuato a ricordarci quello che non saremmo mai diventati».
«Già». Lo spinsi all’indietro, oltre il margine dello strapiombo, e afferrai
l’estremità della fusciacca mentre si tendeva intorno al ramo. La sentii
vibrare, quando si tese per il peso, e il collo si spezzò con il rumore di un osso
rotto. Mollai la presa e il corpo di Giuda cadde di sotto, nell’oscurità. Il
rimbombo del tuono coprì il rumore dell’impatto.
In quell’istante la rabbia mi abbandonò del tutto, ed ebbi la sensazione che
il mio scheletro stesse perdendo la propria struttura. Guardai davanti a me,
sulla valle di Ben-Hinnom, sotto la pioggia che cadeva a scrosci illuminata
dai lampi. «Mi dispiace» dissi, e feci un passo oltre il margine del precipizio.
Sentii un dolore istantaneo, e poi più nulla.

Basta, non ricordo altro.

Epilogo

L’angelo prese il libro, uscì e bussò a una porta in fondo al corridoio. «Ha
finito» disse a qualcuno.
«Ehi, te ne stai andando? Significa che posso uscire?» chiese Levi detto
Biff.
La porta di fronte si aprì e sulla soglia comparve un altro angelo, dalle
sembianze più femminili rispetto a Raziel. Anche lei aveva un libro in mano.
Uscì nel corridoio e alle sue spalle apparve una donna in jeans e camicia di
cotone verde. I capelli scuri, lunghi e lisci, avevano dei riflessi rossastri, e gli
occhi azzurri e cristallini sembravano brillare in contrasto con la pelle scura.
«Maddi» disse Levi.
«Ciao, Biff».
«Maddi ha terminato il suo Vangelo diverse settimane fa» disse Raziel.
«Sul serio?».
La Maddalena sorrise. «Avevo meno cose da scrivere. Vi ho persi di vista
per sedici anni».
«Oh, giusto».
«È volontà del Figlio che affrontiate insieme questo nuovo mondo»
annunciò l’angelo femmina.
Levi attraversò il corridoio e prese Maddi tra le braccia. Si baciarono a
lungo, fino a quando i due angeli non cominciarono a schiarirsi la gola e a
mormorare: «Prendetevi una stanza».
Biff e Maddi si tennero a distanza. «Sarà sempre così?» chiese lui. «Cioè,
tu starai con me e mi amerai solo perché non puoi avere Gesù?».
«Certo».
«È così patetico».
«Non vuoi stare con me?».
«No, lo voglio. Solo che è patetico».
«Ho del denaro. Me l’hanno dato loro».
«Bene».
«Andate» disse Raziel, che cominciava a perdere la pazienza. «Su, su,
andate via». E indicò il corridoio.
S’incamminarono tenendosi a braccetto, esitanti, e ogni due o tre passi si
voltavano a guardare gli angeli. Quando si girarono l’ultima volta, erano
scomparsi.
«Non ti saresti dovuto suicidare».
«Non ce l’ho fatta. Faceva troppo male».
«Lui è tornato».
«Lo so, l’ho letto».
«Era triste per quello che avevi fatto».
«Già, anch’io».
«E gli altri ce l’avevano a morte con te. Secondo loro, tu più di tutti avevi
un motivo per credere».
«Per questo mi hanno eliminato dai Vangeli?».
«Probabile».
Entrarono in ascensore e la Maddalena premette il bottone per l’atrio. «A
proposito, era Santificato».
«Cosa?».
«La S. Il suo secondo nome. Era Santificato. È un cognome. Ricordi?
“Padre nostro, che sei nei cieli, sia Santificato il tuo nome”».
«Dannazione, non ci sarei mai arrivato».
Postfazione

Insegnare yoga a un elefante




«Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte
una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che
si dovrebbero scrivere».
GIOVANNI 21,25


Si può davvero insegnare yoga a un elefante? No. Ma stiamo parlando di
Gesù, e nessuno sa che cosa avrebbe potuto fare.
