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Il Commerciante di Sogni

Andrea Cangialosi
(Dicembre 2010)
Preludio

Nelle sabbiose lande di Rub' al-Khali, al flebile fuoco dei bivacchi accesi, ogni madre è so-
lita raccontare una storia, per chetare i figli al sonno. È una storia che, narrata al dimorar
del sole, ha il sapore di leggenda; ma la notte, proprio allora, ogni bambino figlio di madre
del Nefud o del Rub' al-Khali, impara che in quei deserti si aggira un insidioso mercante: il
Commerciante di Sogni, lo chiamano.
I. “Colui che diviene ricco”

Fajr (‫)فجر‬: alba. Il sole è duna fra dune, brucia presto su uomo e animale, su piante e pie-
tra. Già si piegano le schiene, in Ṣalāt (‫)صلة‬, ritmando all'unisono contro il silenzio: chi un
ringraziamento, chi una preghiera, chi una richiesta di benedizione. Un bambino, non an-
cora raggiunti i suoi dieci anni, gioca a catturare un passero dal petto nero che vola basso;
un'aquila, invece, si spinge via, verso i rumori delle distanti dimore, arroccate una sull'altra,
intorno alle sparute fonti d'acqua, di là delle terre stoppose. Veleggiando, il rapace, si libra
sugli imprevedibili gradienti che il paesaggio cela allo straniero: il biancore quasi osseo la-
scia il posto agli ori, poi all'umida sabbia del Tihamah, rossa. Rossa come il mare a cui si
riposa ad abbeverare, l'animale.
Dhuhr (‫)ظهر‬: mezzodì. Nonostante i tendaggi e i tappeti spioventi sulle tavole e i mercati, il
sole è visibile a chiunque alzi lo sguardo; sono in pochi a farlo, in questa terra di uomini di
fede, nessuno dubita che il più caloroso dei compagni l'abbandoni. Distinguibile, fra i fra-
gori dell'agnello al macello, della moneta che salta di tasca in tasca, del sacco che si svuo -
ta e la bisaccia che s'empie, questo popolo pio prega. Odori di spezie e incensi, dal profu -
mi dei pasti; olezzi e miasmi, dalle periferie, all'estremo opposto delle porte delle mura del
villaggio. Dalle stesse, maestose, un serpente di carovane si snoda, facendo breccia nel
fluido asserragliarsi e smembrarsi continuo di gente.
Asr (‫)عصر‬: meriggio. Provocate dal vento, thawb di cotone scuro delineano le linee e le
curve dei corpi, ḥijāb al capo e niqāb innanzi al volto. Nessun lembo di pelle a suggerire
donna da uomo, bensì l'argenteo ornamento, tradizionale fra i Beduini, fuga da ogni incer-
tezza. Le bestie si chinano: non cammelli, prestigio delle tribù benestanti, ma capre di
montagna e pecore; esili comparate ai carichi cui sono avviluppate col cordame, robuste
rispetto alle ombratili figure che si confondono, appiattite là dove il sole stenta ad arrivare,
impedito dalle lunghe e imponenti figure chiamate Jabal al-Hejaz, montagne e antiche ve-
gliarde.
Maghrib (‫ب‬A‫ر‬B‫غ‬D‫)م‬: sera. Nero su nero: notte nera su sabbia nera; scurita dalla lava, arrivata
dagli altipiani del Nejd, dall'Ovest. Ed in questo riparo, a dir poco gelido, altri ripari: tende,
coperte, braci ardenti per scaldare i corpi. Vibrazioni profonde del ṭabl e rapide del ṭār, pel-
le tesa che, percossa, rilassa le membra. Solo un uomo svicola dal perimetro tremolante
circoscritto dal baluginar delle fiamme, il suo nome è Yasir (‫)ياسر‬: “colui che diviene ricco”.

Yasir era lontano dai piedi leggiadri e vorticanti, catturato nelle sabbie mobili delle rimem-
branze. Tale era il pensiero di lei, che non si mosse a lungo. Poi scartò di lato, sfilando
agilmente, ma frettolosamente, uno stiletto. Nell'atto d'impugnarlo con la giusta mano, dal
fodero che portava alla cintola, si accorse che l'ampia veste incominciava già a macchiarsi
del suo stesso sangue. Per nulla infastidito, puntò gli occhi laddove pensava si trovasse
quell'ospite inatteso, pronto a dare il dovuto benvenuto.
II. La rosa e il colibrì

Tasmin era una bambina vivace e attenta: le piaceva trotterellare intorno al padre e punta-
re il dito su animali e cose; e il padre, di una saggezza vetusta, affabilmente deliziava la
piccola con lunghe storie e descrizioni di luoghi d'origine, di viaggi lontani.

