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ANTONIO MARIA RINALDI, CON GLI AUTORI DI SCENARI

ECONOMICI

La sovranità appartiene al popolo o allo


spread?
© 2 0 1 8 C o m p a g n ia e d it o r ia l e A l ib e r t i S r l s
T u t t i i d ir it t i r is e r v a t i

C o m p a g n ia e d it o r ia l e A l ib e r t i S r l s
Sed e leg a le
v ia F o s d o n d o , 9 4 – C o r r e g g io ( R E )
S e d e o p e r a t iv a
v ic o l o S c a l e t t a , 1 – R e g g io E m il ia
P r o m o z io n e e d is t r ib u z io n e A . L . I . A g e n z ia L ib r a r ia I n t e r n a t io n a l
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Q u e s t o l ib r o è s t a t o r e a l iz z a t o c o n S t r e e t L ib W r it e
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INDICE
Prologo
Riprendiamoci le chiavi di casa
LA VERSIONE DI PAOLO SAVONA
Non cediamo la nostra Sovranità
L’Europa,ovvero del senno di poi sono piene le fosse
Voglio un’Europa diversa
Ho subìto un grave torto, è un processo alle intenzioni
Se non siamo incoscienti, teniamo pronto il Piano B
COME ABBIAMO PERSO LA SOVRANITÀ
La vacca tedesca
Il Piano Funk e le mire tedesche
La matematica è (e fa) opinione
Leggende metropolitane intorno all’Euro
Il sequestro dei risparmi
La rapina delle banche
Fine pena mai: il Fiscal Compact
È guerra, ma in giacca e cravatta
Un appunto sull’inflazione
Euro a due velocità? Sì, ma a queste condizioni
Perché un Piano B
Post Scriptum
Bollettino della vittoria
Tutte le firme di Scenarieconomici.it
Prefazione di Luca Telese

Aliberti compagnia editoriale


P R OL OGO

La storia che avete tra le mani, per quanto possa sembrare strano,
inizia a Roma, nel 1977, in un’aula universitaria. In quei giorni di inizio
estate si sta svolgendo la temuta sessione d’esami del terzo anno di
Economia alla Luiss. A tenere la poderosa (e cruciale) cattedra di
Politica economica c’è un professore che è arrivato, nell’università
privata più importante di Roma, preceduto da una doppia fama: quella
di accademico rigoroso e quella di trita-studenti. Il professore a lezione
è brillante, provocatorio, innovativo. Sfida i suoi ragazzi: «Lei sta dando
una risposta ineccepibile, ma non mi accontento. Perché non osa di più
e non dice quello che pensa davvero?» Il professore è preceduto da un
cursus honorum che taglia il fiato solo a scorgere le prime righe: potrà
vantare di essere uno dei pochi uomini in Italia – anzi l’unico – che è
stato direttore sia dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia che di quello di
Confindustria, oltre che allievo di in premio Nobel come Modigliani.
Pochi uomini riescono a fare una doppia e folgorante carriera parallela,
sia nel cuore della più importante istituzione economica pubblica, che
in quello della più importante istituzione privata. Il professore di
Politica economica che tiene insieme nel suo araldo queste due
qualifiche è un signore di quarant’anni – nato a Cagliari – che dimostra
più della sua età. Il professore è un uomo cortese, parla in una lingua
forbita, è un discepolo di Guido Carli, è tetragono, quadrato, per nulla
bonario: il suo nome è Paolo Savona.
Dunque, in quel giorno in cui alla Luiss si apre la sessione d’esame del
professor Savona, quando iniziano gli esami comprensibilmente
nessuno si fa avanti, e il foglio dei futuri interrogati rimane bianco.
Sono tutti lì, nella grande aula, ma in attesa. Prima di scrivere il loro
cognome nella lista, vogliono studiare la strategia di interrogazione del
professore, capire se conviene temporeggiare al giorno dopo,
perfezionare qualche argomento ricorrente. Vogliono aspettare che le
prime cavie – considerate animali sacrificali tra le mani del sardo
implacabile – facciano la prova del biscotto confrontandosi con la
micidiale pignoleria del professore. Quando Savona si accorge che
nessuno si fa avanti, consapevole della propria fama, stupisce tutti gli
studenti in attesa con un annuncio beffardo, e con un guanto di sfida
lanciato all’uditorio: «Possibile che tra di voi non ci sia nessuno così
coraggioso da farsi avanti?» Mormorio. Pausa studiata del professore,
sorriso: «Posso dare una rassicurazione, in via del tutto eccezionale. Il
primo di voi che si presenta prenderà il voto che si merita. Tuttavia una
garanzia, ma solo a lui, posso fornirla fin da ora: il temerario che si
presenta per primo avrà un unico privilegio. Sicuramente non sarà
bocciato».
Contrordine. Gli studenti adesso corrono precipitosamente verso la
cattedra, contendendosi la lista. Quello che arriva prima – sgomitando
– è un ragazzo magro, con i capelli scuri, di cui possiamo dirvi tre cose.
La prima, che in quel momento non immagina nemmeno lui, è che
all’esame prenderà un onorevole Ventotto. La seconda, assolutamente
imponderabile, è che quella scelta, per un curioso destino di porte
girevoli innescato da quel voto, lo porterà a diventare uno degli allievi
del professore. La terza è che se quel ragazzo quel giorno non fosse
arrivato primo, sicuramente questo libro non sarebbe tra le vostre
mani. L’ultima notizia che devo darvi, ma forse lo avete già intuito, è
questa: il ragazzo magro e temerario, eroe della sessione di esami di
Politica economica dell’anno di grazia 1977, si chiama Antonio Maria
Rinaldi.
«Per caso siete dei matti?»

Quando ho conosciuto Antonio Maria Rinaldi, nell’anno della grande


crisi, ero stato a mia volta travolto dalla crisi. Avevo immaginato–
insieme a un gruppo di amici eroici – di fondare un giornale per
provare a raccontare in modo nuovo il paese che soffriva, “l’Italia del
coraggio” che stava “con gli occhi asciutti nella notte scura”. Il
quotidiano si chiamava «Pubblico». Riuscimmo a mettere in piedi un
giornale a tempo di record – in tre mesi – a portarlo nelle edicole, a
vendere 47 mila copie del primo numero senza una sola riga di
pubblicità (non avevamo soldi per pagarcela), a raccontare tante storie
dalla parte degli “ultimi e dei primi”. Una bella impresa, ma dopo tre
mesi chiudemmo: non avevamo finanziatori, entrammo in crisi di
liquidità, volutamente non avevamo cercato una sola lira di
finanziamento pubblico, ci sorreggevamo solo con vendite e
abbonamenti. Trovammo quattromila lettori fissi al giorno, troppo
pochi. Ce ne servivano almeno ottomila, chiudemmo prima di essere
costretti al fallimento. Mi ritrovai disoccupato, bollato come un
perdente e – fra tanti amici che mi chiudevano la porta in faccia –
arrivò un ragazzo che non conoscevo – si chiamava Antonio Garofalo –
che mi disse: «Ti stimo: voglio proporti un programma in radio». La
Radio si chiamava Radio IES, trasmetteva in tutto il Lazio. E nel
programma che andava in onda dopo il mio, con un successo di
pubblico e una scioltezza dialettica che mi colpirono, il protagonista
assoluto era un professore dai capelli banchi e dall’inconfondibile
eloquio romano, che mi regalò il suo libro, appena uscito.
Il professore, che come avete capito non era un tipo ordinario, per
rendere speciale il suo omaggio, aveva fatto incollare sulla copertina di
ogni copia delle gabbiette in plastica trasparente con dentro delle
monetine fuori corso di piccolo taglio: da dieci o addirittura da cinque
lire (ricordate quelle con il delfino?). All’epoca, come ogni Democratico
Progressista che si rispetti, ero animato (come tutti i miei simili) da una
forma pregiudicante ed endemica di eurofilia. Tuttavia divorai il libello
– a metà tra il saggio economico e il pamphlet – che era pieno di analisi
nefaste e previsioni azzardate sulla crisi: si sarebbero rivelate vere
entrambe. Ne discutemmo tre giorni dopo sulla terrazza del bar,
affacciata sullo splendido parco che circondava la sede della radio, ad
un passo dalla Roma Fiumicino, nel quartiere Portuense di Roma. Quel
giardino era parte di un comprensorio di proprietà della famiglia
Garofalo, fondata da un ex partigiano, diventata proprietaria di una
importante catena di cliniche, che era trasmigrata verso posizioni più
centriste. Il giovane Antonio, nipote del capostipite, era invece un
ragazzo curioso, vagamente di sinistra, molto intelligente e interessato
soprattutto alla radio e alla musica. Io andavo in onda la mattina
insieme ad un ragazzo talentuoso che veniva dallo sport che si
chiamava Flavio Grasselli (adesso fa l’analista per un broker
internazionale di scommesse) e il giovane Garofalo animava un
programma di tendenza che andava in onda la sera. Ci garantiva
assoluta libertà, e cercava di risollevare la radio dopo il crollo della
pubblicità indotto dalla crisi e un primo semi-fallimento. Questa fase di
vacche magre seguiva un lancio faraonico della radio, che aveva in
Vittorio Sgarbi e in Alba Parietti i suoi punti di forza.
Nel parco incantato del comprensorio Garofalo, che sembrava una
cittadella incantata assediata nella capitale in crisi degli anni 2011-2012,
chiesi al professor Rinaldi con una punta di impudenza: «Ma per caso
voi no-euro siete tutti matti?» Anziché mandarmi a quel paese Antonio
mi rispose: «Hai capito cosa sta accadendo? Ci stiamo suicidando».
Avevo sentito tesi così predicate anche in bocca a Vladimiro Giacché,
economista, socio e collaboratore fisso del nostro giornale, bello e
sfortunato. Partendo da un percorso classico da economista keynesiano
di formazione marxista, Giacché era approdato alle stesse conclusioni
di Rinaldi: a loro avviso il sistema dell’Euro, cosi come era stato
strutturato, e per l’effetto combinato dei successivi trattati e dei
regolamenti che si erano stratificati, non poteva che distruggere le
economie industriali dei paesi più indebitati. Con in testa – ovviamente
– l’Italia. «Le politiche del rigore inaugurate da Monti – mi disse quel
giorno Rinaldi – nel lungo periodo potranno produrre solo due
conseguenze: deprimere il PIL e aumentare il debito». Queste tesi, dette
e scritte nei libri degli eurocritici e destinate a diventare un cavallo di
battaglia di un sito che allora era solo nella mente di un gruppo di amici
– Scenariecomonici.it – venivano considerate risibili e apocalittiche da
opinionisti ed economisti che adesso hanno smesso di contestarle o che
addirittura le hanno fatte proprie. Almeno nella pars destruens, nella
parte critica, i no-euro (di Destra e di Sinistra) avevano azzeccato le loro
previsioni. Antonio mi guardava sorridendo e quel giorno rispondeva
così alla mia domanda: «Tu, caro Luca, non devi chiederti se siamo
matti noi. Devi chiederti perché tutti gli altri si sono volontariamente
auto-accecati, rifiutandosi di vedere l’iceberg a cui stiamo andando
incontro in nome di una fideistica e acritica adesione ai principi del
rigore». Purtroppo anche questa valutazione si rivelò fondata.

«Ma questi hanno mai montato un’obbligazione?»

Il gruppo per un lungo decennio è diventato una sorta di compagnia


di giro che ha percorso l’Italia in lungo e in largo, confrontandosi in
centinaia di dibattiti e di riunioni. Snobbati dall’accademia, minoritari
ed eccentrici, animati da una fede granitica nelle loro teorie. Il più
teoretico di tutti è un signore che si chiama Alberto Bagnai. È un
economista puro, viene da Sinistra, è stato iscritto al PCI. Poi c’è
Claudio Borghi Aquilini, un ex broker di estrazione liberale diventato
prima professore di economia e poi responsabile economico della
Lega. C’è poi un ex giornalista di area socialista che si è specializzato
sulla Flat Tax che si chiama Armando Siri (anche lui approderà alla
Lega) e poi c’è l’ex segretario del partito Repubblicano, Giorgio La
Malfa. Quindi c’è un uomo dell’establishment che si è convinto delle
tesi eurocritiche in tarda età, come il professor Savona. E infine c’è lui,
Antonio Maria.
Rinaldi è un personaggio che meriterebbe un capitolo di un romanzo
di formazione. Per parte di madre è discendente del compositore
Rossini. Vive in una bellissima villa, a Roma, un bel casale circondato
da un ampio parco, dove spesso si è discusso di economia con l’ausilio
necessario e immancabile di un sigaro toscano e di un prosecco. Era
Direttore Generale della capogruppo finanziaria dell’ENI e ha portato
personalmente in quotazione gran parte delle società quotate del
colosso del cane a sei zampe. Si è occupato di quotazioni delle società
pubbliche, di borsa, di società. Quando gli danno del professore astratto
(o matto) lui si mette a ridere: «Ma hanno mai montato un’obbligazione
in vita loro questi?» Lui sì, in ogni forma e modalità. Lui il mondo degli
squali della finanza dice che può combatterlo perché lo conosce come
le sue tasche.
«Se servisse un saggio sul mercato mobiliare mi basterebbe prendere
i diari della mia prima vita. Ho imparato sul campo la lezione
importante su quel mondo: la borsa è una bestia che proprio quando
credi di conoscerla ti sbrana».
L’unica nota di nostalgia Rinaldi se la concede quando ricorda i tempi
dell’ENI: «Era una scuola di eccellenza e anche di aristocrazia
intellettuale. Ai miei tempi le grandi banche d’affari quando venivano a
trovarci facevano mezz’ora di anticamera per prassi. Anche se non
avevamo nulla da fare, aspettavamo. Poi – ricorda Rinaldi – li
chiamavamo, illustravano l’operazione e dicevano: la volete fare? Le
condizioni sono queste, prendere o lasciare». Esagerazione?
Anacronismo? Rinaldi scuote la testa: «Guarda che i problemi sono
iniziati quando questo rapporto di forza si è ribaltato e l’economia ha
iniziato a farsi comandare dalla Finanza».
Suo nonno, Alessandro Rossini, possedeva quote sia della Ansaldo che
della Caproni, due industrie del comparto aeronautica che saranno
convertite alla produzione bellica durante la Seconda Guerra mondiale.
Il nonno Rossini diventa ricco, ma rimane ostinatamente antifascista. Al
punto che nel 1943 è costretto a scappare in Svizzera, attraversando
fronti e frontiere con una fuga in macchina rocambolesca: «Mamma,
come ci riuscì il nonno?» Risposta: «Con una valigetta magica. Piena di
contanti». Il “Commendatore” Alessandro con quella valigetta, oltre alla
sua, salva molte vite, pagando 5.000 franchi di cauzione ai tedeschi per
ogni amico ebreo sottratto alle loro grinfie in territorio elvetico. Rinaldi
sorride: «Se non pagassi l’IMU sarei ricco. Ma la mia storia
professionale e la mia storia familiare mi hanno regalato una grande
fortuna: non sono ricattabile».
Rinaldi perde il suo buon umore solo quando cita i suoi peggiori
nemici accademici: «Le scuole economiche italiane, oggi, sono quasi
tutte egemonizzate dai bocconiani. Mediocri e ridicoli apprendisti
stregoni del neoliberismo e del rigore. Non dimentichiamoci che questi
signori ci hanno regalato Monti e il montismo». Nel 2013 Rinaldi
pubblica Europa kaputt con la prefazione di Savona e di Bagnai. Nello
stesso anno organizza insieme a loro e a Claudio Borghi un convegno
alla Camera sulle teorie eurocritiche. Due anni dopo un secondo
convegno in cui nasce l’idea di un piano per uscire dall’Euro.
Rinaldi racconta di essere stato molto influenzato, nel suo percorso
intellettuale, dalla ricerca di Savona. «A Carli, prima della firma di
Maastricht, il professore disse di non firmare il trattato se non avesse
ottenuto una clausola di Opting out, che consentisse in maniera esplicita
la possibilità di potersi tirare indietro nelle trattative per la moneta
unica». Carli rispose che quella clausola non era ottenibile. Savona
osservò che gli sembrava una follia. Carli a sua volta replicò
all’obiezione dicendo: «Tu hai ragione Paolo, sul piano teorico, ma se
questa clausola la chiedessimo davvero rischieremmo di essere
considerati deboli. E questo l' Italia, oggi, non se lo può permettere».
È stata questa preoccupazione a influenzare Carli e Ciampi, i padri
italiani della moneta.

