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ECONOMICI
C o m p a g n ia e d it o r ia l e A l ib e r t i S r l s
Sed e leg a le
v ia F o s d o n d o , 9 4 – C o r r e g g io ( R E )
S e d e o p e r a t iv a
v ic o l o S c a l e t t a , 1 – R e g g io E m il ia
P r o m o z io n e e d is t r ib u z io n e A . L . I . A g e n z ia L ib r a r ia I n t e r n a t io n a l
w w w . a l ib e r t ic o m p a g n ia e d it o r ia l e . it | in f o @ c e a l ib e r t i. it
U U I D : 4 c c f 3 c 6 8 -7 9 1 3 - 1 1 e 8 - a 4 e b - 1 7 5 3 2 9 2 7 e 5 5 5
Q u e s t o l ib r o è s t a t o r e a l iz z a t o c o n S t r e e t L ib W r it e
h t t p : // w r it e . s t r e e t l ib . c o m
INDICE
Prologo
Riprendiamoci le chiavi di casa
LA VERSIONE DI PAOLO SAVONA
Non cediamo la nostra Sovranità
L’Europa,ovvero del senno di poi sono piene le fosse
Voglio un’Europa diversa
Ho subìto un grave torto, è un processo alle intenzioni
Se non siamo incoscienti, teniamo pronto il Piano B
COME ABBIAMO PERSO LA SOVRANITÀ
La vacca tedesca
Il Piano Funk e le mire tedesche
La matematica è (e fa) opinione
Leggende metropolitane intorno all’Euro
Il sequestro dei risparmi
La rapina delle banche
Fine pena mai: il Fiscal Compact
È guerra, ma in giacca e cravatta
Un appunto sull’inflazione
Euro a due velocità? Sì, ma a queste condizioni
Perché un Piano B
Post Scriptum
Bollettino della vittoria
Tutte le firme di Scenarieconomici.it
Prefazione di Luca Telese
La storia che avete tra le mani, per quanto possa sembrare strano,
inizia a Roma, nel 1977, in un’aula universitaria. In quei giorni di inizio
estate si sta svolgendo la temuta sessione d’esami del terzo anno di
Economia alla Luiss. A tenere la poderosa (e cruciale) cattedra di
Politica economica c’è un professore che è arrivato, nell’università
privata più importante di Roma, preceduto da una doppia fama: quella
di accademico rigoroso e quella di trita-studenti. Il professore a lezione
è brillante, provocatorio, innovativo. Sfida i suoi ragazzi: «Lei sta dando
una risposta ineccepibile, ma non mi accontento. Perché non osa di più
e non dice quello che pensa davvero?» Il professore è preceduto da un
cursus honorum che taglia il fiato solo a scorgere le prime righe: potrà
vantare di essere uno dei pochi uomini in Italia – anzi l’unico – che è
stato direttore sia dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia che di quello di
Confindustria, oltre che allievo di in premio Nobel come Modigliani.
Pochi uomini riescono a fare una doppia e folgorante carriera parallela,
sia nel cuore della più importante istituzione economica pubblica, che
in quello della più importante istituzione privata. Il professore di
Politica economica che tiene insieme nel suo araldo queste due
qualifiche è un signore di quarant’anni – nato a Cagliari – che dimostra
più della sua età. Il professore è un uomo cortese, parla in una lingua
forbita, è un discepolo di Guido Carli, è tetragono, quadrato, per nulla
bonario: il suo nome è Paolo Savona.
Dunque, in quel giorno in cui alla Luiss si apre la sessione d’esame del
professor Savona, quando iniziano gli esami comprensibilmente
nessuno si fa avanti, e il foglio dei futuri interrogati rimane bianco.
