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MONDO PICCOLO
Volume 3 di 5
GIOSUÈ BIGATTI
& FIGLIO
EMPORIO
ARTICOLI CASALINGHI
*
La mattina seguente arrivò il telegramma. Il commenda-
tore accettava dì venire e di cantare e stabiliva la data. Pep-
pone fece subito sparare un manifesto trionfale e il paese si
preparò a ricevere degnamente il suo illustre figlio. Il salone
venne rimesso a nuovo: pittura ai muri, vernice alle porte.
Vennero installati altoparlanti in modo che anche la gente ri-
masta fuori potesse sentire.
Anteo Bigatti arrivò nel primo pomeriggio del giorno
fissato e la gente lo aspettava fin dal mattino.
Quando apparve nella piazza la enorme macchina ame-
ricana del tenore, non rimasero nelle case neppure i gatti.
Anteo era di pessimo umore: scese dal macchinone nero
che la polvere delle strade della Bassa aveva reso biancastro.
Toccò col dito affusolato dall'unghia curatissima un risvolto
del suo meraviglioso doppiopetto grigio a righe bianche e
fece una smorfia di disgusto:
«Un'indecenza: sono pieno di polvere anch'io. Pieno di
sudore e di sudiceria! Prego, portatemi alla mia stanza, devo
rimettermi a posto».
La gente applaudiva e gridava: «Viva Anteo!», ma An-
teo aveva premura soltanto di raggiungere la sua stanza. Il
fatto di essere arrivato al paese con una macchina stupenda
ma che, essendo piena di polvere, non faceva neppure metà
dell'effetto che avrebbe potuto fare, lo deprimeva. E poi an-
che lui era in disordine. Aveva la faccia untuosa, sciupata.
«Presto, presto, la stanza del commendatore!» gemeva
intanto il segretario che volteggiava intorno al tenore come
un caccia attorno al bombardiere.
Poi, quando finalmente vide la stanza, il segretario si
coperse il volto con le mani:
«Gesù, Gesù! È una cosa impossibile! Almeno la stanza
doveva essere qualcosa di decente!».
L'albergatore, che aveva tirato fuori dai cassettoni la sua
biancheria più candida e aveva messo sui mobili tutte le cose
più belle della casa, compresa la coppa d'argento placcato
guadagnata nel torneo di bocce, era umiliatissimo.
«Presto, il bagno!» esclamò Anteo arrivando e gettando-
si su una sedia. «Presto, un bagno caldo e subito o è un disa-
stro.»
Tutti erano usciti dalla stanza e stavano lì, davanti alla
porta chiusa, come rimbambiti: schizzò fuori il segretario.
«Per favore» implorò «il bagno. Il bagno, per favore; il
commendatore è in condizioni pietose. Il bagno!»
Si guardarono in faccia l'un con l'altro, poi Peppone bal-
bettò:
«Il bagno… il bagno non c'è… Capisca, questo è un
paese…».
Il segretario sbarrò gli occhi.
«E come faccio a dirglielo al commendatore? Qui suc-
cede una tragedia!»
«Mettiamo subito su dell'acqua e prepariamo la bigoncia
del bucato!» propose l'oste. Ma il segretario non gli diede
neppure retta. Disse che bisognava trovare un bagno.
«Alla palazzina vecchia c'è un bagno!» esclamò lo Smil-
zo. «Lo mettiamo a posto e vuol dire che il bagno lo andrà a
fare là.»
Peppone, lo Smilzo e il Bigio corsero alla Palazzina e
alla vecchia custode dissero che non rompesse l'anima per-
ché dovevano requisire il bagno per motivi di utilità pubbli-
ca.
Effettivamente il bagno c'era. L'aveva fatto impiantare
nel 1920 quel matto del Trambini, quando gli erano venute le
smanie della nobiltà. Lo scaldabagno era a legna, di quei tra-
biccoli alti di rame. La vasca di ferro smaltato era gialla di
sporcizia e piena di patate e di cipolle.
Lo Smilzo volò in officina a prendere dell'acido e, men-
tre il Bigio e la vecchia si affannavano a sgombrare la vasca
e il camerino, Peppone si attaccò alla caldaia. Lavorò feb-
brilmente e riuscì a riempirla d'acqua. Teneva bene e allora
Peppone accese il fornello.
Quando, un quarto d'ora dopo, ritornò lo Smilzo con l'a-
cido, la caldaia scoppiò.
La squadra riprese tristemente la via del ritorno e davan-
ti all'alberghetto trovò il segretario che aspettava cupo.
«Abbiamo trovato il bagno» spiegò Peppone. «Ma la
caldaia è scoppiata.»
Il segretario lo guardò, poi disse con voce nella quale
fremeva l'orrore:
«Non importa. Il commendatore sta facendo il bagno
dentro un bigoncio!».
La gente, adesso, si era tutta raggruppata davanti all'al-
bergo e aspettava. Sapeva che Anteo Bigatti stava facendo il
bagno e rispettava la sua pace.
Dopo mezz'ora la gente incominciò a battere le mani e a
gridare: «Viva Anteo!», «Fuori Anteo!». Arrivò la banda che
attaccò il suo pezzo forte e Anteo dovette affacciarsi alla fi-
nestra. Aveva una stupenda vestaglia di seta. Sorrise, agitò la
bianca mano e l'enorme diamante che aveva al dito sfavillò
al sole.
Poi il segretario scese pregando la gente di lasciar tran-
quillo il commendatore che aveva bisogno di riposo e di si-
lenzio.
Pareva che tutto fosse finalmente tranquillo e che tutto
dovesse procedere bene ma, verso sera, il commendatore
chiese qualcosa da mangiare e gli portarono un enorme piat-
to di salame e culatello, un'anitra arrosto e una plancia di la-
sagne al forno.
Il segretario quasi si metteva a piangere:
«Qualcosa da mangiare per un cantante, non per una
leonessa!» gemette. «Roba leggera, un piccolo brodo ristret-
to, una fettina di prosciutto magro, un cetriolo, un dito di
vino di Porto…»
L'oste, che aveva tagliato sei culatelli e otto salami pri-
ma di trovare due pezzi perfetti, si sentì morire.
Il brodino, fatto così alla svelta, risultò una schifezza, il
prosciutto sapeva di rancido, il lambrusco non riuscì neppure
a ricordare il Porto. Il cetriolo dovette essere sostituito con
un orrendo mazzo di ravanelli.
Il commendatore pareva Giove al quale, invece di netta-
re, avessero rifilato una fetta di mortadella.
Intanto le ore galoppavano: il salone era zeppo, la piaz-
za gremita.
Male anche tutto questo perché, dopo aver dovuto lavo-
rare come un carro armato per fendere la folla nella piazza,
Anteo Bigatti trovò la sala zeppa, appunto, come un uovo
quando invece avrebbe dovuto essere vuotissima e ciò allo
scopo di permettere al commendatore di mettersi d'accordo
col maestro di pianoforte e provare qualcosa per via dei toni
e dei trasporti. La gente fu costretta a uscire tutta e fu un gas.
E poi ci fu la tragedia del maestro di piano che non capiva
niente. Alla fine tutto andò a posto e la gente potè ritornare
in sala.
Peppone, che si era messo un vestito nero nel quale
scoppiava perché aveva dovuto prenderlo a prestito, quando
la banda ebbe eseguito, dalla piazza, l'inno di Mameli, si
avanzò sul palco introducendo con un gesto maestoso Anteo
Bigatti che indossava un frac tagliato dal miglior sarto di
Piccadilly. L'applauso fu qualcosa di spaventoso. Anteo si
inchinò sorridendo come si sarebbe inchinato se fosse stato
non nel salone del suo paese, ma sul palcoscenico del Metro-
politan.
Peppone snocciolò un discorso formidabile che termina-
va: «E ora vorremmo che il grande Anteo Bigatti, il nostro
grande Anteo, prima di cantare dicesse una parola ai suoi
amici».
La cosa infastidì spaventosamente Anteo che, dopo aver
esitato parecchio, si avanzò al proscenio e disse con voce in-
differente:
«Canterò per voi "Celeste Aida "».
La gente tacque e stette a guardare Anteo Bigatti che
lentamente andava assumendo la posa statuaria dell'Ugola
Divina che si accinge a regalare al mondo – lurido e pezzen-
te – uno dei gioielli mirabili del suo scrigno.
Tutto si svolse in un silenzio assoluto, un silenzio quasi
soprannaturale. Anteo Bigatti era oramai pronto: il brillante
enorme che aveva al dito esplose in mille barbagli.
Il piano preludiò. Le labbra di Anteo si dischiusero. La
voce uscì e la gente ne fu come sgomenta. La gente trattenne
il fiato per timore di turbare l'aria nella quale si distendeva
quell'argenteo filo canoro. E il filo, dopo essersi disteso nel
silenzio, prese a salire in lente volute, via via fino a raggiun-
gere le prime stelle del cielo e sostò un istante per prendere
lo slancio che l'avrebbe portato al culmine dell'infinito. E
qui, implacabile, inequivocabile, esplose una stecca colossa-
le, orrenda.
Una stecca atomica che lasciò atterrito Anteo Bigatti e
tolse alla gente quel pochino di fiato che le era rimasto.
Ma fu questione di un decimo di secondo. Immediata-
mente una voce urlò:
«Empòrio, va a cantare in Argentina!».
E cento altre voci crepitarono:
«Pitaciò, vai a letto!».
«Pitaciò!. Pitaciò!… Pitaciò!…».
Fu qualcosa come una ribellione, una sommossa, una ri-
voluzione. Fu un grido feroce, spietato. Un sibilare furibon-
do di cento vapori in pressione.
Poi una risata zampillò in mezzo alla sala, e altri zam-
pilli schizzarono un po' dappertutto fino a quando la risata
non diventò un fiume vorticoso.
Anteo Bigatti impallidì: rimase immobile qualche istan-
te poi infilò la porticina e scomparve. Pochi minuti dopo en-
trava nell'albergo.
«Povero Empòrio Pitaciò, te l'hanno dato il prosciutto
magro e il cetriolo!» gli gridò dietro sghignazzando l'oste.
Non fece neppure le valigie: aiutato dall'autista e dal se-
gretario, abbrancò la sua roba alla rinfusa e, sceso, la buttò
dentro la macchina. L'immensa Buick si mosse e scomparve
rapidamente nella notte.
Erano le nove. La gente continuò a ridere fino all'una di
notte, poi tutti andarono a letto perché non ne potevano più
di ridere.
All'una e mezzo crepitò e si spense l'ultimo «Pitaciò!» e,
alle due, il paese piombò in un sonno di piombo.
La piazza rimase deserta. Le lampade erano immobili
perché non soffiava un alito di vento.
Alle due e un quarto un enorme fantasma nero scivolò
fino al margine della piazza e qui si fermò.
Un uomo uscì dall'ombra del fantasma e, arrivato al cen-
tro della piazza, ristette.
A un tratto la lama di una voce altissima forò quel silen-
zio. E la voce aumentava sempre più di volume fino a diven-
tare un canto pieno e dispiegato. Un canto che percorse rapi-
do il porticato attorno alla piazza, poi volteggiò nel cielo e
riempì la notte.
Tutta la gente si svegliò e dischiuse le finestre e dalle
fessure rimirò sbigottita Empòrio Pitaciò che era tornato in-
dietro e ora cantava in mezzo alla piazza deserta.
Una, due, cinque, dieci arie; l'una dopo l'altra, una più
difficile dell'altra, e l'ultima fu proprio quella che Empòrio
aveva dovuto interrompere alcune ore prima nel salone:
«Celeste Aida».
Quando arrivò all'acuto, là dove era esplosa la stecca, la
voce balzò sicura all'arrembaggio di quella nota che, forse,
nessuno era riuscito mai a sfiorare, e l'agguantò sicura per il
lungo gambo e la colse come fosse un fiore e, come fosse un
fiore, la depose davanti alla saracinesca polverosa del nego-
zietto che portava scritto sull'insegna scolorita:
GIOSUÈ BIGATTI
& FIGLIO
EMPORIO
ARTICOLI CASALINGHI
«Passata?»
La voce aspra di Ganassa lo risvegliò. La testa non gli
girava più ma aveva la bocca arida.
Mandò giù mezza caraffa d'acqua.
«Che ore sono?» domandò all'oste.
«Le sette.»
L'angoscia lo prese: pensò alla motocicletta senza benzi-
na, pensò al desinare e al vino da pagare. La faccia cupa di
Ganassa e le sue mani enormi gli fecero paura. Poi pensò al
fiume, al grande fiume che aspettava e, improvvisamente, si
sentì tranquillo. Tutto a posto.
Si fece portare un grosso bicchiere di grappa e lo cacciò
giù e Ganassa lo stette a guardare.
«Conto» disse l'uomo.
Ganassa prese un pezzetto di gesso e scarabocchiò qual-
cosa su di un tavolo. Il giovanotto vedeva muoversi quella
manaccia dalle dita grosse come bastoni. Ma cosa importa-
va? Tutto sarebbe finito nell'acqua del grande fiume.
«Seicentodieci» disse alla fine Ganassa tirando su la te-
sta.
Il giovanotto esitò un momento poi disse:
«Mi dispiace molto».
Ganassa non capì.
«Non è né molto né poco» replicò con tono minaccioso.
«È il prezzo giusto. Se vuol controllare controlli.»
Il giovanotto sospirò.
«Non parlo del prezzo. Dico che mi dispiace molto per
il fatto che io non ho le seicentodieci lire.»
Ganassa si avvicinò lentamente e, arrivato al tavolo, ap-
poggiò i pugni micidiali sulla tovaglia e si protese verso il
giovanotto.
«Non avete le seicentodieci lire?»
«No.»
«E quanto avete?»
«Niente» spiegò il giovane.
La cosa sembrò enorme a Ganassa che rimase qualche
istante come sbalordito.
«E senza un centesimo in tasca voi siete entrato qui e vi
siete fatto servire tutto quel che vi ho dato!» ruggì mentre gli
occhi gli diventavano sempre più piccoli.
Il giovanotto allargò le braccia.
Ganassa ansimava, adesso.
«A me non mi ha mai preso per il bavero nessuno» disse
Ganassa scostando con una zampata la tavola.
Il giovanotto non si levò neppure in piedi. La cosa non
gli in. teressava e attese. Ganassa avanzò d'un passo, agguan-
tò con la sinistra il giovanotto per gli stracci del petto e lo
tirò su.
Il giovanotto attese che la mano destra si mettesse in
moto ma in quell'istante, una voce si levò:
«Ganassa, non ti mettere nei guai per seicento lire».
Ganassa allentò le dita e si volse:
«lo gli ho dato da mangiare» disse. «Io non sono che un
disgraziato e tu lo sai. Perché, se non aveva neanche un cen-
tesimo, è venuto proprio a imbrogliare me?»
«Sono entrato nella prima osteria che ho incontrato»
spiegò il giovanotto e Ganassa strinse i pugni:
«Perché, quando siete entrato, non avete detto che era-
vate senza soldi e che avevate fame? Qualcosa ve l'avrei data
lo stesso».
«Non ho mai chiesto la carità in vita mia» spiegò il gio-
vanotto. «E poi avevo bisogno di vino, molto vino.»
Ganassa aveva finito tutto il suo repertorio di argomen-
tazioni.
«Basta!» ruggì. «Non uscite di qui se non mi date qual-
cosa per rifarmi il danno.»
In un angolo della stanzaccia tre o quattro uomini stava-
no seduti a un tavolo giocando alle carte. Smisero definitiva-
mente di giocare e stettero ad aspettare. Ganassa era lanciato
e di sicuro sarebbe saltato fuori un macello.
Il giovanotto pensò al grande fiume che lo aspettava e
sentì quasi un malvagio piacere per quel che gli stava acca-
dendo. Come se succedesse a un altro. Si frugò in tasca poi
mostrò a Ganassa le poche cianfrusaglie racimolate.
«Non c'è niente di buono» spiegò. «Se volete che vi la-
sci la giacca!»
«Non voglio stracci!» grugnì Ganassa.
«Ho questa borsa, la matita stilografica…»
«Non voglio stupidaggini!» grugnì ancora più feroce
Ganassa.
Il giovanotto si guardò addosso poi allargò le braccia:
«Non so cosa darvi» disse. «Per quanto io pensi non so
cosa darvi. Non posso neanche farvi una cambiale perché so
che non potrei pagare mai…»
Gli occhi gli caddero sulla parete di fianco e vide i qua-
dretti con le solite vecchie oleografie da osteria di campagna:
Otello che sta per strozzare Desdemona, Rigoletto che col
braccio levato urla «Cortigiani vil razza dannata» e via di-
scorrendo. Allora si ricordò di una vecchia storia di prigio-
nìa, di quando cioè, per avere dai tedeschi un paio di zoccoli
di legno, aveva dovuto cantare 0 sole mio, e si volse verso
Ganassa:
«Sentite» disse «io non so cosa darvi. Se volete posso
farvi una cantata».
