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4.

ULTIMO ROUND

Rubando a Julio Cortàzar, gran cronopio, il titolo di un suo libro,


eccoci dunque a chiudere la partita. Come in una sfida scacchistica,
o in un giallo ben architettato, il finale non è quasi mai scritto in anti-
cipo: il re cadrà, e l’assassino sarà smascherato. Ma certo il buon
giocatore avrà costruito le premesse per la vittoria, così come l’inve-
stigatore raccolto prove a favore analizzando gli indizi che tutti, at-
tori e lettori, avevano giudicato irrilevanti.
Dunque, la fusion è morta. O perlomeno ha cambiato nome e
abitudini, indirizzo e numero di cellulare. Oggi si fa chiamare in mil-
le altri modi e si rende irriconoscibile con una certa irritante facilità.
Come la Lisbeth Salander di Stieg Larsson, ha hackerato codici di
accesso a banche estere, alterato i connotati e oggi si gode una
tranquillissima pensione in un paradiso musicale, dove ogni tanto
elargisce spicchi di un esaltante passato a pochi volenterosi musici-
sti, o ancor meno studiosi in cerca di sensazioni forti.
La fusion, come l’abbiamo raccontata nel piccolo libro è un già un
fossile, un reperto sonoro, un oggetto da esibire in un museo sono-
ro della modernità, se esistesse. Gli effetti del tempo, l’erosione de-
gli stilemi, l’essiccazione delle falde ispirative hanno provocato un
graduale, ma comunque velocissimo, processo di estinzione. Resta-
no attive pallide copie, o artisti ingabbiati in un passato dal quale
fanno fatica a, o non hanno strumenti e capacità per, evadere.
Oggi la fusion è una cosa piuttosto diversa, altra: una musica – o
meglio: una serie di pratiche – alle quali è addirittura difficile dare
un nome. Se il problema della pura definizione era già insormonta-
bile anni fa, come abbiamo visto, ai nostri giorni è semplicemente
irrilevante; d’altro canto, non esistendo più quella musica, con quel-

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le caratteristiche, e non avendo più l’industria discografica alcuna


urgenza di classificarla, etichettarla e venderla secondo una peculia-
re denominazione, il problema neanche si pone.
Ciò, però, non ci esime dal riflettere su modalità e metodiche dei
processi di fusione, su come quel repertorio e quell’orizzonte stilisti-
co abbiano trasmigrato (perché, in definitiva, è di questo che si trat-
ta) in altri giacimenti espressivi, in altre declinazioni musicali, diven-
tandone un ingrediente importante, «uno degli elementi fissi» con i
quali si sono giocate, e si stanno giocando, le nuove ambizioni arti-
stiche nel nuovo secolo, quanto mai immerso in una babele di lin-
guaggi, in un furioso mescolarsi di carte.
Se, dunque, quella fusion non esiste più, e certo non da ieri, il suo
posto non è restato vacante nello scacchiere stilistico contempora-
neo; è stato occupato da una serie di possibilità, tutte segnate da una
caratteristica comune: l’allontanamento sempre più deciso dal jazz
nel tentativo di costruire un dialetto stilisticamente autosufficiente,
senza la fastidiosa necessità di un trattino che ne rivendicasse l’affi-
liazione, certificandone una parentela (molto) presunta. Oggi, cioè,
passeggiando nell’intricatissima foresta delle etichette, si nota come
“jazz-fusion” e “contemporary jazz” abbiano lasciato il posto a una
numerosa sequenza di discendenti: “rock-fusion” (a pensarci, è la
più significativa), “funk-fusion” e via sciorinando.
Il jazz, insomma, viene espunto dalla lista degli ingredienti del
pasticcio musicale, e non è difficile capire perché. Intanto, perché di
jazz nelle pratiche fusionarie contemporanee ce n’è sempre meno,
mentre, allo stesso tempo, quozienti di fusion d’antan nel jazz-jazz so-
no sempre più tollerati, quando non addirittura salutati come innova-
zioni linguistiche (il che, converrete, è piuttosto divertente). Quest’al-
lontanamento tra fusion e jazz certifica anche la definitiva, come chia-
marla?, separazione delle carriere. Se, cioè, la fusion è nata sotto la
spinta di musicisti la cui L1 (per usare un termine linguistico: la lin-
gua madre) era il jazz, oggi non è più così. Dalla metà degli anni Ses-
santa in poi, il pedigree jazzistico dei primi grandi stilisti del genere
era evidente e irreprensibile: Ramsey Lewis, Grover Washington,
Herbie Hancock, George Benson, Keith Jarrett, per tacer di Joe
Zawinul e Wayne Shorter, Chick Corea, Michael Brecker e splendida
compagnia erano jazzisti doc, capaci di esprimersi anche con la L2 (la
seconda lingua, ovvero quella di ibridazione e di arrivo: la fusion). Il
ULTIMO ROUND

