Una disciplina dell’arcano, forse di origine pitagorica, imponeva ai discepoli un «silenzio di
cinque anni», cioè una specie di catabasi nella «notte della parola» al fine di conseguire la coscienza della propria identità luminosa. Di fatto nelle cerimonie gnostiche l’ineffabilità iniziale di Dio è descritta come una syzygia, un appaiamento di Abisso e Silenzio, di Bythose Sigē. Nella Protennoia Triforme, intricato manoscritto di Nag-Hammadi, la Voce segreta dimorante nel Silenzio infinito si manifesta quale Redentore che narra in forma mitica la propria catabasi al centro del mondo infero, l’Amente. Questa entità soterica irradia il suo splendore sulle Tenebre, poiché è detta celarsi «nelle acque splendenti». I Magi zoroastriani in numero di dodici, ogni anno dopo la trebbiatura (post messem trituratoriam) salgono sul Mons Victorialis, il «Monte delle Vittorie», dove si trova una caverna di pietra circondata da alberi lussureggianti. Qui, dopo essersi purificati ad una fonte d’acqua, pregano ed onorano Dio in silenzio per tre giorni. Trascorsi molti anni, durante i quali il rito viene celebrato ininterrottamente, una Stella appare sul Monte. Questo astro splendente assume le forme di un fanciullo sovrastato da una croce, il quale comanda ai Magi di recarsi a Betlemme, in Giudea. Infine, narra sempre l’Opus, dopo la resurrezione di Gesù Cristo l’Apostolo Tommaso si reca in Oriente dai Magi, rendendoli partecipi del sacramento battesimale e facendoli suoi discepoli. Questa tradizione concorda sostanzialmente con quella riportata in un antico testo siriaco risalente all’ottavo secolo dopo Cristo, la cosiddetta Cronaca di Zuqnīn, e in una specifica sequenza in essa contenuta, definita «Storia dei Magi». La testimonianza dell’Opus imperfectum in Matthaeum differisce però in alcune parti e non tramanda alcuna delle tradizionali speculazioni teologiche che la Cronaca di Zuqnīn, dalla quale come s’è detto sembra dipendere, presenta in modo così dettagliato. I materiali teologici compositi raccolti nella Cronaca di Zuqnīn sono stati trasferiti in Occidente e consegnati ai lettori latini purificati da gran parte delle pericopi dottrinali
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che sembravano renderli pericolosi: la «Storia dei Magi» diventa così una dilettevole e curiosa lettura dalla quale la fede e l’ortodossia non hanno nulla da temere. È la preistoria della dittatura dei media (cfr. A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 238 ss.), sulfurea cospirazione nella quale si determina consociativamente il ricordo e l’oblio. Un intreccio oscuro che è il tema del romanzo The Crying of Lot 49 («L’incanto del lotto 49») dell’americano Thomas Pynchon. Nel romanzo ci si chiede se in una cultura sempre più condizionata dai mass media ci siano ancora tracce di una vita che non si lascia programmare. La risposta è affermativa: ma le vestigia di essa si troveranno solo nella spazzatura. I media elettronici hanno accentuato alcune tendenze già emerse nella cultura della carta stampata (il «Quarto potere» di Orson Welles). Gli opposti sistemi del regime totalitario e della cultura massificata collidono in un punto: entrambi minacciano la memoria, mediante restrizioni rigidissime o attraverso la tracimante quantità delle informazioni. Nello scenario orwelliano di una società assoluta dev’essere negato ogni sguardo al passato, poichè basterebbe quel solo sguardo a mettere in crisi il totalitarismo del presente. Nel mondo occidentale organizzato dai media, invece, la memoria sparisce da sola, sopraffatta da un ciclo forsennato di produzione e di consumo. È il regno delle tenebre gnostico, immerso in un mare d’oblivione. Pynchon rappresenta la comunicazione massificata come un’amnesia configurata su scala mondiale, nella quale l’immaginario collettivo è prodotto dai media. La memoria si lega così a cognizioni opposte: il senso dell’identità personale e il senso della realtà. Oedipa