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L’attività ha la sua ragione nella passione: Salvatore Sciarrino

by Maurizio Azzan (https://www.belviveremedia.com/author/azzan-maurizio)  Ago 04, 2017

In occasione del concerto per i settant’anni di Salvatore Sciarrino, tenutosi il 18 luglio scorso nell’ambito del
Chigiana International Festival di Siena (leggi qui la recensione
(https://www.belviveremedia.com/amadeus/tradurre-antico-e-moderno-la-chigiana-rende-omaggio-a-
salvatore-sciarrino)), abbiamo incontrato il Maestro per discorrere con lui del suo percorso artistico fino ad
oggi, del suo pensiero compositivo e dei suoi progetti futuri.

Maestro Sciarrino, nel corso del suo lungo percorso artistico, iniziato a metà degli anni Sessanta, ha visto
fiorire gran parte delle principali esperienze estetiche del secondo Novecento. Come le vede oggi e qual è
stato il suo rapporto con esse?

Sicuramente sono esperienze che mi hanno molto segnato, ma non so se generalizzare quella che è stata la
mia esperienza personale. Ritengo che alcuni miti, alcuni nomi, sebbene indicati come fondamentali, abbiano
poi subito in qualche modo una parziale eclisse. Quello che vedo adesso, rispetto a un tempo, è soprattutto la
relatività di ciò che era emerso in un primo momento come tendenza prevalente e, in realtà, pur avendo
vissuto quelli che vengono considerati da molti come gli anni d’oro della musica contemporanea, devo dire
che non in tutto li trovo gloriosi. Li ho trovati sicuramente interessanti come occasione di sperimentazione in
cui si sono viste fiorire cose straordinarie ma, allo stesso tempo, penso che la musica contemporanea,
essendo il punto che intreccia passato e presente incontrando il futuro, sia un cammino che non permette di
vedere chiaramente ciò verso cui si tende e ciò che realmente viene acquisito. Personalmente, tendo
piuttosto a una visione per cosi dire naturale, come se tutte queste novità fossero parte di un moto ondoso:
guardando da vicino, possiamo osservare una ad una delle onde che poi, con l’allontanarsi del punto di vista,
risultano più confuse o parte di movimenti fra loro distinti.

A mio modo di vedere, il mondo della cultura è un mondo instabile, mutevole, e lo dico non solo dal punto di
vista delle cose che vengono prodotte, ma anche della cultura stessa. Oggi ad esempio, durante la prova
[prima del concerto del Quartetto Prometeo con Matteo Cesari e Yoshua Fortunato, ndr.], mi chiedevo che
forza abbiano oggi queste composizioni di Scarlatti appena si trova loro una fisionomia lievemente diversa da
quella in cui si sono sedimentate e coperte di polvere nei secoli. In fondo, fanno parte di quanto nel nostro
piccolo ci dà vita ed energia pur non rientrando nel pieno della vita collettiva. Non dico che si tratti di cose per
specialisti, ma Gesualdo, Domenico Scarlatti o Stradella restano fenomeni isolati. Ciò che se ne coglie oggi è la
scomparsa, non la presenza. Proprio per questo, non dobbiamo preoccuparci di cosa resterà di noi, perché già
solo il pensarci genererebbe una prospettiva aberrante. Bisogna fare le cose in cui si crede e che si amano:
l’attività ha la sua ragione nella passione.

Fin dall’inizio della sua carriera, uno dei fili conduttori più ricorrenti nei suoi scritti e nelle sue conferenze è
stato il continuo richiamare l’importanza di un dialogo critico con la storia e con gli altri campi del sapere e
dell’arte, da un lato in polemica con l’antistoricismo di alcune esperienze dell’avanguardia e dall’altro con il
paludato ambiente accademico dei conservatori. Come vede la situazione di oggi?