Loro stessi, Beduini dai molti cammelli, erano soliti viaggiare: in particolare, Tasmin, ricor-
dava il verdeggiare stupefacente che incontrarono scendendo nel sud-ovest del Paese,
l'Asir. Per lei era come un'altra faccia della Terra, piena di montagne e brughiere, stretti fiu -
mi e minuscoli laghi. Inoltre, lì il padre incontrava altri uomini possidenti di cammelli e non
mancava, mai una volta, di regalare qualcosa a Tasmin.

«È una rosa molto particolare, sai, Tasmin?», riponendo nelle piccole mani un grande boc -
ciolo dai colori giallo-ocra, verso il centro addirittura arancioni.

«Oh, che bella padre! Cos'è? Da dove viene?», con occhi pieni gioia chiese subitamente.

«Questa rosa, figlia mia, è nata in seno al deserto. Si narra che ogni volta che scende una
pioggia sui territori desertici, ogni goccia resti imprigionata nelle sue dune – è per questo
che piove raramente, dicono. Queste minuscole goccioline d'acqua, poi, albergando nel
ventre della terra, incominciano a trasformarsi: si fanno solide e dure...»

«... è per questo che non sono fragili come le rose che conosco io?», l'interruppe curiosa
Tasmin.

«Esatto: sono rose del deserto, rare e preziose...», ma, di nuovo interrotto non poté termi-
nare.

«...ma anche forti e aggraziate!», euforica Tasmin era piena d'ammirazione.

Ancora una volte, il padre, aveva saputo darle quei momenti di felicità, così rari nella sua
breve vita di figlia di un capo tribù molto impegnato. Era arduo per lui, occuparsi della fi-
glia, al posto della madre, morta subito dopo il parto.
Tasmin non smise di rimirare fra le mani quell'oggetto di così stupenda foggia; un giorno,
però, le sue attenzioni dovettero far spazio ad un altro spettacolo. Come sempre, dopo
lunghi e faticosi viaggi, il padre, non tanto giovane ormai, amava riposare in una dimora.
Erano semi-nomadi, e la villa che possedeva la sua tribù era stata passata da capo in
capo: sempre la stessa, sempre segreta. Si trovava infatti, dentro una speciale cinta di
mura, frammista di piante e altri accorgimenti che non permettevano a nessun intruso l'ac-
cesso.

Quel giorno, però, si aspettava un viaggiatore dell'Ovest! Un uomo che aveva camminato
per terre e navigato per acque inarrivabili all'immaginazione stessa. Ma quel che Tasmin
non sapeva, era che recava con sé un oggetto raro: era come una campana, di ferro bat-
tuto, a cui erano stati applicati dei veli, per lasciar trapelar l'aria, ma non troppa luce e ca-
lore. Così, quando i convenevoli furono esauriti e la conversazione d'affari conclusa, la ra-
gazzina che ormai era diventata Tasmin, fremeva per andar dal padre, ma non si presen-
tava. Non appena fu salutato l'ospite e accompagnato da alcuni uomini all'esterno, Tasmin
accorse a vedere.

«Padre, padre, cosa ha portato quell'inviato dell'Occidente?», chiese impaziente.

«Figlia mia, siediti e calma il tuo animo: è importante che tutto sia calmo...», dicendolo,
egli stesso sedette.

Tasmin, un po' turbata, obbedì e sedette, cercando di pacificare il suo umore.

«Adesso, potrò, padre, sapere cosa ha portato quell'uomo di terre lontane?», chiese nuo-
vamente.

«Tasmin, figlia mia, quel che vedrai è una specie molto particolare di colibrì, uno degli uc-
celli più piccoli e colorati al mondo. Ma la particolarità di questo è nel sua ricerca della
compagna: questo piccolo piumato, infatti, non può che volare sbattendo le ali più veloce-
mente di occhio umano, finché non avrà trovato l'amata!», concluse il padre.

Tasmin rimase impietrita. Il padre non era solito parlar d'amore, anzi, era stato molto ac -
corto nell'allontanare qualsiasi possibile pretendente, alla figlia. La voleva a sé, come fi -
glia, sua e della sua adorata moglie. Tasmin capì che qualcosa stava cambiando, lo avver-
tì nell'aria, ma ciononostante non poté prepararsi.