Il libro che avete appena letto è una storia. L’ho inventata io. E non ha la
pretesa di far cambiare religione o prospettiva a nessuno - a meno che non
abbiate deciso di essere più cortesi con il prossimo (il che va bene), o di
provare davvero a insegnare yoga a un elefante. In questo caso, siete pregati
di procurarvi una videocassetta.
Ho fatto delle ricerche per il mio romanzo, sul serio, ma avrei potuto
dedicarvi decenni e commettere comunque delle imprecisioni. (È un talento,
che vi posso dire?) Se, da una parte, ho tentato di ricostruire accuratamente il
mondo in cui Cristo visse, dall’altra ho apportato alcuni cambiamenti di
comodo. In certi casi, ovviamente, non c’era modo di conoscere le reali
condizioni dell’epoca.
La storia scritta sulla classe contadina, la società e la pratica del giudaismo
nella Galilea del I secolo degenera rapidamente in teoria. Il ruolo dei farisei,
l’influenza ellenistica e quella di una città internazionale come Giaffa: che
ruolo ebbe tutto ciò durante l’infanzia di Cristo? Alcuni storici sostengono
che Gesù di Nazaret fosse poco più che un rozzo ignorante, mentre secondo
altri la vicinanza di Zippori e Giaffa l’avrebbe avvicinato alla cultura greca e
romana sin dalla tenera età. Ho scelto questa seconda ipotesi, che rendeva la
narrazione più interessante.
La storia della vita di Gesù - al di là di un paio di riferimenti da parte di
Giuseppe Flavio, storico ebreo del I secolo, e di alcuni storici romani - è fatta
soprattutto di congetture. Quello che sappiamo oggi su Gesù di Nazaret è
contenuto nei quattro sottili Vangeli del Nuovo Testamento degli apostoli
Matteo, Marco, Luca e Giovanni. I lettori che hanno familiarità con essi
(abbiate pazienza) sapranno che Matteo e Luca sono gli unici a menzionare la
nascita di Cristo, mentre Marco e Giovanni coprono soltanto il periodo del
suo ministero. I saggi, la strage degli innocenti e la fuga in Egitto sono
raccontati soltanto in Matteo, che vi dedica un breve passaggio, mentre i
pastori sono solo in Luca. In breve: se l’infanzia di Gesù è una gran
confusione, la cronaca dei suoi primi anni di vita è addirittura peggio. Dei
decenni trascorsi tra la nascita e l’inizio del suo ministero (a trent’anni), la
Bibbia contiene soltanto una scena: Luca ci racconta di Gesù che insegna al
Tempio a dodici anni. Al di là di questo, abbiamo un buco di trent’anni nella
biografia dell’essere umano più influente che sia mai venuto al mondo. Con Il
Vangelo secondo Biff ho tentato, nel mio modo sciocco, di colmare quella
lacuna: ma il mio intento non era ricostruire la storia di quegli anni. Volevo
solo scrivere un racconto.
Alcuni elementi storici possono risultare sgradevoli per una mentalità
moderna. Penso alla sessualità precoce. Che Maddi si sia potuta fidanzare a
dodici anni e sposare a tredici è quasi certo, a quanto sappiamo della società
ebraica del I secolo; allo stesso modo, un ragazzino poteva imparare un
mestiere a dieci anni, fidanzarsi a tredici e a quattordici sposarsi. Creare
empatia per coloro che oggi considereremmo bambini e che invece
svolgevano compiti da adulti, è stata una preoccupazione non da poco,
quando ho scritto questa parte del libro. Ma è possibile che sia l’unica sezione
in cui la sessualità dei personaggi trova una giustificazione storica. Il
contadino medio, in Galilea, poteva considerarsi fortunato se arrivava a
compiere quarantanni, di conseguenza i bambini raggiungevano la maturità
sessuale molto prima di quanto sarebbe successo in un contesto meno duro.
