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ETICA SECONDO WITTGENSTEIN

ANDREA CANGIALOSI, TEORIA DEI LINGUAGGI DELLA MENTE (AA 2010/11)

«Tutto il mio compito consiste nello spiegare l‟essenza della proposizione»1


«[...]I nostri problemi sono non astratti, ma forse i più concreti che vi siano [...]» 2
«Noi sentiamo che, persino nell'ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri
problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati. [...]»3
«Essenziale alla nostra ricerca è [...] il fatto che con essa non vogliamo apprendere nulla di nuovo. Vogliamo
comprendere qualcosa che sta già davanti ai nostri occhi. [...]»4
«L‟essenziale, credo, è che l‟attività del chiarire deve essere svolta con CORAGGIO: se questo manca, essa di-
venta un puro gioco d‟intelligenza.»5

SOMMARIO

Premessa ................................................................................................................................................................................... 2
Introduzione.............................................................................................................................................................................. 2
0. La proposizione: il retroterra teorico........................................................................................................................... 2

Moore e russell ..................................................................................................................................................................... 2


Russell e Frege ..................................................................................................................................................................... 3
Frege e Wittgenstein .......................................................................................................................................................... 5
Wittgenstein e la critica ..................................................................................................................................................... 7

1. Spazio all‟etica............................................................................................................................................................... 8

Wittgenstein vs Wittgenstein ............................................................................................................................................. 8


Tra ontologia e linguaggio ................................................................................................................................................ 8
Troppa “dottrina” e poca “attività”? .............................................................................................................................. 9

2. Il “senso etico” ............................................................................................................................................................. 10

L‟importanza “di tutto quello che non ho scritto” ...................................................................................................... 10


La “scala” e i “valori” ....................................................................................................................................................... 11
Con te ho salito milioni di pioli, e ora che non c‟è più la scala... ............................................................................ 12
Quando l‟uomo fraintende la sua natura: “la nostra logica del linguaggio” ....................................................... 13
Immaginare il senso del “senso etico” .......................................................................................................................... 14

1 L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916 (d‟ora in poi semplicemente “Q”), (vedi nota seguente) 22.1.15.
2 Id., Tractatus Logicus-Philosophicus (d‟ora in poi semplicemente “TLP”) e Quaderni 1914-1916, Einaudi (2006), 5.5563.
1

3 TLP, 6.52.
Pag.

4 Id., Ricerche filosofiche, Einaudi (1983), 89.


5 Id., Pensieri diversi, Adelphi (1988), pp.47-48.
Premessa

Per l‟elaborazione di questo scritto si è adoperato ampiamente il saggio di Piergiorgio Donatelli Wittgenstein e
l‟etica6 , a tal punto da affiancare alle parti di questo scritto le pagine dello stesso, giusto per segnalare il più
possibile correttamente il contributo – con delle virgolette caporali quando questo è testuale. Inoltre, vengono
citati alcuni passi contenuti nelle Lezioni e conversazioni7 del filosofo, nonché dai Quaderni e dal TLP, princi-
palmente, ed altre opere.

Introduzione

Sarà superfluo affermare che, al fine di trattare l‟autore viennese sotto questo aspetto specifico, si è convinti
che sia presente «una precisa analisi della natura teorica del pensiero morale.» [IX] È opportuno, invece, arriva-
re alla trattazione dell‟etica, passando per la sua natura linguistica, con particolare riguardo alle caratteristiche
del significato proprio della comprensione morale: dal Tractatus ad agli scritti posteriori.
Di fatti, notiamo un rapporto tra filosofia ed etica, per due ordini di connessioni:

1. nel loro statuto teorico, giacché area riflessiva, e non dottrinaria;


2. nell‟analisi del pensiero morale derivata dall‟analisi del pensiero, ovverosia in quanto esame della co-
municazione e comprensione, nella sua unità proposizionale.

La tesi sostenuta in WE è che «secondo Wittgenstein, il significato morale non corrisponde all‟individuazione di
un contenuto, descrittivo, emotivo, o sui generis, ma al modo complessivo di guardare alle cose, alla qualità
della coscienza individuale». [X] Questa verrà sottoposta al vaglio, nella consapevolezza che sarà difficile da
identificare, invero «le osservazioni di Wittgenstein sull‟etica vengono gradualmente a scomparire nella riflessio-
ne matura»; soltanto «la Conferenza sull‟etica, permette di guadagnare una prospettiva sulla direzione di svi-
luppo dell‟etica filosofica di Wittgenstein». [XI]

0. La proposizione: il retroterra teorico

MOORE E RUSSELL

Per centrare al meglio la ricerca, occorre passare per la riflessione dei primi filosofi analitici: Gottlob Frege, G.E.
Moore e Bertrand Russell. Attraverso Moore, la concezione secondo cui «l‟atto di pensiero o di giudizio costitui-
sce l‟afferrare una proposizione che è indipendente dalle nostre menti, e che è espressa dall‟enunciato lingui-
stico che la caratterizza», ma non è coincidente con esso, «entra nella riflessione analitica e domina per alcuni
anni le preoccupazioni filosofiche di Russell».[4]
Da un lato si deve pensare la proposizione come un‟entità di qualche sorta, così da rendere conto del fatto
che noi intratteniamo pensieri, esprimiamo giudizi, con una loro unità che li caratterizza, e non produciamo
semplicemente una lista di costituenti linguistici. Al contempo, tuttavia, la proposizione è composta di elementi
più semplici: «i concetti di Moore, cui Russell dà il nome di “termini”». [4-5]

«La proposizione, in realtà, è essenzialmente una unità, e quando l‟analisi ha spezzato l‟unità, nessuna enume-
razione dei costituenti potrà ricomporre la proposizione» B. Russell, The Principles of Mathematics (1903), trad. it.
I Principi della Matematica, Longanesi (1963), p. 97

Poiché Russell ammette un‟ontologia che è riconducibile infine ad un tipo di entità, trova difficoltà a «mostrare
come tali termini scomposti in una serie si uniscano a formare di nuovo un‟unità». Il problema è quello di come
concepire le relazioni: se pensiamo la relazione che lega due elementi come un elemento essa stessa, allora si
porrà di nuovo il problema di mostrare come ha luogo la connessione tra ciascuno degli elementi originari e
questo nuovo elemento. Russell cerca di porvi rimedio attraverso l‟idea che «uno stesso termine possa svolgere
2

6P. Donatelli, Wittgenstein e l‟etica (d‟ora in poi semplicemente “WE”), Laterza (1998).
Pag.