«Sai cosa si può fare? Un sito che costa 750 euro l’anno»

Nel maggio del 2018 le cancellerie di tutta Europa discutono di un


saggio pubblicato da un (fino ad allora) minuscolo sito di analisi. Il sito
si chiama Scenarieconomici.it, ed è stato fondato, cinque anni prima, da
un gruppo di sei amici tutti professori o esperti di economia. In quel
mese Scenari passa da un record di 50 mila a 500 mila visite. Arrivano
utenti da tutti i continenti del pianeta. Accorrono tutti per leggere un
lungo saggio – passa alla storia come “Il Piano B” – in cui si spiega
come l’Italia potrebbe uscire dall’Euro in un fine settimana. Inutile dire
che il saggio, a più mani, è stato curato dall’animatore del sito, Antonio
Rinaldi insieme agli amici autori. Gli chiedo: «Chi finanzia “Scenari?”».
Lui scoppia a ridere: «Come chi? Noi». Chi paga i costi dei convegni. E
lui: «Noi». Gli dico: «Non ci credo». E lui: «Caro Luca, questo sito, che ha
avuto 17 mila attacchi e intrusioni informatiche è gestito da un nostro
amico che chiede come unico rimborso per le spese sostenute 750 euro
l’anno. Quando facciamo un convegno, invece, mano alla saccoccia (in
romanesco è il portafoglio, nda) è quello che c’è da pagare si divide in
quote uguali».
Pare incredibile ma il gruppo di professori e studiosi eccentrici e
marginali, in questi cinque anni, e con questi due unici strumenti di
comunicazione è diventato il pensatoio di uno dei principali partiti di
governo, il luogo di un pensiero egemone. Se provochi Rinaldi, su
questi temi, minimizza. Ti spiega che loro sostengono tesi
perfettamente assennate e razionali. Ad esempio l’incompatibilità e
l’illegittimità del fiscal compact. Oppure il chiodo fisso della sovranità:
«La nostra idea è semplicemente quella che bisogna rafforzare l’Italia
per dargli un giusto ruolo. La costruzione europea non può resistere
con un’Italia debole. I veri europeisti siamo noi».
I no-euro nel giugno del 2018 hanno trovato il conforto di una forma
importante come Milena Gabanelli che ha scatenato un putiferio nella
rete, sposando le loro tesi sulla insostenibilità del regime dei cambi. Le
istituzioni nazionali – dicono – devono essere messe in grado di
difendere il paese. Mentre, sul famoso Piano B, Rinaldi dice: «Se ci fosse
un attacco militare pensi che non serva un piano di difesa? Sul piano
monetario è la stessa cosa. È un rischio eventuale che deve essere
calcolato». Dicono che un piano programmato in tre giorni è sospetto e
furtivo. Rinaldi sorride ancora: «Non ho mai visto un piano di difesa
pensato per svilupparsi nel corso di mesi». A lanciare la necessità di
dotarsi di un Piano B, ovviamente, è Savona, che lo ha spiegato con
questo esempio: «Nessuno rimprovererebbe un progettista di navi per
aver previsto le scialuppe a bordo. Nessuno direbbe a questo
progettista che si augura il naufragio perché immagina una via di
salvezza dalla catastrofe». Oggi Rinaldi è ancora più pessimista: «Temo
che nel 99% delle possibilità ci sarà una rottura dell’Euro per via di una
nuova crisi monetaria dell’area Euro, non per decisione autonoma
dell’Italia». Se lo accusi di essere anti-tedesco il professore sorride. Al
contrario di molti economisti filomerkeliani lui la lingua di Goethe la
parla a casa: sua moglie tedesca e per metà lo sono i suoi figli, Rodolfo
e Antonio. «Proprio perché conosco bene i tedeschi quando vado in
Germania – ripete Rinaldi – non voglio essere considerato un parente
povero. La nostra storia ce lo impone».
Rinaldi teme che uno scossone arriverà dalla fine della politica
economica inaugurata da Mario Draghi alla BCE: «Se esiste il QE –
spiega – vuol dire che la costituzione monetaria è una struttura
instabile, che non riesce a trovare un equilibrio».
Per Rinaldi l’Italia è un malato con la flebo che continua a credere nel
medico che sbaglia le diagnosi e che non gli spiega l’origine del suo
male. Il Piano B serve – sostiene – «perché ci saranno momenti di
tensione». Il nodo a suo avviso è tutto qui: «Tassi diversi e meccanismi
di redistribuzione diseguali fanno sì che le disuguaglianze si allarghino.
Le due velocità dell’Europa producono aree sempre più ricche e aree
sempre più povere. Se non si corregge questo congegno siamo nei
guai».
Rinaldi dice di aver iniziato il suo percorso euroscettico nel 2011,
contemplando l’immagine degli anziani che frugavano nei cassonetti. E
aggiunge di essere orgoglioso di essere considerato “pazzo e cialtrone”
dai bocconiani dell’era Monti: «Sono ottusi, tutti uguali, sembrano fatti
con lo stampino».
Oggi insegna Finanza Aziendale all’Università “Gabriele D’Annunzio”
di Pescara e alla “Link Campus University” dell’ex ministro
democristiano Enzo Scotti: «La Distinzione tra Destra e Sinistra è
definitivamente saltata sul tema della moneta e della sovranità. Su
questo terreno, i vecchi liberali come Einaudi, i repubblicani come Ugo
La Malfa, i comunisti come Enrico Berlinguer sarebbero tutti dalla
stessa parte, a tutela dell’interesse nazionale. Io sono keynesiano perché
difendo l’idea dello Stato a garanzia del bene pubblico. Perché voglio
tutelare gli interessi del popolo contro quelli delle élites». Poi ride: «Se
io fossi stato uno del sistema non avrei potuto sostenere queste tesi. Se
avessi dovuto campare con il lavoro universitario mi avrebbero già
fucilato».

Epilogo

Una battuta sapida, fra uomini di memoria lunga, può lasciare il


segno. Può protendersi nello spazio di un decennio, di un ventennio, di
un frammento di epoca. Il giorno in cui escono dalla Camera, al
termine di un' audizione in Commissione di Finanze che dura mezza
giornata, l’ex studente e il suo professore si ritrovano sullo stesso
marciapiede di piazza Montecitorio. Come se fossero passati solo pochi
minuti da quella famosa sessione di esame del 1977, Savona dopo
l’audizione si rivolge a Rinaldi con un sorriso tutto particolare e gli fa:
«Sai che c’è? Oggi ti correggo quel Ventotto in Trenta e Lode». Pensate
quello che volete, di loro. Ma almeno una cosa è inconfutabile, in tutta
questa storia: il senso dell’eleganza e dell’ironia possono essere un’arte
sublime.
Luca Telese
R I P R END I A M OCI L E CH I AV I D I CA S A

Questo è un libro al disperato inseguimento della realtà. Disperato,


perché in questo Paese sostenere temi economici e politici
controcorrente rispetto al mainstream porta a essere bollati con i più
svariati epiteti, nessuno dei quali lusinghiero. I fatti di questi tormentati
giorni, che stanno facendo ancora una volta male all’Italia, lo
dimostrano.
Eppure il nostro obiettivo principale è sempre stato quello di vedere
veramente attuata la Costituzione, in particolare quella “Costituzione
economica” che i Padri Fondatori hanno voluto fortemente codificare
per consentire al Paese il perseguimento di un modello che nel tempo
garantisse crescita, sviluppo e soprattutto equità, ponendo la tutela e la
dignità del lavoro come principio imprescindibile e non negoziabile
perché solo il lavoro può rendere un uomo libero e non schiavo.
Purtroppo l’adesione “distratta” ai Trattati europei da parte di una
classe politica che non ha mai compreso in pieno gli effetti di cosa stava
facendo in Europa, non ha consentito che quella parte così importante e
fondamentale della Carta venisse rispettata: i vincoli esterni hanno
infatti modificato radicalmente il nostro modello economico di
riferimento che nel bene o nel male aveva fatto grande l’Italia.
Nelle pagine che seguono, troverete il distillato dei quasi undicimila
articoli pubblicati nei suoi cinque anni di vita dal blog di Scenari
Economici, ovvero le teorie che stanno ispirando la “battaglia”
all’Europa di Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Abbiamo messo sulla
carta ciò che siamo abituati a fare sul web: dati, analisi, studi,
considerazioni, punti di vista e spunti, con la presunzione d’essere
entrati nel merito di ogni tema in modo unico e originale e con la
consapevolezza che solo spiegando anche in modo semplice concetti
economici complessi avremmo consentito a tutti di comprendere. Il
team degli autori è formato da liberi professionisti, ingegneri, avvocati,
economisti, manager, professori universitari, persone note e stimate
nel proprio campo, ma soprattutto amici che condividono le stesse idee
e l’amore per il Paese. C’è anche qualche insospettabile che scrive sotto
pseudonimo, perché non essere allineati al pensiero dominante crea
ancora molti problemi. Un assurdo, visto che, mentre gli altri paesi in
Europa si preparano a una possibile “tempesta perfetta” finanziaria in
piena regola e tengono gelosamente nel cassetto da tempo un Piano B
per non farsi cogliere impreparati nel caso di un’uscita ordinata
dall’Eurozona, in Italia anche solo pensare che l’euro non funzioni è
stato fino ad ora un elemento considerato scandaloso. In tutti gli altri
Paesi partner il dibattito critico è aperto da tempo, con contributi
scientifici supportati dall’accademia e dalla politica. Avere anche solo
ricordato che attualmente l’architettura UE e l’euro è come «l’aver
costruito una nave senza le scialuppe» ci ha attirato le “ire” dei piani alti,
senza capire che nessuno voleva il naufragio, ma solamente mettere in
guardia del grande pericolo. E, visto che il vento non si può fermare
con le mani, gli eventi hanno fatto in modo che in pochi giorni il nostro
Paese si svegliasse d’improvviso dall’incantesimo e sdoganasse il
dibattito sull’Euro e sulla UE, rimasto per troppo tempo confinato
come eresia da Santa Inquisizione. E così quei tre pionieri dal nome
Alberto Bagnai, Claudio Borghi Aquilini e Antonio Maria Rinaldi,
considerati blasfemi solo perché hanno osato sfidare con la sola forza
delle loro idee il pensiero unico, oggi sono considerati coloro che hanno
aperto una nuova speranza per il bene del Paese.
Ma anche questo minaccioso ostracismo nei confronti di una strada
alternativa ha avuto il merito di dirci che stavamo facendo la cosa
giusta. Abbiamo provato a smontare una ridda di luoghi comuni
inseguendo la realtà, che è un’altra rispetto a quella che ci raccontano:
l’esperienza sul campo di ognuno di noi dimostra che le decisioni prese
nei palazzi di Bruxelles, Francoforte o Roma non coincidono con le
effettive esigenze e aspettative dei cittadini e delle imprese.
Che cosa abbiamo fatto in questi anni, che cosa vogliamo fare?
Sfasciare tutto? Di questo ci accusano da sin troppi pulpiti, ma
rigettiamo ogni calunnia. Vogliamo ricostruire, ma con presupposti
diversi, perché l’Unione Europea, così come si è evoluta, non riesce a
soddisfare in modo ottimale tutti i bisogni dei partecipanti. Il
suggerimento è solo uno: cerchiamo in comune accordo di apportare
quelle modifiche ai meccanismi del mercato unico e dell’aggregazione
monetaria al fine di portare la convivenza da “asimmetrica” a
“simmetrica” e farla funzionare veramente, da Malta alla Germania
nessuno escluso, altrimenti si creeranno aree sempre più ricche e altre
sempre più povere con il più che probabile rischio di un’implosione
disastrosa dell’intero progetto di integrazione a danno di tutti.
L’idea di unirci in un blog è nata nel 2013 da un ingegnere
quotatissimo, Giampaolo Atzori, che ha formato un’équipe affiatata
con l’obiettivo di ragionare su ciò che sull’Eurozona e altri temi caldi
scrivevano i giornali, bevendosi tutto quello che diffondevano le
istituzioni. Dal 2015 ho preso il testimone di Atzori sostituendolo nella
gestione del blog. Nel tempo il nostro gruppo si è fatto ancor più coeso
e noto, il blog è diventato un riferimento sui temi economici più
controversi, anche i sostenitori e simpatizzanti della Lega e M5S, che
con maggior frequenza ci invitavano ai loro convegni a cui abbiamo
partecipato sempre come relatori indipendenti, sono stati il nostro
maggiore stimolo nel perseverare con le nostre idee. Hanno
riconosciuto la nostra onestà intellettuale, hanno compreso che non
eravamo alla ricerca di incarichi o poltrone: abbiamo la coscienza a
posto nell’aver contribuito a migliorare il nostro amato ma sfortunato
Paese, perché l’unica cosa che davvero ci ha sempre interessato è
lasciare ai nostri figli e nipoti un’Italia con la schiena diritta, e, siamo
certi sin da ora, un giorno saranno fieri di noi.
Tempo fa una persona con cui ho un forte legame mi disse: «Lo sai
qual è la più grande conquista del genere umano? Non è essere andati
sulla Luna o chissà quale scoperta nel campo della medicina o della
scienza, ma essere riusciti ad attribuire la Sovranità al Popolo». Questa
lapidaria e formidabile affermazione è stata come una stella polare nel
pensiero che ha ispirato Scenari Economici. Inutile dirvi che il signore
che ha fatto questa considerazione si chiama di nome Paolo e di
cognome Savona.
La soddisfazione di poter dire che eravamo tra i pochi a pensare una
via diversa, è l’unica moneta che conta e che ci appaga. A tutti gli altri
che ci hanno tacciato di “sfascismo” lasciamo la cieca fede in questo
euro “sbagliato”. La soddisfazione di aver portato il dibattito nelle
piazze era alla fine il nostro unico scopo e ringraziamo le istituzioni e i
media italiani che con il loro inconsapevole comportamento hanno nel
giro di pochi giorni fatto conoscere agli italiani ciò che noi sosteniamo
con forza da anni, cioè che tutta la costruzione europea e la moneta
comune hanno urgente bisogno di essere riviste, per andare incontro
finalmente alle esigenze dell’economia reale, non rincorrendo le élite
finanziare o le multinazionali. Una moneta che sia al servizio del Paese,
non una a cui i cittadini e le imprese si debbano piegare. Abbiamo solo
sostenuto che è la Terra che gira intorno al Sole e non viceversa. Come
Galileo Galilei.
Antonio Maria Rinaldi
L A V ER S I ONE D I PA OL O S AV ONA
NON CED I A M O L A NOS T R A S OV R A NI T À
L a l e tte ra a l P re s i d e n te Ma tta re l l a d e l l’a go s to
2 015

Caro Presidente,
per il rispetto che porto all’istituzione che presiede e a Lei
personalmente, è con molta ansia che Le indirizzo questa lettera aperta
riguardante una scelta che considero fondamentale per il futuro
dell’Italia: la cessione della sovranità fiscale per far funzionare la
sovranità monetaria europea, dato che questa è stata ceduta dagli Stati-
membri senza stabilire quando e come si dovesse pervenire
all’indispensabile unione politica necessaria per rendere irreversibile
l’euro, né attribuire alla Banca Centrale Europea il potere di svolgere la
funzione di lender of last resort in caso di attacchi speculativi come quelli
che abbiamo vissuto dopo la crisi finanziaria americana del 2008.
Invece di affrontare questi due problemi vitali per il futuro
dell’Europa si chiede di sottoscrivere un accordo per cedere la sovranità
fiscale residua che, per pudore, viene chiamata “gestione in comune”. Il
Presidente della Bundesbank ha riproposto e precisato i contenuti in un
recente discorso.
Leggo sui giornali che Lei avrebbe concordato con il Presidente della
BCE e il Ministro dell’economia e finanza italiano una strategia in
attuazione del previsto accordo. Non credo di dover spiegare a Lei
perché nomino istituzioni e non persone. Penso che queste notizie
siano suggerimenti di persone scriteriate (l’aggettivo è di un Suo illustre
predecessore, Luigi Einaudi) che, non fidandosi più del Paese, ammesso
che mai se ne siano fidate, lo vogliono colonizzare; una sorta di fastidio
per i disturbi che provengono per i loro interessi. Spero che la notizia
sia infondata, perché se non lo fosse, sarebbe Suo dovere smentirla,
secondo un insegnamento che mi ha dato Ugo La Malfa: «se un notizia
è falsa, non si smentisce, se è vera, si deve farlo»; e, aggiungeva, «se i
contenuti della notizia erano particolarmente importanti − come
sarebbe la cessione della sovranità fiscale che marcherebbe la fine della
democrazia italiana senza che ne nasca un’altra − non si doveva solo
smentire, ma farlo in modo energico».
A ogni buon conto, se una tale scelta maturasse, Lei non potrebbe
ratificarla, perché l’art. 11 della Costituzione dice chiaramente che
l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni
di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo.
Naturalmente diranno che la decisione risponde a queste condizioni
(pace, giustizia e parità con altri Stati) ma, sulla base dell’esperienza
fatta con la cessione all’Unione Europea della sovranità di regolare i
mercati e di battere moneta, queste sono pure ipotesi, una vera truffa
per taluni e un’ingenuità per altri, che né la scienza economica (mi passi
il termine), né la politica, che pretese di scienza non ha mai avuto,
possono asseverare.
I Trattati internazionali sono contratti giuridici tra nazioni e l’oggetto
del Patto stipulato a Maastricht in attuazione dell’Atto unico e ribadito a
Lisbona nel 2000 parla chiaro: «All’art. 2, punto 3, afferma che l’Unione
� si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una
crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su
un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla
piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela
e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il
progresso scientifico e tecnologico. L’Unione combatte l’esclusione
sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione
sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la
tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica,
sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri».
Le chiedo, caro Presidente, se Lei ritiene che questo impegno sia stato
adempiuto e quali siano, anche dopo l’esperienza della crisi greca, le
probabilità che lo possa essere anche ipotizzando di cedere la parte
residua della sovranità nazionale in cambio (il termine è già un
eufemismo) di un’assistenza finanziaria accompagnata da vincoli che
violano il dettato della nostra Costituzione che Lei è deputato da
tutelare. Invece di uscire dal paradosso di un non-Stato europeo
formato da non-Stati nazionali si intende approfondire questa strana
configurazione istituzionale, perché appare vantaggiosa a pochi paesi
capeggiati dalla Germania.
Poiché la tesi del vantaggio che potremmo ricavarne è priva di
fondamento, da tempo si insiste nello spargere terrore su quello che
avverrebbe se l’euro crollasse, trascinando il mercato unico,
aggiungendo la ciliegina della speranza che in futuro le cose andranno
meglio e che si va facendo di tutto affinché ciò avvenga.
Vivere nel terrore del dopo e nelle speranze che le cose cambino,
senza attivare gli strumenti adatti affinché ciò avvenga, non è posizione
politica dignitosa. L’Italia non si è tirata indietro quando è stato chiesto
di pagare un costo elevato in termini di vite umane per giungere
all’unità e per uscire dalla dittatura nazifascista perché sapeva valutare
il costo di rimanere nelle condizioni in cui si trovava. Spero che la
nuova classe dirigente non si tiri indietro e sappia chiedere e far
accettare un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni.
Per l’Italia non esiste alternativa al chiedere il rispetto congiunto del
dettato costituzionale e dell’oggetto del Trattato europeo vigente e Lei
ne è garante.
Paolo Savona
L ’ EU R OPA ,OV V ER O D EL S ENNO D I P OI
S ONO P I ENE L E FOS S E
Ar ti co l o d i S avo n a d e l 2 5 ge n n a i o 2 017