Maas, protagonista del romanzo di Pynchon, raccoglie con abilità le prove e le tracce che, passo dopo passo, svelano una rete alternativa chiamata WASTE (= «Spazzatura»), una controcultura clandestina, un mondo privato, segreto e muto lontano dai canali di comunicazione dell’ufficialità. L’eroismo di Oedipa Maas consiste nel dover ricordare in un mondo dominato dall’oblio. Un caso analogo a quello di Winston Smith, che nel romanzo 1984 di George Orwell si mette alla ricerca del passato distrutto. È degno di nota che entrambi, Oedipa e Winston, focalizzano la loro attenzione sui rifiuti come indizio attendibile della memoria clandestina. Winston Smith trova qua e là frammenti di carta e di rifiuti sfuggiti per caso ai cosiddetti memory holes, i giganteschi congegni che distruggono le prove del passato. Oedipa Maas trova una deiezione che considera l’emblema della memoria. Si tratta del materasso di una prostituta morente, la cui «imbottitura insaziabile» diventa per lei un prezioso tesoro: i sali segreti annidatisi da tanti anni nell’imbottitura di un materasso, dove si conservano le impronte di tutti gli umori corporei, rendono il giaciglio della puttana simile ad una banca mnemonica per il rendiconto dei perduti.
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Oedipa trova le tracce che va cercando non nei resti culturali o nei rottami di un’altra epoca, ma nelle spoglie e nei residui dei coiti mercenari: ossa, sudore, sperma e sali chimici trasformano l’imbottitura del vecchio materasso in una banca dati di tutto ciò che si è smarrito. Nell’epoca dell’illimitata capacità di archiviazione l’eroina di Pynchon trova lo mnemeion, la cronografia di ciò che non si può conservare perché non codificabile: l’irriducibilmente fugace. Questa scoperta concide con l’epifania, il breve attimo del contatto intenso con la realtà. La banca-dati, immagine della memoria, diventa immagine dell’oblio. Se il materasso scomparisse «il mondo non recherebbe più traccia» di questa vita e la sequela di coiti e di uomini che su di esso avevano trovato rifugio, qualunque fosse stata la loro vita, sarebbe scomparsa per sempre, bruciando con il materasso. La ricerca delle tracce di Oedipa Maas, raccontata da Pynchon nel romanzo L’incanto del lotto 49, definisce i legami fra memoria culturale, comunicazione di massa, forze imprenditoriali e nuova tecnologia di archiviazione, tutte unite nella creazione di un universo della dimenticanza. Benché le possibilità di codifica, soprattutto per suoni e immagini, siano diventate sempre più fedeli e i supporti materiali dell’archiviazione sempre più economici, è emerso allo stesso tempo con chiarezza che l’essenza della vita umana non è rappresentata né rappresentabile. Peculiare a riguardo è un racconto di Danilo Kiš, uno scrittore ebreo serbo-ungherese (1935- 1989), che immagina la futuribilità di un archivio totale. Il titolo è Enciclopedia dei morti (Adelphi, Milano 1988 [ed. or. Zagabria 1983]). In opposizione alle enciclopedie dei vivi, questa è dedicata alla dimensione dimenticata e non articolata di ciò che è stato. Kiš figura una biblioteca immaginaria i cui polverosi volumi sono dedicati esclusivamente a ciò che viene escluso dall’archivio della cultura massificata poiché insignificante. È il racconto di una antimemoria paradossale: la nudità dell’esistenza infatti non è codificabile e, quindi, nemmeno rappresentabile, ciò che è trascorso è irrimediabilmente perduto. Kiš getta lo sguardo oltre gli archìvi e propone, evocando Borges, un paradossale archivio del non-archiviato. Dopo un breve prologo, nel racconto si accentuano i tratti fantastici. Trascorsa una giornata di congresso, una scienziata viene invitata dalla sua ospite a visitare una grande biblioteca di Stoccolma. È già sera tardi e il luogo in cui la giovane donna entra si rivela essere una biblioteca fantastica, che somiglia al regno dei morti. Occorre un salvacondotto, con il quale la donna, superato un portiere muto sorta di Cerbero oltretombale, giunge in un mondo sotterraneo, dove, su scansie polverose coperte di ragnatele, si trova l’enciclopedia dei morti. Il progetto di quest’enciclopedia a rovescio consiste nel codificare ciò che resta fuori degli archivi culturali, l’ignorato, ciò che è trascurabile, insignificante ed effimero, nei consueti inventari, liste, registri, rendiconti, collezioni e cronologie; il tutto stampato con ordine e rilegato in poderosi volumi. Nell’Enciclopedia dei morti la vita di quanti saranno presto del tutto sconosciuti viene