successo di questa musica ha però prodotto una nuova generazione di


musicisti per i quali, pur in nome di un vantaggioso multilinguismo
che li metteva in grado di suonare con pertinenza un numero elevato
di lingue musicali, la L1 non era certamente il jazz, ma spesso questo
idioma meticcio, buono per lavorare in più contesti possibili, ma che
certo non qualificava come jazzisti. Non è un caso, in effetti, che oltre
quelli citati poche righe fa, pochi sono i musicisti che hanno condot-
to carriere significative nel jazz e nella fusion. Oggi la distanza, se pos-
sibile, è ancora più ampia e profonda. Allo stesso modo in cui, nella
musica afroamericana degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, suo-
nare jazz e blues non era la stessa cosa (se Louis Armstrong era in gra-
do di dare il suo meraviglioso contributo nei dischi di blues, come ha
fatto, il contrario sarebbe stato impossibile per Blind Lemon Jeffer-
son o Son House), i musicisti fusion – anche i più bravi, come Russell
Ferrante – mai sono stati parte integrante della scena jazzistica. In
questo momento storico, come detto, la distanza è incolmabile; in-
tanto, perché i nuovi fusionari sono arrivati alla sintesi non certo par-
tendo dal jazz, ma dal novero delle altre musiche afferenti; poi, per-
ché alcuni tratti specifici della fusion, come una certa complessità rit-
mica, una frenetica articolazione espressiva, cervellotiche derive nel-
l’uso di tempi dispari sono stati assimilati e sfruttati estensivamente da
altri generi (come alcune declinazioni rock, quando non addirittura
metal: basti pensare al math-rock, o alla nuova sintassi di gruppi co-
me i Dream Theater). Tradotta sovente in eccesivo, scombiccherato –
e disperato – virtuosismo, questa fusion di risulta ha rinunciato all’i-
dea di swing, a ogni possibile sensualità ritmica per assumere, anche
nei casi migliori, una macchinosità insopportabile. Se prima, cioè, co-
me abbiamo visto, la fusion era la scelta primaria per sonorizzare film
porno o pubblicizzare chat erotiche, oggi nessuno potrebbe più ave-
re un piacevole rapporto sessuale assecondandone, o lasciandosi ispi-
rare e cullare da, i tempi compressi e astrusi. Il contrappeso, ovvia-
mente, è la prospettiva di matrice pop, figlia dello smooth jazz, altret-
tanto poco interessante dal punto di vista ritmico (e non solo ritmico).
Un altro problema, non certo secondario, riguarda lo spostamen-
to dell’asse dell’innovazione, e riguarda non solo la fusion, ma an-
che il jazz. Negli ultimi venti anni, dalla metà degli anni Novanta in
poi, per intenderci, a indicare la strada per un rinnovamento delle
musiche non è stato il jazz, né la fusion, quanto il rock più speri-

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mentale, l’elettronica (anche e soprattutto quella dance-oriented,


denominata IDM) e, soprattutto, il vasto campo delle musiche
afroamericane riconducibili a neo-soul, r’n’b e hip-hop. Per dirla
crudamente: mentre il jazz continuava il suo letargo creativo, una
vasta schiera di geniali musicisti – guidati da Radiohead, D’Angelo
e Aphex Twin, per citarne solo un paio, e soprattutto per dare un’i-
dea, seppur vaga – ha indagato territori inesplorati, ponendosi co-
me inevitabile modello da seguire, imitare, o dal quale raccogliere il
testimone per ulteriori ricerche e sperimentazioni. Un ritardo in-
colmabile, insomma, cha ha prodotto risultati prevedibili; da un la-
to, la fusion più raffinata e solida si è di fatto fusa col jazz, grazie al-
l’adozione di strumenti acustici e schemi esecutivi assai più tradi-
zionali; dall’altro, il jazz ha di fatto assorbito gli elementi più elet-
trico-elettronici della fusion, così come molte soluzioni formali, tim-
briche e lessicali, in nome di una spinta all’innovazione dei linguag-
gi che altro non è che riciclo di materiale per anni negato, ignorato,
quando non deriso. Così, mentre tutt’intorno si inventa, sperimen-
ta, crea, jazz e fusion si sono ripiegate su se stesse, acciambellando-
si come un pacifico gattone in attesa del pasto.
In un panorama siffatto non sorprende che la fusion sopravvissu-
ta abbia caratteristiche del tutto nuove (anche se non innovative) ri-
spetto a pochi anni orsono. Smontati gli alibi, messi da parte i vec-
chi costumi di una rappresentazione ormai obsoleta, completati i
processi di riassorbimento, la fusion prova a respirare l’aria del nuo-
vo millennio, ad affacciarsi ad altre finestre, provando addirittura a
giocare su tavoli diversi, con i risultati che stiamo per analizzare.

4.1. Di cuccioli antipatici e anelli sporchi

Due sono i gruppi che si spartiscono la ribalta della fusion, ai gior-


ni nostri. Due band molto diverse, per cifra stilistica, organizzazione
timbrica e procedure di sintesi, ma accomunate da alcuni tratti. Il
primo è quello di incidere per una major (anche se con alcuni distin-
guo, come vedremo); l’altro è l’aver costruito la propria popolarità
attraverso un uso assai consapevole e funzionale di internet, soprat-
tutto di Youtube: quindi affidando alla dimensione visiva un ruolo
importante, quando non decisivo, per lo sviluppo delle rispettive

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ULTIMO ROUND

carriere; l’ultimo è quello di avere nomi fessacchiotti: non che Spe-


cial Efx o Rippingtons non lo fossero, ma Dirty Loops e Snarky
Puppy sembrano piuttosto debolucci, né esprimono chissà quale ri-
flessione. Ma sono nomi facili da ricordare, che altrettanto facilmen-
te si incollano alla musica che devono veicolare.
Snarky Puppy è un gruppo allargato, una sorta di collettivo all’in-
terno del quale ruotano addirittura una quarantina di musicisti, gui-
dato con mano ferma da Michael League. La strada verso il successo
è stata lunga, anche in termini di kilometri: da Danton, Texas, dove
il nucleo si è formato, alla Grande Mela e ai palcoscenici più blaso-
nati, i cuccioli antipatici sono riusciti, con grande pervicacia, a gua-
dagnarsi una credibilità ormai certificata grazie a un insieme di con-
dotte e pratiche di una certa originalità.
L’organico, intanto, è singolarmente anomalo e sovradimensiona-
to: poiché i loro ultimi dischi sono incisi dal vivo con il pubblico in
sala, ciò esige l’avere sempre a disposizione ogni suono o sfumatura
timbrica di cui si ha bisogno, senza dover ricorrere a sovraincisioni.
Per questo, oltre a una poderosa sezione ritmica (due chitarre, bas-
so, batteria, percussioni, pianoforte, tastiere, Hammond) il colletti-
vo può contare su una sezione fiati e su un quartetto d’archi pronto
alla bisogna.
A governare un simile arsenale timbrico è League. Sebbene
giovanissimo (poco più che trentenne), ha un pedigree foltissimo, nel
qual spiccano collaborazioni con alcuni dei nomi più interessanti del-
la scena musicale contemporanea. Tranne jazzisti. Sì, perché League,
compositore, arrangiatore, produttore, didatta e bassista di eccellen-
ti qualità, è il tipico prodotto di quel “new breed”, quella nuova
generazione di musicisti poliglotti, dall’approccio fortemente multi-
stilistico per i quali il jazz non è L1, e neanche L2. L’orizzonte musi-
cale nel quale si muove il bassista è sconfinato: pesca dalla black mu-
sic al rock, fino al gospel, genere per il quale ha maturato una decisa
predilezione negli ultimi anni, tanto da “rubare” a Kirk Franklin, una
delle stelle più luminose di quel firmamento, il suo direttore musicale,
ovvero il tastierista, arrangiatore e compositore Shaun Martin. Que-
sti, quattro Grammy sulla mensola del tinello, si è fatto le ossa colla-
borando col più bel mondo del soul e del r&b: Erikah Badu, per la
quale ha scritto, suonato e prodotto nel seminale MAMA’S GUN, Chaka
Khan e una sfilza infinita di altri nomi eccellenti. Martin è entrato nel-