Malgrado le numerose (ne sono certo) improbabilità e inesattezze storiche
del libro, la più sfacciata che mi sono concesso è la visita di Gesù e Biff a
Gaspare, sulle montagne della Cina. Se Gautama Buddha visse e predicò
cinquecento anni prima della nascita di Cristo, e se i suoi insegnamenti erano
già ampiamente diffusi in India all’epoca in cui i nostri eroi partirono per
l’Oriente, il Buddhismo è arrivato in Cina solo cinque secoli dopo la morte
del Messia. E solo dopo quella data i monaci studiarono e svilupparono le arti
marziali. Per salvaguardare l’accuratezza storica, però, avrei dovuto omettere
un interrogativo fondamentale, che sentivo di dover porre: «E se Gesù avesse
conosciuto il kung fu?».
La vita di Gaspare, com’è descritta in Il Vangelo secondo Biff (i nove anni
nella grotta, eccetera) si basa sulle leggende sorte intorno alla vita del
patriarca buddhista Bodhidharma (o Daruma), l’uomo che si dice abbia
portato il Buddhismo in Cina intorno al 500 d.C. A lui si attribuisce la
fondazione della scuola buddhista che oggi conosciamo come Zen. La
leggenda non menziona l’incontro con uno yeti… in compenso, narra che
Bodhidharma si tagliò le palpebre per non addormentarsi, le piantò e ne
ricavò delle piante di tè, con cui in seguito i monaci avrebbero preparato degli
infusi per restare svegli durante la meditazione. Ho scelto di tralasciare questo
particolare, e al suo posto ho inserito la storia dell’abominevole uomo delle
nevi e la teoria di Biff sulla selezione naturale. Mi sembra uno scambio equo.
Si dice, inoltre, che Bodhidharma abbia inventato e insegnato il kung fu ai
famosi monaci del tempio Shaolin, per prepararli al rigoroso regime di
meditazione da lui previsto.
Gran parte dei dettagli della celebrazione di Kali, inclusi i sacrifici e le
mutilazioni, vengono da Mitologia orientale. Le maschere di Dio di Joseph
Campbell. Campbell cita i resoconti dei soldati inglesi, che nell’Ottocento
furono testimoni dei rituali cruenti compiuti in onore della dea, e afferma che
ancora oggi, a Calcutta, vengono decapitate ottocento capre in occasione dei
festeggiamenti. (Chiunque dovesse avere dei problemi con questo passaggio,
è pregato di rivolgersi a Campbell, nella sua attuale incarnazione.)
I versi delle Upanishad e della Bhagavad Gita sono reali traduzioni di quei
venerabili scritti. I versi del Kama Sutra sono totalmente inventati - ma vi
assicuro che nel libro troverete cose anche più strane.

Dal punto di vista teologico, ho immaginato che Gesù fosse la persona
descritta nei Vangeli. Sebbene mi sia rifatto ampiamente a questi ultimi - ci
sono anche un paio di riferimenti agli Atti degli Apostoli, in particolare al
dono delle lingue, senza il quale Biff non avrebbe potuto scrivere questo libro
in una lingua moderna - ho cercato di non attingere al resto del Nuovo
Testamento, nello specifico alle lettere di Paolo, Pietro, Giacomo e Giovanni,
oltre che alle Rivelazioni, tutte scritte anni dopo la Crocifissione (come pure i
Vangeli). Tali lettere, in seguito, hanno contribuito a definire il Cristianesimo.
Ma, indipendentemente da quello che pensate al riguardo, dovete convenire
che Gesù non seppe della loro esistenza, né degli eventi in esse narrati né
delle conseguenze dei loro insegnamenti: pertanto, non trovano posto in
questa storia. Tuttavia, Gesù e Biff, in quanto giovani ebrei, dovevano avere
familiarità con i libri del Vecchio Testamento: i primi cinque, la Torah,
costituivano la base della loro fede; gli altri venivano genericamente indicati
come Profeti e Scritture. Vi ho fatto riferimento ogni volta che mi è sembrato
opportuno. Per quanto riguarda il Talmud e il Midrash (racconti, parabole e
leggende che spiegano la legge di Dio), ho deciso di non usarli, poiché
all’epoca non erano ancora stati formulati né accettati.