Quando gli venne in mente che, a dire una cosa del ge-
nere, significava dare il via all'oste per il macello, era troppo
tardi: Ganassa aveva già stretto i pugni e già si avanzava im-
placabile.
«Volete pagarmi con una cantata?» domandò Ganassa
giunto a un passo da lui.
«Quand'ero in prigionìa, un tedesco per una cantata mi
ha dato un paio di zoccoli, una trancia di pane così, e una si-
garetta.»
Ganassa rimase un istante perplesso poi indietreggiò e
andò a infilarsi dietro il banco.
«Avanti» disse Ganassa.
Il giovanotto fece di sì con la testa e si schiarì la gola.
Intanto si guardava attorno e scoperse, appeso sopra la porta,
un quadro con dentro la faccia malgarbata del Peppino di
quelle parti.
Guardò intensamente, disperatamente quell'immagine
cercandone gli occhi e, alla fine, li trovò e non li mollò più.
Erano due occhi piccoli ma che sfavillavano nell'ombra
come due diamanti.
Il giovanotto attese il cenno e quando l'ebbe da un bar-
baglio guizzato fuor dall'ombra, attaccò qualcosa di Verdi.
Continuò a cantare mai abbandonando quegli occhi e
sentì uscirsi di bocca una voce che non gli pareva neppure la
sua e, negli acuti, il fiato che non trovava nei polmoni lo cac-
ciava fuori dal cuore.
Il vino? La grappa? Il miraggio del grande fiume che
aspettava?
Cantò e, quando vide spegnersi le due. gemme dell'om-
bra, capì che aveva finito di cantare.
Ganassa era lì, coi gomiti sul banco, il testone stretto tra
le manacce pelose e non tirava neanche il fiato. E i tre o
quattro del gruppetto in fondo alla sala pareva si fossero
messi d'accordo con Ganassa.
Il giovanotto si mosse e si avviò verso la porta perché il
fiume lo aspettava. Quando passò davanti al banco, Ganassa
si riscosse: si levò su, aperse il cassetto e vi frugò dentro e
depose sul marmo trecentonovanta lire.
«Signore, il resto delle mille lire» disse con voce cupa
Ganassa.
Il giovanotto si volse e rimase come incantato da quel
gesto straordinario. Poi l'atmosfera del melodramma prese
anche lui e sorridendo rispose:
«Resto mancia».
«Grazie, signore» rispose Ganassa. E nei suoi occhi bril-
lò un lampo di meraviglia perché non aveva mai ricevuto in
vita sua una mancia così grossa.
Fuori, il sole aveva finito di assassinare i campi e ora si
apprestava lentamente a mettere in scena un tramonto degno
del cielo lirico della Forza del destino.
Il giovanotto arrivò in riva all'acqua. Ma l'acqua lo re-
spingeva. Tutto era uguale, ma tutto era cambiato, adesso.
«Ecco la macchina.»
Il giovanotto si volse: Peppone stava dietro lui e teneva
la motoleggera per il manubrio.
Il giovane voleva dir qualcosa ma Peppone non gliene
lasciò il tempo.
«Tutto a posto» spiegò. «La gomma e la benzina.»
Il giovane allargò le braccia ma Peppone scosse il capo:
«Stia comodo, sono già pagato di tutto: ero all'osteria
anch'io».
Si incamminarono verso la discesa che portava alla stra-
da provinciale.
«Come ho cantato?» domandò il giovanotto.
«Non lo so» rispose Peppone. «Non pareva neanche una
voce. Non ho un'idea di che accidenti sembrasse. Sono cose
che si sentono ma non si capiscono.»
Il giovanotto sospirò:
«Ero pieno zeppo di vino…».
«Ma che vino!» borbottò Peppone. «Non diciamo stupi-
daggini. So ben io la roba che può venir fuori da sotto il
vino.»
Il giovanotto notò qualcosa nella forcella anteriore della
motoleggera e si chinò.
«Non ho fatto a tempo a riverniciarla» spiegò Peppone.
«Era incrinata da tutt'e due le parti e l'ho saldata. Se aveste
fatto ancora cinquecento metri, vi sareste accoppato. Vi è
mancata la benzina al momento giusto.»
Il giovanotto impallidì e incominciarono a tremargli le
mani:
«È impossibile!» esclamò.
«Sì, ma oggi è destino che succedano soltanto cose im-
possibili» replicò Peppone.
Poi tacque un istante e concluse:
«Giovanotto, dicano quel che vogliono, ma, politica a
parte, il Padreterno è sempre il Padreterno».
Il giovanotto saltò sulla macchina e, percorsi i primi tre
metri della discesa, il motore già ronzava. Peppone stette lì a
sentire il ronzìo del motore e gli pareva un poema sinfonico
che, lentamente, si sciogliesse e svanisse nell'aria.
158 COMMERCIO
*
Alle quattro si trovarono in parecchi attorno all'olmo. Il
Bacchi coi figli, Peppone coi suoi tre aiutanti, gli spesati del
podere, gli affittuari dei poderi confinanti. Quando il profes-
sore apparve si ritirarono al margine del canalaccio per non
impicciare.
Il professore si avvicinò, camminando rapidamente, al-
l'olmo e a un tratto eccolo inchiodato.
«È proprio qui» disse. «Potete incominciare.»
Il terreno era sassoso: grossi ciottoli affioravano e, pri-
ma di far lavorare il mazzapicchio, fu necessario togliere lo
strato di sassi. Gli uomini si misero all'opera e, per un buon
metro e mezzo di profondità, continuarono sempre a cavar
ciottoli. Poi si incominciò a trovare terra ghiaiosa. Ma qui il
lavoro venne subito interrotto.
«Nessuno si muova e nessuno tocchi niente fin che non
è arrivato il maresciallo» ordinò con voce tonante Peppone.
E la gente si ritrasse.
Arrivò il maresciallo con due carabinieri e il medico. Un
secondo dopo arrivò pure don Camillo assieme al resto del
paese. Il maresciallo e il medico discesero nella buca.
«Un mucchietto d'ossa con un po' di stracci grigioverdi»
spiegò il maresciallo a Peppone e a don Camillo, ritornando
su dalla buca.
«Foro alla nuca» aggiunse il medico sopraggiungendo.
«Roba del 1945, probabilmente.»
«Politica!» commentò don Camillo.
«Guerra!» replicò a denti stretti Peppone.
Ci fu qualche istante di silenzio. Poi il Bacchi scosse il
capo e disse:
«Chi sa chi è, poveretto!».
«Gli abbiamo trovato addosso soltanto questo» rispose
il maresciallo mostrando una sottile catenella d'oro con me-
daglia.
Sfregò la medaglietta fra l'indice e il pollice per ripulirla
dal terriccio.
«Pare ci sia inciso qualcosa» disse il maresciallo: «8
febbraio 1929».
«Sedici anni!» esclamò don Camillo. «Maresciallo, mi
pare ci sia inciso anche un nome.»
Il maresciallo trasse di tasca una piccola lente e conside-
rò la medaglietta:
«Cesare Deppi» spiegò. «Chi sa mai di dov'è!».
«Borgodeste» disse la voce del professore. E tutti volse-
ro gli occhi verso di lui.
«Scusi, come fa a saperlo?» balbettò il maresciallo.
Il professore allargò le braccia e scosse malinconica-
mente il capo.
«Non ho dimenticato le generalità di mio figlio» rispo-
se. «Tanto più che era figlio unico. Io stavo in guerra e al
principio del 1945 il ragazzo scappò di casa per arruolarsi.
Non se n'è più saputo niente. L'avevano mandato al Nord e
non è più tornato. Sua madre lo aspetta ancora.»
«Dovrà poi passare da me per l'inchiesta» disse il mare-
sciallo al professore.
«Inchiesta?» sospirò il professore. «È morto. Ecco tutto.
Ora potrà riposare in terra benedetta e sua madre saprà dove
inginocchiarsi per piangere.»
Il professore rimase al paese due giorni e, prima di an-
darsene, volle rivedere la buca vicino all'olmo.
Peppone e il Bacchi lo accompagnarono e stettero a
guardare in silenzio.
«Tutti i rabdomanti son passati di qui e nessuno ha sen-
tito niente» disse a un tratto il professore. «Ma io ho sentito
qualcosa perché questa terra era bagnata del sangue di mio
figlio.»
Scosse il capo mestamente, poi aggiunse:
«Il sangue non è acqua».
La parola gli ricordò il Bacchi: il professore si volse
verso il vecchio.
«Non ha importanza, non ha importanza» balbettò il
Bacchi.
«Invece ha importanza» replicò il professore. E, strap-
pato un rametto di salice, lo impugnò e discese nella buca.
«Non sento più quello che sentivo prima» spiegò. «Non
era l'acqua, era lui che io sentivo…»
Peppone non ebbe neppure il coraggio di pensare: "Ave-
vo o no ragione io?".
Il professore continuò:
«Era lui che sentivo così violentemente. Però l'acqua
c'è. Non a pochi metri come dicevo. A pochi metri c'era
lui… L'acqua c'è verso i duecento metri… Chi ha fede la tro-
va».
AVVERTENZA
Allo scopo di favorire le due
formazioni che hanno raccolto la sfida
lanciata dal «Torricella»,
anziché battere prima l'una
e poi l'altra
il «Torricella»
ha deciso di batterle tutt'e due
contemporaneamente e perciò
l'undici di «Torricella»
si incontrerà
col ventidue «Dynamos-Gagliarda».
*
La storia dell'uomo senza testa suscitò una grande im-
pressione in paese e tutti vollero andarsi a rivedere la pietra
nera del cimitero.
Al Crocilone la vecchia casa dei Folini era ancora in
piedi: non serviva più da abitazione ma da magazzino forag-
gi e, ai piedi del muro verso i campi, crescevano alte erbac-
ce. L'erbaccia fu falciata e il buco venne identificato. E chi,
di sera, doveva passare per il Crocilone, pigiava forte sui pe-
dali del biciclo o girava, se era in motocicletta, la manetta
del gas, per via di quel brividino che tutti si sentivano correre
lungo il filone della schiena.
Sopraggiunsero le prime brume del novembre e il gran-
de fiume diventò cupo e misterioso.
E, una sera, la vecchia Gabini, ritornando da Castellina
per la strada sull'argine, incontrò un uomo senza testa.
Rincasò pazza di paura e la dovettero portare a letto per-
ché non aveva più neanche la forza di reggersi in piedi. Volle
il prete e chi andò in paese a chiamare don Camillo si fermò
un momento al caffè sotto il portico per bere un grappino e
raccontò il fatto. Così, in pochi istanti, tutto il paese fu a co-
noscenza dell'incontro e don Camillo, al suo ritorno dalla
casa della vecchia Gabini, trovò sul sagrato un mucchio di
gente che voleva sapere di che diavoleria si trattasse.
«Stupidaggini!» spiegò don Camillo. «Se la vecchia Ga-
bini non stesse male, ci sarebbe da ridere.»
In verità la poveretta aveva detto cose che non stavano
né in cielo né in terra:
«Reverendo! L'ho visto: era lui!».
«Lui chi?»
«Lui, quello senza testa sepolto sotto la pietra nera! Mi
sono trovata improvvisamente a faccia a faccia con lui.»
«A faccia a faccia? E come mai? Non era senza testa?»
«Senza testa, reverendo. Era in bicicletta e andava ada-
gio…»
Don Camillo aveva sghignazzato:
«O bella! E come faceva ad andare in bicicletta se è
morto nel 1752 quando le biciclette non esistevano?».
«Non lo so» aveva balbettato la vecchia. «In questo
tempo si vede che avrà imparato… Ma io sono sicura che era
lui! Lui, l'uomo senza testa.»
Il racconto di don Camillo divertì molto la gente aduna-
ta sul sagrato, e la storiella del fantasma che aveva imparato
ad andare in bicicletta rimbalzò allegramente da casa a casa.
Per una quindicina di giorni non accadde niente di
straordinario ma ecco che, improvvisamente, l'uomo senza
testa si rifece vivo.
Lo aveva incontrato poco dopo il tramonto Giacomone
il barcaiolo. Passando attraverso il macchione di gaggìe, se
lo era trovato lì davanti, sul sentiero. E l'uomo senza testa
stavolta non era in bicicletta ma camminava a piedi come
ben si addice a un fantasma del Settecento.
Fu lo stesso Giacomone ad andarlo a raccontare a don
Camillo.
«Tu bevi troppo, Giacomone!» gli disse don Camillo
quand'ebbe udita la storia.
«Non bevo da tre anni» rispose Giacomone. «E non
sono il tipo che si impressioni. Io mi limito a riferirvi quello
che ho visto con questi occhi: un uomo dalla testa mozza.»
«Non hai visto per caso un uomo che, per ripararsi dalla
pioggia, si era tirato la giacca sulla testa?»
«Ho visto il collo mozzo.»
«Non hai visto niente! Credi di aver visto. Domani ritor-
na nel punto preciso dove ti pare d'esserti incontrato con
l'uomo senza testa, guardati bene attorno e scoprirai la frasca
o la pianta che ti hanno suggerita quell'illusione.»
Giacomone, il giorno dopo, andò e assieme a lui andaro-
no almeno venti persone. Trovarono il punto dell'incontro, si
guardarono attorno ma non videro niente che potesse dar l'i-
dea d'un uomo con la testa mozza.
L'uomo senza testa apparve una settimana dopo a un
giovanotto e allora la gente non si domandò più se le appari-
zioni fossero vere o no. Si pose semplicemente la domanda:
«Perché l'uomo senza testa va in giro? Cosa cerca?».
La ragione era evidente: l'uomo senza testa cercava la
sua testa. La rivoleva perché giacesse, assieme al resto, in
terra benedetta.
Don Camillo non accettò di esprimere nessun parere sul
motivo che spingeva l'uomo senza testa a girovagare per gli
argini e lungo le carrarecce:
«Non voglio sentir parlare di queste sciocchezze!» ri-
spondeva a chi lo interpellava.
Ma, un giorno, si sentì profondamente turbato e disse il
suo cruccio al Cristo dell'aitar maggiore:
«Gesù, da quando io sono parroco in questo paese io
non ho mai visto tanta gente venire in chiesa. All'infuori di
Peppone e dei pochi barabba del suo stato maggiore, ci sono
sempre tutti: vecchi, giovani, sani, malati».
«E non sei contento, don Camillo?»
«No: è soltanto la paura che spinge qui tanta gente. Non
è timor di Dio. E io mi cruccio di questo e del fatto di vedere
tanta povera gente piena di paura. Vorrei che l'incubo finis-
se.»
Il Cristo sospirò.
«Don Camillo, fra tutta questa gente che ha paura, non
ci saresti per caso anche tu?»
Don Camillo allargò le braccia ed esclamò con estrema
sicurezza:
«Gesù, don Camillo non conosce cosa sia la paura!».
«Ciò è molto importante, don Camillo: basterà il fatto
che tu non abbia paura per liberare gli altri dalla paura.»
Don Camillo si rasserenò, ma la storia delle apparizioni
dell'uomo senza testa continuò e venne complicata dall'inter-
vento di Peppone.
Peppone, infatti, un giorno affrontò in piena piazza don
Camillo e gli disse alzando la voce in modo da essere udito
almeno fino oltre il fiume:
«Reverendo, sento parlare in giro di una strana faccenda
nella quale si parla di un uomo senza testa! Ne sa qualcosa,
lei?».
«Io no» rispose con aria stupita don Camillo. «Di che
cosa si tratterebbe?»
«Pare che un uomo senza testa si faccia vedere di sera in
giro per il paese.»
«Un uomo senza testa? Dev'essere di sicuro uno che
cerca la Casa del Popolo per venirsi a iscrivere al tuo parti-
to.»
Peppone incassò senza spostarsi di un millimetro.
«Già: ma non potrebbe invece trattarsi di un fantasma
fabbricato in canonica e poi messo in circolazione allo scopo
di terrorizzare la gente e indurla a cercare rifugio all'ombra
della sottana del parroco?»
«In canonica non si fabbricano fantasmi né con la testa
né senza testa» replicò don Camillo.
«Ah: i fantasmi senza testa li fate arrivare
dall'America?»
«E perché rivolgersi all'industria estera quando la suc-
cursale locale del tuo partito fabbrica i migliori fantasmi sen-
za testa?»
Peppone ridacchiò:
«Comunque un fatto è certo: il fantasma dell'uomo sen-
za testa è uscito dalla fabbrica della canonica!».
«È uscito dalla fabbrica dei cervelli malati. La storia di
un uomo senza testa l'ho raccontata io, ma è uscita dalla fab-
brica della storia. Il documento è a completa disposizione di
chi ha dei dubbi.»
