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1.

FOUR CORNERS

«La fusion, destituita di ogni autonoma prospettiva poetica, confusa


nell’anonimo easy listening di bassa lega, staccata dal suo glorioso
passato, sarà ad ogni modo uno degli elementi fissi con i quali si gio-
cheranno le nuove ambizioni artistiche alle soglie del Duemila, in
questa babele di linguaggi, in questo furioso mescolarsi di carte».
Così, dunque, si chiudeva il piccolo libro – come lo chiameremo,
con molto affetto, di qui fino alla fine di questa lunga postfazione –,
con una proiezione, una profezia, un presagio. Una previsione, so-
prattutto, la cui esattezza proveremo a misurare nel corso della trat-
tazione seguente, la quale dovrà servire anche a fare il punto della si-
tuazione, a pesare successi e fallimenti, a illuminare aspetti ancora po-
co noti della storia, ad aggiornare – ma giusto il necessario – lo stato
dell’arte, e a raccontare ancora luoghi, facce, memorie e vicende.
A rileggerlo dopo tanti anni, oltre alla comprensibile empatia, Sto-
ria della Fusion mostra qualche crepa, e non solo per colpa del tempo
intercorso: alcuni processi sono stati poco considerati, altri totalmen-
te – e colpevolmente – sottovalutati. Ed è proprio agli errori, alle man-
canze, alle piccole sviste che dedicheremo un paragrafo, senza mai di-
menticare che non è dalle piccole sviste che si giudica un giocatore.
Ma ripartiamo dall’inizio, e dunque torniamo a chiederci: di cosa
parliamo quando parliamo di fusion?

1.1. (s)Confini di un genere

All’epoca della pubblicazione del piccolo libro, come abbiamo vi-


sto, la letteratura sull’argomento fusion era abbastanza scarsa, se non

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addirittura inesistente. Nei diciassette anni successivi non che sia


proliferata, ma almeno hanno visto la luce alcuni contributi di gran-
de interesse, a partire, a pochi giorni di distanza, dal poderoso libro
dell’amico Stuart Nicholson (1998), col quale avrei avuto la fortuna
di collaborare qualche anno dopo, o la bella raccolta di riflessioni fir-
mata da Kevin Fellezs (2011), passando per l’imperdibile testo di
Steven Pond (2006, del quale parleremo in uno dei prossimi capito-
li). Questi i punti cardinali di una produzione che si è manifestata
anche, e soprattutto, attraverso articoli su riviste specializzate, voci
di enciclopedia, capitoli in ricostruzioni storiche del jazz. Un discre-
to fiume di parole (per citare gli ineffabili Jalisse), il quale però non
ha granché contribuito a circoscrivere il fenomeno fusion, né dal
punto di vista dell’estensione stilistica, né da quello della prospetti-
va storica: molte le visioni, le indicazioni, le preferenze. Poche, inve-
ce, le certezze, per lettori e ascoltatori.
Certo, mica facile definire e descrivere un genere così anomalo co-
me la fusion. Ancor più decisivo sarebbe capire se essa è un genere
a se stante, o uno stile della costellazione jazz. Una veloce ricogni-
zione della letteratura esistente ci permetterà un maggiore orienta-
mento nella spinosa questione.
Intanto, cos’è un genere? Sull’argomento, contrariamente a quan-
to si potrebbe immaginare, non molto è stato scritto, perlomeno ne-
gli ambiti teorici riguardanti la popular music. Mentre, cioè esistono
innumerevoli studi e saggi sull’opera, o sulla forma sonata, o la sinfo-
nia, in pochissimi si sono presi la briga di definire il rock, il jazz e,
ovviamente, generi ibridi, o non-generi, o quasi-generi, o generi-tra-
generi (in-between, nella cogente definizione di Fabian Holt) come
la fusion. Il perché è facile da intuire: è impresa complessa, essendo
legata a un’enorme quantità di fattori in costante cambiamento. Il la-
voro di Holt (2007) è assai interessante non soltanto perché costitui-
sce uno dei pochi lavori a introdursi in un simile ginepraio (suggeri-
sco anche gli scritti sull’argomento di Franco Fabbri), ma anche per-
ché esamina, in un capitolo, come il country e il jazz reagirono all’e-
mersione del rock, dalla metà degli anni Cinquanta in poi. Inoltre, lo
studioso affronta un altro essenziale snodo teorico, quello della dif-
ferenza tra stile e genere. Dice Holt: «Un genere è rappresentabile
come un sistema interconnesso; […] è una costellazione di stili con-
nessi da un’idea forte di tradizione. Tali aspetti distinguono i generi
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dalle categorie di marketing e le etichette poiché hanno una più ra-


dicata presenza nelle culture delle specializzazioni musicali tra musi-
cisti, ascoltatori, critici, didatti e altri».
Quindi, alla luce di questo inquadramento teorico, l’autore rife-
rendosi a musiche come il jazz-rock fusion per distinguerla da altri
stili del jazz, afferma: «Retrospettivamente, il termine fusion meglio
rappresenta la pluralità e la natura ibrida del fenomeno», aggiun-
gendo più avanti che fusion «è una denominazione senza trattino, e
rende più giustizia alla natura estremamente ibridata di questo tipo
di jazz, che molto pesca non solo dal rock ma anche dal soul e dal
funky». Come suggerisce Holt, né jazz-rock, o jazz-funk o jazz-xyz,
né qualunque altra formula di definizione col trattino riesce a forni-
re una sufficiente chiarezza nel descrivere la musica cui si riferisce.
Quindi, la fusion ha tutte le caratteristiche per essere considerato un
genere, e non una semplice derivazione stilistica del jazz (o del rock).
I generi, peraltro, rappresentano ben più che i gusti estetici di col-
lettivi di ascoltatori e musicisti, o gli interessi dell’industria discogra-
fica. Come Holt dimostra nel suo libro, «un genere può essere visto
come una cultura con le caratteristiche di un sistema, o funzioni si-
stemiche», e più avanti: «i generi sono identificabili non solo con la
musica, ma anche con certi valori culturali, rituali, pratiche, territori,
tradizioni e gruppi di persone». Fellezs si aggancia all’idea di Holt, ri-
lanciandone la visione, e anzi puntualizzando: «Considero un genere
come una logica attraverso cui idee su razza, genere sessuale, e classi
sociali vengono create, dibattute e messe in pratica attraverso strut-
ture sonore e discorsive. […] Il genere è l’indicatore rispetto al qua-
le critici, musicisti e appassionati determinano i valori musicali».
Il sistema di interconnessioni indicato da Holt e Fellezs funziona
egregiamente nell’analisi, ad esempio, di tutti i fenomeni collaterali
legati al jazz-rock, ovvero alle prime istanze di ibridazione tra i due
generi operate alla fine degli anni Sessanta, quando cioè Miles Davis
sconcertò l’intero ambiente non soltanto con la sua musica, ma an-
che attraverso l’abbigliamento, presto copiato e adottato da molti
fan, e l’atteggiamento sul palco. La fusion, in verità, non ha mai in-
centivato una condivisione di atteggiamenti extramusicali, dal mo-
mento che i suoi protagonisti mai li hanno caricati di significati (ci si
veste come Jay Beckenstein o Don Grolnick anche senza volerlo,
cioè da persone normali; diverso il caso dello smooth jazz, ma lo af-

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fronteremo nel capitolo successivo). Però, come scrivevamo nel pic-


colo libro, la fusion ha imposto nuove tecniche strumentali, approc-
ci innovativi alle prassi esecutive: queste, sì, sono state poi adottate
da musicisti e studenti, col risultato che abbiamo descritto.
Se, dunque, l’idea di genere proposta da Holt e Fellezs è ampia-
mente condivisibile (con il secondo che ancor meglio puntualizza:
«Per me un genere, prendendo a prestito le parole di David
Brackett, è “il punto di articolazione tra l’analisi musicale – la de-
scrizione formale e tecnica – e funzioni e significati sociali della mu-
sica”»), tale attrezzatura teorica ancora non ci permette di articolare
il passo successivo, quello della definizione di genere, e dunque del
nome da conferire a questa musica, per l’appunto, «inqualificabile».
La letteratura scientifica apparsa dopo il piccolo libro, e quella gior-
nalistica apparsa prima, hanno inquadrato il fenomeno utilizzando,
come abbiamo visto, una teoria di denominazioni, sì che la lista
(provvisoria) indicata da Pond in effetti desta impressione: jazz-rock,
fusion, jazz fusion, fusion jazz, jazz-rock fusion, jazz/rock fusion,
una ridda di definizioni per definire la stessa musica.
Nella babele concettuale e nel furor classificatorio agiscono l’ef-
fetto di una incomprensione centripeta e vorticosa. La difficoltà a
profilare con un apprezzabile grado di precisione i confini espressi-
vi del genere fusion – troppo rock per i jazzofili, troppo jazz per i
rockettari – mimetizzava l’incapacità a determinare i singoli apporti
e contributi, a pesare gli ingredienti della ricetta. Naturale, perciò,
che da subito si affermasse l’atteggiamento dismissivo del «non è
jazz, non è rock», o quello addirittura offensivo proveniente dall’ala
più restauratrice dell’establishment americano: «qualunque cosa sia,
di sicuro non è jazz», è il famoso ruggito di Wynton Marsalis, spal-
leggiato da Stanley Crouch.
Per dirla in termini più comprensibili, Michael J. West riassume in
maniera esauriente il problema della definizione di genere: «Uno de-
gli aspetti dell’universo fusion che genera più confusione è che no-
nostante l’obiettivo principale di questa musica fosse quello di ab-
battere le barriere tra jazz e rock, sembra quasi che la prassi di fon-
dere i due generi abbia creato ulteriori e profonde divisioni. Non è
difficile verificare che se la musica era prodotta da jazzisti, veniva
chiamata fusion, ma se era prodotta da musicisti appartenenti alla
sfera rock, allora era jazz-rock».

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Come però nota acutamente Fellezs:

I musicisti del “non è jazz, non è rock” resero problematica la no-


zione di genere creando un insieme informale, addirittura selvatico,
di pratiche musicali. Così facendo inventarono un modo di essere
sia dentro che fuori le categorie di genere, mettendo in crisi le abi-
tuali certezze sulle tradizioni musicali, compreso il modo in cui so-
no ordinati i valori riguardanti l’appartenenza (leadership), la pa-
dronanza tecnica (autorevolezza) e il valore musicale. Ancor più
importante, hanno trasformato la relazione tra i musicisti e le tradi-
zioni musicali».

