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Cappella Brancacci

Gli affreschi della Cappella Brancacci sono un enigma per gli studiosi data la mancanza di
documentazione ufficiale. Commissionati forse a Masolino, che aveva come aiutante il più giovane
Masaccio, si sa solo tramite testimonianze indirette, che dovevano essere iniziati nel 1424 e che nel
1425 vennero portati avanti dal solo Masaccio per la partenza di Masolino per l'Ungheria. Masaccio
partì poi per Roma nel 1428, dove morì nell'estate. Con l'espulsione del committente, Felice
Brancacci, dalla città come antimediceo (1436) gli affreschi vennero definitivamente interrotti e in
parte mutilati dei ritratti della famiglia Brancacci, in una sorta di damnatio memoriae.
La Cappella Brancacci, situata all'interno della chiesa di Santa Maria del Carmine di Firenze
rappresenta uno degli esempi più elevati di pittura del Rinascimento, frutto della collaborazione di
due dei più grandi artisti dell'epoca Masaccio e Masolino da Panicale, ai quali deve aggiungersi
Filippino Lippi, chiamato a completare l'opera circa cinquant'anni dopo. I lavori nella Cappella
della famiglia iniziarono per mano di Antonio Brancacci ma fu suo nipote Felice, un ricco mercante
della seta, tra i protagonisti della scena politica fiorentina nella prima metà del Quattrocento, che
commissionò probabilmente all'atelier di Masolino la decorazione ad affresco, con un ciclo sulle
Storie di San Pietro, il protettore di famiglia. L'opera rimase incompiuta ed è probabile che in quel
contesto vennero martellati via anche i ritratti dei Brancacci e di altri cittadini dell'epoca che si
trovano nella scena della Resurrezione del figlio di Teofilo e San Pietro in cattedra, dove la pittura
di Masaccio si interrompe bruscamente. Non è chiaro se Masaccio lasciò il settore incompleto o se
esso venne mutilato dopo la cacciata dei Brancacci. Il registro inferiore fu dunque l'ultimo ad essere
completato e, si distingue per l'assenza di Masolino, l'evoluzione dello stile di Masaccio (che vi
lavorò dopo essere stato a Pisa) e l'intervento di Filippino.
La Resurrezione del figlio di Teofilo e San Pietro in cattedra è un affresco di Masaccio e Filippino
Lippi collocato nel secondo registro sotto l’episodio del Tributo. La figura di Pietro, tranne i piedi e
il braccio benedicente sono opera di Filippino A Masaccio spetta la scena centrale, dal personaggio
seduto col mantello blu fino alle teste sovrapposte dietro san Pietro, escluso l'uomo vestito di verde.
L'architettura è generalmente attribuita a Masaccio, suo è forse il palazzo sullo sfondo, sue sono le
architetture laterali, mentre è più incerta l'autografia del muro con specchiature in marmo oltre il
quale si vedono alberi e vasi. Se dipinta da Masaccio, come sembrerebbe confermare il diagramma
delle "giornate" dell'affresco, essa sarebbe il primo esempio di un modo di chiudere gli sfondi che
venne ripresa poi qualche decennio dopo da Domenico Veneziano, Andrea del Castagno, Domenico
Ghirlandaio. Con questa soluzione compositiva Masaccio risolse l'annoso problema dei rapporti di
dimensione tra edifici e figure in primo piano: pose queste strutture architettoniche abbastanza in
avanti, in modo da rendere le dimensioni, almeno dei piani terra, sufficientemente grandi e coerenti
per le figure. Di Masaccio è anche gran parte della scena a destra del San Pietro in cattedra, dai
monaci carmelitani (vestiti di bianco) a Pietro, fino al termine. Molto verosimilmente l’episodio era
stato dipinto da Masaccio in misura maggiore, ma la presenza di personaggi antimedicei o scomodi
ne avesse resa necessaria una parziale demolizione. Il San Pietro in cattedra mostra la grande