Sono tutti lì, nella grande aula, ma in attesa. Prima di scrivere il loro
cognome nella lista, vogliono studiare la strategia di interrogazione del
professore, capire se conviene temporeggiare al giorno dopo,
perfezionare qualche argomento ricorrente. Vogliono aspettare che le
prime cavie – considerate animali sacrificali tra le mani del sardo
implacabile – facciano la prova del biscotto confrontandosi con la
micidiale pignoleria del professore. Quando Savona si accorge che
nessuno si fa avanti, consapevole della propria fama, stupisce tutti gli
studenti in attesa con un annuncio beffardo, e con un guanto di sfida
lanciato all’uditorio: «Possibile che tra di voi non ci sia nessuno così
coraggioso da farsi avanti?» Mormorio. Pausa studiata del professore,
sorriso: «Posso dare una rassicurazione, in via del tutto eccezionale. Il
primo di voi che si presenta prenderà il voto che si merita. Tuttavia una
garanzia, ma solo a lui, posso fornirla fin da ora: il temerario che si
presenta per primo avrà un unico privilegio. Sicuramente non sarà
bocciato».
Contrordine. Gli studenti adesso corrono precipitosamente verso la
cattedra, contendendosi la lista. Quello che arriva prima – sgomitando
– è un ragazzo magro, con i capelli scuri, di cui possiamo dirvi tre cose.
La prima, che in quel momento non immagina nemmeno lui, è che
all’esame prenderà un onorevole Ventotto. La seconda, assolutamente
imponderabile, è che quella scelta, per un curioso destino di porte
girevoli innescato da quel voto, lo porterà a diventare uno degli allievi
del professore. La terza è che se quel ragazzo quel giorno non fosse
arrivato primo, sicuramente questo libro non sarebbe tra le vostre
mani. L’ultima notizia che devo darvi, ma forse lo avete già intuito, è
questa: il ragazzo magro e temerario, eroe della sessione di esami di
Politica economica dell’anno di grazia 1977, si chiama Antonio Maria
Rinaldi.
«Per caso siete dei matti?»
«Sai cosa si può fare? Un sito che costa 750 euro l’anno»
Epilogo
Caro Presidente,
per il rispetto che porto all’istituzione che presiede e a Lei
personalmente, è con molta ansia che Le indirizzo questa lettera aperta
riguardante una scelta che considero fondamentale per il futuro
dell’Italia: la cessione della sovranità fiscale per far funzionare la
sovranità monetaria europea, dato che questa è stata ceduta dagli Stati-
membri senza stabilire quando e come si dovesse pervenire
all’indispensabile unione politica necessaria per rendere irreversibile
l’euro, né attribuire alla Banca Centrale Europea il potere di svolgere la
funzione di lender of last resort in caso di attacchi speculativi come quelli
che abbiamo vissuto dopo la crisi finanziaria americana del 2008.
Invece di affrontare questi due problemi vitali per il futuro
dell’Europa si chiede di sottoscrivere un accordo per cedere la sovranità
fiscale residua che, per pudore, viene chiamata “gestione in comune”. Il
Presidente della Bundesbank ha riproposto e precisato i contenuti in un
recente discorso.
Leggo sui giornali che Lei avrebbe concordato con il Presidente della
BCE e il Ministro dell’economia e finanza italiano una strategia in
attuazione del previsto accordo. Non credo di dover spiegare a Lei
perché nomino istituzioni e non persone. Penso che queste notizie
siano suggerimenti di persone scriteriate (l’aggettivo è di un Suo illustre
predecessore, Luigi Einaudi) che, non fidandosi più del Paese, ammesso
che mai se ne siano fidate, lo vogliono colonizzare; una sorta di fastidio
per i disturbi che provengono per i loro interessi. Spero che la notizia
sia infondata, perché se non lo fosse, sarebbe Suo dovere smentirla,
secondo un insegnamento che mi ha dato Ugo La Malfa: «se un notizia
è falsa, non si smentisce, se è vera, si deve farlo»; e, aggiungeva, «se i
contenuti della notizia erano particolarmente importanti − come
sarebbe la cessione della sovranità fiscale che marcherebbe la fine della
democrazia italiana senza che ne nasca un’altra − non si doveva solo
smentire, ma farlo in modo energico».