Don Camillo si avviò verso la canonica e Peppone lo se-
guì assieme allo Smilzo, al Brusco, al Bigio e agli altri pezzi
grossi dello stato maggiore.
Il libro famoso era ancora sulla scrivania del tinello; don
Camillo lo indicò a Peppone:
«Cerca l'8 novembre del 1752 e leggi».
Peppone sfogliò lentamente il libraccio e, trovato il pun-
to che interessava, lo lesse. Poi lo rilesse. Poi lo fece leggere
agli altri.
«Se avete dei dubbi sulla autenticità del documento, pa-
dronissimi di farlo studiare da un competente di vostra fidu-
cia. In tutta questa storia l'unica cosa che mi si può rimprove-
rare è quella di non aver neppure lontanamente pensato che
una cronaca del 1752 avrebbe potuto eccitare pericolosamen-
te le fantasie.»
Il Bigio tentennò il capo:
«Allora qualcosa di vero c'è nella faccenda dell'uomo
senza testa» borbottò.
«C'è di vero semplicemente quello che sta scritto su
quel foglio!» affermò don Camillo. «Tutto il resto è fantasia,
invenzione!»
La banda se ne andò cogitabonda e, la sera, altri due del
paese incontrarono l'uomo senza testa.
Il giorno seguente un gruppo di madri di famiglia si pre-
sentò a don Camillo: tutte le donne erano agitatissime.
«Reverendo, bisogna che lei intervenga! Bisogna fare
qualcosa: benedire la tomba della pietra nera, dire una Messa
di suffragio per quell'anima in pena!»
«No» rispose don Camillo. «Qui non c'è nessuna anima
in pena: qui ci sono soltanto le vostre stolte fantasticherie
che io non posso avallare col mio intervento.»
«Andremo a protestare dal Vescovo!» gridarono le don-
ne.
«Andate dove volete: nessuno può ordinarmi di credere
ai fantasmi!»
*
Quindici giorni dopo i Gabassi abbandonavano con tutte
le loro carabattole la Badia e il vecchio, prima di lasciare per
sempre la casa nuova nella quale nessuno era ancora entrato,
con un carbone scrisse sul muro giallino:
«Porco maledetto, non mi freghi!».
178 IL DONO DI STALIN
«Spettabile Ditta,
come da V/ ordine, numero eccetera, in data eccetera,
Vi abbiamo inviato franco di porto una grossa dì "Ceratom"
al prezzo convenuto di lire 450 al pezzo, abbuonandoVi, a ti-
tolo di particolare simpatìa, le lire eccetera per l'imposta
Generale Entrata, e l'imballaggio. Con la certezza che tutto
sia di V/ gradimento e in attesa di V/ ambiti ordini, passia-
mo a ben distintamente salutarVi.
«Allegata tratta per il pagamento a giorni 30 di lire
64.800 (sessantaquattromilaottocento) salvo errori e omissio-
ni».
*
Don Camillo si avanzò cauto e, dopo aver rimirato lo
Smortìno che stava lì, fermo come un baccalà, con la corda
ancora al collo ridacchiò:
«Cravatta con nodo tipo "Praga"!… Avanti! Togliti quel
pendaglio dal collo e vattene a casa mentre io faccio quattro
chiacchiere con questa brava gente».
Lo Smortìno si cavò il cappio e se ne andò senza parla-
re. Allora don Camillo si sedette davanti all'uscio.
«Quel lazzarone, dunque, aveva combinato il giochetto
d'accordo con voi!» muggì Peppone.
«No» spiegò calmo don Camillo. «Non era d'accordo
con nessuno. Ma sua madre lo sapeva che aveva portato la
lettera e, quando ha visto lo Smilzo arrivare per dire al ragaz-
zo di andare alla Casa del Popolo, si è preoccupata ed è corsa
da me per domandarmi consiglio. Io l'ho consigliata di anda-
re a letto e sono andato in giro a dare un'occhiatina. Così ho
capito la vostra manovra al caffè e così, quando voi avete
beccato lo Smortìno, il povero arciprete era lì, a quattro passi
da voi. E vi ha seguito fino a qui. E ha aspettato paziente-
mente nascosto dietro la porta.»
Il Lungo incominciò a dire:
«Voi…» ma dovette smettere subito.
«Tu stai zitto, boia!» esclamò don Camillo brandendo
minaccioso la sua maledetta canna brunita.
«Mi fate più paura quando maneggiate dei candelotti»
gridò Peppone facendosi avanti. «E ve lo dico io che voi sie-
te l'individuo più perfido dell'universo!»
Don Camillo scosse il capo:
«No, compagno Peppone. Se fossi l'individuo più perfi-
do dell'universo, invece di entrare quando il Lungo ha preso
il bastone, sarei entrato nel momento in cui il Lungo, mentre
voi tenevate stretto lo Smortìno, stringeva il cappio. Allora
come avreste potuto convincermi che la vostra intenzione
non era quella di strozzare lo Smortìno, ma di fargli paura?».
Don Camillo raccolse dal fuoco un tizzone e accese il
mezzo toscano.
«Io non sono il vigile urbano che si apposta nei punti
dove è proibito posteggiare le macchine e lascia che l'autista
se ne vada per mettere sotto la paletta del tergicristallo il bi-
gliettino della multa. Io non sono il vigile carogna, sono il
vigile onesto che, quando vede l'autista arrivare nel posto
della sosta proibita, gli dice: "Guardi che qui non si può.
Cerchi un altro posteggio".»
Peppone borbottò che questo non c'entrava. Anzi, era
tutto l'opposto.
«C'entra, fratello. E non è l'opposto. Perché, vedendovi
accalappiare il disgraziato e portarlo qui, se io fossi interve-
nuto subito, nessuno avrebbe potuto togliermi dall'animo il
sospetto che voi aveste intenzione di farlo fuori. Ho voluto
controllare fin dove sareste arrivati, e quando ho visto tirare
il cappio non ho potuto credere che voi foste così canaglie.
Ho avuto fede in voi e adesso sono contento perché la mia
missione non è quella della pattuglia della questura che tutte
le notti deve presentare al questore una lista di venti o trenta
o cinquanta persone fermate come sospette e da tenere in
gattabuia come presunti delinquenti anche se si tratta di per-
fetti galantuomini che sono scesi un momentino per compra-
re le sigarette e hanno dimenticato in casa il portafogli coi
documenti. Io sono il pastore che esce la notte per trovare la
pecorella smarrita e riportarla tra le pecore dell'ovile. Non
sono il pastore che esce la notte per veder se lupi si aggirino
intorno all'ovile e, se vede la pecorella smarrita, dice: "Tu sei
lupo perché solo i lupi son fuori di notte mentre le pecorelle
di notte stan dentro l'ovile". E la tratta come lupo.»
Peppone sbuffò:
«Fatele allo Smortìno, le vostre prediche!».
«Non ne ha bisogno: ha trovato da solo la strada dell'o-
vile.»
«Bell'acquisto! L'affare lo abbiamo fatto noi perdendo-
lo! Ci siamo liberati d'una cellula del nemico!»
Don Camillo si strinse nelle spalle:
«Una? Cosa volete che sia una cellula, con le centinaia
di migliaia di cellule nemiche annidate fra voi?».
Peppone si mise a ridere:
«Se è per questo possiamo dormire tra due cuscini, reve-
rendo!».
«Dormi, Peppone: ma mentre tu dormi, la cellula lavo-
ra.»
Don Camillo toccò con l'indice l'ampio torace di Peppo-
ne:
«È nascosta lì dentro, la cellula del vostro nemico. E si
chiama coscienza».
Lo Smilzo girò l'ostacolo:
«Chi sa come rideremo vedendo lo Smortìno vestito da
figlia di Maria, col nastro al collo!».
Don Camillo scosse il testone:
«Mah! Io so che vedendo lo Smortìno che, col cappio al
collo, continuava a dire "non ritiro niente!", non avevo nes-
suna voglia di ridere. Lo Smortìno, se non sbaglio, è un ra-
gazzo piuttosto in gamba».
«Bella forza!» esclamò fieramente Peppone. «È venuto
su alla mia scuola! Tutti quelli venuti su alla mia scuola sono
tipi in gamba!»
Gli altri due disgraziati, che erano fra i galletti del polla-
io di Peppone, gonfiarono orgogliosamente il petto.
«La vecchia guardia muore ma non si arrende!» affermò
con voce da episodio storico lo Smilzo.
Don Camillo lo guardò incuriosito:
«Non si arrende a chi?».
«A chicchessia!» gridò il Lungo.
«E a chicchessiàte!» aggiunse solenne Peppone, tanto
per far capire a don Camillo che la vecchia guardia non te-
meva né gli attacchi in terza persona singolare, né quelli in
seconda persona plurale.
Davanti a quella resistenza massiccia, don Camillo levò
l'assedio e si ritirò.
185 IN ABITO SIMULATO
*
Don Camillo si era rimesso a bighellonare. Pareva che
non avesse la minima idea di dove volesse andare. Comun-
que Peppone rimase sul chi vive perché coi preti, anche se in
abito borghese, non c'è da fidarsi mai.
La faccenda minacciava di diventare straordinariamente
monotona, ma improvvisamente acquistò interesse. Infatti,
imboccata una certa stradetta, si udirono delle grida e, alle
spalle di Peppone e di don Camillo, arrivò di corsa una gran
masnada di gente che faceva uno spaventoso vociare e agita-
va cartelli contenenti apprezzamenti tutt'altro che benevoli
nei riguardi del Governo. Molte frasi atte a smascherare una
non meglio identificata «legge truffa».
Peppone potè ritirarsi in un portone, ma don Camillo
che camminava in mezzo alla strada venne raggiunto e risuc-
chiato dalla masnada che lo spinse avanti, in primissima fila
verso la vicina piazzetta, evidente meta del corteggio di scal-
manati.
Il guaio è che, sulla piazzetta, c'era un grandioso schie-
ramento di agenti della Celere e Peppone arrivò in tempo per
vedere un nugolo di agenti caricare la testa della colonna dei
dimostranti.
Naturalmente, degli elementi di primissimo scaglione,
quello che maggiormente dava nell'occhio per la inconsueta
mole della sua persona era don Camillo: e sulla zucca di don
Camillo si scatenò un tale temporale di legnate da riempire
di stelle due o tre firmamenti.
E poiché la masnada che si addensava nella stradetta
premeva maledettamente, gli infelici in testa alla colonna
non potevano innestare la marcia indietro e i mattarelli di
gomma degli agenti continuavano con crescente vigore a pe-
stare zucche e schiene già pestate.
Don Camillo, sorpreso da quel diluvio universale di le-
gnate, rimase in un primo tempo sconcertato poi, quando
capì che, se fosse rimasto lì, gli avrebbero fatto una testa
come un dirigibile, con uno strattone si liberò dalle zampe
degli agenti ed eseguì un laborioso dietro-front. I celerini, vi-
sta quella schiena spaziosa e comoda come un letto a due
piazze, si sentirono invitati a nozze e incominciarono a pittu-
rare le spalle di don Camillo con tale entusiasmo da far tro-
vare a don Camillo la manetta della marcia ridotta. Allora,
agguantate con ambo le mani le falde del cappello, don Ca-
millo si buttò a testa bassa contro la masnada degli scalma-
nati, riuscendo a fenderla e a portarsi in posizione più arre-
trata. La minaccia di una carica con le camionette indusse il
corteo a sciogliersi e don Camillo potè così infilarsi in una
viuzza laterale e ripararsi dentro un caffè.
Peppone non aveva occhi che per don Camillo, e il fatto
di aver visto don Camillo prendere tutte quelle legnate dalla
Celere gli aveva riempito il cuore di incontenibile gioia.
Il pensiero poi di poter raccontare in paese il trattamento
ricevuto da don Camillo lo entusiasmava. Addirittura lo esal-
tava.
Seguì don Camillo facendosi largo tra la folla a gomita-
te, e, pochi istanti dopo, anche Peppone entrava nel caffè.
La grande sala era zeppa di gente e don Camillo, seduto
in un tavolino d'angolo, stava facendo cautamente l'inventa-
rio delle ammaccature situate in luogo accessibile.
Peppone, trionfante, ruppe il gioco del pedinamento e,
sedutosi a un tavolino nei paraggi immediati di quello di don
Camillo, urlò allegramente:
«Padrone, pago da bere!».
Il caffettiere lo guardò con sospetto:
«Cosa le succede? Ha vinto al totocalcio?».
«Meglio!» spiegò sghignazzando Peppone. «Ho visto un
tizio prendere dai celerini tutte le manganellate che avrei vo-
luto dargli io! Come gli stavano bene addosso: parevano pit-
turate dal Correggio. In gamba davvero questi bravi ragazzi
del ministro Sceiba!»
Don Camillo incassò senza smuoversi di un millimetro.
Ma la fine ironia di Peppone non ebbe un grande successo
perché, inaspettatamente, Peppone si trovò circondato da una
trentina di facce proibite, tutta gente che era venuta lì dentro
per ripararsi dal temporale di caucciù poliziesco.
«Porco fascista!» gli disse uno facendogli volar via con
una sberla il cappello.
Peppone non fece a tempo ad aprir bocca che gli furono
addosso tutti e trenta, e ognuno ci metteva tutta l'anima per
pestare il provocatore. Fortunatamente, prima ancora che in-
cominciasse la lavorazione, il padrone del caffè aveva fatto
un cenno al garzone e il garzone era corso come un fulmine
nella piazzetta, lì a due passi, a dar l'allarme alla Celere che
stava ancora di guardia.
Appena sentirono l'odore del caucciù in arrivo, gli scate-
nati interruppero il pestaggio e se la squagliarono per la porta
del cortile. Riaffiorato dall'alluvione, Peppone si levò in pie-
di faticosamente per poi sfasciarsi sulla sedia. Il caffettiere
gli portò un bicchierone di cognac e glielo fece bere.
Entrarono gli agenti:
«Sono scappati tutti» spiegò il padrone. «Ancora cinque
minuti e lo sfracellavano!»
Gli agenti si rivolsero a Peppone:
«Li conosce?».
«Non conosco nessuno» spiegò Peppone. «Ero entrato
qui perché mi sono trovato per disgrazia in mezzo a quella
confusione.»
Spiegò da dove proveniva, e che lo scopo del viaggio
era l'acquisto di pezzi di ricambio. Mostrò la carta d'identità,
la lettera della ditta che l'invitava a Milano.
Gli agenti si rivolsero al padrone:
«E lei conosce qualcuno di quei tipi?».
«Mai visti. Sono venuti qui per ripararsi. Tutù delin-
quenti, canaglia comunista. Si sono buttati su di lui come
belve perché non è della loro idea.»
Un agente scoperse don Camillo nel suo angolo.
«E quello là era del gruppo?» domandò sospettoso.
«Non ha una fisionomia nuova.»
Il caffettiere allargò le braccia.
«Non lo so. La faccia da comunista ce l'ha: comunque
non si è mai mosso dal suo tavolino.»
Un graduato aveva tratto il libretto e si accingeva a sten-
dere il verbale:
«Lasci perdere» disse Peppone. «Voi avete anche troppo
da fare in questi momenti. La mia pelle è dura e ci vuol altro
per farmi del male. E poi io torno subito al paese e chi si è
visto si è visto.»
Si udirono degli schiamazzi in strada e gli agenti disse-
ro: «Va bene» e se ne andarono.
Il padrone versò un altro bicchiere di cognac a Peppone
e questo rimise in fase il motore del compagno sindaco.
Riassestatisi gli abiti spiegazzati e spolverate le ammac-
cature della testa, Peppone si alzò e domandò:
«Quanto fa?».
Il padrone scosse il capo sorridendo e gli tese la mano:
«Niente: fra noi della stessa idea bisogna aiutarci! Ciao,
camerata!». Peppone strinse la mano del caffettiere e uscì.
Si ritrovarono poco dopo su una panchina del parco.
«Certo» osservò molto sarcastico Peppone «questi agen-
ti del Governo clericale che non rispettano neppure un sacer-
dote!…»
«Ma anche questi comunisti che non rispettano neppure
i compagni di fede!…» replicò don Camillo.
«È diversa la cosa, reverendo!» ridacchiò Peppone. «È
diversa!»
«Le botte sono sempre botte» sentenziò don Camillo.
«Comunque esse non hanno nessun valore perché sono do-
vute a un semplice equivoco.»
«A botta calda tutto va bene, reverendo: me lo saprete
dire domani.»
Peppone accese un toscano, aspirò qualche boccata poi
domandò a don Camillo:
«Reverendo, quella tenuta da libera uscita ve la passa il
Vaticano direttamente?».
Don Camillo sospirò:
«No, è un abito che mi ha lasciato in casa mio fratello.
L'ho indossato per dargli un po' d'aria».