capacità di Masaccio di modellare le figure tramite l'uso vigoroso di campiture di colore e
lumeggiature contrastanti, che danno un rilievo inedito alle forme. San Pietro è raffigurato sulla
cattedra, significativamente più alta del trono di Teofilo, ed è assorto nella preghiera, imperturbabile
rispetto alle figure che intorno lo pregano in ginocchio. Il gruppo all'estrema destra mostrerebbe
l'autoritratto di Masaccio (che guarda in tralice lo spettatore), Leon Battista Alberti (accanto a lui di
profilo), Filippo Brunelleschi (col cappuccio) e Masolino (a sinistra); il carmelitano corpulento in
piedi, a destra di quello anziano, potrebbe essere un ritratto del giovane Filippo Lippi, allievo di
Masaccio e padre di Filippino. Nel restauro si è scoperto che Filippino coprì un braccio e una mano
della figura ritenuta come l'autoritratto di Masaccio, che era nell'atto di toccare il santo, ma il gesto
che poteva sembrare irriverente, avrebbe potuto essere una riproposta dell'atto devozionale che i
pellegrini compiono sul piede della statua bronzea di San Pietro in cattedra di Arnolfo di Cambio
nella basilica di San Pietro in Vaticano. Il gesto sarebbe quindi interpretabile come la testimonianza
figurata di un pellegrinaggio compiuto da Masaccio, con Brunelleschi e gli altri artisti attorno a lui a
Roma prima del completamento dell'affresco.
La narrazione prosegue sul registro superiore della parete sinistra, con la grande scena (599x260)
del Pagamento del tributo di Masaccio, universalmente riconosciuta come una delle più alte
espressioni dell'arte di Masaccio, databile al 1425 ed eseguita in 32 "giornate". La scena del Tributo,
salvata dalla ridipintura barocca (seicento) della volta, uscì annerita dall'incendio del 1771 che
distrusse gran parte della basilica. I giudizi sull'opera vennero molto influenzati dal suo stato di
conservazione, che faceva pensare a un Masaccio dai colori tetri e "petrosi". Solo con il restauro del
1983-1990 si è potuta riscoprire la brillante cromia originale e sono state eliminate le ridipinture.
Questo celeberrimo episodio, costruito in tre tempi ricomposti però in un unico spazio scenico è un
chiaro esempio del superamento della visione episodica, per parti, tipica del linguaggio medievale,
in favore della visione unitaria e centralizzata del rinascimento. La scena infatti, descrive tre episodi
tratti dal Vangelo di Matteo contemporaneamente: a Cafarnao un esattore della tassa del Tempio
chiese a Pietro se il suo maestro pagasse il tributo e Pietro annuì. Interrogato poi da Cristo su chi
dovesse pagare le tasse, se i figli di re o gli estranei, Pietro rispose gli estranei; per non dare
scandalo allora Gesù lo manda a prendere un pesce in riva al lago, nella cui bocca troverà una
moneta d'argento per pagare il tributo. L'affresco ritrae tre momenti diversi, messi sapientemente in
relazioni da un sistema di gesti e sguardi dei protagonisti. Cristo, imperturbabile ("Date a Cesare
quel che è di Cesare...") intima a Pietro (vestito della veste azzurrina con il mantello giallo), con un
gesto altrettanto eloquente, di recarsi in riva al lago, dove troverà un pesce che nella gola ha la
moneta. Pietro sembra sorpreso dalla richiesta (le sopracciglia sono aggrottate) e indica anche lui a
sinistra, come per chiedere conferma dell'ordine, oltre che indirizzare lo sguardo dello spettatore al
capitolo successivo della storia. A sinistra Pietro, piccolo e solitario, piegato a raccogliere la moneta
dal pesce dopo aver appoggiato il mantello a terra per non bagnarlo (la disposizione così realistica
e espressiva delle gambe dell'apostolo dimostra uno studio dal vero della postura umana).
Contrariamente alla prassi abituale, Masaccio ha relegato il miracolo a una posizione secondaria.
