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Racconti Saraceni

di Sicilia

Michelangelo Caldara
© Michelangelo Caldara

Veröffentlicht bei Bookmundo Direct

www.bookmundo.de

1° Ausgabe – Januar 2020

Deutschland

ISBN:9789463983846

In commercio on line dal 4 febbraio 2020

Bookshop: “http://publish.bookmundo.de/books/220004”

Copertina - Leoni mosaico di Re Ruggero II - Palazzo dei Normanni - Palermo: Ph. M. Caldara ©
A tutti i bambini cresciuti senza le carezze di una madre. Ai bambini cresciuti senza il conforto e le
certezze venute dall’esempio di un padre.

Agli uomini e alle donne che durante la loro esistenza hanno creato alberi di vita.

A tutti coloro, che lungo il cammino hanno sempre saputo trovare la strada del ritorno.

Alla mia Terra.


Mimma a cavallo che creatura agreste passa per le alture ei
pendii della valle leggendaria del Platani, riflesso liquido, della
rocca antica di Kamikos, capitale della Sicania. La metafora di
iniziazione al desiderio tra le forze primordiali della natura e le
essenze del mito.

…………………………………………..

Il fiume salato stava nel centro della valle; tra le due sponde ei
due territori. Quello di lei e quello di lui.
L'Alycos. Il fiume di entrambi.
Lo vide navigabile; largo; pieno di navi e di gente: il Platani.
Era prima del diluvio.
Si perse.
Ritornò.
Andava e veniva.
Si confuse.
Balbettò parole incomprensibili. Strani suoni mescolati in
sincrasi.
Passò attraverso sillabe sincopate.
Akkà.
Akkà.
A sprazzi soltanto riusciva a capirla.
In una lotta di lingue, incalzante nei ritmi; in una danza
avvolgente di suoni e di accenti diversi, attraversava
inconsapevole, tutte le parlate del sangue. I fremiti stranieri del
cammino delle radici.
…………………………………………………

I sette fratelli di Sicilia.

I legami di una famiglia di contadini numerosa. L’orgoglio e la


fierezza nella natura dell’essere isolano. La forza del sangue. Il
lontano retrogusto del sapore arabo e normanno. L’impeto delle
braccia. Il lavoro. L’emigrazione. Il dolore. Il tempo che agisce e
passa; che cicatrizza le ferite; che non riesce a cancellare, il taglio
inferto dal fato.

…………………..

Il botto forte di prima mattina, partiva dal Corso Principale del


paese ed era scoppio e fragore in ogni casa a un certo punto.
Scuoteva tutti nel sonno e svegliava.
Era un incrociare di bestie imponenti, parate di cinghie colorate,
di chiome e pennacchi, di specchi e di santi sulla fronte, fra i
basolati neri dell’Etna del bianco paese di gesso. Passavano bardati
solenni, invadenti i muli, coi cavalieri per raccogliere le
promessioni dei fedeli in natura.
Frusciava nelle orecchie il rimballo di decine e decine di sonagli
appesi con le frange ai quadrupedi.
Si aggiungevano le sonate corali della banda musicale, che
sopravveniva. Alti e bassi crescenti e corali. Zumbariate ludiche di
motivi noti a tutti. Ad arricchire il piacevole frastuono di
annunciazione e di presenza della festa, arrivavano tra i più graditi,
gli assoli martellanti di percussioni di tamburi.

Era Ferragosto.
Mezzaùstu.
Fin dalla mattina, un’onda di persone, straripava negli spazi
sterrati di Acquanova. Era la fiera agricola, collegata ai riti in onore
della Madonna, piena di odori sovrabbondanti e sovrapposti versi
e voci di animali e umani. Il clima caotico, per rivalsa, per una
volta, nell’inconsapevole confronto tra singoli, all’interno delle
masse plurali di persone, più o meno conosciute, ringalluzziva
l’individualità dei villani, dediti per quel giorno agli affari e alle
relazioni sociali.
E il pomeriggio, nel centro storico, per le strade delle tradizioni,
finalmente, aspettata, la lunga processione religiosa che passava e
non finiva mai. Una processione, che si ripeteva sempre uguale,
tutti gli anni. Il sollevare dei piedi cadenzato mutava composizione
molto lentamente nel tempo. Tutti ordinati e in linea, i fedeli. Solo
i bambini e gli adolescenti, smarginavano qua e là fuori dalle righe
del corteo, subito ripresi dall’onnipresente arciprete; mingherlino;
fluttuante, a collo alto; col megafono, nello spazio libero delle due
ali di persone in movimento.
La sera nella piazza del Carmine, il culmine della festa. La
chiesa secentesca, illuminata a festa da luci barocche si ergeva sul
poggio più alto della collina dell’Annunziata.
Ora sembrava avere orli e trame di ricami di abbagli colorati tra
le pietre, così adornata com’era, nella notte di stelle.
L’ampio slargo della Madre Vergine, vedeva esplodere l’apice
della gioia.