A ogni buon conto, se una tale scelta maturasse, Lei non potrebbe
ratificarla, perché l’art. 11 della Costituzione dice chiaramente che
l’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, le limitazioni
di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni
internazionali rivolte a tale scopo.
Naturalmente diranno che la decisione risponde a queste condizioni
(pace, giustizia e parità con altri Stati) ma, sulla base dell’esperienza
fatta con la cessione all’Unione Europea della sovranità di regolare i
mercati e di battere moneta, queste sono pure ipotesi, una vera truffa
per taluni e un’ingenuità per altri, che né la scienza economica (mi passi
il termine), né la politica, che pretese di scienza non ha mai avuto,
possono asseverare.
I Trattati internazionali sono contratti giuridici tra nazioni e l’oggetto
del Patto stipulato a Maastricht in attuazione dell’Atto unico e ribadito a
Lisbona nel 2000 parla chiaro: «All’art. 2, punto 3, afferma che l’Unione
� si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una
crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su
un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla
piena occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela
e di miglioramento della qualità dell’ambiente. Essa promuove il
progresso scientifico e tecnologico. L’Unione combatte l’esclusione
sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e la protezione
sociali, la parità tra donne e uomini, la solidarietà tra le generazioni e la
tutela dei diritti del minore. Essa promuove la coesione economica,
sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri».
Le chiedo, caro Presidente, se Lei ritiene che questo impegno sia stato
adempiuto e quali siano, anche dopo l’esperienza della crisi greca, le
probabilità che lo possa essere anche ipotizzando di cedere la parte
residua della sovranità nazionale in cambio (il termine è già un
eufemismo) di un’assistenza finanziaria accompagnata da vincoli che
violano il dettato della nostra Costituzione che Lei è deputato da
tutelare. Invece di uscire dal paradosso di un non-Stato europeo
formato da non-Stati nazionali si intende approfondire questa strana
configurazione istituzionale, perché appare vantaggiosa a pochi paesi
capeggiati dalla Germania.
Poiché la tesi del vantaggio che potremmo ricavarne è priva di
fondamento, da tempo si insiste nello spargere terrore su quello che
avverrebbe se l’euro crollasse, trascinando il mercato unico,
aggiungendo la ciliegina della speranza che in futuro le cose andranno
meglio e che si va facendo di tutto affinché ciò avvenga.
Vivere nel terrore del dopo e nelle speranze che le cose cambino,
senza attivare gli strumenti adatti affinché ciò avvenga, non è posizione
politica dignitosa. L’Italia non si è tirata indietro quando è stato chiesto
di pagare un costo elevato in termini di vite umane per giungere
all’unità e per uscire dalla dittatura nazifascista perché sapeva valutare
il costo di rimanere nelle condizioni in cui si trovava. Spero che la
nuova classe dirigente non si tiri indietro e sappia chiedere e far
accettare un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni.
Per l’Italia non esiste alternativa al chiedere il rispetto congiunto del
dettato costituzionale e dell’oggetto del Trattato europeo vigente e Lei
ne è garante.
Paolo Savona
L ’ EU R OPA ,OV V ER O D EL S ENNO D I P OI
S ONO P I ENE L E FOS S E
Ar ti co l o d i S avo n a d e l 2 5 ge n n a i o 2 017
Forse non tutti i difensori dell’Euro, a spada tratta, sanno che alla base
della moneta unica c’è una marea di calcoli spannometrici, dei “due più
due” che sono diventati cinque, senza colpo ferire, sui quali si è
costruito tutto l’impianto dell’Eurozona. Di seguito ne esporremo per
semplicità i più macroscopici.