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scrupolosamente documentata. In questa biblioteca delle esistenze dimenticate la giovane scienziata, che aveva tentato di rimuovere la morte del padre viaggiando e lavorando, si dedica tutta la notte al libro della vita o della morte di suo padre, che sfoglia, legge e ricopia finché glielo permettono le dita intirizzite. I Libri dei Morti dell’antico Egitto raccoglievano conoscenze magiche e liturgiche che i defunti portavano con sé nel pericoloso viaggio negli inferi. È per questo che se ne trovano in una gran quantità nei corredi delle tombe. Anche i «compilatori dell’enciclopedia» – così sono chiamati gli archivisti del disperso nel racconto di Kiš – seguono un progetto religioso, anzi escatologico: nell’ora della resurrezione, il tan ī pāsen iranico trasmigrato nella visione di Ezechiele, ogni morto potrà dimostrare l’unicità della propria vita, grazie all’accuratezza delle notizie raccolte: perciò i compilatori dell’Enciclopedia dei morti, questo grandioso monumento alla dissonanza, insistono sul particolare, poichè per loro ogni creatura umana è cosa sacra. L’enciclopedia dei morti è quindi un monumento all’unicità e all’irripetibilità delle singole vite umane. L’acribia dell’ara memorativa, lo mnemeion che è ricordo e sepolcro, di questi libri dei morti è un progetto fantastico. Essa articola un bisogno che non può essere dissolto da alcuna cultura: ricordo, fama e commemorazione di ogni singola vita vissuta. Si nega la necessità psicologica dell’oblio, che non è concepito come una facoltà produttiva, ma risolto completamente nell’annientamento. Ciò che viene dimenticato è come se non fosse mai esistito. L’anonimato e l’oblio cancellano la vita, vanificano il vissuto. I compilatori dell’enciclopedia si oppongono a questo oblio. Alla giovane donna, che con le dita irrigidite copia il dossier del padre, essi recano la prova che «la sua vita non era stata inutile, che ci sono ancora al mondo persone che notano e apprezzano ogni vita, ogni sofferenza, ogni esistenza umana». In completo dissidio con gli archivi totalitari, militari e statali, questa raccolta di dati non origina dalla sfiducia, dalla denuncia o dalla persecuzione, ma dal desiderio biblico di essere registrati nel libro della vita. Di questo desiderio i Mormoni – come Kiš afferma nella prefazione – hanno fatto un grandioso progetto tecnocratico, espropriando Dio della contabilità. Il loro megalomane progetto ha i tratti dell’incubo: in un picco di granito nella catena delle Montagne Rocciose a est di Salt Lake City, dove esistono le migliori condizioni ambientali per la conservazione, hanno scavato gallerie e sale sotterranee per far posto a un archivio imponente, protetto da porte d’acciaio. Qui si conserveranno i nomi di 18 miliardi di persone vive e defunte riportati con cura su un milione e duecentocinquantamila microfilm. Lo scopo finale di questa impresa gigantesca è di catalogare su microfilm l’intero genere umano, sia la parte vivente, sia quella già passata nell’aldilà. Una memoria totale che è una cronografia corporea, realizzazione della «Nuova Carne» profetizzata da David Cronenberg in Videodrome, apice visionario di una via redentiva che dagli