«È stata una buona idea perché avete trovato modo di
fargli dare anche una spolverata proprio come si deve.»
Don Camillo tirò fuori la mano destra dalla tasca del
cappotto e mostrò a Peppone un manganello di gomma:
«Nel putiferio m'è rimasto in mano…» spiegò.
Peppone cavò fuori di tasca un pezzo di stoffa.
«Anche a me è rimasto in mano qualcosa» disse «duran-
te il pasticcio del caffè.»
Ed era la bavarese d'una giacca, con un distintivo comu-
nista infilato all'occhiello.
«Ci conviene scambiarci i trofei» ridacchiò don Camillo
porgendogli la mazza di caucciù e prendendo il bavero con
distintivo.
Peppone rigirò tra le mani il manganello poi lo buttò
lontano:
«Brutto trofeo, reverendo, anche se mi ricorda un episo-
dio piacevole per me e spiacevole per voi».
Don Camillo buttò via la bavarese.
«Hai fatto bene a liberartene, Peppone. Io ne ho un altro
perché, nella confusione, me ne sono rimasti tra le mani
due… Però questo me lo tengo. Può sempre servire. Non si
sa mai.»
Peppone guardò con disprezzo il manganello di gomma
che don Camillo aveva tratto dall'altra saccoccia poi disse:
«In qualunque occasione voi rivelate sempre la vostra
sporca anima di fascista!».
«Sì, camerata» rispose sorridendo don Camillo.
Peppone si allontanò seccatissimo. Ma presto si rassere-
nò perché gli vennero in mente le fotografie documentarie
scattate la mattina. Tolse dal portafogli il foglietto della rice-
vuta e, salito su un tassì, si fece portare al numero della via
indicata nell'intestazione. Trovò soltanto il rudere di una casa
bombardata.
Tremila lire per tre fotografie scattate con una macchina
perfettamente priva di negativa.
Tre fotografie che valevano un milione.
*
Anche per il ritorno, Peppone dovette prendere la secon-
da perché era tutto ammaccato. E, appena si fu seduto sul di-
vano, arrivò don Camillo vestito da prete.
«È finita la cuccagna?» si informò Peppone.
«Finita.»
«Però» affermò Peppone «secondo me Milano non è poi
quella gran cosa che dicono.»
«Ha i suoi lati cattivi e i suoi lati buoni» rispose don Ca-
millo che nonostante tutto non riusciva a dimenticare la me-
raviglia delle scale mobili della «Rinascente» e dalla porta
"magica" della «Montecatini».
Una volta che fu arrivato a casa, don Camillo andò a in-
ginocchiarsi davanti al Cristo dell'aitar maggiore.
«Già di ritorno, don Camillo? Non ti sei divertito?»
«Sì, Gesù, molto: ma non bisogna mai abusare dei di-
vertimenti.»
Sagge parole.
186 LO SCHERZO
«Altola!»
Don Camillo – di ritorno dall'aver vegliato il vecchio
Bedi – stava svoltando nella Strada degli Orti, quando si era
visto comparire davanti il Nembo lanciato a tutto Smilzo e,
temendo d'essere travolto, aveva urlato «Altolà».
Il satanasso misterioso s'era fermato e un uomo era
schizzato via da dietro il veicolo scomparendo. Un uomo
sbronzo patocco che vedeva doppio e aveva scambiato un
prete per due carabinieri.
Don Camillo, sceso dalla bicicletta, si appressò pieno di
sospetto al veicolo e subito lo riconobbe.
Non faticò a capire che l'uomo svanito nella nebbia non
poteva essere che l'altro pezzo del Nembo.
Alle due di notte lo Smilzo stava facendo un trasporto e
proprio per la Strada degli Orti? E per chi?
Pensò alla viottola che, partendo dalla chiavica, arrivava
alle spalle della casa di Peppone.
Poi, quand'ebbe visto le casse di tipo militare e ne ebbe
saggiato il peso ed ebbe constatato che erano chiuse col luc-
chetto e sigilli, non dovette pensare più a niente perché ave-
va capito tutto.
Caricò la bicicletta sopra le casse e, saltato in sella al
Nembo, incominciò a pigiare sui pedali.
La manovra non era facile, ma la luce che rompeva il
buio della svolta lo aiutò. Riuscì a invertire la marcia e peda-
lò come una intera squadra di Smilzi.
Non incontrò anima viva, lungo la strada, e venti minuti
dopo era davanti alla porta della canonica.
Spalancando completamente il grande portone dell'andi-
to, il Nembo riusciva a entrare. Ed ecco il Nembo intrappola-
to con tutto il suo carico infernale.
Con un grosso scalpello don Camillo fece saltare rapida-
mente i chiavistelli delle due casse.
Sollevò quasi con paura il primo coperchio. Poi sollevò
con mano più ferma il secondo.
Era un colpo grosso: una cosa così non se l'aspettava.
RITROVAMENTO
AVVERTENZA
«Chiunque reazionario nazifascista può procurarsi gior-
nali arretrati presso la relativa Amministrazione pagandoli il
doppio, e quindi fingere che sono stati trovati.
«È un sistema ingegnoso e comodo che costa parecchi
quattrini. La quale però ce ne sono in abbondanza quando si
è servi dei guerrafondai americani!».
RITROVAMENTO
AVVERTENZA
*
Don Camillo stava scaldandosi davanti al caminetto del
tinello, quando udì qualcuno bussare ai cristalli della fine-
stra. Si alzò e andò ad aprire.
Era Peppone che, senza una parola, mise dentro una
mano e mostrò il bavero della giacca del compagno Penèlo-
po.
Don Camillo allargò le braccia ed esclamò volgendo gli
occhi al cielo:
«Compagno Peppone, prega Dio che non vincano i co-
munisti: il compagno Penèlopo non ti perdonerà mai il suo
passato. Egli farà impiccare me ma, subito dopo, farà impic-
care anche te».
«L'importante è che io riesca a vedervi impiccato!» bor-
bottò Peppone ritraendo la mano e facendo scomparire sotto
il tabarro la bavarese del compagno Penèlopo.
189 SCIOPERO DELLA FAME
Peppone si infuriò:
«Tutta colpa di quella vecchia maledetta!».
«Lascia perdere, capo» lo consigliò il Bigio. «È stato
già un errore farle togliere il cartello. È proprio questo che
cercavano i provocatori.»
Più tardi la squadra di sorveglianza venne a dire a Pep-
pone che c'era folla davanti alla bottega della Desolina: an-
che dai paesi vicini arrivava gente per avere dalla vecchia i
numeri con "spiegazione".
«A quei maledetti non interessano niente i numeri: inte-
ressano le "spiegazioni"!» esclamò lo Smilzo.
«È una cosa che non può continuare!» urlò imbestialito
Peppone. «È una provocazione insopportabile! Bisogna fare
qualcosa!»
Il Brusco, che parlava soltanto in casi di emergenza,
fece udire la sua voce:
«Per conto mio, intanto, comincerei col giocare i nume-
ri…».
Peppone balzò in piedi e lo agguantò per il petto:
«Brusco» urlò «spero che tu scherzi!».
Il Brusco allargò le braccia:
«Capo, di' quel che vuoi: fino a domani a mezzogiorno
c'è tempo. Io domattina vado in città e, senza che nessuno ne
sappia niente, mi gioco i numeri».
Peppone guardò sbalordito il Brusco.
«Brusco, mi fai schifo» disse inorridito.
«Capo» rispose il Brusco «la politica è la politica, il gio-
co del lotto è il gioco del lotto. Io, dei numeri della Desolina,
prendo in considerazione soltanto la parte che riguarda il
gioco del lotto. In fondo la Desolina ci indovina spesso e i
numeri possono uscire.»
«Non possono uscire!» urlò Peppone. «Sono fondati sul-
la menzogna e sulla più sporca speculazione propagandisti-
ca!»
Era oramai sera e la seduta si sciolse senza altre parole.
Il disgustoso episodio del Brusco aveva indignato oltre-
misura Peppone che, una volta a letto, non riuscì a prendere
sonno e continuò a rigirarsi tra le lenzuola come se avesse
mangiato un gatto vivo.
Sentì suonare le ore al campanile. Le sentì suonare tutte
e, quando scoccarono le cinque e mezzo, qualcuno dalla stra-
da buttò un sasso contro le persiane della finestra.
Peppone si affacciò, ed era il Brusco.
«Capo, hai bisogno di qualcosa? Io vado in città.»
Peppone gli buttò un fagottino.
«Terno e quaterna per tutte le ruote» disse con ferocia
Peppone.
Poi sbatacchiò le gelosie e tornò a letto. E soltanto allo-
ra potè prendere sonno.
*
Il giovanotto era un artista appassionato e, oltre a trovar-
si in un ambiente che gli piaceva, il fatto nuovo di poter
mangiare regolarmente e abbondantemente ogni giorno gli
aveva messo addosso un entusiasmo straordinario. Così, fini-
to – tra l'approvazione incondizionata del paese – il quadro
coi portici della piazza, partì alla scoperta della Bassa e alla
ricerca dell'ispirazione per la Madonna di don Camillo.
Non poteva dipingere una Madonna convenzionale: do-
veva spiritualizzare un viso vero. Quella immagine doveva
essere non solo un omaggio a don Camillo, ma un omaggio
alla pittura.
Nella prima settimana liquidò i rappezzi e i ritocchi del-
le decorazioni. Fece anche di più perché restaurò il grande
quadro a olio che incombeva sul coro: però non si sentiva a
posto.
Soltanto quando avesse trovato l'ispirazione per la Ma-
donna della cappelletta l'irrequietezza che giorno per giorno
aumentava in lui si sarebbe placata.
Ma, alla fine della seconda settimana, le cose erano no-
tevolmente peggiorate per il giovanotto: il muro della cap-
pelletta, completamente risanato, attendeva già da un pezzo,
e il giovanotto era ancora in alto mare.
Il giovanotto aveva guardato mille donne, fra quelle del
borgo e quelle delle frazioni, ma non aveva visto un viso in-
teressante.
Don Camillo si accorse ben presto che qualcosa non
funzionava: il giovanotto pareva avesse perso la voglia di la-
vorare e, più d'una volta, non riportava a casa neppure uno
schizzo.
«La Bassa non la interessa più?» domandò una sera don
Camillo. «Ci sono ancora tante cose belle che lei non ha fer-
mato sulla tela.»
«Adesso mi interessa una sola cosa bella che non riesco
a scoprire!» rispose con voce piena di sconforto il giovanot-
to.
La mattina dopo il giovanotto inforcò la bicicletta e si
mise in viaggio con questo fermo proposito: "Se non trovo,
stasera me ne vado".
Girò affidandosi al caso: entrava nelle aie per chiedere
un bicchier d'acqua o una cosa qualsiasi, si fermò ogni volta
che s'imbattè in una donna, ma riuscì solo ad aumentare la
sua amarezza.
A mezzogiorno si trovò alla Rocca, la frazione più vici-
na al paese grosso, e si fermò a mangiar qualcosa all'osteria
del Fagiano.
Non se la sentiva di tornare a casa.
La sala del Fagiano, uno stanzone basso a travicelli con
le oleografie dell' Otello alle pareti, era deserta.
Apparve una vecchia e il giovanotto chiese pane, salame
e un bicchiere di vino.
Quando, di lì a poco, una mano depose davanti a lui, sul
piano scuro della tavola, una carta di salame, un bicchiere di
vino e un pezzo di pane, il giovanotto levò gli occhi e rimase
senza respiro.
Trovata l'ispirazione!
L'ispirazione aveva al massimo venticinque anni e por-
tava in giro la sua roba con la baldanza d'una ragazza di di-
ciotto. Ma quel che interessava al giovanotto era il viso della
donna.
Ed egli stette a guardare sbalordito quel viso che da tan-
to tempo cercava.
La ragazza sostenne il suo sguardo per un po' quindi
ebbe uno scatto:
«E allora?» domandò con voce dura. «Ce l'ha con me?»
«Scusi» balbettò il giovanotto confuso.
La ragazza se ne andò, poi tornò di lì a poco, mettendosi
a sedere vicino alla porta e incominciando a cucire.
Il giovanotto non seppe resistere: cavò una tavoletta e
prese a disegnare.
Non durò molto perché la ragazza, sentendosi quegli oc-
chi addosso, levò la testa e disse:
«Si può sapere cosa fa?».
«Se mi permette vorrei farle il ritratto» le rispose il gio-
vanotto.
«Il ritratto? E perché?»
«Io sono pittore di mestiere» balbettò il giovanotto «e ai
pittori interessa tutto quello che è bello.»
La ragazza fece una smorfia di compatimento, scrollò le
spalle e si rimise a lavorare.
Stette lì ferma più d'un'ora poi si alzò e si avvicinò al
giovanotto:
«Si può vedere cosa ha combinato?».
Il giovanotto mostrò lo schizzo.
«Sono così, io?» ridacchiò la ragazza.
«È appena abbozzato, signorina: se permette vengo do-
mani a finirlo.»
La ragazza raccolse il piatto e il bicchiere.
«Quanto fa?» domandò il giovanotto.
«Pagherà domani.»
Il giovanotto, appena tornato in canonica, andò a chiu-
dersi nella sua stanza dove disegnò fino a sera.
Il mattino seguente continuò a disegnare: uscì verso il
mezzogiorno chiudendo la porta a chiave.
«Reverendo» spiegò «ci siamo. L'ispirazione è
arrivata!»
Partì pedalando a tutta birra e trovò al Fagiano ogni cosa
come il giorno prima: stanza deserta, pane, salame, vino e
ispirazione seduta vicino alla porta.
Questa volta, dopo un paio d'ore di posa, la ragazza, ve-
dendo il risultato del lavoro del giovanotto, parve più soddi-
sfatta del giorno precedente:
«Così va meglio» disse.
«Se potessi venire anche domani la cosa andrebbe me-
glio ancora» sospirò il giovanotto.
Andò a finire che il giovanotto tornò altre due volte:
dopo non si fece più vedere al Fagiano perché aveva ben al-
tro per la testa.
Rimase chiuso per tre giorni nella sua stanza, poi, accor-
datosi col muratore, incominciò a lavorare nella cappelletta.
Incominciò a lavorare pieno d'orgasmo e nessuno pote-
va vedere cosa facesse perché una robusta e impenetrabile
tramezza di tavole era stata tirata su davanti alla cappella iso-
landola dal resto della chiesa. E il giovanotto soltanto poteva
entrare nella cappella, perché soltanto lui aveva la chiave del
lucchetto che bloccava lo sportello di accesso.
Don Camillo bruciava di curiosità, ma riusciva a domi-
narsi e si accontentava di domandare ogni sera al giovanotto:
«E allora, come andiamo?».
«Vedrà, reverendo!» rispondeva il giovanotto eccitatis-
simo.
E venne finalmente il giorno fatale.
Il giovanotto, finito il suo lavoro, ricoprì l'affresco con
una tela, fece togliere l'assito e andò a chiamare don Camil-
lo:
«Reverendo, ci siamo».
Don Camillo in un attimo fu davanti alla balaustra della
cappella e attese col cuore che gli batteva.
Il giovanotto, con una pertica, fece cadere il telone che
copriva la Madonna del Fiume.
Era una cosa stupenda e don Camillo rimase a bocca
aperta davanti a quell'apparizione.
Poi, a un tratto, sentì come una mano attanagliargli il
cuore e la fronte gli si coperse di sudore.
E un urlo gli sfuggì, pieno d'angoscia:
«La Celestina!».
Il giovanotto lo guardò stupito.
«Che Celestina?»
«Quella è la Celestina, la figlia della padrona del Fagia-
no!»
Il giovanotto allargò le braccia:
«Sì» ammise tranquillamente. «È una ragazza che ho
trovato al Fagiano.»
Don Camillo agguantò la scala a pioli e, entrato nella
cappella, l'appoggiò al muro di fondo e ricoprì l'immagine
con la tela.
Il giovanotto non capiva più niente.
«Reverendo» domandò quando don Camillo fu ritornato
a terra. «Siete diventato matto?»
Don Camillo non rispose e corse in canonica seguito dal
giovanotto sempre più sbalordito.
«Sacrilegio!» ansimò giunto che fu in tinello. «La Cele-
stina del Fagiano! La Celestina del Fagiano! La Madonna
con la faccia della Celestina del Fagiano! Ma lei non sa chi è
la Celestina del Fagiano?»
Il giovanotto impallidì.
«Lei non sa che la Celestina del Fagiano è la più sfega-
tata delle comuniste della zona? Non sa che a fare una Ma-
donna con la faccia della Celestina del Fagiano sarebbe
come fare Gesù Cristo con la faccia di Stalin?»
Il giovanotto ritrovò un po' di calma:
«Reverendo» disse. «Io non mi sono ispirato alla fede
politica di quella ragazza, io mi sono ispirato al suo viso. Il
viso è bellissimo e la bellezza non gliel'ha regalata il partito
ma Dio.»