7L. Wittgenstein, Lezioni e conversazioni: sull‟etica, l‟estetica, la psicologia e la credenza religiosa (d‟ora in poi semplicemen-
te “LC ”), Bompiani (1987).
due ruoli logici differenti: una volta come soggetto logico, e una volta come termine che denota un complesso
di termini».[5]
Egli suggerisce di non considerare le espressioni denotanti come «costituenti della proposizione, bensì come
simboli “incompleti”»: egli ritiene cioè che «l‟espressione denotante debba essere riscritta come una variabile
opportunamente governata dall‟uso dei quantificatori». Tale passaggio nella concezione di Russell è significati-
vo poiché mostra come «il problema della proposizione non risieda nella composizione di quest‟ultima dedotta
dalla sua forma grammaticale apparente, ma nella scoperta della forma logica effettiva».[5-6] Ciò che interes-
sa non è la proposizione, che è la medesima ad ogni momento dell‟analisi, ma «la serie di enunciati che
l‟analisi dispiega nel tentativo di rendere più chiara la forma logica della proposizione». [6]
Nella concezione più tarda, del 1913, rinvenibile dall‟incompiuta Theory of Knowledge, infatti, troviamo rielabo-
rata la teoria del giudizio multi-relazionale [multiple-relation theory of judgment] in modo da includere anche la
forma logica. «L‟unità della proposizione è data dall‟atto di giudizio che presuppone la conoscenza diretta
(acquaintance) non solo degli oggetti che entrano in relazione, ma anche della forma logica, che indica co-
me tali oggetti connessi gli uni gli altri». Se noi comprendiamo una proposizione – «vale a dire afferriamo un
certo fatto» – significa che abbiamo conoscenza diretta della forma logica che corrisponde a quel fatto, e
cioè «a quella combinazione di oggetti». Il fatto può anche non sussistere, e quindi la proposizione può essere
falsa, ma ciò non tocca «la verità della forma logica che è sempre vera indipendentemente dal sussistere, con-
tingente, di una certa combinazione di oggetti».[8]
Il problema dell‟unità della proposizione non sembra ricevere una risposta che sia posta al riparo dalle obiezioni
più tradizionali. La questione è «sapere rendere conto del fatto che ciò che viene conosciuto, ciò che noi affer-
riamo come un certo fatto attraverso la comprensione di una proposizione»; questa «presuppone che tale fatto
sia logicamente possibile, vale a dire che esso manifesti una struttura logica, che è indipendente dalla verità o
falsità della proposizione, ma che rende giustizia della sensatezza della proposizione stessa». Russell suppone,
infatti, «che le forme logiche siano oggetti singoli di esperienza». Egli è consapevole che, se essi sono concepiti
come costituenti della proposizione, ciò comporterebbe un regresso all‟infinito per quanto concerne la relazio-
ne che si occupa di connettere forme logiche e costituenti della proposizione. L‟appello alla forma logica, nel-
la versione russelliana di un particolare “oggetto logico”, «riporta la questione al punto iniziale», sebbene forni-
sca gli elementi che consentono «il passo in avanti compiuto nel Tractatus di Wittgenstein».[9]

RUSSELL E FREGE

Un‟altra via attraverso cui è stata data una risposta al problema dell‟unità della proposizione è quella percorsa
da Frege, almeno in alcuni momenti del suo lavoro. Il problema del regresso, che Russell cerca di evitare in
Theory of Knowledge, sorge infatti «poiché i costituenti della proposizione vengono concepiti al contempo co-
me elementi oggettivi che costituiscono la proposizione e come elementi che sono tenuti assieme da un lega-
me logico». Infatti, se si concepiscono i costituenti della proposizione come «elementi oggettivi già definiti, il le-
game logico, che connette tali elementi di una proposizione, diventa esso stesso un elemento ulteriore che si
rende necessario spiegare».[9]
Il contributo di Frege interviene precisamente su questo punto. Nei Fondamenti dell‟aritmetica egli invita a non
ricercare mai il significato di una parola considerata isolatamente, ma solo nel contesto della proposizione;
questo è il notorio principio di contestualità:[11]

«È sufficiente che l‟enunciato nel suo insieme abbia un senso; attraverso di esso le singoli parti ottengono il loro
contenuto» G. Frege, Die Grundlagen der Arithmetik (1986), trad. it. I fondamenti dell‟aritmetica, Boringhieri
(1965), p. 297

In questo stesso paragrafo dei Fondamenti, egli spiega inoltre che «siamo inclini a ritenere di riuscire ad indenti-
ficare il significato di una parte dell‟enunciato poiché prendiamo l‟accompagnamento mentale di una certa
parola – l‟immagine che ci balena di fronte nel momento in cui pronunciamo o leggiamo quella parola – co-
me il suo significato». Ma se facciamo attenzione a distinguere tra l‟immagine mentale e il significato «– come
Frege invita a fare nel primo principio fondamentale dell‟aritmetica, che stabilisce la distinzione tra logico e
psicologico –» allora non saremo tratti in errore e ci renderemo conto che il significato di una parola è identifi-
3

cabile nel momento in cui afferriamo il senso della proposizione.[11]


Pag.
Il contributo di Frege al problema dell‟unità della proposizione prende una via radicalmente diversa da quelle
percorse da Russell. Le diverse teorie del giudizio si propongono di fornire una soluzione al problema che con-
cerne l‟unità della proposizione. Frege vuole mostrare, invece, come la ricerca di una tale soluzione sia il frutto
di una confusione filosofica. Infatti, la possibilità di «concepire il problema dell‟unità della proposizione si fonda
sulla possibilità di riconoscere i costituenti proposizionali in maniera indipendente dal contributo che essi forni-
scono al senso dell‟enunciato».[11]
È possibile rintracciare lo sconforto di Russell nell‟affrontare il problema ne I principi:

«La proposizione, in realtà, è essenzialmente una unità, e quando l‟analisi ha spezzato l‟unità, nessuna enume-
razione dei costituenti potrà ricomporre la proposizione. Il verbo, quando è usato come verbo, realizza l‟unità
della proposizione, ed è perciò distinguibile dal verbo considerato come un termine, benché io non sappia
dare una spiegazione chiara dell‟esatta natura della distinzione.» B. Russell, I principi della matematica, cit., p.
97

Storicamente, l‟analisi filosofica costituisce per Moore e per Russell l‟avanzamento principale della filosofia che
consente di superare gli errori fondamentali dei filosofi precedenti. Ma se tale nozione non è in grado di spiega-
re l‟unità della proposizione, anzi porta al risultato assurdo che l‟identificazione dei costituenti proposizionali
«coincide con la distruzione dell‟unità», allora «c‟è qualcosa che non va con la nozione di analisi adottata».
Russell, che segue in ciò Moore, la concepisce in termini di «scomposizione quasi-fisica di un intero». Cionono-
stante Russell non vi può rinunciare, qualunque siano i risultati: «ciò non deve stupire considerato il ruolo innova-
tivo e dirompente attribuito all‟analisi».[12-13]
Il principio di Frege, secondo cui l‟identificabilità di un costituente proposizionale è connessa al contributo logi-
co che esso fornisce alla proposizione nel suo complesso, presenta così un‟altra possibilità.

«A differenza di Boole, io parto dai giudizi e dai loro contenuti, invece che dai concetti. [...] La formazione dei
concetti la traggo solo dai giudizi.»
«Pertanto, invece di comporre il giudizio a partire da un individuo come soggetto e da un concetto già forma-
to come predicato, scomponiamo il contenuto giudicabile e otteniamo così il concetto. [...]Paragonerei que-
sto al comportamento degli atomi, di cui si suppone che non se ne presenti mai uno isolato ma sempre in
unione con altri, unione che abbandona solo per formarne una nuova.» G. Frege, Nachgelassene Schriften
und wissenschaftlicher Briefwechsel (1969), trad. it. Scritti postumi, Bibliopolis (1986), rispettivamente pp. 86 e 88-
89

Da una medesima «preoccupazione per l‟oggettività della proposizione», Frege arriva a una «concezione op-
posta a quella di Russell». Infatti, Frege afferma che «l‟analisi filosofica non ci consegna termini autosufficienti
liberi da connessioni con la proposizione nel suo complesso, ma riconosce i costituenti proposizionali attraverso
il loro contributo al senso della proposizione». Secondo Frege, «la scomposizione del giudizio in costituenti identi-
ficabili indipendentemente dal contributo che essi arrecano al giudizio stesso non è un autentico processo di
analisi logica, ma di scomposizione psicologica. L‟unico modo di garantire l‟oggettività dell‟analisi, è quello di
riconoscere che il contenuto – nei termini dei Fondamenti – di un costituente del giudizio è identificabile solo
attraverso il giudizio». Ciò significa che per Frege l‟oggettività è connessa alla «comprensione della categoria
logica sotto cui cade un certo costituente», e quindi delle implicazioni logiche «che connettono gli enunciati in
cui tale parola compare». L‟oggettività, in breve, è una questione di «connessione logica e non di ontolo-
gia».[13] E la logica?