Non mi pare che sia migliorata. Anche se c’è stato un momento in cui sembrava che la situazione potesse in
qualche modo evolversi, da certi punti di vista direi quasi che sia peggiorata. Sentir dire, ad esempio, che in
certi paesi europei viene separato l’insegnamento della composizione moderna da quella in senso
tradizionale mi pare veramente un sintomo di perdita d’identità. Eppure, quando si parla con delle persone
nate in America, ci si rende conto che ciò che più le colpisce di noi europei è proprio questo: un’identità di
lungo corso, proiettata in noi, e che loro non hanno. Mi verrebbe da dire che, da un certo punto in poi, si sia
cercato di fare tabula rasa e riiniziare da capo per tener dietro agli americani, seppur con secoli di ritardo, e
questo mi sembra un paradosso. Il problema però non è l’inserimento della cultura nella musica o della
musica nella cultura, ma la situazione in generale, e non parlo solo di quella italiana. La scuola di oggi tende a
richiederci un minore sforzo di approfondimento della cultura e, se da un lato si studia di meno, dall’altro si ha
un rapporto più veloce e superficiale con le informazioni. Navigando in internet consultiamo e riconsultiamo
senza memorizzare nulla, e questo va contro l’aspetto persistente della cultura. Non creando memoria,
l’esperienza scivola via senza radicarsi dentro di noi, determinando maggiore superficialità e disgregazione in
una massa di nozioni sempre più separate fra loro e contribuendo in larga parte a questi appuntamenti
mancati con una maggiore organicità del sapere umano. Certo costa fatica organizzare in noi il tutto, ma è
solo questo a portare i frutti più importanti e a darci piacere ed entusiasmo permettendoci di vedere legami
fra le cose di cui normalmente non ci accorgiamo. Riuscire a concepire solo legami chiusi e prospettive
prefissate è una cosa che dovrebbe preoccupare. Alla fine però non riesco ad essere pessimista, perché sono
convinto che, per quanto si cerchi di classificare ed incasellare la creatività, essa si rinnova sempre, fino a
sfuggirci: è possibile, ad esempio, che le prossime generazioni siano meno ingenue di noi nell’uso di internet e
che, anziché giocarci, arrivino ad usare questa risorsa come mezzo di informazione e collegamento. Il nostro
problema è dato dal fatto che ci giochiamo subendone l’inflazione nella nostra vita, cosicché il tempo si
riduce e si disperde in contatti più frenetici, più veloci e più numerosi, in cui quello che conta non si concretizza
mai. Rapporti virtuali, appunto.

Studiando la sua musica, si nota il mutare nel tempo di diversi centri d’interesse, dalla ricerca sulla figura e la
forma, al lavoro su materiali musicali preesistenti, per arrivare alla creazione di una nuova vocalità che ha poi
esteso anche alla scrittura strumentale, solo per citarne alcuni. Come si è trasformato il suo modo di pensare
la musica in questi anni?

Questa domanda sicuramente caratterizza in maniera appropriata alcune fasi distintive del mio percorso ma,
allo stesso tempo, ne offre già una visione prospettica. Il mutamento è stato in realtà così graduale che, visto
da opera ad opera, non è quasi possibile distinguere dei momenti così individuali e diversificati fra loro. Per me
il comporre pone dei problemi che si spostano sempre, come l’orizzonte. E questo naturalmente fa sì che, una
volta arrivati quasi alla fine di un’opera, la mente tenda già a proiettarsi verso una diversa prospettiva dello
stesso problema o a una sua differente declinazione, sotto la spinta di un certo senso di insoddisfazione o di
inquietudine, o ancora dal desiderio di mutare o ripetere variata l’esperienza appena fatta. Ci sono però degli
aspetti del mio lavoro che, sebbene meno dichiarati, sono costantemente rimasti al centro della mia
attenzione. Ad esempio, l’interesse per la forma e per i meccanismi di base del linguaggio, linguaggio inteso in
senso generale sia dal punto di vista della realtà umana o animale sia da quella inanimata dei cristalli.
Cogliere tali meccanismi e approfondirli è forse per me ciò che sta davvero alla base di tutto. Un altro aspetto
cruciale poi è vivere il tempo, un’esperienza che esiste solo per l’uomo. Se non c’è qualcuno che lo contempla,
il tempo non esiste. Se vogliamo quantificarlo, proprio come si fa per la velocità della luce o i movimenti dei
pianeti, c’è bisogno di presupporre qualcuno che misuri, è ciò che fa la mente umana. Tutto ciò ci dovrebbe
spingere a un atteggiamento meno assolutistico e invece, solitamente, pensiamo al tempo come a qualcosa
di oggettivo.

