Sei sulla pagina 1di 4

Partii per lo Zaire, che allora si chiamava Congo Belga, il 27 Luglio

1959. (…)
Io sarei dovuto andare in Sud Africa, nella diocesi di Durban, e già il
vescovo mons. Hurly aveva mandato il richiamo. Un mese prima della
chiusura del corso, quando già tutti gli altri erano pronti per partire, ricevo
il veto del governo di Pretoria. Seguì subito una lettera di mons. Hurly per
spiegare che ultimamente le relazioni tra chiesa e stato erano peggiorate,
e che perciò per il momento non c’era proprio nulla da fare. È risaputo da
tutti, infatti, che quel governo non è benevolo verso i missionari, a causa
dell’apartheid, il regime sociale differenziato secondo il colore della
pelle, che esso persegue e che la Chiesa ha condannato. Ci fu allora chi
mi esortò di non farmi illusioni, perché presto o tardi avrei dovuto
riprendere la mia attività a Palermo... «Bisogna che noi andiamo in Africa,
d’accordo, è un’esigenza dello spirito nostro di Servi dei Poveri, perché
in Africa ci sono più poveri che in Italia; però la buona volontà non basta...
Bisogna che aspettiamo tempi meno difficili».
Sperai contro ogni speranza, misi insieme quel poco di entusiasmo e di
coraggio che mi restavano, pregai soprattutto, e ricominciai daccapo. Era
ovvio che bisognava cambiar rotta e puntare altrove. Non mi rivolsi ai
vecchi amici, i missionari della Consolata, ammesso che essi mi
avrebbero accettato per il Kenia: le pratiche con il governo sarebbero state
molto lunghe ed io invece avevo bisogno di far molto presto. Pensai di
rivolgermi ai missionari d’Africa, chiamati Padri Bianchi, del card.
Lavigerie. P. Gentile, professore di missiologia, era uno di loro e mi
avrebbe aiutato. Egli non se lo fece dire due volte: scrivemmo insieme a
mons. Mathysen, vicario apostolico del Lago Alberto, oggi diocesi di
Bunia, vescovo anche lui della stessa società dei Padri Bianchi. La
risposta non tardò molto e fu positiva. Ottenni il visto prima ancora che il
C.E.M.P. chiudesse i battenti. Quando a Padova, nella basilica del Santo,
zeppa di popolo, si tenne la solenne liturgia della consegna del Crocifisso,
io ero compreso nel gruppo dei partenti. Nel momento in cui Lo ricevevo
dalle mani del card. Urbani, patriarca di Venezia, sentii mons.
Strazzacappa annunciare solennemente: «P. Sanfilippo Prospero, della
Congregazione dei Servi dei Poveri, partente per il Vicariato del Lago
Alberto, nel Congo Belga».
Qualche giorno dopo, i componenti il C.E.M.P. andammo a Roma per la
speciale udienza del Santo Padre Giovanni XXIII. Egli ci parlò
singolarmente, ci raccomandò di amare gl’indigeni e di rispettarne
l’autenticità, e ci augurò di propagare il Regno di Dio soprattutto con la
testimonianza del buon esempio.
A Roma, non trascurai di visitare la Casa generalizia dei PP. Bianchi, dato
che proprio essi stavano evangelizzando tutto il vicariato e lo stesso
vescovo era loro confratello. Vi trovai una cordialità eccezionale, e debbo
a loro se mi fu possibile di trascorrere un mese a Namur, in Belgio, in
compagnia di altri confratelli per esercitarmi nella lingua francese.(…)
Ritornato da Namur, restai in Sicilia soltanto alcuni giorni, appena il
tempo per eleggere superiore generale il p. Francesco Spoto.
Ricordo che il giorno della mia partenza ci fu aria di gran festa. Era la
prima volta in tanti anni che qualcuno, finalmente, partiva per l’Africa,
perciò un certo interesse lo si leggeva negli occhi di tutti. Il saluto ufficiale
mi fu rivolto in chiesa, presenti anche la Madre generale con un folto
gruppo di suore e moltissimi amici. Mi si gonfiarono gli occhi quando li
vidi tutti in processione venirmi a baciare i piedi, mentre i seminaristi
cantavano l’inno «Speciosi pedes». Mi baciarono i piedi anche i miei
familiari. Abbracciai mio padre con non poca commozione. Egli fu più
forte di me: «Vai tranquillo - mi disse - segui la tua missione e che Dio ti
benedica».
Su un piroscafo della Tirrenia, salpai dal porto di Palermo per Roma. Era
il 27 luglio del 1959. Fu il giorno dopo che m’imbarcai all’aeroporto di
Ciampino su un aereo della «Sabena» proveniente al Belgio. Un ultimo
sventolio di fazzoletti per gli amici e confratelli che facevano altrettanto
dal terrazzo dell’aeroporto, ed entrai titubante nell’aereo. Una hostess
molto elegante e gentile mi fece segno di seguirla. Poi si fermò, mi indicò
il posto e mi disse. «Voici votre place, monsieur, soyez le bienvenu».
L’aereo volò quasi tutta la notte, se si eccettua uno scalo tecnico a Il Cairo,
nell’Egitto. Il sole era già alto quando si arrivò a Stanleyville, oggi
Kisangani, nell’Alto Zaire. Ci restai una buona mezza giornata prima di
riprendere un altro aereo per Bunia, dove ero diretto. (…)
Si partì per Bunia con un Fokker locale. (…)
Mi attendeva all’aeroporto un missionario anziano, barbetta e capelli
bianchi. Chi poteva essere? Il vescovo no, mi dissi, perché era vestito
troppo alla semplice. Egli mi condusse in machina alla missione. (…)
Arrivati alla missione, furono in molti a venirci incontro. C’era un
missionario svizzero, p. Berre, che parlava l’italiano. Familiarizzai subito
con lui, e per prima cosa gli domandai chi fosse quell’anziano che era
venuto a rilevarmi all’aeroporto. «Mathysen in persona, mi rispose, il
primo vescovo di questo vicariato».
La sera, dopo cena, ci fu la presentazione ufficiale. Tutti una trentina di
missionari che operavano a Bunia città ed in altre missioni vicine. Mons.
Mathysen esordi dicendo che io ero il primo missionario italiano venuto
in quel vicariato. Disse pure che ero designato per il seminario indigeno
di Fataki come professore di latino. Io fui invitato a parlare e non potei
esimermene: dissi che ero contentissimo di trovarmi finalmente in quel
Vicariato, e parlai di tante altre cose, anche se per questo mi fu necessario
mischiare con l’italiano quel poco di francese che cominciavo a
balbettare. Avevo portato con me dall’Italia un po’ di «marsala», e tutti
ne ebbero un bicchierino. Poi fu la volta dei sigari, quelli speciali delle
grandi occasioni. Li distribuì il vescovo. Incominciò con me, e visto che
io mi schermivo, disse celiando: Qui fumare è un dovere, specie in tale
circostanze». Ridemmo tutti.
Presi il sigaro, qualcuno si affrettò ad accendermelo, e fumai anch’io,
soddisfatto, insieme con gli altri.

Potrebbero piacerti anche