Sei sulla pagina 1di 56

Antichi ordinamenti repubblicani

Passaggio monarchia  Repubblica

520 – 450 a.C: crisi istituzionale, arresto sviluppo politico ed economico


520: sconfitta Etruschi ad Aricia: abbandono dell’Etruria meridionale da parte degli Etruschi e
conseguente stravolgimento del potere della dinastia dei Tarquini a Roma.
Tarquini: progressiva democratizzazione delle istituzioni attira l’ostilità dei patrizi, che costringono
l’ultimo Tarquinio, Tarquinio il Superbo, e rinunciare ai suoi poteri.
Reazione delle città dell’Etruria meridionale guidata da Porsenna, con l’obiettivo di riportare i
Tarquini al trono: dopo un lungo assedio i romani accettano le dure condizioni imposte da
Porsenna, che non prevedevano tra l’altro il ritorno dei Tarquini quanto una limitazione
dell’autonomia politica di Roma, come il divieto di fabbricare armi di ferro.

Abolizione della monarchia  Vittoria dell’aristocrazia, si riflette anche nell’assetto istituzionale,


sia statale che religioso.
Patrizi: cariche pubbliche e dignità religiose;
Plebei: partecipare ai Comizi Curiati e ottenere comandi militari fino al grado di tribunus militium.
Lasciti della monarchia: la figura del monarca viene simbolicamente assorbita in quella del rex
sacrorum, vertice della gerarchia sacerdotale ma priva di poteri effettivi sugli affari religiosi, la cui
direzione passa al Pontifex Maximus.

Capo della repubblica: due consoles, con poteri uguali a quelli dei re.
Eletti dalle centurie degli armati, i Comizi Centuriati e investiti, subito dopo, dai Comizi Curiati, del
comando militare (imperium).
Prerogative: comando supremo dell’esercito, esercizio dei poteri giurisdizionali e finanziari, in
questi ultimi due esercizi affiancati dai quaestores, già giudici istruttori e ora incaricati di
amministrare l’erario. Per sfatare il pericolo di una tirannide, il potere supremo viene ripartito in
un anno di comando e in un magistero collegiale ricoperto da due consoli.
Dictator: magistero straordinario, nominato da uno dei due consoli dietro invito del Senato, in
caso di pericolo esterno dello Stato. Non poteva restare in carica per più di sei mesi e le sue
sentenze non ammettevano l’appello al popolo (provocatio) da parte del condannato.
Senato: consiglio dei patres, una volta consiglio del re, eletto dai consoli tra i primati del patriziato
romano. Sedevano regolarmente coloro che avevano ricoperto il ruolo del consolato o della
dittatura.

L’unica fonte che documenta l’attività delle prime istituzioni repubblicane sono i Fasti.

509-508 a.C: secondo i Fasti, primo collegio consolare.


Potere dei consoli

Potestas: capacità del magistrato di compiere funzioni specifiche in campi ben delimitati d’azione;
Imperium: somma dei poteri, attuale o potenziale, del comandante in guerra, oppure la somma
delle potestà delegate dal popolo al magistrato, come rappresentante dello Stato.
Imperio militare: conferito soltanto ai due consoli e, dal 445 a.C., ai tribuni militari con potestà
consolare. Comprende oltre il comando supremo dell’esercito, la giurisdizione civile e criminale in
guerra e la facoltà di arrestare e giudicare il cittadino privato che abbia attentato all’ordine dello
Stato.
Supremo comando militare: muovere guerra ad un popolo con cui non esistono previe trattative,
segnare a suo arbitrio la pace, sebbene poi il popolo dovesse rettificarla; far leva agli armati,
tenere la lista dei cittadini in arme come base statistica e finanziaria per determinare gli obblighi e
i diritti dei singoli negli ordini militari; imporre il tributo straordinario di guerra; disporre
liberamente, purché nel pubblico interesse, del bottino fatto sui nemici; convocare il popolo o il
senato per provocare le deliberazioni o i consigli di questo, e di emanare ordini obbligatori per
tutti i cittadini.

Potere assoluto: se il Console non prende l’iniziativa, né il Senato né il popolo possono concorrere
con lui nell’opera di governo, poiché è lui a convocarli.

Annualità e collegialità costringono il potere assoluto del console nel limite temporale di un anno
e nello spazio di manovra concessogli dal collega che in ogni momento può imporre il veto sulle
decisioni prese. Il limite temporale costringe il Console anche ad avvalersi dell’ausilio del Senato
per garantire un’attività continuata e metodica del governo dal momento in cui si insidia fino al
momento in cui viene destituito della carica.

Altre limitazioni: la subordinazione delle sentenze capitali emesse dai consoli all’interno del
pomerio e alla ratifica dell’assemblea popolare raccolta nei Comizi Curiati, mediante il diritto
conferito al condannato di appellarsi al popolo (provocatio ad populum)

Duoviri perduellionis e quaestores parricidi: incaricati della giurisdizione criminale all’interno della
città; i primi incaricati di giudicare i delitti contro la sicurezza dello Stato e delle istituzioni, i
secondi incaricati di “inquisire”, ovvero di condurre l’istruttoria nei processi per cause capitali e
che divennero poi amministratori del denaro erogato per la guerra e ad essi affidato, mansione
che deriva dalla loro precedente esperienza nel riscuotere il prodotto delle multe e delle confische
ad essi incaricate. 421: i questori da due diventano quattro, due urbani e due destinati a seguire il
console in guerra.
Comizi e sacerdozi:

Senato: Consiglio del re  consiglio dei consoli.


Comizi Curiati: spogliati sempre più della loro importanza e sempre meno frequentati dalla Plebe,
per la consapevolezza dell’insignificanza decisionale nei confronti del potere decisionale dei
Patrizi.
Comizi Centuriati: acquisiscono sempre più importanza, assemblea del popolo in armi e unica
occasione per i Plebei di avere una parte in causa nelle decisioni importanti per il futuro dello
Stato; eleggono i Consoli.

Collegio dei Pontefici: rappresentato dal Pontifex Maximus, e coadiuvato da Flamini e Vestali e
Collegio degli Auguri, dei Feciali e dei Duoviri. Accessibile solo ai Patrizi, raccoglievano in sé tutto
il sapere sacro e giuridico, distingueva il fas dal nefas, la iuria dall’iniuria.
Questo ha fatto sì, che fino alla redazione delle Dodici Tavole, i loro responsi sostituissero la legge
scritta, per cui erano i genuini depositari dell’interpretazione della legge. Inoltre da loro dipendeva
lo svolgimento dell’amministrazione della giustizia, in quanto distinguevano i fas, i giorni in cui la
giustizia poteva essere amministrata, dai nefas, i giorni in cui l’amministrazione della giustizia era
proibita.

Auguri: con i loro responsi favorevoli o sfavorevoli, incidevano pesantemente su tutta la vita
pubblica della Stato.

Collegio dei Feciali: custodi del diritto internazionale, erano gli unici a conoscere le formule con le
quali si poteva dichiarare guerra ad uno Stato oppure stringervi un trattato di pace.

Parificazione politica della plebe con il patriziato

Plebe: ammetteva al suo interno cittadini ricchi e poveri, grandi e piccoli proprietari di terre.
Specialmente ai plebei ricchi premeva la parificazione giuridica e politica con i patrizi, pretesa che
avanzavano in virtù delle loro condizioni abbienti. In questa lotta si trascinarono dietro
nullatenenti e piccoli proprietari indebitati, che altrimenti nulla avrebbero potuto fare da soli per
riscattare in alcun modo la propria condizione. Le prime conquiste della plebe furono pertanto più
di carattere politico che economico, e non ebbero mai la presunzione di sostituirsi ai superiori
interessi della patria comune, la cui conservazione stava a cuore a loro, quanto ai rivali patrizi.

Prime insurrezioni: le secessione, sul Monte Sacro o sull’Aventino; la plebe, ritiratosi fuori dal
pomerio ed organizzatesi militarmente sotto i suoi capi (tribuni militium) rimaneva accampata fino
a che i poteri dello Stato fossero venuti a patti con essa.

Prime conquiste: deliberazioni che riguardavano l’inviolabilità dei tribuni della plebe e ne
definivano la potestas, che i plebei giuravano di rispettare e far rispettare ad ogni costo.
Potestas dei tribuni: ius auxilii (diritto di proteggere i plebei contro l’arbitrio dei magistrati), ius
intercessionis (diritto di veto su qualsiasi iniziativa dei poteri dello stato, nei limiti dell’imperium
domi) e nello ius coercitionis (diritto di agire in sede penale contro chiunque contravvenisse ai
deliberati delle leggi sacre).

A lato dei tribuni, la plebe ottenne il diritto alla nomina di poter eleggere dei magistrati ausiliari, gli
edili plebei, con l’incarico di amministrare l’archivio e il tesoro della plebe.

Le conquiste politiche della plebe furono agevolate dalla riforma amministrativa del 470 a.C. che
prevedeva la divisione della repubblica in 16 tribù rustiche e 4 urbane: in questo modo i plebei si
adunarono con maggiore ordine e nel tempo le loro riunioni e le deliberazioni ivi votate
acquisirono una certa legalità sostanziale. In tal modo i magistrati patrizi acconsentirono più
facilmente a trasformare alcune delle deliberazioni votate (plebiscita) in leggi.
I segni degli scontri tra i Plebei e Patrizi per la parificazione dei diritti sono stati conservati dalla
tradizione negli episodi di Coriolano e Cesone Quinzio.

Un così lungo e violento contrasto civile sarebbe risultato fatale all’indipendenza e all’esistenza
stessa della repubblica se le ricche famiglie plebee non avessero avuto a cuore l’interesse
superiore alla conservazione della repubblica almeno quanto quelle patrizie.

La prima conquista plebea, i decemviri e i soprusi di Appio Claudio

451 a.C: viene esaudita la richiesta della plebe di una legislazione scritta. A seguito dell’agitazione
promossa dal tribuno C. Terentilio Arsa, fu inviata in Grecia una commissione per esaminare la
Legge di Solone ed altri codici famosi. Al ritorno di questi commissari, fu stabilito di eleggere per
l’anno prossimo (451 a. C.) un Collegio di dieci magistrati, tutti patrizi, col preciso incarico di
codificare le leggi (decemviri scribendis) e di conferire ad essi l’imperio dittatoriale, con la relativa
sospensione per quell’anno dell’elezione dei consoli e dei tribuni della plebe. Al termine del primo
anno di mandato, il Collegio, guidato dal patrizio Appio Claudio, chiese di nominare un secondo
decemvirato nel 450 a.C. per completare l’opera, stavolta con la presenza di cinque plebei. Al
termine di questo secondo decemvirato, furono elaborate due nuove tavole di leggi, che Cicerone
definì a suo tempo “inique” e che riconfermavano la disparità di diritti tra patrizi e plebei,
compreso il divieto di connubio tra l’uno e l’altro ceto. Inoltre Appio Claudio persuase i colleghi a
non deporre la carica e a costituire una specie di tirannide collegiale sotto la sua direzione. Infine
Appio Claudio, invaghitosi di una fanciulla plebea, indusse un suo cliente a dichiarare che era sua
schiava e, celebratosi il processo, aggiudicò la fanciulla a quel cliente. Ma il padre di quella,
Virginio, preferìuccidere la fanciulla, provocando la ribellione della plebe romana che si ritirò
nuovamente sull’Aventino e sul Monte Sacro. Appio Claudio si sarebbe ucciso e nel 449 vennero
restaurate le magistrature ordinarie, compresi i tribuni della plebe.

Nonostante l’emanazione delle XII tavole si limitavano a fissare il diritto processuale e penale, i
plebei ne trassero grandissimo vantaggio perché, essendo quelle norme ormai scritte, limitavano
fortemente l’arbitrio del magistrato.
L’azione politica di Appio Claudio si può riassumere con un tentativo a oltranza di congelare i
rapporti istituzionali tra patrizi e plebei, inserendo cinque plebei in una magistratura decemvirale
stabile sotto il suo controllo e bloccando in questo modo le pretese della plebe al tribunato.

Riprendono le lotte della plebe per la parificazione dei diritti.


445: ius connubi, per rogazione del tribuno C. Canuleio;
444: sostituzione della carica di console con quella di tribuno militare con potestà consolare
(dapprima tre, poi accresciuti fino a sei); passaggio da una repubblica aristocratica a una
repubblica timocratica, in quanto soltanto i plebei appartenenti a famiglie ricche ed elevate
potevano aspirare a una carica che, oltre ad essere gratuita, richiedeva esperienza notevole in vari
campi di competenza e prestigio personale.

Per tutta risposta il patriziato istituìla censura, preclusa ai plebei e anch’essa collegiale: eletta di
cinque in cinque anni, la loro carica durava però soltanto diciotto mesi; i loro incarichi
consistevano nel fare il censimento dei cittadini, la cura dei beni demaniali, l’appalto dei lavori
pubblici, la riscossione dei dazi. In seguito successero ai consoli nel compito di scegliere i senatori,
soprattutto per coloro che avessero ricoperto le magistrature, ed acquistarono poteri illimitati nel
decidere dell’ammissione dei cittadini all’esercizio delle cariche pubbliche, in base alla loro
onorabilità (censura morum), contrassegnando con il loro biasimo quanti fossero venuti meno alle
leggi del decoro morale e del decoro civile.

L’ammissione dei plebei al tribunato consolare portò con sé la loro eleggibilità alla questura e la
loro ammissione al Senato. Nel 366 a.C, per iniziativa dei tribuni della plebe C. Licinio Stolone e L.
Sestio Laterano il consolato fu definitivamente restaurato e reso accessibile anche ai plebei.
Nonostante la contromossa del patriziato di creare una nuova carica, il pretore, per amministrare i
poteri giurisdizionali dentro il pomerio, a breve ogni magistratura fu aperta ai plebei: nel 356 la
plebe ebbe il suo primo dittatore, nel 351 il primo censore e nel 337 i primi pretori. Anche i collegi
dei Pontefici e degli Auguri, politicamente i più importanti, furono schiusi alla plebe nel 300 a.C.

Con la legge approvata dal dittatore Publilio Filone nel 339, la parificazione fu piena, in quanto i
comizi della plebe (Comizi Tributi) acquisirono un’equipollenza giuridica ai Comizi Centuriati e
Curiati. Vero è che le deliberazioni approvate dai Comizi Tributi dovessero essere sottoposte alla
ratifica del senato, ma oramai diventati i Comizi Tributi comizi regolari, iniziarono a prendervi
parte e a votare anche i patrizi. Ciò si verificava già periodicamente dal 367, quando si era stabilito
che tutto il popolo, diviso per tribù, nominasse ogni anno altri due edili, gli edili curuli, con le
medesime attribuzioni degli edili plebei, da scegliersi un anno tra i patrizi e un anno tra i plebei. Le
mansioni degli edili consistevano nella sorveglianza della città e del mercato e nell’allestimento dei
giochi pubblici.

Nel 267, con la rogazione del dittatore Q. Ortensio, i plebisciti acquisirono valore di legge senza la
ratifica del senato, ma solo con la preventiva autorizzazione del senato a presentarli e la
parificazione fu definitivamente completa.

L’ultimo tentativo per arginare la dilagante acquisizione di potere da parte dei Comizi Tributi, e
quindi il potere della plebe povera, che ormai possedeva tutti gli strumenti per contrastare le
decisioni politiche del ricco patriziato, fu quello di delegare i poteri elettivi e legislativi più
importanti ai Comizi Centuriati. Con la riforma dell’esercito che prevedeva la suddivisione dei
cittadini in “classi”, a seconda del censo di ciascuno, le decisioni politiche più rilevanti finirono
nelle mani non più dei cittadini nobili ma di quelli ricchi. Infatti nei Comizi Centuriati si votava per
centurie, ed essendo previsto dalla legge che la prima classe dovesse partecipare con il numero di
centurie più cospicuo dell’esercito (80 centurie), che unito al numero di quelle dei Cavalieri (18
centurie) faceva un totale di 98 centurie su 193, la parte della popolazione più abbiente si
accaparrava in tal modo la maggior parte dei voti.

Il primato di Roma nell’Italia centrale

Il predominio che Roma aveva esercitato su gran parte dei Latini mentre regnavano i Tarquini, fu
scosso profondamente dall’indebolirsi della potenza etrusca nel mezzogiorno e nel Lazio e dalla
crisi di regime che si verificò a Roma in quel periodo.

Con il primo trattato con Cartagine Roma conferma la volontà di portare avanti le mire
espansionistiche di Roma nel Lazio meridionale che erano già state avanzate durante la
monarchia. Tuttavia, gli stati latini, imbaldanziti dalla recente vittoria di Aricia non tardarono a
riaffermare la loro assoluta indipendenza da Roma, costituendo una Lega di carattere politico che
ebbe il suo centro sacrale al tempio di Diana presso Aricia. Di questa Lega fecero parte tutte le
maggiori comunità del Lazio, e superava per popolazione e superficie lo Stato romano. Se la Lega
tuttavia era minacciata dalla pressione esercitata dai Volsci a sud e dagli Equi a est, Roma doveva
vedersela con le pretese espansionistiche di Veio, ultimo grande baluardo della dominazione
etrusca nel Lazio, che mirava ad assicurarsi la riva destra del Tevere.

494: Roma si scontra con le truppe della Lega latina presso il Lago Regillo, ponendo fine alle
pretese dei Tarquini di tornare sul trono e alle istanze di indipendenza e autonomia della Lega
latina. L’anno dopo, nel 493, sotto il secondo consolato di Spuro Cassio, fu stipulato un trattato di
alleanza con la Lega latina al quale, verosimilmente nel 485 (terzo consolato di Cassio) aderìil
popolo degli Ernici, abitanti della regione dell’alto Sacco e stretto da vicino da Equi e Volsci. La
figura del dittatore deriva probabilmente dal comandante delle forze federali, eletto a turno fra le
città del Lazio facenti parte della Lega latina.

Compito precipuo della nuova Lega, quella romana, fu la difesa del territorio latino dalla pericolosa
pressione degli Equi, dei Volsci e dei Sabini (questi ultimi però proseguirono la loro infiltrazione
pacifica nel territorio romana iniziata già in età regia). Nel frattempo Roma era nel caos a causa
della guerra civile che vedeva contrapposti i plebei ai patrizi.
Roma e le città etrusche meridionali

L’ultimo baluardo della potenza etrusca nel Lazio meridionale rimaneva Veio, che mirava fin
dall’VIII secolo ad espanderci lungo l’intera riva destra del Tevere fino alla foce. Fintantoché a
Roma dominavano i Tarquini, non si registrano conflitti memorabili tra Romani ed Etruschi;
sembra infatti che la comune etnia che popolava le due città favorisse una pacifica convivenza fra
le due. Ma non appena i Tarquini furono cacciati, i conflitti per il predominio sul Tevere si
infiammarono. Il vantaggio iniziale toccò a Veio, che forte dell’alleanza con Fidene, varcò il Tevere
e si stabilìsulla riva sinistra del fiume. La controffensiva di Roma si fece sentire tra il 482 e il 474,
proprio negli anni in cui si fece sentire più minacciosa la pressione degli Equi e dei Volsci. Seguìun
lungo armistizio nel quale pare che Roma abbia ottenuto da Veio la rinuncia dell’alleanza con
Fidene. Questa si sollevò contro i Romani nel 438, allora Roma mosse guerra a Fidene e i Fidenati
furono sconfitti dal tribuno militare romano A. Cornelio Cosso, che uccise il re dei Veienti Lars
Tolomnius. Fidene fu poi ripresa nel 435. L’offensiva più risoluta di Roma contro Veio poté
finalmente avere luogo nel 400, una volta sedate le popolazioni bellicose degli Equi e dei Volsci.
Presa d’assedio nel 405, questa fu presa nel decimo anno d’assedio da M. Furio Camillo, che la
rase al suolo: sul suo territorio sorsero quattro nuove tribù: la Stellatina, la Tromentina, la Sabatina
e l’Arniensis. Roma ora, anche grazie a piccole località dell’Etruria meridionale che ne riconobbero
il predominio, frenò definitivamente le mire espansionistiche degli Etruschi nel Lazio e superava
per territorio e popolazione anche la Lega latina.

L’irruzione dei Celti nell’Italia Centrale

V secolo: progressiva decadenza del popolo etrusco (corruzione dei costumi e indebolimento dello
spirito militare all’interno, e il risveglio nazionale dei popoli assoggettati e gli attacchi violenti dei
popoli vicini all’esterno) ed espansione dei Celti nella pianura del Po.
L’invasione dei Celti, se da una parte frenò l’espansione romana nell’Italia centrale, dall’altra ne
favorì l’espansione nel Lazio, in quanto Veio fu lasciata sola nella lotta contro la città rivale in
quanto le altre potenze etrusche erano impegnate a frenare l’avanzata dei Celti.
I Celti sostituirono in breve tempo gli Etruschi nel dominio dell’Italia centrale, e in questo furono
favoriti dal fatto che la dominazione etrusca si accontentò di assoggettare a sé la preesistente
popolazione umbra senza tentare di assimilarla o di coinvolgerla nel governo delle città.

390: all’inizio della primavera, un’orda di 30.000 Galli, in gran parte Senoni e guidata da Brenno,
scese nell’Italia centrale e per un certo periodo devastò Chiusi e le campagne circostanti. In
seguito all’invio di un’ambasceria romana a Chiusi, ci fu un episodio che irritò i Galli e li spinse a
dirigersi energicamente verso a Roma. Allarmato, il governo romano bandìla leva in massa, e
messi in arme circa 40.000 uomini, tentarono di fermare l’orda gallica presso la confluenza
dell’Allia con il Tevere. L’esercito romano fu disperso, gli inermi si rifugiarono nelle vicine borgate
del Lazio, e le forze dell’esercito si concentrarono a difendere l’imprendibile rocca del
Campidoglio, nella quale racchiusero tutto ciò che di più prezioso si potesse radunare in città. I
Galli penetrarono a Roma e in gran parte la distrussero, la rocca capitolina resistette fino a quando
i Galli decisero di togliere l’assedio.
La restaurazione della potenza romana

La rotta presso il fiume Allia non fu gravido di conseguenze tanto per i danni riportati dalla città,
quanto per il prestigio di cui godeva Roma presso le altre città del Lazio ad essa sottomesse;
Della disfatta di Roma approfittarono Ernici e la maggior parte delle città etrusche per rompere
l’alleanza che erano state costrette a stringere con l’urbe. Tuttavia, grazie alla risolutezza di Mario
Furio Camillo, la città seppe riconsolidare i rapporti di dominio nei confronti delle città alleate;
furono costruite intorno alla città mura possenti e l’esercito fu rafforzato con l’inquadramento dei
cittadini nel nuovo ordinamento centuriato. Nel frattempo l’ammissione dei plebei al consolato
restituìa Roma la pace civile.

358-351: vennero combattute guerre con Faleri, con Tarquinia e con Cere; le città insorte furono
sottomesse e dal 351 al 311 non si ebbero più ostilità da parte degli Etruschi. Ottenuta la
sottomissione di Cere, piuttosto che distruggerla o a incorporare i Ceriti nella Repubblica,
preferirono creare per loro un nuovo istituto, quello del municipium.

Anche il tentativo dei Volsci di ribellarsi al dominio di Roma fu soffocato dalle armi; Camillo, di
nuovo dittatore, in una battaglia combattuta presso Lanuvio, riuscìa incorporare gran parte del
territorio nemico in quello della Repubblica, formandone due nuove tribù (la Pomptina e la
Poplilia) e costrinsero le città volsche a rientrare nella Lega. A capo della Lega venne destituita la
figura del dictator latinus e al suo posto vennero istituiti due praetores i quali rimanevano, in
guerra, subordinati ai comandanti romani.

Con l’annessione di Cere, di Tuscolo (avvenuta dopo il 381) e dell’Agro Pontino, il territorio di
Roma contava quasi 3000 chilometri quadrati. Le successive incursione dei Galli nel Lazio, nel 367,
nel 361 e nel 357, furono respinte con successo. In questo modo, per il servigio reso alle genti di
tutta la penisola, dagli Etruschi ai Sanniti, dai Campani ai Greci, la reputazione di Roma quale
baluardo contro i barbari che scendevano dal settentrione, si diffuse anche al di fuori della
penisola italiana.

Nel 354 Roma stringeva un trattato di alleanza con i Sanniti; nel 348 rinnovava quello con
Cartagine, assicurandosi il controllo della costa fino a Terracina, rinunciando per sé e ai propri
alleati a navigare nelle acque del Mediterraneo occidentale.

Roma e gli Oschi

Gli Oschi iniziarono la loro discesa verso il mezzogiorno e le coste del Tirreno già nel VII secolo,
premuti dagli Umbri e dai Sabelli; erano Oschi quei Sanniti che, in un primo tempo, si estendevano
dal bacino del Sangro (Abruzzo Meridionale/Molise) all’alta valle dell’Ofanto (Puglia) ed erano
suddivisi nelle quattro tribù di Carecini, Pentri, Irpini e Caudini. Nel corso del V secolo gli Oschi
scesero verso i piani della Campania, entrando in contatto con la colonizzazione etrusca all’interno
e con quella greco-calcidica sulla costa. La prima grande città della Campania ad essere
conquistata dai Sanniti fu Capua; poco dopo fu la volta di Cuma, i cui abitanti in parte si
rifugiarono a Neapolis, fondata dai Cumani sulle rovine dell’antica Partenope da essi stessi
precedentemente distrutta. Gli Oschi, ovvero le tribù sannitiche che si estendevano dal Volturno
(Campania) al Silaro (Calabria?) riuscirono a sottomettere nel V secolo tutte le città più importanti
della Campania a eccezione di Napoli, e formarono una nuova lega di popoli sotto la presidenza di
Capua e dal nome di questa città si denominarono Kappanoi (Campani).