«La logica è la scienza delle leggi più generali dell‟esser vero» Ivi, p. 234

«Frege sembra comunque rimanere ambivalente sull„autentico significato che non vi sono verità logiche. Da
una parte, egli appare consapevole che ciò non possa portare a ritenere che non vi sono affatto verità logi-
che, e che ciò che pensiamo possa rivestire questo ruolo non è altro che un‟insensatezza».
Dall‟altra, egli mostra «la tendenza a ritenere che vi sia dopotutto qualcosa che non riusciamo a esprimere in
modo appropriato e che costituisce il contenuto della verità logica».
In Concetto e oggetto, «quest‟oscillazione» è a dir poco evidente, ad esempio, nel passo seguente:[16-17]
4
Pag.
«[...] ciò che viene asserito di un concetto non può mai essere asserito di un oggetto; un nome proprio, infatti,
non può mai essere un‟espressione predicativa, ma solo una parte di essa. Non voglio dire che sia falso asserire
di un oggetto ciò che qui viene asserito di un concetto, voglio soltanto dire che è impossibile e senza senso»
Id., Über Begriff und Gegenstand (1982), trad. it. Concetto e oggetto, p 385

Frege afferma al contempo che questi enunciati sono semplicemente insensati, e che essi cerchino di esprime-
re ciò che esprimere è impossibile. Questo comporta, però, che vi sia comunque «qualcosa che si cerca di
esprimere, sebbene senza successo». Forse nel seguente passo trapela parte di questa inesprimibilità:[17]

«Devo ammettere che incontro una difficoltà di natura particolare a farmi intendere dal lettore; infatti, per una
certa necessità linguistica, la mia espressione, presa del tutto alla lettera, tradisce il pensiero giacché si men-
ziona un oggetto là dove si intende un concetto. Sono pienamente cosciente di aver fatto affidamento in si-
mili casi sulla capacità del lettore benevolo di venirmi incontro e di non lesinare da parte sua un grano di sale»
Ivi, p. 381(corsivo mio)

Ci basti osservare che Frege presenta «una dissoluzione dell‟idea che vi siano verità logiche che ci istruiscono
sulla natura della proposizione». Wittgenstein, vedremo, risponderà nel Tractatus precisamente a questa ambi-
valenza. Questo tipo di comprensione della logica è legato ad una particolare concezione della filosofia. Fre-
ge ritiene che le ricerche logiche non affermino, bensì «offrono invece delucidazioni [Erläuterung]».[17-18]

«Non si può pretendere che tutto venga definito, così come non si può pretendere dal chimico che scompon-
ga tutte le sostanze. Ciò che è semplice non può essere propriamente definito. [...] Una definizione per intro-
durre un nome adatto a ciò che è logicamente semplice non è possibile. Non ci resta dunque altro che guida-
re il lettore o l‟ascoltatore con dei cenni per fargli capire che cosa intendiamo con quella parola» Ivi, p. 374

Il carattere delucidativo degli enunciati delle ricerche logiche, e della ricerca filosofica più in generale, «è
connesso perciò all‟uso di espressioni figurate che invitano il lettore a fare uno sforzo immaginativo – psicologi-
co – di comprensione dell‟intenzione che muove l‟autore».[18]

«[...] alla fine dobbiamo sempre basarci sulla fiducia che gli altri intendano essenzialmente come noi le parole,
le inflessioni e le strutture d‟enunciato. [...] Io non ho voluto dare definizioni, ma solo dei cenni, facendo riferi-
mento al sentimento linguistico generalmente condiviso da chi parla tedesco» Ivi, p. 375 (corsivi miei)

Si tratta di un‟indagine «che non ha quindi la natura assertiva del linguaggio stesso», ma che ricade altrove: in
questo caso, tuttavia, «si tratta di un uso intenzionale e consapevole dell‟immaginazione». Frege ha espresso
questo punto, «vale a dire che non vi sono, propriamente, riflessioni sopra la natura del linguaggio, ma solo de-
lucidazioni che appartengono al regno dell‟immaginazione e non della discorsività». Possiamo affermare, con
Donatelli in questo senso, che Frege ha sostenuto «una concezione universalistica della logica, che si oppone a
una concezione di essa come calcolo logico».[19-20]

«[...] esse [le leggi della logica] sono leggi più generali, le quali prescrivono come si debba pensare ovunque,
in generale, si pensi» Id., Grundgesetze der Arithmetik, begriffsschriftlich abgeleitet (1903), p. 477-594; trad. it. I
principi dell‟aritmetica, pp.485-486 (corsivo mio)

FREGE E WITTGENSTEIN

Come si configura il pensiero di Wittgenstein, al crocevia del percorso ereditato da Frege e Russell? Nel periodo
dello scritto Note sulla logica del 1913, questi obietta a Russell:

«Quando diciamo: A giudica che ecc., allora dobbiamo menzionare un‟intera proposizione giudicata da A.
Non possiamo limitarci a menzionare solo i costituenti della proposizione, o i costituenti e la forma di essa, ma
5

non nell‟ordine giusto. Ciò mostra che una proposizione deve occorrere essa stessa nell‟affermazione che essa
Pag.

è giudicata» L. Wittgenstein, Note sulla logica, in appendice a TLP, p. 249


Sembra mostrarsi una prospettiva molto vicina alla ricerca fregeana, in particolare l‟imprescindibilità del conte-
sto: egli infatti rifiuta di considerare l‟analisi della proposizione in costituenti, indipendenti dalla proposizione,
come spiegazione del giudizio. In secondo luogo, inoltre, respinge l‟idea stessa di fornire una teoria del giudizio.

«Giudizio, domanda e comando stanno tutti sullo stesso livello. Ciò che interessa alla logica è unicamente la
proposizione non asserita» Ivi, p. 248

Ciò che si deve offrire è una chiarificazione della natura della proposizione, il resto appartiene alla psicologia: il
russelliano intervento del soggetto è qui visto come un‟innecessaria ingerenza nel «campo della logica».[21]
Vediamo ora come Wittgenstein s‟impegni nello spiegare in che modo una proposizione sia in grado di espri-
mere un senso. E un tributo a Frege è riscontrabile proprio nella proposizione 3.3 del TLP. Wittgenstein, però,
prende le distanze dalla rinuncia fregeana di fondare la logica e ricercarne le leggi – se non in maniera insen-
sata. Egli sviluppa la propria posizione rispondendo con forza al «suo limite ineffabilista»8.[22]

«La logica deve curarsi di se stessa.