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STORIA DELLA FUSION

lo zoccolo duro del collettivo – ovvero la sporca dozzina più o meno


fissa – poco prima della registrazione di TELL YOUR FRIENDS, e da quel
momento, non a caso, la musica è cambiata.
Fermiamoci per un attimo. L’aver sbirciato nei curricula di due
delle colonne degli Snarky Puppy non è stato puro voyeurismo: ci ha
dato informazioni preziose per individuare, da subito, un paio di
snodi problematici. E, soprattutto, ha fornito conferme. Primo: la ri-
trovata centralità del gospel nella fabbrica della soul music contem-
poranea. Come abbiamo visto, le espressioni più moderne della mu-
sica religiosa afroamericana hanno da sempre contribuito alla for-
mazione del canone black, in virtù di un’endemica necessità di crea-
re tipologie espressive capaci di raccogliere attorno a sé una platea
enorme, trasversale, che fuori dalla chiesa ascolta di tutto, e che pro-
prio quel tutto, o elementi di esso, vuole cantare mentre rende gra-
zie al Signore. Da almeno trent’anni il gospel offre altissimi livelli
esecutivi, una ricerca inesausta di formule e soluzioni armonico-me-
lodico-ritmiche e quell’ingrediente che, a volte, manca alle altre mu-
siche: la gioia. Secondo: l’assenza di rilevanti esperienze jazzistiche
nel passato di League e Martin conferma il mutamento in atto nelle
procedure di arrivo alla fusion: il jazz non è più un elemento indi-
spensabile all’ottenimento della miscela sonora, non rappresenta
più, cioè, la patente di qualità, l’agibilità musicale. La fusion, insom-
ma, si è definitivamente svincolata dal jazz come orientamento e le-
game primario, tanto che sanguinose polemiche come quelle che
hanno travolto Kenny G (suona o non suona jazz?) oggi sarebbero
del tutto scentrate e inconcludenti. Forse League non sarebbe nean-
che contento se qualcuno etichettasse come jazz la sua bigband 2.0.
Il quoziente jazzistico, comunque, è garantito da altri musicisti, co-
me, ad esempio, i sassofonisti Bob Reynolds e Chris Bullock, i quali
vantano collaborazioni di un certo rilievo, ma dai quali non ci si de-
ve aspettare chissà quali innovazioni linguistiche.
Quelle arrivano, invece, dalla coppia ritmica, composta da Robert
“Sput” Searight, batteria, e Nate Werth, percussioni. Searight è una
delle star di un particolare stile batteristico, assurto ormai da anni al-
l’attenzione di pubblico e critica: il gospel drumming. Chris Cole-
man, Aaron Spears, George “Spanky” McCurdy, Gerald Heyward,
tanto per fare qualche nome, ne vanno diffondendo il verbo grazie al-
l’interesse ormai accesosi su questo fenomeno, che vale la pena, sep-

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ULTIMO ROUND

pur velocemente, approfondire. Nata nelle chiese Pentecostali afroa-


mericane, questa modalità batteristica non incorpora, né adotta, una
lingua franca originale, inventata appositamente: opera una sintesi tra
una miriade di stilemi preesistenti, prendendo dall’r&b e dall’hip-
hop, naturalmente, non disdegnando però incursioni nel rock, nel-
l’alveo del jazz e della fusion, così come nel metal. Nonostante l’in-
dustria abbia cavalcato l’onda invadendo il mercato con prodotti spe-
cifici (bacchette, pelli, piatti, percussioni) e materiale didattico (me-
todi, Dvd), non è ancora chiaro quali siano le peculiarità specifiche di
questo stile. Alcuni dei protagonisti, come Aaron Spears, sostengono
che non esista una dimensione tecnico-stilistica esclusiva, proprieta-
ria, quanto piuttosto una dimensione spirituale forte, un senso di par-
tecipazione indispensabile quando si accompagna una funzione nelle
chiese Pentecostali. Di cosa parlano dunque le decine di siti internet
dedicati al gospel drumming, con lezioni online e tutorial? Per la gran
parte, permettono di avvicinarsi al fraseggio dei grandi protagonisti,
i quali nel frattempo dominano la scena pop tout court essendo le pri-
me scelte dei grandi nomi dello showbiz (Teddy Campbell con Brit-
ney Spears, Brian Fraser Moore con Christina Aguilera, Rex Hardy
con Mary J. Blige, Aaron Spears con Usher, Kim Thompson con Be-
yoncé e la lista è lunghissima). Ma nulla possono trasmettere del sen-
so più profondo e intimo dell’esperienza musicale religiosa. Se, a li-
vello teorico, si può affiliare il gospel drumming a un tipo di tecnica
cosiddetta lineare, in cui cioè si costruiscono frasi senza che i quattro
arti suonino contemporaneamente – anche se è del tutto arbitrario –
le caratteristiche performative delle funzioni pentecostali fanno sì che
i musicisti, e soprattutto i batteristi, abbiano la capacità di reagire con
prontezza e lucidità alle emozioni che si creano durante il rito, e ai ge-
sti del direttore. Suonare ogni domenica davanti a centinaia, quando
non migliaia, di fedeli; vivere in un ambiente estremamente competi-
tivo, dove l’educazione musicale inizia prestissimo, e altrettanto pre-
sto si spinge il musicista in erba a misurarsi coi problemi concreti
piuttosto che con quelli teorici; tutto questo un sito internet, per
quanto ben fatto, non può insegnarlo. E sono proprio queste caratte-
ristiche, unite alla precisione esecutiva e alla capacità di esprimersi
nei contesti più diversi che rendono i gospel drummers così richiesti.
Proprio a causa – o in virtù – di ciò, allora, non sembri blasfemo
considerare gli Snarky Puppy come un ensemble gospel, più che una