«Tua madre ed io ti abbiamo voluto, abbiamo voluto che tu nascessi; la sua morte, però,
mi ha reso un uomo prudente dei pericoli della vita. Non volevo tu morissi giovane come
lei, ed è per questo che ti ho sempre tenuta nelle camere più nascoste e nelle tende più
custodite...», con occhi lucidi, s'interruppe. Riprese: «i miei giorni, pare stiano per termina-
re oggi, in questi momenti...»

Come cristallo che cade frantumandosi al suolo, il cuore di Tasmin mancò un battito. Il
mondo vellutato e setoso in cui era stata avvolta, adesso appariva irto di spine aguzze, ed
ognuna le attraversava il petto, e la lingua pesante non muoveva, la gola ferma, il viso
esangue.

«Quell'uomo era un medico, l'unico al mondo che ha la fama di guarir tutte le malattie. Ma
la mia, no: è incurabile. È un uomo onesto ed io ne ho fiducia. Pur tuttavia, adesso che è
ormai tardi per me, voglio che tu non rifugga più il mondo, voglio che tu viva questa fugace
vita alla ricerca del tuo ...», cadde una lacrime, e poi si piegò il capo. Tutto il corpo cedette
e si distese con posa innaturale, su tappeti dai fini ricami.

Tasmin, “sorgente nel giardino del paradiso”, da quel giorno, non parlo più a quell'unico
uomo che aveva conosciuto, che aveva amato. Non parlo più a uomo, né a donna: sempli-
cemente, perse la parola.
III. «... come la luna...»

Saltando al collo, disse: «Sei tornata, mamma! Dov'eri?»


Una donna, sciogliendosi la lunga treccia, incominciava a pettinarsi: «Cosa credevi, Yasir,
che non tornassi più? Piccolo mio, lo sai che noi c'incontreremo sempre, come la luna che
entrando, saluta il sole!». Mentre diceva queste parole, una mano dolcemente accarezza-
va il pargoletto.
Yasir restava ammirato, in silenziosa contemplazione della madre, riflessa nello specchio
della camera. Per quanto fosse minuscola, quella scheggia di vetro levigato, bastava ad
ingombrare la totalità della sua vista, della sua attenzione.
«Sempre a far niente, Yasir! Perché non vai fuori ad esercitarti; fai contenta la mamma,
eh?», supportando la sua richiesta con un innocuo ma deciso spintone di gomito. Yasir, ri-
presosi, ubbidì in silenzio, uscendo di filato dalla stanza.
«Vedrai, Yasir, un giorno sarai tu quello che incanterà me, alla vista delle ricchezze che ri-
porterai a casa...»

«Tardavi un altro po' e mi trovavi barbuto e vecchio!», assieme schiudendo le labbra, dice -
va sorridente.
«Non esser insolente, Yasir. Tua madre è qui per te, ogni volta»
«Sì, altro che luna e sole, mamma! L'ellissi accadrà, e non ci sarai più...», non più sorri-
dendo. Stavolta lo sguardo teneva basso, incerto di voler, in anticipo, leggere la risposta
dal volto della madre.
Rimase muta, contrita. Poi, come scacciando via una mosca, in un attimo si premurò di ri -
spondere: «'Ellissi'? Ma dove l'hai sentita questa parola, Yasir? Non mi dire che adesso
vuoi far come quei predicatori di piazza, facendo numeri con le parole, piuttosto che con le
mani!?»
«Be', non proprio. Però era uno di questi signori, mamma, che ha detto così: “è prevista
l'ellissi quando il pianeta”, non ricordo il nome,“incontrerà la posizione”...»
«Smettila Yasir, non ha senso! Intanto si dice 'eclissi', e poi, almeno quel signore ti è stato
utile?»
«Più che utile, mi ha intristito. Dicevo, mamma: “è prevista l'eclissi”, non so cosa, poi, ma
ha concluso dicendo: “e la luna scomparirà”, ...». Con voce strozzata e pugni chiusi, in un
misto di disperazione e indignazione, Yasir aspettava.
«Suvvia, Yasir! Vieni qui!», incontrandolo in un abbraccio, «ormai stai diventando un omet -
to, devi pensare al guadagno, non alle parole di questi signori qui. Noi c'incontreremo
sempre...»
«...come la luna, che entrando, saluta il sole!», disse Yasir risplendendo nuovamente. Oc-
chi scuri e profondi, come legni antichi e pregiati. Capelli né lunghi, né corti, fluenti in ac-
cennati circoli.