Un segno possibile deve anche poter designare. Tutto ciò che nella logica è possibile è anche legittimo [...]»
TLP, 5.473;
«Frege dice: Ogni proposizione legittimamente formata non può non avere un senso; ed io dico: Ogni possibile
proposizione è formata legittimamente, e, se non ha un senso, è solo perché noi non abbiamo dato un signifi-
cato ad alcune delle sue parti costitutive.
(Anche se crediamo d‟averlo fatto.)
Così “Socrate è identico» non dice nulla, perché alla parola “identico” quale aggettivo noi non abbiamo dato
alcun significato [...]» TLP, 5.4733 (corsivi miei)

Non potendo così formare proposizioni illegittime avremo: o proposizioni, o nulla. L‟inciso, inoltre, il “crediamo”,
riguarda la sfera psicologica del soggetto, e non tange quindi la logica. Wittgenstein intende superare
l‟impasse dell‟inesprimibilità, sostenendo che l‟insensatezza nasconda piuttosto un contenuto, di là
dell‟impossibilità stessa d‟esprimerlo linguisticamente.[23]
L‟atteggiamento che emerge qui è quello – ancor una volta fregeano – del “prendere l‟aritmetica formalistica
sul serio, vuol dire superare [Überwinden] l‟aritmetica formalistica”9; ovvero portare una linea di pensiero alle
estreme conseguenze, fino ad assistere al suo collasso – qualcosa che sarà esemplificato dall‟intero TLP.
Nonostante l‟espressione linguistica a cui si perviene risulti necessariamente insensata, essa appare comunque
«insensata in maniera riconoscibile»: ci si rende conto di «un tradimento del pensiero», del linguaggio; qualcosa
colto ma inesprimibile sensatamente. «La diagnosi di Wittgenstein è che ciò accade poiché noi confondiamo
e sovrapponiamo la parte sensibile della proposizione, il segno, con la parte sensibile di una proposizione ge-
nuina che noi associamo ad essa».[24]
La nostra aspettativa riguarda solo la psicologia, un‟«attesa» di trovar qualcosa che esprima la predicazione
intorno Socrate, empiendo il vuoto lasciato da “identico” come aggettivo. Questa, «aiutata
dall‟immaginazione, riempie di senso l‟enunciato, ma ci rendiamo conto a questo punto che un tale riempi-
mento» è logicamente nullo. “Crediamo”, appunto, “d‟averlo fatto”: «dare un significato ad un segno non è
questione di associare ad esso una certa idea», ma dipende dalle «capacità espressive di tale segno che sono
connesse al contributo che il simbolo in questione offre alla proposizione nel suo complesso».[25]

«L‟espressione ha significato solo nella proposizione. Ogni variabile può concepirsi quale variabile proposiziona-
le» TLP, 3.314.

Wittgenstein impugna le stesse armi di Frege, la distinzione fra logica e psicologia. Inoltre spiega le ragioni
dell‟occorrenza di un nonsenso, ovvero «dell‟aver operato una costruzione illegittima». Ricapitolando, pare che
nel momento stesso in cui «vi possa essere qualcosa come un simbolo illegittimo», ciò significa che è «possibile
riconoscere la struttura segnica dell‟enunciato indipendentemente dal senso».
6

8 Con WE noi riportiamo la seguente affermazione di Frege: «”Conchiuso” ed “insaturo” sono solo espressioni figurate, ma qui
Pag.

io non voglio e non posso far altro che fornire dei cenni» G. Frege, Concetto e oggetto, cit., p. 386 (corsivo mio).
9 G. Frege, Fondamenti dell‟aritmetica, cit. II, § 139.
Ciò implica anche «sostenere che i costituenti della proposizione sono identificabili indipendentemente dal
contributo che essi offrono al senso della proposizione». Wittgenstein accompagna Frege sin al ciglio delle sue
teorie, per poi gettarlo nell‟abisso della contraddizione.
Ancora una volta, con WE affermiamo che il TLP, nella sua interezza, sia «un modo di mostrare che il linguaggio
è di per sé espressivo».[26] Il linguaggio non è un segno necessitante «un contributo esterno al suo operare per
essere in grado di esprimere sensi, e quindi parlare di fatti. Il linguaggio ha per sua natura tale capacità espres-
siva, e se non vi è tale espressività, allora non vi è neppure linguaggio.»[26-27]

«Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto, si può dire chiara-
mente; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.
Il libro vuole, dunque, tracciare al pensiero un limite, o piuttosto – non al pensiero stesso, ma all‟espressione dei
pensieri [...].
Il limite non potrà, dunque, venire tracciato che nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite sarà semplicemente
un nonsenso [einfach Unsinn]» TLP, Prefazione

Si mostra qui l‟opposizione tra linguaggio e nonsenso, nell‟ultimo rigo citato, la «distinzione tra ciò che si può dire
e pensare, e ciò che non si può né dire né pensare». Ma “per tracciare un limite al pensiero, noi dovremmo [...]
pensare quel che pensare non si può”, scrive giusto nel rigo precedente.
L‟idea che vi sia qualcosa che «si può dire e qualcosa che non si può dire» potrebbe spingerci a supporre che il
filosofo viennese «si prefigga di tracciare al pensiero un limite attraverso la delineazione dei fondamenti della
“logica del nostro linguaggio”, da cui derivare ciò che è permesso fare e ciò che non lo è». E questo coinvol-
gerebbe inevitabilmente il contenuto stesso del parlare.[27]

« Per riconoscere il simbolo nel segno se ne deve considerare l‟uso munito di senso» TLP, 3.326

I sensi sono «derivati dall‟applicazione delle regole della sintassi logica alla formazione degli enunciati». Secon-
do quest‟immagine noi «non riconosciamo il simbolo nel segno, ma deriviamo per inferenza la presenza del
simbolo dal riconoscimento della struttura sintattica del segno». Da qui la possibilità di riconoscere indipenden-
temente «l‟articolazione logica della proposizione» dal senso che questa «esprime».[28]
Ritornando sempre alla prefazione, si tratta di “tracciare un limite”, che infine avremo, da una parte «le strutture
segniche dotate di senso», e dall‟altra una «regione» contenente le «strutture prive di senso». Ma questo se fos-
se possibile, «circoscrivere una regione inesistente», «si dissolve[rebbe] interamente il progetto di fornire una
demarcazione tra linguaggio sensato e insensato». Se l‟una è inesistente, l‟altra non è identificabile: resta
un‟”espressione figurata”, quella che additavamo come “logica del nostro linguaggio”.[29]

WITTGENSTEIN E LA CRITICA

Vi sono diverse letture del TLP che «elaborano l‟immagine della limitazione del senso» ma, per quanto possibile,
non si vuole qui entrare nel merito, al più avere una visione d‟insieme, a volo d‟uccello.[31]
Semplificando, parleremo di una lettura neopositivista (Carnap, Baker e Hacker, Stenius) e una kantiana
(Pears). Per entrambe, le espressioni di Wittgenstein «circa il proposito di tracciare un limite al pensiero vanno
prese alla lettera». Queste concordano sul ritenere che la teoria del significato inerisca ad un carattere kantia-
no, metafisico: che serva ad «orientare un sistema di conoscenza fattuale», fornendo dei «punti nozionali di rife-
rimento che giacciono al di fuori di esso».[30] Differiscono, però, nella «natura dei requisiti stabiliti dalla teoria
filosofica». Ad esempio, Baker e Hacker hanno elaborato la demarcazione considerandola «come la descrizio-
ne di una certa istituzione – quella della sensatezza», sulle «linee del modello delle istituzioni legali».[31]

«Si potrebbe dire che l‟insensatezza è simile a una sanzione naturale collegata alle regole della sintassi, così
come l‟invalidità è simile a una sanzione naturale collegata alle leggi che stipulano la modalità di esercizio dei
poteri legali» G.P. Baker – P.M.S. Hacker, An Analytical Commentary on the «Philosophical Investigations», II,
Wittgenstein. Rules, Grammar and Necessity (1985), pp. 34-41
7

Il nonsenso risulta essere una «sanzione», poiché non descrive alcuna «natura costitutiva del pensiero umano».
Pag.