L’intervista di Federico Fubini a Mervyn King, ex Governatore della


Banca d’Inghilterra e bravo economista, sta facendo scalpore. King
sostiene che la moneta unica, (l’Euro), l’accordo di Schengen e la libera
circolazione dei cittadini europei, sono state decise troppo in anticipo e
sarebbe stato necessario attendere dai cinquanta agli ottant’anni anni. E
aggiunge: «Non siamo noi britannici a lasciare l’Unione, è l’Unione
Europea che sta lasciando noi»; afferma poi che l’uscita del Regno Unito
non produrrà grandi danni all’economia inglese. Gli europeisti
kamikaze, ossia coloro che pur di difendere l’UE e l’Euro, sono disposti
a morire (nella versione moderna che riguarda la morte altrui, non
certo la propria), preoccupatissimi, sono subito scesi in campo con i
soliti argomenti: le affermazioni di King riguardano il Regno Unito e
non l’Italia, perché per noi uscire sarebbe un vero disastro.
Recentemente essi hanno gioito per le affermazioni di Mario Draghi,
presidente della Banca Centrale Europea, che per la prima volta
ammette si possa uscire dall’Euro, purché prima si paghino i debiti
contratti; in buona parte questi sono stati contratti per gli interventi
effettuati per il sostegno dei titoli di Stato italiani. Siccome essi
ammontavano a 358 Mld di euro nel novembre 2016 (circa il 22% del
PIL italiano) sarebbe da folli uscire. Ne consegue che la decisione del
“grande Mario” di sostenere i nostri titoli di Stato, accettata con grande
tripudio in Italia e continuamente esaltata, funziona come quella che il
solo Paolo Baffi, veramente un “grande”, denunciò per il Sistema
Monetario Europeo, progenitore dell’Eurosistema: l’Italia sarebbe
diventata debitrice malgré elle, anche se non l’avesse voluto. Il
Parlamento e i Governi, le supreme cariche dello Stato, hanno caricato
sulle spalle dei cittadini un peso gravoso e ogni invito ad affrontare la
situazione cade nel nulla. Anzi, la situazione consente ai gruppi dirigenti
di mantenere il potere con la scusa che si deve prendere questo o quel
provvedimento per evitare che i “populisti” prendano il potere. Il fatto
che la democrazia sia bloccata da tempo rientra nella filosofia di
comodo dei mezzi giustificati dai fini. Il timore è che l’ultima tappa non
sia stata raggiunta, quella che i gruppi dirigenti cederanno la sovranità
fiscale residua, come deciso dalla Grecia, per zavorrare un’eventuale
salita al Governo dei populisti e, se non ci riuscissero, favorire il loro
fallimento nella speranza di essere richiamati al potere.
Un’ultima chiosa. Aumentano i ripensamenti dei Governatori di
banche centrali quando non sono più in carica. Il caso di Alan
Greenspan, Presidente della Banca Centrale Americana che ha
permesso l’esplosione della “Grande Recessione” del 2008 è eclatante
perché ha ammesso l’errore d’aver assecondato l’esuberanza irrazionale,
pur considerandolo errore “virtuoso”. Qualche volta i ripensamenti
vengono anticipati su singoli problemi, come ha fatto Visco dopo
l’approvazione della direttiva detta del bail-in che ha sovrapposto
vincoli e guai alle difficoltà delle banche italiane. Questi “pensamenti”
devono essere fatti prima, se fatti dopo sono vere prese in giro.
Soprattutto se non sono accompagnati da precisazioni di ciò che si sta
facendo per ovviare agli errori.
Sono cosciente che queste considerazioni sono molto mal viste e mal
considerate, ma finché qualcuno grida che “il re è nudo”, l’umanità ha
qualche speranza.
V OGL I O U N’ EU R OPA D I V ER S A
L a n o ta d i S avo n a s u l l e p o l e mi che i n to r n o a l l a
n o mi n a a Mi n i s tro d e l l’ E co n o mi a

Domenica 27 maggio 2018 ore 13.20

Non sono mai intervenuto in questi giorni nella scomposta polemica


che si è svolta sulle mie idee in materia di Unione Europea e, in
particolare, sul tema dell’euro, perché chiaramente espresse nelle mie
memorie consegnate all’Editore il 31 dicembre 2017, circolate a stampa
in questi giorni, in particolare alle pagine 126 e 127. Per il rispetto che
porto alle Istituzioni, sento il dovere di riassumerle brevemente:

- Creare una scuola europea di ogni ordine e grado per pervenire a


una cultura comune che consenta l’affermarsi di consenso alla nascita
di un’unione politica;
- Assegnare alla BCE le funzioni svolte dalle principali banche centrali
del mondo per perseguire il duplice obiettivo della stabilità monetaria e
della crescita reale;
- Attribuire al Parlamento Europeo poteri legislativi sulle materie che
non possono essere governate con pari efficacia a livello nazionale;
- Conferire alla Commissione Europea il potere di iniziativa
legislativa sulle materie di cui all’art. 3 del Trattato di Lisbona;
- Nella fase di attuazione, prima del suo scioglimento, assegnare al
Consiglio Europeo dei capi di Stato e di governo compiti di vigilanza
sulle istituzioni europee per garantire il rispetto degli obiettivi e l’uso
dei poteri stabiliti dai nuovi accordi.

Per quanto riguarda la trasposizione di questi miei convincimenti nel


programma di Governo non posso che riferirmi al contenuto del
paragrafo 29, tra pagina 53 e 55, del Contratto stipulato tra la Lega e il
M5S, nel quale vengono specificati gli intenti che verranno perseguiti
dal Governo che si va costituendo «alla luce delle problematicità
emerse negli ultimi anni»; queste inducono a chiedere all’Unione
Europea «la piena attuazione degli obiettivi stabiliti nel 1992 con il
Trattato di Maastricht, confermati nel 2007 con il Trattato di Lisbona,
individuando gli strumenti da attivare per ciascun obiettivo» che nel
testo che segue vengono specificati.
Anche per le preoccupazioni espresse nel dibattito sul debito pubblico
e il deficit il riferimento d’obbligo è il paragrafo 8 di pagina 17 del
Contratto in cui è chiaramente detto che «l’azione del Governo sarà
mirata a un programma di riduzione del debito pubblico non già per
mezzo di interventi basati su tasse e austerità − politiche che si sono
rivelate errate ad ottenere tale obiettivo − bensì per il tramite della
crescita del PIL, da ottenersi con un rilancio della domanda interna dal
lato degli investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di sostegno del
potere di acquisto delle famiglie, sia della domanda estera, creando
condizioni favorevoli alle esportazioni».

Spero di aver contribuito a chiarire quali sono le mie posizioni sul


tema dibattuto e quelle del Governo che si va costituendo interpretando
correttamente la volontà del Paese.
Sintetizzo dicendo: voglio un’Europa diversa, più forte, ma più equa.
H O S U B Ì T O U N GR AV E T OR T O, È U N
P R OCES S O A L L E I NT ENZ I ONI
L a n o ta d i S avo n a d o p o i l r i fiu to d i Ma tta re l l a
a l l a s u a n o mi n a

28 maggio 2018 ore 18.00

Ho subìto un grave torto dalla massima istituzione del Paese sulla


base di un paradossale processo alle intenzioni di voler uscire dall’euro
e non a quelle che professo e che ho ripetuto nel mio Comunicato,
criticato dalla maggior parte dei media senza neanche illustrarne i
contenuti.
Insieme alla solidarietà espressa da chi mi conosce e non distorce il
mio pensiero, una particolare consolazione mi è venuta da Jean Paul
Fitoussi sul «Il Mattino» di Napoli e da Wolfgang Münchau sul
«Financial Times». Il primo, con cui ho da decenni civili discussioni sul
tema, afferma correttamente che non avrei mai messo in discussione
l’euro, ma avrei chiesto all’Unione Europea di dare risposte alle
esigenze di cambiamento che provengono dall’interno di tutti i paesi-
membri; aggiungo che ciò si sarebbe dovuto svolgere secondo la
strategia di negoziazione suggerita dalla Teoria dei Giochi che
raccomanda di non rivelare i limiti dell’azione, perché altrimenti si è
già sconfitti, un concetto da me ripetutamente espresso pubblicamente.
Nell’epoca dei like o don’t like anche la Presidenza della Repubblica segue
questa moda.
Più incisivo e vicino al mio pensiero è il commento di Münchau. Nel
suo intervento, egli analizza come deve essere l’euro per non subire la
dominanza mondiale del dollaro e della geopolitica degli Stati Uniti,
affermando che la moneta europea è stata mal costruita per colpa della
miopia dei tedeschi. La Germania impedisce che l’euro divenga come il
dollaro «una parte essenziale della politica estera». Purtroppo, egli
aggiunge, il dollaro ha perso questa caratteristica, l’euro non è in
condizione di rimpiazzarlo o, quanto meno, svolgere un ruolo
parallelo, e di conseguenza siamo nel caos delle relazioni economiche
internazionali; queste volgono verso il protezionismo nazionalistico,
non certo foriero di stabilità politica, sociale ed economica. È il tema
che con Paolo Panerai ho toccato nel pamphlet recentemente pubblicato
su Carli e il Trattato di Maastricht, dove emerge la lucida grandezza di
Paolo Baffi. L’Italia registra fenomeni di povertà, minore reddito e
maggiori disuguaglianze. Il 28 e 29 giugno si terrà un incontro
importante tra capi di Stato a Bruxelles: chi rappresenterà le istanze del
popolo italiano? Non potrà andarci Mattarella, né può farlo Cottarelli.
Se non avesse avuto veti inaccettabili, perché infondati, il Governo
Conte avrebbe potuto contare sul sostegno di Macron, così incanalando
le reazioni scomposte che provengono dall’interno di tutti
indistintamente i paesi-membri europei verso decisioni che aiutino
l’Italia a uscire dalla china verso cui è stata spinta. Münchau
giustamente afferma che «teme non vi sia un sostegno politico nel Nord
Europa» e quindi non ci resta che patire gli effetti del protezionismo e
dell’instabilità sociale. Si tratta di decidere se gli europeisti sono quelli
che stanno creando le condizioni per la fine dell’UE o chi, come me, ne
chiede la riforma per salvare gli obiettivi che si era prefissi.
S E NON S I A M O I NCOS CI ENT I , T ENI A M O
P R ONT O I L P I A NO B
S cr i tto d i S avo n a (13 l u gl i o 2 015)

La Germania ha dichiarato che ha perso la fiducia nella Grecia di


Tsipras. Questa dichiarazione fa perdere definitivamente fiducia nella
Germania di Schaeuble o, più esattamente, conferma che la Germania
non è partner affidabile nella costruzione dell’Europa unita.
Per me non è una novità, per altri lo è e per molti è l’occasione per
disfarsi dell’ultimo straccio di sovranità fiscale, ponendo fine allo Stato
italiano (che non hanno mai amato) senza che nasca uno Stato europeo,
ma un corpo di regole facilmente manipolabile dai poteri forti. Tale si
sente e opera la Germania di Schaeuble.
La mia insistenza nel non attribuire alla Merkel la responsabilità della
vicenda è dovuta alla conoscenza delle vicende dei Cristiano
Democratici tedeschi che vide Schaeuble, delfino del prestigioso
Cancelliere Khol con il quale restò coinvolto negli scandali finanziari
del Partito, sorpassato dalla Merkel. Egli è stato protagonista della
riunificazione tedesca e, nel corso di questa storica operazione,
Schaeuble fu oggetto di un vile attentato che lo privò dell’uso delle
gambe costringendolo su una sedia a rotelle. Alla sua ambizione
personale ha perciò aggiunto il diritto a un compenso, quello di essere
nominato Cancelliere; la crisi greca è l’occasione che gli è stata offerta
di cavalcare il 70% dei tedeschi contrari ad assistere la Grecia e
favorevoli a gestire l’euro in modo diverso dal marco tedesco.
Ho già avvertito che questo è uno dei cardini del Piano Funk, ministro
dell’economia nazista, che suscitò le preoccupazioni dell’Ambasciatore
italiano a Berlino che avvertì Mussolini dei rischi insiti nel progetto. Ma
il punto principale del Piano, che ho ricordato nella mia Lettera agli amici
tedeschi e italiani pubblicata su ilmiolibro.it è l’auto proclamazione della
Germania come «Paese d’ordine dell’Europa».
La crisi greca − e soprattutto il risvolto del referendum che ha rivelato
l’allergia di un popolo alla democrazia “degli altri” − è stata un’ottima
occasione per confermare questo punto. Gli altri sono avvertiti e tra
questi c’è ovviamente l’Italia di cui è noto che i tedeschi non si fidano
per le passate esperienze. I conti perciò vanno pareggiati e spetta alla
parte sana dei tedeschi dirci che così non è. Io ho perso fiducia in loro.
Perciò, se l’Italia non l’ha già fatto, è giunto il momento d’avere
pronto un Piano B − di fine dell’euro o di uscita dallo stesso − che dal
2011 con svariati articoli ho insistentemente richiesto di approntare. Gli
accordi costruiti male o firmati da paesi con intenti egemoni non hanno
lunga vita.
Se dovessimo essere colti impreparati all’evento, sarebbe veramente
un dramma. Il sottotitolo del mio pamphlet J’accuse, in libreria da pochi
giorni, è «Il dramma italiano di un’ennesima occasione perduta».
Sembrerebbe una protesta generale, ma il dramma ha un contenuto
specifico: non aver approfittato della bonanza monetaria e dei tassi
quasi nulli per sistemare il nostro debito sulla base delle proposte
dettagliate avanzate con i colleghi Michele Fratianni e Antonio Rinaldi.
Uno dei punti principali di questa proposta è la confluenza del
patrimonio dello Stato in un Fondo simile a quello richiesto
dall’Eurogruppo alla Grecia, gestito da persona autorevole (ci siamo
spinti fino a indicare Enrico Bondi), nel quale far confluire il
patrimonio dello Stato senza alienarlo, ponendolo a garanzia del
rimborso di un debito pubblico con scadenze più lunghe delle attuali
(abbiamo indicato 7 anni, ma possono essere di più), offrendo un
rendimento pari all’inflazione più lo 0,20% dell’eventuale tasso di
crescita del PIL (visto che la Commissione e Renzi dicono che la crisi è
superata e la ripresa è in atto). Stiamo invece svendendo il patrimonio
pubblico per finanziare spese correnti dello Stato centrale e periferico,
scavando una fossa ulteriore per far cadere il nostro debito pubblico.
Questa è la vera occasione perduta. L’alto debito pubblico italiano è la
chiave di ricatto dell’Europa per indurci a “fare le riforme” e permettere
che al potere in Italia restino coloro che hanno propiziato e perpetuato
questa condizione di sudditanza internazionale per stare al Governo.
Ora apprendiamo che l’OCSE ha ricalcolato il debito pubblico italiano
innalzandolo al 156% del PIL 2014 dal suo equivalente ufficiale del 134%
in pari data, avviando una nuova fase di attacco all’Italia che penso sia
preludio a ciò che avverrà tra non molto.
COM E A B B I A M O P ER S O L A S OV R A NI T À
L A VA CCA T ED ES CA

Da quattordici anni lo teniamo in tasca, da ventuno ne sentiamo


parlare, ma perché si chiama Euro?
Riavvolgiamo velocemente il nastro: a Maastricht il 7 febbraio 1992 si
firma il Trattato che modifica giuridicamente la vecchia Comunità
Economica Europea del 1957 in Unione Europea per poter creare il
mercato unico necessario all’adozione di una moneta unica. La moneta
viene battezzata ECU (European Currency Unit, ovvero Unità di Conto
Europea) e si basa sin dal 1978 su un paniere ponderato delle valute
nazionali europee aderenti, quindi sottoposto alle oscillazioni di quelle
stesse valute in funzione dei rapporti di cambio.
Nel 1995 la “svolta”: al Consiglio Europeo di Madrid si decide di
cambiare il nome da ECU a Euro. Perché? Le note ufficiali si affrettano
nel dare spiegazioni di comodo, come ad esempio che la parola ECU
somigliasse troppo al vecchio scudo francese o che il nome Euro fosse
più direttamente riconducibile per tutti all’Europa.
La realtà è un’altra, imposta fortemente dalla delegazione tedesca
capeggiata dal Cancelliere Helmut Kohl e dal suo potentissimo,
inflessibile e “sopraccigliato” Ministro delle Finanze Theo Waigel
(anche detto il Papà dell’euro), che propongono − ottenendolo
immediatamente − il cambio del nome. Per un solo motivo: in lingua
tedesca, “un ecu” sarebbe suonato “eine ecu” creando imbarazzante
richiamo a “eine kuh” cioè “una vacca”. Una vacca al posto del potente
marco tedesco, simbolo di riscatto del Paese? Giammai.
Viene spontaneo chiedersi: se lo stesso problema d’infelice assonanza
fosse stato avanzato da altri Paesi, per esempio Italia, Spagna o Grecia,
la moneta che adottiamo oggi come si chiamerebbe?
I L P I A NO FU NK E L E M I R E T ED ES CH E