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STORIA DELLA FUSION

bigband di nuovissima generazione o un collettivo allargato di


musicisti talentuosi. Riconoscendosi nella guida e nella leadership di
League, i componenti del gruppo altro non fanno che replicare i
tratti tipici di un concerto gospel. Innanzitutto, cercano a ogni costo
la dimensione live, tanto da incidere i loro ultimi dischi dal vivo
(proprio come nella migliore tradizione del gospel): registrando live,
anche se in un setting assai particolare – il pubblico presente, non
numeroso, è seduto sul palco, quasi a contatto con i musicisti e in-
dossa le cuffie – gli Snarky Puppy cercano di trasformare in energia
il contatto con l’ascoltatore, in una sorta di scambio emotivo rituale.
Che sì avviene al chiuso di uno studio, ma al quale, però, tutti pos-
sono assistere grazie alle curatissime riprese filmate. Un disco degli
Snarky Puppy quindi è sempre un atto molteplice: per un terzo te-
stimonianza discografica, per un altro terzo concerto dal vivo, per un
terzo documento visivo.
L’idea comunitaria alla base del collettivo – una specie di vera e
propria social fusion – si riflette non solo in questa peculiarissima
forma di visibilità/audibilità, ma anche in un approccio nuovissimo
alla didattica. I musicisti del gruppo, e in special modo League, so-
no attivissimi nel dispensare le proprie conoscenze musicali attra-
verso la realizzazione di clinic e seminari anche a poche ore dai con-
certi. Il bruciante desiderio di diffondere conoscenze e consapevo-
lezze musicali è tutta interna a una visione laicamente ecumenica, e
leggermente utopistica, della trasmissione di saperi. Il contatto con i
giovani musicisti non solo crea il pubblico di domani, e dopodoma-
ni, ma rende il senso di una visione partecipativa e condivisa, che gli
Snarky Puppy perseguono anche in sfiancanti tour mondiali, dai
quali certo non ricavano ricchezza (spostare una band così numero-
sa, e con la propria strumentazione al seguito, è estremamente co-
stoso), ma possibilità di divulgare il verbo del cucciolo antipatico.
Social e comunitari, non sorprende allora saperli in prima linea
nelle attività benefiche. Un loro disco (FAMILY DINNER VOL 1, del
2013, forse il migliore a oggi, il secondo volume è atteso a breve) ha
contribuito alle attività del centro in cui è stato registrato/filmato, il
Jefferson Center di Roanoke, in Virginia. Disco, peraltro, fortunatis-
simo: tutto cantato, contiene Something, un vecchio brano di Bren-
da Russell (eccellente vocalist afroamericana nei cui dischi ha colla-
borato anche Russell Ferrante), magistralmente reinterpretato da

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Lalah Hathaway, la meravigliosa cantante di cui ci occuperemo più


avanti, col quale gli Snarky Puppy si sono aggiudicati ul Grammy
Award per la miglior performance r&b. Leggenda vuole che per par-
tecipare alla cerimonia di premiazione League abbia comprato, il
giorno stesso, una giacca a pochi dollari in un grande magazzino.
Il resto della produzione è di eccellente livello, senza però far gri-
dare al capolavoro. League e soci, spesso ingabbiati in un’estetica
piuttosto scolastica (e non a caso molti dei componenti il collettivo
hanno frequentato la North Texas University, e suonato nella band
dell’ateneo, la celeberrima One O’ Clock Lab Band), esprimono una
musica a tratti meccanica, che oscilla tra influenze disparate e ambi-
zioni ritmiche. Non sempre il risultato è equilibrato, e sicuramente la
presenza di voci ospiti (come in FAMILY DINNER VOL 1), così come il
misurarsi con la forma canzone aiuta a smussare gli angoli e a rendere
il cucciolo assai più simpatico. Ciononostante, a ottobre del 2014 la
band è stata contrattualizzata dalla storica etichetta Impulse!.
È uscito per la Verve, invece, LOOPIFIED dei Dirty Loops, l’altro
gruppo in grado di suscitare scalpore nel panorama fusionario di
questo scorcio di secolo. Due formazioni che non potrebbero essere
più diverse: al collettivo allargato e smisurato americano, infatti, si
contrappone un trio svedese (l’allusione a Stieg Larsson, molte righe
più su non era casuale). Ridotto come organico, ma non come ambi-
zioni e cubature sonore, il combo nordeuropeo si affida alle tastiere,
all’elettronica e a un generoso quantitativo di basi preregistrate per
riprodurre dal vivo la complessa macchina timbrica di cui sono ca-
paci Jonah Nilsson (voce, piano, tastiere), Henrik Linder (basso elet-
trico) e Aron Mellegard su disco.
I tre si sono conosciuti al Royal College of Music di Stoccolma, e
nel 2008 hanno deciso di fondare la band. Viene allora da chiedersi:
cos’hanno fatto da allora fino al 2014, anno di uscita del loro primo,
e al momento unico, album? Hanno affinato le armi, affilato i denti e
iniziato a riproporre cover di celebri brani pop nel loro stile, che af-
fonda a piene mani in certa fusion nervosetta di fine secolo scorso, nel
funky più elaborato e sofisticato, mescolati con tratti ormai
tranquillamente assimilabili alle deviazioni più eclettiche di – come
definirlo? – un metal cameristico. Dopo aver lavorato all’idea, i tre
hanno provveduto non già a incidere il materiale, ma a filmarlo e po-
starlo su YouTube, suscitando grande scalpore. Innumerevoli le vi-