Dal nonsenso non seguono le implicazioni che consentono a quell‟espressione di aver un «ruolo nello spazio lo-
gico definito dal linguaggio». Seguendo una prospettiva kantiana, invece, parleremo d‟idealismo linguistico, o
«lingualismo trascendentale»: ma la regione delimitata al di fuori del linguaggio, sarà proprio quella che conter-
rà «la sostanza». Infatti – stando letteralmente alle proposizione in chiusura del TLP – si trova « che tutto ciò che
più conta nella vita – l‟etica, il mistico, il senso delle cose – giace al di là dei limiti della sensatezza».[32]

1. Spazio all’etica

WITTGENSTEIN VS WI TTGENSTEIN

Cerchiamo ora di seguire il percorso del TLP: questo si apre con una serie di affermazioni che riguardano
l‟ontologia – «il mondo, la sostanza del mondo, i fatti, gli oggetti ecc. –, e procede lungo la sua rotta fino a in-
cludere il linguaggio e la relazione che intrattiene con il mondo».[33] Effettivamente sembrerebbero esserci
elementi a sufficienza – sintassi logica, ontologia formale (mondo, oggetti e formazione di complessi) – tali da
concludere che Wittgenstein voglia qui esporre una «teoria del significato e «contribuisce paradossalmente a
sostenere l‟idea opposta che non si tratti affatto di un‟opera di questo tipo».[34] Al principio della Prefazione
ritroviamo “Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espres-
si – o, almeno, pensieri simili –. Esso non è dunque un manuale [Lehrbuch]”. Nulla di strano, dunque, nei passi:

«La filosofia non è una dottrina [Lehre], ma un‟attività» TLP, 4.112


«La logica non è una dottrina, ma un‟immagine speculare del mondo» Ivi, 6.13

La forte lettura suggestionata da WE ci intima la seguente: «non cerchiamo una teoria, se non cerchiamo una
soluzione a un problema, ma siamo pronti a trovarci di fronte a una dissoluzione del problema»; ebbene, «allora
leggeremo in modo affatto differente le affermazioni che compongono l‟opera».[35]

«Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che il metodo di formulazione [Fregestellung] di questi pro-
blemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio» TLP, Prefazione (nostro corsivo)

«Non sembra molto difficile leggere il Tractatus in questo modo, se facciamo valere il tipo di comprensione che
di tali questioni ci ha consegnato Frege (o almeno una linea di pensiero rintracciabile in questo filosofo)». Se
leggiamo il Tractatus dopo quella lezione di Frege, sembra chiaro che Wittgenstein non voglia «fornire una solu-
zione (costruttiva) al problema di come comporre la proposizione da elementi pre-poposizionali – di come di-
segnare il contorno della sensatezza dall‟esterno – ma mostrare che questa formulazione del problema – che vi
siano elementi pre-poposizionali con cui costruire la proposizione –»; e, inoltre che tutto ciò nasca da «un frain-
tendimento della logica del nostro linguaggio».[36]

«Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque,
proposizioni della scienza naturale - dunque qualcosa che con la filosofia nulla a che fare –, e poi, ogni volta
che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha
dato significato alcuno. Questo metodo sarebbe insoddisfacente per l'altro - egli non avrebbe la sensazione
che noi gli insegniamo filosofia –, eppure esso sarebbe l'unico metodo rigorosamente corretto» Ivi, 6.53

TRA ONTOLOGIA E LINGUAGGIO

Il compito del TLP è quello di «mostrare l‟inconsistenza di una certa immagine del fenomeno della comprensio-
ne, secondo cui ciò che accade in atti genuini di comunicazione è che noi associamo un senso a un segno
proposizionale». Il punto del TLP è quello di mostrare che questa situazione è il frutto di un “fraintendimento”.
Wittgenstein sostiene che «crediamo di raffigurarci qualcosa, ma che a questa illusione di natura psicologica
non corrisponde niente» – in somma, quanto detto riguardo 5.4733. Il riconoscimento della presenza di un “sim-
bolo illegittimo” (5.473) è già qualcosa come «l‟intravvedere la forma logica corretta dietro quella illegittima,
scorgere il senso dietro la manifesta insensatezza». Ma quale questo sia, resta imprecisato.[37] È questa l‟altra
8

faccia della medaglia del “tutto ciò che possa essere pensato può essere pensato chiaramente[, t]utto ciò
Pag.
che può formularsi può formularsi chiaramente” (4.116). «Il senso come un‟entità sconnessa dall‟enunciato che
dovrebbe esprimerlo, ma comunque in qualche modo presente dietro l‟insensatezza».
Il Tractatus non è quindi il problema di come far sì che il linguaggio tocchi la realtà, tutt‟altro: «mostrare come
la proposizione, per sua natura, esprime sensi, e quindi raggiunge la realtà» o in quanto linguaggio o in quanto
«immaginazione soggettiva». Ebbene, come sia possibile che «noi fraintendiamo questa capacità interna al
linguaggio, e arriviamo a scambiare l‟insensatezza come un senso nascosto e indiretto (come facciamo
usualmente in filosofia, alla quale – solo alla quale – si rivolge l‟ingiunzione – alla lettera, ma anch‟essa andrà
compresa “con intelligenza” –» della settima proposizione. [38] Da una parte v‟è “la logica che si deve prende-
re cura di sé” (5.473), dall‟altra c‟è il «vuoto lasciato aperto dalla logica». I problemi filosofia riguardano «noi»:

«Tutte le proposizioni del nostro linguaggio comune sono di fatto, così come esse sono, in perfetto ordine logi-
co» Ivi, 5.5563

Comprendere una proposizione non significa «afferrarne il senso concepito come un‟entità intermedia fra
l‟enunciato e la realtà».[40] Al centro dell‟opera v‟è la condizione umana, quando gli individui «scambiano il
nonsenso per il senso, quando credono di comprendere e sono invece nella morsa di un‟illusione filosofica».
Qui sta la fortissimamente voluta assenza di un dottrina, per lasciar posto all‟incoraggiamento per «un cam-
biamento personale», per “un‟attività” (4.112).[39]

«Se il mondo non avesse una sostanza, l‟avere una proposizione senso dipenderebbe allora dall‟essere un‟altra
proposizione vera» Ivi, 2.0211
«Sarebbe allora impossibile progettare un‟immagine del mondo (vera o falsa)» Ivi, 4.0212

Di fronte alla palese esistenza del linguaggio, s‟inferisce l‟esistenza della sussistenza degli oggetti. Tale sussisten-
za tuttavia è sullo stesso piano della «capacità espressiva degli esseri umani».
Se vi è una priorità «non è quella dell‟ontologia né del linguaggio, ma di tale capacità espressiva».
Gli oggetti non sono identificabili in nient‟altro che nella possibilità che essi ricorrano in stati di cose (TLP, 2.0123).
Questo è il perché dell‟apertura ontologica del Tractatus. Che il linguaggio sia «intrinsecamente espressivo di-
pende in ultima analisi dalla sussistenza degli oggetti semplici», e quindi degli stati di cose e della totalità delle
possibilità di concatenazione (e quindi del mondo tutto).[43]
Gli oggetti, in ultima battuta, «entrano nella scena per essere riassorbiti nella parte che è loro assegnata» al lin-
guaggio: il TLP non ha carattere «fondazionale», bensì di «delucidazione della natura della comprensione».[44]
L‟analisi «non scopre elementi che possiamo indicare come mattoni con cui costruire» la proposizione. La filoso-
fia non ha questo scopo costruttivo, ma ne ha uno «delucidativo nei confronti di quello che è il nostro comune
linguaggio».[45]

TROPPA “DOTTRINA” E POCA “ATTIVITÀ”?