………………………………………………….
Abraham Ibn Ahmed, il ragazzo marocchino che giunto
bambino in Sicilia; appena diciottenne; durante l’ideale viaggio di
sincretismo con l’identità, con le cose, con i luoghi e con la gente
del posto; incosciente e innocente, schianta la sua vita al palo
della modernità.

…………………………

Abramo era fiero.


Un berbero che trovava radice in quell’isola superba dal collo di
colomba e coda di pavone, dove i cavalli disegnano nubi correndo
e ricamano di agilità e di emozioni irruenti il cielo, fino a far
implodere ed esplodere di gioia il sole.
Allah era stato grande in quei luoghi.
Vi aveva albergato. Era stato Signore fra i vicoli di Bibbìrrìa,
Bab-er-Riiah, la Porta dei venti.

………………………..

La regina della Grotta. Personaggi femminili vinti dalla storia e


dal destino. Una principessa araba che vicino a una grotta, in
epoca medievale, nei pressi di argentati ulivi, s’uccide, per non
cadere vittima di cavalieri cristiani. Una giovane donna che nello
stesso luogo, dopo secoli, mette in atto la ribellione estrema, per
un amore perduto.
…………………………….

La raccoglitrice di verdura selvatica, Marianna, la moglie di un


certo Tano Monreale, assieme all’amica, una tale Benedetta
Pregadio, si trovava a poche diecine di metri dal luogo, dall’altra
parte della serra, a nord dell’anfratto, quando nell’aria era
rimbombato il colpo di revolver.
I luoghi attorno a quella grotta, la Grotta della Signora,
anticamente detta dell’Ayin, con la sorgente che ai tempi
zampillava dalle viscere e che usciva in ruscello dai meandri, erano
da sempre, misteriosamente, fonte di stranezze e tragedie.

…………………………..

In nome della luce. Il bacio sacro dell'infanzia, al pane che


cade. la figura mancante del padre. I giochi geometrici di
composizione casuale di immagini a colori, dentro gli occhi di un
fanciullo. L'adolescenza in un paese rurale dell'isola. Il richiamo
della fede cristiana. La scoperta delle radici del sangue. La
rivelazione di un mistero dell'Islam conservato nella Cattedrale di
Palermo, prima chiesa di Sicilia.

……………………………….

Tornò a quel ricordo, di quando bambino baciò il pane, prima di


buttarlo.
Glie lo aveva insegnato la madre.
Lo lasciò cadere a terra, dalla borsa di cartone color legno;
piccola, col manico di elegante osso ocra; di ritorno dall’asilo,
timidamente.
Subito dopo preso da un senso di colpa, allungò il braccio, aprì
la mano e lo riprese.
Ci soffiò sopra con la bocca e ripristinandone il candore, lo baciò
ancora. Se ne privò definitivamente, mettendolo posato dentro una
fessura del muro di gesso d’una casa vicina. In una intercapedine,
posta in alto. Là, dove era riuscito ad arrivare con le dita della mano
destra; tutto stirato; mettendosi in punta di piedi.
Amava ancora quel pezzo di pane perduto. Per l’innocenza data
col bacio.
Perché era il sacro della vita espresso in una vasàta.
Il pane è Grazia di Dio dicevano le donne.