Contemporaneamente, fin dalla metà del V secolo, ci fu una seconda espansione dei Sanniti.
Staccatosi dagli Irpini, un gruppo di tribù si stanziò tra le sorgenti del Sele e del Brendano,
sovrapponendosi ai preesistenti Enotri: il nuovo popolo ebbe il nome di Lucani (forse “popolo del
lupo”) ed entrò in rapporti ostili con gli Italioti stanziati sul territorio, prima di tutte la città di Turi,
uscita malconcia da un conflitto con Taranto.

A dispetto dell’invasione dei Sanniti, per qualche decennio gli Italioti poterono opporre resistenza
riuniti in una Lega Italiota, che si mantenne vitale per quasi un anno grazie all’aiuto che ricevette
ripetutamente dalla restaurata potenza di Siracusa. Ma quando nel 356 a.C. nella parte più
meridionale occupata dai Lucani si staccò una federazione di tribù, quella dei Bruzi, nemmeno
Siracusa poté più fare niente per soccorrere le città italiote. I Bruzi si riunirono in Lega autonoma,
stabilendo il centro nella città di Cosentia, mentre il territorio da loro occupato venne a chiamarsi
Brutium (l’odierna Calabria). Le forze dei Lucani concentrarono la loro spinta dominatrice a sud-
est, in direzione di Taranto, unendo le loro forze a quelle dei Iapigi. Al che la madre-patria Sparta
inviò in soccorso dei Tarantini il re Archidamo (342 a.C.), figlio di Argesilao, che dopo qualche
successo perìin battaglia presso Manduria. I Lucani si impadronirono allora di Eraclea, sede
federale della Lega Italiota.

Negli stessi anni Alessandro d’Epiro, fratello di Olimpiade, madre di Alessandro Magno e suo
coevo, iniziò un progetto di conquista dell’occidente che lo vide vittorioso nel sud-Italia su Iapigi e
Messapi. Dopodiché si volse contro Lucani e Sanniti, attraversò la Lucania e batté a Pesto gli
eserciti avversari riuniti, conquistando Cosenza, capitale dei Bruzi. Stanchi della dura disciplina
militare imposta dall’epirota, Taranto gli si rivoltò contro: il re tentò di appoggiarsi a Turi e ai
Romani, ma su sconfitto e ucciso presso Pandosia nel 331/330.

Roma, latini e Campani alla metà del IV secolo

I Sanniti, seguendo l’esempio dei confratelli nel meridione, crearono con la gente affine dei
Frentani una Lega, il cui territorio comprendeva la penisola in tutta la sua larghezza, dal Golfo di
Salerno sul Tirreno alla costa adriatica tra la foce del Sangro e del Gargano, per un territorio di
circa 20.000 chilometri quadrati e una popolazione probabilmente maggiore di quella della Lega
romano-latina. Il potere centrale del magistrale annuo di questo Lega, il meddix tuticus, si
presentava tuttavia assai meno efficiente di quello utilizzato da Roma per la sua Lega.
Prima guerra sannitica

I Sidicini di Teano, in conflitto con la Lega Sannitica, ricorsero all’aiuto della Lega Campana. I
Campani, incapaci di far fronte alla forza sannitica, chiesero l’aiuto di Roma (che nel frattempo
aveva accolto nella Lega Fondi e Formia ed era in diretto contatto con la Campania), in cambio
della sua deditio. Gli avvenimenti di questa guerra, raccontati da Tito Livio e confermati in parte
dai Fasti trionfali del 343, sono tuttavia poco chiari e confusi, probabilmente costruiti ad hoc per
spiegare gli avvenimenti degli anni successivi. Questi avvenimenti furono la sollevazione dei Latini
e dei Campani contro Roma, che all’indomani dell’invasione gallica videro declinare velocemente
la loro condizione da alleati a sudditi di Roma. A Roma invece si allearono i Sanniti.
La guerra si sarebbe condotta in tre campagne (dal 340 al 338) che vide i Romani scontrarsi contro
Campani, Latini e Volsci, e i Sanniti farsi da parte nel rispetto degli accordi presi con Roma.
Durante la prima campagna furono vinti i Campani, durante le altre due fu fiaccata la resistenza
dei Latini. Di questa vittoria i Romani usarono con grande moderazione, che valse loro la
devozione dei Latini, che salvo casi isolati non venne più a mancare, e quella dei Campani, di cui lo
si può dire lo stesso che dei Latini se si esclude l’episodio isolato della conquista di Annibale, che
vide profilarsi per Capua la possibilità di diventare città egemone di tutta l’Italia. Tuttavia i
Campani dovettero cedere a Roma il fertile agro Falerno, sulla destra del Volturno, dove venne
fondata la tribù Falerna e venne impiantata la colonia impiantata di Cales; la condizione di cives
sine suffragio era compensata da ampie autonomie che i Romani concessero a questa tribù, tra le
quali quella di battere moneta propria e di conservare i propri magistrati e la propria legislazione
per tutti gli affari interni. D’altra parte i Romani si trovarono avvantaggiati delle risorse
economiche ed agricole del ricco territorio di Capua e dell’apporto della numerosa e pregiata
cavalleria campana.

L’accorgimento politico con il quale i Romani trattarono gli avversari si riflesse anche negli accordi
che questa strinse dopo il conflitto: la Lega Latina di Aricia fu disciolta, ai Latini venne riconosciuto
il diritto di commercio e di connubio con Roma e le singole città furono unite a Roma con trattati
d’alleanza separati e differenti formule giuridiche. Le minori città dei Prischi Latini vennero accolte
nella cittadinanza romana con pieni diritti, quelle maggiori invece e le colonie fondate in seguito
alle vittorie comuni riportate dalla Lega romano-latina godettero invece di trattati d’alleanza. Nei
confronti dei Volsci vennero applicate misure più rigide: maggior parte del loro territorio fu
confiscato e al suo posto venne fondata nel 318 una nuova tribù, la Ufentina, e la popolazione
volsca fu incorporata come cives sine suffragio nella Repubblica, come del resto anche Fondi e
Formia. Intorno al 330 la superficie del territorio romano superava i 6000 km quadrati, e quasi
altrettanto quello degli alleati e delle altre colonie latine, e superava se non in territorio, in
popolazione anche la Lega Sannitica.
Le guerre romano-sannitiche

326: Napoli, dopo un assedio di un anno, cede ai Romani e viene ammessa, con ottime condizioni,
nell’alleanza romana, precludendo così ogni accesso alla costa da parte dei Sanniti.
Per quarant’anni i Romani impegnarono le proprie forze in una guerra che vedeva avvantaggiati gli
avversari dalla conformazione insidiosa del suolo, che obbligò i Romani ad adottare una nuova
tecnica per la battaglia in montagna, la tattica manipolare.

321: un esercito si infiltra incautamente nel Sannio, e circondato dai Sanniti è costretto a
capitolare presso le gole di Caudio. I Romani firmarono in quell’occasione una pace assai dura.

316: si riaccende il conflitto, in questa occasione Roma può godere di varie alleanze stipulate o
consolidate con i popoli dell’Apulia. Pertanto i Romani, avvantaggiati, riconquistarono le colonie
perdute nella guerra precedente e fondarono la colonia di Luceria in Apulia. Anche quando ai
Sanniti si unirono diverse città etrusche, varie tribù sabelliche dell’Italia centrale, gli Equi e gli
Ernici, non venne meno la superiorità delle armi romane. Sopraffatti gli etruschi da Q. Fabio
Rulliano, dovettero stipulare una tregua di 40 anni (308); nel 304 invece fu stipulata la pace con
Sannio, che lasciava intatto il territorio della Lega Sannitica anche se circondato da colonie di
Roma. Anche le popolazioni ribelli dell’Italia centrale vennero costrette a firmare accordi separati
con Roma.

Ultima guerra sannitica

298-290: i Sanniti formano un’imponente coalizione con Galli ed Etruschi e congiungono le proprie
forze a quelle degli alleati. Si combatte a Sentino la battaglia delle nazioni della penisola italica; in
questa sede si venne a delineare l’egemonia di Roma su tutte le altre genti italiche e la
configurazione di una futura identità nazionale sotto la guida della città capitolina. La guerra si
protrasse per alcuni anni, finché Roma non fondò una seconda colonia in Apulia, Venusia e i
Sanniti si decisero a chiedere la pace, che ottennero a condizione di entrare nell’alleanza romana,
mantenendo il territorio intatto ma privato della speranza di potersi ricongiungere con gli alleati di
ieri per rinnovare la guerra. Vinte le resistenze di Sabini e Pretuzi, Roma ne incorporò il territorio
nello Stato, troncando in questo modo ogni via di collegamento tra il Sannio e le regioni dell’Italia
centrale a nord e a est del Lazio. In una parte del territorio conquistato vennero fondate le colonie
di Adria e di Castronuovo.

Le popolazioni che si allearono ai Sanniti furono duramente punite e ridotte all’obbedienza:


- i Galli Senoni furono multati di una parte del loro territorio, dal quale venne dedotta la colonia di
Sena Gallica (Sinigaglia):
- delle città umbre che avevano aderito alla coalizione alcune furono introdotte nell’alleanza, altre
incorporate nel territorio romano;
- gli Etruschi ebbero pace a buone condizioni, avendo però dovuto quasi tutte le città dell’Etruria
centrale stipulare trattati di alleanza con Roma.
Un tentativo dei Galli Senoni di insorgere contro le condizioni umilianti imposte da Roma si
concluse con una vittoria da parte dei barbari: nel 285 in occasione della battaglia di Arezzo lasciò
la vita il console Q. Cecilio Metello con sette tribuni militari e 13mila soldati. Rapidamente Lucani e
Bruzi ripresero le armi contro Roma, ma il nuovo comandante Manio Curio Dentato, console nel
284, seppe sedare rapidamente la rivolta, piombando tra i Senoni e facendone strage. Il loro
territorio fu incorporato nella sua totalità in quello della Repubblica. L’anno dopo, i Galli Boi, nel
tentativo di rivendicare i loro connazionali, furono sconfitti dal console P. Cornelio Dolabella e
costretti alla pace. Il territorio della Repubblica misurava ormai 20.000 km quadrati, con una
residenza di 1 milione di abitanti e una confederazione alleata che vantava un territorio di 60.000
km quadrati e circa 2 milioni di abitanti. Con i suoi 80.000 km quadrati e i 3 milioni di abitanti, la
federazione romano-italica restava superata, dagli stati mediterranei, solamente da Cartagine e
dai regni di Siria ed Egitto.

Roma e gli Italioti: Pirro in occidente

Dopo la pace del 304 tra Romani e Sanniti, i Lucani si rivolsero a Roma per cercarne l’alleanza nella
guerra che si preparavano a rinnovare contro Taranto e i Romani accettarono non tanto per
combattere i Greci Italioti quanto per separare i Lucani dai Tarantini. L’alleanza si concluse nel
303-302 e Taranto si rivolse nuovamente a Sparta, che inviò Cleonimo, figlio secondogenito del re
Cleomene II, della dinastia degli Agiadi. Cleonimo reclutò un esercito di 20.000 uomini tra
mercenari e italioti, sicché Roma strinse frettolosamente la pace con Taranto, che ne approfittò
per liberarsi del peso ingombrante di Cleonimo che aveva progetti ambiziosi nel meridione.
Questo trattato di pace fruttò ai tarantini quel vantaggio sui Romani che consisteva nel divieto di
spingersi con navi da guerra più ad oriente del promontorio Lacinio (presso Crotone), imponendo
in tal modo la rinuncia a navigare nello Ionio e nell’Adriatico.

Ripartito Cleonimo si riaccesero i conflitti tra Roma e il Sannio; i Lucani, spalleggiati dai Bruzi,
ripresero le armi, sostenuti da Agatocle, tiranno di Siracusa, ma il minaccioso dispiegamento
dell’esercito romano in Lucania li costrinse a riconfermare la loro alleanza con Roma.
Alla morte di Agatocle Bruzi e Lucani ripresero le ostilità, riprendendo Ipponio e assalendo Turi,
che vedendosi privata dell’appoggio di Taranto, ad essa da sempre ostile, chiese l’aiuto di Roma.
Questa accordò l’aiuto alla città e vi installò un presidio nel 285; in questo modo Roma chiudeva in
una morsa Lucani da una parte, e Turini dall’altra, assicurandosi l’alleanza di entrambe e, in questo
modo, la sottomissione di Oschi e Italioti, tra le popolazioni più bellicose dell’Italia meridionale.
La guerra con Taranto: Pirro in Italia

Il casus belli della guerra tra Roma e Taranto fu proprio quella clausola dell’accordo di pace che
vietava alle navi romane di navigare sui mari che bagnavano la costa orientale della penisola
Italica; nel 282 una piccola squadra romana di dieci navi, dopo aver navigato lunga tutta la costa
del Golfo di Taranto, si avanzò fin dinanzi al porto della città. Non voleva essere questa una
minaccia all’indipendenza della Repubblica Italiota né tantomeno un’intenzionale provocazione,
quanto piuttosto una fiera e orgogliosa affermazione di dignità e potenza. Se non fosse che il
popolo tarantino interpretò questo sfoggio di potenza come risultato di un previo accordo tra il
comandante romano e la minoranza oligarchica che aspirava al governo della città, pertanto assalì
le navi romane, ne affondò alcune, costrinse le altre a ritirarsi. Da questo incidente, nonostante gli
sforzi del governo romano per sedare gli animi, ebbe inizio la guerra. I Tarantini, forti della loro
alleanza con Pirro, re dell’Epiro e il più valente condottiero del mondo ellenistico, ebbero
l’appoggio necessario per muovere guerra agli avversari Romani. Pirro, che da parte sua
accarezzava l’idea di riunire sotto il suo dominio tutti i Greci dell’Italia meridionale, sottraendoli al
dominio di Roma e Cartagine, sbarcò in Italia nella primavera del 280 con 30.000 uomini,
abbondante cavalleria e 20 elefanti, sconfiggendo i Romani ben due volte, presso Eraclea e ad
Ascoli, in Puglia. Parecchie città greche, Sanniti e Lucani passarono dalla sua parte. Tentò perfino,
con l’aiuto di Latini e Campani, una marcia su Roma, che però fallì. Allora, per la fretta di sbarcare
in Sicilia, tentò di stipulare un accordo di pace con Roma che però fallì, sia per opposizione di una
parte del senato che per il recente accordo che Roma strinse con Cartagine.

Pirro in Sicilia: la capitolazione di Taranto

Dopo che Pirro trasportò il suo esercito in Sicilia (278) il conflitto infuriò per tre anni senza che
Pirro riuscisse ad ottenere alcun risultato decisivo. Nel frattempo i Romani ristabilivano la
situazione in Italia, riconducendo all’obbedienza Sanniti e Lucani. Riportato l’esercito in Italia, Pirro
tentò di nuovo l’assalto, ma venne respinto dai Romani presso Benevento (275). A Pirro non
rimase che tornare nell’Epiro. Taranto invece si arrese tre anni dopo (272) e dovette entrare nella
Federazione Italica, la quale così, nel 270, con l’aggregazione anche di Reggio, toccava l’estremo
confine meridionale della penisola.
Sistemazione definitiva dell’Italia meridionale

272: i Romani costringono alla pace gli altri tre popoli italici che avevano fatto causa comune con
Pirro: i Bruzi, i Lucani e i Sanniti. Nel territorio confiscato ai Lucani fu dedotta la colonia latina di
Pesto, in quello tolto ai Bruzi fu stanziata la colonia di Vibo Valentia (nel 237 o più probabilmente
nel 192). Il territorio dei Sanniti fu ridotto a circa 8000 km quadrati, i popoli degli Irpini, dei Pentri
e dei Caudini furono obbligati a stipulare trattati d’alleanza separati con la Repubblica romana; nel
territorio ad essi confiscati furono dedotte le colonie latine di Benevento (268) e di Esernia. Fu
cosìdomato finalmente il Sannio, che non si ribellò più al dominio romano (se non parzialmente
durante la discesa di Annibale) fino alla guerra sociale.

Tra il 269 e il 268 furono sedate le insurrezioni dei Picenti e degli Umbri di Sarsina, ai quali venne
confiscata la maggior parte dei territori e venne incorporato nello Stato romano come cives sine
suffragio. Sorti simili toccarono alle genti iapigie dei Calabri e dei Salentini, cui fu tolto il territorio
di Brindisi, che divenne vent’anni dopo una colonia latina. A queste operazione si aggiunge la
distruzione dell’etrusca Volsini, dove Roma intervenne per soccorrere la classe patrizia dinnanzi
alle rivendicazioni della plebe; assediata per un anno, la città fu infine presa da Q. Fabio Gurgite
(padre del Temporeggiatore) distrutta e ricostruita vicino al Lago che ne prese il nome.

Intorno al 271 l’unificazione politica dell’Italia peninsulare si era compiuta; tuttavia non si deve
pensare che l’azione politica dei Romani sia stata finalizzata fin dalle prime conquiste
all’unificazione di un’Italia che etnograficamente e geograficamente non esisteva ancora: piuttosto
è da interpretarsi come un piano di difesa preventiva dell’autonomia dello stato romano. Dopo
aver dovuto decidere del primato fra le città latine e di quello tra Latini ed Etruschi, hanno
attaccato la Federazione Sannitica prima che questa, conquistando la Campania e la costa del
Tirreno, diventasse tanto potente da porre in pericolo ogni ulteriore progresso e la stessa
indipendenza del Lazio. In seguito, la necessità di salvaguardare e vigilare le recenti conquiste nel
sud Italia, ha spinto i Romani ad esigere il libero uso delle coste e dei porti della Magna Grecia,
provocando cosìil conflitto con Taranto.
Struttura amministrativa dello Stato romano alla metà del III secolo

Dopo il 400 a.C., a fronte delle nuove conquiste su Etruschi, Volsci e Lega Latina non era possibile
continuare ad annettere altro territorio alla circoscrizione dell’Urbe privandolo di qualsiasi forma
di esistenza civica e amministrativa. Pertanto iniziò ad essere sempre più frequente l’uso da parte
dei Romani di conferire autonomia amministrativa alle città conquistate, designandole con il
termine di municipia, che designò, in origine i centri abitati tenuti ai doveri (munia) propri del
cittadino romano senza averne i diritti ma che in seguito, quando anche i diritti dei cittadini furono
concessi a molte di quelle città, indicò semplicemente i Comuni amministrativamente autonomi.

I municipi conservavano i loro magistrati ordinari e il loro Consiglio cittadino (o senato), eletti dagli
stessi cittadini del Comune, ovvero il senato e i magistrati comunali amministravano e dirigevano
solo gli affari e gli interessi locali; per tutto il resto i cittadini municipali dipendevano dal Governo
di Roma. Erano tenuti a pagare al tesoro romano (aerarium) il tributo imposto a tutti i cittadini per
le spese di guerra; nelle legioni romani erano chiamati a prestare servizio militare; dovevano
usare, salvo rare eccezioni, la moneta coniata nelle zecche romane. Alcune di queste città
godevano anche di importanti diritti riconosciuti loro dal Senato e dai comizi di Roma all’atto della
loro annessione, od erano concessi in seguito per ricompensa di qualche benemerenza. Questi
diritti erano quelli di matrimonio e di commercio (ius connubii e ius commercii) con gli altri
cittadini romani, ma il più importante era quello di voto (ius suffragii) nei Comizi Romani e quello
di essere eletti alle cariche pubbliche (ius honorum). I municipi con diritto di voto erano però assai
strettamente più dipendenti dal Governo di Roma e conservavano assai minore autonomia di
quella concessa ai municipi senza suffragio. Perché i cittadini dei municipi potessero esercitare in
Roma i loro diritti, ogni Comune venne assegnato ad una delle tribù rustiche nelle quali era diviso il
territorio dello Stato romano e il cui numero salì, nel 241, a 35.

Per esercitare quei poteri, specialmente di ordine giudiziario che ai magistrati municipali non
erano concessi, il pretore urbano nominava un prefectus iuri dicundo. Spesso si usava raggruppare
più Comuni sotto la giurisdizione di un solo prefetto, e il comune nel quale il prefetto risiedeva
venne denominato prefectura. Ma vera colonna vertebrale del dominio romano in Italia erano le
colonie, ovvero nuclei di cittadini romani inviati a prendere dimora in un territorio recentemente
conquistato: in tal modo venivano gestiti problemi di sovrappopolazione, di controllo dei popoli
sottomessi e di punto di appoggio per la difesa dei nuovi confini e per le guerre future. I coloni
conservavano tutti i loro diritti di cittadini, ma anche tutti i loro doveri e la piena dipendenza dal
governo di Roma. Agli ordini di tre commissari (triumviri coloniae deducendae) i coloni costruivano
le città e le fortificazioni nel territorio indicato. Non erano dovuti a prestare servizio militare nelle
legioni, ma dovevano accorrere in armi ogni volta che i nemici dal di fuori o i ribelli dal di dentro
minacciassero la regione che la colonia era destinata a vigilare e proteggere.
Agli alleati italici invece (socii italici) veniva lasciata una certa autonomia; il loro obbligo principale
nei confronti dei romani consisteva nella prestazione di un certo contingente di milizie ausiliarie
(auxilia), oppure, nel caso dei Greci Italioti, prestazione di ciurme di marinai e rematori per le navi
da guerra romane (socii navales) e anche un certo contingente di navi. Gli alleati non ebbero mai
un’esplicita proibizione di battere moneta anche se, in progresso di tempo, le zecche alleate
chiusero perché non reggevano la concorrenza con la moneta romana. La condizione in cui
tergiversavano gli alleati spesso non era solo decorosa, ma addirittura vantaggiosa. Se non vi era
una clausola esplicita nel trattato d’alleanza, non vi era l’obbligo di mantenere dei presidi nella
città alleata; conservarono piena autonomia nel diritto civile e negli ordinamenti interni; in caso di
guerra e di vittoria avevano il diritto di partecipare al bottino e all’occupazione di agro pubblico
non altrimenti assegnato; di partecipare alle colonie latine e, in certi casi, anche quelle romane e
alle assegnazioni viritane; il diritto di connubio e di commercio con Roma, se non veniva spesso
concesso in blocco, poteva venir concesso ai singoli cittadini.

Condizione tutta speciale, fra gli alleati di Roma, ebbero le città latine. Rescisso nel 338 il foedus
aequum, le città latine furono in parte incorporate nel territorio romano, in parte ridotte nelle
condizioni degli altri alleati. Le città latine erano privilegiate rispetto alle altre alleate di Roma: i
Latini avevano piena facoltà di connubio e di commercio con i Romani, tanto che potevano
adottare un Romano ed esserne adottati, ereditare da un Romano e possedere nel territorio
romano, acquistare la cittadinanza romana con il solo fatto di prendere domicilio a Roma,
dichiarandolo dinanzi al censore; reciprocamente un Romano poteva acquisire la cittadinanza di
una città latina con il solo domicilio, e spesso questo fatto venne impiegato per sfuggire a
condanne e persecuzioni. Le colonie latine, in tutto simili alle città latine, avevano una costituzione
più simile a quella di Roma; invece di un dictator (magistrato supremo nelle città latine) ebbero,
come magistrati supremi, due pretori, un senato, il popolo diviso in 30 curie e due censori per
redigere le liste dei cittadini. Al tempo delle guerre puniche le colonie latine erano numerose (25)
molte più di quelle romane (8); e mentre in quelle romane si mandavano 800 coloni, in quelle
latine anche qualche migliaia.

Riforme e struttura sociale della Repubblica romana intorno al 300 a.C.

Appio Claudio, verso il 300 a.C. propugnò una serie di riforme democratiche dopo che fu eletto
censore nel 310; a lui l’antica Roma fu debitrice di opere pubbliche famose, come l’acquedotto
che portava a Roma la pura acqua delle sorgenti che sgorgavano presso l’Aniene e il primo tratto
(tra Roma e Capua) della via Appia. Inoltre concesse alla turba forensis, ovvero il ceto nullatenente
della Repubblica o possessore di soli beni mobili, l’iscrizione a tutte le tribù rustiche, quando prima
era limitata alle sole quattro tribù urbane. In tal modo aumentava il loro potere decisionale nei
Comizi, prima pressoché nullo in quanto decisivo sul voto di sole quattro tribù nei Comizi Tributi, e
nelle sole centurie dei capite censi nei Comizi Centuriati che però non arrivavano mai a votare.
Inoltre Appio Claudio completò l’albo dei senatori chiamando a far parte dell’assemblea anche
cittadini ricchi, mercanti o artigiani, anche se di origine libertina e politicamente homines novi. I
provvedimenti di Appio Claudio suscitarono indignazione nell’oligarchia senatoriale, tant’è che
furono annullate in parte dai censori del 304. Ma in quello stesso anno fu eletto edile Gneo Flavio,
che divulgando i Fasti e le legis actiones, cioè le formule di procedura prescritta per l’introduzione
delle cause, rendeva effettive quelle garanzie di tutela del cittadino dall’eventuale arbitrio del
magistrato.
Roma e l’Italia alla vigilia del conflitto con Cartagine

Il primo conflitto con Cartagine

L’impero cartaginese nel Mediterraneo occidentale

Intorno al 270 a.C. sei grandi Potenze si contendevano il dominio dei paesi posti intorno al
Mediterraneo; una di queste era Roma, le altre i Regni di Macedonia, Siria ed Egitto, e le
Repubbliche di Cartagine e Siracusa. Tutti e quattro i grandi stati del Mediterraneo – Siria, Egitto,
Macedonia, Cartagine – sopravanzavano Roma per potenza economica e risorse finanziarie, per
capacità di produzione industriale, per lo sviluppo dei traffici, per numero e qualità di navi da
commercio e da guerra; invece nessuna poteva competere con essa per solidità degli ordinamenti
interni, per la perfezione – logistica, organica e tattica – delle istituzioni militari, per le doti di
resistenza fisica e le virtù civiche dei cittadini tutti e di gran parte degli alleati.