Il gruppo centrale invece mostra Gesù, al centro, che indica a Pietro la riva del lago, attorniato dai
dodici apostoli con ciascuna aureola in prospettiva, mentre davanti a loro, di spalle, il gabelliere
manifesta chiaramente la sua richiesta di denaro allungando la mano aperta e indicando con l'altra la
porta cittadina. Emblematica è nel gruppo degli apostoli la figura a destra, vestita di color vinaccia,
molto ben definita nei lineamenti, con zazzera e barbetta. Secondo alcuni potrebbe essere
l'autoritratto di Masaccio, per altri il committente Felice Brancacci. Con la corta tunica alla romana,
che ne sottolinea l'aspetto pagano, il gabelliere è voltato di spalle e col viso in ombra, secondo la
posizione riservata tradizionalmente alle figure empie come Giuda Iscariota o il diavolo. A destra
infine si vede Pietro che consegna, con una certa solennità, la moneta nella mano dell’uomo.
Importantissima è anche la costruzione dello spazio in cui si svolgono i tre tempi della scena,
regolato dalla prospettiva e dall'osservazione naturalistica, che creano un paesaggio vivo e realistico
come mai visto fino ad allora in pittura. Inedito è anche il trattamento realistico del paesaggio,
soprattutto nei monti erbosi che sfumano in lontananza: niente di più diverso dalle rocce aguzze
usate da Giotto. La prospettiva è quindi unica (ed ha il punto di fuga dietro la testa di Cristo), ma
anche la luce, con le ombre determinate con la stessa inclinazione dei raggi del sole. Oltre che
un'unificazione spaziale, è presente quindi anche una precisa unificazione luminosa, con la fonte di
luce da destra (dove si trovava la finestra della cappella) che determina l'inclinazione delle ombre
(luce divina e umana che si fondono). Cristo è il centro sia geometrico che spirituale della scena. La
disposizione a semicerchio poteva anche derivare dalle composizioni paleocristiane del Cristo tra
gli Apostoli. Il gruppo degli apostoli è disposto nello spazio attorno al Cristo con coerenza e il loro
insieme sembra voler ribadire la volontà dell'uomo e la sua centralità. Da questo solido semicerchio
lo spazio si espande verso l'esterno guidando l'occhio dello spettatore tramite i gesti dei protagonisti
e tramite alcune direttrici, come gli alberi decrescenti. Il paesaggio è scandito da una serie di tronchi
spogli e da profili di montagne che sfumano all'orizzonte, mentre a destra si trovano le articolate
mura della città, con elementi di vuoto e pieno (la loggia ad archi a tutto sesto, la tettoia, i volumi
delle case) che risentono dell’influenza di Donatello (San Giorgio libera la principessa).
Interessante è la relazione tra la posizione dei personaggi (S. Pietro e il gabelliere) inseriti negli
spazi architettonici (arco arretrato, facciata in avanti), che ritrovano un punto di equilibrio visivo ed
espressivo nella collocazione dell’azione (pagamento) coincidente con l’angolo delle mura. Le due
figure monumentali di Pietro e del gabelliere sono saldamente piantate sul suolo e sembra di
percepirne la massa plastica perfettamente sviluppata dal chiaroscuro. E’ più che mai evidente la
tecnica di Masaccio che componeva le figure sinteticamente costruendo i volumi tramite la
giustapposizione di luce e colore, piuttosto che con il tradizionale metodo di definire le forme con
nitidezza per poi dedicarsi alla cura dei dettagli, usata ad esempio da Masolino. L'illuminazione, più
che il disegno di contorno, definisce la forma plastica delle figure, facendole assomigliare a
voluminose sculture. Masaccio non era interessato ad una citazione antiquaria dell'arte romana,
come dimostrano i suoi panneggi che, per quanto realizzati studiando i dettagli delle statue antiche,
non le imitano. In questo Masaccio attuò una vera e propria rivoluzione pittorica, che solo alcuni dei
suoi discepoli riuscirono a capire e attuare. Già all'epoca di Filippino Lippi, che completò gli
affreschi della cappella (anni 1480), essa era stata abbandonata per ritornare a una tecnica che dava
più importanza all'accuratezza del disegno preparatorio e della linea di contorno.