……………………………

La vicenda storica della prigionia del vescovo di Girgenti Ursone


durante la rivolta degli ultimi musulmani di Sicilia contro
l’imperatore Federico II. La lotta dei saraceni. La vicenda epica e
leggendaria degli ultimi loro condottieri; di Mahmud, Mirabetto;
di Benaveth, Ibn Abbad. Amir ribelli, dell’ultimo Emirato
Indipendente di Sicilia. La deportazione tragica, ultimativa, degli
sconfitti.

………………………………..
All’inizio, Mohammed Ibn Abbad, era stato entusiasta per la sua
cattura. Non aspettava altro, Benaveth. Era da tempo che si
scontrava con lui. Non era un problema di fanatismo o guerra di
religione. Aveva smania di azioni eclatanti. Da quando era a capo
dei rivoltosi, dopo la morte di Mirabetto, cercava vendette di ogni
tipo, una dietro l’altra. la sua sete di giustizia, non si placava mai.
Considerava i religiosi cristiani concausa dei mali della Sicilia.
Sapeva tuttavia che la fede non era la causa vera dei loro mali.
Aveva parecchie idee per sfruttare la detenzione del potente
vescovo di Girgenti.
A Ursone, ciò, era stato confidato dalle guardie.
Ora, gli ultimi giorni, aveva comportamenti mutevoli. Il
vescovo, lo sentiva nervoso. Benaveth, a tratti ascoltava i suoi
discorsi. Pendeva dalle sue labbra, mentre egli parlava. In altri
momenti invece, lo guardava fisso con occhi di fuoco. Sembrava
lo volesse fulminare con lo sguardo. Lo zittiva irato, col segno delle
dita decise, sulla bocca.

Quella volta era appena calata la sera. Giunse accompagnato da


alcune guardie, armate di gialde e scimitarra. Ursone pensò che
fosse giunta la sua ora.

…………………………………

Dalla pendenza della strada e dalle curve aveva intuito che erano
scesi da Monreale per Balarm.
Conosceva la zona. La morfologia del territorio.
Dal tipo di rumore degli zoccoli sul lastricato capì che era
portato verso Il centro.
Ad un certo punto un forte tanfo di concio di pelli gli invase le
narici. Si rese conto che doveva trovarsi nei pressi della conceria
del quartiere Seralcadio, nei paraggi della chiesa di Sant’Agostino
e dell’Hospitalia dei pellegrini cristiani, oltre il torrente che
nasceva dal pantano del Papireto nutrito a sua volta dall’Ayin - az
Zaytun, Danisinni o “Fonte dell’Ulivo” per i latini. Il fiume in quel
tratto era chiamato fiume della concia. In quel tratto il puzzo delle
pelli dominava ogni altro odore. Prima della chiesa di
Sant’Agostino, sapeva che l’imperatore svevo vi possedeva
profumati aranceti e un tenimento di case. Lui conosceva bene la
contrada, ci veniva spesso da bambino, ospite di una zia, sorella
della madre. A quei tempi ci vivevano soprattutto musulmani.
Improvvisamente sentì un brusìo enorme e voci e urla che si
sovrapponevano. Erano voci e urla espresse nella sua lingua. Intuì
cosa c’era. Ma non poteva immaginare tutto.
…………………………

L'epitaffio di smarrimento dell'ultimo Caid di Palermo nella


Sicilia sveva; che prima di morire, lancia il grido di dolore del
sentirsi straniero nella propria Terra. L'atto di eroismo di Abid, un
giovane tunisino della Agrigento di oggi.

………………………………..

All’inizio del tredicesimo secolo, in epoca sveva, la popolazione


saracena dell’isola, decimata dai trasferimenti forzati in Apulia e
dagli eccidi; smembrata e vessata, ormai asservita ai latini;
coercitivamente convertita al cristianesimo, aveva perduto la
propria identità.
Solo una piccola minoranza, stremata ma indoma, aveva
mantenuto la fede in Allah e la libertà, fuggendo fra le valli e le
montagne più impervie della Trinacria.
I più ormai si erano arresi all’immane destino. Nelle campagne e
nei casali rurali i superstiti arabi e berberi seguivano ormai le sorti
della proprietà feudale o della chiesa delle locali Terre, diventando
loro stessi, bene e avere; vincolato alla sorte dei fondi.
A Palermo, uno degli ultimi aristocratici di etnia araba ancora
presenti nell’isola, vicino all’ultimo respiro, prima dell’ultimo
soffio di vita, prossimo alla morte, nell’esprimere le sue ultime
volontà, diede ordine di far incidere sulla lapide da posare sulla
propria tomba, in caratteri cufici, una frase:

…………………………….

