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Due intelligenze della migliore cultura italiana, Andrea Camilleri e Tullio De

Mauro, si scambiano opinioni sul rapporto lingua-dialetto, nonché sulla


trasformazione della lingua italiana. La loro non è una dotta conversazione
infarcita di astruse teorie e nemmeno di citazioni fine a se stesse. Tra memoria
individuale e collettiva, tra sociologia e storia, avvalendosi anche di episodi e
di aneddoti che situano il dialogo nella concretezza, essi raccontano in modo
accattivante. Non perdono mai di vista quanto Pirandello aveva detto,
parlando di Verga: ci sono scrittori di parole e scrittori di cose. Nel corso
della conversazione che dunque avvince per l’immediatezza e freschezza
comunicativa, Camilleri afferma:
“Io mi ritengo uno scrittore di cose, più le parole assomigliano alle cose, più si
rafforzano le cose”.
Gli argomenti vanno dai loro processi di formazione ai generi letterari, dal
piacere del leggere e dello scrivere alle strategie di scrittura e di lettura. Oltre
all’epilogo, sono sette i capitoletti che, nel volume “La lingua batte dove il
dente duole” (Laterza, Roma-Bari, 2013), racchiudono i loro dialoghi.
Ciascuno è preceduto da un titolo e da un’epigrafe che fanno da mappa
anticipatrice dell’argomento da svolgere. Incisivamente bella la metafora su
cui regge la tramatura linguistica:
“L’albero è la lingua, i dialetti sono la linfa”.
sicché la loro perdita è un danno anche per l’albero. Lo scrittore di Porto
Empedocle, ripercorrendo la sua storia linguistica, scrive:
“Mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente,
come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua
italiana”.
Richiamando Pirandello poi sostiene che il dialetto resta il modo per esprimere
sentimenti, affetti, fatti confidenziali e di intimità familiare, mentre la lingua
esprime il concetto. Dal canto suo, De Mauro, riportando un sorprendente
episodio, pensa
che si possa discutere di argomenti più elaborati, più impegnativi
intellettualmente anche con la terminologia dialettale:
“Il fatto è che il dialetto non è solo la lingua delle emozioni”.
Entrambi però non fanno mistero della ristrettezza di tale codice:
“Mentre la lingua ti dà la possibilità tanto del discorso colloquiale quotidiano quanto
del discorso accademico, il dialetto no, il dialetto ha dei limiti anche di vocabolario”.
Nel nostro Paese esistono tante lingue ed è stato proprio un dialetto a imporsi
come lingua:
“Eravamo italiani senza saperlo”
a partire dalla lingua di Dante, di Petrarca, di Boccaccio. Il resto è storia già
nota: grazie all’uso dalla televisione si è raggiunto un ottimo livello di
padronanza dell’italiano parlato, anche se non mancarono, dalla nascita dello
Stato unitario al fascismo, interventi programmatici che proibivano ai bambini,
sin dal primo giorno della scuola elementare, di esprimersi nella lingua nativa.
L’Italiano letterario e burocratico, accademico ed elitario che era dominante,
scrive De Mauro, si è rinnovato grazie anche a personalità di spicco che si
sono serviti dell’italiano spontaneo che cominciava ad emergere negli anni
Cinquanta. L’esito della necessaria omologazione, osserva Camilleri, è che il
dialetto oggi si perde. Da qui, il percorso assume altre direzioni sulla sonorità
e visività della parola che la rendono fluida e trasparente; nuovi scenari
d’innesto del dialetto, vera e propria riserva d’autenticità che poggiava sulla
cultura dei campi e dei mestieri, si ipotizzano, infine, nell’epilogo di questo
libro che induce a riflettere.

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