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sualizzazioni di Baby, di Justin Bieber, Circus, di Britney Spears, o di


Forever Young (degli Alphaville, la preferita di chi scrive): fa una cer-
ta impressione ascoltare quei brani completamente riarmonizzati, rit-
micamente rielaborati e interpretati con una certa veemenza in grado
quasi di redimere un materiale apparentemente irrecuperabile.
Con questa gavetta, e una crescente attività live, i tre sono arrivati al
prestigioso contratto discografico e l’hanno onorato, però, incidendo
un repertorio di brani originali (tranne qualche cover inserita a forza
nell’edizione giapponese e statunitense). Con risultati altalenanti. Co-
me autori, infatti, i tre svedesi sono ancora molto acerbi: scrivere can-
zoni al fulmicotone – com’era, immaginiamo, nel progetto originale –,
capaci di sopportare arrangiamenti roboanti e ritmiche mozzafiato
non è abilità che si apprenda da un giorno all’altro. Un conto è riar-
monizzare materiale esistente, altro è scrivere temi, e testi, che reggano
all’impatto. Dal vivo, poi, almeno a giudicare dai frammenti di con-
certi reperibili sul web, i tre (che in realtà diventano quattro con la
presenza di un tastierista aggiunto, il quale permette a Nilsson di fare
il frontman, essendo il cantante e il bello del gruppo) faticano a reg-
gere il peso sia della mera riproduzione del materiale, sia quello
improvvisativo (dato che Nilsson non è certo pianista trascendentale).
Ciononostante, i Dirty Loops riescono a farsi strada anche nella
corazza arcigna del vecchio appassionato grazie a una serie di ele-
menti piuttosto interessanti. Il primo è di tipo ritmico, e ha a che fa-
re con la totale mancanza di swing. Tutta la musica prodotta dal trio
si basa su una suddivisione ossessiva, sullo spaccare in quattro le bi-
scrome; i brani si costituiscono a partire da groove, ma sono schemi
meccanici, a volte innaturali: pur comprensibili, non accendono il
movimento (come vorrebbe la loro sfumatura di funky iperconfezio-
nato), né lo stupore, per via di soluzioni o prevedibili, o immediata-
mente comprendibili. Eppure, la loro è una musica che proprio a li-
vello ritmico riesce a diventare interessante per le condotte stru-
mentali di basso e batteria. Il bassista Henrik Linder, dal look pro-
to-dark, che alla lontana ricorda Lisbeth Salander, è un giovane vir-
tuoso del groove; le sue figurazioni pulsanti, sempre pensate sottin-
tendendo un raddoppio di tempo, garantiscono un drive implacabi-
le, una forza di trascinamento irresistibile. Non solo ritmo, ma anche
timbro, dacché l’uso della sesta corda (quella che produce le note
più basse) bilancia una cubatura complessiva leggermente spostata

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ULTIMO ROUND

sul range acuto. Dotato di una tecnica ragguardevole, che sciorina al-
ternando pizzicato tradizionale, finger-style e slap, Linder è improv-
visatore appena nella media, ma il suo mestiere lo fa egregiamente
sostenendo e pompando i brani loopizzati della band.
Stesso discorso per il batterista Aron Mellegard; questi, al contra-
rio del compagno di sezione ritmica, è meno brillante tecnicamente,
ma allo stesso modo garantisce una pulsazione implacabile, e, fra i
tre, sembra quello più in sintonia con stilemi e fraseggi del metal più
moderno ed elegante.
Nilsson, infine. Strano musicista, in effetti. Come tastierista, vale
un neodiplomato in qualsiasi scuola di musica del mondo. Come
cantante, vanta una tessitura sottile, sbilanciata verso l’acuto. Su di-
sco, funziona perfettamente, dal vivo un po’ meno. Per la gioia del-
le ascoltatrici più giovani, compensa con l’aplomb da bellimbusto;
per gli altri, talvolta sono dolori.
LOOPIFIED, nonostante luci e ombre (molte di più le ombre), è un
buon disco d’esordio. Intrigante è il suo essere in precario equilibrio
tra presente e passato. Timbricamente, suona come fosse stato inciso
vent’anni fa, per via degli spessi fondali di tastiere (accade quando si
usano avanzatissimi strumenti digitali per replicare alla perfezione
suoni analogici), di una forse eccessiva compressione e di una scarsa
escursione delle dinamiche. In più, ma questo al vecchio ascoltatore
piace, per l’arrangiamento delle parti di fiati (tanto compresse da sem-
brare campionate) e la loro esecuzione i tre giovanotti si sono affidati
ai Seawind, ovvero alla premiatissima ditta Jerry Hey, Gary Grant e
Bill Reichenbach, ovvero la sezione fiati fusion per eccellenza.
Per essere un’opera prima, racconta con precisione le sue inten-
zioni: metal-fusion iperattiva per giovanissimi, sensuale come uno
scaldabagno, eccitante come un piatto di semolino, ritmi che alludo-
no all’IDM (l’attacco di The Way She Walks, il brano più interessan-
te del mazzo, è esemplare) e canzoncine che, volendolo fortemente,
si lasciano ascoltare. Volendolo.