Il Rapporto Cecchini
Il primo di questi calcoli risale alla fine degli anni Ottanta, quando
alla guida della Commissione Europea c’è Jacques Delors, fedelissimo
di Jacques Mitterrand. L’obiettivo francese all’epoca è usare
l’integrazione europea per “disinnescare” il pericolo della riunificazione
tedesca: Delors deve renderla al più presto realizzabile.
Da qui il “Rapporto Delors”, presentato al Consiglio dei ministri
dell’economia e delle finanze a Madrid il 28 e 29 giugno 1989. A
svolgere un ruolo cruciale, un italiano ai più sconosciuto, un
economista perugino “emigrato” a Bruxelles molti anni prima, Paolo
Cecchini, approdato in Commissione in quota italiana. L’economista
italiano riceve, nel 1986, il mandato di redigere un dettagliato rapporto
tecnico finalizzato all’individuazione dei costi che i Paesi erano costretti
a sopportare per la non integrazione. Ne scaturisce, dopo quasi due
anni di lavoro, un rapporto dal nome “1992: La sfida Europea”, più
comunemente chiamato “Rapporto Cecchini”, focalizzato sui vantaggi
del mercato unico europeo e inserito a supporto scientifico nel citato
“Rapporto Delors”.
In sintesi: la non Europa sarebbe costata 200 miliardi di ECU/euro.
Su questa cifra, che dimostreremo essere davvero approssimativa, si è
poi costruita la moneta unica. Ma cos’è che non sapeva Cecchini?
Moltissime cose.
Non poteva sapere quali parametri sarebbero stati presi a
fondamento della convergenza monetaria, ossia ciò che sarebbe stato
deciso con i Trattati di Maastricht. Ignorava che la mancanza di
mobilità e flessibilità del fattore lavoro, vero tallone d’Achille di tutte le
aree monetarie non ottimali, non ha compensato la mobilità del fattore
capitale, determinato e favorito dalla liberalizzazione del mercato
finanziario. Ma il vero punto debole, evidenziato dallo stesso Cecchini,
era che la realizzazione del mercato unico doveva essere accompagnata
da un ciclo espansivo particolarmente vigoroso dell’economia, poiché
solo con questo presupposto i vantaggi del mercato sarebbero stati
elevati riuscendo ad assorbire gli shock asimmetrici determinati
dall’integrazione fra i diversi livelli di efficienza produttiva. L’avete
visto il ciclo espansivo? Noi no.
Infine, il Rapporto Cecchini non è riuscito a intercettare i fattori
dell’evoluzione delle economie nei Paesi dell’Est europeo,
riunificazione della Germania compresa, che si sono invece
rapidamente aggregati al mercato comune modificando sensibilmente i
rapporti di forza precedentemente presi in considerazione. In pratica,
quella dell’economista italiano è stata un’analisi sul futuro, quasi una
divinazione.
Pensiamo infatti a quei 200 miliardi di ECU/euro letteralmente
bruciati ogni anno e non dall’Europa, ma dal solo “sistema Italia”,
costretta ormai a boccheggiare perché non più supportata da nessun
accesso al credito e a condizioni che non la mettono più in situazioni di
competitività. Non c’è da stupirsi: come ha valutato l’economista
Loukas Tsoukalis dell’Università di Atene, il rapporto “1992: Il costo
della non Europa”, aveva un margine d’errore superiore al 30%.
È ormai luogo comune ritenere che l’Euro sia una valuta a tutti gli
effetti come il Dollaro statunitense, la Sterlina inglese o lo Yen
giapponese, e la possibilità di poterlo utilizzare materialmente, visto
che ce lo ritroviamo in tasca, supporta ancor di più questo errato
convincimento. Ebbene: spiace deludere, ma l’Euro non è una moneta,
bensì un cambio fisso. E ciò non è affatto la stessa cosa.
Dal 1° gennaio 1999, ci siamo ritrovati come moneta la Lira, ma con il
tasso di cambio fisso fra le altre valute europee, a valori di concambio
prestabiliti e non più modificabili nel tempo.