Maryam: il nome di un sogno. Il viaggio di amore onirico con


una ragazza palestinese già martire per la libertà. I messaggi
del sogno, che diventano ausilio immaginifico del ritrovare
frammenti d’identità e d’appartenenza.

…………………………………..

Non ricorda i dettagli.


In quei viaggi che solo la notte consente di fare. La sola capace
di portarti dove l’anima vuole. La notte capace di portarti magari,
là nei luoghi da dove essa viene. Da dove essa ha origine.
La sola capace di far percorrere o ripercorrere, in uno dei più bei
viaggi del vivere, per mezzo del sogno, una o più tappe,
dell’infinito cammino del sangue; attraverso le generazioni, che
hanno portato nel tempo al tuo Essere.
Quella era la Palestina.
C’erano giardini di palme verdi in mezzo a terreni rocciosi e a
recinti in muretti in pietra a secco. E tutt’attorno cielo azzurro e
strade dello stesso tipo di pietre, messe a selciato schiacciate.
Lunghe scie bianche che venivano e portavano lontano nella
polvere del moto.
C’erano luoghi da dove venire e dove poter andare.
Una patria del sentire che realmente esisteva e si estendeva e
non c’era traccia di blocchi, chiusure o confini.
Attorno. Tutt’attorno c’era un popolo.
Bambini, vecchi, giovani. Tanti ragazzini e tante donne.
La magia del vedere dormendo. La magia di vivere ad occhi
chiusi e vedere spesso quanto di più bello.
Lei lo accarezzava su tutto il corpo, nel suo letto.

………………………………

La devozione viscerale degli agrigentini, al Santo Nero, a


San Calogero; compatrono della loro città. L’adesione al Credo,
come forza di espressione esteriore di una religiosità individuale
repressa; in una Sicilia ancora selvaggia e immatura, nel suo senso
civico e nel suo sentire etico e morale. La vigorosa sincera
sensazione di appartenenza individuale e collettiva ad una fede
profonda e irrazionale. L’evoluzione della fede profonda di una
famiglia agrigentina.

………………………….

Offrì le bianche carni bambine al Santo nero. In alto. In alto. Più


su. In alto, quasi fino a superare l’aureola. La bimba strillò;
dimenando braccia e gambe. Scalciò alla cieca i piedini. Colpendo,
innocente, qua e là, devoti d’ogni genere.
Il padre, eccitato, gridò: - Vàsalu! Vàsalu! - Bacialo! Bacialo! -
La piccola, non più di due, tre anni di età, tirò indietro il viso e
irrigidendo i muscoli, cercò di restare lontana dalla testa del Santo.
Cocciuto l’uomo, con una mano enorme e scura messa dietro la
nuca fra i capelli biondi, spinse tuttavia la figlioletta verso il Santo,
fino a farle toccare con la bocca, il mento di gesso della nera statua.
Le labbra serrate della bimba si bagnarono di umido estraneo,
misto di sudore e saliva; senza che lei capisse. - Il sudore del Santo
-
A quel punto, per offrirla pienamente a San Calogero; forte il
padre, a braccio teso la sollevò ancora più in alto.

……………………………….

Il viaggio, che parte attraverso i passi e gli scarponi di uno


straniero, venuto a scavare dentro i suoni. Una metafora del
percorso di ricerca per l’Atlante linguistico dei primi anni 20 del
900, del filologo berlinese Gerhard Rohlfs. Il sussurro della sua
presenza, nelle terre di Sicilia. Il significato dei lessici che portano
alla scoperta delle identità. La riscoperta del sangue giunto dal
nord. Nella magia delle parole. Le origini monferrine. La storia,
filtrata dall’incantesimo della fiaba di Aleramo. I legami della
Marca Aleramica con la Sicilia.

………………………………

La lingua è la voce dell’anima. La voce dell’anima umana.