Fu un giorno beffardo, che non volle sottostare al ripetersi ciclico dei precedenti, che Yasir
capì molte cose.
Lui era stato fra così tante persone, attento, e da loro, appena intravisto e sfiorato. Assie -
me alle mani, strumento essenziale del sopravvivere, Yasir, aveva acuito il senso dell'udito
e della mente: sentiva e intendeva molte cose, molte parole. Persino più di quante ne
avesse davvero volute: sua madre, per esempio. Quel far tardi la notte, quasi al mattino;
quegli strani segni, sparsi qua e là nel corpo e nel tempo; certi sguardi vuoti e vacui, che
malauguratamente lei si lasciava scappare. Capì che quello che faceva lui, alle spese de -
gli altri, era disonesto, per la legge, mentre quello che faceva sua madre era ingiusto. Non
per la legge, non per la religione, ma per la sua stessa anima. Con troppi pensieri bui,
questa volta, attendeva il suo ritorno: un insieme di certa sventura e cattivo auspicio.

Passi vellutati: «Eccola!», pensò. Un attimo, cos'è questo incespicare?


«Mamma?»
«...»
«Mamma!»
«Non parlare, no, mamma... andrà tutto bene! Adesso stenditi, coricati»
«Yasir...»
«Shhh, non sforzarti; adesso andrò a cercare un guaritore, vedrai...»
«Ya-yasir...»
«...»«Non può essere, sto sognando, non è vero!»
«Noi c'incontr...», tossendo sangue copiosamente, dovette interruppersi.
«Tieni! No, aspetta, faccio io», amorevolmente Yasir fremeva intorno al corpo leggerissi-
mo, troppo leggero della madre.
«Mamma, noi c'incontreremo sempre, come la luna, che entrando....» e pianse, Yasir pian -
se tutte le sventure: l'infanzia solitaria, la presenza esigua della madre, l'assenza di un si-
gnificato da dare alla parola 'padre'; pianse il destino di sua madre, e il suo: e volle rinne-
garlo!

«Per l'ultima notte, hai voluto tornare, ma l'eclissi è arrivata, infine», chiudendole gli occhi,
chiuse i suoi. Tornò ad un ricordo, uno in particolare: «La prossima volta che mi guarderai,
mamma cara, mamma dolce, saranno pieni di incanto per ciò che il tuo Yasir, t'avrà porta -
to...»
IV. Una meravigliosa prigionia

La luce entrava a fatica, mescolando il proprio colore a quello dei tendaggi delle finestre.
Qualche raggio incontrava superfici levigate di statuette e porcellane, altri s'insidiavano fra
i vetri di coppe di vetro e fra variegati gioielli. Alcuni versi lontani di misteriosi animali, fug -
gevoli, arrivavano dalle porte cesellate: forse miagolii di gatti dall'India, forse fruscii di ali
d'uccello. Uno di questi, a dispetto delle ridottissime dimensioni, portava l'epiteto di “ guer-
riero del Sole”, battezzato così dalle arcane culture da dove era stato catturato. Volava in-
cessantemente, senza alcuna frizione, senza alcuna vibrazione apparente.

«Dobbiamo fare qualcosa per te, povera creatura», pensò Tasmin, che sdraiata su di un
ampio ciaciglio, pensierosa, percorreva la stanza con lo sguardo. Poi, si alzò delicatamen-
te e si sedette alla finestra, aprendola. Il caldo afoso toglieva quasi il respiro, ma erano
passati anni da quando le cure e le premure, avevano preservato il suo stesso corpo dalla
tempra del tempo. E si annodava i lunghi capelli in studiate trecce, elegantemente.

«Però non penso tu possa affrontar questo mondo, non è come a casa tua, qui...», si rivol-
se al colibrì col pensiero, Tasmin. Lui, quasi a risposta, vibrò verso la minuscola porticina
della gabbia, con insistenza.

«Forse ha voglia di giocare...», congetturò lei. Attese, però, d'aver concluso d'acconciarsi;
s'alzò lieve, accostandosi ad un lungo tavolo di provenienza cinese, con draghi e lunghe
code ai bordi e ai piedi. Fra le carte sparse, un oggetto occupava con parvente meticolosa
precisione, il centro: un bocciolo di un fiore. Era un fiore pieno di affezionati ricordi, con al -
cune delle foglie meno frastagliate, ma limate da mani o lacrime calde.