Percorso dalla Prefazione alle dottrine sull‟ontologia e sulla natura della proposizione, non resta che dedicarci
al finale. La proposizione 6.54, con tutte le sue problematiche e assonanze al modus cogitandi fregeano, ha
dato ampio spazio di gioco alla critica. Questo è quanto scrive il contemporaneo Russell, nell‟Introduzione:

«Wittgenstein, nonostante tutto, riesce a dire molte cose intorno a ciò che non può essere detto, suggerendo
così al lettore scettico che vi possa essere una qualche scappatoia[...].
Tutta la materia dell‟etica, ad esempio, è da Wittgenstein ubicata nella regione mistica, inesprimibile. E, tutta-
via, egli riesce a comunicare le proprie opinioni etiche. Wittgenstein potrebbe difendersi replicando che ciò,
che egli chiama il Mistico, può essere mostrato, pur non potendo essere detto. Può essere una difesa plausibi-
le. Tuttavia, io non possono non confessare che essa mi lascia con una sensazione di disagio intellettuale»

Questo basti, per il momento, come contradditorio. La linea principale di critica, generalizzando, ritiene che
Wittgenstein affermi che il compito del TLP sarà raggiunto quando avremo «compreso le sue proposizione e le
avremo riconosciute come insensate».[49]
9
Pag.
«Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate» (corsivi nostri)

Quel che dobbiamo comprendere è l‟autore, le sue intenzioni nello scrivere questo libro, tenere strette fra le
mani tutte le proposizioni, finché – arrivati a 6.54 – ci accorgeremo di stringere solo fumo. Non si tratta di inven-
tare nuove forme di comprensione, «ma tenerci saldamente attaccati all‟unica forma di comprensione» che
poi è anche «il desiderio di sostenere che la forma di comprensione è l‟unica possibile» (il regno della sensatez-
za): tutto ciò, appare alla fine insensato.[51] L‟atteggiamento del lettore va rivolto nei confronti di sé, della pro-
pria vita: “la volontà è una presa di posizione del soggetto verso il mondo” (Q 4.11.16) e quindi la vita – dato
che “il mondo e la vita sono tutt‟uno” (5.621).
Diego Marconi ha posto questo fertile interrogativo:

«Com‟è possibile operando col linguaggio – parlando, scrivendo – cambiare il nostro punto di vista sul lin-
guaggio senza che ciò significhi formulare una “teoria del linguaggio”?» D. Marconi, Wittgenstein e la filosofia,
Introduzione a F, pp.VII-XXXVII, alla p. XXI

Forse proprio seguendo il percorso suggerito dal filosofo: «farle in primo luogo nostre immaginativamente e
quindi a non sentirle più come nostre, e cioè (ed è la stessa cosa) a non riuscire più a leggere in esse alcun sen-
so». Resta aperta la possibilità di qualcosa come “visione giusta”, anche se non esprimibile e ciò è connesso
«innanzitutto alla mancata risposta alla richiesta di Wittgenstein di überwinden le proposizioni del Tractatus, cioè
di lasciarle dietro di sé», come la “scala” che si getta via.[53]
Wittgenstein riprende «l‟oscillazione per quanto concerne la natura di tali espressioni figurate» fregeana: da
una parte richiedenti immedesimazione psicologica, dall‟altra sentore di un pensiero celato. Egli «risolve netta-
mente nella prima direzione»: le espressioni filosofiche sono insensate «e non si tratta di comprenderle, ma solo
di usarle in un esercizio immaginativo per superare il bisogno di sicurezza che ci porta a richiedere una garanzia
esterna per la logica del nostro linguaggio».[54]
Seguendo «la linea di pensiero di Frege saremo inclini a ritenere che Wittgenstein mostri come la necessità di
affermare una tale distinzione», tra senso e non senso, e la sua necessità, «è il frutto di un‟esigenza di sicurezza a
cui si deve porre riparo altrimenti – non cambiando la logica, ma cambiando gli esseri umani».[55]

2. Il “senso etico”

L‟IMPORTANZA “DI TUTTO QUELLO CHE NON HO SCRITTO”

È celebre, ma forse non abbastanza, il contenuto di una lettera che Wittgenstein scrisse all‟editore della rivista
«Brenner» cui si era rivolto ai fini della pubblicazione del Tractatus.

«[...]dalla lettura [...] non ne tirerà fuori un granché. Difatti Lei non lo capirà; l‟argomento Le apparirà del tutto
estraneo. In realtà, però, [...] il senso del libro è un senso etico. [...]Ad opera del mio libro, l‟etico viene delimita-
to, per così dire, dall‟interno; e sono convinto che l‟etico è da delimitare rigorosamente solo in questo modo. In
breve, io credo di aver fissato nel mio libro, appunto in quanto ne taccio, tutto ciò di cui molti oggi parlano a
sproposito» L. Wittgenstein, Briefe an Ludwig von Ficker (1969), p.35, trad. it. Lettere a Ludwig von Ficker (1974)

Vediamo, quindi, come tutta la trattazione wittgensteiniana inerente alla proposizione non sia altro che “l‟etico
delimitato” dall‟interno per far spazio all‟etica. Su questo egli stesso scrive, nella Prefazione del TLP:

«[...] ritengo, dunque, d‟aver definitivamente risolto nell‟essenziale i problemi. [...] Il valore di quest‟opera consi-
ste allora, in secondo luogo, nel mostrare a quanto poco valga l‟essere questi problemi risolti»

Dalla proposizione 6.4 alla 6.522: è in questo modestissimo spazio che il filosofo viennese ritaglia il resto della ri-
cerca non prettamente logica. Eppure «vi sono molti indizi» che «spingono a ritenere che l‟indagine etica non
10

sia ristretta» a queste proposizioni conclusive.[67] La posizione di queste, di commento alla sesta proposizione
principale, denota la connessione dell‟etica «alla natura della proposizione».
Pag.
Anche queste costituiscono, però, assieme alle proposizioni sulla logica, pioli della «scala che dobbiamo getta-
re, se abbiamo compreso l‟intenzione dell‟autore»?[68]

LA “SCALA” E I “VALORI”

Ci destreggeremo ora rapidamente fra alcune interpretazioni della critica. Abbiamo delle «elaborazioni» pre-
sentate «in linea» con Wittgenstein, quali quelle, per quanto assimilabili, di Carnap – emotivista – ed Ayer: «o
l‟etica è riconducibile a descrizioni di fatto, e allora non è etica, oppure non è riconducibile ad esse, e allora è
insensata».[70]

«Il senso del mondo dev‟essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene, non
v‟è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore.
Se un valore che abbia valore v‟è, esso dev‟esser fuori d‟ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed
essere-così è accidentale.
Ciò che li rende non-accidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale
[..]». TLP, 6.41
«Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell‟etica.
Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto.» TLP, 6.42

L‟argomento portato avanti qui «appare analogo a quello di Carnap», eppure v‟è una netta distinzione tra
“fatti“ e “valori”. I primi sono “accidentali” [zufällig]10 e sono il mondo (vedasi TLP, 1). Ciò che non lo è, sta fuori,
invece, come la logica. Sta qui l‟analogia fornita in TLP alla 6.13.[73] Eppure, la carnapiana demarcazione tra
senso e nonsenso – simbolo ben formato e malformato – non è il risultato a cui approdiamo leggendo il Tracta-
tus con ben in mente la Prefazione:

«Il limite non potrà, dunque, venire tracciato nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite sarà semplicemente un
nonsenso».