Le radici della tentazione della Germania di esercitare leadership sul


Vecchio Continente si perdono nel tempo. Si inizia con il concetto di
Mitteleuropa, un’area geo-politica che definisce più che una zona
geografica un “destino” comune, che potesse coagulare quelle affinità
storiche, sociali, culturali, scientifiche ed economiche che tanto avevano
contribuito al cammino dell’umanità tra il XVII e XIX secolo, un’epoca
d’oro seconda solamente al contributo che aveva apportato fino a quei
tempi la sola civiltà romana. Questo concetto ideale di “Europa
Centrale” mescolava tutte queste caratteristiche e si fondeva con la già
prorompente volontà tedesca di dominare gran parte del Continente,
chiamata per l’appunto Mitteleuropa, e che comprendeva un territorio
con confini non propriamente definiti, che si identificavano con quella
parte dell’Europa Centrale compresa fra il Mar Baltico a Nord e le Alpi
a Sud, a Ovest con la Francia e a Est con quella che era la Russia pre-
Unione Sovietica, ma includendo comunque Lituania, Estonia e
Lettonia. Ma si potrebbe affermare, per meglio definire il concetto
ispiratore della Mitteleuropa, che i suoi confini erano immaginari
proprio perché propensi a essere ridisegnati e a evolversi al formarsi di
ogni nuova favorevole situazione storica.
Il primo atto ufficiale che riconosce quest’area europea è del 21
gennaio 1904, quando a Berlino nasce l’Associazione Economica
Centro-Europea (Mitteleuropäischer Wirtschaftsverein), finalizzata
all’integrazione economica dell’Impero Tedesco e dell’Impero Austro-
Ungarico con l’auspicabile estensione futura a Svizzera, Belgio e
Lussemburgo.
Sarà poi Friedrich Naumann, gran teorico del pangermanesimo, che
con la pubblicazione del saggio Mitteleuropa nel 1915 indicherà in modo
più specifico la necessità di stabilire al termine della guerra, una sorta di
grande area economica Centro-Europea per mezzo di un’unione
politica che raggruppasse tutte le popolazioni di stirpe e lingua tedesca.
Nelle intenzioni di Naumann vi era la creazione di una federazione che
avesse al suo centro la Germania e l’Austria-Ungheria, Paesi satelliti
limitrofi compresi, con la futura integrazione di altre nazioni esterne, a
Ovest Francia e Inghilterra e a Est la Russia.
Con la sconfitta tedesca nella Prima Guerra mondiale e la
dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico, le aspirazioni
temporaneamente accantonate vennero resuscitate con estremo vigore
e enfasi negli anni Trenta, come parte integrante dell’ideologia nazista e
dell’espansionismo pantedesco come predominio totale sul Continente.
La firma apposta sull’articolazione tecnica di questo ideale di
supremazia, mai del tutto sopito nelle aspirazioni germaniche,
appartiene all’opera di Walther Funk, che predispose un piano, per
l’appunto il “Piano Funk”, in qualità di Ministro per gli Affari economici
del Terzo Reich dal 1938 al 1945, su incarico diretto di Hitler.
L’obiettivo era pianificare una dettagliata strategia per il predominio
economico della Germania che supportasse quella militare.
Funk, editore dal 1921 del giornale finanziario «Berliner Börsen-
Zeitung», fece una rapida carriera politica passando nel 1931 nelle file
del Partito nazista, prima come deputato del Reichstag nel 1932, poi
guadagnandosi la carica di presidente della Politica economica.
Con Hitler ormai al potere, diventò Segretario di Stato presso il
Ministero della Propaganda (1933), per poi insediarsi come titolare al
dicastero per l’Economia (1938) con l’appoggio di Hermann Goering,
che lo preferì a molti altri per la sua fedeltà a supporto della
realizzazione dei piani militari. Fedeltà ricambiata con le nomine nel
1939 a Governatore della Banca Centrale Reichsbank (banca centrale
del Deutsches Reich dal 1876 al 1945 e antesignana della Bundesbank) e
successivamente nel consiglio della pianificazione del Terzo Reich.
Queste funzioni gli permisero, con il sostegno del Führer, di
rielaborare a più riprese un piano estremamente particolareggiato per
la conquista e pianificazione del dominio economico tedesco su tutta
l’area continentale europea, enunciato nella sua articolata
configurazione nel discorso “La riorganizzazione economica
dell’Europa” del 25 luglio del 1940, dove, pervaso da delirio di
onnipotenza, invocava addirittura il filosofo Hegel a sostegno della
validità delle proprie idee.
Il piano prevedeva essenzialmente di realizzare l’autonomia
continentale dal punto di vista delle materie prime e dei processi di
trasformazione, una sorta di autarchia dell’area europea sulla base
dell’evoluzione dei vecchi concetti espressi a supporto della citata
Mitteleuropa e integrato dal grande progetto di dominazione politico-
razziale-sociale perseguito dalla dottrina del nazismo.
A supporto della realizzazione del progetto si ribadiva
l’indispensabilità di prendere come riferimento la politica economica
nazionalsocialista per la guida del nuovo ordine, nella convinzione che,
essendo disciplinata dal rigido dogma dei suoi metodi, fosse idonea
come nessuna per l’adozione da parte di tutti gli altri Paesi.
L’economia della nuova grande area non doveva significare solo la
subordinazione dell’apparato produttivo di tutto il continente europeo
in funzione della supremazia della Germania, ma anche segnare
differenze tra Europa Occidentale e Orientale essendo il Reich il nucleo
centrale di una grande coalizione di nazioni disponibili alla
penetrazione della potenza industriale e finanziaria tedesca all’interno
delle loro stesse strutture, le cui risorse sarebbero dovute affluire
comunque verso il centro dominatore. La Germania, arbitra dei destini
dell’Europa, avrebbe monopolizzato e condizionato ogni attività e
iniziativa in questa aggregazione forzata e la popolazione sarebbe stata
classificata con parametri culturali e sociali considerati tipici del popolo
tedesco, nella ferrea convinzione-presunzione che quei metodi si
sarebbero rivelati di grande vantaggio anche per le altre nazioni.
Particolarmente interessanti i passaggi del discorso in cui Funk
rivelava le specifiche del suo Piano riguardo alla questione della
creazione di una nuova moneta (e siamo nel 1940), all’interno della
quale prefigurava, nella grande area economica che si sarebbe
realizzata, un ruolo predominante della moneta tedesca, il marco,
come conseguenza della potenza del Reich, con l’istituzione di un’area
valutaria che avrebbe portato a una “moneta generale” (testualmente
così definita) a supporto di un graduale livellamento delle normative
infra-nazionali a favore dello sviluppo dovuto all’espansione
economica.
Tale “moneta generale” non sarebbe stata ancorata all’oro con un
sistema analogo al gold standard, ma sostenuta da un sistema di
compensazione europeo fra l’import-export dei Paesi partecipanti,
dove naturalmente alla Germania sarebbe spettata l’assoluta
determinazione dei relativi flussi attraverso l’imposizione della sua
politica economica supportata dal predominio militare conquistato e
consolidato. Il concetto di “moneta generale” espresso da Funk si sposa
perfettamente con l’idea della creazione di un’area valutaria da imporre
al Continente con funzione aggregatrice per effetto della forza delle
regole poste a suo supporto.
Lo stesso piano, scaturito dalle isteriche pretese di dominio proprie
della dottrina nazista, non specificava espressamente se la nuova
macroarea economica si sarebbe avvalsa della circolazione di una
nuova “moneta generale” autonoma oppure direttamente del marco,
ma è quanto mai intuibile dall’analisi del progetto che il Ministro
dell’Economia nazista prevedesse comunque una totale e assoluta
forma di controllo e di condizionamento da parte della Reichsbank
mediante l’adeguamento delle politiche economiche di tutti gli altri a
quelle dettate dalla Germania, autodefinitasi “Paese d’ordine” e unica
depositaria di superiori dogmi in grado di governare e guidare
l’Europa.
Sono impressionanti le analogie e corrispondenze con lo stato di fatto
che si è andato a determinare ai nostri giorni, se non constatando con
sollievo che l’originario Piano Funk si sarebbe potuto concretizzare solo
ed esclusivamente a seguito di preventive e consolidate conquiste
militari, mentre l’attuale situazione si è determinata con il consenso di
tutte le nazioni europee tramite l’apposizione di una innocua firma sui
Trattati. Possiamo insomma constatare che siamo attualmente in
presenza della variante “in tempo di pace” del Piano Funk.
All’epoca del piano originale, l’Ambasciatore italiano a Berlino, Dino
Alfieri, sentì l’esigenza di inviare alla Farnesina, nell’agosto del 1940,
una nota riservata per informare il governo delle intenzioni del Reich,
non ottenendo naturalmente nessuna attenzione.
Per la cronaca, il ministro dell’economia nazista Walther Funk, fu
catturato e processato dal Tribunale di Norimberga, che lo condannò
all’ergastolo con l’accusa di cospirazione contro la pace, pianificazione
di guerra di aggressione, crimini di guerra e contro l’umanità. Rilasciato
nel 1957 per motivi di salute, morì tre anni più tardi, consegnando però
alla storia un dettagliato e folle piano di predominio di un popolo su
altri con presupposti che hanno terribili analogie con le attuali.
Tornando ai giorni nostri e stabilendo un parallelo, la maggioranza
dei governi dell’Eurozona sembrano essersi comportati come quello
francese collaborazionista di Vichy, guidato dal 1940 al 1944 dal
generale Pétain, fantoccio agli ordini del Terzo Reich, con l’aggravante
che, se i francesi furono costretti con la pistola puntata alla nuca, i
responsabili odierni sembrano aver peccato d’ignoranza (dal verbo
ignorare, non sapere) e di ingiustificabile servilismo (ad essere
generosi).
Ho sempre avuto grande rispetto e ammirazione per il popolo
tedesco, ma penso che quando sostengono che i metodi da loro adottati
siano i migliori per tutti, al punto da pretenderne l’imposizione altrui, si
sia più che legittimati a dubitarne e ad attivarsi con tutte le forze ed
energie possibili affinché non vengano realizzati.
L’obiettivo di queste considerazioni è che possano almeno servire
come monito nei confronti di chi sostiene senza dubbio alcuno questa
Europa, perché possa riflettere e aprire finalmente gli occhi di fronte a
pericoli non solo corsi in passato, ma che potremmo ancora correre in
un prossimo futuro in assenza di condivisioni e di politici pienamente
in grado di percepirli in tutta la loro gravità.
L A M AT EM AT I CA È ( E FA ) OP I NI ONE

Forse non tutti i difensori dell’Euro, a spada tratta, sanno che alla base
della moneta unica c’è una marea di calcoli spannometrici, dei “due più
due” che sono diventati cinque, senza colpo ferire, sui quali si è
costruito tutto l’impianto dell’Eurozona. Di seguito ne esporremo per
semplicità i più macroscopici.

Il Rapporto Cecchini

Il primo di questi calcoli risale alla fine degli anni Ottanta, quando
alla guida della Commissione Europea c’è Jacques Delors, fedelissimo
di Jacques Mitterrand. L’obiettivo francese all’epoca è usare
l’integrazione europea per “disinnescare” il pericolo della riunificazione
tedesca: Delors deve renderla al più presto realizzabile.
Da qui il “Rapporto Delors”, presentato al Consiglio dei ministri
dell’economia e delle finanze a Madrid il 28 e 29 giugno 1989. A
svolgere un ruolo cruciale, un italiano ai più sconosciuto, un
economista perugino “emigrato” a Bruxelles molti anni prima, Paolo
Cecchini, approdato in Commissione in quota italiana. L’economista
italiano riceve, nel 1986, il mandato di redigere un dettagliato rapporto
tecnico finalizzato all’individuazione dei costi che i Paesi erano costretti
a sopportare per la non integrazione. Ne scaturisce, dopo quasi due
anni di lavoro, un rapporto dal nome “1992: La sfida Europea”, più
comunemente chiamato “Rapporto Cecchini”, focalizzato sui vantaggi
del mercato unico europeo e inserito a supporto scientifico nel citato
“Rapporto Delors”.
In sintesi: la non Europa sarebbe costata 200 miliardi di ECU/euro.
Su questa cifra, che dimostreremo essere davvero approssimativa, si è
poi costruita la moneta unica. Ma cos’è che non sapeva Cecchini?
Moltissime cose.
Non poteva sapere quali parametri sarebbero stati presi a
fondamento della convergenza monetaria, ossia ciò che sarebbe stato
deciso con i Trattati di Maastricht. Ignorava che la mancanza di
mobilità e flessibilità del fattore lavoro, vero tallone d’Achille di tutte le
aree monetarie non ottimali, non ha compensato la mobilità del fattore
capitale, determinato e favorito dalla liberalizzazione del mercato
finanziario. Ma il vero punto debole, evidenziato dallo stesso Cecchini,
era che la realizzazione del mercato unico doveva essere accompagnata
da un ciclo espansivo particolarmente vigoroso dell’economia, poiché
solo con questo presupposto i vantaggi del mercato sarebbero stati
elevati riuscendo ad assorbire gli shock asimmetrici determinati
dall’integrazione fra i diversi livelli di efficienza produttiva. L’avete
visto il ciclo espansivo? Noi no.
Infine, il Rapporto Cecchini non è riuscito a intercettare i fattori
dell’evoluzione delle economie nei Paesi dell’Est europeo,
riunificazione della Germania compresa, che si sono invece
rapidamente aggregati al mercato comune modificando sensibilmente i
rapporti di forza precedentemente presi in considerazione. In pratica,
quella dell’economista italiano è stata un’analisi sul futuro, quasi una
divinazione.
Pensiamo infatti a quei 200 miliardi di ECU/euro letteralmente
bruciati ogni anno e non dall’Europa, ma dal solo “sistema Italia”,
costretta ormai a boccheggiare perché non più supportata da nessun
accesso al credito e a condizioni che non la mettono più in situazioni di
competitività. Non c’è da stupirsi: come ha valutato l’economista
Loukas Tsoukalis dell’Università di Atene, il rapporto “1992: Il costo
della non Europa”, aveva un margine d’errore superiore al 30%.

Il rapporto tra disavanzo pubblico e PIL al 3% di Maastricht

Poiché, sempre di matematica o meglio di numeri e percentuali si


tratta, andiamo a vedere da dove nasce uno dei parametri più ferrei di
Maastricht, altro caposaldo alla base della UE.
In questa ridente città dei Paesi Bassi nasce l’imposizione di
mantenere un rapporto tra disavanzo pubblico e PIL non superiore al
3%. Perché proprio il 3%? Anche questa sembrerebbe una barzelletta,
non fosse che c’è da piangere.
Il numero “tre” è stato deciso in patria dall’ex Presidente della
Repubblica francese François Mitterrand che cercava una cifra da
opporre alle continue richieste di denaro da parte dei suoi ministri. È il
1981 quando i socialisti vincono le elezioni e, per far fronte alle
promesse elettorali, portano il deficit da 50 a 95 miliardi di franchi. Al
fine di rientrare, Mitterrand incarica l’allora vice-direttore del
dipartimento del Bilancio al ministero delle Finanze, Pierre Bilger, di
individuare una regola che eviti spese pubbliche “pazze”. Bilger contatta
due giovani esperti economici, Roland de Villepin e Guy Abeille, ed è
proprio quest’ultimo (all’epoca non ancora trentenne) a elaborare, su
sua stessa ammissione senza alcuna base scientifica, il tetto del 3%. Dirà
più avanti lo stesso Abeille: «Prendemmo in considerazione i 100
miliardi del deficit pubblico francese di allora. Corrispondevano al 2,6%
del PIL. Ci siamo detti: l’1% di disavanzo sarebbe troppo difficile e
irraggiungibile. Il 2% metterebbe il governo sotto troppa pressione.
Siamo così arrivati al 3%. Nasceva dalle circostanze, senza un’analisi
teorica» (intervista su «Le Parisien» del 28 settembre 2012).
Circostanze francesi, non certo mutuabili con leggerezza a tutti i Paesi
che entravano a far parte dell’Unione nascente. Ma è davvero così che
nasce il parametro poi utilizzato come “regola europea” che entra a far
parte del Trattato di Maastricht.
Ancora oggi il fior fiore degli economisti nostrani e internazionali
fanno a gara per giustificare la validità scientifica di questo bizzarro
parametro che, nella pratica, è stato utilizzato esclusivamente per
indurre molti Paesi “eurodotati” ad adottare politiche economiche
decise fra Bruxelles, Francoforte e Berlino nell’esclusivo interesse di
parte, essendo diventato uno strumento tecnico coercitivo di ricatto.
La regola del 3%, a distanza di circa vent’anni, è diventata una vera e
propria disgrazia che impedisce agli Stati membri di far leva sulla spesa
pubblica al fine di risolvere le problematiche economico-sociali. Tutta,
ma proprio tutta, l’architettura è stata concepita tenendo conto di
parametri macroeconomici distanti anni luce da quelli della nostra
economia e plasmati a immagine e somiglianza di quella tedesca e un
pochino (sempre meno per la verità) di quella francese.
Come potevamo ragionevolmente sperare di riuscire a rispettarli o
addirittura di migliorare le nostre condizioni, visto che il modello in
precedenza adottato dall’Italia era costruito su fondamenti
diametralmente opposti e che comunque era riuscito, nel bene e nel
male, a far raggiungere al nostro Paese l’invidiabile posto fra la quarta e
quinta potenza industriale e saldamente quella di seconda economia
manifatturiera d’Europa?
Bastava leggere la Costituzione per capire che il modello da noi preso
a riferimento si fondava sulla piena occupazione e non sulla stabilità
dei prezzi e il pareggio di bilancio! Tutti i criteri posti a base
dell’aggregazione monetaria prevista dal Trattato di Maastricht,
ulteriormente irrigiditi dal Patto di Stabilità, facevano invece
riferimento ai valori espressi esclusivamente dal deficit, debito
pubblico e PIL, storicamente dati a noi non favorevoli e “calcolati” con
criteri non del tutto scientifici.

