(...) E quali punti di contatto potevano sussistere tra lui e quella classe borghese che si era innalzata a poco a poco profittando di tutti i disastri per arricchirsi, suscitando catastrofi per imporre il rispetto dei suoi delitti e delle sue ruberie? Dopo l’aristocrazia della nascita, era venuta la volta dell’aristocrazia del denaro: era il califfato delle botteghe, il dispotismo di via Du Sentier, la tirannia del commercio dalle idee venali e anguste, dagli istinti scaltri e vanitosi. Più scellerata, più vile della nobiltà spoglia e del clero decaduto, la borghesia prendeva in prestito la loro frivola ostentazione, la loro caduca iattanza degradandole con la sua mancanza di saper vivere; prendeva tutti i loro difetti convertendoli in ipocriti vizi. E, autoritaria e sorniona, bassa e codarda, infieriva senza pietà sulla sua eterna e fatale vittima, il popolo minuto, a cui aveva lei stessa tolto la museruola mettendolo all’agguato perché saltasse alla gola delle antiche caste. Adesso era cosa fatta. Compiuto il dover suo, la plebe era stata salassata fino all’ultima goccia per misure igieniche: il borghese, rassicurato, troneggiava allegramente per la forza del suo denaro e il contagio della sua idiozia. Il risultato della sua ascesa era stato la prostrazione di ogni intelligenza, la negazione di ogni onestà, la morte di ogni arte. E, in realtà, gli artisti, avviliti, si erano inginocchiati e, pieni di ardore, si divoravan di baci i piedi fetidi dei grandi sensali e dei piccoli satrapi le cui elemosine li tenevano in vita. In pittura era un diluvio di smidollate scempiaggini; in letteratura un dilagare di stile anodino e di idee vili, perché l’affarista mestatore aveva bisogno di onestà; il filibustiere che cercava una dote per suo figlio e si rifiutava di pagare quella della figlia aveva bisogno di virtù, il voltairiano che accusava il clero di stupri e se ne andava ipocritamente e stupidamente, senza una vera arte della depravazione, ad annusare in qualche stanza equivoca l’acqua sporca delle catinelle e la polvere tepida delle gonne sudice, aveva bisogno di castità. Era la grande galera dell’America trasportata sul nostro continente; era, infine, l’immensa, la profonda, l’incommensurabile cafoneria dei finanzieri e dei nuovi ricchi, raggiante come un abbietto sole, sulla città idolatra, che eiaculava, ventre a terra, oscene cantiche davanti all’empio tabernacolo delle banche. - E va’ dunque in rovina, società! Crepa, una buona volta, vecchio mondo! - esclamò Des Esseintes sdegnato dall’ignominia dello spettacolo evocato. Quel grido spezzò l’incubo che l’opprimeva. - Ah! - mormorò. - E dire che tutto questo non è un sogno! Che sto per rientrare nella ressa turpe e servile di questo mondo! -