Non troviamo dunque quel «superamento della metafisica» o «critica dell‟etica e della teologia» radicalmente
emotivista. Abbiamo piuttosto una caratterizzazione del valore come «un modo per vedere le cose, dall‟alto»
“sub specie aeterni” (TLP, 6.45), sulla condizione della vita, dell‟esistenza e della felicità (TLP, 6.43 e 6.41), che
arriva a coinvolgere il senso stesso del mondo e della vita (TLP, 6.41 e 6.521).[74-75]
Se indaghiamo intorno al concetto di “soggetto metafisico” (TPL, 5.6-5.641) troviamo delineata una sorta di «re-
lazione etica col mondo da una parte», distinta da quella «conoscitiva».[78] Questo soggetto intrattiene con il
mondo una relazione che lo muta completamente, «di modo che non è più possibile scomporre il contributo
offerto dal soggetto da quello offerto dal mondo» – e viceversa.[76]

«[...]In breve, il mondo allora deve perciò divenire un altro mondo. Esso deve, per così dire, decrescere o cre-
scere in toto.
Il mondo del felice è un altro mondo che quello dell‟infelice» TLP, 6.43

Vi sono inoltre proposizioni (TLP, 6.522) inerenti al “Mistico” che hanno suscitato delle interpretazioni ineffabiliste:
queste vogliono «stabilire il carattere contenutistico», e l‟importanza «rispetto alle altre aree del pensiero uma-
no», dell‟etica. Eppure, stando a quanto detto nella lettera a von Ficker, non v‟è altro che il libro stesso, nessun
contenuto da «afferrare indipendentemente dalla forma», qualcosa di rivelato «oltre la manifesta insensatezza
dell‟espressione linguistica».[77] Un importante riscontro si ha anche nella lettera al traduttore inglese Ogden.

«Sono veramente molto dispiaciuto di non poterle mandare i supplementi. Non vi può essere alcuna ragione di
stamparli. [...] I supplementi sono esattamente ciò che non deve essere stampato. A parte che NON CON-
TENGONO VERAMENTE ALCUNA DELUCIDAZIONE [...]» L. Wittgenstein, Letters to C.K. Ogden with Comments on
the English translation (1973), pp. 46-47
11
Pag.

10 In particolare, è usato in merito alla distinzione delle proprietà delle capacità espressive del linguaggio (vedi TLP, 3.34).
Se sosteniamo che il Tractatus «basti a se stesso», troveremo quindi solo cenni, e non «una dottrina etica sostan-
tiva».[78] Potrebbe comunque restare aperta l‟interpretazione mistica: non conoscenza, la quale dice «che
qualcosa è come un‟altra», bensì piuttosto «l‟identificazione con un certo contenuto», intuizione [Anschauung]
(vedi TLP, 6.45). Intorno a questo tema si sono espressi Schlick, in Forma e contenuto, e Russell, con il saggio Mi-
sticismo e logica.[79] Quest‟ultimo caratterizza «l‟esperienza mistica» in: 1) «intuizione in opposizione al pensiero
o alla ragione»; 2) «unità di fondo del mondo»; 3) «negazione della realtà del tempo»; 4) negazione
«dell‟opposizione tra bene e male»11.[80]
Anche ammettendo che il Tractatus, come poi le Ricerche Filosofiche, metta «in atto un processo di supera-
mento della filosofia», questo resta «filosofico», senza abbandonare quindi il «piano della riflessione».[81] Come
interpretare quindi, allontanandoci da una lettura à la McGuinness, le proposizioni che sollevano questioni
sull‟etica e sulla bontà? Di sicuro non attraverso la scienza naturale, e nemmeno la psicologia – più volte esclu-
sa nel TLP, come nelle Conferenze sull‟etica.

«[...] secondo me, uno stato mentale – intendo per esso un fatto passibile di descrizione – in un senso etico, non
è né buono né cattivo. Se[..] leggiamo la descrizione di un delitto, compresi i particolari fisici e psicologici, la
pura descrizione di questi fatti non conterrà nulla che potremmo chiamare una proposizione etica» LC, p.10

Le esperienze citate, nei loro aspetti, «non servono allo scopo di Wittgenstein, che è invece quello di mostrare
come il senso etico delle cose abbia un carattere radicalmente differente da qualsiasi esperienza».[83]

CON TE HO SALITO MILIONI DI PIOLI, E ORA CHE NON C‟È PIÙ LA SCALA...

Stando ad autori come Janik e Toulmin, compiuta l‟aspirazione – riconducibile a Hertz, Boltzmann, Mach, oltre
che i filosofi analitici – di «fornire una teoria del linguaggio capace di mostrare come le proposizioni del lin-
guaggio naturale riescano a rappresentare gli stati di cose», il risultato raggiunto «gli consente di usare questa
elaborazione come trampolino da cui lanciare la sua concezione del mondo».[88-89]
Quindi, a meno di immaginare la scala wittgensteiniana come una di quelle impossibili, frutto del genio di
Escher, che riportano al punto di partenza, bisogna veramente capire cosa – seguendo l‟ultima istruzione – ci
lasciamo alle spalle. Ma anche, e soprattutto, dove siamo giunti.
In qualche maniera, l‟eredità di Schopenhauer, Kierkegaard e forsanche Tolstoj sta proprio nell‟idea che «il si-
gnificato della vita, i valori etici ed estetici, non sono questione di giustificazione intellettuale o di fondazione
scientifica»: in questo anche l‟atmosfera culturale in cui il filosofo visse, suggerisce l‟influsso di Karl Kraus, di En-
gelmann, ad esempio.[89] Al contempo, qui, non si afferma che l‟intero contenuto filosofico del Tractatus non
è che preambolo alla dottrina etica, tutt‟altro. Ma il ruolo di un ambito non esclude l‟altro: «la concezione etica
(come la concezione logica) non costituisce lo scopo dell‟opera, ma un suo passaggio intermedio».[94]Poiché
queste sono connesse, come scrisse a von Ficker, «l‟etica viene illuminata attraverso la comprensione dei limiti
del linguaggio»: il superamento delle dottrine etiche si dovrà mostrare similmente alla comprensione di questi
limiti. Il lavoro sulla logica «deve esibire alla fine del percorso un aspetto etico».[95]
Che non vi siano proposizioni etiche implica che l‟«uso etico» di queste non ha a che fare con le caratteristiche
interne dell‟espressione. Crolla ciò che era valido «per comprendere una proposizione», quando bastava com-
prendere «in virtù delle caratteristiche linguistiche». Quindi, se il linguaggio può «comunicare un senso etico»
questo è possibile solo in virtù «dell‟uso che noi ne facciamo». Entra prepotentemente in gioco il soggetto: co-
me per Frege, non possiamo più prescindere «l‟associazione di immagini mentali alle parole». Il modo di «legare
quelle parole al nostro io», prescinde dalle caratteristiche interne di quelle.[97] L‟intero Tractatus è la riprova «di
come sia possibile fare un uso immaginativo del linguaggio».[98]
Diverse versioni dell‟ineffabilismo presentavano «diverse concezioni del modo in cui il soggetto entra in relazio-
ne con il contenuto ineffabile (l‟esperienza mistica, l‟intuizione, ecc.)»; lo sforzo richiesto da Wittgenstein, è di
tutt‟altra fattura: «non possiamo citare l‟insensatezza», confrontandoci con questa dall‟esterno, «ma possiamo
cercare di immaginarci cosa voglia dire crederci anche noi».[98-99] L‟esercizio – immaginativo – di delucida-
zione, di «affinamento della visione», coinvolge il pensiero morale in un cambiamento personale «connesso
all‟attiva coltivazione della propria sensibilità», piuttosto che essere «indirizzato a impossessarsi di qualche veri-
12
Pag.