Il 60% tra debito pubblico e PIL di Maastricht

Altro caposaldo di Maastricht, ribadito anche da Lisbona e “irrigidito”,


almeno nel rispetto, dal Fiscal Compact, è l’altro parametro del 60% fra
debito pubblico e PIL. Ebbene, per quanto moltissimi studi scientifici
accreditati si siano sbizzarriti nel determinarlo, nessuno è mai riuscito a
dimostrare effettivamente il reale livello di “sostenibilità” di un debito
pubblico.
Questo tema, molto dibattuto nella letteratura economica classica, è
stato riproposto all’attenzione dei policymaker da Reinhart e Rogoff
(2010): utilizzando un campione di venti Paesi industrializzati, per un
periodo che va dal 1946 al 2009, i due studiosi giungono alla
conclusione che la soglia al di là della quale il debito ha un effetto
boomerang sulla crescita economica è nel rapporto del 90% sul PIL.
L’esistenza di una soglia precisa fra “normalità” e “abnormalità” del
rapporto debito-PIL è comunque un tema che rimane anche oggi
molto controverso. Ad esempio, Panizza e Presbitero (2013) trovano
che tale soglia risulta sensibile al campione statistico e alla metodologia
seguita. In aggiunta, il risultato stesso dello studio (Growth in a Time of
debt) a cui giunsero Reinhart e Rogoff è stato notevolmente inficiato
dall’omissione di importanti osservazioni presenti nel loro campione,
da procedure statistiche dubbie e da errori di calcolo nel foglio Excel
utilizzato, così come poi scoperto incredibilmente dallo studente
americano ventenne in economia, Herndon, nel 2013.
In sintesi, comunque, non esiste una regola meccanica che divida la
serie temporale del rapporto fra Debito Pubblico e PIL fra zone
“sostenibili” e zone “insostenibili”. Ne consegue come non sia possibile
determinare a priori teoricamente un parametro omnibus così importante
da dover rispettare. Eventualmente sono i mercati finanziari ad
attribuire livelli di sostenibilità o meno ai debiti pubblici, in funzione
del grado di fiducia verso le capacità dei governi di intraprendere
politiche economiche idonee.
L’errore più penalizzante per l’Italia è stato nel non essere riusciti a
far contemplare parametri macroeconomici personalizzati, che ci
avrebbero posto su livelli più paritetici nei confronti degli altri partner
monetari che avrebbero senza ombra di dubbio evidenziato la nostra
effettiva “forza” e soprattutto non ci avrebbero esposto al perenne
ruolo di “ultimi della classe”.
L EGGEND E M ET R OP OL I TA NE I NT OR NO
A L L ’ EU R O

L’Euro è una moneta: FALSO

È ormai luogo comune ritenere che l’Euro sia una valuta a tutti gli
effetti come il Dollaro statunitense, la Sterlina inglese o lo Yen
giapponese, e la possibilità di poterlo utilizzare materialmente, visto
che ce lo ritroviamo in tasca, supporta ancor di più questo errato
convincimento. Ebbene: spiace deludere, ma l’Euro non è una moneta,
bensì un cambio fisso. E ciò non è affatto la stessa cosa.
Dal 1° gennaio 1999, ci siamo ritrovati come moneta la Lira, ma con il
tasso di cambio fisso fra le altre valute europee, a valori di concambio
prestabiliti e non più modificabili nel tempo.
Questo status è durato per tre anni, fino al 1° gennaio del 2002,
quando entrarono in circolazione le banconote e le monete dell’Euro,
terminando il periodo di convivenza delle varie valute, de facto divenute
già Euro, per la fissazione dei concambi a valori fissi e irrevocabili nel
tempo.
Teoricamente ciascun Paese avrebbe potuto continuare a usare le
proprie banconote, ormai legate fra loro da rapporti di cambi fissi
irrevocabili, ma gli accordi prevedevano anche la loro sostituzione
fisica con una moneta materiale comune, per evitare la tentazione del
ritorno alla fluttuazione che qualche Paese avrebbe potuto invocare
successivamente.
In pratica un’evoluzione dell’accordo SME – il Sistema di cambi fissi
pre-euro − ma “blindato”, cioè senza possibilità di modificare i rapporti
di cambio, né tanto meno permettere eventuali bande di oscillazioni e
soprattutto sine die con l’aggiunta (poi rivelatasi essere il vero cappio al
collo) di rinunciare alla determinazione delle rispettive politiche
economiche ad esclusivo appannaggio dell’Unione.
Siamo nella stessa situazione in cui si trovò l’Argentina quando
agganciò il suo Peso al cambio fisso con il Dollaro, con l’aggravante che
l’Italia non può svincolarsi e deve eseguire fedelmente politiche di
bilancio e politiche fiscali scritte a Bruxelles e Francoforte (previo visto
di Berlino).
Vorrei qui riportare un’intervista pubblicata su «la Repubblica» −
ancora terribilmente attuale nonostante risalga al 1992 − al professor
Frank Hahn, a quei tempi sicuramente il più titolato fra gli economisti
inglesi, che discute degli effetti della creazione di una moneta unica
all’indomani della firma di Maastricht.
Hahn precisa: «Ho tenuto qualche tempo fa una lezione alla Banca
d’Italia dove ho spiegato, dal punto di vista teorico, perché l’Unione
monetaria va contro quasi tutto quello che sappiamo di economia. C’è
una teoria dell’area monetaria ottimale in cui si dice che la mobilità dei
fattori della produzione è cruciale per il raggiungimento degli equilibri.
Ora, la mobilità del lavoro è abbastanza elevata tra Inghilterra e Scozia,
ma non altrettanto in Europa per differenze culturali, di lingua, di
costumi sociali e, quindi, fissare i tassi di cambio non è una buona idea.
Tra l’altro, ho ricordato che la prima tesi contraria ai cambi fissi fu
avanzata proprio da Keynes e si basava sulla difficoltà di riduzione dei
salari. Tale difficoltà trasferisce il ruolo equilibratore dal livello dei
prezzi al livello del reddito e dell’occupazione: per far tornare un
equilibrio, il costo di produzione industriale dovrebbe diminuire,
grazie a una riduzione dei salari. Questo è praticamente difficile, se non
impossibile, a causa delle resistenze sindacali e politiche, per cui la via
scelta è quella di diminuire l’occupazione». Per poi continuare in modo
lapidario: «Con l’Unione monetaria, invece delle fluttuazioni del
cambio si avranno fluttuazioni nel tasso di disoccupazione».
Alla domanda del giornalista Pirani, che chiedeva se i cambi fissi
abbiano avuto il vantaggio di assicurare certezza negli scambi
internazionali, la risposta del professore inglese è precisissima: «Credo
il contrario. Questo in quanto i mercati valutari sono molto sviluppati;
perché ci sono i mercati a termine e ci si può coprire contro i rischi di
cambio. Di contro, come ho detto, i cambi fissi sostituiscono le
fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione. Il vero motivo per
sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice.
Infatti, fintanto che i governi non creano un meccanismo che leghi loro
le mani, non è possibile contenere l’inflazione salariale. Credo che i
sostenitori del cambio fisso vogliano introdurlo solamente per la paura
dell’inflazione e, poiché di questi tempi siamo nelle mani dei banchieri
centrali, per i quali il grande nemico è l’inflazione più che la
disoccupazione, questa scelta si spiega». Chiaro, no?
A supporto poi della tesi che l’Euro sia una valuta sui generis, derivante
cioè dall’evoluzione dei precedenti accordi di cambi, vi è la
considerazione che continuano a esserci ancora diversi livelli di tassi,
uno per ciascuna precedente valuta, inconcepibile e incompatibile con
una vera ed effettiva moneta. Lo stesso meccanismo del Quantitative
Easing, abbreviato in QE (ovvero l’acquisto di Titoli di Stato e di altro
tipo emessi dai Paesi della Zona euro da parte delle banche per
immettere nuovo denaro nell’economia europea e concepito dalla BCE
come ultimo tentativo di stimolo monetario per far uscire gran parte
del Continente europeo dalla deflazione), ha ribadito che gli Stati
eurodotati ancora devono fare la loro parte, come se fossero ancora
con le proprie valute visto che le rispettive Banche Centrali sono
chiamate ad assumersi gli eventuali rischi nella misura dell’80%.
Ma allora che moneta comune è? Part-time?
Che senso ha avere la stessa formale divisa se poi si accetta di farla
convivere con tassi d’interesse così ampiamente diversi, che catalogano
ogni Paese membro, facendo coesistere nei fatti nella stessa
aggregazione un Euro di serie A, detenuto dalla Germania, e tanti Euro
di serie B o di serie C in relazione al tasso d’interesse espresso da
ciascun Paese?
Un modo per affermare che in questa area valutaria anomala la
valuta non si conta. Si pesa.
Non solo: questa pseudomoneta lascia la gestione dei debiti pubblici
ai rispettivi Paesi, che sono stati però privati di qualsiasi tipo di
sovranità monetaria, come se l’indebitamento fosse contratto in valuta
estera.
Per questo possiamo sostenere che tutto l’impianto su cui si fonda
l’Euro si è rivelato essere un accordo di cambi fissi mascherato, il cui
accesso e permanenza è subordinato al rispetto nel tempo di parametri
di convergenza via via più stringenti.
In parole semplici, quando furono fissati i valori di concambio
irrevocabili fra le valute dei Paesi aderenti alla fase finale dell’unione
monetaria, noi non abbiamo fatto altro che vincolarci a rapporti fissi di
cambio e non più fluttuanti, senza la possibilità di poter perseguire in
modo autonomo la nostra politica monetaria scaturita dalla nostra
politica economica, tarata sulla nostra economia.
Quelle 1936,27 lire per 1 euro, significava che il Marco per sempre e
irrevocabilmente si sarebbe rapportato con noi a 989,999 lire, essendo
il loro concambio con l’Euro a 1,985583 per 1 marco (989,999 x
1,985583 = 1936,27) senza possibilità di intraprendere autonome
politiche economiche. E allora ce la prendiamo con il concambio? Un
altro errore, come viene spiegato nel paragrafo successivo.
Il concambio fu troppo alto: FALSO

Se si chiede al normale cittadino quale sia il motivo per il quale ci


troviamo in questa situazione economica disastrosa, parecchi
rispondono essenzialmente in tre modi: 1) hanno sbagliato il cambio a
1936,27 lire per euro, che invece doveva essere molto più basso; 2) non
hanno fatto nessun controllo sui prezzi sin dal primo giorno di
introduzione dell’Euro; 3) l’Italia è il paese più corrotto di tutti
(naturalmente dopo la Bulgaria).
Andiamo con ordine: chi aveva 10 milioni di lire si è ritrovato in tasca
5.164,57 euro, se il rapporto lira/euro fosse stato di 1.750 avrebbe avuto
5.714,57 euro e con un rapporto lira/euro a 1.500 lire avrebbe avuto
6.666,67 euro. Ma se avesse avuto debiti? Avrebbe visto di buon occhio
il concambio più alto possibile, chiaro. Ad esempio l’entità del debito
pubblico, che al 1° gennaio 1999 ammontava a 2.483 milioni di miliardi
di lire, tramutato in euro passò a 1.282,06 miliardi (Banca d’Italia,
Questioni di Economia e Finanza, n. 31, ottobre 2008). Se il concambio
fosse stato, ad esempio, a 1.750 lire per euro, sarebbe passato a 1.419
miliardi di euro e a 1.500 lire per euro a 1.655 miliardi di euro e quindi
molto più alto.
Pertanto, più il concambio si fissava alto, più sarebbe diminuita
l’entità di chi deteneva debito. Quando si recrimina a Prodi e a Ciampi
di aver accettato un concambio troppo sfavorevole, si sappia che
l’hanno fortemente voluto così e, anzi, se avessero potuto l’avrebbero
preteso ancor più alto (inutile precisare che a questi due euroinomani non
interessavano certo gli attivi dei cittadini, ma solo i vincoli esterni e
tutto quello che veniva imposto da Bruxelles pur di staccare il biglietto
per l’Europa).
Altro sentito dire: le Istituzioni non hanno controllato l’aumento
generalizzato dei prezzi avvenuto con l’introduzione della moneta
comune. Ma qualcuno mi sa dire se esiste per caso una legge che
impedisca l’aumento dei prezzi dei beni (forse per qualche servizio o
bene primario) tanto da poter mettere davanti a ogni serranda di
negozio un carabiniere, un finanziere o un poliziotto? Certo esiste l’art.
501 del Codice Penale, che prevede, in modo molto generico, sanzioni
per rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato, ma
francamente il legislatore lo concepì per regolamentare ben altri casi
rispetto all’adozione di una nuova moneta in sostituzione di quella
nazionale. Infine, per ciò che riguarda il tema corruzione, mi limito a
ricordare che il caso più eclatante a riguardo, sin dai tempi di Erode, è a
esclusivo appannaggio della Siemens, che risulta essere tedesca,
ultimamente superato solamente dallo scandalo di evasione per 31,8
miliardi di euro sempre da parte dei nostri amici tedeschi e che i casi
domestici, pur essendo da sradicare e condannare senza mezzi termini,
appaiono in confronto a livello di mancia al bar.
Quindi? Quindi oggi saremmo esattamente nella stessa identica
situazione indipendentemente dal valore di concambio, o se all’epoca
avessero messo i famosi carabinieri davanti a ogni negozio, o ancora se
la corruzione fosse a livelli fisiologici. Anzi paradossalmente, come
spiegato, se il concambio fosse stato più basso, oggi ci ritroveremo un
debito notevolmente più alto.
Il vero problema del nostro debito − non riconosciuto dalla
maggioranza dei sostenitori a tutti i costi dell’Euro − è dato dal fatto che
viene espresso in una valuta assimilabile, a tutti gli effetti, a una valuta
estera, perché non la governiamo. L’Euro non è una moneta. Se fosse
una moneta sovrana sarebbe sostenibilissima. Giappone − e per il
motivo opposto l’Argentina − docet. Abbiamo, inoltre, dovuto
modificare completamente il nostro modello economico per poter
adottare l’Euro, legandoci mani e piedi a vincoli esterni che non
rispettano le nostre esigenze in termini di politica economica. Sono
insomma riusciti a creare una moneta i cui rigidi dogmi condizionano
l’economia reale, mentre dovrebbe essere la moneta a plasmarsi al
servizio dell’economia reale e dei cittadini. Infatti il Sistema Italia si
basava su un modello economico che aveva come presupposto il
perseguimento della piena occupazione e di un welfare di tutela
garantito da una moneta, che permetteva la determinazione di
un’autonoma politica economica. Tutto ciò è contenuto nella
Costituzione. In questo contesto l’inflazione era il prezzo accettabile di
compromesso e la svalutazione era solo, ripeto solo, uno strumento a
disposizione della politica economica autonoma per aggiustamenti del
cambio. E andiamo a spiegare il perché, smontando un altro falso.

La svalutazione uccide: FALSO

Sintetizziamo qui tratti di una nostra intervista al professor Alberto


Bagnai, che inizia dai fondamentali: adottando un cambio fisso, un
Paese si priva di un normale meccanismo di risposta agli shock negativi
provenienti dall’esterno, ossia la possibilità di aggiustare il valore della
propria valuta alle mutate condizioni di mercato. Non c’è nulla di
scandaloso nel fatto che il prezzo di una valuta segua la legge della
domanda e dell’offerta. Se glielo si impedisce, si crea una tensione che
fatalmente si scarica sul mercato del lavoro. O si svaluta la moneta (ma
con l’Euro non si può più) o si svaluta il salario. Il problema è che la
svalutazione (cioè il taglio del salario), quella che oggi chiamiamo
“svalutazione interna”, è un processo doloroso, lento, e soprattutto
inefficace.
Il taglio dei salari ha infatti lo scopo di intercettare domanda estera
offrendo prodotti a prezzi più contenuti, ma al tempo stesso distrugge
la domanda interna. La svalutazione del cambio, invece, permette un
recupero di competitività più rapido. Basta confrontare i risultati
conseguiti dalla Lettonia, che ha tagliato i salari, massacrando la
propria economia, e quelli conseguiti dalla Polonia, che dopo il crack
Lehman ha lasciato svalutare lo Zloty di quasi il 30%, risultando l’unico
Paese UE con un tasso di crescita positivo del +1.6% nel 2009. Anzi,
senza particolari costi in termini d’inflazione, in Polonia la svalutazione
è scesa dal 4.2% al 3.4% fra 2008 e 2009. Ancora problemi nei confronti
della svalutazione?

L’Euro riduce i mali della globalizzazione: FALSO

C’è poi chi invoca l’Euro come protezione ideale agli effetti della
globalizzazione, uno scudo capace di rendere più forti e reattivi.
Peccato che, numeri alla mano, anche questa sia una vana speranza e
ciò che accade nella realtà è l’esatto contrario. L’Euro è infatti una
moneta autonoma, il miglior rimedio possibile ai problemi
dell’intensificazione degli scambi tra le diverse parti del mondo.
Il modello economico su cui verte la sopravvivenza e il
mantenimento dell’Euro si basa infatti sulla stabilità dei prezzi e il
rigore dei conti pubblici fino al perseguimento del principio del
pareggio di bilancio come presupposto per la crescita. Gli effetti di
questo modello, tanto caro all’ortodossia economica tedesca, è l’aver
gettato in deflazione l’intero Continente e aver “infettato” della stessa
malattia anche mezzo mondo.
Prima di Maastricht, l’Italia adottava il modello economico tracciato
dalla Carta Costituzionale, che poneva come presupposti fondamentali,
imprescindibili e non negoziabili − e li pone ancora oggi − la lotta alle
disuguaglianze, l’occupazione, la dignità del lavoratore e del suo salario,
la tutela dei risparmi, la tutela della salute, la funzione regolatrice dello
Stato nell’economia. Con l’Euro, tutto il pacchetto è stato sostituito
dalla capacità o meno di rendere flessibile il fattore lavoro
comprimendo i salari. E intanto la Cina svaluta lo Yuan per rendere i
propri prodotti ancor più competitivi.
Per appartenere alle “regole” europee uno dei prezzi da pagare è
quello di aderire al modello neoliberista di riferimento, dove tutto deve
essere lasciato alla determinazione dei mercati nella convinzione-
presunzione che solo gli stessi, senza la presenza attiva dello Stato,
sappiano autoregolare in modo ottimale il sistema finanziario. Ma
sappiamo benissimo che questo non è avvenuto e non sarebbe potuto
avvenire: anzi i mercati, enfatizzati sempre più dall’evoluzione della
globalizzazione senza nessuna regolamentazione, hanno provocato
disastri inimmaginabili e difficilmente sanabili.
Avvalendosi di una stessa moneta a fronte di un mercato unico, nella
pratica mai realizzato, e ponendo come condizione di partecipazione e
mantenimento dello status di appartenenza il rispetto di precisi e
stringenti parametri macroeconomici, si sono creati nel tempo sempre
più squilibri economici e sociali all’interno dell’Eurozona, che hanno
fatto acquisire forti posizioni di leadership a pochi e pesanti sudditanze
economiche e politiche a molti. L’immenso surplus commerciale
tedesco maturato negli ultimi anni ne è la più palese dimostrazione.
Così, molti Paesi vedono minare impotenti i propri sistemi finanziari
bancari assicurativi, spezzare le filiere produttive, le produzioni
agricole, la dislocazione dei propri siti produttivi, determinando in
questo modo l’aumento dalla dipendenza estera settoriale sia nei
confronti di altri Stati che di gruppi di multinazionali, parallelamente
scatenando conflitti sociali di difficile gestione.