A proposito di oggettività e relatività, pensa che ci possa essere una qualche coincidenza fra le sue intenzioni
scrivendo un nuovo lavoro e il senso che il pubblico gli darà? Come influenza tutto questo il suo modo di
lavorare?
Come talvolta ho detto, ho avuto e ho tutt’ora interessi molto diversi che abbracciano varie discipline anche in
campo scientifico e, dal momento in cui tutto il sapere è interconnesso – la fisica con la filosofia antica, ad
esempio – spesso alcune di queste passioni che si erano manifestate in un’età per me ormai quasi
immemorabile ritornano per offrirmi delle visioni completamente diverse di cose che credevo di conoscere
già. Mi è capitato proprio in questi giorni, ad esempio, di rivedere dopo quarant’anni la Maestà di Simone
Martini e, nell’osservarla, mi sono reso conto di essere così cambiato e di aver sviluppato un tale occhio per
l’arte figurativa in tutto questo tempo che mi sembra non solo di guardarla in modo diverso, ma di leggerla
per davvero per la prima volta. Se poi penso al mio modo di ascoltare la musica, il discorso è analogo. Oggi,
mentre sentivo in prova Omaggio a Burri [lavoro composto nel 1995, ndr.], mi rendevo conto che, in fondo, in un
pezzo del genere è estremamente connaturato l’aspetto simbolico della vanitas, cioè il sentire le cose che si
svuotano lasciandosi dietro solo la propria ombra. Al di là del fatto che i materiali sonori usati siano appena
percepibili nel brusio del mondo, essi rivelano la vanità della misurazione del tempo. Iniziamo col sentire degli
orologi, poi la musica si svuota e mostra il proprio scheletro: il rumore della meccanica degli strumenti. Da
come ascolto questo lavoro oggi, potrei quasi dire che è come se fosse stato composto da un altro. Alcune
cose mi arrivano, altre no.

Quando scrivo, faccio quindi in modo di non dare troppa importanza alle mie intenzioni. Cerco piuttosto di
entrare nella musica e allo stesso tempo di uscirne, di vederla e di ascoltarla con un orecchio del tutto diverso
perché, se non facessi così, sarebbe come se mi parlassi addosso e questo non servirebbe né a me né agli
altri. Chi fa il compositore è un’antenna che capta per le altre persone, e la coscienza di questo fatto andrebbe
sviluppata in chi scrive con pazienza e disponibilità, perché è una cosa che si impara e che non nasce
spontaneamente. Sebbene, come dice Konrad Lorez, l’estetica sia un campo di ‘aggressività convertita’, allo
stesso tempo è un luogo di grande amore e di grande donazione di sé perché, quando riusciamo a risolvere i
nostri problemi estetici, questo va soprattutto a vantaggio di chi ci ascolta. È anche per questo che la
composizione non può essere un attività svolta di fretta.

In che senso?

La fretta non può dare buoni risultati perché, in genere, le scorciatoie nel campo dell’estetica sono sterili.
Hanno molto più da offrire le prospettive aperte, che contemplano arricchimento e semplificazione allo stesso
tempo e, da questo punto di vista, la semplificazione come punto di arrivo è una cosa importantissima e che
richiede tempo, riflessione. Quando mi sono reso conto di trattare la voce in un modo non abbastanza
consono alla sua natura è stato per me un momento fondamentale. Non solo perché mi ha spinto a
semplificare e chiarire tutto ciò che prima non arrivava direttamente al cuore della questione, ma anche
perché la presa di coscienza di questo problema me ne ha poi fatti affrontare altri, come ad esempio quello
dell’espressione, che deve evitare di essere schiacciata dai modelli – sia antichi, sia moderni – e dai loro cliché.
Se è vero che da un lato i modelli ci possono sovrastare, dall’altro essi ci possono servire come trampolino non
solo per emularli ma per superarli, e una prospettiva mutata. Sebbene il problema della creatività non sia solo
l’approntamento di cose nuove, ma innanzitutto lettura del mondo che ci circonda, il nuovo è importante
perché ricalcare il vecchio non servirebbe a molto. Se ci limitassimo a conservare l’antico, vorrebbe dire che il
linguaggio è morto. E, in fin dei conti, vogliamo un mondo vecchio o un mondo giovane? Io vorrei un mondo
giovane.