La scena del Tributo viene rappresentata raramente dagli artisti e la sua presenza, oltre che celebrare
la sapienza divina, allude probabilmente all'istituzione del catasto che sarebbe avvenuta di lì a poco
(1427), ma che era già nell'aria: come Cristo accetta la logica terrena di pagare un tributo, così i
cittadini devono sottostare all'obbligo civico di versare le tasse richieste.
L’interpretazione che Masaccio dà dell’episodio evangelico, deriva dalla cultura rinascimentale. Gli
episodi sono narrati tenendo presente la visione profondamente laica dell’epoca che supera i limiti
temporali e spaziali dello svolgersi dei fatti religiosi in una “visione astorica e sovrastorica”.
Astorica (senza storia) perché gli episodi narrati, essendo di carattere religioso, hanno valore
universale che supera i confini della cronologia e li inserisce in un contesto senza tempo che
consente quindi di descrivere luoghi (Cafarnao e Firenze), costumi (abiti romani e rinascimentali),
architetture (mura antiche e case quattrocentesche) in una visione unitaria, utilizzando la prospettiva
e la continuità della narrazione. Sovrasrorica (al di là della storia) perché l’importanza e l’attualità
di tali insegnamenti, religiosi e laici, diventa un contenuto universale che sta al di sopra dello
svolgersi degli eventi, sia del passato che del presente, appartenendo ad un piano ideologico,
intellettuale e religioso, che suggerisce una nuova interpretazione e lettura anche dei testi sacri
(il miracolo in secondo piano, l’accettazione del pagamento, l’importanza dell’azione umana).
Polittico di Pisa
L’Adorazione dei Magi è la parte della predella che si riferisce al pannello centrale del polittico di
Pisa posto in corrispondenza della Madonna con il Bambino in trono e quattro angioli. Raramente
in così piccolo spazio, un pittore è riuscito a convogliare valori così profondi di restituzione del
mondo, delle cose e degli uomini, governandoli ed esprimendone sensi e sentimenti, con cadenze,
ritmi, colori, luce e ombra, qui chiamati a portare a suprema sintesi e all'unisono una visione che
pur si costruisce su eccezionali notazioni analitiche: il basto con le cordicelle e la pelliccia al
disotto, i fili della paglia del tetto, l'aureo seggio della Madonna, le mani dei personaggi, i loro
occhi, le loro capigliature, i loro panneggi. "E gli uomini della corte di que' tre re sono vestiti di
varii abiti che si usavano in que' tempi" dice il Vasari riferendosi di certo non già ai tempi dei Magi,
ma ai tempi di Masaccio perché tutto il corteo ha vestiti e mantelli e cappelli simili a quelli dei
gentiluomini fiorentini, di quell'aristocrazia della quale anche Masolino ci parla nella Cappella
Brancacci. Ancora una volta il modo e il mezzo per attualizzare l'evento. Si notino anche le
strisciate bianche e azzurre del cielo e delle montagne scalate in tre passaggi cromatici che
misurano le distanze giungendo a definire uno spazio infinito. Quattro cavalli ripropongono la
suprema sintesi del mondo e delle cose: anche qui come nella parte dell'Epifania finimenti, criniere,
la coda annodata di uno dei cavalli, i chiodi ribaditi dei ferri sugli zoccoli, le azioni (si veda il
cavallo che si abbevera e il cavaliere che gli allenta le briglie e il morso) e gli atteggiamenti delle
persone, la collocazione variata degli scorci degli animali, conducono uomini e cose alla più
straordinaria coesistenza fisica del Tutto (umano e religioso), in una grande sintesi alla ricerca della
verità e non solo di un mero realismo. E il numero dei cavalli presenti da unire ai tre re magi nella
adorazione di Cristo potrebbe anche adombrare i "sette savi". Nel personaggio dell'estrema destra di
profilo è forse un ritratto di Giovanni detto lo Scheggia, fratello di Masaccio.

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