Con Cartagine per prima Roma si doveva scontrare allorché la potenza e le posizioni acquisite dal
grande stato africano si rivelarono incompatibili con la sicurezza e la libertà di movimenti della
Federazione romano-italica. I trattati di alleanza stipulati nel 278 e nel 306, che prevedevano
sostanzialmente un’affermazione delle aree di dominio, la penisola a Roma e la Sicilia a Cartagine,
non furono più sufficienti a sedare le preoccupazioni dei Romani per eventuali ambizioni nella
penisola da parte di un avversario cosìpotente, e a questo punto cosìpericolosamente vicino
come Cartagine. Inoltre vigeva ancora quella clausola risalente al trattato stipulato nel 348 che
inibiva alle navi romane ed alleate di navigare e commerciare non solo nell’Africa settentrionale,
ma perfino in Sardegna e in Corsica. Era importante perciò scongiurare l’eventualità che Cartagine
dominasse sullo Stretto di Messina, annullando cosìvirtualmente le garanzie di intangibilità degli
interessi romani.

Primo conflitto con Cartagine

Nel 265 Ierone, re della restaurata potenza di Siracusa in seguito alla morte di Agatocle, sconfisse i
Mamertini, mercenari campani che alla morte di Agatocle si impossessarono di Messina tornando
verso casa, presso il fiume Longano. I mamertini, vistisi perduti, si rivolsero a Cartagine. La
presenza della potenza mediterranea in un territorio politicamente fragile, immediatamente di
fronte ai Bruzi, popolo di recente sottomesso e sempre pronto a risollevare lo stendardo della
rivolta, doveva essere scongiurata dalle armi di Roma. L’occasione si presentò quando i Mamertini,
evidentemente scontenti dell’azione di Cartagine, chiesero l’invio di una guarnigione presso la
rocca precedentemente occupata difesa dai Cartaginesi. Dopo varie incertezze tra comizi e senato,
un esercito al comando di Appio Claudio fu inviato a Reggio per essere pronto ad attraversare lo
Stretto non appena gliene fosse dato ordine.
Nel 264, mentre erano ancora in atto le trattative tra i due governi, Appio Claudio ruppe gli indugi
e sbarcò con il suo esercito a Messina.
Apparecchi militari di Roma e Cartagine

Le forze su cui poteva contare Roma all’inizio del conflitto erano quattro legioni di 4200 fanti e 300
cavalieri ciascuna e, dal III secolo, eserciti supplementari di due legioni comandati da magistrati
con imperio prorogato (proconsoli o propretori) o a generali in sottordine (legati). La tattica
adottata era principalmente quella manipolare. Ad essere decisiva nella prima vittoria riportata su
Cartagine fu la flotta romana, che Roma non possedette prima del 260.
Cartagine invece aveva delegato alla flotta la tutela dei suoi interessi commerciali nel
Mediterraneo fin dal V-IV secolo: sembra che i Cartaginesi disponessero da 100 a 200 navi armate,
prima triremi poi quadriremi e quinqueremi. Il punto di forza su cui Roma poteva contare era un
quadro permanente per le sue forze militari di terra, cosa che a Cartagine mancava: gli eserciti di
Cartagine si avvalevano dell’uso di eserciti allestiti all’occorrenza e composti perlopiù da mercenari
(Spagnoli, Liguri, Corsi, Balearici), anche perché l’oligarchia cartaginese aveva disposto che solo i
cittadini di censo elevato dovessero prestare servizio militare. Soltanto Amilcare e Asdrubale
costituirono in Spagna un esercito permanente.

Le prime campagne in Sicilia

Alla piccola guarnigione che presidiava Messina non restò che uscire dalla cittadella; nel frattempo
le forze cartaginesi dell’isola si concentravano presso la città, e Siracusa stringeva alleanza con la
sua secolare nemica contro i Romani. Sconfitti gli eserciti congiunti di Cartagine e Siracusa, i
Romani si ritirarono da Messina e Ierone si rinchiuse tra le mura di Siracusa. L’anno dopo, nel 263,
due nuovi consoli trasportarono in Sicilia l’intero esercito di quattro legioni, e sotto il comando di
Manio Valerio invase il territorio siracusano, occupò Adrano, Enna, Centuripe, Alesa, Catania e
marciò sulla città. A quel punto Ierone si accordò con i Romani e vi rimase fedele fino al termine
del conflitto, rinunziando a una parte del territorio e pagando una pesante indennità di guerra. Nel
262 l’esercito romano sbarcò una terza volta sull’isola per conquistare il restante territorio di
appartenenza greca, mentre i Cartaginesi tra il 263 e il 262 avevano radunato il grosso delle forze
militari ad Agrigento. Dopo 6 mesi di resistenza, Agrigento dovette arrendersi per fame all’assedio
posto da L. Postumio e Q. Mamilio, nonostante un esercito cartaginese fosse stato inviato per
rompere le linee nemiche. Ai Cartaginesi non restarono che le piazzeforti occidentali dell’isola,
Tindaride e Mitistrato sulla costa settentrionale.

La guerra navale e lo sbarco in Africa

Se i Romani avevano intenzione di concludere con una vittoria decisiva la guerra combattuta con
Cartagine per il dominio della Sicilia, avrebbe dovuto munirsi di una flotta. Il senato prese allora la
memorabile decisione di equipaggiare l’esercito romano, fino a quel momento forza militare
esclusivamente terrestre, di una flotta: i socii navales fornirono le ciurme dei marinai e dei
rematori, in pochi mesi fu apprestata una flotta di 100 quinqueremi e 20 triremi. Nella primavera
del 260 un esercito di due legioni e tutta la flotta si concentrarono in Messina, al comando dei
consoli Cornelio Scipione e Gaio Duilio. All’altezza del promontorio di Milae (Milazzo) la flotta
romana si scontrò con quella cartaginese di egual potenza, e i Cartaginesi, ritenendo che i Romani
valessero poco in una battaglia navale, ci rimisero: 14 navi furono affondate, 30 compresa
l’ammiraglia, catturate, 3000 i morti e 7000 i prigionieri. La scarsa efficienza della flotta romana fu
bilanciata dall’arguzia di Duilio, che munendo le navi di corvi (ponti levatoi) fece delle battaglia
navale tanti piccoli episodi battaglie terrestri: quando le navi romane agganciavano quelle
nemiche, l’esercito romano dispiegava i fanti e gli arcieri. Tuttavia, se l’effetto morale della vittoria
fu immenso, minori furono i vantaggi materiali: se Roma voleva veramente dimostrare la sua
superiorità dinanzi a Cartagine, doveva accrescere la flotta e portare la guerra sul territorio
nemico, in Africa settentrionale.

Nel 256, con un’armata di 230 navi, Roma si preparava ad affrontare la più grande battaglia navale
che fu mai combattuta in antichità e che decise del predominio sul Mediterraneo di una o
dell’altra potenza per i secoli a venire. Con un esercito di due legioni, i consoli Lucio Manlio
Vulsone e Marco Attilio Regolo si preparano a sbarcare in Africa, e si scontrò all’altezza del
promontorio Ecnomo con l’intera flotta cartaginese anch’essa di 230 navi. Su ciascuna flotta erano
imbarcati 100.000 uomini. La vittoria fu ancora una volta di Roma, e i Romani, penetrati nel
territorio africano quasi fino alle soglie di Cartagine, riportarono la flotta nella penisola al comando
di Vulsone mentre Regolo, con un esercito di 20.000 uomini, svernava in Africa. Regolo non seppe
approfittare del malcontento dei sudditi africani nei confronti della città dominatrice e farseli
alleati, e impegnato a respingere le offerte di pace dei cartaginesi e imponendo loro condizioni
durissime, non si accorse che nel frattempo Cartagine stava ricostituendo un esercito numeroso
agli ordini del generale spartano Santippo.
Nel 255 si scontrarono i due eserciti di pari forza numerica, prima che giungessero i due nuovi
consoli con altre legioni, e i Romani vennero pienamente battuti presso Tunisi. Soltanto in 2000 si
salvarono e riuscirono a raggiungere la base militare che i Romani avevano allestito a Clupea e non
più fortunata fu la flotta che li imbarcò: fu quasi interamente distrutta, al largo di Camarina, da
una tremenda procella.

La guerra di esaurimento: Amilcare Barca

I Romani, abituati fino ad allora a condurre battaglie campali per portare all’obbedienza i popoli
della penisola, non si trovarono pronti ad affrontare una guerra impegnativa come quella con
Cartagine; mancavano loro infatti dei comandanti che nella loro scienza militare includessero
abilità diplomatiche e conoscenza di uomini e di cose, che Roma a quell’epoca, ancora troppo uno
stato “provinciale”, non possedeva. Ma soprattutto mancava uno Stato maggiore navale,
comandanti che fossero esperti nell’arte della navigazione, e fu soprattutto questa la causa del
ripetuto insuccesso dei Romani nelle battaglie che si sarebbero condotte per mare. In poco tempo,
intorno al 249, Roma perse due flotte, una al comando di Claudio Pulcro, e l’altra del collega
Giunio Pullo. Nonostante questo Roma riportò altri successi in Sicilia, assaltando Palermo per terra
e per mare nel 254. Ai Cartaginesi, ripetutamente sconfitti dalle legioni romane, non restò che
rifugiarsi nelle due fortezze più occidentali della penisola, Lilibeo e Drepana, dove poterono
mantenersi solamente una volta che avevano riacquisito il dominio del mare. Nel 250 il proconsole
L. Cecilio Metello sbaragliò l’esercito di Asdrubale, catturando anche un gran numero di elefanti.
Finalmente nel 247 i Cartaginesi trovarono tra loro un gran capitano, prima figura di spicco in
questo primo conflitto tra Roma e Cartagine: Amilcare Barca. Riorganizzato l’esercito, Amilcare
Barca si appostò con il suo esercito alle porte di Palermo, e nelle posizioni strategiche del monte
Eircte e del monte Erice, presso Trapani, e con poche migliaia di uomini e qualche decina di navi,
molestò l’esercitò romano con fulminee e continue incursioni per terra e per mare. Ormai i due
eserciti erano esauriti e a corto di risorse. Ricorrendo a un prestito forzoso, richiesto alle famiglie
più facoltose e proporzionato al censo, perché ormai le casse dello Stato erano vuote e non si
poteva pretendere dalla popolazione il pagamento di un altro tributo straordinario di guerra, il
senato costituìuna flotta di 200 navi. Nel marzo del 241 il console Gaio Lutazio Catulo si portò con
la flotta dinanzi a Drepana e investì la città per terra e per mare. Per soccorrere l’esercito, venne
inviata da Cartagine una flotta di 300 navi carica di soldati, armi e denaro, ma Lutazio le si fece
incontro, la sorprese presso le Isole Egadi, ne affondò 50 navi e ne catturò 70, riportando una
vittoria totale e un ingente bottino di prigionieri e risorse.

Le due potenze, ormai esauste, stipularono la pace: Cartagine rinunciava alla Sicilia e alle isole
limitrofe, restituiva i prigionieri e si obbligava a pagare in 10 anni un’indennità di 3200 talenti.

Le vigorose affermazioni della potenza romana in oriente e in occidente


Il dopoguerra in Italia

All’interno dello stato romano la guerra produsse un’ulteriore democratizzazione del regime, che
si concretò nella valorizzazione delle classi medie mediante la riforma dei Comizi Centuriati, che
sembra sia avvenuta nel 241 ad opera degli stessi censori che istituirono le ultime due tribù
rustiche, la Quirina e la Velina. Mantenendo invariati i 18 voti dei cavalieri e i 5 dei capite censi, le
altre cinque classi furono suddivise in un numero uguale di centurie, in modo tale da rendere
meno sensibile la sperequazione nel diritto di voto nei singoli appartenenti ad esse. Effetto della
riforma fu che il predominio della nobiltà divenne ancor meno saldo e continuo negli anni a venire,
con l’immissione di numerosi homines novi ai posti di governo e con l’audace politica agraria e
antisenatoriale di Flaminio Nepote, tribuno della plebe nel 232. Ad esso si deve la proposta di
legge che disponeva la distribuzione viritana dell’agro piceno e gallico e ispirò una legge che
vietava a qualsiasi cittadino di occupare più di 500 iugeri di agro pubblico, limitando la porzione di
esso da tenere a pascolo e prescrivendo l’impiego di un certo numero di agricoltori liberi. Con
l’annessione di quasi metà della Sicilia al territorio romano (all’infuori del territorio di Siracusa e
dei Mamertini) Roma, fino ad allora Repubblica liberale che si avvale degli alleati come dei suoi più
stretti collaboratori, inaugurò una nuova epoca amministrativa e si trasformò in una democrazia
imperialista: i sovrani, proclamandosi padroni della terra, richiedevano una decima su alcuni
prodotti principali del suolo, accettando anche un tributo in natura. Con questo sistema il senato
(lex Hieronica) rimpinguò le esauste casse dello Stato e si assicurò il rifornimento di grano da parte
della Sicilia e, d’ora in poi, da parte di tutti gli altri territori all’infuori della penisola. Per mantenere
attenta la sorveglianza da parte dello Stato, inizialmente per presiedere a tali operazioni fu
incaricato uno dei quattro questori classici (creati nel 267 per sovrintendere alle costruzioni navali
e alla difesa delle coste); ma dopo la conquista della Sardegna, il Governo comprese la necessità di
assumere anche il potere giurisdizionale ed esecutivo, pertanto istituìper il governo delle isole
magistrati annui, eletti dal popolo, e forniti di imperium, ai quali fu estesa la qualifica di pretori,
come comandanti della guarnigione del territorio. Nacque così l’istituto della provincia.

I rapporti romano-punici dopo il 241

I rapporti tra le due potenze appaiono incredibilmente cordiali: da una parte, per la mitezza delle
condizioni di pace imposte da Roma agli sconfitti, dall’altra per la politica di pace e intesa, e di
un’espansione mirata più alla costituzione di un impero nell’Africa settentrionale quanto al
dominio delle coste del Mediterraneo, perseguita da Annone. Questa politica di svalutazione della
guerra e di coloro che l’avevano caldeggiata, portò Annone perfino a negare ai mercenari reduci gli
stipendi e i premi loro promessi da Amilcare, creando i presupposti per quella rivolta dei
mercenari che portò Cartagine sull’orlo della rovina. Roma in questi anni dimostrò la più rigida
fedeltà agli accordi di pace stipulati con gli ex nemici, tanto che nella prima fase della guerra dei
mercenari, quando si ribellarono anche gli ufficiali di guarnigione in Sardegna e questi si
ritrovarono accerchiati dagli indigeni, il senato negò loro l’intervento armato. Lo stesso fece
quando Utica, disertando la causa cartaginese, passò dalla parte dei ribelli e chiese di essere
accolta sotto il protettorato di Roma. Ma quando il conflitto raggiunse una tale gravità da
richiedere l’intervento di un uomo al comando risoluto come Amilcare, i rapporti tra le due
potenze si raffreddarono nuovamente. Nel momento in cui i ribelli sardi chiesero una seconda
volta l’aiuto di Roma, questa, a cui erano note le tendenze imperialistiche e il desiderio di rivincita
di Amilcare, glielo accordò. Alla notizia dell’intervento armato di Roma, Cartagine inviò in
Sardegna una flotta, con la speranza di precedere la rivale nell’occupazione dell’isola ma il
Governo romano, ritenendo quei preparativi rivolti contro Roma stessa, dichiarò guerra. Cartagine
accolse subito la proposta di pace offertale da Roma, che consisteva nel pagamento di
un’indennità di 1200 talenti e la rinunzia ad ogni diritto sulla Sardegna. Nei successivi anni furono
conquistate anche la Corsica e la Sardegna, con la spedizione di piccoli eserciti, al comando quasi
sempre dei consoli però, per assoggettare le tribù interne. Nel 227 si incominciarono a eleggere a
Roma due pretori per il governo delle prime due provinciae romane: la Sicilia e la Sardegna con la
Corsica.

La colonizzazione cartaginese della Spagna e l’invasione gallica in Italia

Per trovare qualche compenso alle gravi amputazioni sofferte dall’impero coloniale di Cartagine,
Amilcare suggerìai Cartaginesi l’occupazione integrale della penisola iberica, sulle cui coste
Cartagine possedeva antiche e importanti colonie, prima fra tutte Cadice, e disponeva di ingenti
ricchezze minerarie e impareggiabili combattenti.
Nel 237 Amilcare, ottenuto il comando supremo dell'impresa e l’appoggio del genero Asdrubale,
capo del partito democratico, traghettò in Spagna un piccolo esercito, ponendo la base a Cadice.
In qualità di consiglieri vi erano anche alcuni membri del senato cartaginese, destinati a formare,
insieme al duce e ai cittadini militanti, una piccola assemblea deliberante i cui poteri si
estendevano sino alla nomina del successore nel caso Amilcare fosse venuto a mancare. Amilcare
si spinse a settentrione fino alla fondazione di Akra Leuke, la romana Lucentum (oggi Alicante)
dove cadde in un’imboscata nel 229. Asdrubale a quel punto assunse il comando dell’impresa e
spinse l’esercito molto innanzi nell’altipiano, senza dimenticare la fondazione di Cartagine Nuova
(oggi Cartagena) presso il miglior porto della costa orientale. I romani, impegnati
nell’assoggettamento dei Liguri e della Sardegna, si preoccupò della faccenda solamente nel 231,
quando si recarono presso il Quartier Generale di Amilcare e questi li rassicurò convincendoli che
la conquista della Spagna non aveva altro scopo se non quello di estrarre dalle miniere l’argento
necessario per ripagare l’indennità prevista dell’accordo di pace stipulato con Roma. Tuttavia i
Romani ritennero opportuno stringere alleanza con la città di Sagunto, posa a sud dell’Ebro presso
la costa orientale. Nonostante Roma non si fosse più preoccupata dei galli dopo il 236, questi
improvvisamente nel 226 cominciarono a dare segni di irrequietezza, e richiamando i loro
connazionali d’oltralpe assunsero un atteggiamento ostile preparando palesemente la guerra.
Contro Roma si schierarono tutti i contingenti dei popoli della Pianura Padana – Boi, Insubri,
Lingoni, Taurini – e quelli dei Gesati della Gallia Transalpina; stettero invece dalla parte dei Romani
i Veneti e i Galli Cenomani. Dopo aver valicato l’Appennino ed essersi abbandonati a scorribande
per l’Umbria e l’Etruria, l’esercito gallico fu accerchiato da quello romano presso il promontorio di
Talamone, ed interamente distrutto (225). In quelle stesse settimane gli ambasciatori del senato
costringevano Asdrubale a sottoscrivere un trattato con il quale riconosceva l’Ebro come limite
settentrionale delle conquiste puniche in Spagna.

La conquista dell’Italia continentale e le guerre illiriche

Durante il IV e il III secolo, approfittando della decadenza delle genti etrusche, i Liguri si spinsero a
sud arrivando fino all’Arno, dove occuparono il porto etrusco di Pisa. Poiché Roma ne voleva fare
la base navale per le comunicazioni con la Corsica, nel 238 avviò le operazioni militari contro i
Liguri. Nel 223, il console C. Flaminio Nepote, già tribuno della plebe e rappresentante del partito
popolare, invase contro il parere del senato la Gallia traspadana abitata dagli Insubri, e si
impossessò della loro capitale, Mediolanum. I Galli Boi, i Lingoni, gli Insubri dovettero cedere gran
parte dei loro territori che furono incorporati nell’ager pubblicus dello Stato romano, il quale vi
fondò di lìa poco le colonie di Cremona, Piacenza e Modena, e dovettero accettare la condizione
di alleati di Roma. Così anche l’Italia continentale, al di fuori del Piemonte, fu incorporata nella
Repubblica romana.
Dopo diversi lamenti dalle città alleate e dalle colonie della costa adriatica per i danni subiti ai
commerci marittimi tra l’Adriatico e l’Egeo a causa degli Illiri, nel 230 Roma intimò Teuta, regina
degli Illiri, di far cessare le piraterie dei suoi sudditi; al mancato soddisfacimento della richiesta, fu
inviata in Illiria una spedizione di 200 navi e più di 20.000 uomini. Gli Illiri, vinti dai romani,
dovettero accettare la pace e con essa il divieto di navigare con flotte di più di due navi nel mar
Ionio, pagare un tributo, cedere alcune isole e lasciare che due delle loro tribù – insieme alle città
greche di Corcira, Apollonia, Epidamno – nella Confederazione italica, come alleate di Roma. Non
essendo gli Illiri rimasti fedeli agli accordi stipulati, la guerra fu rinnovata nel 220. I Romani
rimasero cosìpadroni del litorale adriatico dell’Illiria meridionale (odierna Albania) e delle due
sponde del Canale di Otranto, guadagnandosi però un nuove nemico, la Macedonia, che con
Demetrio aveva sostenuto gli Illiri per servirsi delle loro scorribande contro Achei ed Etoli.

Annibale al comando della Spagna e preparazione della guerra

Ucciso a tradimento Asdrubale nel 221, gli successe nel comando il venticinquenne cognato,
Annibale, figlio di Amilcare, e da questi educato all’odio contro i Romani e nelle arti della guerra e
della politica. Annibale prese d’assalto la città di Sagunto dopo otto mesi d’assedio, che pur
rimanendo a sud dell’Ebro era alleata di Roma, e costringeva in questo modo la Repubblica
all’intervento. Una rinuncia all’azione avrebbe significato una perdita di prestigio e credibilità agli
occhi dei popoli del Mediterraneo, essendo stata contratta l’alleanza con Sagunto proprio per
scongiurare l’eventualità che i Romani si trovassero impreparati a un’eventuale discesa dei
Cartaginesi nella penisola, favorita dall’ostilità che i Galli transalpini e cisalpini provavano per
Roma. Nella primavera del 218 un’ambasceria inviata a Cartagine chiese la consegna di Annibale e
dei suoi consiglieri; respinta la richiesta, il capo della legazione romana, Fabio Buteone, dichiarò
guerra a Cartagine.

La seconda guerra punica

La discesa di Annibale non fu tanto un’azione militare impulsiva che aveva come obiettivo poco
realistico quello di annientare una volta per tutte la Repubblica romana, quanto un piano politico
premeditato che aveva come obiettivo ridimensionare Roma a quella Lega di genti del Lazio che
era stata fino a un secolo prima, prima della conquista della Magna Grecia e della Sicilia. Il suo
progetto consisteva probabilmente nello stringere Roma tra le popolazioni che le erano ostili a
nord, i Galli, e quelle che le erano ostili a sud, gli Oschi. In questo modo la Federazione di Latini,
Umbri ed Etruschi sarebbe rimasta confinata nei limiti dell’Italia centrale e non avrebbe
rappresentato più una minaccia all’espansione dei Cartaginesi nel mediterraneo. Al ben
congegnato piano militare di Annibale, Roma contrappose un improvvisato piano difensivo, finché
nel 218 decise di passare alla controffensiva: a tal proposito Publio Cornelio Scipione fu inviato in
Spagna, mentre Tiberio Sempronio Longo fu inviato in Sicilia per prepararsi a sbarcare in Africa.
Tuttavia la rapidità e l’imprevedibilità delle azioni di Annibale li costrinse a parare i colpi che questi
di volta in volta inferiva. Annibale, con un esercito istruito ed armato alla perfezione, allenato e
devoto, bene inquadrato e comandato, ma non numeroso, si preparava a una guerra lampo:
avrebbe valicato le Alpi e non si sarebbe fermato finché non fosse giunto in Italia meridionale,
contando solamente sugli uomini che aveva con sé e sulle risorse che trovava man mano che
avanza con il suo esercito. Partito con più di 35.000 uomini, egli non aveva più di 25.000 fanti e
6.000 cavalieri quando arrivò nella pianura del Po. Delle risorse militari di cui disponeva Roma
riporta invece Polibio: 250.000 uomini di fanteria, 23.000 di cavalleria per quanto riguarda i
cittadini romani; 340.000 fanti e 31.000 di cavalleria, degli alleati. Roma, iniziando la guerra con sei
legioni, arrivò con l’avanzare della guerra a schierare da venti fino a venticinque legioni, pur
essendo rimasta priva, per un periodo non breve, di una parte dei suoi alleati.

