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Nei primi mesi di vita di Silvia mi dedicai a lei con grande gioia. Trovai l'allattamento inebriante e
costruivo giorno per giorno curve precise della crescita della piccola. Così è stato per cinque delle
sei figlie; ogni parto è stato per me una liberazione felice e nei mesi seguenti era sempre
entusiasmante l'esperienza della loro rapida crescita. Solo per Renata è stato diverso. Quando è nata,
in anticipo, mi sentivo in colpa per avere, quel pomeriggio, prima di sentire le prime doglie, disfatto
il baule dei panni per neonati che volevo cominciare a preparare. Solo dopo mesi ho saputo che il
parto prematuro era causato non dall'esercizio, bensì dalla leggera epatite virale che avevo da una
decina di giorni e che allora si chiamava ancora “ ittero catarrale”. I primi giorni di vita di Renata
furono un vero supplizio. La culla non fu portata via dalla mia stanza. Il suo faccino incredibilmente
piccolo stava vicino al mio letto e ogni tanto passava dal rosso cupo dei neonati al bluastro. Allora
dovevo coprirlo con la mascheretta di ossigeno per farla respirare meglio. Ero sempre in un bagno
di sudore per la debolezza e l'angoscia che morisse da un momento all'altro.
Quando mi assopivo, mi risvegliavo poco dopo di soprassalto nella paura di non averla sorvegliata
per qualche minuto. Di notte un'infermiera mi dava il cambio. I pasti erano un supplizio. Ogni ora si
cercava di introdurre qualche goccia di latte nella bocca o nel naso. Il mio latte, prima abbondante,
se ne andò indietro rapidamente nonostante i supplizi del tiralatte ogni ora. Dopo dieci giorni la
bambina fu fuori pericolo e prese un bell'aspetto roseo. La paura era finita. In sei o sette mesi
raggiunse un peso quasi normale. Un'altra volta ho avuto un forte senso di colpa rispetto a una delle
figlie. E' stato verso Silvia e lei aveva allora circa un anno. Aveva vomitato la sera, due o tre volte
di seguito, cosa che ogni tanto era successa, ma sempre senza conseguenze. Pensavo che si trattasse
di un semplice imbarazzo di stomaco e non ci avevo dato peso. Prima di andare a letto mi assicurai
che dormisse e non notai niente di particolare.
La mattina dopo trovai Silvia in uno stato di prostrazione totale. La alzai e in pochi minuti la portai
alla clinica pediatrica. Ilmedico, prima ancora di fare qualsiasi analisi, sentì, dall'odore di mela che
emanava, che si trattava di un collasso causato da acetone. Era senza conoscenza, pallidissima. Le
fecero immediatamente una ipodermoclisi di soluzione di glucosio e restò per ore ed ore con due
aghi nella pancia. Mi sentivo abietta e colpevole per non aver capito che il vomito schiumoso e
ripetuto della sera prima era stato diverso dal po' di vomito per avere mangiato troppo di altre
occasioni. Inoltre quella sera avevamo avuto amici in casa e mi venne il dubbio di non aver prestato
l'attenziond necessaria allo stato di Silvia perché distratta dalla compagnia. Seguivo con ansia
infinita le facce dei medici che controllavano continuamente la bambina, e quando dopo circa
dodici ore lei finalmente aprì gli occhi, voltò la testa sul cuscino in cerca di me e mi regalò l'ombra
di un sorriso, allora sentii ritornare in me una grande felicità non meritata e una profonda
gratitudine verso Silvia. p. 156 – 158 ( 1)
p.131 - :
Racconto di Eugenio........perchè so che egli amava raccontare, l'avrebbe certamente fatto lui stesso,
se non gli fosse capitato di morire. Ho la presunzione di saperne parlare meglio di altri, perché lui
ed io avevamo ed abbiamo conservato fino alla fine una cosa in comune, anche se per tutto il resto
la nostra convivenza, con il nostro continuo cercare e non trovare, è finita male.
Eugenio avrebbe ad esempio sorriso della mistificante agiografia con cui si parla dell'antifascismo
e della resistenza. Con tutto il suo sorridente disprezzo per l'eroismo, con tutto il suo cercare
affannato, infelice ma non del tutto inutile, si era liberato da ogni pomposità e da ogni tendenza al
doppio linguaggio. Aveva lasciato la comoda casa con i comò antichi per la gelida stanza d'affitto;
la fidanzata borghese per l'incontro incerto; la carriera assicurata per l'avventura dello spirito; si
diceva antifascista, e lo era; diceva rivoluzione e cospirava; rideva in faccia alla morte e morì da
eroe. La sua storia merita di essere scritta soprattutto per ricordare che la qualità più commovente
dell'eroe resta sempre la sua innocenza.