«Ma l'animaccia nera che si nasconde sotto quella bel-
lezza gliel'ha regalata il Demonio!» gridò don Camillo.
«La bellezza non è mai dono del Demonio» replicò il
giovanotto. «Tutto ciò che è bello è un dono divino.»
Don Camillo levò le braccia al cielo:
«Lei ha commesso un sacrilegio! E se non sapessi che
lei ha agito in buona fede, io l'avrei già scaraventato a casa
del diavolo. Non si rende conto dell'enormità della cosa?».
Il giovanotto scosse il capo:
«No» rispose. «Io ho la coscienza tranquilla. Io, per di-
pingere il viso della Madonna, ho cercato l'ispirazione nel
viso più bello che ho trovato.»
«Lei non ha fatto il ritratto alle sue buone intenzioni, lei
ha fatto il ritratto a un tizzone d'inferno! A una scomunicata!
Non le pare un orrendo sacrilegio dare alla Madonna le sem-
bianze di una donna scomunicata? La Madonna del Fiume?
La Madonna scomunicata, questo è il suo nome giusto!»
Il giovanotto aveva voglia di piangere:
«E io che ho cercato tanto e che ci ho messo tutta la mia
passione per spiritualizzare quel viso…».
Don Camillo agitò le braccia con violenza:
«Ma cosa vuol spiritualizzare! Come si può spiritualiz-
zare una faccia volgare come quella della Celestina? Una
donna che, quando si mette a dir parolacce, fa arrossire perfi-
no i carrettieri? Ma come si può avere la spudoratezza di
pensare che la Madonna possa avere la faccia bieca della Ce-
lestina del Fagiano?».
*
Così, zuppo d'acqua, il podere non rendeva assoluta-
mente di che pagare cinque quintali per biolca e il Bonetti si
trovò ben presto nei guai.
Lavorarono, il Bonetti e sua moglie, fino a scannarsi,
ma giorno per giorno il podere deperiva per via del Canalac-
cio. Pagò sempre puntualmente l'affitto rimettendoci del suo
e ce la fece perché, pagate le spese dei lavori di sgombro, le
spese dei processi e i danni ai frontisti, gli era rimasto ancora
qualcosa.
Poi dovette ricorrere alla commissione per avere la ridu-
zione dell'affitto, ma la commissione gli diede torto:
«Chi poteva conoscere il podere meglio di voi? Se avete
accettato vuol dire che potevate accettare. Anzi vi hanno
dato i soldi che v'han dato appunto perché avete accettato il
contratto dei cinque quintali».
Così arrivò il momento in cui il Bonetti non ce la fece
più a pagare e, una bella mattina, una macchina si fermò nel-
l'aia e ne scese il Boccia il quale disse al Bonetti:
«Scegliete, o regolare le pendenze, o sgombrare!».
Il Bonetti balbettò che lui aveva un contratto con la si-
gnora tal dei tali ma il Boccia ridacchiò:
«È mia moglie e gli affari di mia moglie li faccio io».
Il Bonetti non riuscì a pagare ed ebbe lo sfratto. Allora
si ribellò:
«Mi mettano il podere nelle condizioni giuste, sfondino
il canale e io pagherò tutto quello che devo pagare per il pas-
sato e il futuro».
E quando gli risposero che oramai il decreto di sfratto
per inadempienza contrattuale era già firmato e quindi biso-
gnava sloggiare, il Bonetti scosse il capo:
«E dove vado? Di qui non mi muovo. Dovranno cac-
ciarmi fuori i carabinieri».
I carabinieri non vennero. Passarono due mesi ed ecco
che un giorno arrivò una squadra di muratori che, senza dire
né ai né bai, incominciò a scoperchiare il tetto della casa del
Bonetti.
«Noi abbiamo ordine così» spiegarono sghignazzando i
muratori. «Dobbiamo incominciare i lavori di ripristino per-
ché deve entrare il nuovo affittuario.»
Il Bonetti scosse il capo:
«Siete della povera gente come me: non dovete fare il
gioco d'un prepotente ai danni d'un poveretto».
«Siamo della povera gente come voi» gli risposero «e
dobbiamo lavorare per mangiare. Per favorirvi non possiamo
stare senza mangiare.»
Il Bonetti si mise subito in giro per trovare un poderetto
in affitto. Era roba difficile da trovare ma lo trovò finalmente
a Gazzòla; cinque biolche di terra, quello che faceva per lui.
Combinarono, però prima di definire il contratto il pa-
drone si riservò di domandare informazioni.
Domandò informazioni e il risultato fu che egli potè ri-
spondere a chi gli chiedeva se avesse perfezionato l'affare
col Bonetti:
«Bonetti? È una testa calda, un anarchico. Per mandarlo
via da un podere perché non pagava l'affitto, hanno dovuto
scoperchiargli la casa! Figuratevi se mi metto in casa un tipo
così!».
Quando, oltre al tetto, gli portarono via anche gli infissi,
il Bonetti dovette andarsene.
Vendette tutto e assieme alla moglie andò ad abitare in
una casipola in paese.
Lavorava a giornate dove poteva: alla strada, nei campi.
Un giorno Peppone incontratolo gli disse:
«Bonetti, prima magari non li conoscevi bene e non po-
tevi giudicare: ma adesso li conosci bene, i signori. Perché
rimani ancora nelle file dei loro difensori, invece di venire
tra le file dei difensori del proletariato?».
Il Bonetti allargò le braccia:
«Così: per la stessa ragione per cui il pesce piccolo che
rischia d'essere mangiato dal pesce grosso rimane sempre
nell'acqua invece di andare a vivere sopra la terra dove non
c'è il pericolo d'incontrare pesci grossi».
Peppone scosse il capo:
«Non è dunque riuscito a convincerti il Boccia?».
«No, Peppone, il Boccia non è riuscito a convincermi
che Dio non esiste. Io continuo a credere nella giustizia divi-
na.»
Peppone si mise a ridere:
«Se lo sapesse il Boccia, chi sa come si divertirebbe!».
«Lo sa e non si diverte. Perché lo scopo suo e dei tipi
come lui è quello di far perdere agli uomini la fede in Dio.
Questa è la ricchezza che egli non ha né può avere e che vor-
rebbe togliere a chi la possiede per accomunare il maggior
numero di gente possibile alla sua squallida miseria.»
Peppone cacciò fuori un fischio ammirativo:
«Questa è roba filosofica: dove l'hai letta?».
«Da nessuna parte: me l'ha spiegata don Camillo.»
«Ah» ridacchiò Peppone «volevo ben dire! Te l'ha spie-
gata lui!»
«Sì, ma cosa importa? L'importante è che io l'ho capita»
rispose il Bonetti.
Passò la macchina del Boccia e Peppone domandò:
«Non ti senti niente, dentro, quando vedi quello lì?».
«Sento pietà per la sua carne maledetta» rispose il Bo-
netti.
«Anche questo te l'ha insegnato il prete?»
«No, ci sono arrivato da solo» rispose il Bonetti.
195 TRITOLO
*
Celebrata la prima Messa, don Camillo, dopo essersi
gingillato un bel po' in sagrestia, tornò in canonica dove l'a-
spettava la colazione.
Trovò sulla tavola del tinello il latte fumante col pane
affettato e, appoggiata alla zuccheriera, una lettera: «Per il
signor Parroco - Urgentissima».
«L'ha portata un giovanotto» spiegò la vecchia che face-
va le faccende in canonica. «Voi avevate appena incomincia-
ta la Messa. Mi ha raccomandato di darvela. È una cosa im-
portante.»
Don Camillo lacerò la busta e trasse il foglietto: «Avver-
tire subito! Nella valigia lasciata alla Casa del Popolo ieri
sera c'è una bomba a orologeria! Sgombrare la Casa del
Popolo: fra poco salterà in aria!».
Don Camillo balzò in piedi e, pochi istanti dopo, arriva-
va ansimando davanti alla casa di Peppone.
Erano le sette e tre quarti e tutti ancora dormivano. Don
Camillo incominciò a tirar sassate contro gli antoni delle fi-
nestre del primo piano e, ben presto, si udiva l'urlaccio di
Peppone.
«Cosa succede?»
«Venga giù! Venga giù immediatamente! Non c'è un se-
condo da perdere!» gridò don Camillo.
Peppone si affacciò: non aveva mai visto don Camillo
così agitato. Scese ad aprire mezzo svestito e don Camillo gli
mise subito davanti agli occhi la strana lettera spiegando
come l'avesse ricevuta.
Peppone lesse un paio di volte le poche righe, poi disse,
cupo:
«Che storia è questa?».
Qualcosa biancheggiava sul pavimento dell'andito, ai
piedi della mezza anta della porta ancora chiusa.
Peppone si chinò e tirò su una lettera che portava questa
intestazione: «Giuseppe Bottazzi – Capo dei senzadio – Ur-
gentissima!».
La lettera era più dettagliata di quella ricevuta da don
Camillo:
*
Ci fu chi, il giorno dopo, vide i manifesti appiccicati
nella saletta di don Camillo, e la voce corse e, per quanto
don Camillo cercasse di tagliar corto alle chiacchiere per non
rendere irrespirabile l'aria già calda, un bel giorno lo Smilzo
arrivò ansimante alla Casa del Popolo e portò a Peppone e
allo stato maggiore le novità:
«Don Camillo è passato al contrattacco! Per vendicarsi
della lezione ha detto che…».
L'idea attribuita a don Camillo era così ridicola e puerile
che tutti si spanciarono per il gran ridere.
«Si vede davvero che è in piena crisi!» concluse Peppo-
ne. «Quando un prete è ridotto ad attaccarsi a simili rampini
è finito! Questa è una vittoria morale straordinaria. È la di-
struzione completa dell'avversario.»
La cosa venne discussa con piena soddisfazione e, alla
fine, Peppone sollevò un'obiezione sensata:
«Però si tratta di voci semplicemente. Per poter sfruttare
adeguatamente la cosa ci vorrebbe una prova».
Lo Smilzo tentennò il capo:
«È una parola! Bisognerebbe, come minimo, fotografare
il documento».
«Non occorre» spiegò Peppone. «È sufficiente prender-
ne visione. Se le variazioni sono state fatte, noi possiamo sfi-
darlo a produrre il documento e tutti si accorgeranno delle
modifiche. Ne riparleremo quando sarà ora. Per il momento,
nessuno ne parli.»
Nessuno ne parlò più e così passarono parecchi giorni e
pareva oramai che la cosa fosse completamente dimenticata.
Ma, invece, c'era qualcuno che si ricordava benissimo di tut-
ta la faccenda.
Tanto è vero che, la volta in cui don Camillo rimase in
chiesa fino a mezzanotte passata per studiare all'armonium
un'arietta da adattare alla canzoncina che i ragazzini doveva-
no cantare per la venuta del Vescovo, sentì a un tratto che
qualcosa non funzionava e, voltatosi di scatto, si trovò al co-
spetto di un intruso intabarrato.
Balzò in piedi e agguantò un pesante candelabro di
bronzo che stazionava nei paraggi.
«Via di qui!» intimò don Camillo.
«Se prima non ho visto il registro non mi muovo!» ri-
spose l'intruso lasciando scivolar giù dalle spalle il tabarro.
Aveva una grossa stanga fra le mani e la prospettiva di
un duello a quell'ora non era allettante per don Camillo.
«Peppone, sei diventato matto?»
«Reverendo, voglio vedere il registro, se no lo divento.»
«Il registro?»
«Sì, il registro del battesimo. Voglio vedere se è vero
che voi per vendicarvi avete cancellato i nostri nomi.»
La cosa era così grossa che don Camillo lasciò cadere il
candelabro.
«Gesù!» esclamò volgendo gli occhi al cielo. «Costui è
peggio che pazzo! È diventato cretino!»
«Voglio vedere il registro!» ripetè l'altro cupo. «Tutti
dicono che voi avete cancellato i nostri nomi.»
«E a quale scopo?»
«Per eliminarci dall'elenco dei cristiani.»
Don Camillo guardò sbalordito Peppone poi si avvicinò
al grande armadio pieno di vecchi registri. Trovò quello che
interessava (l'anno lo sapeva perché don Camillo era nato lo
stesso anno di Peppone) e lo mise sull'armonium.
«Guarda tu stesso.»
Peppone sfogliò il libraccio. Controllò quanto voleva
controllare.
«E gli altri?» domandò.
«Gli anni li sai: mentre io vado avanti col mio lavoro,
trovati i registri e vedi tu.»
Don Camillo tornò a sedersi all'armonium e riprese a
comporre la sua canzoncina. E subito si accorse che, adesso,
il motivo della canzoncina gli veniva fuori con enorme faci-
lità. Sì che, dopo mezz'ora, aveva finito.
Allora la provò tutta di seguito accompagnando la musi-
ca col canto.
E quando ebbe terminato era eccitato.
«Pare la Marsigliese!» borbottò Peppone che, controllati
i registri, era rimasto lì a sentire.
In realtà, se i bambini avessero accolto il vecchio Ve-
scovo al canto di quell'inno, il vecchio Vescovo avrebbe sus-
sultato.
Don Camillo se ne rese conto ma non se ne dolse, anzi
se ne rallegrò. Non svelò lo stato d'animo a Peppone. Anzi lo
guardò malamente e gli domandò brusco:
«E allora?». «Va bene» rispose Peppone.
«Il fatto di essere sempre nella lista dei cristiani non ti
deve illudere. Alla fine pagherai tutte le porcherie che hai
commesso!»
«Questi sono affari miei» affermò Peppone. «L'impor-
tante è di essere in lista.»
199 BELLISSIMO
«Cittadini!
«Questa mattina, approfittando delle tenebre notturne, la
mano ignota di una madre infelice ha deposto la sua creatura
davanti alla porta della Casa del Popolo, dove il compagno
Giuseppe Bottazzi la rinveniva.
«Sul bambino abbandonato era appuntato questo bi-
glietto: "Se voi siete il partito dei poveri, questa è la creatu-
ra più povera dell'universo perché non ha niente, neanche
un nome. Ve lo affida una madre infelice". «Cittadini!
«Nel mentre noi stigmatizziamo il gesto insano della
madre ignota, noi denunciamo al mondo l'ingiustizia sociale
per la quale i ricchi hanno troppo e i poveri non hanno nep-
pure di che sfamare la loro creatura.
«Ecco i veri colpevoli! Il povero non ruberebbe il pane
se il ricco non priverebbe il povero dei generi di prima ne-
cessità!
«Il gesto disperato della madre che abbandona il figlio
neonato è caratteristico della società feudale del Medioevo,
ma la mentalità del popolo non è più medievale perché men-
tre nel Medioevo abbandonava il figlio davanti alla chiesa
ora lo lascia davanti alla Casa del Popolo il che significa
che la fiducia nei preti è finita e i poveri sperano soltanto
nel Partito Comunista per il quale tutte le creature sono
uguali e hanno diritto al loro posto al sole!
«Cittadini, mentre noi assumiamo la tutela della creatura
abbandonata, vi invitiamo a votare compatti per la nostra li-
sta!
La Sezione del PCI».
*
Ci fu subito una complicazione perché il maresciallo dei
carabinieri, appena letto il manifesto, andò da Peppone.
«Signor sindaco, corrisponde a verità il fatto di cui parla
il comunicato della sezione del Partito comunista?»
«Maresciallo, le pare che io mi inventi una cosa del ge-
nere? Il bambino l'ho trovato io stesso.»
«E perché non ha denunciato il rinvenimento?»
Peppone lo guardò sbalordito.
«Maresciallo, ma se il fatto è denunciato da cinquecento
manifesti appiccicati per tutto il paese!»
«Ho visto: ma noi dobbiamo redigere un verbale e inol-
trare a nostra volta una denuncia. Chi abbandona i figli com-
mette un reato. E poi chi le dice che quel bambino sia effetti-
vamente figlio della donna che ha scritto il biglietto? E chi le
dice che a scrivere il biglietto sia stata una donna? E se il
bambino fosse stato rapito ai genitori e poi abbandonato?»
Peppone fece la denuncia regolare al maresciallo che in-
terrogò i testimoni e poi compilò il verbale.
«E adesso dove si trova questo bambino?» disse alla
fine il maresciallo.
«A casa sua» rispose Peppone fiero. «Alla Casa del Po-
polo.»
«Chi è che l'ha in consegna?»
«Il Partito comunista. Il bambino lo abbiamo adottato
noi.»
«Un partito non può adottare dei figli. E non può neppu-
re tenere in consegna dei bambini. Il bambino deve essere af-
fidato a un istituto autorizzato dallo Stato. Quindi, signor
sindaco, noi riteniamo lei personalmente responsabile del
bambino. Avvertiremo un istituto della città e lei, domattina,
consegnerà il bambino agli incaricati dell'istituto stesso.»