4.2. Di poeti, sirene, senatori e fanti

Per fortuna, c’è dell’altro. Verrebbe da dire: molto altro, se non


fosse che, in verità, per allargare l’orizzonte presunto della fusion al

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STORIA DELLA FUSION

giorno d’oggi bisogna davvero operare qualche forzatura, voltare lo


sguardo a zone e territori di confine, proprio perché la fusion non
esiste più nelle forme e negli stili cui eravamo abituati a considerar-
la. Diventa, tra le mani di musicisti sapienti e fantasiosi, più che un’e-
spressione, un’idea, un metodo di lavoro: indica procedure e moda-
lità, trasformandosi poi in qualcosa di nuovo, non assimilabile alla
vecchia idea, a un concetto ormai buono solo per i libri di storia, e
forse – come abbiamo visto – neanche per quelli.
In questo paragrafo, allora, ci occuperemo di quei musicisti che,
pur non essendo etichettabili come appartenenti al novero della fu-
sion, inventano suoni e modi nuovi di pensare l’incontro tra il jazz,
il pop e le musiche nere, secondo paradigmi e procedure spesso
sorprendenti, addirittura spiazzanti. Tutti, tranne loro, gli Yel-
lowjackets, senatori e portabandiera di una musica che non c’è più,
ma che nelle loro mani continua a vivere con inimmaginabile vitalità.
Già, sempre loro, inossidabili, immarcescibili Yellowjackets. Lo-
ro, gli eroi eponimi di quella fusion nobilissima di cui si parlava nel
piccolo libro; loro, artefici di una nuova forma buona, a prova di Ge-
stalt; loro, che quell’idea di fusion hanno contribuito a inventarla.
Loro, sì, proprio gli Yellowjackets dei quali non resta traccia nelle
abborracciate cronache musicali degli ultimi trent’anni. Ebbene:
non solo non si sono estinti, destino che spetta ai dinosauri, ma do-
po appunto tre decenni di attività ininterrotta non solo non abban-
donano, ma rilanciano, in una sorta di fantasmagorico all-in sul ta-
volo delle ambizioni musicali.
Dopo un lungo periodo di crisi, segnato da dischi ripetitivi e stan-
chi, le giubbe gialle sono tornate a rinnovato splendore grazie a un
addio inatteso e un ritorno molto atteso. Jimmy Haslip, il bassista
mancino cofondatore del gruppo, alla fine del 2011, distrutto da die-
ci mesi trascorsi in tour con la band, ha deciso di prendersi un anno
sabbatico, per trascorrere più tempo con la famiglia e dedicarsi ad al-
tri progetti (nulla di strano per un signore di sessantuno anni, peral-
tro in perfetta forma). Il suo posto è stato preso da Felix Pastorius, il
figlio poco più che trentenne del leggendario Jaco (col quale Bob
Mintzer suonò a lungo quando il ragazzo non era neanche nato). Ma,
soprattutto, il seggiolino della batteria, lasciato vuoto (finalmente!)
da Marcus Baylor è stato di nuovo occupato da William Kennedy, il
migliore tra quelli schierati dagli Yellowjackets. E qui non posso esi-

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ULTIMO ROUND

mermi dal raccontare un piccolo aneddoto. (Potete evitarlo senza ac-


cusare sensi di colpa, s’intende, e saltare al paragrafo successivo).
Molti anni fa, intorno alla metà degli anni Novanta, grazie a una
serie di fortunate circostanze (ero amico dell’organizzatore del tour,
Patrizio Chiozza, e del tour manager e direttore di palco, Marcello
Fagnani) mi trovai in netto anticipo al Teatro Palladium di Roma per
il concerto di Ferrante e soci. I quattro ancora non erano arrivati in
città, ma c’era la necessità di sistemare i livelli dell’amplificazione;
per questo, Marcello, ricordandosi che un tempo non lontano ero
stato un batterista, mi invitò a sedermi alla batteria di Kennedy e a
suonare qualcosa, affinché il fonico potesse fare i suoni. Mi accomo-
dai, non senza una punta di soggezione, e pregustai il suono meravi-
glioso di quei tamburi. Invece, produssi poco più che un sordo ru-
more di barattoli. Pensai fosse colpa dei miei colpi arrugginiti; dopo
qualche minuto, il fonico mi disse che andava bene. La batteria, a
mio parere, continuava a suonare malissimo, e immaginavo la rea-
zione di Kennedy quando si fosse seduto a provarla. Quando final-
mente i quattro musicisti arrivarono in teatro, William si sistemò die-
tro i tamburi e… bam! Quel suono pazzesco, micidiale si materia-
lizzò come per incanto. Eppure stava usando le stesse bacchette che
avevo usato io, le stesse regolazioni del mixer, gli stessi microfoni.
Erano ovviamente le sue mani a produrre quel timbro fantastico, so-
prattutto sui piatti. Incredibile musicista, e umilissimo.
Il ritorno di Kennedy all’ovile yellowjacketsiano ha come per in-
canto riattivato i circuiti energetici della band, dentro la quale ora la
giovanile esuberanza di Felix Pastorius apporta nuova linfa e,
soprattutto, nuove soluzioni timbriche e stilistiche. Lo spostamento
sempre più deciso di Ferrante verso il pianoforte, e la conseguente
riconversione della cubatura sonica conferiscono alla musica delle
giubbe gialle un rinnovato appeal. Che si può assaporare ascoltando
l’ultimo disco, A RISE IN THE ROAD, (Pastorius in alcuni brani suona
il basso fretless appartenuto al padre, e prestatogli da Robert Trujil-
lo, dei Metallica, che ne è l’attuale possessore), ma in maniera ancor
più convincente guardando sul web i video dei concerti più recenti
(bellissimo quello con Bobby McFerrin).
Senatori a vita, insomma, proprio come gli Spyro Gyra. La trup-
pa guidata da Jay Beckenstein procede, senza sbalzi e scosse, una
carriera dignitosissima. Se i dischi sono trascurabili, assai divertenti