Quanto ai Vangeli gnostici (una serie di manoscritti ritrovati a Nag
Hammadi, Egitto, nel 1945 - ma che potrebbero essere anteriori ai Vangeli
canonizzati) mi sono ispirato in minima parte al Vangelo secondo Tommaso,
un libro contenente le “parole nascoste di Cristo”, poiché ben si adattava al
punto di vista buddhista; molti di questi detti si ritrovano anche in Marco.
Quanto ad altre fonti, erano troppo frammentarie o semplicemente troppo
spaventose (un apocrifo, il Vangelo dell’infanzia di Tommaso, raccontava
come Gesù all’età di sei anni usasse i suoi poteri soprannaturali per uccidere i
bambini che lo prendevano in giro. Una sorta di Carrie va a Nazaret. Persino
io ho dovuto sorvolare).
Il Vangelo secondo Biff è infarcito di riferimenti biblici, sia reali che
inventati (Biff cita ampiamente libri inesistenti, come Dalmati, Secrezioni e
Anfibi). Insieme al mio editor, abbiamo valutato i pro e i contro
dell’eventualità di segnalare tali riferimenti con delle note a pie’ di pagina, ma
alla fine abbiamo deciso che avrebbero interrotto il flusso della storia. C’è un
problema, però: se il lettore conosce abbastanza la Bibbia da individuare le
citazioni, è probabile che decida di non leggere il romanzo. La decisione
finale - del sottoscritto… l’editor non è stato nemmeno consultato per timore
che dicesse di no - è stata quella di consigliare alle persone che non hanno
familiarità con la Bibbia di trovare un esperto, farlo mettere seduto e leggergli
i passaggi in questione, per poi chiedergli: «È vero? E di questo che cosa mi
dici?». Se non conoscete nessuno che abbia dimestichezza con le Sacre
Scritture, abbiate solo un po’ di pazienza: prima o poi busserà alla vostra
porta. Assicuratevi di avere qualche copia extra di Il Vangelo secondo Biff,
così che possa portarsene via una.
Un altro problema del raccontare una storia molto conosciuta, è che la
gente va in cerca di elementi familiari. Anche se ho nascosto molti fatti
presenti nei Vangeli, ce ne sono tanti altri che sembrano provenire da questa
fonte: solo apparentemente, perché in realtà non è così. Primo fra tutti, il fatto
che Maria Maddalena fosse una prostituta. Nei film viene sempre ritratta così,
ma nella Bibbia non viene mai detto. Viene menzionata per nome undici volte
nei Vangeli sinottici (Matteo, Luca, Marco). Quasi sempre si parla di lei in
riferimento ai preparativi per la sepoltura di Gesù, e al fatto di essere stata la
prima testimone della sua resurrezione. Si dice anche che il Messia l’avesse
liberata da sette spiriti maligni. Nessun riferimento alla prostituzione, punto.
Tutti e quattro i Vangeli sono pieni di “Marie” non meglio identificate, e
penso che alcune di esse possano coincidere con la Maddalena - nello
specifico con la Maria che, poco prima della morte di Gesù, gli unge i piedi
con un unguento prezioso e glieli asciuga con i suoi capelli (uno dei momenti
in assoluto più teneri, nonché base fondamentale del mio personaggio).
Sappiamo da alcune lettere che tra le prime guide della chiesa ci furono molte
donne: ma in Israele, nel I secolo d.C., una donna che se ne andava in giro da
sola senza un marito non era considerata solo arrogante, ma anche puttana
(così come quelle che venivano ripudiate dal proprio sposo). Forse il mito
sorto intorno alla sua figura nacque per questo.