Peppone guardò cupo il maresciallo.
«Io non consegnerò niente» disse. «Il bambino lo adotto
io personalmente.»
Il maresciallo scosse il capo.
«Ammiro la sua generosità, signor sindaco. Ma ciò non
è possibile fino a quando non siano state condotte a termine
tutte le indagini del caso.»
«Mentre lei fa le indagini del caso, il bambino può be-
nissimo rimanere affidato a me e a mia moglie. Ne abbiamo
allevati quattro, di figli, e, se non sbaglio, piuttosto bene.
D'altra parte, del bambino non risponde uno sconosciuto, ma
la più alta autorità del Comune, vale a dire il sindaco.»
Il maresciallo non sapeva più cosa obiettare.
«Andiamo a vedere il bambino» borbottò.
«Non si incomodi, maresciallo: glielo faccio portare qui.
Così lo consegniamo al sindaco.»
Arrivò poco dopo la moglie del Lungo col bambino in
braccio e, appena il maresciallo se lo trovò davanti, esclamò:
«Accidenti! È un capolavoro! Non capisco come si pos-
sa abbandonare una creatura così bella!».
Peppone sospirò.
«Anche se sono belli, i bambini non vivono d'aria.»
*
*
La faccenda si metteva sempre meglio; l'organizzazione
dell'entrata clandestina era stata perfezionata: i clienti irrego-
lari potevano agire in tutta tranquillità senza correre il peri-
colo di fare in bottega incontri spiacevoli perché don Camil-
lo aveva installato sulla porticina dell'orto una lampadina
rossa e una verde che davano il segnale di via ingombra o di
via libera, a seconda che il banconiere, dal retrobottega anti-
cominform, schiacciasse un bottone piuttosto che l'altro.
Inoltre don Camillo spesso si faceva trovare nel retro-
bottega dai clienti clandestini e, tra un fagottino e l'altro, infi-
lava qualche parolina adatta a schiarire certe idee. Un lavori-
no calmo, tranquillo, non appariscente ma che, a lungo anda-
re, avrebbe dato i suoi frutti.
Ogni tanto don Camillo si fermava a «La Popolare» fino
a tarda sera perché l'amministrazione l'aveva in mano lui.
E una sera entrò dalla porticina dell'orto un cliente clan-
destino ritardatario.
«Buona sera, reverendo» disse il cliente ritardatario. «È
qui lo spaccio della "Cooperativa dei Piccoli Proprietari Li-
beri"?»
«Sì» rispose don Camillo. «Questa è "La Popolare". "La
Proletaria" è in un'altra strada.»
«Lo so» spiegò Peppone «però disgraziatamente "La
Proletaria" ha già chiuso e io avrei bisogno di un po' di roba
urgente. Posso aver l'onore di essere almeno una volta cliente
della sua bottega? In fondo faccio parte del popolo anche
io.»
«Il banconiere è uscito. Mi spiace.»
«Prendo la roba anche se me la dà lei, reverendo.»
Don Camillo si alzò:
«Cosa le serve?».
«Tre chili di formaggio grana stravecchio, due salami,
due chili di zucchero, una lattina d'olio, tre chili di burro, sei
scatolette di carne e quel pezzetto di lardo lì.»
Quel «pezzetto di lardo lì» era almeno sei chili: don Ca-
millo guardò Peppone:
«Lei parte per una spedizione polare?».
«No, reverendo, devo confezionare dei pacchi viveri da
mandare ai russi che muoiono di fame.»
«Ha il camion fuori?»
«No, ho il sacco: mano a mano che pesa la roba, me la
passi.»
Don Camillo rispettò il gioco con stile esemplare. Pesò,
incartò come un banconiere professionista. Alla fine tirò giù
dalla scansia sei pezzi di sapone da bucato e disse:
«Se lei fa dei pacchi viveri per i russi, metta anche que-
sto sapone: lo troveranno molto saporito».
«È un'idea» approvò Peppone, buttando nel sacco i sei
pezzi di sapone.
«Serve più niente? Candeggina per condire i semi di gi-
rasole? Petrolio per rinfrescarsi la faccia dopo fatta la
barba?»
«No, in Russia non abbiamo ancora inventato il rasoio.
Faccia pure il conto.»
Don Camillo fece la somma, controllò e porse il foglio a
Peppone.
«Bene» disse Peppone. «Lo marchi nel libro sotto il
nome di Bottazzi Giuseppe. Passerò a pagare quando quei di-
sgraziati dei suoi figli di Maria mi pagheranno la roba che
vengono a comprare a credito alla "Proletaria".»
Don Camillo spiegò che non aveva voglia di scherzare e
allora Peppone cacciò fuori di tasca due manciate di libretti e
li mise davanti a don Camillo:
«Guardate, reverendo: ogni libretto ha il suo bravo
nome e cognome; controllate pure e ditemi se non ci sono
tutte le vostre più fide pecorelle! Naturalmente non si fanno
vedere, quando vengono a comprare: entrano dal cortile per-
ché dicono che non possono far torto a voi, arraffano roba e
se ne vanno dopo aver fatto marcare sul libretto. E così fre-
gano un disgraziato. Controllate pure, c'è il riepilogo: otto-
centonovantamila lire!».
Don Camillo diede un'occhiata ai libretti, poi aprì il cas-
setto dello scrittoio e mise davanti a Peppone una mezza
bracciata di libretti.
«Ci sono i nomi dei tuoi più fedeli compagni» spiegò.
«Clientela clandestina di riguardo con una fregatura totale di
lire novecentomiladuecento lire per il sottoscritto.»
Peppone sfogliò i libretti poi disse:
«Cosa volete che sia? Io, oltre ai conti in sospeso dei
vostri, ho un milione e mezzo di conti in sospeso dei miei.
Quei disgraziati sono venuti a comprare da voi quando io gli
ho detto che, se non pagavano, non gli davo più niente».
Don Camillo cavò dal cassetto un altro blocco di libret-
ti:
«Idem per un totale di un milione e seicentomila lire.
Quando io gli ho tagliato i viveri, i miei sono venuti da te».
Peppone si asciugò la fronte col dorso della mano:
«Bel pasticcio».
«Bisogna aver fede, compagno. Adesso incominciano i
lavori grossi della campagna: guadagneranno e pagheranno.
È sempre stato così.»
Peppone tentennò il testone:
«E se quei disgraziati di Roma danno l'ordine dello scio-
pero agricolo di protesta contro i risultati delle elezioni?».
«Quali disgraziati?» domandò con voce dolcissima don
Camillo.
203 COMIZIO IN CASA
La casa del Pocci era una delle più belle, ampie e como-
de del paese e aveva anche un grande giardino. Pareva fatta
apposta per essere trasformata in un ricovero.
I quattrini liquidi furono ampiamente sufficienti per la
trasformazione e l'attrezzatura. Il podere lasciato in dote al
ricovero era uno dei migliori del Comune, i mezzadri erano
bravi e onesti e la rendita eccellente.
Il comitato degli otto funzionò sin dalla sua prima sedu-
ta in modo esemplare: le discussioni furono sempre condotte
nel modo più sereno possibile e i lavori marciarono magnifi-
camente.
In quattro mesi tutto fu approntato e, quando la commis-
sione al completo ebbe compiuta la visita di collaudo e ogni
cosa venne trovata di generale soddisfazione, si pensò al pro-
gramma della cerimonia inaugurale.
Qui don Camillo sollevò una seria obiezione:
«Per me, il ricovero deve essere inaugurato non come
semplice edificio pronto e attrezzato per ospitare dei vecchi
bisognosi, ma come istituzione funzionante. Inaugurarlo
così, a vuoto, sarebbe come varare una nave a secco senza
mandarla in mare. La cittadinanza deve vedere il ricovero già
in funzione, vale a dire con i ricoverati. Solo così la cittadi-
nanza potrà avere una precisa idea della efficienza di ogni
servizio. Comunque, fate vobis».
Gli altri si grattarono la pera.
«Per forza» esclamò Peppone. «Il ricovero senza ricove-
rati è come una linea elettrica senza elettricità, o un tronco
ferroviario senza treno. E poi si sa come succede: vengono i
giornalisti e intervistano i vecchi: quanti anni avete, come vi
trovate, che mestiere facevate eccetera.»
«Inoltre» disse uno degli altri sei «mettendo nel ricovero
i ricoverati, si può fare il vero collaudo pratico. E rimediare a
tutti i possibili inconvenienti prima della inaugurazione uffi-
ciale.»
Era necessario trovare i vecchi da ricoverare e non era
davvero un'impresa difficile perché i ricoverabili del Comu-
ne erano cinque e li conoscevano tutti: Giacomone di anni 75
residente nel paese, Ranieri di anni 78 residente a Torricella,
Girardengo di anni 80 residente a Trecaselli, Joffini di anni
79 residente a Fiumetto e la Miràcola di anni 85 residente al
Crociletto.
Cinque poveretti che, pur non facendo gli accattoni, vi-
vevano di elemosina. Giacomone, alto e magro, con le ossa
che parevano bucargli la pelle, era una vittima dello sciopero
del 1908: allora perdette il posto e da allora era rimasto di-
soccupato. E, per quarantacinque anni, aveva tirato avanti
nutrendosi quasi esclusivamente di vino e dormendo nei fie-
nili e nelle stalle.
Ranieri, di media statura e con due gran baffi all'ingiù,
in realtà aveva un altro nome, ma lo chiamavano Ranieri per-
ché un paio di volte alla settimana «andava per rane» nel
senso che lo trovavano ubriaco a dormire dentro qualche fos-
so. E il giorno che lo tirarono su dal fosso della Strada Quar-
ta trovarono che una rana gli era entrata dentro una tasca del-
la giacca.
Girardengo era il più scarlingato della categoria: il suo
nome era Bedetti ma poiché aveva i cuscinetti delle ginoc-
chia ingranati e quelli delle anche arrugginiti, e così doveva
camminare a passettini di dieci centimetri l'uno e per fare
mezzo chilometro ci impiegava una giornata, era stato ribat-
tezzato Girardengo.
A chi gli domandava dove andasse, Girardengo rispon-
deva immancabilmente: «Devo portare un espresso alla spor-
cacciona di tua sorella».
Joffini era il più serio e laborioso. Sempre pulitino, pas-
sava la sua vita fra le stanghe di un carretto.
Nessuno lo aveva mai visto senza il suo carretto: estate
o inverno portava a spasso per le strade della Bassa il suo
carretto e ogni duecento metri si fermava, si sedeva su una
stanga, tirava fuori la pipa, l'accendeva, e se nella pipa c'era
qualche cicca buttava fuori fumo dalla bocca. Se no si con-
tentava di succhiare l'aria puzzolente del cannello.
La vecchia Miràcola girava invece con una sporta infila-
ta nel braccio ed era così piccola e minuta, e coi capelli can-
didi sempre così ben pettinati, che tutti le volevano bene. Era
brava per «segnare» le risipole e le slogature: di qui il nomi-
gnolo di «Miràcola».
I cinque ricoverabili agivano completamente indipen-
denti l'uno dall'altro. Ognuno aveva la sua zona, i suoi clien-
ti, e non si incontravano mai.
Si incontrarono per la prima volta il giorno in cui lo
Smilzo, in qualità di guardia comunale aggiunta, andò a pe-
scarli e li portò in Comune dove erano ad attenderli il sinda-
co e don Camillo e gli altri della commissione degli otto.
Era stato stabilito che avrebbe parlato, a nome di tutti,
Peppone, e, quando i cinque poveracci gli furono davanti,
Peppone disse con voce cordiale ma solenne:
«Noi vi abbiamo qui convocati per darvi una bella noti-
zia. Una notizia bella per voi e per noi. Perché se ad averne
beneficio materiale sarete voi, noi ne avremo un beneficio
morale per la soddisfazione di poter assolvere finalmente il
primo dei doveri sociali: l'assistenza della categoria più biso-
gnosa».
I cinque continuavano a guardare con diffidenza Peppo-
ne, don Camillo e gli altri sei.
«Come voi saprete certamente» continuò Peppone «sta
per inaugurarsi il ricovero dei vecchi e per questo vi abbiamo
chiamati qui.»
«Io non sono vecchio» borbottò Giacomone. «Io non
c'entro.»
«Tu hai settantacinque anni compiuti» replicò Peppone
«quindi sei vecchio.»
«Quando uno è ancora capace di lavorare e di guada-
gnarsi un pezzo di pane, non è vecchio da sbattere in un
ospizio» affermò Giacomone.
Peppone si seccò:
«Giacomone, non dire stupidaggini: tu non hai mai fatto
niente da quando eri giovane, figurati adesso che sei vecchio.
È da quando ero ragazzo che io vi vedo in giro a domandare
l'elemosina, tu e i tuoi soci».
«Io non ho mai domandato l'elemosina!» protestò Gia-
comone.
«Neanche io!» affermò Ranieri.
«Io da cinquant'anni faccio il mio servizio col carretto e
mi guadagno da vivere!» esclamò Joffini.
Peppone diventò rosso come un papavero:
«Basta! Voi da stasera andrete al ricovero. E se non ci
volete andare vi ci faccio portare».
«Tu mi ci fai portare e io scappo!» gridò con voce irosa
Girardengo.
La Miràcola si mise a piangere in silenzio e si asciugava
gli occhi con un lembo del fazzoletto nero che portava sui
capelli candidi.
«E voi cosa avete da frignare?» domandò don Camillo.
«Io voglio morire nel mio letto, non all'ospedale» bal-
bettò la vecchina.
«Ospedale?» schiamazzò imbestialito Peppone interpre-
tando il sacrosanto sdegno di tutta l'assemblea. «Chi è quel
vigliacco che ha il coraggio di parlar di ospedale? Smilzo,
sbattili dentro l'autoambulanza e portali al ricovero così ve-
dono!»
A sentir parlare di autoambulanza la vecchina si mise a
piangere più forte: «Signor Peppino» implorò «abbiate ri-
spetto per una povera vecchia che vi ha portato in braccio
quando voi avevate due mesi…».
A sentirsi chiamar Peppino, e in quel modo, Peppone
sparò una bestemmia tale che don Camillo ruppe il patto di
non aggressione e disse alla vecchia:
«Invece di tenerlo in braccio, avreste fatto meglio a but-
tarlo giù dal ponte del Canalaccio».
I cinque disgraziati vennero caricati sull'autoambulanza
e portati via. Peppone, don Camillo e gli altri sei li seguirono
a piedi. Erano tutti inferociti:
«Noi ci arrabattiamo per fargli del bene, e loro ci tratta-
no come se fossimo dei boia!».
«E allora?»
I cinque disgraziati che stavano aspettando sperduti nel
grande atrio del ricovero sussultarono udendo la voce di Pep-
pone.
Li accompagnarono a visitare l'edificio.
«Questa è la cucina dove vi faranno il mangiare» spiegò
Peppone. «Mangiare sano, pulito, sostanzioso. Abbondante.»
«Colazione, desinare, merenda e cena» aggiunse don
Camillo. «E tutti i giorni. Finita l'incertezza.»
Passarono nel refettorio, ampio, pieno di luce:
«Avete finito di mangiare seduti sulla riva di un fosso»
spiegò Peppone. «Mangerete come i cristiani, seduti alla vo-
stra tavola apparecchiata, al caldo d'inverno e al fresco d'e-
state.»
Poi passarono nel dormitorio coi letti in fila.
«Gesummaria!» gemette la Miràcola.
«Gesummaria che cosa?» domandò don Camillo.
«Io non voglio dormire dove dormono degli uomini.»
«Ma che uomini d'Egitto. Questo è il reparto maschile.
Voi dormirete nel reparto femminile.»
Poi fecero visitare i lavandini scintillanti di porcellana,
l'infermeria per i malati, la bibliotechina, la stanza di sog-
giorno con le poltrone a sdraio e il guardaroba con la bian-
cheria già pronta e gli abiti appesi agli attaccapanni.
«Riscaldamento a termosifone, luce elettrica, acqua cal-
da e fredda, radio e, quando ci sarà la stazione di Montepelli,
anche la televisione. Giornali, libri, laboratorio se uno vuol
passare il tempo facendo qualche lavoretto. E il suo bravo
giardino per prendere l'aria e il sole. Vi pare ancora che noi
siamo dei farabutti che vi vogliono fare del male? Dei ma-
scalzoni che vi vogliono mandare in un ospedale? Degli as-
sassini che vogliono chiudervi in galera? Questa è la vostra
casa e avrete ogni giorno le vostre ore di libera uscita. Avan-
ti: cosa avete da dire?»
Peppone attese sicuro di sé.
«È una meraviglia» disse Giacomone.
«Proprio roba da signori» aggiunse Ranieri.
«Bellissimo» sospirò Joffini. «Volendo ci sarebbe anche
il posto per mettere il carretto.»