«Tu, piccolo e coraggioso fiore, te cavi forse meglio di me. Non t'importa di star solo, non
temi le intemperie, non temi il tempo», rifletteva Tasmin. Mille e mille storie si era racconta -
ta, Tasmin, e vissuto tante avventure con la fantasia: protagonista di imprese e rovinose
gesta, negli altalenanti svolgimenti di sorprendenti storie. Quante storie si era raccontata,
la bella Tasmin? Quante risposte aveva dato al compianto padre, sulla sua tomba, quante
giustificazioni? Le stesse domande sembrava porgli lo sfarfallio rapido del colibrì, che an -
cora tentava di avvicinarsi a lei.

«Faremo un gioco; una scommessa, anzi! Il primo dei due che trova l'amore, vince!», avvi -
cinandosi in punta di piedi, alla gabbia dell'animale. «Un momento, che sciocchi pensieri...
Eppure, il padre mio...». E Tasmin voleva e non voleva misurarsi in una sfida troppo gravo -
sa per le sue sorti, di ragazza dalla delicata costituzione, inadatta alle cattiverie della sven-
tura.
Un po' afflitta, mani a sorreggere il fine viso, non s'accorse Tasmin che la sua controparte
aveva però già accettato: il colibrì le volava intorno, come colmo d'eccitazione, come eb-
bro già dell'amore di cui si preparava alla conquista. Mai era uscito da quella gabbia, mai.
«Mai, nemmeno io, da questa meravigliosa prigionia, sono uscita...», e ritrovandosi a dan-
zare nell'erba fresca dei giardini, aggiunse «... mai lo ero stata, libera, e pronta alla peri-
gliosa ricerca di un'amore!»
V. «... quegl'occhi»

Fra le palme e i vicoli stretti, sopra tetti e per la periferia, Yasir scorreva. Come il 'fiume' di
cui una volta sentì raccontare, si abbandonava alle correnti, ai reflussi della vita stessa
della sua città. Barricato dietro i veli della sua veste e della notte stessa, della polvere e
dei suoi sospiri, guardava: e tutto era ignoto, incomprensibile; volutamente, forse, ma pur
sempre privo di senso.

Tutto tranne quei luccichii, che passando per particolari cinte murarie, vedeva oltre un in-
solitamente fitta vegetazione. Un po' per noia e spavalderia, un po' per fatale timore, si av-
venturò per quella terra altrui.
«È come rubare da una tasca più grande», pensò, «in fondo, è quello che faccio da una
vita!»
Ogni rumore, ogni scalpiccio lo allertava; ma niente lo poteva far demordere: «chi possie-
derà mai tutte queste piante?» «E da dove, l'acqua?». Più continuava a riflettere, più lo
stupore aumentava dinanzi a arbusti mai visti, piccole creature come insetti e animaletti di
mutevole fattura popolavano questo piccolo mondo. «Ogni mondo ha il suo creatore...»,
pensò; e giù per i fili sottili dell'immaginazione, Yasir, si calava in questa nuova dimensio -
ne.
Ad un tratto, aggirato l'ampio tronco di un'annosa pianta di datteri, vide distintamente una
creatura in una pozza. «Che diavoleria è mai questa!?», stava quasi per sbottare, ma re-
sto saggiamente immobile. «Sono in una proprietà, forse in una nazione sconosciuta, che
alberga nella mia città natale...»
«...potrebbe essere una qualche fiera, così indomita da voler continuamente cibarsi...», la
temperatura in quel posto bizzarro scendeva.
«...e quel che m'appare una pozzanghera enorme, un pozzo slargato, potrebbe non esser
altro che un bacino di sangue...», brividi freddi lo attraversarono. Non era fuori, era dentro:
era paura.
«Cosa mi resta da perdere?», realizzò improvvisamente con lucidità; e si mosse.

A piccoli passi, docilmente, cautelandosi di ogni sospetto, indagava la figura che s'appre-
stava pian piano. «Si muove!», trasalì, «è viva!».
«Fuggo?», il tempo di una goccia d'imperlar la fronte, «no, ormai è tardi»
Sembravano distinguere i colori, fra le penombre chiaroscurali, di una creatura che posse-
deva forme alquanto aggraziate, per esser una famelica belva...
«Non sangue, ma acqua; non tentacoli», esultò, «ma capelli...», soggiunse, «così belli...».
E di lì a poco, tutto prese forma, un'insolita forma, che vagamente familiare risultava a Ya -
sir.