Un altro assunto errato dei Vangeli è che i saggi fossero re, o che
addirittura fossero tre. Dipende dal fatto che al Bambin Gesù vennero
presentati tre doni. I loro nomi - Baldassarre, Gaspare e Melchiorre - non
vengono mai menzionati, e provengono da una tradizione cristiana scritta
centinaia di anni dopo l’epoca di Cristo. Riteniamo che Giuseppe di Nazaret,
il patrigno di Gesù, sia morto prima della Crocifissione, ma nei Vangeli non
viene mai detto. Forse, semplicemente non è stato coinvolto. Ci basiamo su
quello che ci è stato propinato per anni alle sacre rappresentazioni di Natale e
ai drammi della passione; spesso però, anche se ispirato dalla fede, il
materiale non è molto più di quanto avete appena letto: il prodotto
dell’immaginazione di qualcuno. I Vangeli non concordano sulla cronologia
degli avvenimenti accaduti durante il ministero di Gesù, dal battesimo da
parte di Giovanni alla Crocifissione, così ho adottato una sequenza che mi è
sembrata logica, e ho aggiunto alcuni elementi per poter inserire Biff.
Naturalmente ho omesso alcuni episodi per esigenze di brevità, ma potete
sempre trovarli nei Vangeli.
Il fatto che abbia spedito Gesù e Biff in Oriente è stato dettato meramente
da esigenze narrative e non da prove storiche o dai Vangeli. Anche se esiste
una straordinaria somiglianza tra gli insegnamenti di Cristo e quelli di Buddha
(per non parlare di Lao Tzu, Confucio e dell’Induismo, ciascuno dei quali
sembra includere una versione della Regola Aurea), è più probabile che ciò
derivi da conclusioni logiche e morali, a cui dovrebbe giungere ogni persona
che va alla ricerca di ciò che è giusto. Alcuni esempi? È meglio trattare il
prossimo con amore e gentilezza; la ricerca del guadagno materiale è vuota,
se confrontata con l’eternità; e, in qualche modo, in quanto esseri umani,
siamo tutti spiritualmente uniti. Se storici e teologi non escludono del tutto
che Cristo possa essersi recato in Oriente, sembrano tuttavia concordi nel
ritenere che potrebbe aver formulato la dottrina contenuta nei Vangeli sotto la
sola influenza degli insegnamenti dei rabbini in Galilea e Giudea. Ma dove
sarebbe stato il divertimento?
Per finire, questa storia si colloca in un’epoca terribile; il mondo degli
ebrei del I secolo, sotto il dominio romano, non doveva ispirare molta
allegria. Non è un piccolo anacronismo il fatto che il mio Gesù si diverta e
schernisca gli altri… ma in qualche modo mi piace pensare che, mentre
svolgeva il suo sacro ministero, apprezzasse un po’ d’ironia e la presenza di
un amico che aveva sempre la battuta pronta. Il Vangelo secondo Biff non ha
mai avuto l’intenzione di mettere alla prova la fede di nessuno; tuttavia, se le
convinzioni di qualche lettore possono essere scosse dalle storie di un
romanzo umoristico, forse sarebbe il caso di recitare qualche preghiera in più.
Ringrazio di cuore le persone che mi hanno aiutato nelle ricerche e nella
stesura di questo libro, in particolare coloro che sono state così generose da
condividere la loro fede senza giudicare o condannare.
Grazie infinite a Neil Levy, a Mark Joseph, al professor William “Sundog”
Bersley, a Ray Sanders e a John “l’eretico” Campbell per i loro consigli in
riferimento a religione, filosofia e storia. Grazie a Charlee Rodgers per aver
sopportato gli spasmi, i lamenti e l’arroganza dell’intero processo, e a Dee
Dee Leichtfuss per le letture e i commenti. Un ringraziamento speciale a Orly
Elbaz, mia guida in Israele, che ha dimostrato una pazienza infinita nel
rispondere alle mie domande alquanto pignole sulla storia. Grazie al mio
agente, Nick Ellison, e al mio editor, Tom Dupree, per la pazienza, i consigli e
la sopportazione.
Christopher Moore
Big Sur, California, novembre 2000

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