L’Europa ci stratassa perché l’Italia evade troppo: FALSO

I media ci bombardano sull’evasione presunta italiana rilevata


dall’ISTAT su dati 2015, senza però paragonare gli stessi agli omologhi
“partner” europei, ad esempio alla Germania. E se i tedeschi evadessero
come o più degli italiani? Possibile? Sì. Da molti mesi sto valutando
come spiegare ai lettori che le stime sempre spaventose dell’evasione
italiana, usate per giustificare una pressione fiscale assurda, in realtà
sono più che mezze bugie, diciamo pure propaganda per far accettare
agli italiani l’inaccettabile: un livello di tassazione anche oltre il 50%,
includendo i contributi.
La difficoltà consiste nello spiegare il metodo utilizzato per calcolare
l’evasione fiscale ipotetica di un Paese; metodo prettamente statistico:
in soldoni, troppo difficile da spiegare ai profani. Tra l’altro, vi vedete
gli intervistatori dell’economia sommersa andare a chiedere a una
prostituta quanto guadagna al giorno e a prestazione, o a uno
spacciatore quanti etti vende e a che prezzo? Fortunatamente ho
trovato un modo alternativo e valido per spiegare come, dietro alla
caccia alle streghe mediatica dell’evasione presunta, facilmente si
nascondano gli interessi dei governanti a fare accettare una tassazione
suicida ai cittadini, che poi è il motivo per cui le aziende se ne vanno dal
Belpaese. L’Unione Europea sa benissimo a cosa ci si riferisce ma −
come diciamo da anni − non è assolutamente interessata a che l’Italia e i
Paesi periferici in genere possano uscire dalla crisi.
In breve, l’economia sommersa è quella che non paga tasse. Fu lo
stesso Berlusconi a volerla introdurre. La ratio era semplice: il deficit di
bilancio deve essere riferito sia all’economia ufficiale che a quella
sommersa per calcolare il famoso rapporto deficit/PIL su cui incidono i
parametri di Maastricht che regolano l’austerità in sede europea. Il
risultato fu che gonfiando il PIL con il sommerso, a parità di deficit si
riduceva il rapporto deficit/PIL totale. E questo è ciò che accadde. Dal
2014 le valutazioni del rapporto deficit/PIL computano il PIL ufficiale e
il PIL illegale, che chiameremo PIL totale, permettendo al governo di
fare più deficit. Un dettaglio importante: oggi il rapporto debito/PIL
totale è ufficialmente attorno al 133%. In realtà, escludendo il PIL
sommerso, ovvero tornando ai calcoli prima del 2014, anche il rapporto
deficit/PIL sarebbe attorno al 155%. Per intenderci, la Grecia dovette
accettare la Troika quando il suo rapporto deficit/PIL ufficiale (senza il
sommerso) superò la fatidica soglia del 140%, nel 2011-2012. Resta
pertanto il problema di valutare a quanto ammonti il PIL sommerso,
ricordando che più grande sarà il sommerso, maggiore è la possibilità
per il governo di fare deficit, troppo spesso dimenticando che alla fine
ciò si traduce inevitabilmente in debito che comunque andrà prima o
poi pagato. E senza considerare che è molto difficile misurare
l’economia sommersa.
Resta il fatto che, vis à vis con la Commissione europea che calcola gli
sforamenti di bilancio (rapporti deficit/PIL e Debito/PIL), l’Italia ha
avuto interesse ad aumentare al massimo l’economia sommersa usata
nei calcoli di Eurostat, appunto per fare maggiore deficit ottenendo
effetti aberranti. Un esempio è l'affermare dei governi che la tassazione
media italiana è circa del 43%, in tale percentuale si considera il PIL
incluso di sommerso. E poiché il sommerso non paga tasse, il vero
livello di tassazione italiano, per chi invece le paga, è oggi più vicino al
50% che al 43%.
Ma il punto non è nemmeno questo. Infatti il problema
fondamentale è l'esistenza di valutazioni diverse tra Eurostat, Istat e
valutatori indipendenti, usati alla bisogna dalla politica e dal governo.
Ecco l’analisi con tre esempi: il valore di economia sommersa stimata
da Eurostat per l’Italia è attorno al 20,6% al 2015, ovvero circa 330
miliardi di euro. L’ISTAT stima invece un’economia sommersa attorno
a 12,6% (2015), pari a circa 207 miliardi di Euro. Eurispes arriva
addirittura al 33%, pari a oltre 500 miliardi di Euro (Rapporto Eurispes
2016, su dati 2015).
Com’è possibile che ci siano differenze così elevate tra le valutazioni
di uno stesso parametro da parte di tre istituti differenti? La risposta è
semplice: perché è difficile misurarlo. Ma non solo. Come spiegavamo,
i governi italiani sono interessati ad aumentare il più possibile
l’economia sommersa, con lo scopo di fare più deficit. Da qui l’eccesso
di evasione presunta nei dati Eurostat. Mentre i valori più veritieri di
evasione, quelli ISTAT, sono molto più bassi.
È tutto chiaro: più tasse si fanno pagare agli italiani più a lungo dura
l’Unione Europea; infatti è certo che se all’Italia dovesse essere imposto
di fare crack per colpa dell’austerità UE, essa avrebbe tutti gli interessi
ad uscire dall’Euro pur di evitarlo. Dunque, che si strangolino gli italiani
di tasse per il tramite di politici cooptati dall’Europa, con metodi che
ritenere discutibili è poco.
In tale contesto, proviamo a valutare la differenza di tassazione persa
dallo Stato nei due casi, appunto ISTAT ed Eurostat (ricordando che i
dati Eurispes secondo molti presentano errori marchiani, tipo stimare
erroneamente il PIL italiano 100 miliardi di Euro più basso di quello
reale). Nel caso del PIL sommerso ISTAT, la perdita di gettito dello
Stato, ipotizzando che ci sia una forte diffusione dell’evasione ovvero
applicando una tassazione leggermente più bassa della massima
aliquota marginale, poniamo il 40%, otteniamo che le tasse perse dallo
Stato ammontano a circa 80 miliardi di Euro. Nel caso dei dati
Eurostat, applicando la stessa aliquota marginale media, siamo invece
attorno ad oltre 130 miliardi di gettito perso. Per Eurispes siamo
addirittura oltre i 200 miliardi di Euro di gettito perso. Differenze
macroscopiche: 80, 130, 200 miliardi di Euro. Ma, attenzione: se
andiamo invece a considerare nel computo dell’economia sommersa il
valore delle tasse evase in Italia rispetto ad altri Paesi molto virtuosi,
per esempio la Germania (che non ha né aveva bisogno di espandere ad
arte la propria economia sommersa nei calcoli di Eurostat come invece
ha dovuto fare l’Italia per evitare la Troika) cosa otteniamo? E qui
vengono fuori elementi davvero interessanti: forse gli italiani non sono
così evasori come vogliono farci credere con il solo fine di aumentare
le tasse?
Facciamo parlare i numeri: evasione fiscale in Germania (anno 2017),
fonte IAW, Forbes/Statista: 336 miliardi di Euro. Evasione fiscale in
Italia (anno 2015), fonte ISTAT: 207 miliardi di Euro. E attenzione: tale
calcolo di evasione tedesca si riferisce appunto al 2017, per quella
italiana i dati sono del 2015, ossia si può ipotizzare, visto il trend in
discesa, che quella italica possa essere nel 2017 attorno ai 200 miliardi
di Euro. Da notare che l’evasione tedesca, vuoto per pieno, sarebbe
anche più alta di quella italiana se si trasponesse oltre Gottardo
l’assurda, altissima tassazione italiana. Infatti, più alte sono le tasse più
si tende ad evaderle: visto che l’Italia, ad esempio, alla lunga ha la
tassazione sulle imprese più alta d’Europa è facile immaginare che in
presenza di una tassazione simile a quella nostrana anche in Germania
l’evasione sarebbe ben più elevata.
Chi scrive teme dunque che i governi pro EU, pro Europa e pro
austerità che si sono succeduti dal 2011 abbiano usato lo spauracchio di
numeri di evasione tanto spaventosi quanto potenzialmente surreali
(specialmente quelli Eurispes) per giustificare un livello di tassazione
italiana reale onestamente inaccettabile, ossia prossimo al 50%, che si
alza al 64,8% per le imprese, il più alto in Europa. Non solo, ci si
dimentica anche di dire che l’evasione italiana è, secondo le valutazioni
correnti di ISTAT, circa uguale a quella tedesca in percentuale, il 50%
più bassa se viene espressa in miliardi di euro (ossia, i tedeschi evadono
più miliardi di euro degli italiani usando il metodo sopra indicato).
Eppure probabilmente il modo migliore per fare crescita – che è quello
che manca all’Italia – dovrà in futuro andare nella direzione opposta
rispetto a quella imposta dall’Europa: ridurre le tasse in modo
sostanziale con parallelo depotenziamento dell’atteggiamento
minatorio dell’Agenzia delle Entrate nei confronti delle attività che
generano valore aggiunto, ossia le imprese, in quanto sta minando alla
radice l’imprenditorialità italica.
I nostri politici stanno dunque davvero uccidendo il Paese. Oggi i
governi – per tenere in vita l’UE, dietro spinta tedesca – si inventano
che l’Italia è un popolo di evasori per convincere l’opinione pubblica
che bisogna usare le maniere forti, ossia un’Agenzia delle Entrate stile
Gestapo, con giudici ormai impiegati a trovare gettito da tassazione,
non necessariamente giustizia. E senza dirci che – a guardare bene – i
tedeschi sono più evasori degli italiani. A ulteriore conferma di ciò,
ricordo solo che fino al 2011 il record di depositi “neri” in Svizzera era
dei tedeschi, non degli Italiani. Il risultato? Chi può se ne va, prima di
tutto le aziende. Da qui le delocalizzazioni a valanga, ovvero il lavoro
che manca in Italia. Una manna per i tedeschi: se non possiamo
comprarci le aziende sane, ce le portiamo in casa.
Gli italiani vanno in pensione presto rispetto all’Europa: FALSO

Nonostante le 12 riforme previdenziali e l’età legale pensionabile più


alta d’Europa sono ancora in molti a fare disinformazione sul nostro
sistema pensionistico. La risposta di Scenari Economici alle bufale è un
fact-checking completo di fonti e dati. Ci raccontano che gli italiani vanno
in pensione troppo presto rispetto al resto d’Europa. L’affermazione
contiene una tesi esplicita − non vi lamentate, siete ancora dei parassiti
privilegiati che rubano risorse ai giovani − e una implicita, ossia c’è
ancora da riformare, tagliare, penalizzare, non è stato fatto abbastanza
rispetto al resto d’Europa. Ma è falso. Una distinzione importante: l’età
legale di pensionamento è sempre inferiore all’età effettiva media di
entrata in pensione, in Italia e nel resto del mondo. L’affermazione
fallace in genere specifica che l’età effettiva italiana sarebbe ancora oggi
troppo bassa a causa della presunta troppo graduale implementazione
della Legge Fornero.
Chi propone la tesi sull’età effettiva italiana di pensionamento ancora
troppo bassa utilizza spesso dati vecchi o addirittura falsi. Analizziamo
le fonti disponibili e quelle utilizzate da chi propone la tesi fallace. Il
nostro criterio di confronto sarà la media dell’età di pensionamento
effettivo degli stati UE -15 nel 2016 vs la media italiana (dipendenti) del
primo semestre 2017, nonché le proiezioni della Commissione Europea
per il futuro.
Ecco le fonti principali:
- Eurostat: i dati sono aggiornati al 2012, inutili in quanto resi obsoleti
dalle riforme degli ultimi anni. Non utilizzabili;
- OCSE: oltre agli inutili dati medi su 5 anni, che non mostrano
l’effetto della riforma Fornero, esistono dati più aggiornati, pubblicati il
5 dicembre 2017 in Pensions at a Glance 2017, riferiti al 2016. Utilizzeremo
questi per il confronto con la media UE;
- Commissione Europea: ha pubblicato nel 2015 lo studio The 2015
Ageing Report, Economic and budgetary projections for the 28 EU Member States
(2013-2060). Lo studio contiene la proiezione – a politiche costanti –
dell’età effettiva di pensionamento dei paesi UE nel 2020, 2040 e 2060.
Anche se le proiezioni a lungo termine sono poco affidabili, è proprio
su queste che si basano tutte le riforme del sistema pensionistico.
Quindi le utilizzeremo anche noi;
- INPS: I dati dell’età effettiva di pensionamento italiani sono
pubblicati dall’Istituto ogni trimestre, riferiti al semestre e all’anno
precedente, nel bollettino trimestrale. Utilizzeremo l’ultimo bollettino
disponibile, del II trimestre 2017.
Ebbene, l’età legale di pensionamento in Italia nel 2016 è oggi la più
elevata della UE (Fonte: OECD). L’età effettiva di pensionamento in
Italia è attualmente (primo semestre 2017, vecchiaia e anzianità, media
maschi/femmine, lavoratori dipendenti) di 62,6 anni, superiore alla
media UE-15 (2016) di 62,4 anni, e pari alla media di tutti i paesi europei
facenti parte dell’OCSE, a 62,7 (fonti: INPS e OECD). Le proiezioni
della Commissione Europea mostrano che l’età effettiva di
pensionamento in Italia sarà a breve (2020) la più elevata dei paesi UE
– tranne Polonia e Olanda, e sempre più elevata della media europea
(fonte: Commissione Europea, Ageing Report 2014). In conclusione,
l’affermazione che gli italiani vanno ancora in pensione troppo presto
rispetto al resto d’Europa è falsa. Non solo, la tendenza al rapido
innalzamento ci porterà in pochi anni in testa all’Europa per età
effettiva di entrata in pensione.
Postilla: Elsa Fornero dichiarò che a chiedere l’odiosa riforma delle
pensioni fu la Banca Centrale Europea. Dal contratto di lavoro BCE del
2009, Allegato III – Schema Pensionistico, si ricava che il trattamento
previdenziale per i dipendenti della BCE (Draghi incluso) ha le seguenti
caratteristiche:
- Pensione normale a 65 anni (senza meccanismi di aumento in base
all’allungamento della vita come da noi);
- Pensionamento anticipato possibile a partire da 55 anni;
- Nessuna autorizzazione necessaria da parte dell’azienda per il
pensionamento da 60 anni in poi;
- Importo della pensione calcolato in base al 2% della media dei
massimi salariali della carriera rivalutati, moltiplicato per gli anni di
servizio;
- Pensione massima pari al 70% dell’ultimo salario, ma superamento
del 70% possibile coi versamenti volontari;
- Modeste penalizzazioni per pensionamento anticipato (ad esempio
12% per chi va in pensione a 60 anni ed è stato assunto prima del 2009);
- Rivalutazione delle pensioni adeguata agli aumenti salariali
accordati ai funzionari BCE;
- Reversibilità della pensione sia al coniuge che ai figli che possono
sommarsi tra loro fino al 100% della pensione del defunto (altro che
figlie nubili degli statali greci).
E a Bankitalia? Lo scorso ottobre, l’istituzione ha lanciato il suo diktat
da titoloni sui giornali: «Tutti in pensione a 70 anni o è a rischio la
sostenibilità». Settant’anni per tutti, ma proprio tutti? Consultiamo il
Regolamento per il Trattamento di Quiescenza del Personale del 1992,
applicabile solo agli assunti fino all’aprile 1993. I punti cardine del
principesco sistema pensionistico speciale per i dipendenti di Banca
d’Italia assunti ante-1993:
- Pensione a 60 anni;
- Pensione fruibile subito in caso di dimissioni dopo 21 anni di
servizio, capitalizzata al 50% e pagata cash ogni 30 giorni per l’altro
50%;
- Pensione calcolata con metodo retributivo, calcolata sull’ultimo
stipendio ed emolumenti vari e maggiorato dal 19,25% (segretari, operai
etc.) al 28,75% (quadri superiori);
- Pensione pari all’81% dell’ultimo stipendio con 36 anni di anzianità,
stipendio inclusivo di premi e maggiorazioni;
- Versamenti previdenziali integrativi interamente pagati dalla Banca
d’Italia: nulla è a carico dei dipendenti;
- Riscatto della laurea con 4-5 anni di anzianità convenzionale, con
versamenti di appena un quarto di quelli dovuti;
- Reversibilità per coniuge superstite e figli minorenni o anche
genitori over 65;
- Privilegi vari ed eventuali, come la liquidazione interamente versata
e non trattenuta come pensione integrativa.
In definitiva, come può Bankitalia chiedere settant’anni per noi con il
contributivo e mantenere i sessant’anni per i suoi con il retributivo? Lei
può.
I L S EQU ES T R O D EI R I S PA R M I