Questo status è durato per tre anni, fino al 1° gennaio del 2002,
quando entrarono in circolazione le banconote e le monete dell’Euro,
terminando il periodo di convivenza delle varie valute, de facto divenute
già Euro, per la fissazione dei concambi a valori fissi e irrevocabili nel
tempo.
Teoricamente ciascun Paese avrebbe potuto continuare a usare le
proprie banconote, ormai legate fra loro da rapporti di cambi fissi
irrevocabili, ma gli accordi prevedevano anche la loro sostituzione
fisica con una moneta materiale comune, per evitare la tentazione del
ritorno alla fluttuazione che qualche Paese avrebbe potuto invocare
successivamente.
In pratica un’evoluzione dell’accordo SME – il Sistema di cambi fissi
pre-euro − ma “blindato”, cioè senza possibilità di modificare i rapporti
di cambio, né tanto meno permettere eventuali bande di oscillazioni e
soprattutto sine die con l’aggiunta (poi rivelatasi essere il vero cappio al
collo) di rinunciare alla determinazione delle rispettive politiche
economiche ad esclusivo appannaggio dell’Unione.
Siamo nella stessa situazione in cui si trovò l’Argentina quando
agganciò il suo Peso al cambio fisso con il Dollaro, con l’aggravante che
l’Italia non può svincolarsi e deve eseguire fedelmente politiche di
bilancio e politiche fiscali scritte a Bruxelles e Francoforte (previo visto
di Berlino).
Vorrei qui riportare un’intervista pubblicata su «la Repubblica» −
ancora terribilmente attuale nonostante risalga al 1992 − al professor
Frank Hahn, a quei tempi sicuramente il più titolato fra gli economisti
inglesi, che discute degli effetti della creazione di una moneta unica
all’indomani della firma di Maastricht.
Hahn precisa: «Ho tenuto qualche tempo fa una lezione alla Banca
d’Italia dove ho spiegato, dal punto di vista teorico, perché l’Unione
monetaria va contro quasi tutto quello che sappiamo di economia. C’è
una teoria dell’area monetaria ottimale in cui si dice che la mobilità dei
fattori della produzione è cruciale per il raggiungimento degli equilibri.
Ora, la mobilità del lavoro è abbastanza elevata tra Inghilterra e Scozia,
ma non altrettanto in Europa per differenze culturali, di lingua, di
costumi sociali e, quindi, fissare i tassi di cambio non è una buona idea.
Tra l’altro, ho ricordato che la prima tesi contraria ai cambi fissi fu
avanzata proprio da Keynes e si basava sulla difficoltà di riduzione dei
salari. Tale difficoltà trasferisce il ruolo equilibratore dal livello dei
prezzi al livello del reddito e dell’occupazione: per far tornare un
equilibrio, il costo di produzione industriale dovrebbe diminuire,
grazie a una riduzione dei salari. Questo è praticamente difficile, se non
impossibile, a causa delle resistenze sindacali e politiche, per cui la via
scelta è quella di diminuire l’occupazione». Per poi continuare in modo
lapidario: «Con l’Unione monetaria, invece delle fluttuazioni del
cambio si avranno fluttuazioni nel tasso di disoccupazione».
Alla domanda del giornalista Pirani, che chiedeva se i cambi fissi
abbiano avuto il vantaggio di assicurare certezza negli scambi
internazionali, la risposta del professore inglese è precisissima: «Credo
il contrario. Questo in quanto i mercati valutari sono molto sviluppati;
perché ci sono i mercati a termine e ci si può coprire contro i rischi di
cambio. Di contro, come ho detto, i cambi fissi sostituiscono le
fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione. Il vero motivo per
sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice.