A pelo d'acqua, una fanciulla galleggiava beatamente, ignara del sommovimento esterno a
lei. E quanti e quali, i mutamenti in Yasir: «Quelle palpebre chiuse...», fitte al petto.
Ricordi che negli ultimi anni Yasir aveva tenuto sottochiave, più segregati degli averi che
aveva accumulato e che aveva dissipato, in disavventure di gioco e vino: «non devo, non
posso...»
«Ma se vado adesso, sarà come se non fossi mai stato...», commistioni di sentimenti con-
traddittori imperversavano in concitata successione.
«Dovrei forse parlare? Io, furfante di strada, di origini men che umili...», sentiva stringersi,
come annodandosi il collo, tutte le possibilità, vane.
«Le lascerò un fiore!», dimenandosi fra imperativi contrastanti, «...che non si svegli, però,
dal suo fragile sonno...»

Svelto, salì in cima al più fiero degli alberi che lo circondavano e ne colse un fiore: gonfio
di colore, straripante di striature quasi ipnotiche nel loro dispiegarsi. Poi, con cura, col fiato
sospeso nel petto galoppante: il fiore, il fiore non si posò... scivolò! E un'onda ostinata-
mente mirava in direzione del capo della ragazza: «No», urlò muto Yasir.
«Urlerà, chiamerà i famigliari», sentendosi spacciato, «i fratelli, il padre, lo Sheikh (‫)شيخ‬...»
Terribilmente dispiaciuto che un così etereo momento era ora sì tragico, rassegnato pen-
sò: «è la fine!»
Tuttavia, lei aprì subito gli occhi, «...e che occhi...», nemmeno mormorò Yasir; ma la bocca
lei non smise di serrare: «...quali delicate cancellate, qual prigione...», estasiato, Yasir non
tendeva un nervo.

Poi ritornato in sé, si ricordò del posto in cui si trovava, del modo in cui si era introdotto,
della persona di fronte alla quale era in presenza: corse, corse a perdifiato! Si fiondò di
ramo in muro, di corteccia in appiglio, noncurante dello stato delle sue membra, cui richie-
deva uno sforzo sovrumano: fuggì.
Si gettò esanime a terra, sfinito ma pago: un bottino che superava qualsiasi ruberia, qual -
siasi crimine che potesse mai in vita sua congetturare e realizzare...
«... quegli occhi...», bisbigliò. E svenne.
VI. «... non entrerai mai nella dimora del mio cuore!»

“Ricordo soltanto un gran dolore di perdita, un dolore che da dentro mi traversava lancinante il
corpo, dal cuore ad ogni estremità degli arti. Ero ferito, sì, ma più del resto, ero irrimediabilmente
perso, irreversibilmente dimezzato. Inutile rivolgersi ad un cerusico, lo capii da subito che non era
niente di cui potesse, con coltelli o spaghi, operare. Attorno a me, come avvolto da una tempesta di
sabbia, il mondo faceva il suo corso; io seguitavo soltanto.

Non so di esser stato oggetto di processo, non so nemmeno quale fu la pena. Vaghe si susseguono
immagini di diverse traversate, impieghi faticosi, lavori umilianti, offese, soprusi.... ma non voglio
qui rivangare siffatte brutture: ho il tempo contato. Fuori un nocchiero fischia già i motivi del Īd al-
naḥr. Come ad incastro, penso a quel trascorso come il sacrificio della stessa festa, come se stessi per
celebrare il premio del già compiuto sacrificio. E che premio, i tuoi occhi...

Ma se non farò in fretta, non sarà bastevole né la notte né l'inchiostro, che questa penna accetta di
buon grado, non so ancora bene come, ma ne sono grato. Di ciò ho un nitido ricordo: quella notte,
lontano dai fuochi, era appena passato il Maghrib, io ero, come sempre, da quell'istante, divenuto
nomade dei miei ricordi. Qual ricordo, i tuoi occhi...

Ero insanguinato, non gravemente ferito, ma ricordo quel mio sangue cosparso sulle vesta. Lì intor -
no, qualcuno, più che qualcosa, stava per approcciare la soglia del mio percepire: eccolo! Vestito di
tutto punto, sopratutto ricordo quel lungo mantello che nascondeva le membra e quel cappuccio,
che celava l'intero viso. Questa, ad ogni modo, è più fantasia che realtà, e sembrerà il contrario,
quando m'inoltrerò nello squadernare la mappa delle rotte che mi hanno condotto sin qui, da te.