Ho molti amici appartenenti alla classe medio-bassa. Quando


eravamo giovani costoro nutrivano la speranza di entrare a fare parte
saldamente della classe media propriamente detta, qualcuno aspirava a
salire addirittura nella classe medio-alta.
E in effetti, considerando i punti di partenza dei loro genitori, se
avessero fatto dei balzi in avanti della stessa ampiezza ci sarebbero
riusciti. Purtroppo non si rendevano conto che nel momento stesso in
cui entravano nel mondo del lavoro con una facilità che lascerebbe
scioccati i ventenni d’oggi, si stavano ponendo le basi ideologiche (da
molti di loro accettate con entusiasmo) per il disastro che li avrebbe
trasformati inesorabilmente in classe medio-bassa discendente.
Quando cerco di spiegare loro i motivi di questa involuzione mi
guardano come farebbe una vecchia beghina di fronte a un giovanotto
che si mette a dire le parolacce in chiesa, restano per un po’ in silenzio e
poi dicono con aria assorta: «Certo che se i politici rubassero meno…» A
quel punto torna la mia sfiducia nell’umanità, scuoto la testa e me ne
vado per non mettermi a urlare che no, non è il senatore Razzi ad
averci ridotto in questo stato.
E se per stavolta forse si riesce a scampare la soppressione delle
pensioni di reversibilità o la loro riduzione a livelli inferiori alla
sussistenza, si è ormai innescato un meccanismo dal quale sarà molto
difficile non essere travolti perché è a livello europeo e fra poco rischia
di essere anche americano. Si tratta dei tassi sotto zero, una mossa folle
della Banca Centrale Europea per cercare di rianimare l’economia dopo
che nemmeno il tanto invocato QE, ovvero l’acquisto di titoli di Stato
emessi dai Paesi della Zona euro, è riuscito nel suo intento.
I tassi sui depositi sono ai minimi storici, per depositare i loro soldi
nel porto sicurissimo dell’Istituto guidato da Mario Draghi, le banche
commerciali devono pagare pegno. La mossa è stata decisa con
l’obiettivo ufficiale di costringere le banche commerciali a non tenere
fermi i loro denari, ma a farli circolare e quindi a prestarli ai loro
clienti, imprese o famiglie che siano.
Purtroppo questo non sta succedendo. Ecco perché la successione di
tagli. Ma andando avanti così, alla fine anche i tassi sui conti correnti
diventeranno negativi. Già ora lasciare i soldi in banca non rende
niente. Il guaio è che con il QE anche comprare titoli di Stato non rende
niente. Anzi, in buona parte dei casi anche qui bisogna pagare per
parcheggiare i propri risparmi in un porto sicuro: nel dicembre 2015,
dei 7.600 miliardi di euro in Titoli di Stato in circolazione nella Zona
euro, il 40% aveva rendimenti negativi.
Insomma, 3.200 miliardi di euro di risparmi sono impegnati in
“Titoli” che riducono la somma investita invece di aumentarla. Che
cosa significhi questo per i piani pensionistici, nessuno lo ha ancora
spiegato bene. Si suppone però che anni di tassi negativi avranno
conseguenze molto più dannose di qualche migliaio di pensioni di
invalidità date ai ciechi in grado di guidare l’automobile. Ma questo è
davvero difficile farlo capire ai miei amici della classe medio-bassa
discendente. Restiamo al fatto che prima o poi i tassi negativi
arriveranno anche sui conti correnti dei risparmiatori. Che non
sapranno più che pesci pigliare. In effetti ci sarebbero i titoli azionari su
cui puntare. Ma i primi due mesi dell’anno sono stati disastrosi, non
incoraggiano certo a investire a cuor leggero.
Il povero risparmiatore della classe medio-bassa discendente va
allora dal bancario di fiducia, che ha una paura boia di perdere il posto
ed è disposto a rifilare qualsiasi sòla ai clienti, illudendosi così di
conservare lo stipendio facendo mostra di produttività. E così propone
al risparmiatore prodotti esoterici in cui non si capisce bene che cosa ci
sia dentro (è storia, non fiction).
Di fronte a tanta opacità, il risparmiatore azzarda: «Ma non si
potrebbe investire nell’oro?» Al che il bancario lancia indignato la
scomunica: «Assolutamente no, l’oro è roba da Medioevo». Scoraggiato,
il nostro esponente della classe medio-bassa discendente se ne torna a
casa per pensarci su. E a un certo punto gli viene l’illuminazione. Se
lascio i soldi nel conto corrente piano piano i miei risparmi vengono
erosi, se li metto in titoli di Stato della Zona euro succede lo stesso,
puntare sulle azioni è più rischioso che mai. A questo punto non mi
resta che ritirare il gruzzolo, metterlo in una cassetta e seppellirla in
giardino, almeno i miei 100 mila euro fra un anno saranno ancora 100
mila, non 99 mila o meno.
Ed è a questo punto che interviene Mario Draghi: «Stiamo pensando
di abolire i tagli da 500 euro per combattere la criminalità», ha detto.
Larry Summers, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti ai tempi di Bill
Clinton, ha proposto di eliminare il “Benjamin Franklin”, ovvero la
banconota da 100 dollari. Si va quindi a grandi passi verso l’abolizione
del contante, presentato come simbolo del nero, dell’evasione fiscale,
della criminalità organizzata.
Con la moneta elettronica tutti pagheranno le tasse, il mondo sarà più
giusto, dice la propaganda ufficiale. E l’italiano della classe media
discendente desideroso di giustizia applaude. Senza rendersi conto che
in questo modo dovrà per forza tenere i soldi in banca e così piano
piano i suoi risparmi verranno erosi. Sempre che non arrivi il salvatore
della Patria, il Giuliano Amato di turno, pronto a farci un prelievo
forzoso notturno perché ce lo chiede l’Europa. Solo che stavolta non
sarà come nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1992, quando ci si limitò al 6
per mille. Stavolta si andrà davvero sul pesante, sarà una mossa
davvero coraggiosa, del 10-12%. E ai miei amici della classe medio-bassa
discendente non resterà che sfogarsi dando la colpa di tutto questo al
senatore Razzi.
L A R A P I NA D EL L E B A NCH E

Premessa: questo è un articolo pubblicato nel 2015 che aveva, ahinoi,


visto lontano.

D’ora in poi aspettatevi di farvi rapinare dalle banche, parola del


Governatore della Banca d’Italia. Se c’erano ancora dei dubbi sulla vera
natura e finalità perseguite da questa governance di Unione Europea, la
Banca d’Italia ha chiarito ulteriormente come stanno realmente le cose
con un tweet sull’account ufficiale dell’Ufficio Stampa. Il testo: «Visco:
le banche devono informare la clientela del fatto che potrebbero dover
contribuire al risanamento di una banca» (22 aprile 2015).
In occasione dell’audizione del 22 aprile alla VI Commissione
permanente Finanze e Tesoro del Senato, il Governatore Ignazio Visco
ha esortato il sistema bancario italiano a mettere al corrente i clienti che
potrebbero dover contribuire al risanamento di una banca. Il numero
uno di via Nazionale ha fatto questa considerazione in ottemperanza a
quanto disposto dai Meccanismi di vigilanza e di risoluzione che
costituiscono i veri pilastri su cui si basa l’Unione Bancaria e che
entreranno a regime dal gennaio del 2016. In poche parole, ha iniziato a
mettere in guardia che potrebbero esserci delle insolvenze a carico di
qualche banca italiana, e per le nuove regole europee i clienti
potrebbero essere chiamati direttamente a contribuire a farne fronte.
Come dire che chi affida la propria auto a un parcheggio privato per la
custodia, in caso d’insolvenza del garagista se la vedrà venduta
coercitivamente.
La gravità dell’affermazione è duplice, perché non solo è formulata
dalla massima autorità istituzionale nazionale in materia, ma anche
perché la Banca d’Italia esercita la funzione di vigilanza del sistema
bancario e potrebbe pertanto già mettere le mani avanti su situazioni di
default che nel breve potrebbero verificarsi. O peggio ancora, proprio
per la sua funzione ispettiva e di vigilanza, è già a conoscenza che a
breve i clienti di qualche istituto bancario saranno letteralmente
rapinati per far fronte a default/risanamenti societari, in quanto i soci e
gli obbligazionisti (rispettivamente primi della lista in caso di bail-in)
ben poco potranno contribuire, perché notoriamente rappresentano
una piccolissima quota rispetto a quanto la banca sarebbe sicuramente
chiamata a corrispondere.
Inutile ricordare che in Europa si continua indisturbati e in modo
arrogante a sfornare sempre più meccanismi automatici vincolanti in
totale spregio delle rispettive Costituzioni ad iniziare dalla nostra.
Nessuno a livello istituzionale ha mai sollevato problemi di palese
illegittimità fra il Meccanismo di Risoluzione e l’art. 47 della
Costituzione, che prevede in modo inequivocabile che «La Repubblica
incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme».
Comunque, grazie Governatore Visco per averci ricordato quale sia il
vero lato oscuro dell’Europa. Se inizieremo a vedere anche in Italia le
file agli sportelli o ai bancomat per ritirare quel poco che è rimasto dei
risparmi accumulati con sacrifici da noi e dai nostri padri in omaggio al
“modello Cipro”, si sappia almeno che è per merito di questo sistema a
cui ci siamo affidati senza capire nulla, mentre una classe politica
complice ci faceva strillare e battere la mani sventolando una ridicola
bandierina blu a stelline gialle.
FI NE P ENA M A I : I L FI S CA L COM PA CT

Mancava solo il Fiscal Compact, corposo irrigidimento, con effetti


altamente perversi, necessario alla realizzazione del modello
economico adottato dalla governance europea a supporto della
sopravvivenza dell’Euro. I criteri previsti da questo modello economico
prevedono, in omaggio alla tanto cara ortodossia tedesca, la stabilità dei
prezzi, cioè dell’inflazione, e la disciplina dei conti pubblici per mezzo
del raggiungimento del pareggio di bilancio e la diminuzione
pianificata, con precise regole codificate, del debito pubblico, come
unici strumenti in grado di garantire i presupposti per la crescita.
È singolare notare, forse per celare la vera “bomba a orologeria”
insita negli articoli dell’accordo, come gli attenti comunicatori di
Bruxelles abbiano immediatamente ribattezzato il Trattato sulla
Stabilità o Patto di Bilancio Europeo proprio con il più innocuo e
assonante termine di Fiscal Compact, che ricorda all’opinione pubblica
la quotidianità allegra e scanzonata di oggetti come il Compact Disk o il
Compact Stereo.
Si vuole circostanziare l’argomento, perché questo accordo
rappresenta una fondamentale evoluzione di quei parametri
macroeconomici previsti già dai tempi di Maastricht nel tentativo di
assicurare maggiore sostenibilità ai criteri di convergenza
dell’aggregazione monetaria. Nella pratica però, si è introdotta una
normativa che, se applicata, paradossalmente accelera ancora di più lo
stato di recessione in cui è già precipitato quasi tutto il Continente
europeo a causa delle politiche deflazionistiche e che, come vedremo
più avanti, è anche palesemente illegittima.
Ricordiamo brevemente che il Fiscal Compact impone, in evoluzione
dei parametri di Maastricht, di non superare la soglia di deficit
strutturale superiore allo 0,5% (all’1% per coloro i quali hanno rapporto
debito pubblico PIL inferiore al 60%) e di ridurre nell’arco di vent’anni
la porzione del debito eccedente il rapporto del 60%, al ritmo di un
ventesimo (5%) all’anno, impegnando inoltre tutti gli Stati firmatari a
coordinare i piani di emissione del debito con il Consiglio dell’Unione e
con la Commissione Europea. Si prevede anche l’inserimento nelle
Costituzioni nazionali (nella nostra prontamente modificando l’art. 81)
del principio del perseguimento del pareggio di bilancio e subordina il
rispetto rigoroso e tempestivo dei parametri in esso contenuti per
l’accesso agli aiuti dei meccanismi previsti dal MES (Meccanismo
Europeo di Stabilità), più semplicemente conosciuto come ultima
versione cronologica dei Fondi Salva Stati.
Tradotto in numeri, dal 2018 ci saranno circa 40 miliardi di euro di
nuove tasse, sicure, per gli italiani. L’art. 16 del Fiscal Compact (o Patto
intergovernativo di bilancio europeo) stabilisce che entro cinque anni
dalla sua entrata in vigore (ovvero entro il primo gennaio 2018), sulla
base di una valutazione della sua attuazione, i 25 Paesi Europei
firmatari – tra cui l’Italia – siano tenuti a fare i passi necessari per
incorporarne le norme nella cornice giuridica dei Trattati Europei.
Il problema sta nel fatto che tra Dollaro in discesa e tassi mondiali in
salita (con aumento dei costi degli interessi sul debito nazionale), i 40
miliardi iniziali potrebbero diventare almeno 60 o più, fino ad
ipotizzare qualcosa di prossimo ai 100 miliardi di euro di extra costi
per lo Stato (ovvero di extra tasse). Possiamo sopportarle? No, no, no.
Sarebbe dunque quanto mai opportuno che la classe politica italiana
si avvalesse delle intuizioni di uno stimato giurista per “disinnescarne”
definitivamente il pericolo. Perché per quanto riguarda la validità
giuridica del Fiscal Compact, vi sono più che fondati dubbi e
perplessità, come quelli che provengono da uno dei più autorevoli
giuristi italiani di tutti i tempi, il professor Guarino, che ha
prontamente individuato gli aspetti della sua insostenibilità
confermando come la Commissione Europea non abbia strumenti a
supporto per perseguire proficuamente il suo modello economico di
riferimento.
Riprendendo fedelmente le tesi da lui stesso enunciate, possiamo
constatare che l’art. 2 del Trattato sulla Stabilità dispone testualmente:
«Le parti contraenti applicano e interpretano il presente Trattato
conformemente ai trattati su cui si fonda l’Unione Europea». Concetto
ribadito nel comma successivo: «Il presente Trattato si applica nella
misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione
Europea e con il diritto dell’Unione Europea». Però il Fiscal Compact
stabilisce all’art. 3, n. 1, lett. a), che «la posizione di bilancio della
Pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in
avanzo». Si ricorda che per bilancio in pareggio s’intende che
l’indebitamento annuale della Pubblica Amministrazione debba essere
pari allo zero per cento, mentre il Trattato dell’Unione Europea firmato
a Maastricht e il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea di
Lisbona fissano invece al 3% il limite dell’indebitamento annuale.
Pertanto, quanto disposto dal Trattato di Stabilità riguardo al pareggio
di bilancio non è conforme ai trattati su cui è fondata l’UE, e questo è
già sufficiente a negargli legittimità. Guarino puntualizza che le
espressioni adoperate sono così precise che le possibilità di errore
nell’interpretazione possono considerarsi più che minime, inesistenti.
Sulla base di queste considerazioni, il professor Giuseppe Guarino
argomenta, in modo inequivocabile, che imporre la parità del bilancio
in virtù di quanto disposto negli articoli applicativi del Fiscal Compact,
significa violare il Trattato istitutivo della UE e insieme l’art. 126 del
Trattato di Lisbona, in quanto non è mai stato modificato nella forma
prescritta invece dal Trattato di Stabilità. Se ci si limita ai profili
esaminati, l’illegittimità non risiede pertanto nel Fiscal Compact, ma
nel volerlo applicare nonostante risulti “non conforme” e “non
compatibile” con i precedenti Trattati.
È GU ER R A , M A I N GI A CCA E CR AVAT TA

Nel 1990 Edward Luttwak metteva in guardia sull’avvento di un


nuovo ordine mondiale in cui l’economia e la finanza avrebbero preso
il posto degli eserciti. Le nuove guerre non sarebbero state più
combattute da soldati in divisa agli ordini di Stati Maggiori, ma da
dirigenti e funzionari, pubblici e privati, in giacca e cravatta e con
strumenti giuridici e tecnologici molto più devastanti dei cannoni e
delle corrazzate. L’obiettivo sarebbe stato la conquista di leadership in
più ampi settori economici, utilizzando il capitale con il supporto di
nuove e rafforzate entità sovranazionali capaci di attivare strumenti
maggiormente risolutivi delle armi e superiori per potenza, capacità di
conquista e strategia a qualsiasi esercito convenzionale.
Inoltre, complice la sempre più dilagante globalizzazione dei mercati
dovuta all’esasperata finanziarizzazione dell’economia, figlia legittima
della liberalizzazione della circolazione dei capitali senza tuttavia
nessun tipo di regolamentazione che ne delimitasse limiti e ruoli, la
funzione dell’intelligence economica è divenuta quanto mai essenziale
e strategica per l’interesse nazionale e addirittura, come vedremo più
avanti, necessaria per scongiurare tentativi di minare identità e integrità
di un Paese. Questa globalizzazione ha, nel suo disordinato sviluppo,
attivato e favorito fenomeni epocali di migrazione di massa
d’impossibile gestione per la mancanza totale di corrette strategie
condivise. Anche la deindustrializzazione italiana, avvenuta senza
soluzione di continuità durante l’ultimo ventennio, dovrebbe essere
considerata con questo metro di valutazione.
Negli ultimi anni, l’evoluzione del concetto stesso di guerra
economica è avvenuta, come detto, in modo esponenziale anche perché
ci si è avvalsi sempre più di istituzioni sovranazionali in virtù di accordi
internazionali e di libero scambio che non hanno rispettato la
simmetricità fra forze, capacità ed economie delle parti in causa, con
l’effetto di condizionare interi Sistemi Paese in subdoli predomini. Non
più tanto con acquisizioni di singole aziende, depositarie di tecnologie
appetibili o funzionali alle proprie, bensì del cuore di interi Sistemi
Paese, tali da raggiungere ancor più facilmente il controllo di
conglomerati settoriali di aziende complementari alle proprie esigenze
economiche e strategiche nazionali.
D’altronde il modello neoliberista dominante, a supporto della
globalizzazione, da una parte fa accettare regole di mercato agli Stati,
dall’altra li ha privati degli essenziali poteri correttivi tesi a mitigarne le
asimmetrie. Consideriamo ad esempio il WTO (World Trade
Organization, Organizzazione Mondiale del Commercio): non solo non
prevede specifiche sanzioni ai membri che ne contravvengono le
regole, ma invita a farne parte Paesi fortemente competitivi, come la
Cina, senza preventivi accordi sui cambi, esponendo alla scontata
vulnerabilità economica e sociale molti altri Paesi. Oppure l’Unione
Europea, che avvalendosi di una stessa moneta a fronte di un mercato
unico, nella pratica mai realizzato, e ponendo come condizione di
partecipazione e mantenimento dello status di appartenenza il rispetto
di precisi e stringenti parametri macroeconomici, ha creato nel tempo
sempre maggiori squilibri economici e sociali. L’immenso surplus
commerciale tedesco maturato negli ultimi anni ne è la più palese
dimostrazione.
In questi scenari, l’unica forza che avrebbe potuto ristabilire forme di
equilibro, o almeno mitigarne gli squilibri, sarebbe stata l’intervento
attivo delle rispettive politiche nazionali, ma il meccanismo delle regole
sancite dai trattati e regolamenti europei stanno ormai bypassandole ed
estraniandole di fatto da qualsiasi potere decisionale. La governance
dell’intera area dell’Unione Europea è affidata invece sempre più, come
da tempo sostiene il professor Giuseppe Guarino, a veri e propri
meccanismi automatici bio-giuridici, un sistema robotizzato,
impermeabile a qualsiasi input politico, che si autodetermina attraverso
regole meccaniche, inderogabili. Dal divieto di finanziamento
monetario degli Stati, a quello degli aiuti di Stato alle imprese, al bail-in
bancario, passando per il Fiscal Compact con la flessibilità
predeterminata, e al MES che deve imporre clausole di severa
condizionalità.
Ormai le guerre economiche si conducono e si vincono in questo
modo: non più tanto appropriandosi in modo fraudolento di brevetti o
know how aziendali, ma minando dall’interno le economie stesse per
renderle più vulnerabili e dipendenti dall’esterno. Non dimentichiamo
che, come evidenziato dal TJN (Tax Justice Network, cfr. Financial Secrecy
Index 2015), i principali competitor industriali europei (soprattutto
tedeschi) possono contare su un Sistema Paese che li mette in gran
parte al riparo da condizionamenti operativi sui business svolti
all’estero. Per l’Italia ci si aspetterebbe una conformità regolamentare,
vista l’impossibilità di richiedere agli altri di uniformarsi alle stringenti
normative e soprattutto prassi italiane.
Si ha ormai la netta percezione che alcuni Paesi, formalmente legati
da vincoli come quelli aderenti all’Unione Europea e più in particolare
all’Unione monetaria, utilizzino le regole comuni non per giungere ad
una effettiva integrazione solidale con criteri redistributivi, così come
originariamente paventato all’opinione pubblica per ottenerne il
consenso, ma per esercitare influenze ed egemonie pro domo sua nei
confronti degli altri associati. È sempre più palese che le regole
comunitarie siano utilizzate non come un effettivo sistema di
integrazione, bensì come metodo di governo sovranazionale in surroga
alle istituzioni nazionali, le quali in ogni caso sono preposte
democraticamente dal suffragio universale.
Germania e Francia, poi, pongono sempre come obiettivo primario la
salvaguardia dell’interesse nazionale e ben si guardano nel cedere gli
strumenti per poterlo perseguire (spesso in netta asimmetria rispetto a
quanto viene invece richiesto agli altri partner). Addirittura possono
farsi forti delle proprie consulte, che non mancano mai di ribadire la
subordinazione della legislazione europea rispetto a quella nazionale.
L’intelligence economica in questo nuovo contesto come può agire?
Secondo Carlo Jean e Paolo Savona, l’intelligence economica è quella
disciplina che «si prefigge di affinare le abilità cognitive e decisionali
applicate alla complessità del contesto competitivo globale, attraverso
l’analisi del ciclo dell’informazione necessario alle imprese e agli Stati
per effettuare scelte corrette di sviluppo». Alla luce dell’evoluzione in
atto però è necessario fare un ulteriore salto in avanti per poter valutare
correttamente l’esposizione ai fortissimi rischi per le nostre aziende e
per l’intero sistema economico nazionale. L’Italia rappresenta una
preda perfetta a livello mondiale e a riprova di quanto è stato finora
sostenuto è evidente quanto sia diventata un immenso outlet dove si
viene a fare shopping a prezzi di saldo nell’indifferenza più totale da
parte delle istituzioni.
Pertanto l’intelligence economica sia quella “difensiva” che quella
“offensiva”, demandata per definizione al servizio dello Stato per il
monitoraggio e alla prevenzione di azioni che possono procurare
nocumento all’economia e alla stessa stabilità nazionale, deve attivarsi
in sempre più complesse analisi che tengano conto di sofisticatissimi
intrecci di interessi alla luce di ogni iniziativa normativa scaturita da
accordi internazionali.
Ma nonostante l’intelligence italiana si avvalga di strutture e
personale qualificatissimo perfettamente in grado di percepire e
analizzare tutte le dinamiche di questi nuovi scenari e di trasmetterne il
corretto flusso informativo alle istituzioni e all’esecutivo politico, sono
queste ultime forze ad essere impotenti, non avendo più a disposizione
gli strumenti per poter agire, poiché evirate della maggior parte dei
poteri d’intervento.
Siamo dunque già in piena e devastante guerra economica. Il
precipitare dei rapporti fra gli Stati Uniti d’America e l’Europa
germanocentrica sta determinando, come non avveniva dalla fine della
Seconda Guerra mondiale, il rapido deterioramento degli equilibri
politici e geopolitici internazionali. L’Italia ha un ruolo determinante,
perché la forza e capacità della sua industria (nonostante tutto è ancora
la seconda potenza manifatturiera in ambito europeo e ottava
mondiale), la sua collocazione geografica al centro del Mediterraneo e il
cospicuo patrimonio immobiliare, capacità di reddito e di risparmio,
fanno sì che sia un grande e appetibile mercato di consumo di beni e
servizi.
In questo contesto va evidenziato come l’apparato di sicurezza
nazionale (forze di polizia, intelligence etc.) sia inevitabilmente
plasmato in funzione della collaborazione con Washington, che datano
senza soluzione di continuità da prima della fine della Seconda Guerra
mondiale. Ciò si scontra con gli attuali indirizzi della politica nazionale
che sembrano sempre più eurogermanocentrici, soprattutto in vista di
un probabile confronto tra l’Europa a baricentro tedesco e gli Stati
Uniti. Il rischio è dunque uno scollamento interno alle istituzioni
nazionali, in ballo c’è la stessa integrità e sopravvivenza nazionale. In
uno scenario politico europeo in cui Berlino non fa mistero di volersi
emancipare dagli Stati Uniti è inevitabile che la preponderante
rappresentanza italiana nella NATO rappresenti una variabile da tenere
in assoluta considerazione anche in ambito di intelligence. Se dovessi
essere chiamato a scegliere a quale schieramento appartenere,
insomma, non ho da tempo alcun dubbio: senza se e senza ma con lo
Zio Sam.
U N A P P U NT O S U L L ’ I NFL A Z I ONE