La guerra annibalica

Quando si ebbe notizia che Annibale aveva valicato i Pirenei, il console Cornelio Scipione era
impegnato in Italia a sedare una rivolta di Galli Boi ed Isubri; egli imbarcò allora i suoi soldati a Pisa
con l’intenzione di tagliare la strada ad Annibale all’altezza del Rodano. Ma questi aveva già
attraversato il fiume e si apprestava a valicare le Alpi. Scipione trasferìallora il suo esercito in
Spagna al comando del fratello Gneo, e tornato in Italia ricostituì l’esercito nell’attesa che le
truppe di Sempronio, richiamate in Italia, si ricongiungessero alle sue. Frattanto Annibale,
attraversate le Alpi per il passo del Moncenisio o del Monginevra, discese nel Piemonte
meridionale verso la fine di settembre e avanzò rapidamente in Lomellina, dove la sua cavalleria
sconfisse presso il Ticino la cavalleria di Scipione. Questi allora si ritirò a sud del Po, prendendo
posizione presso la confluenza del Trebbio con il Po, a sud-est di Piacenza, dove venne raggiunto
da Sempronio. Alla fine di dicembre del 218 l’esercito consolare di Scipione e Sempronio veniva
sconfitto da quello di Annibale a occidente della Trebbia; l’Italia settentrionale, da poco
assoggettata, era in balia di Annibale, al quale accorrevano e si offrivano Galli volontari e
mercenari da tutte le parti. Nell’inverno del 217 allora, i consoli Gaio Flaminio Nepote e Gneo
Servilio, presero posizione con i loro eserciti, il primo in Etruria, presso Arezzo, a sorvegliare i passi
dell’Appennino toscano, e il secondo a Rimini, per sbarrare la strada dell’Appennino Marchigiano.
Annibale invece, con un’altra rapidissima marcia, piombò in Etruria per il valico di Collina,
attraversò la piana di Pistoia e sorpassate le posizioni di Flaminio si diresse verso Chiusi. Flaminio si
lanciò imprudentemente all’inseguimento e cadde in un’imboscata tesagli da Annibale sulle colline
che circondano il Lago Trasimeno, dove trovò la morte. La cavalleria di Servilio che sopraggiungeva
in soccorso fu anch’essa annientata da quella punica (giugno 217). Per scongiurare un assedio
imminente di Annibale (che stava a Chiusi, a poche giornate di marcia da Roma) nei confronti del
Campidoglio, venne nominato dittatore Quinto Fabio Massimo. Annibale tuttavia, contrariamente
a quanto si aspettavano i Romani, non si diresse a Roma ma proseguìspedito verso il Mezzogiorno
per portare a termine il suo piano, piuttosto che cimentarsi in un assedio faticoso e per il quale gli
mancavano i mezzi necessari. Egli voleva invece trarre a sé le genti osche e italiote e isolare in
questo modo Roma e il Lazio dal resto della penisola. Per un anno Annibale, su suggerimento del
Temporeggiatore, fu lasciato scorrazzare liberamente in meridione, dopodiché vennero allestite
quattro nuove legioni con effettivi rinforzati per un totale di 50.000 uomini contando anche i
contingenti alleati e poste, nel 216, al comando dei consoli Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio
Varrone. Raggiunto Annibale a Canne, in Apulia, e convintolo a schierare le sue truppe sulla destra
dell’Ofanto, i Romani subirono una delle disfatte più disastrose della loro storia: sul campo
rimasero 40.000 uomini tra morti e prigionieri, con parecchi tribuni e senatori, e fra loro il console
Emilio, le poche migliaia rimaste si ritirarono agli ordini di Varrone. Annibale invece non rimise che
6000 uomini, quasi tutti Galli.

La seconda fase della guerra in Italia e in Spagna

Immediatamente dopo la sconfitta di Canne, il senato dette prova di tale compostezza e austerità
d’animo che la massa del popolo le si affidò interamente e rimise interamente al Senato il Governo
della Repubblica per fronteggiare questa situazione di emergenza. La Repubblica in questi anni si
comporta più come un principato, di cui principe è il senato: il senato governa, decide e dirige le
operazioni militari, organizza gli eserciti procura i rifornimenti, sceglie i generali: le elezioni
consolari divengono una semplice formalità, per mezzo della quale il popolo conferma le
designazioni senatoriali. Come dopo la vittoria del Trebbia, cosìquella di Canne ottenne gli effetti
sperati: Bruzi, Lucani, i più dei Sanniti, alcuni degli Italioti e i Campani con la loro metropoli di
Capua ne approfittarono per passare dalla parte di Annibale. Le genti dell’Italia centrale, come ai
tempi di Pirro, rimasero fedeli ai Romani: Latini, Umbri e Sabelli restarono ben saldi e fedeli
intorno alla dominatrice gloriosa; di là Roma poteva attingere riserve ancora abbondantissime di
uomini per organizzare la resistenza. Le città etrusche, in particolare gli aristocratici, si mostrarono
ostili ai Romani, le masse indifferenti. Il senato invece comprese presto la necessità di riprendere
la strategia di Fabio Massimo, resa possibile dall’abbondanza di risorse umane di cui disponeva
l’Urbe. Le vittoriose campagne condotte dai Scipioni contro i fratelli di Annibale in Spagna,
Asdrubale e Magone, si arrestarono nel 211, quando spintisi troppo imprudentemente verso sud, i
Scipioni perirono insieme ai loro eserciti. Nella penisola invece Roma condusse contro Annibale
una guerra d’esaurimento, alla quale Annibale seppe rispondere aizzando di volta in volta nuovi
nemici contro Roma che doveva disperdere cosìle sue forze su più fronti. In particolare si
allearono ad Annibale Siracusa, dopo la morte di Ierone, e Filippo V re di Macedonia. Tra il 213 e il
212 Annibale sottomise le città italiote, Crotone, Locri, Caulonia per prime; infine Taranto, dove il
presidio romano poté però mantenersi nella rocca; infine Metaponto, Eraclea e Turi. Soltanto
Reggio resistette. Benché Annibale si fosse impossessato di tutto il Golfo di Taranto si fece inviare
rinforzi e rifornimenti dalla madrepatria solamente una volta, preferendo impiegare quelle stesse
forze e risorse per alimentare la guerra in Spagna o placare le insurrezioni dei sudditi africani.
Intanto i Romani, attaccando Annibale “ovunque egli non fosse presente” riconquistavano
lentamente le città perdute. Già nel 214 avevano riconquistato Casilino, nel 213 Arpi; nel 211
Capua, benché Annibale, per allontanare dalla città le truppe che lo assediavano, avesse osato
spingersi fin sotto le mura di Roma. Nel 210 i Romani subirono una grave disfatta sotto le mura di
Erdonea, in Apulia; ma con la caduta di Taranto, nel 209, la posizione di Annibale fu ristretta
all’estremo Mezzogiorno, impedendogli così ogni libertà di movimento.

Contro Siracusa e la Macedonia

Morto Ierone nel 215, gli successe al trono il nipote Ieronimo, che si lasciò facilmente convincere
da ufficiali cartaginesi, Ippocrate ed Epicide, a staccarsi dalla Lega con Roma e offrire la sua
alleanza ad Annibale, e altre città siciliote seguirono l’esempio di Siracusa. L’anno successivo il
console M. Claudio Marcello assumeva il comando dell’esercito in Sicilia e nel 213 incominciò
l’assedio di Siracusa per terra e per mare. Nonostante le potenti fortificazioni, la brillante difesa
militare organizzata dal matematico Archimede, lo sbarco in Sicilia di un numeroso contingente
cartaginese, il proconsole mantenne il blocco. I vari quartieri della città furono riconquistati tra il
212 e il 211, la metropoli siciliana venne abbandonata al saccheggio dei soldati, la città fu resa
suddita per l’avvenire e le stesse condizioni vennero imposte alle restanti città della Sicilia. Nel 210
i Cartaginesi avevano sgombrato del tutto da Cartagine.
Nel 215 invece venne stipulata un’alleanza tra Cartagine e Macedonia, nemica giurata di Roma da
quando aveva osato mettere piede in Illiria. Nonostante Filippo V avesse offerto la sua alleanza ad
Annibale sin dalla vittoria riportata da questi presso il Trasimeno, questi indugiò a rispondere per
non complicare una guerra che si stava svolgendo secondo i piani prestabiliti. Evidentemente,
dopo la vittoria di Canne, riprese le trattative preoccupato dagli esiti della guerra di esaurimento
che stava conducendo. Considerando che Filippo V non era disposto a contribuire con uomini, il
fine di quell’alleanza si può ricercare nella volontà di disperdere le forze romane. Roma se la cavò
con uno sforzo minimo: dando prova di abilità diplomatiche non indifferenti, con la sola presenza
di una flotta romana con poche truppe da sbarco nel Mar Egeo, si guadagnò la benevolenza delle
maggiori potenze greche, ma soprattutto il vantaggioso trattato d’alleanza con la Lega etolica nel
211. Questo costrinse Filippo a concludere la pace con Roma, accontentandosi di riavere una parte
del territorio illirico già sotto la tutela dei Romani (l’Atintania) ma lasciando a Roma il protettorato
su Partini e sulle città greche della costa (pace di Fenice, 205)
P. Cornelio Scipione

Alla notizia della disfatta dei Scipioni in Spagna, fu inviato sull’Ebro il propretore Claudio Nerone,
già favorevolmente noto per aver guidato l’esercito romano alla riconquista di Capua. Se da una
parte Nerone fu richiamato in Italia perché in quel momento si difettava di buoni comandanti di
grandi unità – dall’altra a Roma, la voce del popolo indicava insistentemente in P. Cornelio
Scipione, figlio dell’omonimo console perito in Spagna, il nuovo comandante dell’esercito nella
penisola iberica. Dotato di grande carisma che gli valeva l’ammirazione degli umili come dei più
potenti, e profondamento convinto della fede nel destino e nella missione assegnatagli dalla
divinità, Scipione, pur non avendo ricoperto alcuna magistratura al di fuori dell’edile curule,
ottenne dai Comizi Tributi un imperio proconsolare straordinario per il 210. Così, fatte le leve e i
necessari apparecchi, Scipione partìper la Spagna portandosi appresso 10.000 fanti e 2000
cavalieri delle disciolte legioni di Campania e il collega con imperio minore M. Giunio Silano. In
quattro anni Scipione avrebbe sconfitto qualsiasi diffidenza da parte del senato e della
moltitudine, tanto da arrivare a imporre alla Repubblica, non ancora trentenne, la sua politica e la
sua condotta di guerra, indipendentemente dal parere e dalla volontà del senato. In realtà le
campagne iberiche misero in luce le straordinarie virtù militari e diplomatiche di Scipione: nel 209
espugnò Cartagena; nel 208, avanzato con l’esercito nella Spagna meridionale, batté a Becula
l’esercito di Asdrubale, il quale però riuscì ad aprirsi una strada nella cerchia che gli si era stretta
intorno e si aprìuna strada verso nord, in direzione dell’Italia. Nel 207 adottando i principi tattici
della sorpresa e del concentramento delle forze contro un esercito più numeroso, riportò un’altra
vittoria ad Ilipa. Scipione compìin Spagna una vera e propria riforma della tattica militare,
adottando schemi flessibili in cui ciascun manipolo si configura come unità autonoma e
mobilissima, pronta in ogni momento a riconfigurarsi in un nuovo schieramento.
Magone, fratello minore di Annibale, tentò un’estrema resistenza a Cadice per trattenere il più
possibile Scipione lontano dall’Italia; ma nel 206 dovette evacuare la città e riuscì a far sbarcare il
suo esercito in Liguria, dove contava di rialzare le sorti dell’azione cartaginese nella Gallia
Cisalpina. Scipione, stretti accordi con il re numidico Massinissa, conquistata la Spagna e fondata la
prima colonia romana in Spagna, ritornò a Roma nel 205 per presentare la sua candidatura al
consolato.

Ultima fase della guerra in Italia e in Africa

Frattanto in Italia nel 208 il senato propose ancora una volta la nomina di Marcello al consolato,
col proposito che egli mettesse da parte la tattica temporeggiatrice, e affrontasse insieme al
collega T. Quinzio Crispino, la battaglia decisiva contro Annibale. Tuttavia i due furono sorpresi da
un grosso contingente di cavalleria numidica durante una ricognizione, e Marcello vi lasciò la vita.
Intanto Asdrubale, valicati i Pirenei e le Alpi, irruppe in Italia, e accolto dai Galli, che fornirono
grandi rinforzi al suo esercito, attraversò il Po e la pianura padana e cinse d’assedio Piacenza;
dopodiché nel 207, mosse verso l’Appennino con un esercito di 30.000 uomini e parecchi elefanti.
I Romani affidarono a M. Livio Salinatore il comando del fronte settentrionale, contro Asdrubale, e
la difesa del fronte meridionale a Claudio Nerone, per tenere a bada Annibale e impedirgli di farsi
incontro al fratello. Presso la battaglia del Metauro, l’esercito di Nerone con una rapida manovra si
congiunse a quello di Salinatore, e Asdrubale vi trovò la morte. Annibale, immobilizzato, continuò
a mantenere le sue posizioni nel Bruzio, dove si tenne stretti i porti di Crotone e di Locri.
Nel 205 Scipione venne eletto console dal senato, e sua volontà era quella di annientare
definitivamente Cartagine e, a tal scopo, di spostare la guerra in Africa. Questi sbarcò in Africa con
40.000 uomini e l’alleanza del principe numida Massinissa, nonché il favore degli indigeni. Nel 204
fu investita la città di Utica, mentre nella primavera del 203 i Romani assalirono e distrussero gli
accampamenti di Asdrubale e Siface, rivale di Massinissa, dopodiché riportarono una gloriosa
vittoria sul ricostituito esercito nemico ai Campi Magni, sull’alto corso del Bagrada. Cartagine,
minacciata da vicino, chiese la pace ed ottenne per il momento una tregua; sempre nel 203
Annibale, dopo 15 anni di scorrazzamenti in Italia e dopo aver tenuto in scacco con un esercito
relativamente piccolo il più potente Stato militare del mondo, vincitore e vinto mai, tornò alla
madrepatria. Lo sbarco delle forze di Annibale ad Adrumeto fece sìche il governo rompesse la
tregua pattuita con Scipione. I due sommi capitani si affrontarono in battaglia presso Zama nel 202
e Scipione, con la stessa manovra di avvolgimento che aveva fruttato ad Annibale la vittoria a
Canne ma favorito dalla superiorità numerica e dalle imponenti forze di cavalleria messe a
disposizione da Massinissa, riportò vittoria e impose a Cartagine una pace durissima: la rinuncia
alla Spagna, consegna degli elefanti e della flotta, all’infuori di dieci navi; proibizione di far guerra
senza il permesso di Roma, pagamento di un’indennità di 10mila talenti. Massinissa, alleato dei
Romani, ottenne la Numidia. Cartagine spariva per sempre dal novero delle grandi potenze
mediterranee (201).

L’intervento romano nell’oriente greco

Roma dopo la vittoria su Cartagine

La vittoria su Cartagine aveva dimostrato la saldezza degli ordinamenti politici e l’eccellenza degli
apparecchi militari, ma anche l’elevato civismo, il profondo amor di patria, l’insuperabile spirito di
sacrificio dei cittadini di tutte le classi. Ma soprattutto il senato fu il vero vincitore morale dello
scontro, dimostrandosi degno di essere la vera classe dirigente dello Stato. Latini, Umbri e Sabelli
si dimostrarono validi e incorruttibili alleati, ma lo stesso non si può dire di Sanniti, Bruzi, Lucani,
Etruschi e Galli, che non sarebbero rimasti esenti da misure di rigore nei loro confronti. Inoltre vi
furono cambiamenti notevoli nella prassi costituzionale romana per far fronte alla complessità e
alla durata della guerra che vide recentemente impegnati i Romani: per poter disporre di tanti
generali quanti via via ne richiedevano le operazioni in corso, e per avere una costante
disponibilità di uomini, si dovettero mantenere al comando per più anni gli stessi uomini con
imperium prorogato e si dové anche ricorrere al conferimento dell’imperium non vincolato ad una
magistratura. D’ora in poi le imprese militari di Roma non avrebbero più mirato a tutelarne tanto
la sicurezza e la difesa, quanto a una decisiva volontà di impero, quella stessa che aveva trovato il
suo interprete più fiero in Scipione, quando costrinse il Senato ad obbligare Cartagine non solo alla
pace, ma soprattutto a una resa senza condizioni. Tuttavia gli elementi più conservatori della
nobiltà, che intuivano la pericolosità che questo tipo di iniziative rappresentava per la propria
incolumità, tentò di arginare in un primo momento queste tendenze imperialistiche.
Roma e l’Impero universale

Il primo sintomo della mutata tendenza di Roma a considerare la propria impresa di espansione
non più come piano di difesa preventiva, quanto atto di prestigio di fronte ai popoli ad essa
sottomessa, agli alleati e alle potenze nemiche, si avverte durante la presa di Sagunto da parte di
Annibale. In quel momento Roma fu chiamata a ricoprire militarmente quel ruolo di potenza
politica che aveva assunto man mano che il suo territorio e il numero dei suoi alleati si
accrescevano nel corso di tante singolari battaglie tese a salvaguardare la propria sicurezza
nazionale. Anche se una vera e propria ambizione imperialistica si potrà attribuire solamente a
partire dai disegni espansionistici di Cesare e Augusto, che avrebbero voluto fare di Roma una
monarchia universale, anche se il primo avrebbe marcato di più l’accento sulla parità di diritti di
dominanti e dominati, mentre il secondo sul primato di Roma fra i popoli ad essa sottomessi. A
lungo si è discusso se l’imperialismo avviato da Roma dopo la guerra con Cartagine avesse più un
valore militare, economico o difensivo, anche se l’ipotesi più accreditata fu la terza. Sembra infatti
che la spinta alla difesa del giovane impero fosse stata impartita a Roma dai suoi pavidi alleati. In
quegli anni Roma guardava con sospetto il prevalere di uno dei grandi regni ellenistici a discapito
degli altri o delle Leghe greche, specialmente quando vi fosse il sospetto che queste politiche di
predominio fossero state incoraggiate e finanziate da Cartagine (guerre contro Macedonia e Siria).
Con altrettanto sospetto veniva guardato il regno numidico di Massinissa, che incorporava le
ricchezze e il fulgido porto di Cartagine, creando i presupposti per il costituirsi di una nuova
potenza emergente sulle coste settentrionali dell’Africa. Tuttavia è ragionevole supporre che vi
fossero affiancati anche ragione di carattere militaristico, brama di guerra e cupidigia di saccheggi,
e di carattere economico, la promessa di facili guadagni con traffici e speculazioni in paesi tanto
ricchi quanto impotenti e disarmati. Nei 70 anni che seguirono il predominio sul mare
Mediterraneo con l’annientamento di Cartagine, Roma inglobò nel suo impero universale la
Penisola Balcanica (Macedonia e Grecia), l’Africa settentrionale fino all’Egitto, l’Asia minore; tutte
queste zone non erano che popoli sudditi (province) o Stati vassalli e monarchi fantocci, a cui
Roma “comandava di regnare”. In quel momento “l’impero universale di Roma” si sarebbe potuto
dire pienamente in atto, più di quanto Alessandro Magno vi si fosse mai avvicinato, ma il disegno
di un impero universali in cui tutti sono parimenti cittadini e possono vantare gli stessi diritti,
avrebbe trovato il suo interprete solamente 200 anni dopo con Giulio Cesare.

La seconda guerra contro la Macedonia

Fintantoché perversavano nei Balcani le guerre Illiriche, Roma ritenne che la cosa non la
riguardasse da vicino, ma dopo il 201 le cose cambiarono. Alcun conflitto che poneva le basi
dell’immediata o futura costituzione di una potenza che avrebbe potuto competere con Roma nel
predominio del mediterraneo, non poteva non riguardare lo Stato capitolino. Cosìnel 200, quando
Filippo V, in compagnia del Regno di Siria, con l’intenzione di danneggiare il debole Regno d’Egitto,
iniziò una marcia minacciosa in direzione di alcune città greche (tra le quali la stessa Atene), Roma,
sollecitata dagli alleati il re di Pergamo e la Repubblica di Rodi, ingiunse al re macedone di cessare
le ostilità ai danni degli Elleni e di restituire tutti i possedimenti che gli erano stati tolti. Il rifiuto
causò la seconda guerra tra Roma e la Macedonia.
I primi due anni di campagna non dettero risultati molto soddisfacenti. La prima campagna,
comandata nel 199 dal console Sulpicio Galba nell’anno 200, con imperio proconsolare, vide i
Romani, dopo essere sbarcati in Apollonia, scontrarsi con i Macedoni presso Ottolobo ei colli di
Banitza, riportando due successi netti ma non decisivi, mentre la seconda campagna condotta dal
console P. Villio Tappulo nel 199/98 fu del tutto inconcludente. Ma l’impotenza di Filippo V di
fronte ai Romani impressionò a tal punto gli Etoli che si riaffrettarono a stringere alleanza con
Roma. A Tappulo viene riconosciuto il merito di aver preparato l’invasione della Macedonia del
sud, dopo che si erano sperimentate le difficoltà di un’invasione per i passi orientali dell’Illiria.
Filippo, evidentemente informato sulle intenzioni dei Romani, li prevenne occupando i passi
dell’Aoo. Proprio ad Aoo Tappulo fu sostituito a presiedere le operazioni di guerra il neoeletto
console Tito Quinzio Flaminino, che apparteneva a quella stessa generazione di nobili a cui
apparteneva Scipione, che affiancava all’eccellenti doti militari e all’orgoglio di appartenere a una
patria fiera e invincibile, insolite capacità diplomatiche e quella conoscenza di uomini e di cose che
gli facilitava la comprensione di un mondo diverso da quello romano come quello ellenistico.
Tuttavia Scipione, a scapito di Flaminino, aveva pareri opposti sulla finalità delle operazioni militari
in Oriente; mentre il primo riteneva che fosse indispensabile un assoggettamento politico e
militare dei territori, il secondo riteneva che le operazioni potessero andare a buon fine facendone
a meno. La campagna del 198 vide una vittoria totale dei Romani, affiancati dagli Epiroti e da gran
parte dei Greci, tanto che indusse Filippo V a chiedere la pace; Flaminino tirò per le lunghe i
colloqui di pace finché nel 197, dopo essere stato confermato comandante dell’esercito, ruppe le
trattative e obbligò il re macedone ad accettare battaglia campale presso la Tessaglia, su una
catena di alture note con il nome di Cinoscefale. La vittoria vide il successo della tattica manipolare
romana sull’invincibile tattica della falange macedone (giugno 197). Filippo accettò le condizioni di
pace, che prevedevano la rinuncia a qualsiasi dominio in Grecia, la cessione della flotta e il
pagamento di un’indennità di guerra. La proclamazione della libertà dei Greci avvenne, fra
l’entusiasmo generale, durante i giochi istmici del 198, alla presenza di Flaminino. Le guarnigioni
romane si mantennero fedeli alla promessa di libertà rivolta agli alleati greci, e ritirò gli eserciti da
ogni piazzaforte della Grecia, il che non fece che riaccendere le ambizioni della Siria.

Guerra contro la Siria

Il re di Siria Antioco III, impossessatosi già negli anni precedenti alcune città greche dell’Asia,
continuò impassibile la sua politica di conquista dell’Egeo sulle sponde settentrionali, incurante
delle proteste rivoltegli dai Romani. Questi, alla rinuncia di Antioco di rispettare la libertà di tutte
le città greche, indussero Roma all’intervento. In realtà la spinta decisiva venne dagli Etoli, che
giudicando irrisorie le ricompense ottenute da Roma per l’aiuto offertole contro Filippo V, nel 192
proclamarono guerra. Antioco, incurante dei consigli di Annibale che alloggiava esule presso la sua
corte di formare una coalizione di tutti i nemici di Roma e piombare con essi in Italia, sbarcò in
Grecia e fu fatto a pezzi dai Romani presso le Termopili, ai quali si era alleato stavolta Filippo di
Macedonia. Al comando era Manio Acilio Glabrione, ma al successo contribuìvalidamente
l’iniziativa tattica del suo legato Marco Porcio Catone (191).
Per prostrare definitivamente il nemico venne organizzata una grandiosa spedizione, con forze di
terra e di mare, in Siria agli ordini del console Lucio Cornelio Scipione, fratello dell’Africano e da
questi diretto nelle operazioni militari in qualità di “legato”. Rinforzati dalle forze navali degli
alleati (Pergamo, Rodi, Samo, Chio, Lesbo) i Romani vinsero ripetutamente la flotta di Antioco
(specialmente a Mionneso, nella Ionia) e poterono così facilmente trasportare l’esercito dalla
Grecia all’Asia. Battuto più volte in scontri parziali, l’esercito siriaco, numerosissimo ma di scarso
valore, fu distrutto interamente presso la città di Magnesia, presso il Sipilo, nella Lidia (autunno
190). Antioco accettò allora le condizioni di pace impostegli dai Romani: la cessione dell’Asia
minore fino al fiume Tauro, la rinuncia alla flotta, agli elefanti, e un’indennità di 15.000 talenti. La
pace fu ratificata in Apamea, in Frigia, nel 188. Il territorio ceduto dalla Siria fu ripartito a Roma fra
gli alleati (Rodi e Pergamo); le città costiere dichiarate libere. Gli Etoli invece furono duramente
puniti e multati di gran parte del loro territorio. Annibale, di cui i Romani chiesero la consegna,
fuggìpresso il re della Bitinia e li si suicidò nel 183 per non cadere in mano nemica.