L’inevitabile conclusione, sempre secondo Fellezs, è che «la musi-


ca “non è jazz, non è rock” di questi musicisti non era tanto un ibri-
do quanto una terra di mezzo capace di essere al tempo stesso un in-
sieme di pratiche ed estetiche musicali definibili “è jazz, è rock”, co-
sì come “non è jazz, non è rock”». In questo accettare la possibilità
di una musica che sappia essere se stessa, e allo stesso momento, la
propria esatta negazione, perlomeno in termini di pura definizione,
Fellezs fa compiere al discorso un passo in avanti, se non decisivo
perlomeno consistente. Fusion, dunque, come territorio aperto,
(s)confinato, in cui attivare procedure di ibridazione. Ma ibridazio-
ne di cosa? Anche in questo, Fellezs mostra di avere le idee chiare:
«Col termine fusion mi riferirò all’ibridazione di estetiche e pratiche
proprie di jazz, rock e funk, e della susseguente (o meglio, molto suc-
cessiva) attenuazione dei confini tra questi grandi generi in articola-
zione con altre tradizioni musicali che i musicisti frequentano in ma-
niera meno evidente». Ecco, al fine, gli ingredienti: jazz, rock, funky.
Ricetta che non è diversa da quella che indicammo nel piccolo libro.
Eppure, tutti abbiamo sbagliato. Ma lo vedremo a breve.
Assodato che si tratti di genere e non di stile, come chiamarlo?
Fellezs e Holt optano per fusion (così come abbiamo fatto nel pic-
colo libro). Nicholson, invece, opera una distinzione non tanto a
partire dai materiali ma dall’orientamento generale: «Ho preferito
usare il termine jazz-rock, anche se più obsoleto, perché volevo di-
stinguerlo dalla fusion (e i suoi tardi equivalenti, variamente definiti
smooth jazz, quiet storm, lite-jazz, hot tub jazz o yuppie jazz)». Per
Nicholson, cioè, il jazz-rock ha ambizioni artistiche, la fusion – e i

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suoi derivati: attenzione, però, perché li chiama equivalenti – esclu-


sivamente commerciali. Mark Gridley, che della tassonomia ha fatto
il fulcro dei suoi studi, sostiene che molta della musica che è stata
chiamata jazz-rock fusion sarebbe meglio circoscritta dalla denomi-
nazione jazz-funk. John Covach, un musicologo di area popular,
complica ulteriormente il quadro notando la sovrapposizione delle
estetiche legate al progressive e alla fusion.
Provando a riassumere, la definizione «jazz-rock» è considerata
da Nicholson come espressione di contenuti artistici, come inade-
guata da Gridley (che le preferisce appunto jazz-funk), stigmatizza-
ta da Crouch, per il quale è musica che serve solo e comunque a far
quattrini, mentre per alcuni osservatori indicherebbe quella porzio-
ne in cui più evidente è la derivazione rockettara (e bianca).
Bianco è il colore prevalente anche nell’idea di «jazz-fusion», al-
meno secondo James, mentre la connotazione più black sarebbe, per
Gridley, quella di «jazz-r&b fusion», che pur nella sua apparente
astrusità contiene sfumature sulle quali torneremo.
E i musicisti, come la chiamavano questa musica? Secondo quan-
to riportato da Pond, Patrick Gleeson, tastierista con il Mwandishi
di Herbie Hancock, all’inizio degli anni Settanta si oppose all’uso
del termine jazz-rock, sostenendo che i membri del settetto guidato
da Hancock, così come i componenti della Mahavishnu, dei Weather
Report e dei Return to Forever, preferissero fusion. A me risulta, in
verità, che a Joe Zawinul la definizione non piacesse affatto (come si
può leggere nell’autobiografia di Peter Erskine), ma ciò non sposta
la questione neanche di un millimetro.
Al termine di questa perlustrazione tra definizioni e concetti, sarà
forse utile riprendere la definizione di «fusion» che abbiamo prova-
to a dare nel piccolo libro. La fusion origina sulla scorta di un pro-
cesso di semplificazione, da un lato, e da un mutamento piuttosto
consistente nell’approccio all’idea di sintesi. Sintesi che viene opera-
ta su un amplissimo campo di intervento, i cui nodi principali sono
rappresentati dal soul-jazz, e relative trasformazioni della musica ne-
ra nel corso degli anni Sessanta e Settanta, dal massiccio uso delle
nuove tecnologie, dall’influenza profonda del jazz-rock, e dalla con-
taminazione con una vasta gamma di significanti musicali, come la
forma canzone, i ritmi di derivazione latina, una seppur vaga idea di
etnicità. La fusion music si distingue dal jazz-rock perché ha opera-

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to una sintesi di jazz e rock più avanzata. E questo non solo perché
ha incorporato esperienze che il jazz-rock aveva abbandonato per
strada, ma per il fatto di aver interpretato gli elementi latini, etnici,
funk, elettronici con una padronanza di linguaggio che il jazz-rock
non poteva possedere.

1.2. Confesso che ho sbagliato

Il problema di quella definizione, quindici anni dopo, è di essere


forse leggermente vaga. Tace più di quanto non dica. Allude, ma non
dichiara. Allineata, in definitiva, rispetto a tutte quelle che l’avevano
preceduta, e l’avrebbero seguita – anzi, addirittura più articolata, mi-
surata e sensata – aveva però un difetto: era tagliata su misura su un
disco, e non viceversa. Quel disco, HEAVY WEATHER, dei Weather Re-
port, col quale facevo nascere la mia idea di fusion era, però, un di-
sco troppo peculiare per poter “fare genere”. Troppo originale per
fare scuola, troppo innovativo per essere facilmente digerito, troppo
geniale per lasciarsi copiare (e, infatti, resta un disco a se stante), non
poteva essere preso a modello di un percorso stilistico iniziato addi-
rittura prima (ecco il vero errore) e proseguito poi in mille diverse
reincarnazioni, interpretazioni, declinazioni. Era un’idea di fusion,
una bellissima idea, forse la più bella di sempre, ma era una delle
idee. Non l’unica.
A priori, è più facile comprendere la catena di ragionamenti che
mi avevano portato a collocare nel 1977, e chez Zawinul-Shorter, l’i-
nizio della fusion. La tensione a scollegarla dal jazz-rock, mantenen-
done una chiara derivazione dal jazz, aveva collocato in una sorta di
cono d’ombra, tutta una produzione precedente la quale, invece, si
riconosceva pienamente nei criteri che avevo enucleato. Una serie di
lavori discografici nei quali le percentuali degli ingredienti variavano
sì rispetto alla mia tabella ideale, ma che cionondimeno rientravano
nei parametri del disciplinare. Dai quali, però, ero stato tenuto lon-
tano dalla presenza sospetta di un nuovo ingrediente, talmente pre-
giudizievole che nessuno, prima, durante e dopo, ha fatto i conti con
la sua necessaria presenza: il pop.
Ecco, il pop è il vero problema. La sua possibilità di esistenza nel-
le miscele e nelle mescole fusionarie ha davvero scatenato la guerri-

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glia critico-teorica, dunque non solo terminologica, cui abbiamo ac-


cennato. E, per farmi perdonare l’errore, e rettificare un processo di
pensiero compromesso da quella svista, mi propongo di ricostruire
il quadro delle discendenze e delle genealogie attraverso cui ha pre-
so corpo la fusion, provando a dimostrare che, semplicemente, sen-
za il pop la fusion non sarebbe neanche esistita.

1.3. Pop-jazz? Jazz-pop?

A pensarci, sembra onestamente assurdo che in una babele di ter-


mini, definizioni, designazioni non si sia mai incontrato il semplice
accostamento pop-jazz, o ancor meglio jazz-pop. Come se studiosi
ed esperti, critici e giornalisti avessero, di default, cancellato l’oriz-
zonte del pop da ogni possibile modalità ibridativa considerandolo,
evidentemente, troppo pericoloso per il buon nome dell’intero pro-
cesso. Come se il jazz, il rock e il funky – con sfumature, storie, pe-
digree e funzioni diverse – proprio non potessero sopportare l’acco-
stamento alla più bassa e commerciale delle forme musicali. A pen-
sarci, sembra assurdo, ma ovviamente non lo è: processi di esclusio-
ne e rimozione hanno depurato le cronache jazzistiche delle espe-
rienze più pop. Caso molto simile a quello che avevamo già incon-
trato, e stigmatizzato, nel piccolo libro a proposito del modo in cui
le storie del jazz hanno cancellato e oscurato il soul-jazz: quando cer-
ti jazzisti mostrano atteggiamenti di promiscuità con musiche le qua-
li esibiscono tratti tali da identificare una musica «leggera», d’eva-
sione, con una precisa caratteristica funzionale, scatta la rimozione
forzata e coatta.
La fusion, per come la conosciamo, e per come l’abbiamo cono-
sciuta, quella stessa fusion di cui abbiamo parlato a lungo nel picco-
lo libro viene, in verità, da molto lontano. Da molto più lontano di
quanto le storie del jazz (sull’argomento sempre molto approssima-
tive) ci hanno indotto a credere. La sua natura è stata definita e pla-
smata da una catena di imprestiti e influenze, di travasi e trasfusioni
assai più lunga di quanto siamo disposti a credere. E inizia ben pri-
ma di BITCHES BREW, ovviamente.
A partire dagli anni Sessanta il jazz, per via di una crisi feroce –
economica, di ingaggi, vendite discografiche, ma anche di linguaggi

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e prospettive – aveva iniziato a guardarsi intorno, alla ricerca di pos-


sibilità di sopravvivenza. Molti erano i musicisti per i quali, chiuse le
vie dell’avanguardia (peraltro ancor meno remunerative di quelle
mainstream), il navigare in brutte acque significava accettare anche i
compromessi più radicali. Altri, invece, proprio come accadde all’e-
poca dell’hard-bop, vissero la possibilità di una svolta profonda nel
modo di concepire la musica e la professione come un arricchimen-
to, il modo per imprimere al proprio orizzonte espressivo un plu-
svalore positivo, capace di raddrizzare non soltanto il lunario, ma an-
che ambizioni artistiche e speranze.
La fusion nasce proprio in quel momento, all’inizio degli anni Ses-
santa, e certo non può chiamarsi jazz-rock, perché il rock di fatto
non esiste ancora. Esistono, però, e bisogna farci i conti, il soul, e il
pop, bianco e nero, un giacimento enorme, ricchissimo, generoso e
spesso di eccezionale qualità da cui poter attingere, e con il quale il
jazz aveva flirtato lungo tutto il corso della sua storia. Quando, cioè,
si cominciano a delineare i primi tentativi di incrocio tra generi, è il
pop a essere il target di riferimento. Quando, poi, si mettono in azio-
ne i primi procedimenti di fusione, i primi a farlo non sono i musi-
cisti di jazz.
Questo, a mio avviso, è il nodo centrale di tutta la questione, l’ab-
baglio che ha impedito a tutti (me compreso), impegnati nella dife-
sa posizionale del jazz, di vedere come il processo fosse iniziato a par-
ti inverse. Ed è da qui che si deve ripartire. Dalla consapevolezza che
l’ibridazione, come proverò a dimostrare, non è un processo univo-
co, non va soltanto dal jazz alle altre musiche, ma è bidirezionale, ed
è iniziato da quella che potremmo chiamare la parte sbagliata della
strada, la pop side of the street.
Nei primissimi anni Sessanta, dunque, erano molteplici le forze
che premevano su un possibile rinnovamento del jazz. Allo stesso
modo, altrettanto energiche erano quelle che spingevano per un rin-
novamento dei linguaggi della popular music, prima che venisse tra-
volta e impollinata dai musicisti della British Invasion, su tutti i Bea-
tles. All’incrocio di queste due funzioni si collocano due sistemi mu-
sicali le cui conseguenze sono state, quindi, gravemente sottovaluta-
te: da una parte, il gospel; dall’altra, Burt Bacharach.
La musica religiosa africanoamericana è uno dei grandi misteri del
ventesimo secolo, per la sua capacità di restare sullo sfondo, come