«Si capisce!» ridacchiò soddisfatto Peppone strizzando
l'occhio agli altri sette.
Girardengo continuava a guardarsi attorno:
«Certamente» borbottò. «Certamente, meglio di così
non si potrebbe pretendere.»
«E voi, cosa ne dite?» domandò allegramente Peppone
alla Miràcola.
«Io sono una povera vecchia» gemette «cosa volete che
sappia io?»
«Vi piace o non vi piace?»
«Mi fa soggezione tanto è bello.»
«Vi ci abituerete, vi ci abituerete!»
Don Camillo intervenne:
«Siamo molto contenti tutti che la vostra casa vi sia sim-
patica. Fra una settimana i servizi funzioneranno e ci sarà il
personale occorrente. Perciò restiamo intesi così: voi avete il
tempo per liquidare tutte le vostre cosette e, fra una settima-
na, senza bisogno che vi mandiamo a chiamare, vi presentate
qui e incominciate la vostra nuova vita».
Peppone strizzò l'occhio all'amministratore che capì
l'antifona e, fattosi avanti, consegnò a ognuno dei cinque un
biglietto da mille:
«Questo significa che da oggi siete in forza alla casa di
riposo: vi servirà come sussidio per i giorni che dovete anco-
ra aspettare. Giacomone e Ranieri: mi raccomando, non
ubriacatevi».
I cinque disgraziati se ne andarono stringendo nel pugno
il loro bigliettone.
«Siamo a cavallo!» esclamò soddisfatto Peppone. «Bi-
sogna aver pazienza con i vecchi.»
«Specialmente con questi» aggiunse don Camillo. «Non
hanno mai avuto niente di buono dalla vita e stentano a cre-
dere che la Divina Provvidenza si sia ricordata anche di
loro.»
Oramai ogni cosa era a posto ma, allo scadere dei sette
giorni, nessuno si fece vivo.
Aspettarono ancora due giorni poi lo Smilzo venne in-
viato alla ricerca dei cinque ricoverandi. Ci vollero altri tre
giorni per ripescarli e, quando li ebbe ripescati, lo Smilzo
tornò a mani vuote:
«Sì, li ho trovati, ma se volete riprenderli dovete andarci
voi» spiegò all'assemblea. «Io non me la sento.»
«Smilzo!» urlò Peppone. «Esegui gli ordini!»
«Capo, non ho mai disobbedito a un tuo ordine. Il fatto
è che stavolta è un ordine che io non posso eseguire. Io pos-
so semplicemente accompagnarti là.»
Partirono tutti e otto sul camion di Peppone pilotato dal-
lo Smilzo: erano furiosi e intenzionati a usare anche la forza
con gli ingrati pezzenti. Il camion navigò per le stradette pol-
verose e, passato il gruppo di case del Crociletto, si fermò
davanti a una catapecchia isolata.
«È la casa della vecchia» spiegò lo Smilzo.
«Incominciamo col caricare questa disgraziata!» escla-
mò Peppone. «Poi pescheremo gli altri. Pianga o urli, fra
un'ora sarà al ricovero.»
La porta era chiusa col catenaccio: Peppone la prese a
calci e, dopo qualche minuto, la porta si aprì e apparve la
Miràcola:
«Sbrigarsi senza fare tante storie!» le intimò Peppone.
«Tirate su le vostre carabattole e marciare. Cinque minuti di
te…» Peppone si interruppe trovandosi d'improvviso davanti
a uno spettacolo davvero fuori dal comune.
Entrato infatti nella stanza, Peppone si trovò non in una
normale cucina, come credeva, ma in un laboratorio di fale-
gnameria: Giacomone stava lavorando al banco. Ranieri sta-
va lucidando a spirito il piano di un tavolino e Girardengo,
seduto in un angolo, stava impagliando una sedia.
«Abbiamo fatto una cooperativa» spiegò Giacomone
tranquillo. «Ognuno si è ricordato del suo vecchio mestiere e
ha ripreso il lavoro. La Miràcola ci ha messo la casa e fa da
mangiare. Joffìni ci ha messo il carretto e si occupa di andare
a prendere e riportare il lavoro. Con le cinquemila lire abbia-
mo comprato il banco e i ferri più necessari.»
Peppone si avvicinò a guardare quello che stava facendo
Giacomone. E si avvicinarono e guardarono anche gli altri.
Era un lavoro modesto ma da artigiano in gamba.
«Bene» borbottò Peppone facendo marcia indietro.
«Vuol dire che, quando avete bisogno di noi, sapete dove
trovarci.»
Uscirono e risalirono sul camion senza fiatare. Alla
svolta della chiavica vecchia, appena imboccata la angusta
stradetta del Pioppaccio, lo Smilzo dovette bloccare perché
un carretto era fermo sul ciglio del fosso. Il carretto era cari-
co di sedie rotte e di bigonci sfasciati. Su una stanga stava
seduto Joffini con la pipa in bocca e, sulla sponda del carret-
to, stava scritto in vernice rossa:
«Cittadini!
«Per causa di qualche spiritoso che ha messo in giro per
scherzo malvagio la chiacchiera, si è diffusa in paese la favo-
la della cosiddetta casa degli spiriti con manifestazioni di
oscurantismo medievale degne del secolo scorso. Imprescin-
dendo dal fatto del regresso sociale, il paese diventa oggetto
di dileggio da parte dei Comuni attigui con grave danno mo-
rale e materiale.
«Si fa quindi appello alla cittadinanza perché facci ope-
ra di persuasione nelle classi più ignoranti onde cessi l'udi-
brio del paese la quale, poco che continua questa reprime-
vole storia, diventa una barzelletta come Piolo, dove per
spostare il campanile mettevano la paglia sotto i piedi spin-
gendo, così pareva che il suddetto andasse mentre essi era-
no fermi scivolando in senso contrario.
«Si prega di individuare i responsabili, affinché mettere
fine allo sconcio.
Il Sindaco
Giuseppe Bottazzi».
*
«Gesù» esclamò impetuosamente don Camillo quando
fu davanti al Cristo dell'aitar maggiore «volete vedere l'uomo
più cretino del mondo?» Si pestò due manate sul petto e
spiegò: «Eccolo qui!».
«Chi si umilia sarà esaltato» rispose sorridendo il Cri-
sto.
Don Camillo era furibondo:
«Gesù» implorò «fatemi una grazia. Mettetemi in condi-
zioni di prendermi a calci da solo».
«Non posso assecondare insani propositi di violenza.
Non ti maltrattare, don Camillo. Ama il prossimo tuo come
te stesso. Ama te stesso come il prossimo tuo.»
«No, Signore, io non posso amare un cretino come don
Camillo!»
«Al contrario, don Camillo: amalo più d'ogni altro per-
ché egli, che crede di insegnare la via della fede agli altri,
talvolta esce di strada e non se ne avvede.»
Don Camillo protestò fieramente:
«Signore, sono stupido, sì, ma la strada della fede la co-
nosco bene!».
«Chi si esalta sarà umiliato: alla prima occasione spie-
gagli anche questo a don Camillo» sussurrò il Cristo.
A dire il vero, l'occasione non si fece aspettare: verso le
cinque del pomeriggio, lo Smilzo venne ad appiccicare al
muro della canonica un manifesto. Don Camillo se ne accor-
se subito e balzò fuori con intenti piuttosto bellicosi.
«Cittadini» incominciava il manifesto «l'amministrazio-
ne democratica ha l'orgoglio di annunciarvi che una vostra
grande aspirazione sta per diventare realtà. Domani avran-
no inizio i lavori per la rettifica della strada di
Castelpiano…».
«Guarda e impara, pezzo di stupido!» esclamò don Ca-
millo.
Lo Smilzo che s'era fermato a guardare a distanza pru-
denziale domandò:
«Come dite, reverendo? C'è qualcosa che non vi va?».
«Non parlo con te.»
«De gustibus non disputoribus» affermò lo Smilzo risa-
lendo in bicicletta. «C'è anche gente che si diverte a parlare
da sola.»
«Gesù» disse don Camillo quando fu arrivato di corsa
davanti all'aitar maggiore. «Bisogna che io vada subito a por-
tare quel manifesto ai Folini!»
«Non occorre» rispose il Cristo. «Essi non hanno mai
avuto dubbi. Sempre hanno fermamente pensato che la stra-
da sarebbe stata fatta. Ti hanno parlato a quel modo solo per-
ché sapevano che tu non potevi credere in una fede così pro-
fonda. Sapevano che tu li avresti giudicati pazzi.»
Don Camillo abbassò il capo:
«Gesù» balbettò «in una cosa del genere, come si fa a
capire se si tratta di fissazione o di fede nella Divina Provvi-
denza?».
«Son cose che non si possono capire ma si possono solo
sentire. Impara a diffidare del buon senso, don Camillo. Mol-
te volte esso è soltanto senso comune.»
Don Camillo si allontanò rattristato. Ma ben presto pen-
sò alla radura verde in mezzo alla boscaglia di gaggìa. Pensò
alla strada che avrebbe tagliato la boscaglia e la radura verde
e si sentì il cuore leggero.
211 SUOR FILOMENA
«Reverendo,
«il posto per il bambino c'è. Ho capito perfettamente es-
sere la situazione del padre tale che, se non venisse fatto
come Ella dice, il bambino non verrebbe inviato al mare e la
sua salute ne soffrirebbe.
«Con molto garbo, in modo che egli non se ne possa ac-
corgere, il bambino verrà allontanato dai compagni ogni
volta che a essi venga impartita in qualche modo, anche in
forma indiretta, assistenza religiosa.
«Quello che Lei mi fa fare è leggermente pazzesco: ma
mi rendo conto che le colpe dei padri non debbono ricadere
sui figli innocenti. Comunque voglio sperare che Lei non
pretenderà che io legga al bambino pagine dei libri di Lenin
o Stalin e che gli insegni che, quando sarà grande, dovrà am-
mazzare il parroco…».
«Egregio Signore,
«il Suo bambino si trova bene. Il mare non gli nuoce. È
già qualcosa. Speriamo che gli giovi.
«Noi ci comportiamo in tutto e per tutto secondo i Suoi
desideri particolari. Ogni cosa è andata ottimamente fino a
oggi. Il bambino dorme nella stanza della sorvegliante di
turno che non è una suora ma una normale inserviente e
così evita le preghiere del mattino e della sera e la Santa
Messa.
«Durante le ore di religione o altro egli va a spasso in
paese accompagnato da una sorvegliante. Per i pasti lo fac-
ciamo arrivare un momentino dopo, così evita la preghiera e
il Segno della Croce.
«Ora ci capita un piccolo inconveniente: noi abbiamo
sempre evitato che il bambino assistesse alla cerimonia mat-
tutina e serale dell'alzabandiera e dell'ammainabandiera in
considerazione del fatto che non si tratta di una bandiera in-
ternazionale ma della normale bandiera nazionale tricolore.
Il piccino però se ne è accorto perché ha visto dalla finestra e
pretenderebbe di assistere anche luì alla cerimonia.
«Siccome il piccino, che è davvero molto vivace e sve-
glio per i suoi sette anni, ha affermato: "Se non mi fanno ve-
dere la sbandiera assieme agli altri, me scrivo a mio babbo
che è sindaco e con un pugno vi spacca la testa a tutti" noi
ameremmo che Lei ci dicesse come dobbiamo regolarci in
proposito.
«Molti cordiali saluti.
suor Filomena».
«Egregio Signore,
«il rapporto medico Le dirà che fisicamente Suo figlio
va di bene in meglio. Spiritualmente ci dà invece qualche
preoccupazione: egli è un bambino che parla pochissimo e,
dapprincipio, noi credevamo che questa sua taciturnità di-
pendesse da timidezza. Invece abbiamo scoperto che egli,
rude e talvolta violento nelle sue manifestazioni esteriori, e
quindi apparentemente superficiale e grossolano, nasconde
un animo gentile incline alla meditazione.
«Egli ogni tanto ci rivolge domande imbarazzantissime
che noi cerchiamo affannosamente di eludere. Mezz'ora fa,
ad esempio, mi ha domandato: "Perché delle navi prima si
vede la cima e poi il resto?".
«Gli spiegai che ciò dipende dalla rotondità della terra.
Ed egli: "Se la terra è rotonda, dove poggiai".
«"Non poggia, è sospesa nel vuoto."
«"E chi la tiene su?"
«Come Ella comprende non è facile cavarsela quando
non si possa, come per gli altri bambini, fare intervenire il
Creatore. Ho lasciato in sospeso la faccenda: debbo rispon-
dere che al culmine di tutto l'universo c'è Stalin, oppure deb-
bo parlare genericamente di partito?
«Distinti saluti
suor Filomena».
*
Don Candido era un pretino giovane e magro. Forse più
giovane che magro. Forse più magro che giovane. Era anche
timidissimo e, appena sbucò nella piazzetta e si trovò davanti
al consesso di gente agitata e vociante, gli venne l'ispirazione
di tornare indietro.
Ma oramai era stato avvistato e subito gli furono tutti at-
torno.
«Chi vi manda?» gli domandò Cimossa squadrandolo
con diffidenza.
«Nessuno» rispose don Candido. «Sono di passaggio.
Vado a trovare mio cugino a Torricella.»
Qualcuno borbottò un nome e ci fu immediatamente un
gran sussurro.
«Sbaglio, o siete il figlio del povero Perini?» domandò
una donna al pretino.
«Sì. I miei sono morti tutti e a Torricella non ho più che
mio cugino Dante Malasca.»
«Capitate male, reverendo: l'hanno portato ieri mattina
al cimitero.»
Il pretino si asciugò il sudore:
«Allora è inutile che io continui. Vado a salutare don
Giuseppe e poi torno».
«Potete tornare subito» borbottò Cimossa. «Don. Giu-
seppe è morto da sei mesi.»
Il pretino si segnò.
«Pace all'anima sua. Povero don Giuseppe. Mi ha aiuta-
to tanto anche lui.»
«Aveva passato gli ottantacinque ed era la sua ora»
esclamò una vecchia. «Peccato che i suoi ultimi giorni siano
stati così disgraziati.»
Raccontarono a don Candido la storia del beneficio in-
ghiottito dal fiume, la storia della canonica bruciata.
Il prete sorrise tristemente:
«In fondo è andata meglio che a me».
«Non credo!» affermò Cimossa. «È difficile che in una
parrocchia possa succedere di peggio.»
«Purtroppo è possibile» replicò il prete. «Io ero da due
anni in montagna. Mi avevano dato la parrocchia di Rugino,
un paesino sul fianco del Monte Doletta. Miseria nera ma
aria buona e un paesaggio bellissimo. Due mesi fa, nella stra-
da principale del paese si apre una crepa. Il giorno dopo la
crepa si allarga e ne saltano fuori delle altre più a monte.
«Sgombriamo tutti, con bestie e roba. Ci accampiamo in
vista del paese e stiamo lì a guardare il fianco della monta-
gna che smotta lentamente. Dopo tre giorni vien giù un'acqua
terribile.»
Il prete s'interruppe e sospirò allargando le braccia.
«Tutto a valle: case, orti, canonica, chiesa. Ho aiutato
quei poveretti fin che ho potuto: adesso che sono sistemati
un po' da tutte le parti son venuto via. Aspetto che venga li-
bera un'altra parrocchia.»
Cimossa tentennò il capo pensoso:
«In altre parole: siete disoccupato».
«Se si può dire che un sacerdote è disoccupato, ebbene,
lo dico» rispose don Candido sorridendo.
«Voi siete disoccupato e noi abbiamo bisogno di un par-
roco» esclamò Cimossa. «Fermatevi qui e tutto è sistemato.»
«Magari! Ma io posso venir qui se mi ci manda il Ve-
scovo.»
«Il Vescovo non manderà né voi né nessun altro» repli-
cò una donna. «Ha le sue buone ragioni, certamente. Però,
anche noi abbiamo le nostre e chi ci va di mezzo? Gli inno-
centi.»
Raccontarono al prete la storia del bambino che non po-
teva essere battezzato e glielo mostrarono.
«Avete proprio deciso di non farlo battezzare?» doman-
dò timidamente il pretino con una sottile angoscia nell'animo
dopo aver constatato che il bambino era tanto pallido e stri-
minzito da dar l'idea di un morticino.
«O lo battezzano qui o niente!» rispose il padre del
bambino con rabbia.
«Sta bene» affermò don Candido. «Se le cose stanno
così, allora debbo battezzarlo io.»
Tutto nella chiesetta era perfettamente pulito e a posto
perché il vecchio sagrestano continuava a tenere ogni cosa in
ordine come se la chiesa fosse funzionante.
E il battesimo riuscì il più solenne della storia di Pioppi-
na perché vi partecipò tutto il paese.
Prima di uscire, ognuno volle leggere sul libro del batte-
simo la nuovissima annotazione che significava: «La parroc-
chia della Pioppina è ancora viva. La libertà non è morta!».