Nonostante il suo pensiero sul suono sembri a tratti convergere con certe esperienze della musica
elettronica, all’interno del suo catalogo i lavori con elettronica sono tutto sommato assai pochi, sebbene si
tratti di opere che, come Perseo e Andromeda, testimonino un interessamento non certo occasionale. Qual è,
in generale, il suo rapporto col mezzo elettronico?

Non mi sono più dedicato all’elettronica, soprattutto negli ultimi anni, perché si usano ormai sistemi troppo
standardizzati che non mi consentirebbero di lavorare su aspetti, per me importanti, che non sono neanche
contemplati dai mezzi attuali. Non essendo in grado di elaborare software a modo mio ed essendo comunque
troppo complicato formare un’apposita équipe di lavoro, in realtà alla fine, come Grisey stesso mi diceva, è più
semplice comporre per gli strumenti. Questo però, ci tengo a dirlo, non va inteso in prospettiva
antiprogressista: usare gli strumenti acustici non vuol dire andare contro la tecnologia. Ci sono evidenti
logiche comuni fra questi due mezzi e, in ogni caso, il linguaggio ha molte possibilità di traduzione sui diversi
livelli di queste dimensioni, due dimensioni che, anche se possono sembrare in contrasto o addirittura
incompatibili fra loro, in realtà non lo sono per nulla. In ogni linguaggio ci sono sempre delle relazioni logiche e
degli aspetti di forte emotività che, sebbene meno appariscenti, sono traducibili e costituiscono il vero e
proprio motore della creazione musicale. Tuttavia, devo dire che forse un’occasione per me mancata è stata
l’invito, arrivatomi purtroppo in un momento non adatto, a lavorare con l’assistente di Iannis Xenakis a Parigi.
Credo che le sue ricerche fossero qualcosa di interessante. In generale però, guardando la storia della musica
elettronica, sebbene ci siano state alcune opere che hanno veramente aperto nuovi mondi, mi sembra che
non ci siano poi state le mietiture che sarebbe stato legittimo attendersi.

Nel tempo, il suo catalogo si è arricchito di un numero sempre crescente di opere teatrali, l’ultima delle quali,
Ti vedo, ti sento, mi perdo, sarà presentata in novembre al Teatro alla Scala durante il Festival Milano Musica.
Che cosa le interessa di questo genere musicale che nel corso dell’ultimo secolo è stato profondamente
messo in discussione da varie esperienze artistiche?

È vero che si tratta di un genere che è stato molto discusso, però nello stesso tempo è qualcosa che mi
sembra continui ad attrarre molto i giovani compositori, fosse anche soltanto per il desiderio di una maggiore
visibilità o di cimentarsi in un campo di cui non si è veramente colto la complessità e il bisogno di esperienza
matura. Non è facile però scrivere per il teatro. Il segreto dovrebbe essere nell’usare un linguaggio che funzioni
teatralmente già all’interno della musica, perché non è il mettere qualcosa sulla scena che crea il teatro. Il
teatro non è la scena, ma la rappresentazione di un’altra realtà che ci prende e ci trasporta. È innanzitutto
questo che mi interessa di questo genere, il suo essere la forma musicale più sociale di tutte e il suo riunire un
gruppo di persone in uno stesso ambiente per far sì che ognuna di esse, pur recependo secondo esperienze
diverse, si trovi unita agli altri e trasportata altrove. Ma c’è dell’altro. Il teatro, nel suo riunire tanti aspetti, ha in
sé un qualcosa di ibrido – ragion per cui è stato criticato per qualche tempo negli ambienti della musica
d’avanguardia – che però, al tempo stesso, fa sì che il suo linguaggio sia più complesso. Ed è proprio questa
sua complessità che mi ha attratto sempre di più negli ultimi tempi, questo suo potere di unire la forza della
parola e quella della musica. Benché tutto questo mi interessasse già da molto tempo – ho iniziato a scrivere
per il teatro prima che ventenne – è solo in tempi più recenti che mi si è rivelato pienamente. Se è vero, come
ho detto prima, che il compositore è un’antenna che ascolta il mondo, scrivendo per il teatro, rappresentiamo
la realtà sotto una forma più inquietante e, allo stesso tempo, più forte. Ad esempio, in questa mia ultima
opera [Ti vedo, ti sento, mi perdo, ndr.], il nodo centrale è l’aspetto seduttivo della musica, un aspetto che non è
certo facilmente rappresentabile, ma a cui sono arrivato attraverso certi miti per me fondamentali cui forse,
tempo fa, non sarei stato in grado di avvicinarmi. Il mito di Orfeo, ad esempio.