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STORIA DELLA FUSION

mimetizzata all’ambiente, senza dare nell’occhio. Per decenni ne ab-


biamo avuto una percezione distorta, lontana, relegata quasi a un
folklore rituale, senza ambizioni musicali. E invece sin dal suo appa-
rire, la musica sacra ha rappresentato il più potente motore di ibri-
dazione della musica americana, addirittura più potente del jazz.
Del resto, basta attraversare, anche a tutta velocità, la storia delle
musiche afroamericane per constatare quanto la musica religiosa sia
sempre stata appiccicata a quella secolare, fino a diventare la stessa
cosa. Il caso più eclatante è la vicinanza tra il blues e il gospel, la mu-
sica sacra e la musica del diavolo. In un libro sul blues, pubblicato
nel 2009, mi occupai della strana commistione, per provare a diri-
mere l’intricatissima matassa. Dal momento in cui la musica dei ne-
ri inizia a essere registrata, e collocata sul mercato dei race records, il
panorama che si presenta all’osservatore è a dir poco sorprendente.
Mentre emissari e talent scout si riversavano in tutto il Sud degli Sta-
ti Uniti, in cerca di bluesmen, il business vero era costituito dalla
musica religiosa afroamericana: non solo il gospel dei raffinatissimi
quartetti vocali, ma soprattutto sermoni e prediche, accompagnati
da canti e musica, rappresentavano un sicuro investimento. Il caso
più eclatante fu il successo del reverendo J. M. Gates, scritturato dal-
la Columbia, i cui dischi andarono letteralmente a ruba. La ricerca,
allora, divenne duplice: si setacciava il Sud del paese per trovare
bluesmen e uomini di chiesa: i dischi si rivolgevano al medesimo
pubblico. Per moltissima gente di colore, cioè, ascoltare gli uni o gli
altri rappresentava lo stesso tipo di esperienza. Né ci fu il bisogno,
da parte delle case discografiche, di istituire cataloghi appositi: «Ra-
ce Records» era l’etichetta adatta a contenere sia il sacro che il pro-
fano, sia la musica sacra che quella del diavolo. In qualche modo, era
la stessa musica; se non altro, aveva lo stesso pubblico.
La stessa musica, dicevamo. Certo, non è esattamente la stessa; è,
però, quella tra blues e musica religiosa una relazione biunivoca, va-
lida in qualunque direzione. Forse non era la stessa musica, ma tal-
volta si assomigliavano molto. Erano, come ha sostenuto Samuel
Floyd, due espressioni diverse degli stessi bisogni.
Nella sua autobiografia, I Know Why The Caged Bird Sings, la
grande scrittrice Maya Angelou racconta di quando, al tempo della
sua infanzia, tornando a casa dalla preghiera del sabato sera, si era
soliti fermarsi in un jukejoint nel quale risuonava un barrelhouse

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blues cantato a squarciagola per coprire il rumore delle scarpe pic-


chiate sul pavimento di legno. Non c’era molta differenza, solo due
modi diversi di esprimere lo stesso tormento: «Per uno non abitua-
to a quella musica, distinguere tra i pezzi cantati pochi minuti prima
(in chiesa) e quelli che venivano ballati nel locale vicino ai binari del-
la ferrovia poteva essere impossibile. Tutti chiedevano la stessa do-
manda. Per quanto ancora, Dio? Quanto tempo?».
Nell’intreccio di riti antichi e moderni, la comunità afroamericana
ha sempre cercato e trovato elementi di continuità, dritti e sicuri co-
me binari di una ferrovia. Il blues è uno di questi. Anche le chiese,
soprattutto quelle pentecostali, come la Holiness, cercavano di an-
nullare le distanze, rendere permeabili i diaframmi. Scrive Lawrence
Levine:

All’interno della chiesa questo amalgama di suoni divenne per la


prima volta importante nelle sette della Santità e degli Spiritualisti
che si svilupparono al passaggio del secolo […] Musicalmente, essi
tornarono alla tradizione del passato schiavista lontano dal mondo
della musica nera secolare che li circondava. Portarono in chiesa
non solo i suoni del ragtime, del blues e del jazz, ma anche gli stru-
menti. Accompagnavano il canto, che giocava un ruolo centrale nel-
le loro funzioni, con percussioni, tamburelli, triangoli, chitarre, con-
trabbassi, sassofoni, trombe e qualsiasi altro strumento sembrasse
musicalmente adatto. Lo spirito della loro musica venne sintetizza-
to anni più tardi da un patriarca della chiesa che parafrasò Martin
Luther: “Non dovremmo permettere che il diavolo abbia tutto que-
sto buon ritmo”.

La testimonianza più sorprendente, però, è quella di Zora Neale


Hurston. La scrittrice e antropologa, in una ricerca per la Work Pro-
gress Administration in Florida, annotò: «A Jacksonville c’è un pia-
nista jazz che raramente ha una sera libera; gran parte del suo lavo-
ro deriva dal suonare nelle funzioni religiose della chiesa della Chie-
sa Santificata, o nelle feste. Sostando fuori dalla chiesa è difficile ca-
pire quale tipo di ingaggio stia assolvendo in quel momento».
La stessa musica.
Famelico e bulimico, pronto a divorare e digerire qualunque mu-
sica possibile, il gospel alla fine degli anni Cinquanta aveva bisogno

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STORIA DELLA FUSION

di un nuovo, ennesimo cambio di pelle. Proprio quando l’hard-bop,


come abbiamo visto, ne introiettava compiutamente non tanto gli
stilemi quanto il senso, il gospel guardava già alla rivoluzione futura,
alla successiva rinascita. Le quali non potevano non guardare all’e-
lettrificazione degli strumenti, all’elaborazione di modelli attinti dal
soul, dal jazz, dal rock’n’roll in un caleidoscopico miscuglio, virtuo-
so poiché serviva comunque alla preghiera e alla trascendenza. Li-
beratosi del vecchio abito, pianoforte e voci, il gospel si presenta nel
nuovo decennio pronto a fare quello che aveva sempre fatto, e avreb-
be continuato a fare fino ai giorni nostri: filtrare, depurare, tenere il
meglio, aggiungere gli ingredienti migliori della casa e impastare tut-
to fino a ottenere il più prelibato dei manicaretti.
Il gospel, in buona sostanza, è una fusion ante-litteram, anzi: è la
fusion per eccellenza, territorio senza confini e laboratorio instanca-
bile, strumento di preghiera, ma anche mezzo di redenzione. Una mu-
sica che deve piacere, per accendere la partecipazione emotiva, per
spingere verso l’alto i pensieri e le speranze, per rendere lode e grazie
al Signore. E per farlo non si pone limiti, a Dio piacendo, evidente-
mente, anche la musica del diavolo, in (quasi) tutte le sue forme.
Affacciandosi ai Settanta del secolo scorso, il gospel moderno – il
cui inventore, Thomas Dorsey, con lo pseudonimo di Georgia Tom,
alla fine degli anni Venti aveva ottenuto successi clamorosi in coppia
con Tampa Red, incidendo canzoncine piene di testi spinti e allusio-
ni sessuali – aveva di nuovo cambiato pelle e orientamento. Un dra-
stico avvicendamento di strumentazione, il periscopio costantemen-
te puntato sulle novità delle musiche afroamericane, l’antenna pron-
ta a percepire anche i più impercettibili movimenti di superficie del
gusto popolare, l’avevano reso un coacervo virtuoso di forme felici,
un serbatoio inesauribile di idee e commistioni. I musicisti di gospel
per primi intrapresero la ricerca sulla fusione di jazz, pop e funky
(senza mai dimenticare il blues e lo spiritual, naturalmente), svilup-
pando stilemi ai quali nessuno restò indifferente. Per altro, seguen-
do una linea più diretta di influenza, molti musicisti di fusion aveva-
no iniziato a suonare in chiesa, durante le funzioni: Russell Ferrante,
ad esempio, o Richard Tee, solo per citare due nomi.
Dall’altra parte dello spettro poetico c’è la grande rivoluzione di
Burt Bacharach. Una rivoluzione quieta, promossa in punta di piedi,
raffinatissima, più adatta a un tè da Tiffany che a una marcia di pro-

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testa nei sobborghi. Eppure, il giovane songwriter, prima di esplo-


dere come una stella della popular music, era stato attratto dal jazz,
aveva studiato con Darius Milhaud, Henry Cowell e Bohuslav Mar-
tinu. La scelta della canzone e del pop gli era poi venuta naturale,
quasi inevitabile, ma la sua produzione della prima metà degli anni
Sessanta è già un miracolo di equilibrio e coraggio. Una inaudita
densità armonica, schemi formali innovativi grazie a sezioni strofiche
di durata irregolare, ritmi sovente indecidibili (resi tali dalla presen-
za di singole misure in tempo dispari dentro il flusso del 4 o del 3),
tutto al servizio di melodie memorabili, caratterizzate da uno svilup-
po «orizzontale», come lo stesso Bacharach lo ha definito: temi, cioè,
che scavalcano la naturale cesura di frase per espandersi, allargarsi a
seconda del senso che devono comunicare. Modalità innovative, ad-
dirittura sperimentali per canzoni che, nonostante la loro comples-
sità, si attaccano ostinate nell’immaginario dell’ascoltatore comune,
e rendono Bacharach artista che può militare nella stessa lega di Ir-
vin Berlin, George Gershwin, Cole Porter e tutti i più grandi songw-
riter del periodo aureo della canzone americana. Al contrario di que-
sti ultimi, dal repertorio dei quali i jazzisti di ogni tempo hanno at-
tinto a piene mani, Bacharach non scrive per i musical di Broadway,
ma per il mercato discografico, e per il cinema, quando serve. Aves-
se vissuto negli anni Trenta, sarebbe stato un prolifico e formidabile
autore di commedie musicali e di arie indimenticabili.
Il gospel e Bacharach, dunque. Provate a sommarli alle fonti che
già conosciamo (il soul, il funky, il soul-jazz), aggiungete il rock, fi-
nalmente maturo e autonomo linguisticamente (nel momento in cui,
cioè, si stacca dal rhythm’n’blues, del quale, a metà degli anni Cin-
quanta, era una semplice e blanda copia), che fa rima con pop, e ot-
terrete la base per la costruzione – in altezza – di una nuova espres-
sione musicale.
Il jazz reagirà a tutta questa massa lavica di informazioni in due
modi. Da una parte, negandone addirittura l’esistenza, rimuovendo-
la dal proprio campo esperienziale. Dall’altra, provando a capire co-
me poterne introiettare i sensi e le dinamiche, alla ricerca costante di
un rapporto sempre più stretto ed empatico col pubblico (e, certa-
mente, col mercato). Il caso più eclatante, sebbene non se ne parli af-
fatto nelle storie del jazz, è un disco di Ramsey Lewis, THE ‘IN’
CROWD, inciso dal vivo nel 1965 al Bohemian Caverns di Washingon.