Ho conosciuto Eugenio Colorni nell'autunno del 1932 a Berlino, quando studiavo Hegel nella
Staatsbibliothek. Si era messo a sedere vicino a me per due o tre volte nel grande emiciclo, e io
avevo osservato che studiava Leibniz su enormi volumi antichi, prendendo appunti minuti e ordinati.
Dopo qualche giorno egli mi fece qualche domandina scherzosa sui miei studi hegeliani, e
interrompemmo le nostre letture per fare quattro passi insieme nel gtrande salone d'ingresso della
biblioteca. Nel suo modo diretto espresse subito tre o quattro giudizi che si era formato su di me,
osservandomi da vicino; non ne ricordo nessuno, ma qualcuno di essi probabilmente mi piacque o
mi colpiì. Si rise insieme e così ebbe inizio l'amicizia.
Era allora lettore d'italiano presso il professor Erich Auerbach a Marburgo e veniva qualche volta a
Berlino per completare i suoi studi leibniziani iniziati sotto la guida di Piero Martinetti a Milano.
Dopo l'incontro alla Staatsbibliothek continuammo a vederci ogni tanto, anche se non così spesso
quanto avrebbe voluto lui, e ci scrivemmo qualche volta tra Berlino e Marburgo. Ricordo una sua
lettera particolarmente bella che mi scrisse dopo la morte di mio padre nel marzo del 1933. Mio
padre aveva visto Eugenio una volta a casa nostra nella Hohenzollernstrasse, gli era piaciuto perché
era più maturo degli altri nostri amici, e dopo che era uscito aveva scherzosamente detto qualcosa
come “ questo è un pretendente serio “, il che io avevo negato ridendo perché la cosa allora non mi
interessava minimamente. Avevo diciannove anni.
Poco prima della morte di mio padre l'amicizia con Eugenio fece un passo avanti. Eravamo nella
primavera avanzata del 1933, dopo l'avvento del nazismo, ed io ero allora attiva in un gruppo
universitario misto di socialisti e comunisti che cercava di fare qualcosa, in opposizione alla
consegna della direzione della SPD di tenere i legami senza esporsi in alcun modo. Avevo capito
che in Colorni si poteva avere piena fiducia egli avevo parlato della nostra attività che per ore
consisteva soprattutto nel cercare altri che la pensassero come noi. Perciò il nostro problema più
impellente era di fare uscire un giornaletto illegale in cui esporre la nostra indignazione sul forzato
silenzio cui ci voleva legare la direzione della Gioventù socialista in obbedienza alle direttive del
partito socialdemocratico. Trovammo da Colorni non solo piena approvazione, ma anche utili
insegnamenti fondati sull'esperienza che egli già aveva dell'azione illegale dell'antifascismo italiano.
Pochi giorni dopo esserci aperti a lui, mio fratello, io e unn altro compagno preparammo nella sua
stanza in un piccolo albergo nella Fasanenstrasse a Charlottenburg, su un ciclostile fornito da lui, il
primo ed unico numero di un giornaletto illegale, tutto scritto da noi e rivisto da lui, che si chiamava
“ Der Jugendgenosse “. Poco dopo, ripartendo per Marburgo, Colorni mi disse che potevo sempre
contare su di lui in caso di bisogno o di pericolo.
Silvia
Clara
Color
ni Heimpel oggi
Più tardi, a Parigi, frequentando l'emigrazione italiana incontrai di nuovo Eugenio, che ogni tanto
veniva per qualche giorno a Parigi per i suoi studi filosofici e ne approfittava per mantenere i
contatti col centro estero del Partito socialista italiano.
Eugenio era arrivato all'antifascismo militante già nell'università. Fra i professori che non avevano
accettato di fare il giuramento fascista c'erano Borgese, la Mazzucchetti ed altri, che erano suoi
diretti insegnanti. Egli era fiero del loro esempio e cercava gli amici tra chi pensava come loro.