Infatti, fintanto che i governi non creano un meccanismo che leghi loro
le mani, non è possibile contenere l’inflazione salariale. Credo che i
sostenitori del cambio fisso vogliano introdurlo solamente per la paura
dell’inflazione e, poiché di questi tempi siamo nelle mani dei banchieri
centrali, per i quali il grande nemico è l’inflazione più che la
disoccupazione, questa scelta si spiega». Chiaro, no?
A supporto poi della tesi che l’Euro sia una valuta sui generis, derivante
cioè dall’evoluzione dei precedenti accordi di cambi, vi è la
considerazione che continuano a esserci ancora diversi livelli di tassi,
uno per ciascuna precedente valuta, inconcepibile e incompatibile con
una vera ed effettiva moneta. Lo stesso meccanismo del Quantitative
Easing, abbreviato in QE (ovvero l’acquisto di Titoli di Stato e di altro
tipo emessi dai Paesi della Zona euro da parte delle banche per
immettere nuovo denaro nell’economia europea e concepito dalla BCE
come ultimo tentativo di stimolo monetario per far uscire gran parte
del Continente europeo dalla deflazione), ha ribadito che gli Stati
eurodotati ancora devono fare la loro parte, come se fossero ancora
con le proprie valute visto che le rispettive Banche Centrali sono
chiamate ad assumersi gli eventuali rischi nella misura dell’80%.
Ma allora che moneta comune è? Part-time?
Che senso ha avere la stessa formale divisa se poi si accetta di farla
convivere con tassi d’interesse così ampiamente diversi, che catalogano
ogni Paese membro, facendo coesistere nei fatti nella stessa
aggregazione un Euro di serie A, detenuto dalla Germania, e tanti Euro
di serie B o di serie C in relazione al tasso d’interesse espresso da
ciascun Paese?
Un modo per affermare che in questa area valutaria anomala la
valuta non si conta. Si pesa.
Non solo: questa pseudomoneta lascia la gestione dei debiti pubblici
ai rispettivi Paesi, che sono stati però privati di qualsiasi tipo di
sovranità monetaria, come se l’indebitamento fosse contratto in valuta
estera.
Per questo possiamo sostenere che tutto l’impianto su cui si fonda
l’Euro si è rivelato essere un accordo di cambi fissi mascherato, il cui
accesso e permanenza è subordinato al rispetto nel tempo di parametri
di convergenza via via più stringenti.
In parole semplici, quando furono fissati i valori di concambio
irrevocabili fra le valute dei Paesi aderenti alla fase finale dell’unione
monetaria, noi non abbiamo fatto altro che vincolarci a rapporti fissi di
cambio e non più fluttuanti, senza la possibilità di poter perseguire in
modo autonomo la nostra politica monetaria scaturita dalla nostra
politica economica, tarata sulla nostra economia.
Quelle 1936,27 lire per 1 euro, significava che il Marco per sempre e
irrevocabilmente si sarebbe rapportato con noi a 989,999 lire, essendo
il loro concambio con l’Euro a 1,985583 per 1 marco (989,999 x
1,985583 = 1936,27) senza possibilità di intraprendere autonome
politiche economiche. E allora ce la prendiamo con il concambio? Un
altro errore, come viene spiegato nel paragrafo successivo.
Il concambio fu troppo alto: FALSO
C’è poi chi invoca l’Euro come protezione ideale agli effetti della
globalizzazione, uno scudo capace di rendere più forti e reattivi.
Peccato che, numeri alla mano, anche questa sia una vana speranza e
ciò che accade nella realtà è l’esatto contrario. L’Euro è infatti una
moneta autonoma, il miglior rimedio possibile ai problemi
dell’intensificazione degli scambi tra le diverse parti del mondo.
Il modello economico su cui verte la sopravvivenza e il
mantenimento dell’Euro si basa infatti sulla stabilità dei prezzi e il
rigore dei conti pubblici fino al perseguimento del principio del
pareggio di bilancio come presupposto per la crescita. Gli effetti di
questo modello, tanto caro all’ortodossia economica tedesca, è l’aver
gettato in deflazione l’intero Continente e aver “infettato” della stessa
malattia anche mezzo mondo.