177
STORIA DELLA FUSION

Lewis è un musicista che solo da poco ha iniziato a ricevere la giu-


sta attenzione da parte della critica dopo essere stato per anni igno-
rato dalla storiografia ufficiale per via di una certa propensione ad
apparire nelle classifiche sbagliate, da quando nel 1964 un suo sin-
golo, Something You Got, arrivò alla 63esima posizione nelle pop
chart. Lewis, chicagoano, come molti aveva studiato il pianoforte at-
traverso il gospel (e la musica classica): due sfere espressive che, an-
che dopo l’ingresso definitivo del jazz nella sua vita, avrebbero rive-
stito un’importanza decisiva nelle sue scelte stilistiche. Figuratevi co-
sa accadde quando, grazie al singolo che dava il titolo all’album,
Lewis toccò la quinta posizione tra i brani pop e si aggiudicò un
Grammy per la miglior performance jazz di un singolo o un gruppo:
fu criticato, aspramente. E mentre i giornalisti intingevano la penna
nell’acido, lui diventava uno dei jazzisti più famosi della seconda
metà del decennio. Una storia già sentita, certo. Ma a essere già sen-
tita, in senso buono, era la musica che aveva suonato sul palco del
piccolo locale di Washington.
Più che la musica in sé, era ampiamente noto il tipo di strategia
comunicativa ad essa sottesa: lungo tutto l’arco dell’esecuzione ogni
scelta di Lewis puntava infatti alla costruzione di una solida relazio-
ne col pubblico. Il tema del brano, un successo dell’epoca scritto da
Billy Page, è perfettamente riconoscibile, e ciò permette anche all’a-
scoltatore meno esperto di jazz di sincronizzarsi con la musica: la co-
nosce, l’ha già sentita, e magari ballata. Poi, Lewis improvvisa sul te-
ma, dando così anche a chi era nel locale per sentire del buon jazz
materia per deliziarsi. Il tutto mentre la sezione ritmica adotta un
tempo leggero, molto più pop che non jazz, e Lewis non perde oc-
casione per comunicare con il pubblico, suscitandone la partecipa-
zione emotiva e fisica. In una parola: gospel.
Comunicare con l’ascoltatore: sembra essere questo l’obiettivo
principale di tutti quei musicisti che, a partire dai primissimi anni
Settanta, percorreranno una musica alternativa al jazz-rock, priva di
asperità, ma non per questo meno attraente o necessariamente più
ruffiana. Anzi: è talmente intrigante, come progetto, che ad adottar-
lo saranno con eccezionale tempismo anche i musicisti rock e pop.
Accanto, cioè, alla produzione – spesso eccezionale, ma sempre
ignorata – dell’ultimo Wes Montgomery, dei Jazz Crusaders di Joe
Sample o del primo Grover Washington Jr. (alla cui produzione vi ri-

178
FOUR CORNERS

mando: nel caso dei Jazz Crusaders è imperdibile l’integrale per la


Pacific Jazz), è dall’altro capo del trattino che arrivano alcuni espe-
rimenti estremamente interessanti. Tacendo di Frank Zappa, la cui
enormità artistica ci porterebbe subito molto lontano da qui, baste-
rebbe ascoltare Carole King o i Traffic nel 1971 per capire come a
forme di ibridazione tra pop e jazz si guardava ormai anche da altri
territori. Joni Mitchell, ad esempio, utilizza non a caso il sassofoni-
sta Tom Scott, il batterista John Guerin e, guarda caso, proprio Joe
Sample già a partire da FOR THE ROSES (1972) e COURT AND SPARK
(1974), quindi prima dei grandi capolavori di stampo pop-fusion co-
me THE HISSING OF THE SUMMER LAWNS (1975), HEJIRA (1976, uno
dei dischi più belli di sempre, e uno dei primi dischi di fusion in as-
soluto), DON JUAN’S RECKLESS DAUGHTER (1077) e MINGUS (1979), ca-
polavori monumentali prima della svolta degli anni Ottanta. Né va
dimenticato che fu proprio Joni Mitchell, per il suo album dal vivo
SHADOWS AND LIGHT, ad allestire una vera e propria fusion all-stars
con Michael Brecker, Jaco Pastorius, Lyle Mays, Pat Metheny e Don
Alias (il quale rilevò all’ultimo lo sgabello che avrebbe dovuto esse-
re di Peter Erskine).
In questa temperie, e seguendo le coordinate indicate dai tragitti
torici che abbiamo provato a ricostruire, prende corpo, forza e so-
stanza l’idea di una corrente pop-jazz, la quale non solo è altrettan-
to interessante di quella jazz-rock, ma sarà il vero antecedente stori-
co della fusion così come l’abbiamo definita nel piccolo libro (e con-
tinueremo a fare da qui all’infinito). Tramontata dunque l’idea, sug-
gestiva ma impraticabile, che la fusion nasca nel 1977 con HEAVY
WEATHER dei Weather Report, possiamo riportare l’attenzione su al-
meno un altro paio di dischi fondamentali, troppo sottovalutati nel
piccolo libro. Uno è HEAD HUNTERS (1973), di Mwandishi, il gruppo
capitanato de Herbie Hancock, tra i solchi del quale c’è già il tragit-
to che avrebbe portato, da una parte, il pianista chicagoano a inci-
dere SUNLIGHT (1979), purissimo album di irresistibile pop afroame-
ricano, dall’altra, tutto il movimento fusion a ragionare su modalità,
tecniche, sintesi, elaborazioni ritmiche e derive improvvisative della
musica che stava per nascere.
Alla quale contribuirono in maniera determinate anche due mu-
sicisti brasiliani, sempre un poco in ombra nella ricostruzione di
quella serie di eventi: Airto e Flora Purim. Marito e moglie, lui per-

179
STORIA DELLA FUSION

cussionista torrenziale, aveva militato alla corte di Re Miles; lei vo-


calist prodigiosa e acrobatica, in quella di Chick Corea, col quale in-
cide uno dei primi capolavori degli anni Settanta, LIGHT AS A
FEATHER. Attraversano tutta la prima metà degli anni Settanta (Flo-
ra a patire dalla metà in poi) sfornando album la cui connessione
con la corrente principale che abbiamo individuato (quella, cioè,
che guarda al pop, e, nel loro caso, alla MPB, alla musica popolare
brasiliana) è fortissima, tanto da essere presi a modello da molti col-
leghi americani. FINGERS (1973) e VIRGIN LAND (1974) di Airto, e
OPEN YOUR EYES YOU CAN FLY (1975), THAT’S WHAT SHE SAID (1976)
e NOTHING WILL BE AS IT WAS… TOMORROW (1977) di Flora sono ec-
cellenti esercizi di fusione, di musica a largo spettro, e mettono a di-
sposizione del linguaggio di ibridazione col pop una notevole quan-
tità di indicazioni.
La stessa cosa fa Keith Jarrett, al quale in pochi attribuirebbero le
stimmate dell’inventore della fusion (se non minacciati). Di fatto,
non lo è, ma dopo le esperienze con Charles Lloyd il pianista di Al-
lentown ebbe, a metà degli anni Settanta, un momento di forte pro-
pensione a un lirismo melodico, abbastanza morbido, che poggiava
su ritmi binari, o alludeva a latitudini e prassi musicali lontane. In
questa prospettiva, album come TREASURE ISLAND (1974) rappresen-
tano una premonizione impressionante di cosa sarebbe stata molta
fusion acustica di quindici-venti anni dopo.
Da questa rapida ricognizione è possibile comprendere come,
quando i Weather Report incidono BLACK MARKET (1976) e soprat-
tutto HEAVY WEATHER (1977), una certa idea di fusion, in realtà, già
esisteva, sostanziata, ad esempio, dalle idee di Alphonso Johnson, il
quale dal Bollettino Meteorologico era appena uscito, ma aveva già
pubblicato tre eccellenti album come MOONSHADOWS (1976), YE-
STERDAY’S DREAMS (1976), il migliore, e SPELLBOUND (1977), trac-
ciando una via estremamente funky al pop-jazz, e poi avrebbe unito
il nome in ditta con George Duke e Billy Cobham per una super-
band dalla vita breve. Ma, soprattutto, dall’exploit imprevedibile di
George Benson, il cui disco di platino per BREEZIN’, i Grammy, la
permanenza in tutt’e tre le classifiche di vendita (pop, rhythm’n’-
blues e jazz) dimostrano come il chitarrista avesse individuato una
via elegante, fusionara e tecnicamente eccelsa, al pop.
Dopo il 1977, quello che è successo l’abbiamo raccontato nel pic-

180
FOUR CORNERS

colo libro. Nella cui ricostruzione, però, mancano tre gruppi, i cui
dischi all’epoca erano totalmente introvabili (anche oggi si fa fatica a
reperirli). Ascoltarli oggi completa la prospettiva, il compimento di
una parabola che ha visto la fusion andare sempre più verso il pop,
addirittura fondendosi con esso. Se i Caldera e gli Auracle provava-
no a rendere più pop la lingua dei Weather Report, i tre dischi dei
Seawind, gruppo hawaiano nel quale militava Jerry Hey, mostrano
come ben prima degli anni Ottanta la fusion fosse capace di ammic-
care allo smooth jazz. Prima addirittura che nascesse.

181
2. SMOOTH OPERATORS

2.1. Il meglio che possa capitare a una brioche

Di solito, quando transito per la Stazione Termini di Roma, in media


tre volte alla settimana, faccio colazione in un bar al piano interrato.
Ispirato alle culture e alle tradizioni del medio e lontano oriente, ser-
ve solo piatti asiatici (caffè e cornetto, però, sono alla occidentale) in
un ambiente molto raffinato, esteticamente curato, in cui tutto è stu-
diato con accortezza per accendere e attivare universi di senso e piani
di significato che alludano a quella matrice geografica. In un tripudio
di cous-cous, riso, spaghetti cinesi e gastronomia con gli occhi a man-
dorla, la musica di sottofondo gioca un ruolo significativo, perché vie-
ne diffusa a un volume eccedente rispetto a quello che normalmente
si assocerebbe all’idea di musica di sottofondo; la presenza sonica,
cioè, oltre a dover coprire il frastuono di una umanità molteplice, nu-
merosa e distratta che attraversa il rimbombante androne dirigendosi
frettolosamente verso la metropolitana, o disperdendosi in mille altre
direzioni, accompagna la sosta ai tavolini, o la degustazione di bevan-
de calde al bancone, senza mimetizzarsi, senza far finta di non esserci,
abbandonando lo sfondo per mostrarsi in primo piano come elemen-
to stesso del design complessivo, presenza inevitabile.
In un’ambientazione di quel tipo, come minimo ci si aspetterebbe
che la musica di sottofondo fosse la trasposizione, la traduzione so-
nora di quell’immaginario geografico e culturale, coerente con l’in-
terior design e coniugata all’orizzonte percettivo. Ci si aspetterebbe
una musica proveniente dalle stesse terre e tradizioni dalle quali ar-
riva il cibo che si mangia. E invece no. Si ascolta solo smooth jazz.
Tipico smooth jazz. Canonico smooth jazz.