Anche se allora non era ancora nella po0litica attiva, teneva relazioni con molte persone che lo
erano già e testimoniò le sue convinzioni nel non scegliere la carriera universitaria perché essa
richiedeva il giuramento di fedeltà al regime. Ora insegnava a Trieste nella scuola magistrale
femminile Giosué Carducci, perché per l'insegnamento nelle scuole medie non occorreva fare il
giuramento; e stava scrivendo un lungo lavoro sulla filosofia di Leibniz. Aveva fatto conoscenza
con i giovani antifascisti tra i professori e i liberi professionisti di Trieste, e con loro trascorreva
qualche ora nei caffè......A loro insaputa, Eugenio teneva ormai legami con il partito socialista
all'interno e all'estero. Quando gli scrissi, nella primavera del 1935, mi sentivo in crisi in tutti i
sensi..(allude alle sue delusioni sentimentali, alla difficoltà di vivere sotto il nazismo, alla solitudine
della sua vita a Parigi, dove era fuggita, con il fratello Albert Otto Hirschmann, aiutata dallo stesso
Colorni, etc, ndr).....Di questo insieme d'incertezze avevo scritto in una lettera ad Eugenio, ed egli
mi aveva risposto invitandomi a venire a Trieste. …....In un certo senso ero venuta da lui come si va
da un medico al quale si vuota tutto il sacco delle proprie malattie nella speranza che egli possa
trovare il rimedio giusto.
Eugenio era entusiasta all'idea di curarmi. Che mi innamorassi del mio medico era nella natura delle
cose. E che lui fosse innamorato da tempo di me, anche se in modo latente, io in fondo lo sapevo,
anche se non se n'era mai parlato. Ora la vita in comune facilitava tutto, e diventammo presto
amanti......
Quando cominciai a parlare della mia esperienza politica in Germania e in Francia, lo feci in
maniera completa.......Dovevo ormai accettare l'interpretazione che Eugenio mi aveva dato già da
tempo del nazismo come di un regime che, lungi dal cadere dopo sei mesi per le famose “ difficoltà
economiche”, si stava installando in Germania sempre più solidamente......Eugenio fece subito un
grosso attacco al mio modo marxista di vedere le cose. Le conversazioni con lui furno per me la
liberazione da quel mondo culturale di mezza tacca che era il socialismo “ di base “ e il
materialismo dialettico, con il quale avevo fino ad allora riempito le mie esigenze di cultura e di
azione politica......Durante queste discussioni continuavo a fare l'avvocato dei sofismi marxisti, ma
ero ogni volta felice della disfatta che subivo per opera di una logica superiore più libera.
Comunque, nonostante questa mia disponibilità, l' “ illuminazione “ fu violenta e definitiva.
Mi innamorai del suo modo allegro e irriverente di attaccare tutti i tabù e di portare nella politica
tutta la libertà della sua cultura. Con ciò l'impegno politico non diminuiva, anzi si irrobustiva,
perdendo in sicurezza dogmatica, ma guadagnando immensamente in vitalità e possibile fantasia.
Soprattutto era restituito alla volontà umana molto dello spazio occupato nel mio spirito da
qurll'inesorabile “corso della storia “ che mi aveva sempre oppressa più che incoraggiata, perché in
fondo, essendo povera di fede, non ero mai riuscita a crederci seriamente. Dall'innamorarmi delle
sue idee all'innamorarmi di lui stesso il passo era stato brevissimo, quasi necessario. Non potevo più
immaginare di vivere lontana da questa fonte di idee sempre fresche, originali e, quel che valeva di
più, sempre in movimento. Dopo qualche tempo, mi abituai anch'io a vivere e a muovermi con
naturalezza in questo spazio libero, il cui accesso dovevo a Eugenio. In questo campo il nostro
dialogo ha continuato vivacemente durante tutti gli anni della nostra difficile convivenza e anche
dopo la nostra separazione.
I puritani dell'amore
…...Nell'amore Eugenio allora non aveva scoperto la stessa libertà che aveva nei suoi giudizi morali
e politici. Gli era rimasto un fondo di puritanesimo tenace per cui l'unione fisica significava per lui
una specie di sigillo al nostro patto d'unione intellettuale e morale, ed era come tale importante, ma
in se stessa insignificante o piuttosto non nominabile. Al posto dell'amore vi era invece, da parte sua,
una grande tenerezza che doveva forse nell'inconscio riempire lo spazio, lasciato vuoto e muto, cd
cdwdell'amore vero e proprio. Io ero passata attraverso due esperienze piuttosto caste, nelle quali
già vi era stato quell'elemento di tabù e di mutismo. Si faceva l'amore perché per ragioni più forti di
noi si doveva passare di lì – e ciò si accettava come cosa naturale – ma senza far niente più dei
semplici gesti necessari per il compimento. L'amore vero risiedeva negli sguardi, nei baci, in
carezze assai caste, e soprattutto nelle parole, nella contentezza di vivere insieme. Anche nel mio
incontro con Eugenio non mi aspettavo altro, e restavo completamente passiva.