La fine del regno di Macedonia

Il genere di pace e autonomia che Roma intendeva assicurare all’Oriente greco, non era per altro
conciliabile con la mentalità e le concezioni politiche dei Greci, per i quali libertà significava anche
e soprattutto facoltà di guerreggiare fra loro a piacimento; e i Romani, che si sentivano in diritto e
in dovere di arbitrare quei conflitti, si attirarono l’inimicizia dei popoli su quali pesava il
protettorato di Roma. In particolare nelle città, specialmente tra le fazioni democratiche,
iniziarono sempre di più ad accentuarsi sentimenti antiromani, mentre nobili e aristocratici
parteggiavano ovunque per Roma. Lo stesso re di Macedonia, che durante la guerra con la Siria
assunse un atteggiamento impeccabile nei confronti dell’alleata, si sentì umiliato dalla
soppressione da parte di Roma della rinnovata intenzione di espandersi in Grecia, pertanto
preparava segretamente la rivincita. Dei due figli, Perseo e Demetrio, fu designato erede Perseo, in
quanto Demetrio, di sentimenti filoromani, fu soppresso dal fratello con la connivenza del padre.
Alla morte di Filippo, Perseo salìal trono nel 179/8. Perseo, proseguendo la politica paterna,
strinse alleanze con alcuni Stati asiatici e si procurò le simpatie di non pochi fra i Greci. I Romani,
sollecitati anche da Eumene di Pergamo, dichiararono guerra nel 171. Alla comparsa dei romani in
Macedonia i Greci, sbigottiti, si affrettarono a inviare contingenti agli alleati; solamente Illiri, Etoli
ed Epiroti rimasero al fianco del sovrano macedone. L’indecisione di Perseo, che di fronte a
preoccupanti sintomi di indisciplina e rilassatezza avrebbe dovuto sferrare immediatamente un
attacco contro i Romani, dette tempo ai Romani per imprimere alla loro azione un andamento più
efficace e più energico, affidando il comando a L. Emilio Paolo figlio dell’omonimo. Nell’estate del
168 la falange macedone fu sconfitta e annientata presso Pidna. La Macedonia fu suddivisa in
quattro distretti, con costituzione repubblicana, giuridicamente e amministrativamente divisi l’uno
dall’altro. Lo stesso trattamento fu riservato all’Illiria; l’Epiro vide distrutte le sue città e gli abitanti
venduti come schiavi. Severe sanzioni furono applicate anche al re di Pergamo e ai fedeli Rodi,
solamente perché avevano osato farsi intermediari di pace tra Perseo e i Romani. La lega Achea
dovette consegnare mille dei suoi cittadini eminenti più in vista che furono inviati in Italia per
essere giudicati da un tribunale speciale (tra cui anche Polibio), mentre i Greci che avevano tenuta
condotta incerta o si mostrarono favorevoli a Perseo, furono più o meno severamente puniti.
La distruzione di Cartagine e la fine dell’indipendenza greca

Il nuovo sistema d’impero: la provincia di Macedonia

La trasformazione del sistema romano a impero si avviò quando i tentativi di dominare l’Oriente
greco ed ellenizzato senza governarlo fallirono miseramente. Se da una parte i Greci caddero
preda delle meschinità e delle lotte reciproche tra fazioni, dall’altra in Macedonia le quattro
repubbliche istituite dai commissari romani non riuscivano a vivere, in preda sempre a discordie
reciproche e intestine, alle quali più volte i legati romani cercarono di porre rimedio. Del tumulto
tra le repubbliche macedoni approfittò un avventuriero, tale Andronisco, che presentandosi come
figlio di Perseo, gettò la Macedonia in fiamme: alcuni reparti di soldati romani furono battuti, un
pretore ucciso. Ma nel 148 il pretore Metello sconfisse nella stessa pianura di Pidna Andronisco: la
Macedonia fu ricomposta all’unità ma perdette l’indipendenza; anche l’Illiria e l’Epiro furono
ridotte a province e governate direttamente da Roma. Il risentimento suscitato nella classe
dirigente romana dal comportamento sdegnoso e ingrato delle regioni orientali si riflesse nella
durezza con cui venne applicata la diplomazia romana: soltanto Catone salvò l’isola di Rodi
dall’esser fatta oggetto di rappresaglie militari; tuttavia alla città furono tolte la Licia e la Caria, e fu
danneggiata economicamente con l’istituzione di un porto franco a Delo. Ad Antioco IV non
valsero il contegno e la neutralità tenuti durante il conflitto con la Macedonia; i Romani gli
ingiunsero bruscamente di interrompere qualsiasi piano di espansione ai danni dell’Egitto, e
Antioco non se lo fece dire due volte.

Assoggettamento della Grecia

Fu fatale per la libertà greca il dissidio tra la Lega Achea e gli Spartani che riarse in tutta la sua
violenza nel 149. L’inevitabile intervento romano non venne tollerato dalla fazione democratica al
potere in quel momento nella Lega, che proruppe apertamente in rivolta non appena Roma si
trovò militarmente impegnata in Macedonia, Cartagine, Spagna. Benché fossero state chiamate a
rivolta tutte le forze disponibili, arruolando anche 12mila schiavi, non poterono reggere a lungo di
fronte alla potenza dei Romani. L’esercito greco fu completamente disfatto dal console Lucio
Mummio sull’istmo di Corinto. Tutte le città del Peloponneso si arresero una dopo l’altra. Corinto
stessa fu espugnata dopo pochi giorni d’assedio e saccheggiata (146).
Furono disciolte tutte le Leghe di città greche: gli Elleni che non avevano partecipato alla guerra
(Acarnani, Etoli, Tessali, Atene, Sparta) furono mantenuti nella loro antica condizione di alleati;
tutti gli altri ridotti in condizione di tributari e sottoposti alla sorveglianza dei governatori della
provincia di Macedonia.

La fine di Cartagine

Dopo la sconfitta di Zama, Annibale, eletto sufete nel 196, con sapienti riforme seppe sfruttare al
meglio il territorio africano e sviluppare al massimo le risorse agricole e commerciali con lo scopo
di riportare a un alto livello la ricchezza di Cartagine. Questa rilanciata prosperità di Cartagine
venne vista con sospetto dai Romani, che temevano tale ricchezza potesse essere impiegata per
finanziare un futuro nemico di Roma o, peggio ancora, cadere nella mani di Massinissa, che non
mancava di sottrarre lembi di territorio a Cartagine. Ai Cartaginesi il trattato di pace proibiva di
muover guerra, anche in Africa, senza il beneplacito dei Romani; ma di fronte ai soprusi di
Massinissa e il suo favoreggiamento da parte delle ambascerie inviate in Africa, i Cartaginesi nel
150 mossero guerra a Massinissa senza attendere la benedizione di Roma, azione che servìda
pretesto per distruggere Cartagine una volta per tutte, come auspicava Marco Porcio Catone con
la formula “delenda Carthago”. Quando i consoli nel 149 si apprestavano a sbarcare in Africa, si
presentarono ad essi i legati cartaginesi, pronti a offrire la pace. Il Senato pretese di consegnare
300 ostaggi, tutte le armi e alcune macchine da guerra, ma al soddisfacimento di queste condizioni
i consoli, sbarcato l’esercito, ingiunsero ai Cartaginesi di evacuare la città e ricostruirla a 15 km
circa dalla costa. I Cartaginesi risposero opponendo la più strenua resistenza e i Romani
assediarono la città per due anni, finché il senato non inviò il console P. Cornelio Scipione
Emiliano, figlio di L. Emilio Paolo e nipote adottivo di Cornelio Scipione. Questi, eletto console nel
147 nonostante non avesse percorso il regolare cursus honorum e non in possesso ancora dell’età
per ricoprire il magistero, accerchiò la città e nel 146 diede l’assalto decisivo, penetrando dal porto
con una lotta crudele per le strade che si protrasse per sei giorni; gli ultimi difensori della rocca si
lasciarono perire tra le fiamme del tempio di Esmun (146). Cartagine fu distrutta fin nelle
fondamenta, e la stessa fine fecero le città limitrofe che le erano state alleate; quelle che invece si
erano affrettate a fare atto di sottomissione a Roma – Utica, Adrumento, Leptis minore, Tapso e
altre – ricevettero in compenso la libertà e una parte del territorio cartaginese. Tutto il rimanente
dei domini di Cartagine fu ridotto a provincia romana con il nome di Africa, all’infuori di alcuni
distretti che furono donati al re di Numidia. Residenza dei nuovi governatori fu Utica, dove fin
d’allora vennero a stabilirsi una buona parte di commercianti romani ed italici. Era morto frattanto
Massinissa, più che novantenne, affidando a Scipione l’esecuzione testamentaria e incaricandolo
di dividere il regno tra i suoi tre figli: Micipsa, Gulussa e Mastanabale.

Le province romane

Roma e l’occidente

Nel II secolo la conquista romana dell’occidente fu avvertita dai Romani come un gravoso dovere,
mentre gli interventi in Oriente furono accolti con maggiore entusiasmo, sulla promessa di trionfi
più gloriosi e di lauti guadagni. Nel 181 scoppiò una vasta insurrezione dei Corsi e dei Sardi Iliensi,
suscitata probabilmente dall’energica repressione intrapresa dai Romani contro la pirateria ligure.
Nonostante la ribellione corsa fu facilmente domata, più aspra e lunga riuscìinvece la repressione
del movimento sardo, che soltanto dopo l’energica campagna del 177-76 poté dirsi domato. Una
guerriglia simile a quella combattuta in Sardegna e in Corsica fu quella che i Romani dovettero
sostenere per parecchi anni (a cominciare dal 238) per assoggettare la Liguria, difesa
accanitamente da quelle tribù fierissime, gelose della propria indipendenza e protette dall’aspra
natura del loro territorio montagnoso.
Nella Cisalpina, tutte le conquiste che i Romani vi avevano fatto dopo il 225, andarono perdute
con l’invasione di Annibale: soltanto Piacenza e Cremona opposero un’epica resistenza ai Galli che
le circondavano da tutte le parti. Piacenza cadde in mano ai barbari intorno al 200/199. Nel 197, al
concludersi della guerra con la Macedonia, i Romani iniziarono la riconquista della Gallia Cisalpina,
compiuta in meno di 10 anni: a Insubri e Cenomani fu lasciato il territorio intatto e la condizione di
alleati; i Boi vennero privati invece di gran parte del loro territorio e i superstiti ricacciati oltre le
Alpi. Nel territorio incorporato dalla Repubblica vennero fondate la nuova colonia latina di
Bononia (189) e le due romane di Parma e di Mutina (183). Nel 177, tra la Liguria e l’Etruria, venne
fondata la colonia romana di Luna.
Nel 187, durante il consolato di M. Emilio Lepido e C. Flaminio Nepote, furono costruite le due
grandi strade militari: la via Flaminia, da Arezzo a Bologna, la via Aemilia, da Rimini a Piacenza; nel
171 la via Cassia che attraversava l’Etruria e arrivava in Pianura Padana. Nel 148 venne costruita
infine la via Postumia, che collegava Genova con Piacenza. La pianura padana si andò così
lentamente latinizzando, che proseguìanche a nord del Po, grazie anche al rafforzamento di
Cremona e Piacenza. Al confine orientale del territorio dei Veneti venne fondata una nuova
colonia latina, Aquileia, per tenere a bada gli Illiri. Con le campagne del 178 e del 177 vennero
assoggettate L’Istria e una ventina d’anni dopo la Dalmazia. La Gallia Cisalpina non sarebbe
diventata provincia che ai tempi di Silla.

Le province spagnole

Dopo la fine delle campagne iberiche di Scipione (205), il territorio spagnolo venne diviso in due
province: la Hispania Citerior, comprendente la valle dell’Ebro e la costa orientale fino a sud di
Cartagena, e la Hispania Ulterior, che abbracciava le rimanenti regioni del mezzogiorno e del sud
della penisola. La Sierra Morena segnò il confine tra le due province. Soltanto nel 197 fu data alle
province un’amministrazione regolare, fissando i precisi confini dell’una e dell’altra ed assegnando
ciascuna al governo di un pretore che rimaneva in carica per due anni. I rapporti dell’autorità
romana con le varie popolazioni locali furono regolate da singoli trattati. La mancanza di tatto, di
una condotta energica ma allo stesso tempo equanime e liberale, fece sìche già nel 197 vi fosse
una rivolta, che riguardò entrambe le province e si placò solamente nel 179. In quegli anni erano al
governo delle province Marco Porcio Catone, nel 195, che alienò da Roma anche le tribù dei
Celtiberi, rimasti fino ad allora fedeli, e Tiberio Sempronio Gracco, il quale costrinse i Celtiberi alla
pace, ma li trattò con generosità ed equità insolite, che assicurarono con essi una pace duratura.
L’inclemenza dei suoi successori diede il via a una nuova serie di rivolte, in particolar modo quella
dei Lusitani nel 154 ai quali si unirono l’anno dopo i Celtiberi. Iniziava così la seconda guerra
celtiberica, che vide nella prima fase i romani alle prese con la guerra di insidie e di agguati
condotta da Viriato, un pastore che si fece duce del suo popolo, ucciso per tradimento nel 139.
Domata la parte meridionale della penisola, ebbe iniziò la seconda fase, che vide il settentrione
opporre resistenza presso Numanzia. In questa seconda fase si verificò un episodio che mise in
luce la gravità della crisi politica e militare in cui versava il Governo della Repubblica. Il console
Ostilio Mancino, nel 137, per salvare l’esercito dall’annientamento, aveva firmato con i Numantini
un patto vergognoso di capitolazione, giurato anche dal suo questore Tiberio Sempronio Gracco e
dai suoi primi ufficiali. Ma il senato si rifiutò di firmare il patto, e ordinò che Mancino venisse
consegnato, come spergiuro, ai Numantini; i quali però rifiutarono l’offerta, e la guerra proseguì.
Tre anni dopo, nel 134, ad espugnare la roccaforte spagnola fu inviato il vincitore di Cartagine,
Scipione Emiliano, che ristabiliti ordine e disciplina nell’esercito, scavò intorno alla città un
poderoso sistema di trincee e la costrinse a capitolare per fame. Per il momento fu ristabilita la
pace nella provincia spagnola, anche se una pace definitiva si avrà solamente sotto Augusto.

L’oriente greco e la provincia di “Asia

I possedimenti di Roma in Oriente – Pergamo, Siria, Rodi, Bitinia – erano garantite solo dal timore
della potenza romana, e l’amicizia inconsueta del re di Pergamo, Eumene II, con il re di Siria,
Antioco IV, veniva vista con sospetto. Morto Antioco IV (164) una commissione inviata dal senato
pose sul trono il figlio minorenne del re Antioco V Eupatore, che fu però spodestato da Demetrio,
figlio di Seleuco IV, che viveva ostaggio a Roma e si impadronìdel trono di Siria senza alcuna
resistenza da parte del Senato. Dopo un lungo governo (162-145) in cui Demetrio dette prova di
energia e abilità, questi fu spodestato da un tale Alessandro Balas, responsabile della definitiva
decadenza e del disfacimento dello Stato seleucidico: le province orientali del Regno, fino
all’Eufrate, caddero in mano ai Parti, e alcuni popoli che rimasero a far parte dello stato
acquisirono un’autonomia sempre maggiore, come gli Ebrei sotto la guida dei grandi sacerdoti
della famiglia degli Asmonei di Gerusalemme.
L’Egitto, dopo la crisi sofferta a causa del conflitto tra i fratelli Tolomeo VI Filometore e Tolomeo
VII Evergete, ritrovò la sua pace con la morte del Filometore (146/5) e, alla fine del II secolo, per la
sua salda unità, sapiente amministrazione e ricchezza dell’erario, era ancora la più ragguardevole
Potenza del mondo ellenistico.
A Pergamo, dopo la morte di Eumene II (159) salìal trono Attalo II, che rivolse ogni cura a
conservarsi il favore e la fiducia del senato romano. Da allora i re di Pergamo non cercarono più di
sottrarsi all’egemonia romana, e si interessarono unicamente di favorire la prosperità del loro
regno e le arti della pace. Morendo senza lasciare figli, Attalo II destinò il trono a un suo nipote,
figlio naturale di Eumene. Il nuovo re – Attalo III – governò tirannicamente e quando morì, nel 133,
destinò il suo regno e il suo tesoro ai Romani, richiedendo solamente che a Pergamo e alle altre
città del suo Stato fosse riconosciuta la libertà. Il senato, affrettatosi a mettere le mani sul regno di
Attalo III, incontrò l’ostilità di Aristonico, fratellastro di Attalo, che suscitò una vera e propria
insurrezione contro la presa di possesso del Regno da parte dei Romani. Il paese fu
definitivamente ordinato soltanto nel 126. I possedimenti pergameni della Tracia furono annessi
alla provincia di Macedonia, del restante territorio venne fatta una nuova provincia, che ebbe il
nome di Asia. Era la settima provincia di Roma, dopo la Sicilia, la Corsica e la Sardegna, le due
Spagne, la Macedonia e l’Africa.

La civiltà italica nel III e nel II secolo a.C.

Sebbene la romanizzazione e la latinizzazione del nord Italia si potrebbe definire quasi totale nel II
secolo, con la fondazione di numerose colonie (le colonie latine di Bononia nel 189 con 3000
coloni, nel 188 Forum Livi, nel 187 Forum Regium Lepidi, nel 180 Lucca, e le colonie romane di
Luna nel 177, Modena e Parma sempre in quegli anni, e infine la colonia latina di Aquileia nel 181,
che per il numero di coloni ed estensione del territorio che arrivava fino a 2500 kmq era destinata
a diventare il più saldo baluardo della latinità ai piedi delle Alpi orientali) lo stesso non si poteva
dire del centro e del sud Italia, i cui territori erano abitati ancora da popoli alleati di differenti
linguaggi e civiltà – Etruschi, Umbri, Campani, Sanniti, Sabelli, Apuli, Lucani, Bruzi – e dove la
presenza di coloni latini e romani era proporzionalmente assai meno elevata. Le ragioni per cui si
era ancora ben distanti da un’unità etnicamente e moralmente compatta sono da ricercarsi in
primis nel disinteresse da parte di Roma per l’unificazione nazionale dell’Italia, lasciando piena
libertà ai popoli alleati di parlare la propria lingua e coltivare le proprie tradizioni, limitandosi a
instillare in loro il sentimento del comune destino e della comunanza di interessi fra essi e Roma.
La seconda ragione era la volontà da parte della politica romana di agire nel conservatorismo,
innalzando continuamente barriere tra i cittadini e i soci, specialmente dopo la discesa di Annibale
in Italia. L’opera di romanizzazione fu affidata pertanto prevalentemente all’unificazione
monetaria e alla comunanza di interessi commerciali che legava Roma ai suoi alleati, che
godettero sul piano economico e commerciale di piena parità con i cittadini di Roma. Infine la
romanizzazione del centro e del sud Italia avvenne nell’opera di affiatamento e di fusione che si
compiva quotidianamente nell’esercito e nella vita militare. Ma il processo di romanizzazione
avvenne anche al contrario, ovvero con la confluenza nell’Urbe di popoli e civiltà differenti la
civiltà latina si arricchiva culturalmente e nel tempo assumeva connotati di identità nuovi.

La vita spirituale e religiosa a Roma nel II secolo a.C.

I sempre più frequenti e profondi rapporti con il mondo greco dal III secolo in poi agirono
sensibilmente sullo spirito e sul tenore di vita romano, e non sempre a vantaggio di questo. Nel II
secolo la civiltà ellenistica penetrava a Roma ad opera di commercianti, soldati, ambasciatori,
banchieri, schiavi, fuorusciti, letterati, artisti, filosofi. I doni eccellenti che la civiltà greca poteva
ancora largire – nel campo delle scienze, delle arti, delle lettere e della filosofia – erano destinati a
una ristrettissima cerchia di cittadini eletti. Alle moltitudini di Romani e Italici invece la Grecia
diede di sé un’immagine ben diversa: indifferenza e incredulità nella religione, scetticismo nella
morale, corruzione della vita privata e famigliare, l’amore del denaro come strumento di
soddisfacimento delle passioni, nella vita politica spettacolo di disonestà, viltà e ambizione.
Si comprende facilmente in questo quadro l’avversità di Catone nei confronti dell’ellenismo: non
era solamente rozzezza d’anima e ostinato conservatorismo, ma il pericolo di una degenerazione
delle mirabili virtù civiche del cittadino romano, che gli valsero il dominio del mondo ed erano le
sole che gli avrebbero permesso di conservarlo. La sua azione e il suo esempio suscitarono nella
società romana un più vigile senso di dignità e amor proprio tendenza, tant’è che nel II secolo si
ravvisava nel cosiddetto circolo dei Scipioni, e in special modo in Scipione Emiliano,
quell’armonioso raccordo tra tutto ciò di bello che la cultura greca offriva e la gelosia degli alti
valori della virtù e della tradizione romana.
Durante il II secolo si riuscìad esercitare un controllo ancora abbastanza rigoroso dei culti che
penetravano a Roma dall’Oriente, e in particolar modo del dilagante culto bacchico, che dopo un
iniziale diffusione in Etruria trovò sempre più seguaci anche nell’Urbe. Messo in allarme dalle
notizie, in parte esagerate, che correvano su queste cerimonie, il senato, aperta un’inchiesta,
ordinò che fossero sciolte tutte le associazioni costituitesi per praticare quel culto e che tutti gli
affiliati riconosciuti colpevoli contro la morale pubblica e privata venissero condannati alle pene
più gravi, anche quella capitale. Fu emanato nel 186 quel famoso sanatus-consulto de
Bacchanalibus, il quale vietava, per l’avvenire, la costituzione, a Roma e in Italia, di associazioni
eventi per scopo il culto bacchico. Da allora in poi fu questa la norma alla quale senato e Pontefici
massimi si attennero rigidamente, per un secolo e più, in fatto di accoglimento di riti stranieri
giudicati impraticabili con il costume e le tradizioni religiose romane. L’episodio più notevole di
queste misure di polizia, dopo i Baccanali, fu l’espulsione degli astrologi orientali, i cosiddetti
caldei, ordinata nel 139 a. C.

Condizioni sociali ed economiche

La crisi sociale ed economica che nella Repubblica del II secolo durava già da un secolo, è da
attribuirsi principalmente all’incapacità dell’oligarchia dominante, tradizionalista e gelosa delle sue
prerogative e dei suoi privilegi, di adattarsi alle mutate esigenze della società da essa governata. I
pregiudizi dell’aristocrazia nei confronti delle attività industriali e di quelle mercantili, fecero sì che
di tutte le abbondanti ricchezze che confluivano a Roma, e che derivavano da indennità di guerra,
tributi imposti alle province, commerci esercitati in condizioni che si possono definire di
monopolio in tutte le regioni del Mediterraneo, godesse solamente una ristretta classe di
capitalisti, dediti ai commerci, agli appalti dei lavori pubblici, delle forniture militari e dei tributi
provinciali (publicani) e reclutati quasi tutti fra i cittadini di censo equestre, cioè fra gli equites. Il
disinteresse nei confronti di una legislazione che regolasse questi intensi traffici, fece sìche anche
dopo Zama, Cartagine e Utica godessero di piena libertà commerciale con la Sicilia, e Marsiglia
continuasse ad arricchirsi sui traffici dell’alto Tirreno. Questo non significa che
un’industrializzazione a Roma fu del tutto assente, se non altro per far fronte alle esigenze
dell’accresciuta popolazione della città, di cui fu responsabile anche l’inurbamento della
popolazione rurale impoverita. Ne fa fede la progressiva organizzazione, autorizzata dallo Stato,
degli operai di condizione libera in collegi o corporazioni di mestiere, la prima delle quali fu quella
dei fullones, regolata dalla legge Metilia nel 217 a.C., cui si aggiunse presto quella dei fabri,
aurifices, dei fictores, ecc. Ma i maggiori centri industriali e commerciali si trovavano tutti fuori
d’Italia; e la stessa Pozzuoli, il grande porto a cui affluivano quasi tutte le merci orientali destinate
all’Italia, non potevano tenere il paragone con porti di Efeso, di Rodi, di Alessandria, di Corinto.
Rodi in particolare, oltre a dominare gran parte del commercio asiatico, svolgeva un’attività
industriale assai intensa nella fabbricazione di vasi e di armi e materiale da guerra e nelle
costruzioni navali: con diritti di entrata e di uscita delle merci, fissati nella cifra del 2% il porto
assicurava alla città un’entrata di 200 talenti annui. Tuttavia il commercio di Rodi fu gravemente
danneggiato dall’istituzione del porto franco di Delo, assegnato ad Atene. Anche Corinto cadde
poco dopo, nel 146, che insieme alla Calcide è stato uno degli empori più fiorenti tra la fine del III e
la metà del II secolo.
I liberti arricchiti invece, in seguito all’apertura nei loro confronti dell’ordine equestre,
rappresentarono la piaga più grave della società romana dal II secolo in poi. Questi, fin da antico,
avevano diritto alla cittadinanza. La loro condizione si avvantaggiò quando da pochi che erano e
con scarso peso politico, rimanendo esclusi dalle tribù e quindi dai Comizi Tributi e con nullo
potere in quello dei Comizi Centuriati, relegati com’erano nella Centuria dei capitecensi, ottennero
con la proposta di Fabio Rulliano (306) che quanti non possedevano beni fondiari fossero iscritti
nelle quattro tribù urbane. Per limitare il loro potere tra il 230 e il 220 fu varata una legge che
relegava nelle quattro tribù rustiche tutti i liberti, anche se proprietari di fondi rustici. Tuttavia,
dopo la seconda punica, in seguito al valore e allo spirito di sacrificio dimostrato dai liberti, il
senato non poté più continuare a limitarne il peso politico. Pertanto, nel 189, con un plebiscito di
Q. Terenzio Culleone, i figli dei liberti acquisivano la condizione di cittadini a pieno titolo. Dieci anni
dopo, i censori M. Fulvio Nobiliore e M. Emilio Lepido estesero ai liberti che si trovassero in certe
condizioni, il beneficio dell’iscrizione alle tribù rustiche nei quali avessero possedimenti. Tutti gli
altri liberti rimasero, fino alla fine della Repubblica, nelle tribù urbane.
A loro volta, i cittadini delle famiglie nobili, di ordine senatorio, alieni per tradizione e impediti per
legge dallo speculare sul denaro, aumentarono le proprie ricchezze estendo i possedimenti
terrieri, ovvero comperando, occupando, prendendo in affitto estensioni vastissime di ager
publicus (cioè terreno demaniale, confiscato dallo Stato in Italia ai nemici vinti o agli alleati
fedifraghi) sia acquistando dagli agricoltori impoveriti dalle guerre o allettati da facili guadagni e
dalla comodità della vita in città, le loro piccole proprietà, dando luogo al formarsi di vastissime
tenute (latifundia) coltivate da tribù di schiavi, che i mercanti facevano affluire in numero
imponente da ogni zona del Mediterraneo.
Tali fenomeni ebbero per conseguenza: il possesso e l’uso smodato della ricchezza; la speculazione
finanziaria, anche la più disonesta, considerata come forma normale di attività dei capitalisti,
donde sfruttamento feroce, malversazione ed arbitri nel governo delle province; il preoccupante
diradamento della piccola proprietà e affollamento della città, soprattutto di Roma, da parte di
una crescente turba di proletari, e la conseguente crisi militare, rimanendo esclusi dal servizio gli
iscritti alle centurie dei nullatenenti (capite censi).