183
STORIA DELLA FUSION

La prima volta pensai si trattasse di un caso: magari il sistema di


diffusione era collegato a un’emittente radio che in quel momento
passava smooth jazz. La seconda volta iniziai ad avere il lieve so-
spetto che la scelta fosse deliberata. La terza volta ne ebbi la confer-
ma schiacciante. E iniziai a chiedermi: perché?
La risposta – o forse una delle risposte – arrivò la volta successi-
va, mentre facevo colazione. Ero arrivato alla stazione ben determi-
nato a trovare la chiave del dilemma; lungo l’androne avevo iniziato
a fare ipotesi, alcune scartandole immediatamente; poi ero passato
allo stato dell’arte in tema di studi sullo smooth jazz (pressoché nul-
li), sulla fruizione musicale, sull’uso del sottofondo nella sonorizza-
zione dei negozi; infine, avevo affondato le mani nella memoria, pro-
vando a recuperare alcune delle idee che avevo raffinato durante la
stesura del libro (la fusion buona per la sonorizzazione dei film por-
no, o come muzak da ascensore). Poi entrai nel locale, orecchiando
la musica (sempre smooth jazz, suonata da musicisti che non ero in
grado di riconoscere); alla cassa ordinai il caffè e la brioche integra-
le: quella mattina avevo più fame del solito, quindi brandendo lo
scontrino mi diressi al bancone pregustando la scura bevanda calda
e il fragrante aroma di mirtillo. Capii non appena bevvi il primo sor-
so e staccai il primo morso. A mettermi sulla buona strada non fu
quello che ascoltai, ma quello che non ascoltai: nell’attesa del pasto,
e durante il consumo di esso, il sottofondo musicale, sebbene così
presente, semplicemente tendeva a scomparire, a fondersi col rumore
di fondo, a travestirsi da elemento di arredo pur mantenendo una
sua peculiarità fonica evidente. Mimetizzandosi perfettamente nel-
l’ambiente circostante, però, quel pulsante smooth jazz svolgeva una
sua utilità funzionale: si dava all’ascolto non per la ricchezza del con-
tenuto, o l’eleganza delle condotte o la raffinatezza della ricerca tim-
brica, ma per accompagnare il più discretamente possibile un’atti-
vità seriale, abitudinaria, che normalmente si compie pensando ad
altro, come il fare colazione o il consumare un pasto veloce in un fa-
st food, per quanto esotico e orientaleggiante. Vera e propria musi-
que d’ameublement, dunque, la deriva più commerciale della fusion
si innesta – meglio: si è innestata, da subito – nell’orizzonte delle
musiche che richiedono all’ascoltatore il minimo dell’attenzione per-
cettiva; musica, quindi, radiofonica par excellence, lo smooth jazz è
pensato per assolvere uno scopo, per svolgere un compito ben pre-
SMOOTH OPERATORS

ciso: accompagnare una qualunque attività, regalando al tempo stes-


so una sensazione di dolce frenesia ritmica e di cauto, rispettoso, ma
allo stesso tempo sensuale e ammiccante, contesto timbrico. Scienza,
non fantascienza. Mercato, non creatività. Calcolo, non rischio. Bu-
siness, non chiacchiere. Soldi, insomma.
Ecco che, alla luce del morso ben assestato a un’inconsapevole
brioche integrale, si delineano i contorni di una riflessione i cui
presupposti sono ben diversi da quelli nei quali la critica e la storio-
grafia jazzistica si sono impigliate e impantanate nel corso degli ulti-
mi trent’anni. Nel tentativo – spesso involontariamente comico, co-
me vedremo – di raschiar via lo smooth jazz da ogni possibile narra-
zione o ricostruzione storica, gli addetti ai lavori si sono fatti sfuggi-
re la natura stessa di quella declinazione stilistica: una musica votata
non solo all’intrattenimento, ma costruita per obbedire a severe e ri-
gorose leggi di mercato, per realizzare una precisa strategia percetti-
va, per – in una parola – piacere senza sforzo.
Se solo quella brioche potesse parlare, infatti, racconterebbe di as-
setti sonori talmente ben architettati da rendere piacevole anche l’es-
sere presi a morsi. La struttura, innanzitutto. Lo smooth jazz
contemporaneo (diretto discendente di quello più antico, tanto da
suscitare la strana impressione di un tempo fermo, immobile, non
evolutivo) si basa su pochi criteri, ma rigorosi. Temi orecchiabili, tal-
mente orecchiabili da poter essere memorizzati anche dopo un solo
ascolto, costruiti senza angoli o spigoli. La cantabilità rinuncia al lar-
go respiro, le frasi tendono alla brevità, e sono pensate per struttu-
rare archi melodici veloci, ritmati, anche in funzione di progressioni
armoniche ridotte all’essenziale, spesso su due soli accordi, per poi
aprirsi – con parsimonia – nel bridge. In una formulazione, per l’ap-
punto, pressoché universalmente concentrata sulla forma chorus-
bridge, le improvvisazioni si limitano all’essenziale, parafrasando il
tema e mantenendo inalterato il clima espressivo.
Una simile ricetta compositiva ha bisogno, dal punto di vista tim-
brico, di un equilibrio, non facile da trovare, tra la parte tematico-
armonica e quella ritmica (di cui ci occuperemo a breve). Mentre il
basso è sempre pulsante e presente, grazie a una robusta equalizza-
zione in fase di missaggio (realizzato anche in funzione della trasmis-
sione radiofonica), e la batteria viene compressa in un range assai
limitato (anche dal punto di vista stilistico-tecnico), la “terra di mez-

185
STORIA DELLA FUSION

zo” è sempre occupata da uno strumento armonico, a segnare uno


scollamento ormai irrecuperabile con le derive dell’r&b, anche quel-
lo più commerciale, in cui spesso scompaiono del tutto gli strati ac-
cordali per lasciare voci e percussioni a galleggiare nel vuoto sonoro
(da Timbaland in poi le più formidabili invenzioni sonore degli ulti-
mi trent’anni è da lì che vengono). Gli strumenti solisti, allora, de-
vono avere caratteristiche definite: un timbro capace di bucare la
densità, una rassicurante caratura virata sugli alti, voce possibilmen-
te vicina a quella umana (lo smooth jazz di oggi è essenzialmente
strumentale), e dunque non stupisce che a dominare siano i sassofo-
ni contralto e soprano, o le chitarre acustiche.
Il ritmo, infine. Qui la scienza ha fatto passi da gigante. Gli studi
condotti negli ultimi due decenni – da luminari, dj e produttori
musicali – hanno esaminato a fondo il numero preciso di bpm (beats
per minute, pulsazioni al minuto: la velocità di un brano espressa dal
valore metronomico; in altre parole: più la cifra indicata dal bpm è
alta, più il brano è veloce. Storicamente, moltissima disco music era
pensata a 120 bpm, ovvero due pulsazioni al secondo) in relazione
alle diverse attività umane. Il ritmo dello smooth jazz, ad esempio, è
stato determinato, da subito, conformandolo a quello delle leggi del-
l’easy listening e della programmazione delle emittenti radiofoniche
FM di maggior successo. Un backbeat allegro, ma non veloce; soste-
nuto, ma non frettoloso; costante, ma non legato. Un ritmo, dunque,
sensuale, più leggero rispetto alle parossistiche suddivisioni del
funky più estremo e radicale; più agile rispetto a quello di moltissi-
mo pop, governato da rigidissime metriche binarie; molto più rego-
lare al confronto con i ritmi frastagliati, nevrotici, complessi, fram-
mentati, nervosi e arrabbiati del jazz-jazz, e anche in paragone ai
tempi dispari, alle scansioni per sedicesimi, ai fraseggi spesso insen-
satamente serrati e cervellotici di molta fusion. Insomma, un ritmo
facile, anche se mai banale, e comprensibile, col quale cioè sincroniz-
zare le attività da svolgere durante l’ascolto, o col quale misurare il
tempo delle cose che si fanno.
Ormai è evidente: lo smooth jazz trova la sua unica ragion d’esse-
re nel novero delle musiche funzionali, quelle cioè che servono a
qualcosa. Allo stesso modo della musica da ballo, diventa inutile
chiedersi se abbiano o meno valore estetico, dacché non è a quello
che mirano. La loro valutazione critica andrebbe condotta a partire

186
SMOOTH OPERATORS

da come, e se, assolvono la loro funzione: se un brano di disco mu-


sic non fa ballare, o svuota la pista, non sarà criticabile in quanto
brutto, ma in quanto inutile.
Da dove deriva una simile costituzione dello smooth jazz? Come
mai proprio in questo settore si obbedisce a regole e norme che sem-
brano proprio derivate dalle strategie radiofoniche? Proprio dall’es-
sere stato pensato, e quasi costruito in laboratorio, per essere tra-
smesso dalle radio private americane, per le quali, lungo almeno un
decennio, ha costituito una formidabile risorsa per raccogliere pub-
blicità e guadagnare milioni di dollari.

2.2. Radio killed the jazz-fusion stars

La storia radiofonica dello smooth jazz inizia quando il termine


smooth jazz in radio neanche esisteva ufficialmente. Se alla fine de-
gli anni Novanta – dopo l’uscita di Storia della fusion – si era inizia-
to a conoscere qualche dettaglio rispetto a questa vicenda, è solo
nella seconda metà del decennio successivo che gli studiosi hanno
rivelato la storia molto istruttiva della relazione costituitasi tra la
creazione di format musicali per le radio commerciali, le ricerche
sul gradimento e le scelte di produzione artistica delle case disco-
grafiche (in particolare: Simon Barber, 2010, in uno studio di esem-
plare profondità dal quale abbiamo tratto alcune delle citazioni di
questi paragrafi).
Come già si evinceva dal nostro piccolo libro, la Grp, l’etichetta
fondata nel 1982 da Dave Grusin e Larry Rosen, aveva per prima
compreso la possibilità concreta che una fusion leggera ma non ba-
nale, segnata sì dalla facilità dell’approccio ma anche da una certa sa-
pienza esecutiva e compositiva, potesse sfondare nel mondo, estre-
mamente competitivo, dell’airplay statunitense dell’epoca. Molte ra-
dio si erano già convertite a un nuovo formato, contrassegnato dalla
sigla AC: Adult Contemporary, ovvero una programmazione desti-
nata a un pubblico adulto, capace di spaziare dal soft-rock degli an-
ni Settanta alle più raffinate derive pop contemporanee. Da queste,
però, la fusion – e ancor di più il jazz – veniva esclusa in quanto, co-
me vedremo meglio più avanti, generi troppo cerebrali, difficili per
un ascolto radiofonico che prevede il massimo del piacere con il mi-