Avevo da poco letto “ L'amante di Lady Chatterley “ di Lawrence e la libertà e il piacere con cui
egli parlava dell'amore fisico mi avevano commosso e fatto intravvedere un modo molto diverso di
fare l'amore. Ma nonostante la mia caccia a tutti i possibili tabù in altri campi non mi venne
nemmeno lontanamente in mente che potessi anch'io essere attiva o comunque incoraggiare o
sollecitare in qualche maniera un modo di fare l'amore più soddisfacente. Anzi, ero profondamente
legata al mio ruolo passivo e quasi scontroso, che nessuno mi aveva insegnato, e che perciò
prendevo per dato immutabile. Ciò rimase per lunghi anni così, anche se col tempo cresceva in me
la vaga speranza che forse un giorno questa scontrosità sarebbe stata infranta da qualcuno.
Anche Eugenio aveva letto Lawrence, e la cosa strana era che tutti e due approvavamo il libro senza
tirarne la minima conseguenza per noi. Eugenio me ne parlò una volta sola, proprio al principio
della nostra unione. Non ricordo cosa ne disse di preciso, ma ne parlò bene. Poi aggiunse che la
ragazza con la quale era stato fidanzato gli aveva letto, ridacchiando, un passaggio molto esplicito.
Me lo riferì con irritazione contro di lei, perché aveva trovato impudico quel suo mostrargli quel
punto, quel ridacchiare, e aggiunse qualcosa come : che fortuna che l'ho lasciata e ho trovato te. Io
non capivo bene cosa vi fosse di brutto nel riso della ragazza, dal momento che trovavamo giusto
questo modo libero di parlare dell'amore fisico. Ma non ebbi il coraggio di chiederglielo e mi
convinsi più che mai che era ridicolo o peggio, e comunque escluso, che la donna esprimesse voglie,
iniziative o preferenze qualsiasi.
La convivenza difficile
Abbiamo cominciato a litigare molto presto. Ma al principio pensavamo che questo non significasse
niente. Essendo il nostro amore divenuto quasi subito un complicato e concentrato gioco di parole
affettuose e sensibilità reciproche, Eugenio, dopo poco che stavamo insieme, si accorgeva dei più
lievi cambiamenti nel mio umore. Un nonnulla, una non completa o non immediata corrispondenza
ad un suo moto sentimentale portava a lunghe discussioni che finivano prima in irritazioni poi in
nuove tenerezze. Parimenti il l'osservavo e rincaravo il gioco. Ne risultò una sensibilizzazione
psicologica reciproca esagerata, della quale soffrivamo tutti e due........devo dire che mi sentivo
sovente agitata da una irrequietezza di fondo che veniva e se ne andava a ondate. Non sempre mi
piaceva che Eugenio se ne accorgesse, ma lui invece se ne rendeva conto immancabilmente, spesso
in anticipo sulle mie stesse sensazioni. Allora mi sembrava che, se non se ne fosse già accorto lui,
l'ondata sarebbe forse rifluita senza arrivare alla soglia della coscienza, come mi capitava spesso
quando ero sola, e gli rimproveravo di averla addirittura provocata lui, con quella sua sensibilità che
precorreva gli eventi. …...Io mi sentivo scoperta e intrappolata. Effettivamente mi aveva osservata
con acutezza e le sue descrizioni erano precise. Ma negavo con violenza che a quei lievi segni – uno
sguardo impaziente, un movimento brusco – dovesse per forza seguire l'ondata pesante e distruttrice
del malumore. Sostenevo che quei segni non erano premonitori, cioè ineluttabili, che io ero libera di
annullarli, dando loro un altro corso. Questo tipo di litigio era fisso ed estenuante, perché, una volta
entratici, si apriva un circolo vizioso. Io negavo, sapendo di proteggere così un mio meccanismo
psichico di cui non conoscevo bene il ritmo, ma di cui sicuramente, per la salute stessa della mia
anima, dovevo affermare che sapevo – almeno qualche volta – dirigerlo, attenuarlo, controllarlo.
Eugenio si impuntava e mi accusava di mancanza di onestà......