Ce ne vuole parlare?

Sì, certo. In realtà, in preparazione di questo lavoro ci sono stati alcuni passi abbastanza coscienti e, da questo
punto di vista, non è certo un caso che qualche anno fa abbia scritto un concerto per violino e orchestra
intitolato Giorno velato presso il lago nero, cui segue La nuova Euridice secondo Rilke per soprano e orchestra
[tutti lavori in cui la figura di Orfeo ha diversamente ispirato l’autore, ndr.] e Ti vedo, ti sento, mi perdo, opera in
cui, a un certo punto, si racconta la morte di Orfeo. In quest’ultimo lavoro si rappresentano le rappresentazioni
della musica e del teatro, e così durante la messinscena dell’allestimento di una cantata dal contenuto
filosofico, che parla dei meccanismi profondi della musica, più volte entra Orfeo come soggetto. All’inizio, in
mezzo agli Argonauti, Orfeo assume un ruolo razionalista: vuole coprire col suo ritmo il canto delle Sirene. Ma
alla fine, è passato alla seduzione, come se si fosse tuffato verso le Sirene e muore per mano delle baccanti
che, a differenza dei sassi che gli vengono lanciati e degli animali, non cedono al suo canto.

Attraverso questi due momenti, l’aspetto seduttivo della musica viene mostrato da due differenti punti di vista
fra loro complementari: da un lato il ritmo e il fragore che ci trascina, che ci riporta a casa, e dall’altro lo
smarrimento a rischio della vita. Di quest’opera, già due anni fa avevo realizzato un brogliaccio in cui erano
presenti tutti questi spunti ma, in realtà, il libretto è andato acquisendo maggior profondità solo quando ha
trovato le sue giuste parole, e questo è avvenuto nel momento in cui gli si è accostata la musica. La musica dà
forma alle parole e le parole informano di sé la musica.

Quarant’anni fa, suonare Sciarrino era qualcosa che capitava a un gruppo piuttosto ristretto di esecutori
capaci di padroneggiare difficoltà tecniche assolutamente inedite. Oggi, la sua musica fa parte del
repertorio di quasi tutti gli interpreti che si occupano di musica contemporanea, e lavori come i suoi Capricci
per violino, la sua opera per flauto solo o Let me die before I wake per clarinetto sono ormai dei capisaldi della
letteratura solistica studiati dai giovani di tutto il mondo. Come ha visto mutare l’approccio degli interpreti
alla sua musica in questi anni?
L’interprete ha una funzione che il compositore non può né integrare né sostituire. Certo, il compositore
partecipa alla concertazione ma, se l’interprete fa davvero la sua parte, la sua lettura è in grado di fargli
riscoprire la mia stessa opera. Col succedersi delle generazioni, tale lettura è cambiata in modo sempre
diverso ed entrare in contatto con questo mutamento nel tempo mi stupisce ed entusiasma sempre. Tutto
sommato, credo di aver avuto un atteggiamento saggio nel non cercare di imporre nessuna ortodossia
interpretativa, perché credo davvero molto nella capacità creativa dell’interprete, così come in quella
dell’ascoltatore. In realtà, non avrei mai pensato di comporre per cinquant’anni e, forse, se ci avessi pensato
mi sarei fermato prima o avrei avuto delle cautele che invece non ho avuto. Eppure, questo fatto mi ha
portato ad essere non solo attore ma anche spettatore di una meravigliosa evoluzione del linguaggio che
corrisponde all’evoluzione del pensiero. Cambiando la prospettiva, si potrebbe quasi dire che cambi anche il
contenuto della musica. Questo fa emergere stimoli e significati di cui non siamo sempre padroni, ma che ci
regalano nutrimento ed entusiasmo.

Dopo diverso tempo dai suoi ormai celebri corsi a Città di Castello, recentemente è ritornato a insegnare [in
Italia, il Maestro Sciarrino insegna all’Accademia Chigiana di Siena, ndr.]. Cosa ricerca nei giovani che
vengono e studiare con lei e cosa spera di trasmettere loro?