187
STORIA DELLA FUSION

nimo dell’attenzione e dello sforzo. Nel 1976, tuttavia, il successo


commerciale di BREEZIN’, il fortunatissimo album di George Benson
(ne abbiamo discusso in precedenza), aveva mostrato come anche un
prodotto assai elegante e ben suonato, con radici e pedigree jazzisti-
ci in bella evidenza ibridati con una raffinata vena popular, avesse
tutte le possibilità di superare gli steccati stilistici e di mercato eva-
dendo dalla nicchia jazzistica per espandersi su altri mercati (cioè fa-
re crossover). A trascinare al successo quel disco fu anche, se non so-
prattutto, la parte vocale: in un disco essenzialmente strumentale,
This Masquerade, il brano cantato dalla suadente e calibrata voce del
chitarrista aveva toccato il cuore degli ascoltatori, ai quali si offriva
non solo l’opportunità di un intrattenimento ricercato e distinto,
quanto la possibilità di sperimentare la fruizione di un genere – il
jazz, appunto – dal forte aplomb culturale; come nota acutamente
Washburne (2004): «il pubblico aveva la sensazione gratificante di
essere “jazzy” senza dover necessariamente immergersi nella tradi-
zione del jazz».
Coincidentalmente, proprio mentre Benson diventava una super-
nova dell’universo musicale, infrangendo tutti i record di vendita per
un musicista di jazz, a Washington prendeva vita un nuovo format ra-
diofonico, all’interno dell’emittente WHUR, una radio AC, di pro-
prietà della Howard University, che trasmetteva dai 96.3 della modu-
lazione di frequenza. The Quiet Storm, la tempesta tranquilla, era il
titolo della trasmissione notturna, preso in prestito da un brano di
Smokey Robinson, al cui interno era possibile ascoltare il r&b più
tranquillo, il soul più raffinato e quel jazz che proprio a quei due ge-
neri iniziava a fare l’occhiolino. Temi orecchiabili, ritmi dolci e cul-
lanti, una musica sensuale e rilassante, adatta alla notte e alle sue mil-
le sfumature. Il successo del programma fu tale che molte emittenti
iniziarono a replicare il format; con grande sorpresa, l’industria musi-
cale si accorse che per quel tipo di proposta mancava la musica adat-
ta. Bisognava riempire il vuoto: bisognava inventare lo smooth jazz.
La Grp impiegò davvero poco per diventare l’epicentro di un
terremoto percepito in tutto il mercato discografico americano (e,
anche se in misura inferiore, mondiale). L’idea di sfondare un terri-
torio abitualmente ostico, come quello radiofonico, e la capacità di
operare in corsa scelte di management artistico e commerciale capa-
ci di adeguare in tempo reale il prodotto alla richiesta, cioè l’offerta

188
SMOOTH OPERATORS

alla domanda, resero l’etichetta di Grusin e Rosen l’esempio da se-


guire. Certo, un pizzico di fortuna – il fare la cosa giusta al momen-
to giusto – aiutò l’impresa, e assunse le sembianze di un’emittente ra-
diofonica newyorkese, WPIX, alla quale Mark Wexler, direttore del
marketing in casa Grp, mandò tutto il catalogo pubblicato dall’eti-
chetta alla notizia che la stazione stava per convertirsi al formato AC.
La lungimiranza della mossa di Wexler è addirittura visionaria: il di-
rigente, infatti, non approfittò soltanto di un fatto, anche abbastan-
za casuale e contingente, ma riuscì a capire che la natura stessa del-
la musica per adulti, nel suo paese, era destinata a cambiare, e che
quel cambiamento non poteva prescindere da una particolare mi-
scela di jazz e pop, di cui la Grp era incontrastata regina.
Il nuovo AC della East Coast aveva il suono della Grp, e la Grp era
l’identikit stesso del nuovo format musicale cui molte radio stavano
guardando. Il successo fu talmente ampio che quando la rivoluzione
vera e propria scoppiò, Grusin e Rosen avevano già tutti gli strumenti
– commerciali e artistici – per cavalcare l’onda. La rivoluzione avreb-
be assunto i connotati di una nuova emittente, e del formidabile pro-
cesso di marketing e ricerca che avevano portato alla sua creazione.

2.3. Big, fast and safe

KMET, un’emittente FM di Los Angeles, aveva avuto un buon


successo negli anni Sessanta come radio di estrazione rock, ma alla
metà degli anni Ottanta, stroncata dalla concorrenza, sopravviveva
con difficoltà nonostante appartenesse a un colosso dell’industria
dell’entertainment come Metromedia. Bisognava però cambiare,
riguadagnare credito e posizioni, prestigio e nuova leadership in un
mercato pubblicitario che in quel tempo viveva la creazione di una
bolla inimmaginabile. Come rinnovarsi? Come tornare sul mercato
più vincenti che mai? Cosa voleva il pubblico di quei complessi, stra-
ni ed enigmatici anni Ottanta? Come si poteva riempire il vuoto di
proposta indicato da The Quiet Storm? Per scoprirlo, Carl Blazell,
di Metromedia, si rivolse a Frank Cody, un produttore radiofonico
di successo, affinché individuasse una nuova nicchia, possibilmente
non troppo sfruttata dalla concorrenza, con un’audience potenzial-
mente ampia da poter raggiungere. Qualcosa, insomma, che fosse

189
STORIA DELLA FUSION

«big, fat and safe», grande, veloce e sicura. Cody si chiuse per tre
giorni in una stanza con Owen Leach, capo di un’agenzia di marke-
ting; i due tirarono fuori un’idea che, seppur approssimativa, poteva
funzionare. Bisognava capire con quale musica riempirla. Dopo sei
settimane di ulteriori analisi e studi, il gruppo di lavoro decise che il
format sarebbe stato alimentato da, di fatto, un nuovo soggetto mu-
sicale, in grado di farsi ascoltare da un pubblico il più ampio possi-
bile. Quel nuovo format avrebbe attinto da tre distinte categorie: per
un terzo la new age, per un altro terzo il contemporary jazz, e per il
terzo restante brani cantati, di stile jazzistico, che però le stazioni di
jazz non passavano perché troppo commerciali.
Il 14 febbraio del 1987 KMET conobbe la sua rinascita dai 94.7
della modulazione di frequenza, e assunse il nome di KTWV. Per
tutti, però, era The Wave. Quel miscuglio di musiche proposte dal
format fu presto noto col nomignolo di “Wave Music”. Il successo
fu altrettanto immediato, tanto che molte altre stazioni californiane
e non si convertirono al “suono dell’onda”. Già, ma che nome ave-
va quella musica? Come la si poteva definire? E in che modo la si po-
teva “brandizzare”?. I primi tentativi furono assai cauti. Ufficial-
mente, lo slogan recitava «Music for a New Age», sebbene fossero
forti le resistenze a lasciare che a identificare quel nuovo marchio
fosse una definizione con forti risonanze mistiche e spirituali.
La risposta arrivò l’anno dopo. Forte del successo di The Wave,
Frank Cody e Owen Leach fondarono Broadcast Architecture, un’a-
genzia di consulenza ancora oggi leader del settore. Tra i primi clien-
ti fu WNUA, una radio di Chicago convertitasi al “Wave sound” che
però avvertiva la necessità di trovare un nuovo nome per quel for-
mat. Sebbene il pubblico fosse attratto da quella miscela di jazz e
pop, non era capace di catalogarla, e conseguentemente di identifi-
carsi pienamente con essa. «La gente diceva: “sì, è jazz, ma non co-
me quello che si ascolta nei night fumosi con gruppi in cui qualcuno
suona il contrabbasso”. L’accento veniva sempre posto sulla sensa-
zione di leggerezza e rilassamento, perché era comunque un jazz fa-
cile, e nient’affatto complicato», ha raccontato Allen Kepler, che al-
l’epoca era il direttore marketing dell’emittente.
Nel corso dell’ennesima riunione del focus group al quale veni-
vano invitati gli ascoltatori, si verificò l’epifania. Così rievoca quel
momento Frank Cody:

190
SMOOTH OPERATORS

Lo ricordo come fosse ieri. C’era questa donna afroamericana, una


fan sfegatata di WNUA, alla quale chiedemmo: “Come chiameresti
questa musica? È jazz, secondo te?”. Lei rispose: “Attraverso questa
musica è come se i musicisti volessero farmi sentire a mio agio, far-
mi star bene. Non ha spigoli. Sapete cos’è? È un jazz liscio, morbi-
do, smooth”. Le lampadine si accesero nelle nostre teste all’unisono.
Ci alzammo tutti. Avevamo trovato il nome.

Trovato il nome, però, bisognava fare la musica. Per continuare a


garantire gli altissimi introiti pubblicitari registrati sin dal lancio di
The Wave, il format aveva bisogno di continui aggiustamenti, di
verifiche incessanti, di test ininterrotti per trovare il giusto mix tra le
tre correnti musicali principali che lo alimentavano. Tra queste, il
contemporary jazz appariva il più vulnerabile, come spiega Cody.

Avere successo nel mondo delle radio commerciali vuol dire fare
in modo che le persone restino all’ascolto per lunghi periodi di
tempo. Rilevammo che le lunghe improvvisazioni, o i lunghi asso-
li, allontanavamo le persone dall’esperienza di ascolto. […] Ciò
che funzionava era una musica che avesse una melodia capace di
piantarsi immediatamente nel cervello degli ascoltatori. Eravamo
quasi come spacciatori: vendevamo melodie alla gente. Una volta
introdotte le metodologie di test, riuscimmo ad affinare “scientifi-
camente” ciò che avevamo solo intuito, e quindi a fare scelte mi-
gliori in termini di contenuto e rapporto rischi/benefici.

Facile comprendere quali fossero i benefici, visto che gli incassi


pubblicitari aumentarono a dismisura nel giro di breve tempo. Ma
quali erano i rischi? I rischi riguardavano l’aspetto produttivo, cioè
il sistema di alimentazione del format. Se era vero, come ormai
dimostrato, che il neonato smooth jazz dovesse ambire alla brevità,
alla facilità, all’immediatezza (i test venivano condotti sulla base di
ascolti fulminei, non più di 30-40 secondi), e depurarsi da tutti gli
elementi di eccessiva jazzità, era altrettanto vero che i musicisti di
jazz, di contemporary jazz o fusion che dir si voglia avrebbero mani-
festato la loro netta opposizione a modalità così spersonalizzanti di
creazione musicale. Al Di Meola fu tra i primi a stigmatizzare la si-
tuazione, affermando che le tipiche rotazioni delle radio smooth jazz