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Orfici conduce a San Paolo e attraversa la storia della cultura post-moderna e psichedelica. È la dottrina orfica sull’anima raccontata da Platone nel Cratilo (400 c): il corpo è sēma (= tomba, segno) dell’anima, poiché significa (semaínei), esprime come essa sia sepolta nel corpo. L’anima paga la pena delle colpe anteriori, custodita (sózetai) nel corpo. Nel 1747, Jean Galli de Bibiena dà alle stampe uno strano romanzo, La Poupée: è la storia di un elegante damerino iniziato ai piaceri del vero amore sotto la severa direzione di una silfide, un essere elementale che ha preso per l’occasione sembianze di bambola. Il delirio è al culmine: un essere fantastico, incarnato in un simulacro in fattezze di fanciulla, si incarica di condurre un giovane damerino fuori dal labirinto delle ciprie, dei finti nei, delle movenze affettate che fanno l’anima della socievolezza mondana, restituendolo alla virilità. Un coito col pupazzo che è la versione più o meno secolarizzata del matrimonio con la fata, evento che fonda l’erotismo esoterico del Conte di Gabalì (1670). Un ricordo che riaffiora nella bambola-vulva sonora dell’Eva futura di Villiers de l’Isle Adam. Sono i relitti di una mente ormai consunta dall’illusione esoterica che producono, nel fragile e insonne orizzonte di un mare spermatico, il sembiante della Marylin Chambers di Behind the Green Door («Dietro la porta verde», 1971), uno dei picchi del cinema pornografico «classico»: in esso l’enfatizzazione e la drammatizzazione dell’orgasmo, acquista una grandezza quasi funeraria. La medesima dimensione mortuaria e mutante che sarà ripresa da David Cronenberg in Rabid, capolavoro in cui la zoomorfosi si coniuga con il pensiero epidemico. Incubi di mutazione che affiorano nella visione di Chiara da Montefalco (una mistica a cavallo fra Duecento e Trecento): in una nube scurissima essa vede fluttuare sul mare qualcuno, disteso come se fosse crocefisso, attorniato da una folla vociante di uomini e donne, secolari e religiosi, che l’adorano, credendolo Dio (cfr. E.Pasztor, Donne e sante, Studium, Roma 2000, p.228). Siccome però la figura emanava un grande calore, la mistica percepisce la natura diabolica della visione in appetitus illicitos et impudicas carnis libidines vertebatur. Se la mente visionaria è fallace, implacabile è il sentire uterino. Tutto questo parlare di vulve, più o meno flottanti nell’albore seminale, richiama le analoghe dissertazioni sulle «matrici», cozzanti in un mare tenebrale, della cosmologia gnostica sethiana. Le «matrici» nelle cui sinuosità si articola una realtà illusoria e vuota di ogni ontologia. È l’aurora di un famoso lungometraggio dei nostri giorni, Matrix (1999). In esso è significativa una figura profetica di nome Morfeo, il precursore giovanneo del Messia, incaricato di demistificare la virtualità di Matrix. La sua figura si collega alla metafora di una società sonnambula, scimmiottamento di un’illusione imperfetta. L’ovvio riferimento gnostico per questa modalità di spettacolarizzazione della realtà, in cui domina la mediazione dell’immagine vaginale, è a Guy
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Debord e alla sua «società dello spettacolo», definita dallo stesso Debord come una società dominata da un comportamento ipnotico e da un desiderio di dormire (cfr. La società dello spettacolo [ed. or. Paris 1967], Baldini & Castoldi, Milano 1997, p.59), il «sonno» in cui alberga Adamo prima di essere ridestato dal Redentore gnostico. Indizi che consentono di scorgere un filo lungo le trasmigrazioni culturali dall’Aiōn ellenistico allo Zurwān iranico (e viceversa): la zurvanicità è caratterizzata in genere da due luoghi, dimore di due demoni rivali, nel mito sistanico è Zahhak, demone rosso, sul quale Zūr trionfa. Pochi hanno afferrato come nel Mago di Oz di F. Baum (poi tramutato in leggendario lungometraggio) sia celato il fatitido Aiōn/Zurwān dell’ellenismo iranizzato, il «Tempo infinito» che si dona alle tre estasi di Leone pauroso, di Uomo di pezza e di Uomo di latta, versione «secolare» dei tre involucri gnostici