«Il tuo nome è Yasir», fece. E così dicendo si rese distinto, dal fondale ininterrotto dell'oscu -
rità attorniante.
«Chi sei? Come fai a sapere il mio nome?», sbalordito dal messaggio più che dall'apparizio -
ne del messaggero.
«Io so le cose che tu sai, e quelle che non dovresti sapere», la voce aveva qualcosa di distacca -
to, come se delle distanze invisibili si concentrassero all'interno di quelle ampie vesta.
«Cosa vuoi?», ancor più guardingo, cercai di trovar l'appiglio a questa discussione, con un
uomo sì trasversale.
«Esattamente quel che desideri...», rispose. E trovai, in quelle tonalità così distorte come echi
fra montagne mal scolpite, il suo compiacimento.
«Ora mi dirai anche che sai esattamente quel che io voglio, forse?», con scettico muovere,
cercavo di allontanarmi da qualsiasi fosse il suo intento e movente.
«Proprio così. Anzi, più precisamente so cos'è ciò a cui tu aneli...», sospendendo le parole
come a voler che io, proprio io, le continuassi.
«...quel che io sogno...», convinto ormai, di seguire le spirali dei suoi intriganti discorsi.
«...quello per cui adesso vivi e vivevi, quello, solo per il quale continueresti a vivere...», con -
tinuò.
«Non posso credere che tu conosca così a fondo i recessi della mia anima, non posso tolle-
tolle-
rare che si giochi con ciò che mi è di più caro al mondo!», protestai risentito.

«Calmo, bambino d'uomo, calmo. Parliamo di affari, forse ti calmerai...», mellifluo e sobilla -
tore più che mai; ma io, cosa non avevo già perduto che potessi perder ancora?
«I più, Yasir, mi credono una mera credenza popolare, utile solo ad incutere timore e rispet -
to...»
«...fin qui, corrisponde tutto, anch'io, come gli altri, ho udito del Commerciante di Sogni,
prima di dormire», incalzai, «ma; ma, mio caro sconosciuto, chi sei tu per fregiarti del suo
nome? Mostrami un segno della tua identità!», dissi per sgusciare dalle tenaglie delle sue
parole.
«Perché io possa mostrarmi nella completezza della mia potenza, bisogna che sia arrivata
la Isha'a (‫ )عشاء‬mezzanotte, del giorno del sacrificio, giorno di festa del popolo tutto», si
fermò; riprese, poi. «Torniamo a te Yasir, il tuo nome è chiave del tuo mistero, o' uomo che
partecipa di ricchezza...»
«Ne ho abbastanza dei tuoi tranelli, impostore!», esclamai, «ho già perso tempo e sangue
abbastanza...», sempre più turbato, risposi.
«Sei nato e sei cresciuto per questo, Yasir, tu desideri ricchezza, tu aneli il possedere ogget -
ti, nient'altro!», con voce tonante, s'impose.
Non parlai, intimorito.

«E io sono qui per fare un affare con te: io sono qui per venderti il tuo sogno!», e potevo
percepire, come prima, qualcosa che ricordasse una risata, un'incrinatura derisoria nei toni
del riecheggiare. Levò un braccio, o qualsiasi cosa si muovesse al di sotto di quei drappi, e
indicò la luna nel cielo stellato.
Improvvisamente, come un fulmine, la mia vita mi attraversò: tornai bimbo, crebbi, soffrii
nuovamente tutto il dolore e tutto quel …
«... quegli occhi!», nei pensieri, come cantilena soffusa.
«Vedo già che assapori l'offerta, mio caro Yasir!», e senza cambiar posa, «il tempo sta arri -
vando: scegli!», intimò.
«Lo voglio, voglio che tu mi dia il mio sogno!», d'un fiato dissi quel che non ero riuscito a
pensare.

«Bene.»
«Tutto qui? E ora?»
«Ora vedrai cosa hai guadagnato, e a qual prezzo...», ancora quel tono!
«Ma io sapevo che per firmare … servisse della carta e dell'inchiostro!»
«Hai scritto col tuo sangue, sul tuo corpo: non c'è niente di più sacro e vincolante, non tro -
vi?»
«Ma tutte quelle … non c'erano prima! Quando sono arrivate?», sbigottito.
«Sono il tuo sogno: i tuoi averi, le tue ricchezze...»
«Commerciante, devono essersi davvero sbagliati sul tuo conto: tu non vendi, ma regali!»
Rise, o quantomeno ne imitò lo scrosciare fragoroso, ripetendosi in echi numerosi.

«Non ti sei ancora accorto, Yasir, di qual è il prezzo?», mi chiese.