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STORIA DELLA FUSION

i cinque lo sono dal vivo. Nonostante l’età, la pancetta del leader


(mentre Tom Schuman è drasticamente dimagrito), il tempo che
sembra essersi fermato sui lineamenti di Julio Fernandez e il fisico
palestrato di Scott Ambush, i cinque (con l’aggiunta del nuovo bat-
terista, il formidabile Lee Pearson, musicista in grado di spaziare da
gospel – guarda caso – al jazz d’avanguardia) si divertono ancora co-
me matti, sciorinando due ore di fusion divertente e apprezzabile, in
cui la parte del leone la fanno i vecchi classici (e non a caso l’aper-
tura è affidata a Freetime).
Se queste band sono le colonne su cui si reggono le antiche vesti-
gia della fusion che fu, prima che l’intero edificio cada a pezzi, intor-
no a loro si muove un denso mondo di mezzo abitato da musicisti che
hanno interiorizzato certi stilemi e li inglobano in linguaggi sorpren-
dentemente nuovi. Nessuno di loro è etichettabile come fusion (al-
meno secondo i vecchi criteri senatoriali), ma sicuramente la musica
che producono molto le deve, e ad essa in qualche modo allude.
Giovani, ambiziosi e formidabilmente capaci di inventare musica,
questi artisti segnano un tempo nuovo per i destini del ventunesimo
secolo: smontano vecchi steccati, smarcano nuove idee, navigano
orizzonti a volte perigliosi, sempre portando a casa la pelle. Di loro
parleremo, brevemente, prima di chiudere definitivamente il round.
E iniziamo con una band, i Kneebody. Percorso netto, il loro, sin
dall’inizio, quando da studenti dell’Eastman School of Music e del
CalArt si riunirono, alle soglie del nuovo secolo, in un combo in-
gannevole. Ingannevole perché a guardare l’organico ci si sarebbe
aspettato un gruppo molto jazz-oriented: la strumentazione è quella
tipica dei quintetti di soul jazz, o proto-fusion per la presenza del
piano elettrico. E invece i ragazzacci avevano ben altro in mente, ov-
vero una mescola sensazionale in grado di inglobare con singolare
coerenza il punk e il funk, il trip-hop e la jungle, il free e l’avanguar-
dia, senza mai perdere d’occhio una certa rapace cantabilità, un cer-
to minimalismo filtrato attraverso le lenti della contemporaneità, e
una potenza ritmica clamorosa: non a caso, i loro punti di riferimen-
to, dichiarati, sono D’Angelo, i Radiohead, Queens of the Stone
Age, Ornette Coleman e quant’altro. Adam Benjamin (tastiere), Sha-
ne Endsley (tromba), Ben Wendel (sax tenore), Kaveh Rastegar (bas-
so), Nate Wood (batteria: musicista micidiale, sua la batteria nel tor-
mentone di Wherever You Wll Go, il singolo del rockettari The Cal-

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ULTIMO ROUND

ling che in Italia spopolò come colonna sonora di una campagna


pubblicitaria del Mulino Bianco), ci hanno impiegato un po’ a tro-
vare la quadra (per usare un barbarismo assai in voga nella nostra
lingua vituperata), ma una volta capito il dosaggio degli ingredienti
hanno sfornato piatti succulenti e inarrivabili. Se KNEEBODY (2005),
LOW ELECTRICAL WORKER (2007), seppur eccellenti, ancora risento-
no di piccole/grandi incertezze, e TWELVE SONGS BY CHARLES IVES
(2009, con il vocalist Theo Bleckmann) è un fantastico omaggio al
grande compositore americano, il recentissimo THE LINE (2013) se-
gna l’approdo alla maturazione, e alla consacrazione definitiva. Tut-
to, in quel disco, osserva una logica ferrea, punta verso l’ottenimen-
to di un risultato eclatante: dall’iniziale Lowell, quasi un nuovo inno
della fusion contemporanea (o come la vogliamo chiamare adesso),
a Sleveless, è una ghirlanda di trovate, di giochi di prestigio, di illu-
sionismo che però poggiano su solidissime basi ritmiche. Tempi
frammentati e/o groove poderosi si interfacciano in un tracciato sul
quale i fiati impilano strati di felicissima invenzione. Nulla è lasciato
al caso, eppure si respira l’aria della più totale spontaneità, dentro a
suoni mai ascoltati, frasi mai pronunciate e una forte, struggente vo-
glia di percorrere nuove vie. Dopo quasi vent’anni dalla fondazione,
i Kneebody oggi sono finalmente i Kneebody, e ci sarà da fare i con-
ti con loro, lungo buona parte del ventunesimo secolo.
In Europa, invece – per parafrasare l’incipit di un grande libro
che, come tutti i grandi libri, in pochi hanno letto – si aggira uno
spettro. Talmente agile, etereo, imprevedibile e inafferrabile che per
alcuni anni è riuscito a tenersi sotto traccia, a evitare i radar dei me-
dia, a svincolarsi nel setaccio a grana grossa della critica, spesso di-
sattenta. Il suo primo album, SUITE FOR THE SEVEN MOUNTAINS, pas-
sato del tutto inosservato, era a nome dei People Are Machines, un
gruppo completato da Magnus Hjort, Petter Eldh e Anton Eager, ai
quali si affiancava un quartetto d’archi. Gli ci sono voluti poi tre an-
ni, da quel 2008, per mettere a punto la sua musica, e il risultato è
stato un disco di rara potenza, GOLDEN XPLOSION, del quale John
Fordham, il critico di jazz del «The Guardian», non esattamente una
gazzetta di quartiere, ha scritto: «Il musicista non solo unisce la for-
za di Brecker alla delicatezza timbrica di Jan Garbarek, ma ha una
visione musicale che rende indispensabili tutti gli undici brani origi-
nali di questo disco sensazionale, e tutti e undici indissolubilmente