La polemica che la stampa ha mosso sul Piano B è stata superficiale e


basata su una ristrettezza mentale che non si vedeva dai tempi degli
Auto da Fè dell’Inquisizione spagnola. Noi siamo eretici perché
riusciamo a cogliere le incongruenze, profonde, che esistono
nell’economia dell’Eurozona e dell’Unione e cerchiamo di evidenziarle
e di trovarvi una soluzione, ben consci che la migliore sarebbe una
ricostruzione su basi più razionali e graduali. Purtroppo questo non è
accaduto, e non accade.
Iniziamo dal problema monetario, quello più grave, che è volano per
tutti gli altri. Da quando nel 2012 Draghi pronunciò il famoso Whatever
it takes è passata molta acqua sotto i ponti, e molti attivi sono stati
acquistati dalla Banca Centrale sotto forma di Titoli di Stato pubblici e
di bond privati.
Il programma QE non è stato altro che un enorme processo nel quale
si è pompata liquidità nelle banche e nelle istituzioni finanziarie, senza
però ottenere tantissimo. La BCE ha immesso 4,7 mila miliardi di euro
(bella cifra da dire) e i risultati non sono stati entusiasmanti.
Ricordiamo che la BCE ha come obiettivo la stabilità dei prezzi, non
l’occupazione o la crescita economica, come avviene per tutte le altre
banche centrali, ma, anche considerando esclusivamente questo
parametro, qualcosa non va, perché non tutta l’Eurozona risponde allo
stesso modo agli stimoli.
Consideriamo la Germania. Il 30 maggio 2018 sono arrivate le
rilevazioni dell’inflazione CPI (Consumer Price Index, Indice dei Prezzi al
Consumo) per la Germania e per tutta l’Eurozona. L’inflazione tedesca
ha superato il 2% (obiettivo della BCE), nel caso specifico è al 2,2%,
mentre quello dell’Eurozona è di poco superiore all’1%. Se poi facciamo
il confronto con l’Italia abbiamo una situazione ancora più impietosa:
0,5%. La Germania ha raggiunto e superato il 2% di inflazione, la media
europea è di molto sotto, e l’Italia è fra i Paesi che, evidentemente,
abbassano la media. Perché l’inflazione è importante? Perché è uno dei
principali indicatori dell’economia: se un’economia si sta “scaldando”
cioè sta crescendo, allora l’inflazione si alza, se non cresce non si alza.
La Germania sta crescendo, anzi sta iniziando a crescere un po’ troppo,
mentre l’Italia non cresce, è “fredda”. Quindi per la Germania la politica
monetaria espansiva dovrebbe cessare, perché si sta stimolando un
sistema che già sta crescendo e stimolarlo troppo può creare inflazione
e bolle speculative, mentre in Italia l’incentivazione monetaria non ha
funzionato.
Normalmente questo non costituirebbe un problema dal punto di
vista della politica economica e fiscale: il Paese in crescita diminuirebbe
lo stimolo monetario (con la Banca Centrale che innalza gli interessi) e
quello fiscale (con un po’ meno agevolazioni fiscali, oppure un po’
meno spesa pubblica), mentre il Paese che non cresce e che ha
un’inflazione minore farebbe l’esatto opposto. Purtroppo siamo
nell’Euro, “Medio” a tutti i paesi, con il risultato che questo non va bene
ai Paesi in crescita, e non va bene neanche per quelli che, diciamo,
crescono meno o non crescono proprio. Le conseguenze? Tangibili: in
Germania la disoccupazione è molto bassa, 3,4%, e le paghe si stanno
muovendo (da 3.558 Euro mese di gennaio 2015 a 3.809 di gennaio
2018, +7%) mentre l’Italia ha una disoccupazione all’11% e paghe più
basse, molto più basse, oltre ad un’area di sottoccupazione, ossia di
persone che vorrebbero lavorare e guadagnare di più, molto larga, 800
mila lavoratori, un numero che è raddoppiato dal 2011. Perché dunque
una politica monetaria comune è problematica? Perché le dinamiche
economiche e dei prezzi sono diverse, troppo diverse. L’Euro è un abito
unico che male si adatta ai singoli Stati, ma guai a parlarne.
EU R O A D U E V EL OCI T À ? S Ì , M A A QU ES T E
COND I Z I ONI

Al Consiglio Europeo di fine giugno si parlerà, tra le altre cose, anche


di una UE e di un euro a due velocità. La proposta fu lanciata lo scorso
anno da Germania, Francia, Italia e Spagna subito dopo l’insediamento
di Donald Trump alla Casa Bianca.
A quel tempo fui molto critico, e lo sono ancora adesso ma con
qualche significativo distinguo rispetto all’anno scorso.
Perché questa volta sono ottimista? La risposta è semplice. Gentiloni,
Renzi, Padoan e il PD avrebbero voluto farci entrare nei vagoni di testa,
cioè nella stessa UE e con la stessa moneta forte della Germania. Una
follia. In pratica non solo non risolveremmo i problemi che da decenni
attanagliano la nostra economia, ma addirittura soffriremmo anche la
svalutazione dell’Euro-B da parte degli altri Paesi del Sud Europa. Per
noi sarebbe un massacro ben peggiore di quello attuale.
Il nuovo governo molto probabilmente non tradirà la Nazione come
hanno fatto tutti gli altri esecutivi succedutisi da Monti in avanti, quindi
la speranza è quella che, se fossero avviate per davvero le trattative per
riformare UE ed Eurozona, l’Italia finisca nei vagoni di coda (cioè nella
UE con parametri più ragionevoli e flessibili, con molti meno
trasferimenti ma allo stesso tempo senza vincoli assurdi come ad
esempio il pareggio di bilancio), e quindi nell’area valutaria dei Paesi
dell’Europa del Sud (Euro-B), in ogni caso diversa da quella in cui
entrerà la Germania (Euro-A).
L’idea di creare due differenti aree valutarie (cioè due euro), una per il
Nord Europa e l’altra per il Sud, fu avanzata dal premio Nobel per
l’economia Joseph Stiglitz in un suo libro uscito nell’agosto di due anni
fa (L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa), nel quale il
professore americano − perché le due aree valutarie possano
funzionare in maniera ottimale − prevedeva due condizioni necessarie
e irrinunciabili:
1) la possibilità per gli Stati che adotteranno l’Euro-B di far fluttuare il
cambio entro una certa percentuale di oscillazione rispetto all’Euro-
forte (Euro-A) adottato dai Paesi del Nord Europa. Noi abbiamo già
avuto l’esperienza dello SME dove l’Italia poteva far fluttuare il cambio
della Lira rispetto all’ECU (unità di conto europea di riferimento) nella
percentuale di +/- 6%, a differenza della Germania che si era legata ad
una forbice inferiore (+/- 2,25%). Dopo tredici anni (nel 1992) ci
trovammo nelle condizioni di doverne uscire con un periodo
successivo (1995-1996) di forte ripresa delle nostre esportazioni. Oggi la
situazione è di gran lunga peggiore rispetto al 1992 perché l’Euro è un
accordo di cambi fissi, quindi impedisce qualsiasi intervento sul cambio
costringendo gli Stati che vogliano tornare ad essere competitivi (l’Italia
è il secondo Paese esportatore in Europa) ad intervenire sul lavoro, che
tradotto significa riduzione dei salari, contrazione delle garanzie
contrattuali e di legge in favore del lavoratore e mobilità selvaggia della
forza lavoro (cioè la svalutazione del lavoro al posto della svalutazione
della moneta). Aggiungo quindi che l’eventuale creazione delle due aree
valutarie debba necessariamente consentire ai Paesi che adotteranno
l’Euro-B di poter fare leva sul cambio, svalutando rispetto all’Euro-A in
una forbice di oscillazione superiore a quella prevista dallo SME. A
modesto parere di chi scrive, la forbice di oscillazione netta tra le due
aree valutarie non può essere inferiore al +/- 10%;
2) la BCE deve esercitare la funzione tipica di tutte le banche centrali,
cioè quella di fungere da prestatrice illimitata di ultima istanza, con
necessaria dipendenza della stessa alla politica, quindi al Parlamento
europeo. Non è più accettabile che le banche centrali siano indipendenti
dal potere politico! Al momento la BCE non solo non può, addirittura
per statuto, fare da prestatrice illimitata di ultima istanza, ma è del tutto
indipendente dalla politica. Per precisazione, il programma di
Quantitative Easing lanciato tre anni fa provvede ad acquistare i Titoli
di Stato solo sul mercato secondario (cioè quelli già in circolazione) e
non sul mercato primario (battuti mensilmente dal Tesoro). Terminato
questo periodo di “alleggerimento quantitativo” il debito pubblico degli
Stati dell’Eurozona non sarà più garantito dalla BCE ma da cittadini e
imprese attraverso il consolidamento fiscale e l’attacco al risparmio
privato, esattamente come fece il governo Monti dal novembre 2011 al
dicembre 2012.
Ritengo inoltre necessario che la maggioranza parlamentare della
neonata Legislatura persegua l’obiettivo di ripristinare, com’è scritto nel
“contratto di governo” M5S-Lega, la «prevalenza della nostra
Costituzione sul diritto comunitario». Per far questo occorre avviare in
casa nostra un percorso di riforme costituzionali che abroghi la Legge
costituzionale n. 1/2012 con la quale fu introdotto in Costituzione il
vincolo del pareggio di bilancio in modo da non subordinare la potestà
legislativa nazionale a quella europea ed internazionale, fatto salvo
quanto previsto dall’art. 11 della Costituzione secondo quelle che furono
le intenzioni dei Padri Costituenti.
Ho dibattuto di tutti questi temi fino a tarda notte col mio amico
Francesco, che di economia ne capisce, e abbiamo convenuto che se la
Germania continuasse a non voler capire, sarà costretta a rendersi la
principale responsabile del crollo non solo dell’euro ma anche dell’UE.
P ER CH É U N P I A NO B

Quando nel 2015 Paolo Savona lanciò il sasso nello stagno rivolgendo
pubblicamente l’invito a una classe politica consapevole di predisporre
un serio e credibile Piano B per un’uscita ordinata dell’Italia dalla
moneta unica, si attirò non poche critiche.
La sostenibilità dell’euro è stata affidata dalle istituzioni europee a
meccanismi automatici per mezzo della sottoscrizione da parte degli
Stati membri di Trattati, regolamenti e direttive, estraniando in questo
modo i governi nazionali da qualsiasi potere decisionale ed escludendo
pertanto di fatto i cittadini dal processo democratico. L’euro si è
trasformato in un vero e proprio metodo di governo sovranazionale.
Alcuni Paesi, ad iniziare dall’Italia, risultano incapaci di formulare
“Piani A” per la permanenza nell’aggregazione monetaria con iniziative
che tengano conto delle proprie esigenze perché troppo deboli e
accondiscendenti verso Bruxelles e Berlino, traendone in cambio
illusorie legittimazioni internazionali in surroga a quelle totalmente
mancanti in patria.
Ma fino a che punto si può essere disponibili a cedere completamente
le sorti economiche del Paese, e pertanto l’identità nazionale,
consegnando a occhi chiusi le chiavi di casa a istituzioni esterne che fino
ad ora hanno dimostrato solamente di non saper gestire nessuna delle
crisi a cui sono state chiamate?
Il monito di Savona pertanto è quanto mai attuale: prepariamoci a un
realistico e credibile Piano B per il ritorno alla sovranità monetaria, che
nella pratica non significa solamente abbandonare l’Euro per tornare
alla nuova Lira, ma la possibilità di riappropriarci della nostra politica
economica non più soggetta ai vincoli dei Trattati, nel caso in cui la
nostra partecipazione alla moneta unica risulti insostenibile. Possibilità
che potrebbe verificarsi verosimilmente più per eventi esterni che
interni al nostro Paese e che senza un Piano B, preventivamente
pianificato nei dettagli, difficilmente potrebbe essere gestita in modo
ottimale e senza sottoporre i cittadini e le imprese italiane ad ulteriori
disagi.
Ma la predisposizione di un effettivo Piano B servirebbe anche come
“arma” contrattuale deterrente nei confronti delle istituzioni europee e
dei governi di Paesi membri abituati da troppo tempo ad incassare
dall’Italia solamente dei sì incondizionati. Insomma come per la
sicurezza nazionale si predispongono piani strategici militari per
contrastare e garantire l’inviolabilità del territorio, è altresì necessario
predisporre un piano per un’uscita ordinata e non scomposta del nostro
Paese dall’Euro. È come quando si progetta una nave: nessuno vuole
che affondi, a iniziare dai passeggeri, ma è doveroso prevedere una
batteria di scialuppe.
P OS T S CR I P T U M

C’è chi dà la colpa di questa situazione al leone, che non dovrebbe


mangiare le gazzelle. Il leone però fa solo ciò che è nella sua natura
fare: demenziale chiedergli di diventare vegetariano.
C’è chi dà la colpa di questa situazione alla gazzella, che dovrebbe
diventare così robusta da non farsi mangiare dal leone. Ovviamente è
un assurdo.
C’è chi, tuttavia, insiste a dare la colpa alla gazzella, che dovrebbe
diventare talmente snella da fuggire indefinitamente dal leone.
Giustissimo. Facciamolo. Ma non in una gabbia: lì non c’è scampo.
B OL L ET T I NO D EL L A V I T T OR I A

01/06/2018 ore 16.00


pubblicato dopo il giuramento del nuovo governo
al Quirinale

La guerra
contro i sostenitori dell’austerity
che il popolo sovrano italiano,
inferiore per numero e mezzi,
iniziò sin dal giuramento del governo Monti
l’11 novembre 2011
e con fede incrollabile e tenace valore
condusse ininterrotta ed asprissima
per 6 anni e 6 mesi,
è vinta!

La gigantesca battaglia
ingaggiata il 4 marzo scorso
e conclusa il 1 giugno è finita!
Le forze avversarie sono annientate.
I resti di quello che fu
uno dei più potenti eserciti per l’austerity
contro gli inalienabili diritti dei cittadini
risalgono in disordine e senza speranza
le valli che avevano discese
con orgogliosa sicurezza!!
T U T T E L E FI R M E D I
S CENA R I ECONOM I CI .I T

Gli articoli raccolti in questo libro non sono firmati perché frutto di
una miscellanea tra più post del blog Scenari Economici nel periodo
che va dal 2015 a giugno 2018.
*Pubblicazione sotto -- Pseudonimo

Autori permanenti

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Antonio Maria Rinaldi
Paolo Savona
Luca Mussati
Maurizio Gustinicchi
Fabio Lugano
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Guido da Landriano*
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Sulplicia*
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