Le lettere e le armi a Roma nel III e nel II secolo a.C.

Le qualità proprie dei Romani – robusta intelligenza, innato senso del diritto, ossequio della
disciplina nei rapporti pubblici – erano più adatte alla creazione di un solido organismo politico
piuttosto che di una letteratura nazionale. In realtà di nessuna delle stirpi stanziate sulla penisola
venne registrata un’attività letteraria rilevante prima del II secolo. Il fatto che le prime
testimonianze scritte dei Romani fossero testi di diritto, come le XII tavole, o registrazione di
ordine pratico e amministrativo, come i Fasti ei Commentarii redatti dai Pontefici, la dice lunga
sulla concezione che i Romani avevano delle lettere. Il primitivo metro italico, il cosiddetto
saturnio, servìa comporre i più antichi canti sacri di cui serbiamo memoria: il carmen Saliare,
cantato nelle processioni dei Salii attraverso la città, e il carmen fratrum Arvalium, recitato dagli
Arvali per implorare degli dei un pingue raccolto, ma anche versi burleschi.
Fu nel corso del III secolo, con la conquista dell’Italia meridionale e della Sicilia, che la cultura greca
esercitò il suo influsso più efficace e diede un impulso decisivo all’attività letteraria dei Romani, sia
che fosse rappresentata da facoltosi ambasciatori, sia che fosse trasportata da schiavi e ostaggi. Fu
un greco condotto a Roma schiavo da Taranto nel 272, Livio Andronico, che tradusse l’Odissea in
versi saturni, e furono italici elenizzati, come il campano Cneo Nevio e lo iapigio Quinto Ennio che
dettero ai Romani i primi modelli di poesia epica, rispettivamente con il Bellum Poenicum e con gli
Annales; e fu un umbro, Plauto, che seppe vivificare con un genuino spirito indigeno le sue
imitazioni o traduzioni di commedie greche, restando in questo superiore al suo successore e
imitatore P. Terenzio Afro. Solamente con le guerre puniche si ebbero i primi prodotti della prosa
letteraria romana nel campo della storia, che seppero dare alla storia romana quell’impronta
nazionale che troverà in Tito Livio il suo massimo interprete. Non va taciuto il lodevole tentativo di
Catone di prendere le distanze dalla letteratura greca, con un trattato sull’agricoltura e la sua
opera storica sull’Italia antica (Origines).
E nel corso del II secolo i Romani iniziarono, anche se limitatamente, ad assuefarsi anche alla
speculazione filosofica, con la diffusione di dottrine orfiche e pitagoriche e l’incredibile popolarità
riscossa da stoici, epicurei e scettici. Nonostante il Senato tentò di tenere alla larga dall’Urbe i
filosofi, limitandone il soggiorno, nel 159 riscuoteva gran successo l’insegnamento dello stoico
Cratete di Mallo e, nel 155, quello di Carneade. Pochi anni dopo la società colta romana si
raccoglieva attorno allo stoico Panezio e al suo allievo Posidonio, filosofo e storico continuatore di
Polibio. Per quanto riguarda l’arte invece, negli ultimi due secoli della Repubblica l’influsso greco
sottentrò a quello etrusco, che però non perìdel tutto e venne recuperato nella volontà, in epoca
imperiale, di creare uno stile originale romano indipendentemente dall’arte greca che veniva
importata. Inoltre dall’Oriente vennero importate numerose statue per celebrare le vittorie dei
Romani e abbellire i loro trionfi.

Gli ordinamenti della Repubblica nel II secolo avanti Cristo

Il sistema provinciale

Se durante la prima metà del II secolo non vi furono cambiamenti formali nella costituzione
repubblica, ne mutò radicalmente invece lo spirito. Allo sviluppo formale contribuirono due fatti di
notevole importanza: l’applicazione su larga scala del sistema provinciale; il conseguente aumento
dei magistrati. “Provincia” che inizialmente nacque per indicare la competenza specifica dei singoli
magistrati con imperio e il campo d’azione assegnato, diventa una magistratura stabile preposta al
governo della Sicilia e della Sardegna, magistratura che trova sua espressione nella carica del
“pretore” e il termine provincia viene a indicare d’ora in poi i governi dei territori amministrati dai
pretori e gli stessi territori. Con l’introduzione dei pretori, a livello costituzionale non si faceva che
aumentare il numero di magistrati forniti d’imperio, che da quattro (due consoli e due pretori
dell’Urbe, uno urbano e uno peregrino) diventavano sei; ma nella realtà l’imperio del pretore
provinciale, se da una parte riuniva in sé le prerogative militari e civili del console e del pretore
urbano, dall’altra si spingeva oltre, in quanto non soggetto alle limitazioni della collegialità e del
veto tribunizio, e non era subordinato alla provocazione (da parte dei non cittadini). Di fatto i
poteri del pretore, nella sua provincia, erano assoluti; poteva disporre liberamente delle persone e
dei beni dei provinciali, ai quali non restava altra garanzia che rivolgersi al Governo centrale per
denunciare abusi e soprusi ai loro danni.
Altra conseguenza dell’istituto delle province, assai grave, fu il diffondersi degli appalti statali e
quindi della professione di appaltatore, oramai diventata indispensabile considerato il disinteresse
del Governo romano nei confronti della burocrazia e della relativa gestione delle spese (lavori
pubblici, armamenti e vettovaglie militari) e delle entrate (concessioni di agro pubblico, diritti di
pascolo, dazi portuali). La categoria degli appaltatori era composta da capitalisti privati che si
assumevano tali carichi o singolarmente o riuniti in società.
L’istituzione su larga scala di tributi provinciali non fece avvisare alla necessità di amministrarli
direttamente da parte dello Stato con impiegati e funzionari propri, ma non fece che suggerire un
allargamento dell’attività degli appaltatori (o publicani) che formarono così il nucleo della futura
classe capitalistica romana. Se non consideriamo i soprusi di pretori e appaltatori alle popolazioni
locali, vi furono senza dubbio indiscutibili meriti di questo sistema amministrativo:
un’amministrazione razionale, un incremento vigoroso ai commerci, all’industria e all’agricoltura,
la pace fra popolazioni rissose che si contendevano spesso il dominio anche solo di piccoli lembi di
terra e la diffusione di una cultura unificata, quella ellenistico-romana, favorita dalla fondazione di
colonie e dalla costruzione di grandi strade di comunicazione.
Parallelamente allo svilupparsi dell’istituto provinciale si perfezionò il sistema del dominio
indiretto di Roma, con la creazione di piccoli e grandi Stati, protetti o clienti del popolo romano:
Stati legati a Roma da un trattato d’alleanza, nel quale veniva fatto espresso riconoscimento della
“maestà” del popolo romano di fronte all’alleato (es. il Regno di Massinissa, le quattro repubbliche
macedoni tra il 166 e il 148, la Lega etolica dopo il 181, la stessa Cartagine dopo la pace del 201 e il
regno di Siria dopo la pace di Apamea). Questi stati accettavano con il trattato d’alleanza
limitazioni alle loro forze militari e all’uso di esse, subordinavano la loro politica estera al
beneplacito del senato romano, condizionavano l’elezione o la successione dei loro monarchi sul
trono alla ratifica di Roma, s’impegnavano a offrire contingenti e forze navali agli eserciti di Roma.
Sul piano della politica interna invece mantenevano piena libertà d’azione e di decisione.

Le magistrature

Nel III e nel II secolo le magistrature furono protagoniste di un aumento del loro numero e in un
accrescimento nella loro autorità e autonomia. I magistrati forniti d’imperio, dalla fine della prima
guerra punica alla metà del secondo secolo (70 anni circa) aumentarono da quattro a otto,
aggiuntosi il comando delle province di Sicilia, Sardegna e delle due Spagne. Non si ritenne
opportuno aumentare il numero delle magistrature in seguito alla fondazione delle province di
Macedonia, Africa e Asia, preferendo assegnare il loro governo a pretori che rimanevano in carica
per due anni e il cui imperio poteva essere prorogato. Aumentava, insieme al numero dei pretori,
anche quello dei questori: e crebbe anche il numero dei funzionari subalterni assegnati ai singoli
magistrati o ai collegi. In questo modo il potere esecutivo acquistava una continuità d’indirizzo e
d’azione che difficilmente si sarebbe potuta ottenere da magistrati che rimanevano in carica
solamente un anno. La collegialità, declinata già con la sua scomparsa nei riguardi del pretore
provinciale, non costituiva più una limitazione significativa nemmeno per i consoli, che oberati di
comandi e di mansioni finivano per spartirsi il dominio degli oneri a cui erano preposti, in modo
tale che l’uno finiva con l’occuparsi di problematiche differenti da quelle del suo collega.
L’oligarchia romana, preoccupata dalla crescente potenza dei magistrati, corse ai ripari. In primo
luogo applicando più severamente la collegialità nell’elezione dei magistrati: il popolo eleggeva il
numero fissato di pretori e di questori, ma soltanto la sorte distribuiva fra essi il comando delle
province. Altro provvedimento fu quello di rendere rigoroso il divieto della continuazione di una
stessa magistratura: divieto al quale non si derogò più dal 214 sino ai consolati di Mario. Anche il
divieto di poter essere eletti a una stessa magistratura non prima che fossero trascorsi 10 anni
dall’aver ricoperto l’ultimo magistero, non ebbe più deroghe all’infuori di quella eccezionale del
152. Alle proroghe dei comandi delle province non si poteva rinunciare fino a quando il numero di
comandanti con imperio fosse stato inferiore a quello delle province, soprattutto per ragioni
legate alla complessità di operazioni militari e amministrative che richiedevano continuità.
Tuttavia la pericolosità di una prorogazione incontrollata fu limitata devolvendo la decisione della
proroga dal popolo al senato. Per evitare infine che un magistrato rimanesse al comando troppo a
lungo, ricoprendo una magistratura dopo l’altro e colmando gli intervalli con le proroghe, venne
varata una legge nel 180 su proposta del tribuno L. Villio che riconfermava un divieto esistente già
dal III secolo e che proibiva di ricoprire l’edilità curule, la pretura e il consolato se non con
l’intervallo di un anno tra una magistratura e l’altra, divieto a cui si era spesso derogato durante la
seconda guerra punica e le guerre in Oriente. Con la legge Villia l’intervallo fu esteso a due anni,
mentre nel 196 venne riconfermato l’intervallo annuo per le magistrature plebee.
Alla legge Villia seguirono provvedimenti simili che riconfermarono quel certus ordo magistratuum
che era già presente nella consuetudine e che prescriva l’obbligo di aver ricoperto la questura per
candidarsi alla pretura, e la pretura (non l’edilità) per essere eletti al consolato; né si poteva essere
tribuni militari senza aver sottostato per almeno 5 anni agli obblighi di leva, né iniziare il cursus
honorum senza avervi sottostato per 10. Cominciando l’obbligo militare a 17 anni, non si poteva
diventare tribuni prima dei 22, ricoprire la questura prima dei 27 ed essere eletti consoli prima dei
32 o dei 36, se si era ricoperta anche l’edilità curule.

Predominio della nobiltà

Dall’infausto evento di Canne in poi il senato tenne ininterrottamente il più assoluto dominio della
Repubblica; le lunghe guerre e la necessità di un’azione diretta con continuità e omogeneità aveva
reso il senato, di fatto, il supremo organo direttivo dello Stato. Accanto al senato cominciava a
farsi potente l’ordine equestre, cioè quella categoria di cittadini ricchi che i censori segnavano
nelle liste di coloro che avevano il diritto (e il privilegio) di prestare servizio militare in cavalleria.
Come i senatori, anch’essi si contraddistinguevano per l’anello d’oro e la tunica orlata di una
stretta striscia di porpora (i senatori invece ne avevano due e indossavano anche i caratteristici
calzari alti con lacci incrociati). All’ordine equestre appartenevano perlopiù famiglie di bassa
condizione arricchitesi rapidamente con commerci, forniture di guerra, appalti di lavori pubblici e
delle imposte. I plebei poveri, i clienti, i liberti, i peregrini, ossia gli stranieri domiciliati nel
territorio della Repubblica (tutti insieme i populares, distinti dagli optimes, che raccoglievano in sé
senatori e cavalieri) non avevano altro potere decisionale all’infuori dei Comizi e per mezzo dei
tribuni della plebe. Una volta ratificati i plebisciti a leggi dello Stato, i Comizi Tributi crebbero
d’importanza e divennero, nel corso del II secolo, i principali Comizi della Repubblica, alla cui
votazione si rimetteva la maggior parte delle leggi e delle elezioni: soltanto i magistrati superiori
(consoli, pretori, censori) seguitarono ad essere eletti nei Comizi Centuriati. Ai Comizi Tributi
presentavano ordinariamente le leggi da votare i tribuni della plebe, che non sempre
rappresentavano genuinamente gli interessi dalla plebe più povera quanto più spesso gli ottimati
ottenevano di far eleggere al tribunato uomini che erano legati agli interessi della nobiltà di cui il
Senato di serviva per far presentare ai Comizi certe proposte di legge di cui gli premeva la sicura e
rapida approvazione, o per promuovere inchieste sull’operato dei magistrati.

M. Porcio Catone e i processi contro gli Scipioni

Dei processi giuridici si servìin particolar modo M. Porcio Catone, che entrato nel senato in
seguito ad aver ricoperto regolarmente il cursus honorum (carriera militare, questore al seguito di
Scipione in Africa, edile plebeo nel 199 e subito dopo pretore, governando lodevolmente la
Sardegna) avviò una battaglia giudiziaria contro Scipione e la sua dinastia. Questi, che tra il 199 e il
184 fu all’apogeo della sua potenza, con le aspirazioni ad una politica mondiale impensieriva quei
senatori che vedevano nella commistione con altre culture un pericolo per il severo tenore di vita
e le virtù famigliari della società romana. Questa ostilità si risolse in una serie di processi politici
che culminarono in accuse pesanti contro Scipione l’Africano e il fratello Lucio, chiamati a rendere
conto della condotta in guerra contro la Siria. In particolare l’accusa si accanìsu un episodio della
guerra che vide re Antioco restituire il figlio di Scipione senza riscatto per ingraziarsi il vincitore.
Scipione, forte del suo orgoglio e della popolarità di cui godeva a Roma, si sottrasse al processo;
Lucio, condannato per peculato, sarebbe stato tradotto in carcere dai due tribuni della plebe che
avevano sostenuto l’accusa, se non fosse stato per l’intercessione di Tiberio Sempronio Gracco,
che nonostante la sua avversità agli Scipioni era sdegnato che si giungesse a fare una cosa tanto
aliena alla dignità dell’impero. Publio si ritirò allora a vita privata, nella sua villa di Literno, dove
morìnel 183. Eletto alla censura nel 184, Catone vi esplicò quella molteplice attività contro il lusso
e l’immoralità, che lo rese famoso: purgò nel modo più rigoroso liste di senatori e cavalieri,
introdusse la massima severità nelle aste degli appalti, cercò di ostacolare la decadenza dei
costumi e le invadenti mode elleniche. D’altra parte nulla fece per avviare la nobiltà romana verso
una maggiore comprensione delle esigenze e dei bisogni del popolo; e se è vero che vagheggiò e in
parte patrocinò l’estendersi della colonizzazione romana, non fu sostenuta dallo stesso ardore con
cui combatté i suoi avversari di partito e di idee.

Decadenza dei popolo e l’autonomia dei soci

All’accrescimento dei poteri e del numero dei magistrati e l’incontrastato e inevitabile predominio
del senato nella Repubblica, seguìun inevitabile affievolimento dei diritti e della potenza del
popolo, anche se non vi furono cambiamenti costituzionali in questo senso.
Cittadella della potenza del popolo rimanevano i comizi, in essi il popolo esplicava le sue mansioni
elettorali, legislative e giudiziarie. Tuttavia l’espansione del territorio cittadino a gran parte della
penisola italica rendeva materialmente impossibile alla più gran parte degli iscritti alle tribù di
intervenire ai comizi, e del resto il loro potere si esauriva a dare il consenso a decisioni prese
previamente da pochi candidati nobili che cercavano di sopraffarsi l’un l’altro con i voti della plebe
urbana e con quelli delle loro numerose clientele, che i nobili facevano confluire a Roma a loro
spese; spesso la consultazione del popolo si si riduceva a una mera formalità, in quanto doveva
dare il proprio assenso a delicate questioni di politica estera e militare per le quali solamente il
senato aveva le facoltà richieste per prendere le decisioni più appropriate.
Nei Comizi Centuriati il popolo esplicava il suo notevolissimo potere giudiziario, il quale gli
proveniva dal diritto riconosciuto al cittadino romano condannato a morte, di appellarsi al popolo
(con la lex Valeria de provocatione dell’anno 300 a.C.). Tuttavia l’estensione di questo diritto ai
cittadini romani residenti nelle province e i soldati ne rese impossibile l’esercizio da parte dei
Comizi Centuriati: si cominciò allora a istituire, per speciali delitti, giudizi straordinari, le sentenze
dei quali non erano sottoposte alla provocazione in quanto pronunciate non da magistrati ma da
giudici cittadini, che il magistrato nominava scegliendoli, per lo più, nella lista dei senatori. Questi
giudizi straordinari si trasformarono nel tempo in tribunali permanenti (quaestiones perpetuae);
nell’anno 149, istituendosi il primo di essi, cioè la quaestio perpetua de repetundis, si sancìanche
che i giudici dovessero scegliersi tra i senatori.
Il venir meno dell’esercizio da parte del popolo dello ius provocationis segnò il rapido declino dei
Comizi Centuriati; mentre crescevano in importanza e prestigio i Comizi Tributi, convocati e
presieduti dai tribuni della plebe, che ormai erano diventati un magistero la cui ambizione iniziò ad
essere inseguita anche da giovani nobili che, al principio della loro carriera politica, desideravano
di farsi ben volere dal popolo ma soprattutto dai senatori, che incaricavano sempre più spesso i
tribuni di presentare proposte di legge di cui urgeva l’approvazione, oppure di porre il veto a una
legge presentata da un tribuno collega e che veniva giudicata pericolosa per l’interesse dello Stato.
Cambiarono anche i rapporti della Repubblica con i suoi alleati italici, in seguito all’alterazione
delle proporzioni numeriche e territoriali fra stati italici e cittadini romani, per il progressivo
espandersi di questi ultimi nel territorio della penisola e per l’accoglimento di sempre più
numerosi elementi nella cittadinanza romana. La perequazione che di diritto si manteneva ancora,
alla metà del III secolo, fra cittadini romani e soci italici, andava ormai venendo meno: già nel 232
l’assegnazione viritana dell’agro piceno e gallico, voluta da Flaiminio, aveva alterato
quell’equilibrio. La ripartizione dei vantaggi conseguiti nelle guerre vittoriose che si combattevano
fuori d’Italia, si faceva a tutto vantaggio dello Stato Romano; Roma incorporava i territori
confiscati ai nemici, dichiarava sudditi o suoi protetti i re e i popoli vinti, l’erario romano si
impinguava delle enormi indennità di guerra e ad esso solo andavano i redditi delle province; ed
anche il bottino di guerra (toltone quanto veniva diviso in parti uguali fra tutti i soldati romani e gli
alleati) veniva devoluto per intero al tesoro della Repubblica. A ciò si aggiunga la notevole
differenziazione giuridica che aveva investito soldati alleati e romani con l’estensione del diritto di
provocazione contro le sentenze capitali pronunciate dal generale ai soli soldati romani e dopo che
una legge Porcia proibì l’uso delle verghe contro i cittadini romani, così in città come nelle
province e al campo di battaglia.
Un altro aspetto che mutò i rapporti tra Roma e gli Italici, era costituito dall’intervento, sempre più
frequente negli affari interni degli alleati; intervento inevitabile, del resto, ogni volta che si
presentasse la necessità di provvedimenti – comuni a tutta l’Italia o a più nazioni italiche. Uno di
questi fu il sentausconsultum de Bacchanalibus.
Per quanto riguarda i Latini invece sempre più spesso fu concessa la cittadinanza anche a quelli
città che perversavano nella condizione di cive sine suffragio, sicché sempre più Latini acquisirono
la cittadinanza romana anche approfittando di quella legge che elargiva la cittadinanza romana ai
Latini che prendessero la residenza presso Roma. Il numero dei Latini andò rapidamente
scemando, non essendo fra l’altro state dedotte altre colonie latine dopo le ultime fondate tra il
202 e il 180 (Copia, Vibo Valentia, Bononia, Aquileia, Luca). Molti Latini si fecero iscrivere nelle liste
dei cittadini in modo fraudolento, tant’è che il pretore Q. Culleone fece scancellare 12.000 di essi
che vennero iscritti nuovamente nelle colonie latine d’origine.

La crisi della repubblica e l’opera dei Gracchi

La trasformazione agraria: latifondismo e schiavismo

Nel II secolo lo Stato Romano vide diradarsi sempre di più, fino a scomparire quasi del tutto, la
piccola e media proprietà. La prima causa fu l’investimento delle enormi ricchezze provenienti dal
bottino di guerra e dall’amministrazione delle province da parte dei senatori, interdetti dal
commercio e dagli appalti, nell’acquisto di terreni agricoli, specialmente in Sicilia e nell’Italia
meridionale, dove le devastazioni perpetrate durante le guerre puniche non permettevano ai
piccoli proprietari di rimettere in valore i loro campi e li costringeva a venderli a prezzi irrisori.
Altra causa fu l’aumento a dismisura del numero degli schiavi, importati dai vari teatri di guerra e
dal mercato d’Oriente; giusto per fare qualche stima, con le campagne di Spagna e di Sardegna
intere popolazioni furono ridotte in schiavitù; così anche nell’Epiro, che multato per diserzione
dovette cedere 150.000 abitanti come schiavi: narra Strabone che in un solo giorno al mercato di
Delo furono venduti e imbarcati 10.000 schiavi per l’Italia. Durante la rivolta del 135 nella sola
Sicilia si contavano 200.000 schiavi. L’utilizzo degli schiavi, il cui prezzo d’acquisto e la spesa di
mantenimento erano bassissimi, eliminò del tutto dalla concorrenza gli agricoltori liberi, che
spesso era tenuti lontani dalle loro terre per prestare il servizio militare. E questo stesso servizio
militare era causa di diradamento demografico degli agricoltori proprietari: dall’inizio degli
interventi in Grecia e in Macedonia, e le contemporanee campagne in Spagna, Sardegna, nella
Cisalpina, nel nord Italia, in Africa, dai 50.000 ai 100.000 cittadini romani e soci italici restavano
permanentemente sotto le armi, e una parte di essi, inesorabilmente, non tornava a casa. Le sole
guerre contro Viriato e i Celtiberi costarono una perdita di 50.000 uomini tra romani e alleati.
Queste furono le cause che spinsero il piccolo e il medio proprietario a disfarsi dei campi, per
reinvestire il provento della vendita in operazioni meno oneste e più lucrose. Si stagliava
all’orizzonte la rovina sociale dello stato e anche quella militare, in quanto la maggior parte dei
proprietari terrieri confluìnelle schiere dei capite censi, esenti dal diritto e dal privilegio di
prestare il sevizio militare, ed erano oramai la maggioranza della popolazione di diritto romano.
Tutta queste plebe si riversò dalle campagne nella città, con la speranza di trovarvi qualche facile
guadagno o di vivere delle elargizioni dei nobili intenti ad accaparrarsi clientele, voti e favore
popolare, per i loro scopi elettorali. La città rigurgitava cosìdi una folla turbolenta e minacciosa.