191
STORIA DELLA FUSION

privavano gli ascoltatori della possibilità di sperimentare espressioni


artistiche più coraggiose e stimolanti; ignorava, però, che quel for-
mat musicale era stato confezionato su misura proprio esaudendo i
desideri di migliaia di persone per le quali il jazz (contemporary o
meno che fosse), o la fusion si traducevano in esperienze di ascolto
noiose, quando non disturbanti.
La Grp, come abbiamo visto, aveva precorso i tempi, anticipando
la svolta di The Wave e impossessandosi del mercato della costa est
grazie a una produzione di eccellente livello, abile nel mantenere in
costante equilibrio (almeno questo era l’obiettivo, non sempre rag-
giunto o centrato) la dimensione pop con quella jazzy. Tanto che, al-
l’indomani della nascita di The Wave, la musica marcata Grp era tra
le risorse verso le quali i programmatori rivolsero l’attenzione dal
momento che soddisfaceva molti dei criteri produttivi. A soddisfarli
tutti, però, era il modello indicato da un sassofonista capelluto, pic-
colo e mingherlino, il cui soprano aveva iniziato a volare altissimo nei
cuori degli ascoltatori. Tanto che dopo due album di buon successo
(nulla di eclatante, sebbene le duecentomila copie di G FORCE rap-
presentassero un exploit nient’affatto disprezzabile), con DUOTONES
Kenny Gorelick, in arte Kenny G, segnò un momento di non ritor-
no. La sua musica, secondo Ralph Stewart, vice direttore musicale di
The Wave, definiva esattamente cosa quella radio volesse apparire
alle orecchie degli ascoltatori. «Trasmettiamo molta musica stru-
mentale, ma Kenny G è l’unico a essere un marchio di fabbrica. In-
fatti, spesso usiamo il suo nome per spiegare con precisione che tipo
di musica trasmettiamo a chi non ci ha mai ascoltati».
Il mercato ormai chiedeva brani dalle caratteristiche ben determi-
nate, si doveva ragionare per rotazioni e playlist, e per molti musicisti
fu un prezzo troppo alto da pagare. Grusin e Rosen ormai ambivano a
conquistare fette di mercato più ampie; per far questo l’imperativo era
attuare il crossover verso le vaste platee delle radio AC tout court:
operazione non semplicissima poiché comunque la Grp era percepita
come un’etichetta di jazz. Il format AC standard, invece, esigeva brani
che avessero obbligatoriamente una parte cantata. Per ciò, Grusin e
soci produssero caterve di pop-jazz di stampo vocale: anche quando il
disco era a nome di uno strumentista (la maggior parte dei casi) si invi-
tata un o una cantante in veste di guest star; a entrambi, poi, si chie-
deva di realizzare cover in stile jazzy di brani celebri della scena pop.

192
SMOOTH OPERATORS

Non a tutti i musicisti della scuderia un simile sistema produttivo


era congeniale. Alcuni soffrivano talmente le limitazioni della mac-
china produttiva da imporre, di fatto, la pubblicazione di due ver-
sioni dello stesso brano: una per le radio, “depurata” da assoli e jaz-
zità varie, e della lunghezza adatta alla fruizione in modulazione di
frequenza; l’altra destinata invece al mercato discografico. Una me-
todica, questa, non certo nuova nella storia del jazz, nota Washbur-
ne, ma certo la Grp la elevò a sistema, assicurando guadagni all’a-
zienda, e guadagni per i musicisti, ai quali comunque la diffusione
radiofonica garantiva visibilità, promozione e incremento delle esi-
bizioni dal vivo.
Letta in quest’ottica, la breve storia dello smooth jazz rende piena-
mente comprensibile cosa ci faccia questa musica negli ambienti
(stricto sensu) più disparati, come quello in cui faccio colazione tre
volte alla settimana a Roma, anche sembra di stare in Thailandia.
Qualunque sia l’ispirazione geografica, o la latitudine alla quale si
suona, oggi come ieri lo smooth jazz – o fuzak, per usare l’eccellente
calembour coniato da Martha Bayles (1994) per descrivere la deriva
muzak della fusion, ovvero un «sedativo per yuppies e stanchi
pendolari» – è musica d’arredamento, tappezzeria. Svolge una fun-
zione, e prova a farlo nel migliore dei modi, attraverso pratiche e mo-
dalità che, pur nella loro semplicità e, di fatto, nell’immobilità stili-
stica nella quale si muovono (la fuzak di oggi è singolarmente ugua-
le a quella in voga quando nacque The Wave), ancora oggi ritenute
efficaci. Perché, allora, i suoi protagonisti sono stati spesso sbeffeg-
giati e insultati da critici e appassionati? Perché di questa musica
non esiste traccia in nessuna storia di lingue musicali, né tantomeno
dialetti? Forse perché la presenza del termine jazz nel suo nome ha
ingannato per anni critici e storici, ai quali quasi non sembrava ver
di potersi scagliare, col piglio dei puristi di rango, contro una musi-
ca che – in effetti – rappresentava il momento di massima decaden-
za del jazz medesimo. Celebre, al riguardo, il pensiero di Stanley
Crouch (Watrous, 1997):

Il problema si è manifestato con la nascita della fusion music negli


anni Sessanta (sic), per colpa della quale era sempre più difficile
per gli ascoltatori scorgere la differenza tra il jazz e il pop stru-
mentale. Ora, per via del nome, smooth jazz, molte persone sono

193
STORIA DELLA FUSION

portate a credere che una qualunque musica con una sezione rit-
mica di stampo pop e un po’ di improvvisazione sia jazz. Lo
smooth jazz rende difficile all’ascoltare medio capire cosa sia il ve-
ro jazz, tanto che quando finalmente ne ascoltano qualche brano,
inevitabilmente dicono: “ma perché ho perso tutto ‘sto tempo a
sentire questa schifezza”?.

Dopo aver ignorato, o gravemente sottovalutato la fusion, lo


smooth jazz offriva su un piatto d’argento la possibilità di rincarare
la dose: se, infatti, nell’ampio universo fusionario ci si poteva imbat-
tere in artisti e dischi di eccellente pregio, in quello della fuzak non
si correvano rischi di sorta. Si sparava a occhi chiusi, ben sapendo di
cogliere comunque un bersaglio. Far questo, ovviamente, aveva – e
ha – una sua legittimità: se proprio ci si incaponisce a voler applica-
re metri di giudizio estetico a una musica esclusivamente funzionale,
la fuzak non sta in piedi, né è possibile istituire confronti, paralleli o
paragoni con la produzione jazzistica, o di stampo fusion, coeva.
Resta però il dubbio – ed è un dubbio pervicace, insistente, tena-
ce, caparbio, pernicioso – che molta critica abbia per anni
deliberatamente scelto di scagliarsi contro la costellazione delle mu-
siche al jazz più vicine e affini per nascondere, in realtà, la stagna-
zione creativa del jazz medesimo in anni, come gli Ottanta e i No-
vanta, in cui la scena internazionale stentava a riguadagnare credito
e centralità. Gli ultimi due decenni del ventesimo secolo, proprio
quelli in cui più forte si è percepita la voce di linguaggi altri, hanno
rappresentato un lungo tunnel per il jazz mondiale, un buco nero ca-
pace di assorbire luce e suoni, e lungo il quale il jazz non solo non ha
avuto la capacità (tranne che in alcuni casi) di rinnovarsi, o più sem-
plicemente mantenere il passo con i tempi, ma si è appunto incapo-
nito nel mantenere le sacrosante rendite di posizione senza però
evolvere, senza indicare percorsi differenti.
Più facile, dunque, indirizzare lo sguardo altrove, e piuttosto che
raccontare le difficoltà e le ambasce del jazz, divertirsi a tirare frec-
ce, e altri oggetti contundenti, contro una schiera di musicisti ai qua-
li si poteva, in realtà, soltanto rimproverare di fare (più o meno)
onestamente il proprio lavoro. Su uno, in particolare, nessuno è fat-
to mancare nulla: Kenny G. Tra i musicisti più dileggiati della storia,
il sassofonista però vanta alcuni primati assolutamente invidiabili,

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SMOOTH OPERATORS

essendo uno degli strumentisti che ha venduto di più nella storia (le
fonti indicano ben più di settanta milioni di copie, assai meglio di
Prince e Britney Spears). Il suo BREATHLESS, del 1992, è il disco stru-
mentale più venduto di sempre. MIRACLES: THE HOLIDAY ALBUM, di
due anni successivo, “appena” tredici milioni di copie smerciate in
tutto il mondo, è arrivato in vetta alla classifica Contemporary Jazz,
a quella R&B/Hip-Hop e nella Top 200 di «Billboard». Il tutto in
uno stile che, piaccia o meno, nell’immaginario popolare è stretta-
mente legato al jazz. E allora, perché parlarne male è diventato una
specie di sport nazionale a stelle e strisce?

2.4. Chi è Kenny G, e perché tutti parlano male di lui?

Se anche un uomo placido e gentile ha perso le staffe parlando di


lui, vuol dire che Kenny G (all’anagrafe Kenneth Gorelick, classe
1956), deve, in qualche modo e in qualche momento, averla fatta
proprio grossa. Alle soglie del nuovo secolo, infatti, sollecitato da
una domanda specifica, di un giornalista di «Harper’s Bazar», il
chitarrista di Lee’s Summit si è lasciato andare a considerazioni dav-
vero pesanti, riportate poi sul suo sito (e poi girate in rete per mesi,
dopo essere state rimosse dal blog metheniano). Dopo aver ricorda-
to di aver visto suonare il sassofonista una sera in cui il gruppo di Jeff
Lorber apriva per il PMG, notando come il capelluto fiatista avesse
seri problemi di ritmo e di linguaggio, Metheny è esploso in relazio-
ne all’allora ultima fatica discografica di Kenny G, all’interno della
quale l’incauto sassofonista aveva sovrainciso il suo strumento sul ce-
leberrimo brano di Louis Armstrong What A Wonderful World:

Grazie a questa operazione, Kenny G è diventata una delle poche


persone sulla terra per le quali posso dire di non avere la minima
considerazione: come uomo, per l’incredibile arroganza di aver an-
che solo preso in considerazione una cosa del genere; come musici-
sta, per la presunzione di poter condividere la ribalta con l’artista
più importante nel campo del jazz. Questa modalità di necrofilia
musicale – la tecnica di sovraincidersi su tracce preesistenti di artisti
scomparsi – era già sembrata strana quando la usò Natalie Cole
duettando con Nat King Cole in Unforgettable, qualche anno fa, ma

195
STORIA DELLA FUSION

era pur sempre suo padre. Quando Tony Bennett fece la stessa cosa
con Billie Holiday fu altrettanto strano, ma stiamo pur sempre par-
lando di due dei più grandi cantanti del ventesimo secolo, sullo stes-
so livello di eccellenza artistica. Quando Larry Coryell ha creduto di
poter doppiare se stesso su un brano di Wes Montgomery, ho per-
duto molto del rispetto che nutrivo per lui, e mi dispiace aver nutri-
to rispetto per qualcuno che ha poi rivelato il pessimo gusto di es-
sere irriguardoso nei confronti di uno dei miei eroi personali. Ma
quando Kenny G ha deciso che era per lui fosse lecito profanare la
musica di colui che è probabilmente il più grande musicista jazz mai
vissuto, vomitando il suo stile sfigato, impreciso, stonato, dilettante-
sco su un brano di Louis (anche se minore), ha fatto qualcosa che
non avrei mai immaginato possibile. Grazie alla decisione incredi-
bilmente presuntuosa e irriguardosa di intraprendere il più cinico
dei percorsi musicali, ha gettato merda sulle tombe dei grandi mu-
sicisti del passato e del presente. […] Mancando di rispetto a Louis
e alla sua eredità, e per estensione a chiunque abbia mai provato a
suonare il jazz e la musica improvvisata, Kenny G ha toccato il nuo-
vo punto più basso nella cultura moderna, qualcosa per la quale tut-
ti noi dovremmo provare un forte imbarazzo.