Quella voce, che si riproduce nella prole che si succede; che somma
più vite; che fa vivere anche le vite passate. Nel sentire, nei suoni.
È uno dei mezzi più importanti e più belli che l’uomo ha, per
rendersi eterno, pur rimanendo effimero. Questa umana eternità,
meravigliosa; va però cercata; va scavata; va letta; interpretata;
svelata; acquisita; riconosciuta; va ricreata; amata; trasmessa;
passata; donata.
Dammene “pici pici”, sussurravano le bambine sambiagesi,
quando la mamma o un parente vicino, offriva loro con insistenza,
cibi poco graditi. “Ni vogliu pici pici. Sulu na stizza”. Solo poco
poco.

……………………..

L’imperatore volle dare ad Aleramo il titolo di marchese. Ma


avendo un marchese bisogno di una marca, cioè di un territorio da
governare, Ottone disse ad Aleramo che per sé e la sua famiglia,
avrebbe avuto un territorio tra la Liguria e il Piemonte, vasto
quanto la distanza che egli sarebbe stato in grado di coprire a
cavallo nell’arco di tre giorni di galoppo. Per tale corsa Aleramo
avrebbe avuto a disposizione tre cavalli. Un cavallo fresco al
giorno.
………………………………..

Una corsa a cavallo nella Sicilia rurale, che diventa metafora di


attaccamento umano ai luoghi e al sangue.

………………………………………

Cavalcavano a lungo.
Trotto e galoppo. Trotto e galoppo.
Sulla cresta dell’altipiano di Mandra Alia.
Era un po’ pianura e un pò tetto del mondo, lungo la trazzera
rettilinea. Piattaforma di terra nera obliqua graduale che aprendosi,
saliva, fino a portare dritta dritta al paese.

Il padre infuriava la voce e le braccia tirando con impeto le redini


della bestia e focoso spingeva l’animale alla corsa spampazzàta,
sparsa e libera; aizzando col ritmo e col tono degli acuti vocali, al
contempo sé stesso: pieno di foga e giovinezza

……………………………..
Indice:

Pag. 7 Mimma, l’ultima Ninfa della Valle


19 I sette figli di Sicilia
31 Abraham Ibn Ahmed
39 La Regina della Grotta
49 In nome della luce
69 Il condannato
93 L’ultimo qaid di Sicilia
103 Maryam
113 Nìuru Santu (Il Santo Nero)
125 Passo di tramontana
141 La corsa

147 Indice
Dello stesso autore:

Archetipi; edito da Siculgrafica – Agrigento - 2003. In esso, una breve storia degli Archi di Pasqua di
San Biagio Platani e versi del sentire contadino. Il libro illustrato, da fotografie di Giuseppe Sabella, è
in siciliano, italiano e inglese. Prefazione e traduzione inglese di Angelo Baccarella.

Tesori di Sole -- Tradizioni Orali di San Biagio Platani – Voci, Echi e Memorie di Civiltà Rurale. Edizione
Bookmundo.Direct – Germania - 1° ediz. 2018 – 2° ediz. 2019. Testo in siciliano, italiano e Inglese.
Traduzione inglese ancora di Angelo Baccarella. Illustrazioni grafiche di Filippo Licata.

Link per eventuale acquisto del libro: “http://publish.bookmundo.de/books/173519”


Biografia dell’autore:

Michelangelo Caldara, nato a San Biagio Platani, risiede ad Agrigento.

Ha trascorso vari anni di fanciullezza e adolescenza in Germania. Laureato in Economia e


Commercio, è stato Insegnante e Funzionario Pubblico. Ha vissuto per lavoro a Giaveno in Piemonte e
a Palermo. Nel capoluogo siciliano ha svolto anche i suoi studi universitari.

Si interessa di tradizioni popolari, di linguaggi e di storia medievale della Sicilia.


Un viaggio nel tempo.

Alchimia di suoni.

Un mondo cesellato di luce.

La Sicilia crocevia di migrazioni.

Cristianità. Islam.

Popoli.

Antichità. Medioevo. Contemporaneità.

Storie. Storia.
Retro copertina - Particolare murario della Cattedrale - Palermo: Ph. M. Caldara ©

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