La questione dell’ager publicus: Tiberio Gracco

In Sicilia, dove i latifondi avevano raggiunto la massima estensione, infuriò tra il 136 e il 132 una
grande sollevazione di schiavi, che devastarono grandi estensioni di territorio e occuparono
parecchie città, compiendovi stragi e saccheggi. Roma si trovò costretta a condurre contro i ribelli
una vera e propria guerra. Tre consoli vennero inviati successivamente sull’isola e soltanto l’ultimo
di essi, Publio Rupilio, poté domare l’insurrezione. Di tale condizione si mostrò pensierosa una
ristretta cerchia della nobiltà, che faceva circolo intorno ai suoi capi migliori, quali P. Cornelio
Scipione Emiliano, Appio Claudio, P. Muzio Scevola, Q. Metello e quel Gaio Lelio, intimo amico di
Scipione, che nel 140 eletto console, tentò invano di rinnovare l’antica legge agraria relativa alla
limitazione di possesso di ager publicus. Le estensione di territorio confiscate ai popoli vinti
vennero adibiti alla deduzione di colonie e vi erano stati insediati cittadini e veterani, mediante le
vaste e benefiche distribuzioni viritane. Tuttavia ne rimasero notevole porzioni che vennero
adibite all’usufrutto da parte di privati, che in cambio del possesso del territorio (che in ogni
momento poteva essere revocato dallo Stato, in quanto rimaneva sua proprietà) pagavano una
tassa annua (vectigal). Questo meccanismo, che avrebbe dovuto favorire l’incremento di
proprietari terrieri, fu uno dei fattori che favorìmaggiormente il latifondismo, poiché la maggior
parte di quei terreni andavano a finire nelle mani dei proprietari più ricchi e potenti. A poco o a
nulla servirono a limitare tali abusi le varie disposizioni regolatrici delle occupazioni emanate in
quegli anni: cioè le leges de modo agrorum e le leges agrarie.
Riforme più radicali vennero caldeggiate, in questo circolo di nobili illuminati, dai due figli di
Tiberio Sempronio Gracco e di Cornelia (figlia dell’Africano): Tiberio e Gaio Gracco.
Tiberio Gracco, colto ed eloquente, segnalatosi più volte durante il suo servizio militare e come
questore nella Spagna con il console Ostilio Mancino, eletto tribuno della plebe nel 133, formulò
una legge agraria con la quale si stabiliva che nessun cittadino potesse conservare il possesso di
più di 500 iugeri (125 ettari) di ager publicus, concedendo un massimo di 1000 iugeri a chi avesse
almeno due figli: l’eccesso di terreno demaniale che non rispettava questi limiti doveva essere
restituito allo Stato (che ne era pur sempre il legittimo proprietario), che avrebbe provveduto a
ridistribuirlo tra i nullatenenti destinando a ciascuno una proprietà di circa 30 iugeri.
Per l’attuazione della legge si sarebbe creata una commissione di tre uomini (tresviri agris
iudicandis adsignandis) che doveva provvedere a riconoscere e ad incamerare nell’agro pubblico i
possedimenti che superassero la misura prestabilita e ad assegnare i lotti ai cittadini nullatenenti.
Il tribuno non agìda rivoluzionario: il patrimonio privato dei singoli rimase intatto, e qualora il
terreno fosse in usufrutto da parte di un privato, la legge prevedeva la possibilità di un indennizzo
per le migliorie apportate al terreno da restituire in modo tale che il possessore ne diventasse il
legittimo proprietario. La riforma di Gracco mirava a consolidare e rafforzare il controllo dello
Stato sul terreno demaniale, arrestare il minaccioso accrescersi di masse di plebe diseredata e
impedire la disgregazione sociale e militare della Repubblica.
Tiberio incontrò la prevedibile e ostinata opposizione del Senato, che guadagnato Marco Ottavio,
un altro tribuno, alla propria causa, fece porre il veto alla legge del collega. Allora Tiberio invitò il
popolo a deporre quel tribuno che non si curava degli interessi della plebe, e Marco Ottavio fu
deposto dal voto dei Comizi, atto rivoluzionario in quanto non previsto dalla costituzione romana.
Dopo di ciò la legge fu votata e la commissione triumvirale istituita e composta da Tiberio, il
fratello Gaio e il suocero Appio Claudio. Inoltre Tiberio fece approvare la proposta che per fornire
ai piccoli proprietari il necessario capitale per sfruttare le terre ottenute venisse impiegato il
tesoro recentemente lasciato in eredità dal re Attalo. Per evitare che la sua persona e la sua opera
venissero messi in pericolo non appena fosse scaduto il mandato di tribuno e la conseguente
immunità, egli ripresentò la sua candidatura al tribunato della plebe per l’anno successivo, che se
non offendeva precise norme di legge, offendeva la buona consuetudine costituzionale. I suoi
avversari, ormai esasperati, fecero scoppiare durante i comizi elettorali un grosso parapiglia:
Tiberio, colto alla sprovvista e non abbastanza protetto dai suoi seguaci (per lo più contadini,
impegnati in quel momento nel lavoro della terra) venne assalito e ucciso. L’uccisione venne, in un
certo modo, legalizzata dall’accusa di aver aspirato Tiberio alla corona regale. Gran parte dei suoi
aderenti vennero sottoposti a processo sommario e condannati a morte dai consoli dell’anno
successivo.

Da Tiberio a Gaio Gracco: le leggi Sempronie

Nonostante la morte di Tiberio, la commissione triumvirale non arrestò i propri lavori; al morto
Tiberio venne sostituito P. Licinio Crasso Muciano, suocero di Gaio Gracco. La legge Sempronia
venne estesa anche agli alleati, che venivano colpiti dai provvedimenti restrittivi ma non potevano
poi godere del beneficio della ridistribuzione in piccoli lotti.
I lamenti e le proteste degli alleati vennero accolte da Scipione Emiliano, reduce dell’assedio di
Numanzia. Egli, che più di ogni altro conosceva ed apprezzava le benemerenze degli Italici verso
Roma, promosse una proposta di legge per la quale i poteri dei triumviri venivano trasferiti ai
consoli (129) che scatenò le ire dei sostenitori dei Gracchi. Una mattina Scipione Emiliano venne
trovato morto nel suo letto.
Il più influente dei graccani, Fulvio Flacco, console nel 125 a.C., per assicurare il funzionamento
della legge agraria e allo stesso tempo venire incontro alle esigenze degli Italici, avanzò la proposta
che essi venissero accolti nella cittadinanza romana e che, in un primo tempo, si concedesse loro
almeno il diritto di provocazione nei confronti di eventuali abusi di autorità da parte dei magistrati
romani. Ma le sue proposte vennero messe in quarantena, il che generò grande agitazione tra gli
alleati. Una gravissima rivolta scoppiò nella grande e fedele colonia di Fregelle, la reazione romana
fu durissima: la città venne distrutta perché servisse da esempio ed impedisse il dilagare di quel
pericoloso movimento, e sul suo territorio venne dedotta la nuova colonia di Fabrateria (124). Il 10
dicembre di quello stesso anno Gaio Gracco, che fino a quel momento assistette alle lotte politiche
in disparte, limitandosi a partecipare ai lavori della commissione agraria, assume il tribunato della
plebe dopo aver ricoperto la questura in Sardegna nel 126 e nel 125. Egli si accinse a riprendere le
lotte incominciate dal fratello, ma su vie del tutto nuove, mirando alla legalizzazione della
rielezione per più anni successivi alla carica di tribuno (già avvenuta in forza di una legge
approvata qualche anno prima) e sulla forza materiale assicurata al tribunato con vincolare ad
esso le moltitudini della capitale: sarebbe stata cosìspianata la via al potere monarchico.
All’inizio della sua carriera propose due leggi, una che vietava la costituzione di ogni tribunale
straordinario contro le cui sentenze non si potesse interporre appello, e l’altra che riconosceva
illegale il provvedimento sommario adottato contro i partigiani di Tiberio. Ripresero anche i
provvedimenti relativi alle leggi agricole già adottati dal fratello, mentre per quel che riguarda
l’esercito fu vietato il reclutamento ai minori di 17 anni. Di contenuto essenzialmente demagogico
fu invece la lex frumentaria, anche questa indubbiamente nei primi mesi del 123, la quale
introdusse a Roma il sistema di concedere in vendita ai cittadini poveri il grano ad un prezzo
“politico” assai basso. La legge favorì l’afflusso nell’Urbe di un proletariato pigro e turbolento e
servì soprattutto a Gaio per assicurarsi il favore e l’appoggio delle masse popolari della capitale.
Come conseguenza seguìla proposta di Gaio della costruzione di grandiosi granai pubblici (horrex
Sempronia) per custodirvi le grandi quantità di grano occorrenti annualmente per le distribuzioni
ai cittadini. La popolarità acquisita con la promulgazione di questo primo complesso di leggi gli
assicurò la rielezione ai comizi di luglio. Pertanto egli dette mano alla seconda parte del suo
programma, che si articolava a tre fini distinti ma sapientemente coordinati: in primo luogo, ad
assicurare allo Stato (e quindi alla propria opera di governo, ch’egli contava di seguitare per molti
anni ancora) proventi larghi e continuativi, con i quali sovvenire alle spese fortissime causate dalla
legge frumentaria e dalla costruzione di granai; secondo, a sfollare la città e le vicine campagne dal
proletariato sfaccendato e prepotente, che poteva, in un prossimo avvenire, diventare motivo di
preoccupazione e causa di debolezza per chi ne aveva fatto ora strumento della sua forza;
finalmente, a legare a sé e alla sua politica l’ordine dei cavalieri, cioè il ceto dei capitalisti,
facendone baluardo del tribunato contro l’opposizione e la reazione senatoriale.
A soddisfare alla prima necessità provvide con una proposta di legge concernente l’ordinamento
della provincia d’Asia, stabilendo che fosse applicato il tributo della decima, come in Sicilia, ma che
esso venisse appaltato dai censori a Roma. La più ricca delle province romane cadeva cosìin balia
di capitalisti senza scrupoli, cioè i cavalieri.
Per allontanare i proletari dalla capitale e per sfollare le campagne dai braccianti disoccupati, Gaio
si affidò a un vasto piano di deduzione di colonie, e fece pertanto presentare dal collega tribuno
Rubrio una proposta di legge relativa alla deduzione di una colonia assai numerosa nel territorio
della distrutta Cartagine.
Infine per diroccare definitivamente la potenza del senato a favore dei cavaliere, Gaio presentò
una legge che decretava che l’albo dei giudici con cui si formavano i tribunali permanenti, le
quaestiones, fosse costituito non più dai senatori ma dai cavalieri. Inoltre una legge presentata
pochi mesi prima mirava allo stesso scopo, prevedendo che il senato procedesse ogni anno
all’assegnazione delle province prima dell’entrata in carica, o dell’elezione, dei magistrati.
Nel 122 Gaio Gracco, all’apogeo della sua potenza, presentò quella proposta di legge che avrebbe
segnato l’inizio del suo declino politico: estendere la piena cittadinanza romana ai Latini e il diritto
latino agli alleati italici, in base al quale quanti si trovavano in Roma potevano esercitare il diritto
di voto in una tribù indicata per sorteggio. Quest’opera di giustizia, che parificava i diritti romani
con quelli di soci latini e italici, provocò il malumore tra le schiere dei suoi stessi sostenitori: la
cittadinanza romana era vissuta come uno straordinario privilegio sia dai poveri che dei ricchi, e
soprattutto era una delle poche prerogative che la plebe di romana poteva vantare sui conterranei
latini e italici. Il senato fece di M. Livio Druso lo strumento di reazione, e questi approfittando del
malcontento della plebe e dei cavalieri, pose il veto alla proposta di Gaio. Approfittando
dell’assenza di Gaio, impegnato nella commissione triumvirale che presiedeva alla fondazione
della colonia Iunonia in Africa, Druso presentò proposte di legge demagogiche per accattivarsi il
favore della plebe, tra cui la deduzione di 12 colonie, ciascuna di 3000 persone delle più povere,
l’esonero per i nuovi proprietari di agro pubblico della contribuzione imposta sopra i terreni
distribuiti con l’applicazione della legge agraria e infine il divieto di battere con le verghe alcuno
dei Latini che servivano nell’esercito. Non si sa se queste leggi furono presentate o approvate dai
comizi, fatto sta che non vi è alcuna testimonianza della loro applicazione. Tornato dall’Africa
Gracco ormai aveva perso il consenso, tant’è che non venne più rieletto tribuno ai comizi di luglio
e a novembre vennero eletti al consolato Q. Fabio Massimo, nipote dell’Emiliano, e L. Opimio, uno
dei membri più intransigenti del senato. Poche settimane dopo (10 dicembre) a Gaio non rimase
che rinunciare al potere. Resosi conto che non appena avesse terminato il mandato della
commissione triumvirale avrebbe perso ogni immunità, tentò di far avanzare la proposta di
abrogare la legge relativa alla fondazione della colonia. Fulvio Flacco, durante il giorno dei comizi
indetti per abrogare la legge, si appigliò ai mezzi rivoluzionari: il senato, che fino ad allora aveva
reagito in maniera pacata, intimò al console Opimio di difendere la Repubblica; questi radunò
rapidamente tutti i senatori e i cavalieri, non avendo a disposizione altre forze militari, in
Campidoglio per salvare le istituzioni dello stato. Gaio e Flacco si rifugiarono allora sull’Aventino,
più per trattare la resa che per organizzare una resistenza oramai impossibile, ma Opimio respinse
tutti i tentativi d’accordo avanzati da Flavio e da Gracco, ai quali venne imposta ripetutamente la
resa a discrezione. Il giorno dopo, con il concorso degli arcieri cretesi, venne dato l’assalto
all’Aventino. Flavio cadde per primo, Gaio si slogò un piede tentando di aprirsi una via di fuga con
il favore degli amici e, attraversato il Tevere, si fece uccidere dal suo servo.

Reazione del Senato e Gaio Mario

Pur mantenendo in vigore la legge agraria, il Senato fece di tutto per limitarne la portata e le
conseguenze. Furono approvate tre leggi:
- divieto di alienazione dei lotti distribuiti dai triumviri, restituendo ai ricchi la possibilità di
assorbire i piccoli fondi ed estendere i latifondi;
- Lex Thoria: da una parte ordinava la cessazione della distribuzione di terre, dall’altra
consentiva che i possessi rimanessero nelle mani degli attuali proprietari, i quali erano però
tenuti a versare un tributo destinato ad alimentare il fondo per le distribuzioni
frumentarie;
- La terza legge infine sopprimeva il tributo, dichiarando proprietà privata le terre fino ad
allora assegnate e quelle legalmente occupate.
Tuttavia non riuscìal Senato di far abrogare la legge giudiziaria, sicché la forza degli ottimati risultò
notevolmente indebolita dal contrasto permanente tra Senato e ceto equestre.
Si presentò in quegli anni sulla scena politica Gaio Mario, che aveva fatto le armi sotto Scipione
l’Emiliano in Spagna e godeva dell’appoggio della potente famiglia dei Metelli, inoltre sposo di una
fanciulla appartenente alla prestigiosa famiglia dei Giuli. Nel 119 è tribuno della plebe, nel 115
pretore. Dopo i Gracchi è stato il primo capo dei Populares dell’ultimo secolo della Repubblica, di
coloro cioè che, usciti dai ranghi degli homines novi, si fanno piedistallo delle forze delle masse
popolari per penetrare nella chiusa e ben difesa cittadella della nobilitas.
Mario si distinse nella guerra che Roma dovette affrontare in Africa settentrionale alla morte di
Massinissa, rimasto fedele ai Romani e lasciato il regno al figlio Micipsa. Nel 118 a.C. muore
Micipsa, e lascia eredi al regno i figli Aderbale e Iempsale, nonché il nipote Giugurta, giovane
ambizioso ed energico, nonché amico di molti giovani nobili romani, che aveva comandato il
contingente degli ausiliari numidici presso l’esercito romano che in quel momento stava
assediando Numanzia e in quell’occasione si era guadagnato l’amicizia e la stima di Scipione
l’Emiliano. Giugurta ben presto fece fuori Iempsale e non esitò a uccidere anche il fratello
Aderbale, nonostante Roma gli avesse imposto il rispetto dello stesso. Quando questi fu ucciso
nella piazzaforte di Cirta trovarono la morte anche tutti i mercanti italiani che vi risiedevano, alche
i populares insorsero affinché si dichiarasse guerra a Giugurta. Nonostante il Senato fosse restio a
guerreggiare con Giugurta, i comizi del popolo, aizzati contro la contro la nobiltà dal tribuno Gaio
Memmio, approvarono nel 111 a.C. la dichiarazione di guerra. I Romani si fecero battere
vergognosamente e a più riprese dal re Numida, finché nel 109 il comando della guerra fu affidato
al console Q. Cecilio Metello, che si avvalse del concorso di Mario. Giugurta fu vinto in due
battaglie (108 a.C.) tuttavia l’alleanza di Giugurta con il suocero Bocco, re di Mauritania, impedì a
Metello di portare rapidamente a conclusione l’esito della guerra. L’opinione pubblica insistette
allora affinché il comando fosse affidato al luogotenente di Metello, Mario, che aveva abilmente
condotto dall’Africa una campagna di denigrazione a discapito del suo capo e protettore. Eletto
console nel 107, Mario sconfisse ripetutamente Giugurta e Bocco: Giugurta fu trasportato a Roma
e giustiziato, le trattative di pace con Bocco furono condotte da L. Cornelio Silla, questore di Mario
e il Regno di Numidia non fu annesso, ma la parte orientale di esso fu affidata a un nipote di
Massinissa, il principe Gauda, la parte occidentale lasciata al re di Mauritania. Tornato a Roma,
Mario celebrò il trionfo e venne rieletto console per l’anno 104 a.C.

L’ascesa di Mario

Tornato a Roma, Gaio Mario fu costretto ad affrontare la grave minaccia che i Cimbri e i Teutoni
esercitavano sui confini settentrionali della penisola italica: costretti ad abbandonare per ragioni
ignote la Germania settentrionale, i Cimbri furono costretti ad emigrare verso sud, comparendo,
nell’anno 113, sui valichi delle Alpi Orientali, dove avevano sconfitto, presso Noreia, il console
Papirio Carbone. Dopo aver quindi retroceduto per poi ricomparire qualche anno più tardi nelle
regioni della Gallia, al di qua del Reno, furono fronteggiati dai Romani che si impegnarono a
difendere la provincia della Narbonese e i popoli della Gallia loro amici, riuscendo a distruggerne
gli eserciti ad Arausio nell’ottobre del 105 e provocandone la perdita di 60 mila uomini.
In quell’occasione Mario venne rieletto console nel 104 e ne approfittò per attuare alcune
sostanziali riforme dell’esercito che avrebbero inciso profondamente nella storia repubblicana per
gli anni a venire. Già nel 107, nell’atto di indire la leva per preparare i complementi da portarsi
appresso in Numidia, ricorse a un espediente che era stato adottato solo qualche volta durante la
seconda guerra punica, ovvero arruolò nelle legioni come soldati volontari i capitecensi, ovvero i
nullatenenti. Il servizio militare era così destinato a diventare un’occupazione per chi non ne aveva
altre, un mestiere che diventava più o meno redditizio a seconda del trattamento che il generale
riservava ai suoi soldati, con la conseguenza che si crearono legami sempre più forti tra i
comandanti e i suoi soldati, che si consideravano al servizio del loro duce ancor prima che della
Repubblica. Radicali trasformazioni vennero apportate anche nella tattica della fanteria legionaria,
con la creazione di una nuova unità tattica, la coorte: il comandante della legione poteva così
disporre di dieci unità leggere, facili a maneggiarsi e a spostarsi, dotate di piena autonomia in
combattimento, ma abbastanza forti per assolvere da sole compiti tattici notevoli. Portato a 6000
fanti l’effettivo della legione, ogni coorte si ritrovò ad avere una forza di 600 uomini (contro i 150
dei manipoli del precedente ordinamento).
Rieletto console nel 103, Mario impiegò l’inverno ad addestrare le sue numerosissime reclute e a
scavare un nuovo canale di sbocco alle foci del Rodano, la fossa Mariana, destinato a facilitare le
comunicazioni con l’Italia per via marittima. Recatosi a Roma per le elezioni consolari nell’autunno
del 103, venne rieletto console per l’anno 102. Tornato in Gallia apprese che le quattro genti
barbare avevano deciso di tentare l’invasione dell’Italia per due vie separate: Teutoni e Ambroni
per la via del litorale ligure, Cimbri e Tigurini per il Brennero e i passi delle Alpi Giulie. Mario
quindi, appostatosi sul basso Rodano, sbarrò la strada ai Teutoni e ne distrusse l’esercito presso
Aquae Sextiae, facendone prigioniero il capo Tetutobodo nell’autunno del 102, mentre il collega
Lutazio Catulo si faceva incontro ai Cimbri che scendevano dal Brennero. Dopo aver riunito il
proprio esercito con quello di Catulo, nel luglio del 101 Mario batteva i Cimbri ai Campi Raudii,
presso Vercelli, annientandoli. Mario, rieletto console per il 101, fu salutato al suo ritorno
salvatore della patria e secondo Romolo. I popolari trovarono dunque il loro uomo.
Nel 100 il partito popolare si assicurò la guida e l’appoggio dei suoi capi più potenti e abili: Mario
ebbe il consolato per la sesta volta, Gaio Servilio Gluacia fu eletto pretore e Lucio Appuleio
Saturnino tribuno della plebe. Quest’ultimo presentò leggi per la distribuzione di terre ai
nullatenenti e ai veterani di Mario e per la fondazione di colonie. Nonostante l’opposizione della
nobiltà e dei cavalieri, la votazione nei Comizi, appoggiata dai veterani di Mario, riuscìfavorevole
alle proposte di Saturnino. Per impedire che con manovre ostruzionistiche venisse sabotata
l’esecuzione delle leggi, Saturnino si avvalse di un atto che fu giudicato rivoluzionario non solo da
senatori e cavalieri, ma dallo stesso Mario: aggiunse alla deliberazione una clausola la quale
imponeva che tutti i magistrati e senatori giurassero la legge entro cinque giorni. Mario stesso
giurò “in tutto quello che fosse consono alla costituzione.” Il contegno indeciso di Mario indebolì
assai il partito popolare. Alle elezioni del 99, Saturnino ripresentò la sua candidatura al tribunato e
Gluacia quella al consolato, contro la norma costituzionale che esigeva un intervallo di due anni fra
una magistratura e quella di rango superiore. Durante i comizi elettorali, Saturnino e Glaucia
tentarono di superare con la violenza la forte opposizione della nobiltà e dei cavalieri. In una zuffa
fu ucciso Gaio Memmio, il candidato avverso a Glaucia: ciò servìda pretesto per emenare un
senatusconsultum ultimum (seconda volto dopo il 121). I cittadini vennero chiamati alle armi, fu
ordinato ai consoli di riportare l’ordine nella città. Preso il comando delle truppe assalì i ribelli e li
costrinse alla resa. Nonostante egli cercasse di salvare loro la vita, furono tutti massacrati dalle
masse aizzate dagli ottimati. Mario perse definitivamente l’appoggio dei populares, la sua carriera
politica era finita. Troppo compromesso con i popolari per godere dell’appoggio del senato. Con il
pretesto di un’ambasceria in Asia fu allontanato da Roma, e di lui per un po’ non si parlò più. Le
leggi di Saturnino vennero abrogate, Q. Cecilio Metello richiamato in patria.

Livio Druso e il bellum sociale

Restaurato il governo degli ottimati, questi restarono in carica per circa dieci anni senza notevoli
contrasti. Nel 122 M. Livio Druso si eresse a difensore degli interessi oligarchici degli optimates,
ma dovette ricercare l’appoggio del popolo e dei soci italici per intraprendere la propria battaglia
contro il ceto equestre. Egli diede un impulso a un programma di riforme, che prevedevano:
- una legge giudiziaria che avrebbe conciliato le pretese dei senatori con quelle dei cavalieri;
- una legge per la deduzione di colonie in Italia e in Sicilia e per la ripartizione del rimanente agro
pubblico;
- una legge frumentaria e probabilmente una legge agraria che riprendeva il contenuto di quella
Sempronia.