Prima di Maastricht, l’Italia adottava il modello economico tracciato
dalla Carta Costituzionale, che poneva come presupposti fondamentali,
imprescindibili e non negoziabili − e li pone ancora oggi − la lotta alle
disuguaglianze, l’occupazione, la dignità del lavoratore e del suo salario,
la tutela dei risparmi, la tutela della salute, la funzione regolatrice dello
Stato nell’economia. Con l’Euro, tutto il pacchetto è stato sostituito
dalla capacità o meno di rendere flessibile il fattore lavoro
comprimendo i salari. E intanto la Cina svaluta lo Yuan per rendere i
propri prodotti ancor più competitivi.
Per appartenere alle “regole” europee uno dei prezzi da pagare è
quello di aderire al modello neoliberista di riferimento, dove tutto deve
essere lasciato alla determinazione dei mercati nella convinzione-
presunzione che solo gli stessi, senza la presenza attiva dello Stato,
sappiano autoregolare in modo ottimale il sistema finanziario. Ma
sappiamo benissimo che questo non è avvenuto e non sarebbe potuto
avvenire: anzi i mercati, enfatizzati sempre più dall’evoluzione della
globalizzazione senza nessuna regolamentazione, hanno provocato
disastri inimmaginabili e difficilmente sanabili.
Avvalendosi di una stessa moneta a fronte di un mercato unico, nella
pratica mai realizzato, e ponendo come condizione di partecipazione e
mantenimento dello status di appartenenza il rispetto di precisi e
stringenti parametri macroeconomici, si sono creati nel tempo sempre
più squilibri economici e sociali all’interno dell’Eurozona, che hanno
fatto acquisire forti posizioni di leadership a pochi e pesanti sudditanze
economiche e politiche a molti. L’immenso surplus commerciale
tedesco maturato negli ultimi anni ne è la più palese dimostrazione.
Così, molti Paesi vedono minare impotenti i propri sistemi finanziari
bancari assicurativi, spezzare le filiere produttive, le produzioni
agricole, la dislocazione dei propri siti produttivi, determinando in
questo modo l’aumento dalla dipendenza estera settoriale sia nei
confronti di altri Stati che di gruppi di multinazionali, parallelamente
scatenando conflitti sociali di difficile gestione.
Quando nel 2015 Paolo Savona lanciò il sasso nello stagno rivolgendo
pubblicamente l’invito a una classe politica consapevole di predisporre
un serio e credibile Piano B per un’uscita ordinata dell’Italia dalla
moneta unica, si attirò non poche critiche.
La sostenibilità dell’euro è stata affidata dalle istituzioni europee a
meccanismi automatici per mezzo della sottoscrizione da parte degli
Stati membri di Trattati, regolamenti e direttive, estraniando in questo
modo i governi nazionali da qualsiasi potere decisionale ed escludendo
pertanto di fatto i cittadini dal processo democratico. L’euro si è
trasformato in un vero e proprio metodo di governo sovranazionale.
Alcuni Paesi, ad iniziare dall’Italia, risultano incapaci di formulare
“Piani A” per la permanenza nell’aggregazione monetaria con iniziative
che tengano conto delle proprie esigenze perché troppo deboli e
accondiscendenti verso Bruxelles e Berlino, traendone in cambio
illusorie legittimazioni internazionali in surroga a quelle totalmente
mancanti in patria.
Ma fino a che punto si può essere disponibili a cedere completamente
le sorti economiche del Paese, e pertanto l’identità nazionale,
consegnando a occhi chiusi le chiavi di casa a istituzioni esterne che fino
ad ora hanno dimostrato solamente di non saper gestire nessuna delle
crisi a cui sono state chiamate?