Non vollero che don Candido si rimettesse in viaggio.
Gli diedero da mangiare e gli misero a disposizione una stan-
za: sarebbe ripartito l'indomani. E, quando don Candido se
ne andò a letto, tutti gli uomini della Pioppina si riunirono al-
l'osteria del Moro, in seduta straordinaria, e Cimossa lanciò
la proposta:
«È giovane, non ha pretese, è disoccupato, sa fare il suo
mestiere: ci mettiamo d'accordo e, quando ci serve, lo pren-
diamo a nolo a spese nostre».
«E nei giorni in cui non ci serve, cosa fa per guadagnar-
si da vivere? Il rappresentante di lucido per scarpe?» obiettò
uno del consesso.
Cimossa, che, essendo un fedelissimo gregario di Pep-
pone, cercava di imitare Peppone anche nel modo di pensare,
esclamò:
«I difetti principali dei preti sono due: primo, quello di
essere preti e quindi di non servire a niente. Secondo, quello
di aver bisogno di mangiare anche quando servono a qualco-
sa. Io, a ogni modo, direi di parlargli, domattina».
L'indomani gli parlarono:
«Reverendo, noi saremmo disposti a offrirvi vitto, allog-
gio e pulitura della biancheria la domenica e nelle feste di
precetto, più, si capisce, i servizi occasionali di battesimi,
matrimoni, funerali».
«Mi piacerebbe» rispose don Candido. «La disgrazia è
che io… io insomma non saprei cosa fare negli altri giorni.»
Non disse che la disgrazia consisteva nel fatto che egli
mangiava anche gli altri giorni. E la gente apprezzò questa
sua delicatezza.
Qui, però, Cimossa si ricordò improvvisamente di esse-
re il capo dei «rossi» e, quindi, il più irriducibile nemico dei
preti, e osservò con voce ironica:
«Certo che se, invece di essere un prete, foste un uomo
come noi, vi risponderei che, negli altri giorni, quando non
avete niente da fare in chiesa, potreste lavorare…».
Don Candido lo guardò:
«Il problema per un sacerdote non è quello di lavorare,
ma di trovare un lavoro che non pregiudichi la dignità della
sua missione e del suo abito».
«Tutti i mestieri onesti sono onorifici!» gridò Cimossa.
«Non è questione di onestà» ribatté calmo il pretino. «Il
mestiere del gelataio ambulante è un mestiere onesto, ma io
non potrei farlo. Prima di tutto perché non so fare i gelati, se-
condariamente perché un prete che vada in giro pedalando su
un triciclo da gelataio indurrebbe la gente al riso e ciò dan-
neggerebbe il sacerdote e la Chiesa. Neppure potrei fare l'ar-
rotino o il garzone da muratore. Sono figlio di contadini di
queste parti e so come si lavora la terra. Datemi un po' di ter-
ra e lavorerò.»
«Il beneficio se l'è mangiato il fiume!» esclamò Cimos-
sa. «E qui non ci sono proprietari terrieri ma soltanto affit-
tuari e mezzadri. Nessuno può regalarvi terra.»
«E chi parla di regalare terra?» disse don Candido. «Gli
affittuari non danno forse qualche biolca di terra da lavorare
a mezzo quando si tratta di coltivare roba come il pomodoro
che richiede molta mano d'opera?»
«Certo» rispose Cimossa.
«Ebbene: procuratemi un po' di terra da lavorare a mez-
zo.»
Cimossa lo guardò:
«E voi credete di farcela, poi?».
«Mio padre era più magro di me e chi l'ha visto lavorare
sa che rendeva come due uomini.»
Un vecchio coi baffi bianchi intervenne:
«La razza è buona. La terra la do io. Però non ho il po-
sto per dormire».
«Una camera gliela darei io» esclamò Cimossa. «Ma
come si fa ad alloggiare un prete in un'osteria?»
«Per il dormire ci penso io» affermò don Candido. «So
dove trovare il posto.»
*
La mattina seguente, il primo che arrivò nella piazzetta
trovò la novità; un giovanotto in tuta da meccanico stava la-
vorando tra le macerie della ex canonica: ed era don Candi-
do.
Un'ora dopo tutti i ragazzini della Pioppina lavoravano
tra le macerie della ex canonica.
Poi, verso sera, vennero a dare una mano anche gli uo-
mini che erano tornati dai campi.
«A me basta sgomberare lo spazio per tirar su una stan-
za» spiegò don Candido. «Le fondamenta sono solidissime e
i muri per due metri da terra sono intatti. Mattoni ce n'è fin
che si vuole. E anche tegole. Le tegole hanno il vantaggio
sulle marsigliesi che fin che ce n'è una fetta grande quattro
dita sono buone per far tetto. La sabbia e la ghiaia stanno lì a
due passi, nel fiume. Per il resto c'è la bicicletta.»
La bicicletta di don Candido era nuova e fu facile trova-
re un amatore: e coi soldi saltarono fuori la calce e un po' di
tavole per combinare una porta e le imposte d'una finestra.
Finito il lavoro di sgombero, don Candido incominciò a
fare muro. Il legname del tetto fu racimolato facilmente, ec-
cezion fatta per il trave maestro che doveva servire anche da
colmareccio. C'erano due buoni pezzi di trave, ma come ap-
piccicarli? Don Candido risolse facilmente la cosa creando in
mezzo alla stanza un grosso pilastro cavo che serviva pure da
cappa per la stufa da costruirsi in mattone e terra, alla cam-
pagnola.
Visto da sotto, il tetto faceva schifo, però non lasciava
passare una goccia d'acqua.
«Ed ecco la canonica» disse soddisfatto don Candido
quando la baracca fu finita.
Era arrivata la stagione giusta per cominciare a lavorare
il pezzo di terra da coltivare a mezzo. Don Candido smise di
fare il muratore e prese a fare il contadino.
«Se tutti i preti fossero agricoltori come voi» gli disse
un giorno Cimossa che era andato di persona a rendersi con-
to di come funzionasse il contadino don Candido «il giorno
della riscossa proletaria potremmo sistemare facilmente il
clero e migliorare l'agricoltura.»
Ciò voleva significare che, anche come agricoltore, don
Candido sapeva il fatto suo.
La parrocchia della Pioppina andò avanti almeno per sei
mesi senza che ci fossero guai. E Cimossa e compagni, non
potendo entrare in chiesa per disciplina di partito, assisteva-
no puntualmente alla Messa di ogni domenica standosene da-
vanti alla porta spalancata.
«Ciò vuol significare non un ossequio al prete, ma un
atto di solidarietà col lavoratore» spiegò Cimossa a Peppone.
«Va bene: però stai attento a distinguere bene dove fini-
sce il lavoratore e dove incomincia il prete.»
«Capo, lo so: il lavoratore finisce quando il prete smette
di lavorare nei campi. Il prete invece incomincia sempre e
non finisce mai.»
«Bene, compagno. Cordiale diffidenza: questo è il mot-
to.» Tutto comunque andò bene fino a quando alla gente del-
la repubblica della Pioppina non venne l'idea di cambiare i
Santi.
*
Don Camillo, appena vide il pretino, fece la faccia scu-
ra.
«Sono don Candido» spiegò timidamente il pretino. «Io
sarei il parroco… il parroco interinale…»
«Il parroco interinale della sparrocchia della Pioppina»
continuò don Camillo calcando la voce sulla "s" di sparroc-
chia. «Ho capito: e allora?»
«Allora succede che la popolazione della Pioppina vuol
cambiare i Santi» sussurrò sgomento don Candido.
«Dite alla popolazione che invece di cambiare i Santi si
cambi la testa. Comunque sono affari vostri.»
«Lo so: ma ho bisogno che mi aiutiate.»
«Io aiutare voi?» urlò don Camillo. «Io aiutare un sacer-
dote che è uscito dalla retta via e cammina sul sentiero della
perdizione? Io aiutare un sacerdote ribelle? Un prete irrego-
lare?»
Don Candido diventò pallido come un morto e gli occhi
gli si riempirono di lacrime:
«Monsignore» balbettò «perché mi dite tante cose catti-
ve? Cosa vi ho fatto di male?».
«Ma che monsignore d'Egitto!» urlò don Camillo. «Io
non sono monsignore e non c'entro. Il male non lo fate a me,
lo fate alla Chiesa, mettendovi contro il Vescovo!»
«Io non mi sono messo contro nessuno, ve lo giuro»
esclamò angosciato don Candido. «Io faccio il prete in una
parrocchia dove il prete manca perché è morto.»
«E i preti, secondo voi, chi li assegna alle parrocchie? Il
Vescovo o il fiduciario della sezione comunista?»
«La parrocchia di Pioppina non è più riconosciuta come
parrocchia dall'autorità ecclesiastica…»
«Appunto per questo! Voi vi siete arbitrariamente pro-
clamato parroco di una parrocchia soppressa. Avete quindi
preso posizione contro le decisioni della autorità ecclesiasti-
ca. Comunque riceverete presto dal vescovado il pagherò.»
«Non credevo di aver fatto male. Domattina lascerò la
Pioppina e non mi farò più vivo.»
«Dovreste farvi vivo, invece! E andare dal Vescovo a
spiegare le cose e a scusarvi del vostro atto incosciente.»
«Non ne ho il coraggio.»
Don Candido uscì a testa china e don Camillo rimase
nell'andito della canonica a camminare in su e in giù.
"È giovane e scriteriato" decise tra sé alla fine. "Bisogna
riportarlo sulla giusta strada."
Sul sagrato c'era il figlio del Filotti col motocarrozzino.
«Portami per piacere fino alla Pioppina» gli disse con
Camillo.
Don Candido non era in "canonica": don Camillo, dopo
aver bussato alla porta per tre o quattro volte, si ritrasse per
guardare la facciata della strana baracca.
«Se l'è tirata su lui con le sue mani» spiegò una vecchia
sopraggiungendo.
«Sapete dov'è adesso?»
«È al podere dei Bissi.»
Don Camillo risalì sul carrozzino e si fece portare al po-
dere dei Bissi. Qui gli indicarono una carrareccia:
«In fondo a destra».
Don Camillo si incamminò e, arrivato in fondo alla car-
rareccia, sostò davanti a un grande campo di pomodori.
Un giovanotto che stava lavorando in mezzo al campo,
visto don Camillo, si avvicinò.
«Cosa state facendo?» si stupì don Camillo quando sco-
perse che il giovanotto era don Candido.
«Sto guadagnandomi la mia giornata.»
Don Camillo guardò la camicia lacera, i calzoni rattop-
pati e le scarpe scalcagnate di don Candido.
«Non fate storie: c'è il motocarrozzino sull'aia. Vi ac-
compagno dal Vescovo io.»
Don Candido non fiatò e si incamminò. Arrivato sull'aia
disse:
«In pochi minuti sono pronto: mi lavo le mani e mi ve-
sto. Dovrò mettere i guanti perché il pomodoro macchia spa-
ventosamente le mani».
Don Camillo lo agguantò per il collo e lo ficcò dentro il
carrozzino.
«Venite così, se non siete un vigliacco!»
Don Camillo montò in sella:
«Fatti prestare una bicicletta e torna a casa. La moto ser-
ve a me» spiegò al Filotti che lo guardava a bocca aperta.
*
«Eccellenza» spiegò don Camillo quando fu davanti al
vecchio Vescovo «vorrei presentarvi un uomo impresentabi-
le.»
«Don Camillo, per caso, non hai preso un colpo di
sole?»
«No, Eccellenza.»
«Allora scendiamo.»
Scesero nel giardino del vescovado.
«Fai entrare di lì l'impresentabile» spiegò il vecchio Ve-
scovo indicando a don Camillo una porticina che si apriva
nell'alto muro di cinta.
Dopo due minuti don Camillo era di ritorno rimorchian-
dosi don Candido.
«Eccellenza, lo vedete questa specie di miserabile che io
ho trovato un'ora fa in mezzo a un campo di pomodoro?»
Il vecchio Vescovo si accomodò gli occhiali sul naso e
considerò attentamente don Candido che tremava di paura. E
don Camillo, agguantando l'infelice per una spalla, gli fece
fare dietro-front sì che il Vescovo potesse anche ammirarne
la parte posteriore.
«Eccellenza, per quanto ci pensiate, voi non riuscirete
mai a indovinare chi sia questo sciagurato.»
Il vecchio Vescovo squadrò ancora attentamente l'infeli-
ce e poi disse:
«È il parroco della Pioppina».
Don Camillo non si aspettava quella risposta e rimase
perplesso.
«Eccellenza» balbettò alla fine «se avete qualcosa da
dirgli io posso aspettare fuori.»
«E perché?» esclamò stizzito il vecchio Vescovo.
«Quello che dovevo dirgli gliel'ho già detto. È il parroco del-
la Pioppina.»
Il vecchio Vescovo si alzò dalla panchina e si incammi-
nò verso il palazzo.
«Eccellenza» esclamò don Camillo «i fedeli della par-
rocchia della Pioppina vogliono cambiare i Santi. Non vo-
gliono più né Santi invernali né Santi estivi. Vogliono due
Santi da mezza stagione.»
Il Vescovo si fermò colpito dalla singolarità della noti-
zia:
«Due Santi da mezza stagione?» domandò.
«Sì, Eccellenza» spiegò don Camillo: «San Virgilio e
San Venanzio. Li hanno trovati in una chiesa sinistrata d'ol-
tre Po e li farebbero arrivare in barca con una grande cerimo-
nia.»
«In barca?»
«Sì, Eccellenza, in barca. E lui dovrebbe fare il discorso
di benvenuto per i Santi nuovi e poi il discorso di commiato
per i Santi vecchi. Così ha deciso la popolazione.»
«E lui ci sta?» domandò il Vescovo indicando col ba-
stoncello don Candido.
«No, Eccellenza.»
«E cosa fa?»
«Lascia la parrocchia e abbandona al loro destino le ani-
me di quegli squinternati della Pioppina.»
«Se toccate San Mauro e Sant'Ippolito sconsacro la
chiesa!» disse, agitando il bastoncello in aria, il vecchio Ve-
scovo. «In quanto a San Virgilio e a San Venanzio… Ebbe-
ne, se li prendano. La Pioppina avrà quattro Santi protettori.
Gente così balorda è meglio che ne abbia quattro di Santi
protettori anziché due. Comunicalo al parroco della Pioppi-
na.»
«Sarà mio dovere, Eccellenza» rispose don Camillo.
Il vecchio Vescovo si allontanò e don Camillo, agguan-
tato per una spalla don Candido che continuava a stare ingi-
nocchiato sul ghiaietto, lo tirò su e, uscito per la porticina, lo
scaraventò dentro il carrozzino.
Alla Pioppina arrivarono i due Santi da mezza stagione.
Arrivarono in barca e fu una cerimonia grossa.
Ricevettero un caldo benvenuto e poi furono presentati
al Santo invernale e al Santo estivo e si insediarono in chiesa
al fianco di essi.
Presenziò anche don Camillo, come semplice osservato-
re, e, la mattina seguente, corse in vescovado a fare una pre-
cisa relazione.
Alla fine porse al vecchio Vescovo un cestino pieno di
stupendi pomodori:
«Li manda a Vostra Eccellenza il giovane contadino che
è stato qui tempo fa».
Il vecchio Vescovo prese il cestellino e si avviò verso la
porta.
Allora il segretario si precipitò:
«Dia a me, Eccellenza».
«Vade retro!» esclamò il vecchio Vescovo puntando il
bastoncello contro il petto del segretario. «Questa è roba mia
e guai a chi la tocca.»
Andò a chiudersi nel suo studiolo privato e, sedutosi al
tavolo, rimase lì a rimirare la cestellina di pomodori.
E aveva sempre davanti agli occhi la figura del giovane
contadino pallido e lacero, inginocchiato nel giardino.
Poi notò che i frutti turgidi, rossi e lucenti, parevano
tanti cuori.
E gli parve di vederli palpitare.
"Beato paese di Pioppina" sussurrò. "Avevi due Santi
protettori, ora ne hai quattro. Più di quattro… Quasi cinque."
In quello stesso istante un giovane contadino inginoc-
chiato al margine di un campo del più remoto podere della
Pioppina pregava:
«Signore, fammi la grazia che io rimanga sempre pove-
ro sì che io possa sempre avere la consolazione del mio lavo-
ro».
Poi si segnò e, rizzatosi, prese la vanga che stava appog-
giata all'olmo capofilare e incominciò a vangare.
Sull'argine passò un angelo e si fermò a guardare don
Candido che vangava…
Non mi fate scrivere stupidaggini, fratelli! Gli angeli
non passano sugli argini.
Però, qualche volta, dovrebbero passarci. Non è soltanto
una mia idea, ma è anche quella del vecchio Vescovo.
215 LA NICCHIA