Il programma legislativo del tribuno non solo atterrìi cavalieri, ma sconcertò anche i nobili, in
breve la maggioranza del Senato fu contro di lui; anche alcuni dei suoi colleghi del tribunato gli
fecero opposizione. L’agitazione fra i soci italici intanto si faceva preoccupante, sia per le promesse
già ricevute da Druso, sia perché molti di essi si sentivano fortemente colpiti dalla legge agraria.
In un primo momento le leggi di Druso vennero approvate, per poi essere annullate tutte dal
Senato per vizio di forma. Druso, ricordatosi di essere un uomo del senato, e perso il consenso dei
colleghi tribuni che misero in giro voci su una sua presunta cospirazione con i soci italici, si rimise
al Senato, ma questi lo fece comunque assassinare. Gli Italici capirono allora che mai avrebbero
ottenuto un equo riconoscimento dei loro diritti, in quanto la storia insegnava loro che qualunque
romano avesse preso a cuore la loro causa, fosse esso un optimes o un populares, avrebbe
incontrato un’ostinata resistenza.
Nel 90 insorsero contro Roma gli Oschi e i Sabelli dell’Italia meridionale, con a capo Marsi e
Sanniti: fedeli ai Romani si mantennero gli Etruschi, gli Umbri, i Galli e i Greci Italioti. Stabilita la
capitale a Corfinium, cui fu cambiato il nome in Italia, i ribelli organizzarono un governo modellato
su quello delle Leghe greche, le loro forze militari ordinate sul modello di quelle romane. Per
sedare la rivolta vennero convocati i migliori capitani di cui Roma disponesse: Mario, Pompeo
Strabone, Cornelio Silla. Il primo anno di guerra, nonostante l’abilità di Mario, riservò solamente
sconfitte per i Romani, tantoché venne approvata una Lex Iulia (presentata dal console Lucio Giulio
Cesare) che estendeva il diritto di cittadinanza a tutti gli alleati rimasti fedeli e a quelli che
avessero già deposto le armi. A questa se ne aggiunse un’altra nel 89, la Legge Plauzia Papiria, che
stabiliva che chiunque si trovasse iscritto sui registri di una comunità confederata e risiedesse in
Italia, potesse ottenere la cittadinanza romana, facendone domanda al pretore entro 60 giorni.
Infine ci fu la Lex Pompeia, promulgata dal nuovo console Pompeo Strabone, che allargava ai
Transpadani lo ius Latii, cioè quegli speciali diritti riservati fino ad ora alle sole città latine. I consoli
dell’89 condussero operazioni fortunate: Catone cadde in battaglia contro i Marsi, ma Pompeo
Strabone condusse operazioni fortunate intorno ad Ascoli. Nello stesso tempo Silla riconquistò
gran parte della Campania. Sul finire dell’89 l’insurrezione era in gran parte domata, solamente
Pompedio Silone, rifugiatosi presso i Sanniti, organizzò una strenua resistenza, ma sconfitto anche
lui rimasero in mano ai ribelli solamente le città di Esernia e di Nola. Silla, eletto console per l’anno
88, organizzò immediatamente l’assedio di Nola. Tutta l’Italia era ormai praticamente compresa
entro la cittadinanza romana e tutte le città latine e alleate erano divenute egualmente comuni di
cittadini romani, ma non per questo mutò la costituzione dello Stato cittadino di Roma. Una
differenza sostanziale fu che nel Senato iniziarono a confluire nuovi cittadini da tutte le parti
d’Italia, attraverso le magistrature ad essi aperte.
Mitridate re del Ponto

La Siria, dopo il regno di Balas, si consumò in sterili lotte dinastiche, le quali favorirono l’ingrandirsi
del Regno dei Parti, il costituirsi in Stati indipendenti di molte delle maggiori città e il sorgere di
signorie autonome. Al confine settentrionale del Regno dei Seleucidi si costituìil potente regno di
Armenia, che si rese del tutto indipendente dai Parti verso il 96 a.C., allargando le proprie frontiere
fino alla Mesopotamia. La Cirenaica, dopo la morte di Tolomeo VII re d’Egitto, passò al figlio
Tolomeo Apione, il quale rispettando la volontà del padre, lasciò alla sua morte il proprio stato ai
Romani, che dopo un breve periodo di protettorato, ridusse la Cirenaica a provincia nel 74 a.C.
La provincia d’Asia risentì dolorosamente della politica di Gaio Gracco favorevole all’ordine
equestre: gli appaltatori, ai quali la provincia era stata data in balia per sperimentarvi il nuovo
sistema tributario, la spogliarono ora senza pietà, sicuri dell’impunità che avrebbero garantito loro
i tribunali romani, venuti in mano ai cavalieri.
Fra gli stati alleati e vassalli di Roma, la Cappadocia pontica o Ponto, aveva più rapidamente degli
altri progredito in estensione includendo quante più città greche fosse possibile, di quelle che si
trovavano sulla costa meridionale del Mar Nero. Verso la fine del II secolo a.C. era salito al trono
Mitridate IV Eupatore, che in pochi anni aveva esteso il suo regno verso la Crimea e il Caucaso, e
stretto alleanza e parentela con Tigrane, re d’Armenia. Non pensava ancora ad attaccare i Romani,
ma presto quel disegno gli si manifestò nella mente non appena prevalsero le ambizioni
d’espansione in direzione della Bitinia e della Cappadocia. Un’impresa non impossibile: le
popolazioni indigene dell’Asia erano esasperate dagli appaltatori e dai governatori romani, le forze
militari di Mitridate erano di gran lunga superiori di quelle di cui disponeva Roma in Oriente,
impegnata in quel momento a tenera a freno il bellum sociale, e disponeva di una flotta di 300
navi sul Mar Nero. Nell’88 Mitridate ruppe gli indugi e occupò la Bitinia e la Cappadocia, ed invase
quindi la provincia d’Asia, senza che le deboli forze romane potessero frenare la sua avanzata;
frattanto dispose agli abitanti della provincia di attaccare in un giorno stabilito le genti romane e
Italiche che vi risiedevano. Tutta l’Asia, all’infuori dell’isola di Rodi, fu presto in potere del re; tosto
la sua flotta compariva padrona dell’Egeo e un esercito sbarcato in Grecia occupava Atene, che per
tanto tempo fedele a Roma, si volgeva ora dalla parte del nemico.

Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla rivali

Nell’89 la sorte volle che venissero eletti al consolato due esponenti dell’oligarchia senatoriale, Q.
Pompeo Rufo e Lucio Cornelio Silla. Riaccesosi il contrasto tra senatori e cavalieri, questi ultimi
vollero scongiurare a tutti i costi che il comando delle operazioni militari in Oriente, che
rappresentava il più lucroso campo d’azione per l’ordine equestre, venisse affidato a Silla, al quale
toccò per sorte il capitanato. Pertanto i cavalieri si allearono con i popolari e tirarono fuori
dall’ombra Mario, al quale volevano affidare la difficile e lontana guerra contro il re del Ponto.
Trovarono un aiuto insperato in P. Sulpicio Rufo, tribuno della plebe ma anch’egli aristocratico, che
come i Gracchi e Druso stimava che per salvare il prestigio dell’oligarchia si dovessero percorrere
quelle vie imposte dai tempi e dalle circostanze. Dopo aver tentato invano di far approvare due
proposte di legge per la distribuzione dei nuovi cittadini italici in tutte le tribù e per l’esclusione del
senato di tutti i membri di esso indebitati per cifre superiori ai 2000 denari, di fronte
all’opposizione irriducibile del Senato, Sulpicio Rufo cercò l’alleanza dei cavalieri e dei popolari e
offrìa Mario il comando della guerra in Oriente, presentando una terza proposta di legge che
togliesse il comando a Silla e lo affidasse a Mario. Ma Silla non si rassegnò a quest’illegalità
perpetrata nei suoi confronti: accampato con l’esercito in Campania e pronto a sbarcare, marciò
su Roma, si impadronìdella città e fece abrogare da un senatusconsulto le leggi sulpicie. Sulpicio e
i suoi fautori furono uccisi; Mario fuggìin Africa. Era cominciata la guerra civile: un generale
romano aveva potuto condurre un esercito contro lo Stato stesso che lo aveva armato. Restaurata
la potenza e il prestigio del Senato, si affrettò nell’87 a condurre le truppe in Grecia contro
Mitridate. Per l’anno 87 vennero eletti consoli Gneo Ottavio e L. Cornelio Cinna, favorito dagli
ottimati il primo, e dai popolari il secondo.

La prima guerra mitridatica e la riscossa di Mario

Sbarcato in Epiro Silla riconquistò rapidamente la Grecia: il 1 marzo dell’86 Atene, dove si era
fortificato Archelao luogotenente di Mitridate, cadde e fu devastata e saccheggiata. L’esercito di
terra venne battuto da Silla a Cheronea, in Beozia; e un secondo esercito, comandato da Dorilao,
venne distrutto da Silla nella battaglia di Orcomeno.
Intanto in Italia la situazione si era nuovamente capovolta: L. Cornelio Cinna richiamò a Roma e i
proscritti e si abbandonò a ogni sorta di violenze per vincere l’opposizione del Senato. Deposto il
consolato, e costretto a fuggire, raccolse con sé tutti i fautori della causa di Mario; Mario stessò
tornò dall’Africa, armò i suoi fedeli e si presentò davanti a Roma. Una seconda volta l’Urbe fu
espugnata dalle armi di un esercito cittadino.
Entrato da padrone della città, sguinzagliò quattromila sicari a menar strage. Fu ricostituito un
governo di popolari, Silla venne proscritto, le sue case distrutte, i suoi beni confiscati. Eletto
console per la settima volta, morìdue settimane dopo nell’anno 86. Il suo successore, L. Valerio
Flacco, venne inviato con un esercito in Grecia, per combattere al tempo stesso contro Silla e
Mitridate. Valerio Flacco si limitò a condurre le operazioni autonomamente dall’esercito di Silla:
riconquistata la Macedonia e la Tracia fino al Bosforo, Flacco passò in Asia, dove i suoi soldati,
insofferenti di disciplina e avidi di saccheggio, lo uccisero e affidarono il comando al legato
Fimbria. Questi percorse la costa egea dell’Asia minore e riconquistò Pergamo, devastando e
saccheggiando ferocemente il paese. Intanto Silla e Mitridate, desiderosi di pace, intavolarono le
trattative: Mitridate accettava di rientrare nei suoi confini, pagava un’indennità di guerra di più di
duemila talenti e cedeva a Silla una parte della sua flotta. Subito dopo Silla si rivolse contro
l’esercito di Fimbria e lo accerchiò: Fimbria si uccise, i suoi soldati passarono dalla parte del
vincitore. Silla, dopo aver riordinato la provincia d’Asia, trascorse tutto l’anno 84 intento a punire e
a multare, accumulando enormi ricchezze che gli servirono per beneficiare largamente i suoi
soldati e ufficiali e per preparare il rientro a Roma.

Il ritorno di Silla e la guerra civile

Dopo la morte di Mario il partito dei popolari era rimasto capitanato, oltre che da Cinna, da Gneo
Papirio Carbone, da Gaio Mario figlio adottivo del defunto, e da Q. Sertorio, nemico personale di
Silla. Ma dopo che anche Cinna venne ucciso in seguito ad un ammutinamento ad Ancona, il
partito risultò disorganizzato e i fautori di Silla rialzarono il capo. Due nobili tra i più in vista,
Quinto Metello Pio e il giovane Gneo Pompeo, si diedero a raccogliere forze per loro conto, per
appoggiare il ritorno di Silla. Nell’83 Silla sbarcò a Brindisi con un contingente di 40.000 uomini;
egli contava sì di riconquistare l’Italia con piccole forze, ma contava sull’aiuto degli amici,
l’appoggio degli Italici, la disgregazione degli avversari. Riunitosi con le legioni di Pompeo e
Metello, mosse da Brindisi verso la Campania, assicurando agli Italici che avrebbero conservato
tutti i loro diritti di cittadini romani; tuttavia i Sanniti e gli Etruschi rimasero fedeli alla parte
popolare, né si può escludere che Silla stesso li abbia in qualche modo provocati per dare alla
guerra un contenuto in parte nazionale. In più battaglie Silla vinse le forze avversarie: Roma cadde
in sua mano e, presso Porta Collina, fu distrutto il 1 novembre dell’82 l’ultimo esercito mariano,
composto in gran parte di Sanniti; il figlio adottivo di Mario si tolse la vita.
Si distinsero in questa battaglia, oltre ai già citati Metello e Pompeo, anche Licinio Lucullo e Marco
Licinio Crasso, cui spettò il merito precipuo della caduta di Porta Collina. Pompeo fu inviato in
Africa a combattere le relique del partito mariano in Africa; l’Africa fu da lui riconquistata in meno
di quaranta giorni. Silla celebrò il trionfo su Mitridate e volle che anche Pompeo, nonostante la
giovane età, celebrasse con lui il trionfo e fosse insignito del cognome di Magno.
Silla era ora padrone dello stato, la vendetta nei confronti dei mariani fu spietata. I prigionieri fatti
nella battaglia di Porta Collina furono massacrati fino all’ultimo uomo. Tutti coloro che opposero
resistenza a Silla e al Senato, vennero proscritti: i proscritti erano messi al bando dallo stato, i loro
beni confiscati, i figli e i discendenti privati del diritto di coprire cariche pubbliche. Chiunque
poteva ucciderli, anzi sulle loro teste erano poste delle taglie; nessuno, neppure i parenti, poteva
aiutarli in alcun modo.

La dittatura e le riforme di Silla

Per riordinare lo Stato, Silla si fece dittatore a tempo indeterminato. Nel campo economico
perpetrò la riforma agraria dei Gracchi, favorendo il moltiplicarsi delle piccole proprietà: a questo
scopo volle che ognuno dei suoi centomila veterani ricevesse un lotto di terra in Italia e diventasse
un modesto possidente. I terreni distribuiti furono quelli confiscati ai Mariani e molti tolti agli
Etruschi e ai Sanniti. La reazione di Silla inferse il colpo di grazia alle civiltà e alla lingua osca e a
quella etrusca, che scomparvero ora definitivamente facilitando la completa e definitiva
latinizzazione della penisola. In campo politico la sua azione fu rivolta a cancellare quanto era stato
fatto da Gaio Gracco in poi a danno dell’autorità senatoriale. Riconfermate le leggi dell’88 che
limitavano i poteri dei tribuni della plebe e restituivano al senato i tribunali, sottoponendo alla sua
approvazione le proposte di legge dei tribuni, il dittatore rafforzò il senato portando il numero dei
senatori da 300 a 600, chiamando però a farne parte anche i cavalieri. Aumentò e migliorò le
quaestiones, fissandone il numero a sei e affidandone la presidenza ai pretori. A tal scopo il
numero dei pretori fu portato a otto (urbano, peregrino, e i sei presidenti delle quaestiones);
quello dei questori a 20. Separò il potere civile da quello militare: a questo scopo fu sancito che i
consoli e i pretori rimanessero in Italia durante il loro primo anno di ufficio, e soltanto nel secondo
anno, come i proconsoli e i propretori, andassero a governare le dieci province (Sicilia, Sardegna e
Corsica, le due Spagne, Macedonia, Africa, Asia, Gallia Narbonese, Cilicia, Gallia Cisalpina) e a
comandare le truppe che vi si trovassero stanziate per le eventuali operazioni militari. Nessun
stato in armi doveva trovarsi nella penisola, a sud dei fiumi Magra e Rubicone.
Codificò in modo definitivo le norme che regolavano gli intervalli tra le varie magistrature,
stabilendo che fra una magistratura e l’altra dovesse intercorrere l’intervallo di almeno un biennio
e che non potesse aspirare al consolato chi aveva già ricoperto la questura e la pretura. Per
svalutare del tutto il tribunato, fu deciso che chi aveva ricoperto la carica di tribuno rimanesse
escluso da tutte le altre magistrature.
Deposta nel 79 la dittatura, si ritirò a vita privata, mantenendo tuttavia un forte controllo sullo
Stato in virtù dei suoi centomila veterani sempre pronti ad accorrere in suo aiuto e dai diecimila
Corneli, gli schiavi dei prescritti, che aveva liberato ed erano divenuti suoi liberti. La costituzione di
Silla sarebbe potuta sopravvivere assai più a lungo al suo costruttore, se egli avesse potuto
liberarla dai due tarli che ne rodevano le fondamenta. Il primo, la dipendenza degli eserciti dai
singoli generali; quest’inconveniente non si poteva evitare se non creando un organo di Stato che
provvedesse direttamente al reclutamento e alla ripartizione degli uomini e delle legioni nelle
province, come nell’assegnazione delle ricompense e delle pensioni ai congedati. La Repubblica
possedeva degli eserciti e dei soldati senza avere tuttavia un ministero della guerra. Il secondo
male invece, l’insufficienza della classe dominante a governare lo Stato, il predominio della
nobiltà.

Il principato di Pompeo

Morto Silla, si risollevarono le voci del popolo e le ambizioni dei capi politici. Un mariano, Marco
Emilio Lepido, reclutava armati in Etruria e nella Cisalpina per obbligare il senato a restituire ai
tribuni i loro poteri; un altro capo popolare, Sertorio, stava ora riducendo sotto il suo governo la
Spagna, per farne la base di una nuova marcia su Roma. Sertorio si era già preso il governo della
Spagna nell’82; aveva abbandonato la provincia nell’81 all’arrivo di un governatore inviato da Silla;
vi era ritornato nell’80, prendendo la direzione del movimento di rivolta dei Lusitani, per rivolgersi
poi, con le forze dei ribelli lusitani, contro il Governo di Roma. Dopo aver fronteggiato con
successo le operazioni dei governatori delle province spagnole inviati dal senato nel 79 e nel 78,
Sertorio aveva stabilito il suo arsenale marittimo nelle vicinanze della piazzaforte di Cartagena.
Gran numero di mariani, proscritti ed esuli, accorsero a formare i quadri dell’amministrazione e
dell’esercito. Verso la fine del 77 arrivarono nella Spagna e nella Sardegna i resti dell’esercito di
Lepido (circa 20.000 uomini di fanteria e 1.500 di cavalleria) al comando di Paperna. A ciò si
aggiunga che Sertorio aveva stretto alleanza con i pirati, che spadroneggiavano nuovamente nel
Mediterraneo. Pompeo sollecitò ed ottenne dal Senato l’investimento di poteri straordinari per
combattere prima Lepido (77), quindi Sertorio. Quando Pompeo arrivò in Spagna, sul principio del
76, Sertorio era ormai padrone di tutta la penisola, fino all’Ebro; il suo proposito era prossimo ad
attuarsi, forte anche dell’alleanza di Mitridate.
nel 75 e nel 74 Pompeo condusse la guerra in collaborazione con Metello Pio, che occupava già la
provincia ulteriore. Nel 73 i successi sempre più decisivi di Pompeo alienarono da Sertorio gran
parte delle genti iberiche; egli ricorse allora a misure atroci, fra le altre facendo uccidere i figli dei
nobili spagnoli raccolti ad Osca, dove Sertorio aveva fondato una scuola dove i capi delle tribù
spagnole dovevano inviare i propri figli perché ricevessero un’educazione romana. Sertorio fu
infine ucciso a tradimento dal suo luogotenente Paperna nel 72 a.C. Battuto e fatto giustiziare
Paperna nel 71, fece ritorno in Italia insieme con Metello, dopo aver riordinato l’amministrazione
delle province, guadagnandosi la devozione di parecchie città e molti legati iberici.

Licinio Crasso e il bellum servile

Nel 73 il governo di Roma dovette fronteggiare la rivolta di schiavi capitanata da Spartaco: la


rivolta, accesasi nella scuola dei gladiatori di Capua, si estese a gran parte dell’Italia meridionale,
tanto che nel 73-72 Spartaco poteva contare su un esercito di 40.000 uomini regolarmente armati
ed equipaggiati. I consoli del 72 furono impotenti a fronteggiarlo. Spartaco si era aperto un
passaggio verso nord fino a Modena ed era in procinto di valicare le Alpi e assicurare il rimpatrio
degli schiavi nei paesi d’origine. Se non fosse che l’orda dei ribelli, ebbra di trionfo e di rapine,
pretese di essere condotta contro Roma e a malapena Spartaco s’indusse a non cedere a questo
folle proposito, marciando lungo il litorale adriatico sino alla Lucania. Compresa la gravità della
situazione, il senato nominò comandante il sillano M. Licinio Crasso, allora pretore, che con 6
legioni nuove e i resti delle 4 legioni dei consoli sconfitti, si diede all’inseguimento di Spartaco che
marciava verso l’estremità meridionale del Bruzio, probabilmente con l’intenzione di avvalersi di
una rivolta di schiavi in Sicilia. Crasso lo bloccò con un vallo trincerato di 55 chilometri; invano
Spartaco tentò di passare in Sicilia: i pirati cilici, con i quali si era messo d’accordo, lo tradirono e
se ne andarono. Spartaco tuttavia riuscìa spezzare la cortina di ferro in cui Crasso lo aveva cinto, e
Roma fu di nuovo in preda al timore. Pompeo, proprio allora di ritorno dalla Spagna, fu invitato ad
accorrere con il suo esercito nel mezzogiorno, per cooperare con Crasso. Ma non ce ne fu bisogno:
le due parti in cui si era scisso l’esercito di Spartaco furono sconfitte l’una in Lucania, e l’altra in
Apulia: Spartaco era morto combattendo come un leone alla testa dei suoi (71). Una schiera di
fuggiaschi venne accerchiata dal sopravveniente esercito di Pompeo e facilmente distrutta.

L’ascesa di Pompeo

I due comandanti vittoriosi, superando le rivalità personali, si presentarono candidati al consolato


per l’anno 70 con un programma popolare. Così i due sillani, eletti consoli in onta alle statuizioni
della costituzione di Silla, ne determinarono il crollo completo con la legge che ripristinò l’autorità
tribunizia e con la riforma dei tribunali, sottratti d’ora in poi al predominio del Senato; su proposta
del pretore Lucio Aurelio Cotta, fu deciso che d’allora in poi i giurati delle quaestiones perpetuae
dovessero venir scelti tra senatori, cavalieri e i tribuni aerarii (possessori del censo più elevato
dopo quello dei cavalieri). Tali riforme erano necessarie per diminuire la potenza della nobiltà, che
si rivelava incapace ogni giorno sempre di più, a governare lo Stato. Compassionevole era la
situazione delle province, dove governatori e publicani perpetravano ogni forma di abuso, senza
temere alcuna ritorsione in quanto eventualmente sarebbero stati giudicati da senatori loro
colleghi e amici. Famoso il caso di Gaio Verre, che avendo governato la provincia di Sicilia come
propretore, venne accusato dai provinciali di Sicilia di ogni sorta di ruberie e di violenze,
depredando città e privando le città delle più belle opere di arte greca da loro possedute.
Il proletariato turbolento di Roma venne riassorbito nelle legioni, che onoravano e sostenevano i
propri generali per riceverne ricompensi e denari, e non riconoscevano altra autorità all’infuori di
quella dei loro generali. Tra questi spiccavano Gneo Pompeo e Crasso, quest’ultimo intento ad
accumulare enormi ricchezze comprando a prezzi vili i beni confiscati ai proscritti, e che accresceva
sempre più con un’amministrazione saggia ed accorta, con l’intento di mettere a disposizione le
proprie ricchezze a chiunque avesse contribuito ad accrescere il suo potere personale.
Finito il consolato, i due rivali restarono in attesa di occasioni favorevoli all’affermazione della
propria potenza; Pompeo, aspirando ad altri incarichi speciali, che facessero di lui il protettore e
l’uomo indispensabile della Repubblica; e Crasso mirando ad armare con le sue immense ricchezze
un esercito personale e instaurare una dittatura. Intanto spiccavano altre figure di uomini politici
ambiziosi e intraprendenti: Marco Tullio Cicerone, homo novus, che s’era guadagnata grande
popolarità nel Foro e che, avendo ricoperto la questura nel 75 in Sicilia, aveva poi patrocinato la
causa intenta dai Siciliani contro il pretore Gaio Verre (70). L’altro, Gaio Giulio Cesare, un giovane
patrizio, il quale però per una sua personale inclinazione verso i popolari e per la scomoda
parentela con Mario e con Cinna nonché il matrimonio con Cornelia figlia di Cinna, ne aveva
abbracciato la causa. La sua nascita aristocratica non poteva giovargli un granché, poiché il suo
patrimonio domestico era piuttosto esiguo e i suoi prossimi e diretti antenati non avevano goduto
di notevole influenza fra la nobiltà senatoriale.
Si distinse per la propria tenacia quando il potente dittatore Silla gli ingiunse di ripudiare la figlia di
Cinna, e Cesare rispose con un netto rifiuto. Giudicò allora prudente allontanarsi da Roma; si recò
in Asia, dove si trattenne presso la corte del re di Bitinia Nicomede. Prestò servizio militare
guadagnandosi la corona civica; nel 78, avuto notizia della morte di Silla, si affrettò a ritornare a
Roma, ma dimostrò subito la sua avvedutezza rifiutandosi di partecipare al tentativo rivoluzionario
di Lepido, benché il console lo avesse invitato con le più seducenti promesse. Cesare sapeva bene
quanto avrebbe potuto costargli un simile errore tattico agli albori della sua carriera politica;
tuttavia non mancò di approfittare della prima occasione per guadagnarsi l’appoggio dei popolari:
nel 77 si presentò al Foro a sostenere l’accusa contro il consolare sillano Gneo Cornelio Dolabella,
imputato di malversazione commesse nel governo della provincia di Macedonia, e l’anno seguente
sostenne un’accusa simile contro il sillano C. Antonio Ibrida. E se anche l’esito di questi processi
non fu favorevole, fu pago della popolarità e della simpatia che la sua eloquenza e il suo coraggio
gli guadagnarono presso i partiti dell’opposizione.
Allontanatosi nuovamente da Roma, frequentò nel 75 la celebre scuola di retorica di Molone a
Rodi, la stessa che frequentò Cicerone. Al primo scoppio della guerra mitridatica, con soldatesche
arruolate di sua iniziativa contribuì a ritardare il primo impeto dell’invasione nemica. Nel 73, eletto
pontefice, rientrò a Roma e si guadagnò subito, con straordinarie elargizioni, nuove simpatie nel
popolo, che lo nominò anche tribuno militare

Potrebbero piacerti anche