E, per sovrammercato, Pat lanciò la proposta di boicottare dischi


e concerti di Kenny G, e qualunque cosa gli girasse intorno.
Non male, vero? Soprattutto, comprensibile: al contrario di Crou-
ch, difatti, Metheny ha vissuto sulla sua pelle la parabola del figliol
prodigo, del giovanotto strapieno di talento che magari all’inizio si
innamora della musica sbagliata, la fusion, ma poi torna all’ovile del
jazz-jazz (cosa che, peraltro, Pat mai ha fatto, perlomeno non
completamente). Ancor più interessante – e assai significativo – è
che una simile difesa del jazz, strenua e vigorosa, provenga da un chi-
tarrista fusionario. Ascoltate: «Ci sono cose sacre, e per ogni musici-
sta che ha affrontato il jazz, a qualsiasi livello, Louis Armstrong e la
sua musica son terra consacrata», per poi prendersela con critici e ri-
viste, della cui mancanza di una forte presa di posizione il chitarrista
molto si meraviglia e rammarica.
Tra i tanti paradossi della storia della fusion, e delle musiche a es-
sa assimilabili, ci sono i fiumi di inchiostro versati per parlare (male,
comprensibilmente) di Kenny G, quando altri musicisti e gruppi

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SMOOTH OPERATORS

hanno dovuto sopportare gli scarsi agi dell’anonimato. Al sassofoni-


sta gliene hanno fatte, e dette, di tutti i colori. Washburne, nel già ci-
tato saggio Does Kenny G plays bad jazz? («Kenny G suona pessimo
jazz?») ne passa in rassegna alcune, come quando Michael Roberts,
un critico di «Jazziz» si sottopose all’ardua prova di ascoltare per
dieci ore consecutive la musica di Kenny G, così da essere in grado
di raccontare gli effetti di quell’esposizione prolungata. Il critico, ma
questo Washburne non lo dice, concluse il suo servizio così:

Nei giorni trascorsi dopo aver portato a termine quella dura prova
non sono riuscito a riavermi dal trauma. Sono passate settimane da
quando mi sono sorpreso agli angoli delle strade a gridare ai passanti
“La fine è vicina!”. […] Kenny G, almeno così mi è sembrato, suo-
na musica per gente che vuole staccare il cervello per pochi minuti,
o ore, o addirittura per il resto della loro vita, e lo fa molto bene. Ciò
non piace a Pat Metheny, e non piace neanche a me. Ma per quelli
che sono stufi di pensare, allora Kenny G è l’uomo che fa per voi.

La rivista, in copertina, aveva piazzato un disegno raffigurante il


sassofonista legato a un palo e trafitto da frecce. «Quando poi le ri-
viste di jazz hanno dedicato ampi spazi a Gorelick, i rispettivi diret-
tori si sono sentiti in dovere di profondersi in scuse preventive. […]
Ad esempio, nel 1999 Lee Mergner, direttore di «JazzTimes» scrisse
nell’editoriale che apriva un numero del giornale: “Prima che pos-
siate disdire l’abbonamento, lasciatemi spiegare perché in questo nu-
mero parliamo di Kenny G…”».
Se le critiche hanno spesso assunto i toni della beffa vera e propria
(in rete è facile trovare elenchi di battute e barzellette che riguarda-
no The G Man), pochi sono stati i critici che si sono soffermati a
valutarne e giudicarne l’opera sfoderando i ferri del mestiere. Tra
questi, si registra l’affilata ricognizione di Watrous il quale, in un
pezzo del 1994, scriveva:

Kenny G o non sa o non vuole suonare jazz, e la sua produzione è


spettacolarmente priva di tutte le caratteristiche che definiscono il
jazz come genere. La sua musica è vuota, a livello improvvisativo;
non ha swing, sensibilità blues e sembra che G non abbia capito la
differenza tra sentimentalismo ed emozione. Non meraviglia,

197
STORIA DELLA FUSION

quindi, che chi ha speso la propria esistenza nel tentativo di


padroneggiare questa forma d’arte, ricavandone poca fama, possa
sentirsi offeso.

Eppure, nonostante la diffusa e varia attività di ludibrio di cui è


stata fatta oggetto, la musica di G è l’unica, all’interno dell’universo
smooth jazz, di cui si sia provato a ragionare, soprattutto in relazio-
ne alla questione decisiva e inevitabile, ovvero la domanda: Kenny G
suona jazz o no? A dire la sua ci ha provato Mark Gridley, autore di
una secca (e forse non proprio utilissima) opera classificatoria dei va-
ri generi jazzistici:

La sua musica non swinga come quella degli anni Trenta, o degli
stili successivi basati sui pattern del bebop, ma certo Kenny G im-
provvisa. […] I suoi Cd, al di là di come vengano considerati da
molti musicisti di jazz o dai puristi, li trovi nel reparto jazz, non in
quello pop o della musica classica. […] Allo stesso modo, è diffu-
sa principalmente dalle emittenti jazz, non dal quelle rock. […]
Per almeno vent’anni la sua musica è stata una parte importante
del paesaggio auditivo: molta gente la riconosce, pur senza sapere
che è Kenny G a suonarla.

Ci prova, appunto, Gridley, facendo molta attenzione a non cal-


pestare confini pericolosi, a non urtare suscettibilità, a non compro-
mettere la sua posizione. Epperò, la difesa si basa su argomenti po-
co convincenti. Il meno convincente dei quali è il cosiddetto file un-
der, ovvero la necessità classificatoria dei negozi di dischi: collocare
un Cd nel reparto sbagliato vuol dire non venderlo, quindi non gua-
dagnare. Il che è come attribuire ai negozianti, o alle case discogra-
fiche (le quali, furbette, hanno presto imparato a dare il loro disin-
teressato aiuto scrivendo direttamente sulla copertina in quale re-
parto deve essere sistemato un disco), la possibilità di decidere la na-
tura stilistica, l’essenza artistica di una musica. Giammai. Per capire
quanto imprecisa e inaffidabile possa essere un orientamento simile
basta pensare al caso tutto italiano dei dischi di Giovanni Allevi. La
prima volta che li ho visti sugli scaffali di musica classica contempo-
ranea di una famosa catena, subito prima di Luciano Berio, volevo
sporgere denuncia.

198
SMOOTH OPERATORS

Allo stesso modo non funziona il riferirsi a una generica capacità


improvvisativa di Kenny G per dargli una patente jazzistica certa e
inequivocabile, dacché sarebbe necessario istituire un ragionamento
qualitativo. Non basta provare a cantare per essere stimato un can-
tante. O tirare volenterosamente calci a un pallone per essere consi-
derati calciatori.
Jazz o non jazz, dunque? Torneremo a breve sulla spinosa que-
stione. Prima, però, va ascoltato l’autorevole parere del musicologo
Robert Walser il quale, non essendo uno specialista di jazz, affronta
il problema da una prospettiva innovativa:

Da una prospettiva più ampia, Kenny G solleva la questione se noi


siamo in grado di rispettare la gente che rispetta la bellezza. Le
reazioni violente alla sua musica, così come le fantasie grafiche sul-
le sue possibili morti (si riferisce al disegno in copertina su «Jaz-
ziz», NdA), certamente tradiscono un diffuso disagio culturale,
quando non addirittura un disprezzo, per la sensibilità. Per molti,
ammettere di essere toccati da quella musica vorrebbe dire am-
mettere di essere stati manipolati, o deboli.

Walser, insomma, sposta il peso dell’analisi sulla ricezione, senza


perciò offrire contributi essenziali alla questione che, di fatto, ha at-
traversato tutta la nostra discussione.
In definitiva, il vero problema è che, soprattutto oggi, chiedersi se
la musica di Kenny G o Robert Glasper o Joni Mitchell sia jazz, non
ha molto senso. Anche perché non è ben chiaro chi abbia l’autorità
per stabilirlo, dal momento che, secondo Simon Frith, l’universo
della cultura popolare è tale da permettere a tutti coloro che vi par-
tecipano di rivendicare capacità e autorevolezza nell’emissione di
giudizi. Il fatto che in molte scuole di musica americane, in univer-
sità e anche alla Berklee School of Music si tengano corsi di smooth
jazz indica, di fatto, un riconoscimento, una presa d’atto.
Altrettanto inutile è dire che la musica di Kenny G sia semplice-
mente brutta, dacché soprattutto nell’ambiente jazzistico, bello e
brutto sono categorie profondamente collegate con quelle di alto e
basso, di arte verso intrattenimento, secondo Washburne. E allora?
Allora, sto proprio con Washburne, e sottoscrivo le sue riflessio-
ni. Ascoltate:

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STORIA DELLA FUSION

Al di là del suo pessimo jazz, o come lo si voglia chiamare, il di-


sprezzo per la sua musica non giustifica la sua esclusione dalla ri-
costruzione storica. […] Lo smooth jazz non è stato un incidente
di percorso nella storia del jazz, un errore ingigantito dal consu-
mismo e dall’interesse per il mercato che sarà emendato nel più
breve tempo possibile. È, invece, profondamente radicato in una
tradizione all’interno della storia del jazz. Kenny G è con noi, ci
piaccia o no.

Il salto di qualità della storiografia jazzistica, da molti invocato (e


tra questi Scott deVeaux) sarà finalmente compiuto quando i modi
del racconto si saranno staccati da quelli attuali, e sapranno pren-
dersi carico della varietà e delle differenze che quella musica che
ostinatamente continuiamo chiamare jazz mostra e vive nel ventune-
simo secolo.

2.5. Fine della tempesta tranquilla

Nonostante gli ottimi risultati conseguiti, e l’ormai acquisito sta-


tus di musique d’ameublement, lo smooth jazz ha conosciuto una for-
te flessione, negli ultimi dieci anni. Le vendite continuano a essere
soddisfacenti – anche se i numeri non sono più quelli di una volta:
se un disco di jazz marcato Columbia vende 5mila copie, uno di
smooth jazz arriva agevolmente a 125mila –, ma il declino ha inve-
stito l’emittenza radiofonica statunitense. Il format nato dall’idea di
Quiet Storm, proseguito da The Wave e perfezionato dalle metodo-
logie di marketing di Broadcast Architecture, capace di realizzare in-
troiti sensazionali e di imporre lo smooth jazz all’attenzione di mi-
lioni di ascoltatori, ha conosciuto un lento, e fisiologico, declino. Nel
2009 The Wave ha cambiato il format. Non più smooth jazz, com’e-
ra stato nei precedenti ventidue anni, ma AAA, ovvero Adult Album
Alternative (un insieme di playlist a orientamento più rock). Per i
nostalgici di Kenny G e soci ha messo a disposizione le frequenze ad
alta definizione su Internet. La ragione non è stata artistica, ma ov-
viamente commerciale: nuovi sistemi di rilevamento hanno mostrato
come all’invecchiamento timbrico e formale dello smooth jazz abbia
corrisposto quello degli ascoltatori. L’audience non è più nel target

200
SMOOTH OPERATORS

anagrafico degli inserzionisti, per cui il cambiamento si è annuncia-


to come irrinunciabile. Dal 2010 moltissime sono state le emittenti
dalle cui rotazioni è sparito lo smooth jazz.
Ma le brioches, almeno a Roma, possono stare tranquille.

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