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STORIA DELLA FUSION

connessi l’uno con l’altro». Cinque stelle da Fordham, per un disco


praticamente d’esordio, hanno acceso i riflettori su Marius Neset.
Alto, bello, biondo, il sassofonista di Os (il villaggio norvegese dov’è
nato nel 1985), è destinato a raccogliere importanti eredità. Tecnica-
mente trascendentale, esprime un fraseggio la cui modernità non è
misurabile con gli strumenti del tempo, perché è tutta spostata in
avanti, proiettata in un luogo ancora lontano da dove noi, comuni
mortali, ci troviamo. Merito anche del suo insegnante, Django Bates,
col quale Neset ha studiato e si è diplomato in Danimarca, con la big
band del quale ha suonato e inciso, e dal quale ha ricevuto, quasi co-
me un’ideale passaggio di testimone, l’amore per i grandi organici,
per le cubature timbriche inusuali (un dato espressivo che il giovane
Marius condivide con molti musicisti nordeuropei, come Trygve
Seim, o Jon Balke).
Per questo, dopo un album in quartetto, col maestro Bates alle ta-
stiere e la sezione ritmica dei Phronesis (il fidato Anton Eager e il
contrabbassista Jasper Hølby), nel 2013 Neset ha pubblicato BIRDS
(sempre per la Edition Records), scritto per una formazione anoma-
la e travolgente, con pianoforte, vibrafono, contrabbasso, batteria,
flauto, ottavino, tuba, fisarmonica, due trombe, trombone e corno
francese. Per quanto possa sembrare ambizioso e magniloquente,
sghembo e instabile, BIRDS non solo è uno dei dischi più belli del
nuovo secolo, in grado di illuminare gli anni Dieci con la forza di un
miliardo di fuochi d’artificio, quanto piuttosto un’opera di sorpren-
dente maturità, di eccezionale ampiezza d’ispirazione, in cui è im-
possibile determinare se sia più interessante il compositore, brillan-
te l’arrangiatore o travolgente il solista: Neset vince a man bassa su
tutti i tavoli, senza bluffare. I primi cinque minuti del disco, ovvero
l’esposizione del lungo tema del brano che dà il titolo all’album so-
no tra i più belli che abbia mai ascoltato. Una musica «inqualificabi-
le» per eccellenza, stratificata e densa, con la quale l’allievo lascia in-
tendere che può superare il maestro. E questa è davvero una notizia.
Dopo il passaggio alla Act di Siggi Loch, Neset ha dato alle stam-
pe un disco antologico, mentre proprio mentre scriviamo sta per
uscire il suo nuovo lavoro. Tenetelo d’occhio.
E le sirene alle quali si allude nel titolo del paragrafo? Ottima do-
manda, alla quale peraltro non è semplicissimo dare una risposta.
Perché la fusion, se non nella sua versione più commerciale e ra-

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ULTIMO ROUND

diofonica, non è mai stata una musica dalla particolare vocazione. Il


suo universo vocale si traduce in una costellazione di stili, di appari-
zioni spesso sporadiche, di epifanie, senza che però si costituisse una
tradizione, o una scuola tecnico-interpretativa, così com’è successo
invece per i linguaggi e le prassi esecutive strumentali.
Oggi, però – e finalmente – una vocalist dimostra di avere tutte le
credenziali per raccogliere il testimone delle grandi interpreti (come
Dianne Reeves e Chaka Khan). Si tratta di Lalah Hathaway, figlia del
compianto Donny. La sua è stata una carriera mai urlata, mai da star,
sempre condotta con eleganza e un po’ defilata: pochi dischi all’atti-
vo, ma una qualità enorme, costante, irresistibile. E, soprattutto, un
percorso leggibile, costantemente in avanzamento, lucidissimo nel-
l’esplorare quella enorme zona di conflitto tra black music, soul,
r&b, jazz da cui la fusion trae il massimo dei materiali. Non è un ca-
so che la Hathaway abbia inciso un bellissimo disco per la Grp in
compagnia di Joe Sample; non è un caso che negli altri tre dischi a
suo nome abbia attraversato una forma d’espressione capace di gio-
care con gli stili con un’eleganza d’altri tempi. E, ovviamente, non è
un caso che il Grammy sia arrivato, l’anno scorso, per la sua mira-
bolante performance in Something insieme agli Snarky Puppy, tanto
per chiudere un cerchio. Un altro Grammy (la giuria si esprimerà
quando questo libro sarà in stampa) potrebbe arrivarle da un’altra
collaborazione. Ma ne parliamo fra un attimo.

4.3. Il gioco del mondo

Eccoci, dunque, alla fine. E per finire rubo un altro titolo al gran cro-
nopio Julio Cortàzar, appassionato e cultore di jazz. Il gioco del mon-
do, ovvero saltare da una casella all’altra, toccare punti distinti e lonta-
ni, ascoltare la terra che si fa suono sotto i piedi, contare i passi come
fosse una filastrocca, partire dall’uno, e all’uno ritornare, ciclicamente.
E lì, nella casella da cui tutto inizia, e finisce, nell’infinito gioco
della fusion, oggi c’è Robert Glasper. A lui, alla sua straordinaria
apertura stilistica, alla capacità di declinare l’essenza più pura e
spiazzante di una black music mai così forte, potente, sensuale, con-
sapevole, a tratti dura, a volte spigolosa, oggi dobbiamo l’idea più
appassionante di post-fusion in circolazione. Con lui Lalah

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STORIA DELLA FUSION

Hathaway ha inciso Jesus Children, di Stevie Wonder nell’incantevo-


le BLACK RADIO 2, in lizza per un Grammy, e poi arrangiato da Vin-
ce Mendoza per un memorabile concerto con la Metropole Orche-
stra al Northsea Jazz Festival del 2014.
Cerchi che si chiudono, come il sipario che cala su questa babele
di linguaggi e sulle carte finalmente mescolate.

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