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sul range acuto. Dotato di una tecnica ragguardevole, che sciorina al-
ternando pizzicato tradizionale, finger-style e slap, Linder è improv-
visatore appena nella media, ma il suo mestiere lo fa egregiamente
sostenendo e pompando i brani loopizzati della band.
Stesso discorso per il batterista Aron Mellegard; questi, al contra-
rio del compagno di sezione ritmica, è meno brillante tecnicamente,
ma allo stesso modo garantisce una pulsazione implacabile, e, fra i
tre, sembra quello più in sintonia con stilemi e fraseggi del metal più
moderno ed elegante.
Nilsson, infine. Strano musicista, in effetti. Come tastierista, vale
un neodiplomato in qualsiasi scuola di musica del mondo. Come
cantante, vanta una tessitura sottile, sbilanciata verso l’acuto. Su di-
sco, funziona perfettamente, dal vivo un po’ meno. Per la gioia del-
le ascoltatrici più giovani, compensa con l’aplomb da bellimbusto;
per gli altri, talvolta sono dolori.
LOOPIFIED, nonostante luci e ombre (molte di più le ombre), è un
buon disco d’esordio. Intrigante è il suo essere in precario equilibrio
tra presente e passato. Timbricamente, suona come fosse stato inciso
vent’anni fa, per via degli spessi fondali di tastiere (accade quando si
usano avanzatissimi strumenti digitali per replicare alla perfezione
suoni analogici), di una forse eccessiva compressione e di una scarsa
escursione delle dinamiche. In più, ma questo al vecchio ascoltatore
piace, per l’arrangiamento delle parti di fiati (tanto compresse da sem-
brare campionate) e la loro esecuzione i tre giovanotti si sono affidati
ai Seawind, ovvero alla premiatissima ditta Jerry Hey, Gary Grant e
Bill Reichenbach, ovvero la sezione fiati fusion per eccellenza.
Per essere un’opera prima, racconta con precisione le sue inten-
zioni: metal-fusion iperattiva per giovanissimi, sensuale come uno
scaldabagno, eccitante come un piatto di semolino, ritmi che alludo-
no all’IDM (l’attacco di The Way She Walks, il brano più interessan-
te del mazzo, è esemplare) e canzoncine che, volendolo fortemente,
si lasciano ascoltare. Volendolo.
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Eccoci, dunque, alla fine. E per finire rubo un altro titolo al gran cro-
nopio Julio Cortàzar, appassionato e cultore di jazz. Il gioco del mon-
do, ovvero saltare da una casella all’altra, toccare punti distinti e lonta-
ni, ascoltare la terra che si fa suono sotto i piedi, contare i passi come
fosse una filastrocca, partire dall’uno, e all’uno ritornare, ciclicamente.
E lì, nella casella da cui tutto inizia, e finisce, nell’infinito gioco
della fusion, oggi c’è Robert Glasper. A lui, alla sua straordinaria
apertura stilistica, alla capacità di declinare l’essenza più pura e
spiazzante di una black music mai così forte, potente, sensuale, con-
sapevole, a tratti dura, a volte spigolosa, oggi dobbiamo l’idea più
appassionante di post-fusion in circolazione. Con lui Lalah
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