Io non cerco di trasmettere, perché in realtà, secondo me, l’insegnamento è uno scambio reciproco e quindi
penso che quello che cerco io non sia poi tanto diverso da quello che cercano i giovani. Non si tratta solo di
integrazione o scambio di punti di vista diversi, ma di un contatto personale diretto mediato da un interesse
comune per l’evoluzione del linguaggio. Certo, mi piacerebbe trasmettere la mia complicità con la tradizione,
ma questo è difficile da fare, perché questa è già una posizione in qualche modo eretica e che mal tollera le
etichette. Nello stesso tempo però, i giovani, oltre all’energia, hanno una visione del mondo giovane che è per
forza di cose quella più attuale, giusta, vincente. E allora come si fa a non volerci entrare in contatto? Poco fa
parlavamo di nuovo e vecchio ma in realtà qui si parla di vecchio e giovane. Dobbiamo incontrarci per forza.

C’è un lavoro che ha sempre desiderato scrivere ma che per varie ragioni non ha mai potuto realizzare?

Sì, e forse sarà la mia prossima opera. Si tratta di un desiderio accarezzato a lungo, prima in maniera quasi
inconscia attraverso letture reiterate, poi in modo più cosciente e che infine si realizzerà in questo nuovo
progetto. Questo non vuol dire che voglia dare una mia risposta definitiva, ma semplicemente che desidero
cimentarmi ancora con un’impresa difficile, perché le cose facili non credo siano interessanti né per me né
per gli altri. Si tratta di un lavoro in cui affronterò il tema dei primi tragici. Un’altra cosa, che però in realtà non
ho mai teorizzato, sebbene forse si possa intuire da un certo taglio ironico che c’è sempre nei miei lavori, è il
comico. Secondo me però, la tragedia non va mostrata sulla scena, va rappresentata. E il rappresentare,
come testimoniano le nostre origini, consiste nel racconto: Orfeo racconta la morte di Euridice nell’opera di
Monteverdi, ad esempio. Come dico spesso, tenere presenti le origini non significa ritornare indietro. Vuol dire
piuttosto misurare bene i passi e prendere maggior coscienza degli aspetti più importanti, oltre che di quelli
più illusori. Nel cinema, ad esempio, l’immagine può avere una forza quasi brutale, cosa che, facendo teatro,
non è possibile perché manca del tutto un elemento fondamentale: lo zoom. Per avere dei primi piani in teatro,
dobbiamo quindi ricorrere alla rappresentazione. Solo così una bocca può arrivare a riempire tutto l’enorme
spazio del palcoscenico, ma si tratta, come ho già detto, di una rappresentazione, non di una percezione.
Eppure, come spesso accade, queste cose hanno una tale forza d’incanto da farci credere, in certi momenti, di
zoommare al massimo, fino a farci entrare nel profondo dell’animo dei personaggi.

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Maurizio Azzan (Https://Www.belviveremedia.com/Author/Azzan-Maurizio)


Nato nel 1987, Maurizio Azzan ha studiato composizione con Alessandro Solbiati al
Conservatorio “G. Verdi” di Milano e con Salvatore Sciarrino, ottenendo inoltre una
laurea magistrale in Filologia e Letterature dell’Antichità presso l’Università degli Studi
di Torino. Trasferitosi a Parigi, ha ultimato gli studi con Frédéric Durieux e Yan Maresz al
Conservatoire National Superieur de Musique, proseguendo poi la sua formazione
presso l’Ircam. Come compositore, ha collaborato con gruppi e solisti di fama
internazionale (Ensemble Intercontemporain, Divertimento, Sentieri Selvaggi, Nieuw
Ensemble Amsterdam, mdi) e la sua musica è presente nella programmazione di
festival e stagioni concertistiche quali l’Huddersfield Contemporary Music Festival,
MITO SettembreMusica, Milano Musica, ManiFeste, Time of Music Festival, Budapest
Music Center, Fondation Royaumont, Dampfzentrale Bern, Impuls Graz, Teatro La
Fenice di Venezia. Dal 2014 i suoi lavori sono pubblicati dalle Edizioni Suvini Zerboni -
Sugarmusic S.p.A. Milano.

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