foggiati di pneuma, di psychē e di hylē somatica, una metafora da far invidia al J.G. Ballard di Controtempo, ma anche al Kubin de L’Altra parte. Nella mitologia gnostica il processo cosmogonico scaturisce dalla sostanza divina caduta ed imprigionata nel mondo della materia sotto forma di simbolo luminoso. In un trattato gnostico senza titolo trovato a Nag-Hammadi, la vita scaturisce dal «sangue della vergine», che caduto in basso purifica e feconda l’intera natura. Il trattato propone l’esegesi del nome Adamo = Uomo, scisso nei tre livelli di significato: in ebraico, dām = sangue, ādōm = rosso e adāmāh = terra, da cui la concezione di Adamo come «Uomo-di-sangue-luminoso». Quanto sin qui affabulato implica addentrarsi nei sinuosi rapporti contemporanei tra ciò che si può chiamare la Groova e la Tariqa, a dire Subsonica vs. Battiato, ma di più sta nel mescolarsi ai pargoli techno-beat d’oltre Mare (Ligure), i Sikitikis e il loro Rosso sangue. La loro musica, anche grazie alle sonorizzazioni delle pellicole segnate dal genio di Morricone, si configura in un mondo multimediale in cui l’universo visivo e quello sonoro collidono, sconfinando esplicitamente verso il cinema sperimentale e la videoarte. Si pensi ancora al loro primo videoclip Non avrei mai, un capolavoro beat tratto dall’opera prima Fuga dal deserto del Tiki (Casasonica 2005), a dire “Fuga dalle miniere del Sulcis”; un videoclip che propone una personale versione e parodizzazione de La notte dei morti viventi. Tra i pionieri di queste interferenze tra video e musica vanno annoverati i Residents, un gruppo californiano nato nei primi anni Settanta, che ha sempre posto particolare attenzione alla parte visiva (cfr. B. Di Marino, Interferenze dello sguardo, Bulzoni, Roma 2002, pp. 208 ss.). I loro video sono una sorta di teatrini surreali ed espressionistici, di «freak show» per usare il titolo di alcune loro performance musicali, dove i quattro componenti appaiono travestiti in smoking con un bulbo oculare al posto della testa, sormontato da un cappello a cilindro. Non a caso l’occhio è il simbolo stesso dell’avanguardia cinematografica (si pensi all’esordio surrealista di Buñuel) e
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sottolinea il ruolo centrale dello sguardo, cioè della creazione di un immaginario visivo, nella cultura musicale dei Residents. Scenografie e illuminazioni particolari che restituiscono un’atmosfera onirica, effetti di videografica, animazione in stop-motion, disegni, pupazzi: tutto ciò concorre nei loro video a costituire un catalogo di immagini bizzarre e suggestive, aumentando ancora più l’alone di mistero che avvolge il gruppo. Innovatrici sono state anche altre formazioni, come i Virgin Prunes, Monte Cazazza, gli SPK, i Psychic TV e soprattutto i Throbbing Gristle, che furono tra i primi a commercializzare videocassette con la documentazione delle proprie esibizioni live (pensiamo a Recording Heathen Earth, del 1980). Il gruppo inglese, inoltre, entrò in contatto con l’onirico Derek Jarman, il quale li riprese durante un loro concerto e inserì queste immagini nel breve film super 8 TG Psychic Rally in Heaven del 1981. Musica, cinema, video e performance, in realtà sono sempre stati strettamente collegati ed è anche dalla loro fusione che nasce l’idea di videomusica, o perlomeno una tendenza al più radicale videoclip di ricerca. Le improvvisazioni musicali dei Throbbing Gristle a partire dalle immagini proiettate su schermo (da cui nascerà per esempio l’album Second Annual Report del 1977) o i veri e propri «gioielli» di videoarte fuoriusciti dal genio di un Luca Pastore (al quale si deve anche il video di Rosso sangue dei Sikitikis e prima di Corpo a corpo dei Subsonica), si inseriscono nel solco di una lunga tradizione in cui si incontrano musica, letteratura e arti visive che, senza far rabbrividire nessuno, potremmo definire «gnostica».
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