«No, ho tutte quelle … e quei … per portarmi in giro per l'intero …! Posso decider di diven -
tare un ricco …, adesso, oppure un prestigioso …! Proprio non capisco...», confuso più che
mai perché capivo dentro di me che qualcosa era perso, ma proprio per lo stesso motivo,
non riuscivo a cercarne il nome. Il 'nome'...
'nome'...
I nomi!
nomi! Le cose!
cose!
«Tu mi hai derubato delle …! Maledetto … !», m'infuriai.
«E adesso come farai ad avere che hai perduto? No, non l'amore di tua madre, quello sei
stato soltanto troppo cieco e superbo da non saperlo accettare per com'era; mi riferisco a
un'amore ancor vivo, ancor infante...».
E fui certo che, se sotto quel cappuccio vi fosse stato un volto, quello non avrebbe avuto al -
tro connotato che un diabolico ghigno.
«Come farai a conquistarla, Yasir, senza la voce delle tue parole? Come potrai mai dichia -
rarti?», spietato concluse.

«V-va bene, …, è questo quello che vuoi?? Conoscerai forse la mia ..., frugando nei miei …;
ma è solo mio, l'ho vissuto io il mio …. È così, ma non entrerai mai nella … del mio …!
Quel che io provo per le … che ho amato è lì custodito, non lo avrai!»
Presi le mie cose e feci per andare.

Dietro di me, a perseguitarmi, le sue ultime udibili parole: «Inutile che corri, al calar del
nuovo sole, non avrai di che fartene della tua voce! Ah, Yasir. Lo sai perché mi chiamano
Commerciante? Perché vendo dei sogni di poco conto, per ottenere in cambio quelli più pre-
pre-
ziosi...»

Siamo alle porte, sto arrivando! Temo non basterà questa lettera per dirti tutto quel che ho da
dire...”
VII. Dall'uno all'altra, parlarono

Ciò che lei vide fu un unico impetuoso slancio di carrozze, dai baldacchini impreziositi di
gemme. Tra il festar del villaggio, con bestie e uomini, vide ergersi dal di sopra di tutto ciò,
un giovane uomo: lunghi capelli ricci, occhi di una tonalità prima ignota del nero, o forse
del marrone, «... quegli occhi...»
Quel che vide, dal balcone del suo maestoso riparo, fu un unico balzo di un uomo fra guar-
die e uomini di palazzo, gli abiti lo seguivano a stento, così come gli occhi dei presenti e la
sua figura. Ma qualcosa, seguiva qualcosa fissamente: «quegli occhi...»
E quando malconcio e ammaccato, l'uomo e la veste regali e principeschi, gli si vennero a
prostrare, ci volle un po' per capire cose stesse lui impugnando: fra le mani stringeva un
carteggio, apparentemente oggetto del viaggio, importante più della sua stessa vita.
«È forse un ambasciatore?», si chiese. Ma non proferì parola, la fanciulla, si avvicinò len -
tamente.

Quei movimenti, come memoria di cera impressa dal fuoco, ritornava in lei e la muoveva -
no, e muoveva, lei, il suo corpo in direzione del suo. Le distanze che dividevano lo spazio
frapponentisi a loro non durarono che un batter di ala di colibrì. In un rispecchiarsi di ricor-
di e movimenti, lei morì a lui, come il colibrì a lei, quando fu compiuto il suo fato; così lei
quasi fluttuando gli si coricò fra le braccia che ad accoglierla erano ora pronte. Lei volle
per quel momento, per la prima volta, con l'intera sua essenza proferir parola; ma la natu -
ra aveva per lei scelto diversi natali. Lei Tasnim, lei sorgente nel paradiso, ma lei esile e
cagionevole, sorgente arida di parole; seppur ribollente di passione...

I due, in un incanto da loro stessi evocato, per la prima volta congiunti, si guardarono: e
dall'uno all'altra, i loro cuori parlarono e dissero: «Ti amo!»
Epilogo

Si narra ancora oggi di quella che fu la più bella festa che il popolo arabo conobbe mai, la
più felice delle celebrazioni. Proprio nel giorno del Īd al-naḥr, una bellissima ragazza e il
suo novello sposo, elargirono ricchezze di ogni sorta ad ognuno di loro. E al concludersi di
quel magico giorno, le stesse carovane che entrarono cariche, si dipartirono vuote, conte-
nenti soltanto i due passeggeri, nessun altro al seguito.
Ma da quella stessa sera, ogni bambino figlio di madre del Nefud o del Rub' al-Khali, im -
parò che in quei deserti si aggira un insidioso mercante, il Commerciante di Sogni, e che
un uomo lo vinse, conquistando la più bella delle ragazze, a dispetto del malvagio cospira-
tore. Non con le ricchezze guadagnate, non con le parole che non poté mai più dire, ma
con quello che si scambiarono i loro occhi incrociandosi in un abbraccio.

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