Il monito di Savona pertanto è quanto mai attuale: prepariamoci a un
realistico e credibile Piano B per il ritorno alla sovranità monetaria, che
nella pratica non significa solamente abbandonare l’Euro per tornare
alla nuova Lira, ma la possibilità di riappropriarci della nostra politica
economica non più soggetta ai vincoli dei Trattati, nel caso in cui la
nostra partecipazione alla moneta unica risulti insostenibile. Possibilità
che potrebbe verificarsi verosimilmente più per eventi esterni che
interni al nostro Paese e che senza un Piano B, preventivamente
pianificato nei dettagli, difficilmente potrebbe essere gestita in modo
ottimale e senza sottoporre i cittadini e le imprese italiane ad ulteriori
disagi.
Ma la predisposizione di un effettivo Piano B servirebbe anche come
“arma” contrattuale deterrente nei confronti delle istituzioni europee e
dei governi di Paesi membri abituati da troppo tempo ad incassare
dall’Italia solamente dei sì incondizionati. Insomma come per la
sicurezza nazionale si predispongono piani strategici militari per
contrastare e garantire l’inviolabilità del territorio, è altresì necessario
predisporre un piano per un’uscita ordinata e non scomposta del nostro
Paese dall’Euro. È come quando si progetta una nave: nessuno vuole
che affondi, a iniziare dai passeggeri, ma è doveroso prevedere una
batteria di scialuppe.
P OS T S CR I P T U M
La guerra
contro i sostenitori dell’austerity
che il popolo sovrano italiano,
inferiore per numero e mezzi,
iniziò sin dal giuramento del governo Monti
l’11 novembre 2011
e con fede incrollabile e tenace valore
condusse ininterrotta ed asprissima
per 6 anni e 6 mesi,
è vinta!
La gigantesca battaglia
ingaggiata il 4 marzo scorso
e conclusa il 1 giugno è finita!
Le forze avversarie sono annientate.
I resti di quello che fu
uno dei più potenti eserciti per l’austerity
contro gli inalienabili diritti dei cittadini
risalgono in disordine e senza speranza
le valli che avevano discese
con orgogliosa sicurezza!!
T U T T E L E FI R M E D I
S CENA R I ECONOM I CI .I T
Gli articoli raccolti in questo libro non sono firmati perché frutto di
una miscellanea tra più post del blog Scenari Economici nel periodo
che va dal 2015 a giugno 2018.
*Pubblicazione sotto -- Pseudonimo
Autori permanenti
Giampaolo Atzori
Antonio Maria Rinaldi
Paolo Savona
Luca Mussati
Maurizio Gustinicchi
Fabio Lugano
Mitt Dolcino*
Guido da Landriano*
Ulrich Anders*
Telesforo Boldrini
Francesco Carraro
Sulplicia*
Jean Sebastian Lucidi
Fabio Dragoni
Nino Galloni
Tancredi Vella
GPG Imperatrice*
Marco Rocco
Marco Santero
Autori
Johnny 88*
Guido Salerno Aletta
Roberto Alice
Luciano Barra Caracciolo
Paolo Becchi
Caterina Betti
Ilaria Bifarini
Antonio Bordin
Cristiano Botti
Marcello Bussi
Paolo Cardenà
Ingegner Caustico*
Olindo Cervi
Jacopo Cioni
Dardo*
Donato De Vivo
Pietro Di Sarlo
Francesca Donato
Fabio Dragoni
Economia Facile
Fenrir*
Alessandro Ferro
Valerio Franceschini
Diego Fusaro
Moonyard Gardener*
Davide Gionco
Primo Gonzaga
Alberto Lusiani
Alessandro Mauceri
Raffaele Salomone Megna
Marco Mori
Roberto Nardella
Giuseppe Palma
Luigi Pecchioli
Lino Pezzotta
Sara Piersantelli
Lino Ricchiuti
Costantino Rover
Eriprando Sforza*
Maurizio Sgroi