11B. Russell, Mysticism and Logic (1914), in Mysticism and Logic and Other Essays, London (1918), pp.1-32, tra. it. Misticismo e
Logica e altri saggi, Milano (1974), pp. 3-32, alla p.12.
tà». L‟unico modo per la logica di potersi prendere cura di sé (TLP, 5.473), è che gli esseri umani si prendano cu-
ra d‟«essi stessi».[101]
Una volta messa in difficoltà ogni proposizione, l‟autore può farsi comprendere e portare il lettore “se è asceso
per esse – su esse – oltre esse”, altrove. Ma dove? Crediamo che ciò che «Wittgenstein ha inaugurato» con la
sua opera sia «un programma di studio non psicologico dell‟etica», dove l‟Io depsicologizzato (TLP, 5.641 e
4.1121), valga «sia per la mente cognitiva sia per la mente morale».[100]

QUANDO L‟UOMO FRAINTENDE LA SUA NATURA: “LA NOSTRA LOGICA DEL LINGUAGGIO”

«[...]il solipsismo, svolto rigorosamente, coincide con il realismo puro. L‟Io del solipsismo si contrae in un punto
inesteso e resta la realtà ad esso coordinata» TLP, 5.64
«La vita fisiologica naturalmente non è „la vita‟. E nemmeno quella psicologica. La vita è il mondo» Q, 24.7.16

Come WE ha giustamente tributato a parte della critica – Cora Diamond ed altri12–, bisogna «leggere il Tracta-
tus come un‟illustrazione logica della mente non significa che vi sia qualcosa come la mente che deve essere
investigata». Ricordiamo ancora una volta il TLP «come un‟opera che deve essere interamente uberwindet» e
arriveremo a scorgere «una trattazione logica della mente». Nel senso del carattere logico del mentale: «certe
fondamenta di un palazzo di cui abitiamo i piani superiori», ma da ciò segue che «si abbandonino le stesse
espressioni “la mente”, “il carattere logico del mentale” in quanto necessariamente insensate».[105] Prose-
guendo su questa linea, diremo che le insensatezze filosofiche (ed etiche) sono «intenzionalmente insensate».
V‟è un‟insicurezza di fondo, che è poi il problema centrale tematizzato nel TLP: «la confusione logica che pren-
de la forma dello scambiare il nonsenso per il senso»; le insicurezze verso la propria condizione umana di vita
riflessiva che fanno l‟insensatezza della filosofia.[106]
Wittgenstein va a rimettere tutto “saldamente a posto”, come scriveva a von Ficker, “semplicemente col ta-
cerne”: non più «esprimere insensatezze nell‟illusione di parlare sensatamente», piuttosto «vincere questo biso-
gno», liberarci da false fantasie, è questo il “cambiamento”, e nella sensibilità e nel carattere etico.[107-108]
Sono illusioni quelle di poterci situare fuori dalla logica e del mondo «(fuori di noi stessi)» (TLP, 4.12-4.121) oppure
di ritenere che sia possibile «guardare noi stessi – la nostra condizione umana – nello stesso modo in cui guar-
diamo i fatti del mondo»: l‟etica come fosse scienza naturale.[108-109]

«Per vivere felice devo essere in armonia con il mondo. [...] Allora io sono, per così dire, in armonia con quella
volontà estranea dalla quale sembro dipendente.» (Q, 8.7.16)

«Riteniamo a questo proposito, che il numero esiguo di osservazioni sull‟etica sia indicativo di un‟intenzione
dell‟autore di dire quanto meno possibile sull‟etica, affinché risulti chiaro che tutto ciò che è importante dire è
già stato detto nelle affermazioni che concernono la logica».[110] Anche se riscontriamo l‟uso della «fraseolo-
gia schopenhaueriana», ciò non basta per cercare al di fuori dell‟opera il fine di questi passaggi. Il ruolo svolto
è quello di «fornire immagini» che hanno «speciale attrattiva sul lettore»: starà qui la difficoltà di molti, nel molla-
re questi pioli filosofici, una volta aggrappativisi.[113]
La volontà è presentata «come un esercizio attivo della mente: essa trasforma il mondo e questa trasformazio-
ne è connessa a un certo sentire, a una condizione affettiva». Si esclude l‟«immagine della volontà (elemento
soggettivo)» come «modificazione del mondo (elemento oggettivo)».[114] Rigettate anche queste proposizioni,
però, cosa resta?
L‟etica come «esercizio immaginativo»: non è possibile porsi dall‟alto, sull‟etica, ma piuttosto «immaginare di
entrarci dentro, sebbene non vi sia in realtà nessun dentro (nessun contenuto ineffabile)».[115] Ciò non ha di
certo un contenuto descrittivo, ma sicuramente “illumina”, portando a «modificare e fare progredire (o regredi-
re) l‟interiorità»; di qui il “cambiamento personale”, «attraverso l‟uso del linguaggio»![117]

«Qual è il carattere oggettivo della vita felice, armonica? Anche qui è chiaro che non può esservi un tale ca-
rattere, che si possa descrivere. Questo non può essere un carattere fisico, ma solo un carattere metafisico,
13

trascendente» Q, 30.7.16
Pag.

12Cfr. C. Diamond, Ethics, Imagination and the Method of Wittgenstein‟s «Tractatus» (1991) e J. Conant, Throwing Away the
Top of the Ladder (1991).
La «qualità della nostra percezione della realtà», la possibilità di «vedere il mondo sotto un‟altra luce», sono le
stesse immagini utilizzate nella sezione su premio e castigo etico (TLP, 6.422), ancora una volta con uso «deluci-
dativo».[118-119] Noi possiamo fare un «uso etico» di un comando, ma questo non è «allo steso livello
dell‟asserzione», perciò non può esprimere ciò che è più “alto”.[120]

IMMAGINARE IL SENSO DEL “SENSO ETICO”

La «negazione della discorsività», che propone Wittgenstein riguardo l‟etica, è proprio la maniera di illuminarla,
«per come egli la intende, e che considera come una tendenza fondamentale dell‟animo umano».[122]
Quando tratta nozioni d‟uso ordinario, non sembra «volersi disfare», ma «solo analizzarle logicamente»

«Il linguaggio comune è una parte dell‟organismo umano, e non meno complicato di questo[...]» (TLP, 4.002)

In particolare, non essendovi proposizioni dell‟etica, questa «assume una forma sensibile, potremmo dire,
nell‟uso intenzionalmente insensato che si fa di certi segni linguistici». La delucidazione sta nel problema che
l‟autore ritiene centrale per «la natura riflessiva degli esseri umani», non dell‟«esperienza morale in quanto ta-
le».[123] Simile è la forma che «assume il problema della filosofia»: il «metodo per arrivare alla soluzione è lo stes-
so poiché si tratta di un medesimo esercizio immaginativo» – così come lo erano i “cenni” di Frege.
Possiamo affermare, sempre con WE «che il libro ha un senso etico poiché esso vuole raggiungere una consa-
pevolezza di sé, un superamento dei fraintendimenti filosofici che rendono oscura a se stessa la nostra interiori-
tà: che non fanno della nostra vita una “vita di conoscenza” (Q, 13.8.16)». Il fine del TLP è dunque un‟«azione
etica», che poi è lo stesso dell‟azione di “delimitazione dell‟etico” – il proposito confidato a von Ficker.[124]
“Parlare a vanvera” è segno di «un‟inquietudine etica», ma d‟altronde ogni tentativo di risolvere questa con
una «fondazione» dell‟etica, si «mostrerebbe d‟essere vittima del medesimo fraintendimento».[125]

14
Pag.

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